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FONDAZIONE TEATRO LA FENICE DI VENEZIA MESSA DA REQUIEM

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MESSA DA REQUIEM

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Ritratto di Giuseppe Verdi (1876).

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MESSA DA REQUIEM

musica diGIUSEPPE VERDI

inaugurazione delle manifestazioni per il centenario verdiano

PALAFENICE AL TRONCHETTOMartedì 5 dicembre 2000, ore 20.00, turno AGiovedì 7 dicembre 2000, ore 18.30, turno CSabato 9 dicembre 2000, ore 15.30, turno B

Martedì 12 dicembre 2000, ore 20.00, turno DGiovedì 14 dicembre 2000, ore 20.00, turno E

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Edizioni dell’Ufficio Stampadel TEATRO LA FENICE

Responsabile Cristiano Chiarot

Hanno collaboratoCarlida Steffan,

Pierangelo Conte, Giorgio Tommasi

Ricerca iconograficaMaria Teresa Muraro

CopertinaTapiro

Pubblicità AP srl Torino

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SOMMARIO

7LA LOCANDINA

9LUCA ZOPPELLI

LE MACERIE DELLA PROVVIDENZA

22TESTI VOCALI

27MESSA DA REQUIEM SULLE SCENE VENEZIANE

86MESSA DA REQUIEM ALLA FENICE: LE LOCANDINE

93GIUSEPPE PUGLIESE

VERDI E LA FENICE

104BIOGRAFIE

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Locandina della Messa da Requiem. Venezia, Teatro La Fenice, 28 giugno 1923. (Archivio Storico del Tea-tro La Fenice).

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LA LOCANDINA

MMEESSSSAA DDAA RREEQQUUIIEEMMmusica di

GIUSEPPE VERDICASA MUSICALE RICORDI, Milano

Requiem - KyrieDies irae

Domine JesuSanctus

Agnus DeiLux aeternaLibera me

sopranoANGELA M. BROWN

contraltoTATIANA GORBUNOVA

tenoreFABIO SARTORI

bassoJULIAN KONSTANTINOV

maestro concertatore e direttore

ISAAC KARABTCHEVSKY

ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO LA FENICEdirettore del Coro GIOVANNI ANDREOLI

maestro del Coro ALBERTO MALAZZI

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Milano, Basilica di San Marco dove ebbe luogo la prima esecuzione della Messa da Requiem il 24 maggio1874. (Milano, Civica Raccolta Bertarelli).

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Lo statuto dei grandi monumenta ottocen-teschi della musica sacra, come la MissaSolemnis di Beethoven o il Deutsches Re-quiem di Brahms, è generalmente precarioe difficile da definire: vuoi per le difficoltàpratiche poste da dimensioni e organicopoco conciliabili con le esigenze liturgiche,vuoi soprattutto perché in esse si manifestaun atteggiamento estetico moderno, basatosul principio dell’espressione soggettiva edella libertà intellettuale dell’autore, chesuona come fondamentalmente laico. Etuttavia, per nessuno di questi capolavori laquestione appare così scottante come per ilRequiem verdiano, che sin dal suo apparireha suscitato discussioni centrate sul suo ca-rattere più o meno “teatrale” o sul tasso di“religiosità” reperibile fra le sue pagine.Questioni affrontate spesso in modo aprio-ristico, magari sulla base di meri dati bio-grafici: Verdi fu compositore di teatro pereccellenza; la sua personale visione delmondo quella di un agnostico con fortissi-me venature anticlericali. Banalizzazioniirritanti: nondimeno l’ascoltatore ha tutto ildiritto di chiedersi quale sia il “senso” di unsimile capolavoro, quali motivazioni e qua-li tecniche ne costituiscano il particolarissi-mo atteggiamento nei confronti del sacro.Sulla genesi della Messa da Requiem sap-piamo ora un po’ di più, grazie al lavoro fi-lologico svolto da David Rosen per l’edizio-ne critica e dal gruppo di studiosi che hamesso a punto il recupero della Messa perRossini, quel progetto collettivo che – suproposta dello stesso Verdi – aveva coinvol-to, nel 1868/9, numerosi compositori italia-ni contemporanei uniti nella celebrazioneriverente del compositore pesarese appenascomparso. Lanciando l’idea della Messa

