Meth Sambiase - Leporis (estratto)

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Meth Sambiase poesie estratte da Leporis (in)canti matrigni

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Poesia contemporanea, scrittura

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Meth Sambiase

poesie estratte da

Leporis (in)canti matrigni

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Proprietà letteraria di

Meth Sambiase

Immagine da internet

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prefazione

Leggo questo poemetto in diversi tempi e, soprattutto , da diversi angoli.

C’è questo piccolo mammifero, la lepre, che, scientificamente, è solo

preda ma, come il vecchio gabbiano Jonathan, ha una forza dentro da far

paura. Meth Sambiase non si limita a dare voce a questo animale così

docile, ma trasforma le lunghe zampe in possibile libertà (e non soltanto

mezzo di fuga) e le grandi orecchie per definire ogni dettaglio con la

massima precisione . La lepre Sambiase trova così, attraverso la poesia,

quella forza che l’aiuta a ribellarsi a tutto ciò che la incastra nella tagliola

della vita

[…]

Rivendico un corpo nuovo,

vestito di poca stoffa o con un abito di lustrini,

e scintillo

e mi ostino e canto ed è un portento

il non sentire più

il lutto della magra guerra dei sessi

che ha cercato di assumermi ai suoi altari.

e, senza grandi pretese, rivendica la libertà di essere.

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Potrebbe leggersi come una fiaba per adulti dove s’intrecciano i desideri

ma l’equilibrio tra l’essere e l’appartenere è, evidentemente, rotto dagli

schemi preformati ai quali spesso siamo costretti e che la splendida e pura

lepre non riesce a comprendere appieno.

[…]

il canto della nuova stagione

se arriverà, ne scioglierà di brina i sensi.

Piacevolissima lettura questa di Meth Sambiase, edita da Limina Mentis

Editore, con una introduzione di Daniela Cattani Rusich, che riesce a

portarci in un mondo presumibilmente libero da “macellai” che si

ostinano a sentirsi padroni specialmente nell’universo femmina dove la

magnifica poetessa ci conduce.

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Leporis Villasanta 2011

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Ti attende

il racconto delle donne senzamondo

la santa serra degli uomini perenni

dimentichi delle zampe a nome di gambe.

Povere le radici,

si scarniscono nel lutto dell'orgoglio

nulla è concesso al viaggiatore

inatteso, si commuove di ogni ricordo.

Sarai (forse) capovolto in secca.

Attendi sdraiato,

molle come la moria delle risaie,

dove gettarsi e lasciarsi fluire.

Fluisce là,

un sonno antico,

la marea e la nebbia come madreperla

e ti appare liquido

quello che nei sogni chiamavi mare

è confine il respiro

dove il sangue è fratello e sorella.

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Succhio vita,

non curo le tenebre e gli spasmi

non danzo nel ventre,

sono vergine a quattro zampe.

Erro e non dò colpa ad altra

creatura, a farmi marchiare col fuoco

e l'imbriglio del gancio, nel tempo

del sempre io son stata il segno.

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Nel dove andrai seppur sussurro

non andar via, e il fiato è nudo ancora.

Metterò su casa,

ne mendico campi di marmo

colonne tortili come i baldacchini nelle chiese,

libagioni, e filtri di te:

tiritere le parole che non dici,

senza grazia le penitenza,

i passi che ti conducono nell'assenza .

Pari e patta

e tagliola vuota sul cuscino:

do' il via ai profumi delle femmine

forse nei mobili di cucina le prime giarrettierie

rosse di gatta e di specchi giganti

che in tempi di magra

sospirano come gli uomini,

chiodi e calendari per il dubbio dei mesi:

siano ancora cortili i fili dei labirinti

brilli dentro i nostri sguardi convulsi.

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E' nel limite

pur si gode la forma che dissolve

una curva piena d'acqua

e fra le mani le cosce, a contare

il trascorrere corporale del disgelo

e tu dici che la colpa è nell'essere

di marzo nata in sottoveste

ghirlanda di sirena in allarme

che gode a girare le spalle e gli abiti

a chiazze di chimera negli armadi;

il canto della nuova stagione

se arriverà, ne scioglierà di brina i sensi.

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Si (ri)comincia:

e frantumare il flusso

è un buon inizio,

come un profumo esotico

coricato su una bocca aperta,

un'immagine fuori fuoco

un fuoco lento,

mentre mi rinomino di viso in viso

e sento il suono di un castigo,

una spudorata, un'ingombrante figura,

che trascina una matrice di pensieri

confessati in una buca di terra.

Dominidddio!

Ha un figlio la terra

e la figlia perfetta del padre

ha le zampe di lepre.

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Non restare.

Parla poco, parla piano, poco e piano:

è il giorno che smezza i vecchi

ai loro affetti, li riduce,

gli passeggia addosso

come un dio pagano che entra in chiesa

e chiede l'acquasanta

per annegare la congiunzione delle bocche,

che chiama il silenzio

e possiede la vita interminabile della speranza.

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Ci sono sempre stati i semi

e chi li respira,

ha occhi smunti come orfani

che si spogliano della madre.

Del tanto viaggio

lepre di marzo,

il cielo si dissolve sempre uguale

e la parola

è ancora bordura vivente

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Se questo novembre

ne promettesse di dire dell'arte dell'eco

e delle piume e m'insegnasse a ballare

anche quando deserta è la festa

metterò sulle assi un impiglio di flanella.

Come volevo il caldo

per cominciare il canto!

E c'erano due vicoli e tre spaghi

e lui stava abbandonato come su un trono imperfetto,

dinoccolato, un ago incontrollabile nella vena

la luce d'argento nei templi,

-disinibita venere pagana-

aspettava il viaggio nel suo corpo marziale.

-Cos'è cambiato? Non ho gioia-

Questa terra è ancora asfalto

si è bagnata, concimaia innaturale

decoro in foglie a cascata

nelle faglie da cui l'acqua si cola ad imbuto

e il suono dei desideri

é fermo una linea prima dell'ultimo rigo d'orizzonte.

Stagione morta

- dicono in ogni tasca che si svuota -

i giorni dei desideri stanno passando

sotto questi capelli di acqua.

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Con un passo solo

spezzami

e perditi nelle mie favole

La vide arrivare quando fu completamente sola. Lo spazio era pieno di

luce e di frinire d'insetti come sempre nella stagione a cavallo del gran

caldo.

La sua compagna nella raccolta di bacche, si era allontanata per seguire

un suono che l'aveva incuriosita, ed ora erano sole nei campi ed in luoghi

diversi.

L'animale si fermò quasi ai suoi piedi. Sembrava osservare con attenzione

quella ragazzina stesa e contratta nell'ombra degli abeti rossi, schiena

contro corteccia, ad aspettare il ritorno dell'amica, in una calura di

silenzio e paura, che rendeva l'attesa una cortina di sudore.

Nell'abito lungo nemmeno il magro petto sembrava muoversi: avrebbe

aspettato e aspettato ancora, non avrebbe preso il sentiero di ritorno da

sola, qualcuna sarebbe ben arrivata. […]

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