per Rossini – omaggio collettivo senza finidi lucro, da eseguirsi una tantum e poi sug-gellare in qualche cassetto – Verdi ne avevasottolineato il carattere volontaristico, qua-si neorisorgimentale, di celebrazione na-zionale; e aveva ammesso che, sebbene unlavoro collettivo possa mancare di “unitàmusicale” (un valore estetico per il quale,nel campo operistico, Verdi aveva lunga-mente lottato), ciò sarebbe stato compensa-to dal valore simbolico dell’impresa. Si sacome andò a finire: una commissione misea punto l’articolazione del testo e la distri-buzione dei pezzi, i compositori (una dozzi-na in tutto) fecero la loro parte e consegna-rono le rispettive sezioni della partitura,ma la Messa non fu mai eseguita, visto chenel sistema ancora totalmente impresarialedel mondo musicale italiano ottocentescouna simile testimonianza di “valore collet-tivo” della cultura non solo non trovava ap-poggi, ma era apertamente boicottata. LaMessa per Rossini, a dispetto della qualitànotevole di alcuni brani, rimase quindi se-polta sino alla felice riesumazione di qual-che anno fa.Verdi, che ne aveva scritto il movimento fi-nale («Libera me Domine»), parve poi di-sinteressarsi alla questione: è totalmentepriva di fondamento l’idea (avanzata inpassato da alcuni biografi verdiani) checontinuasse a lavorarci negli anni succes-sivi. Una lettera del 1871 al critico AlbertoMazzucato – che aveva visto presso l’edito-re Ricordi la partitura del «Libera me» giàcomposto e ne decantava le lodi con l’auto-re – fa tuttavia trapelare il fatto che il com-positore non era alieno dall’idea di comple-tare una messa da requiem, eventualmentesviluppando i materiali tematici che, nel

LUCA ZOPPELLI

LE MACERIE DELLA PROVVIDENZANarrazione, liturgia e fantasticheria nella Messa da Requiem

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Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi accostati in un’incisione apparsa in occasione della primaesecuzione della Messa da Requiem. I due si erano incontranti nel salotto della contessa Maffei nel giugno1868.

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«Libera me» già pronto, intonano quelle se-zioni di testo ove si citano parti precedentidella messa (Introito e «Dies irae»). Appa-rentemente, l’evento che spinse Verdi a ri-prendere in mano l’opera fu la morte diManzoni, avvenuta nel maggio 1873; laMessa fu infatti composta per essere pre-sentata al pubblico, a Milano, in occasionedel primo anniversario della scomparsadello scrittore, 22 maggio 1874. È tuttaviacurioso notare che la decisione di mettersial lavoro dovette in effetti precedere di cir-ca un mese la morte di Manzoni; già nell’a-prile 1873, infatti, Verdi aveva chiesto a Ri-cordi la restituzione del manoscritto del«Libera me», evidentemente con l’intenzio-ne di utilizzarne gli spunti appropriati percomporre il proprio Requiem. Può darsiche Verdi fosse comunque convinto che loscrittore, molto anziano e in pessima salu-te, sarebbe presto scomparso; o semplice-mente, come è stato anche proposto, cheintendesse comunque portare avanti l’af-fermazione del messaggio “civico” e nazio-nale già implicito nel progetto della Messaper Rossini, indipendentemente dalle occa-sioni che si sarebbero presentate per ren-derlo pubblico. In ogni caso, più ancora diRossini, Manzoni era la figura ideale peronorare, in uno col grande artista, il simbo-lo nazionale e il modello morale: una figu-ra che Verdi ammirava e venerava a dispet-to della grande diversità che intercorrevafra la sua visione del mondo, di rigoroso esevero ateismo, e quella dell’autore degliInni sacri e dei Promessi sposi. (Venerazio-ne e distanza critica che s’intrecciano mira-bilmente nel commento desolato di Verdialla notizia del declino mentale di Manzo-ni: «La mente di Manzoni spenta! E la Prov-videnza? Oh se vi fosse una Provvidenzacredete voi che si scatenerebbero tantesventure sulla testa di quel Santo?»).

Scritto dunque in tempi relativamente velo-ci, come di consueto per Verdi, il Requiemsi basa sul testo liturgico nell’articolazionestabilita dalla commissione preposta alcoordinamento della Messa per Rossini.Nel caso della missa pro defunctis cattolica,infatti, nessuna tradizione vincolante stabi-

liva con esattezza quali parti della celebra-zione dovessero essere musicate in “stile fi-gurato” (il resto veniva cantato in cantopiano); e se da un lato l’Introito, la Sequen-za «Dies irae, dies illa», l’Offertorio e ilCommunio sono generalmente presenti,possono mancare il Graduale e il Tractus(in effetti assenti dalla partitura verdiana,come da altre di pari prestigio), il responso-rio finale «Libera me Domine» (che non ap-partiene alla messa propriamente detta,bensì al successivo rito dell’Absolutio su-per tumulum, e manca ad esempio nei Re-quiem di Mozart/Süssmayr, Cimarosa,Cherubini, Berlioz); talvolta mancano per-sino «Sanctus» e «Agnus Dei» (assenti nelRequiem di Donizetti: ma, in quanto partidell’ordinarium missae, si saranno potutirecuperare da altra intonazione, adattandoall’«Agnus Dei» i caratteristici explicit «do-na eis requiem […] sempiternam», che qui-vi sostituiscono i consueti «miserere nobis[…] dona nobis pacem»). Verdi si basa dun-que su un testo “dato”, e ne rispetta fonda-mentalmente la lettera e le scansioni (a dif-ferenza di Berlioz, che riorganizza pesante-mente il testo, invertendo l’ordine dei seg-menti o addirittura spostandoli da un bra-no all’altro per costruirsi una traiettoriaemotiva su misura); il che può sembrarestrano, conoscendo la pervicacia con cuiusava partecipare alla stesura dei propri li-bretti d’opera, ma è comprensibile se si tienconto che del testo liturgico in sé, e dei suoivalori religiosi, poco gl’importava: la missapro defunctis è piuttosto, ai suoi occhi, lostrumento di una commemorazione pub-blica, nonché uno straordinario repertoriodi atteggiamenti e sentimenti umani difronte agli interrogativi sulla morte, il ma-le, la sofferenza.Nel comporre, come detto, Verdi si giova diun brano preesistente, il «Libera me», cherimaneggia in modo abbastanza esteso, e dacui attinge spunti da riutilizzare altrove. Imodi del rimaneggiamento sono caratteri-stici: si tratta, da un lato, di spezzare certesimmetrie prevedibili nella conduzione deldiscorso; dall’altro, di conferire un’appa-renza più evidente, icastica e pregnante, amateriale di grande qualità, ma – per così

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dire – poco “valorizzato”. La sezione «diesilla, dies irae», la cui musica sarebbe poistata estesa all’inizio della Sequenza graziealla somiglianza dell’incipit poetico, erafondamentalmente simile a quella che co-nosciamo, se non che Verdi riscrisse le pri-me battute eliminando l’inizio corale e mo-dulante – estremamente interessante sullacarta, ma d’effetto poco icastico – per sosti-tuirlo con le indimenticabili deflagrazionidelle strappate d’orchestra in Sol minore al-ternate all’urlo tenuto dei cori (parte del-l’effetto risiede nel contrasto tra la fissitàdella sonorità complessiva, che sembranon dover finire mai, e i movimenti croma-tici corrosivi delle parti interne, che minac-ciano l’incombere del nulla). La nuova ver-sione è sia più pregnante in sé, sia più ade-guata alla nuova funzione che quel passag-gio deve assumere all’inizio della Sequen-za: nessun ascoltatore che sia stato aggre-dito da quell’attacco, una volta in vita sua,se ne dimentica più. L’«unità musicale»che, secondo lo stesso Verdi, sarebbe forza-tamente mancata nella collettanea Messaper Rossini, e che invece costituisce un ele-mento di coesione nel Requiem, è dunqueaffidata in primo luogo ai ritorni di mate-riali musicali su parti simili del testo litur-gico (un aspetto che comunque era stato si-stematicamente sfruttato lungo l’intera tra-dizione musicale della messa da requiem,Mozart/Süssmayr inclusi: auspice il fattoche nel testo della missa pro defunctis i rin-vii sono numerosi); in secondo luogo, a li-vello più capillare, nella rete fittissima diparentele motiviche che percorre la parti-tura (sono state individuate due famigliecui appartiene la maggioranza del materia-le tematico dell’opera: motivi costruiti co-me un ampio arpeggio discendente che ab-braccia una nona o più, altri di carattereprocessionale basati sulla breve discesaper gradi da un suono di partenza, e ritor-no). Assicurata quest’unità di “tinta”, tutta-via, l’aspetto che colpisce di più nel Re-quiem verdiano è piuttosto la sua poliva-lenza di linguaggio, una polivalenza checorrisponde esattamente a quella moltepli-cità di piani e atteggiamenti narrativi cheVerdi rinviene nel testo liturgico.

Fin dalla sua prima apparizione il Requiemvenne rimproverato di “teatralità” (si pensialla definizione di Bülow, “un’opera in abi-ti ecclesiastici”) e si discusse molto sulmaggiore o minore “spirito religioso” chelo ispirava; concetti difficili da definire conprecisione, ma certamente correlati al fattoche la partitura evita il ricorso sistematicoa quegli atteggiamenti stilistici di marca ce-ciliana, contraddistinti dall’uso o dalla rie-laborazione di venerati procedimenti con-trappuntistici, che sempre più, nel corsodell’Ottocento, si consideravano appropria-ti ad una musica sacra degna di tal nome.Al rimprovero di “teatralità”, d’altronde, èconnesso un giudizio che concerne il rap-porto fra l’autore e il messaggio dell’opera.Un postulato dell’estetica ottocentesca, al-meno nelle sue versioni più banalizzanti,vuole che l’espressione artistica sia intuiti-va e soggettiva, quindi realmente “sentita”dall’autore; il che contribuisce a spiegareun certo crescente imbarazzo del mondocritico borghese nei confronti di un feno-meno come il teatro musicale, ove ad esse-re rappresentati sono sentimenti e atteggia-menti dei personaggi, non dell’autore inprima persona. Se riferita ad una composi-zione sacra, l’accusa di teatralità porta consé anche un corollario ideologico: il na-scondersi dietro la rappresentazione disentimenti esogeni tradirebbe la mancanzadi religiosità vera, sentita, dell’autore. Nel-l’ambiente della borghesia europea del se-condo Ottocento si poteva ben essere anti-clericali, ma restava difficilmente accetta-bile l’idea che un artista, in particolare, fos-se estraneo ad una qualche forma di intimareligiosità o spiritualismo (la sorpresa èben espressa nell’amorevole ma addolora-ta descrizione che Giuseppina Strepponi dàdel suo Verdi: «tutti s’accordano nel direche ebbe in sorte il divino dono del genio; èuna perla di onest’uomo, capisce e senteogni delicato ed elevato sentimento, eppurequesto brigante si permette d’essere, nondirò ateo, ma certo poco credente, e ciò conuna ostinazione e una calma da bastonarlo.Io mi smanio a parlargli delle meravigliedel cielo, della terra, del mare ecc. ecc. Fia-

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Giuseppe Verdi e gli interpreti della prima esecuzione milanese della Messa da Requiem in una caricaturadel 1879. (Milano, Civica Raccolta Bertarelli).

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to perduto! Mi ride in faccia e mi gela inmezzo ai miei squarci oratorii, al mio entu-siasmo tutto divino col dirmi: siete matti, edisgraziatamente lo dice di buona fede»). Posto di fronte a questa taccia di “teatralità”lo studioso odierno avrebbe compito facile adimostrare l’inadeguatezza concettuale del-la categoria: la Messa da Requiem, ovvia-mente, manca di una “trama”, così come diun libretto organizzato sulla base del decor-so differenziato di strutture temporali (azio-ne e riflessione, versi sciolti e arie), nonchédi “personaggi” che corrispondano sistema-ticamente ad un ruolo vocale, solistico o co-rale; inoltre le strutture formali e sintatti-che, così come molte particolarità di stiledel Requiem, sono nettamente divergentidalla prassi seguita da Verdi in ambito tea-trale (nei pezzi solistici, ad esempio, la “for-ma lirica” in quattro frasi AABA cui general-mente si attiene l’aria italiana dell’Ottocen-to è pressoché assente); e si è anche notatoche proprio nella Messa s’incontra pochis-simo quello stile “chiesastico” che nelle sueopere teatrali Verdi usa invece spesso perdenotare la couleur locale ecclesiastica.

Tuttavia, in senso più lato, queste impres-sioni d’epoca sono perfettamente compren-sibili (d’altronde avviene spesso che i con-temporanei critichino o persino rifiutinoun’opera non perché non la capiscono, maperché la capiscono fin troppo bene). L’ap-propriatezza delle critiche è tale proprio apartire dal nocciolo più ideologico che lemuove, ovvero dalla constatazione che nel-la molteplicità di piani del Requiem l’e-spressione della religiosità viene frantuma-ta e presentata come un elemento estraneoalla “voce dell’autore”. Per orientarci me-glio, bisognerà immaginare una composi-zione di questa fatta come una macchinacomunicativa che agisce a più livelli e conpiù obiettivi, inseriti l’uno dentro l’altro co-me scatole cinesi, che proveremo a descri-vere sommariamente: 1) Al livello più esterno, la progettazione el’allestimento di una messa da requiem èun evento pubblico, commemorativo, dicarattere essenzialmente civile, che inglo-ba e utilizza un testo liturgico di particolare

pregnanza emotiva, ma lo usa con funzionequasi metaforica, senza “prenderne sul se-rio” le istanze liturgiche. Questa funzione“pretestuale” del testo liturgico, che nei se-coli precedenti aveva largamente connota-to altri testi come il Te Deum laudamus, siera particolarmente rinforzata nel corsodell’Ottocento, specie in area francese (sipensi a Cherubini e Berlioz), e ad essa cer-to il Requiem fa riferimento, anche alla lu-ce del precedente progetto abortito dellaMessa a Rossini.2) All’interno di questa prima cornice, tro-viamo il testo della missa pro defunctis cat-tolica romana come una specifica unità li-turgica, ovvero come insieme di testi coor-dinati in modo da trascenderne i valori se-mantici individuali per costituire, nell’in-sieme, un atto performativo di suffragio al-le anime dei defunti. (“performativo”, per ilinguisti, è quell’enunciato che allo stessotempo costituisce un’azione, tipo “la di-chiaro dottore in medicina” oppure “le or-dino di affondare la nave”). In quanto attoperformativo, la missa pro defunctis è – alpari d’ogni evento liturgico – un gesto es-senzialmente rassicurante, che ricomponel’elemento traumatico del lutto (e, per ilcredente, il dubbio sul destino dell’animadopo il trapasso) nella ritualità collettiva enei suoi ritmi, per quanto possibile, appa-ganti.3) Ancora all’interno, tuttavia, è possibileleggere i testi della messa per quello che di-cono in sé; come espressione d’ansia, pau-ra, fede, angoscia, visionario terrore. Leparti di una celebrazione, per quanto sa-pientemente disposte, non costituiscono insé né una “forma”, né un processo retoricoche, per sola virtù del proprio concatenarsi,conducano il lettore dall’angoscia alla con-solazione; l’effetto consolatorio e rassicu-rante si ha solo fintantoché esse venganotrascese come “ingredienti” della liturgia(livello 2), ma queste parti riacquistano tut-ta la loro umanissima e poliedrica signifi-cazione se considerate autonomamente (li-vello 3).

Ora, vi sono certamente dei segmenti deltesto che, per loro natura, possono meglio

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prestarsi a venire sottolineate nel senso diun livello piuttosto che di un altro: nellamissa pro defunctis il caso macroscopico ècostituito dalla sequenza «Dies irae, dies il-la», che evoca irresistibilmente il livello 3con scarse possibilità di essere ricondottaal 2 (la cosa dovette sembrare chiara già alcompilatore medievale, che aggiunse mal-destramente un distico finale – evidente-mente estraneo allo schema metrico – perrendere più sciolto il trapasso, e integrarealla celebrazione di suffragio dei defunti untesto che probabilmente era nato altrove).Tuttavia, dato che nell’insieme i livelli sonocompresenti ma non conciliabili, il fattoche un compositore, nel musicare la missa,scelga di dare la preferenza all’uno o all’al-tro non deriva dalla sua interpretazione deltesto in sé, ma proprio ed assolutamentedalla sua scelta, direi a priori, di privilegia-re una delle funzioni. Dunque non c’èscampo: la scelta è solo e inevitabilmenteideologica. Se si postula il primato dellafunzione liturgica, è necessario che i ba-gliori soggettivi del livello 3 vengano maga-ri evocati, ma subito ricomposti nello stilestandard che rappresenta il livello 2 e lasua funzione. Dal punto di vista del livello2, ogni testo liturgico è solo la tessera dimosaico di un’opera di salvezza comunita-ria chiamata “liturgia”, e dunque ogni mu-sica liturgica dev’essere in primo luogo au-toreferenziale: essa avrà l’unico compito diricordarci che ciò che si sta svolgendo è unatto rituale comunitario. Di qui lo sforzo ce-ciliano di individuare in uno stile più o me-no antico, neopalestriniano o neobarocco,l’unico stile appropriato alla musica sacra:nell’attutimento espressivo dato dalla di-stanza linguistica e temporale, nel conti-nuo appagamento degli orizzonti d’attesa,si sconfessa ogni possibile referenzialitàdel testo. Al contrario, Verdi questi testi liprende sul serio: da agnostico impenitente,e ancor più da anticlericale feroce, si getta acorpo morto sul livello 3 dando voce a cia-scun testo nella sua prospettiva autonoma,con l’evidente intento di far esplodere lapretesa che ogni testo vada riassorbito evissuto nella prospettiva d’autore del “litur-gista onnisciente” (che, a sua volta, è il ri-

flesso della prospettiva escatologica chegiustifica tutto in vista del fine ultraterre-no). Rompendo l’involucro provvidenzialedel secondo livello, egli si pone nella posi-zione di chi registri emozioni e atteggia-menti dell’umanità di fronte allo sgomentoprovocato dalla morte, dando voce di voltain volta al senso di questi testi. Ma il rove-sciamento è ancora più radicale: in termininarratologici egli non si limita a “dar voce”ai sentimenti dei singoli, ovvero a riformu-larli nella propria lingua musicale: attuapure, di tanto in tanto, il passaggio alla cita-zione diretta, ovvero ad uno stile che appa-re “topico”, “caratteristico”, dedotto da mo-di preesistenti e riconoscibili della musicareligiosa o devozionale. Così facendo, il ro-vesciamento del rapporto fra i livelli è com-pleto: mentre la visione liturgica della mu-sica sacra postula il predominio di unaconcezione collettiva e comunitaria, cheogni tanto lascia emergere qualche trattosoggettivo per poi riassorbirlo, Verdi pre-senta il testo sacro come una folla di atteg-giamenti, visioni e meditazioni umane, cheogni tanto si aggregano nella citazione diun atto liturgico visto “da fuori”, con losguardo spassionato e lucido dell’antropo-logo. La liturgia smette d’essere cornice perdivenire un oggetto rappresentato fra gli al-tri: in questo senso è ben comprensibileche la critica ceciliana abbia bollato il Re-quiem di “teatrale”, anche se questo termi-ne è tecnicamente impugnabile. Il Requiem non è teatrale, ovviamente, per-ché in esso non “parlano” dei personaggiunivocamente fissati, bensì un autore chemodula e articola i gradi e i mezzi con cuidà voce alle diverse posizioni espresse daltesto, un narratore che a volte traduce tuttonel proprio stile, altre volte apre le virgolet-te e inserisce una frase “esterna”, citata. Siè pensato che le sezioni affidate ai cantantisolisti vogliano in qualche modo stare perun enunciato soggettivo, per un “io” dram-matico che intona una certa porzione di te-sto: ma anche questa prospettiva funzionain maniera molto limitata, e cozza contro lastruttura grammaticale dell’enunciato, vi-sto che non sempre i passaggi solistici coin-cidono con un testo “in prima persona”;

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Da sinistra: Ormondo Maini, Giuseppe Capponi, Maria Waldmann, Teresa Stolz interpreti della Messa daRequiem sotto la direzione di Giuseppe Verdi. Milano, Teatro alla Scala, 24 maggio 1874.

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l’articolazione grammaticale delle vocisfrutta piuttosto il gioco degli scarti di regi-stro stilistico, ovvero delle oscillazioni fralivello linguistico dell’autore e del perso-naggio.In questo senso, la lettura che Verdi dà deltesto liturgico è tutt’altro che ingenua, eprende il via dall’individuazione di due sta-tuti comunicativi del testo, uno più tormen-tato e soggettivo esprimente i diversi atteg-giamenti psicologici di fronte al misterodella morte, uno più “ufficiale” e liturgicocorrispondente ai momenti ritualizzati incui angosce e speranza s’incanalano negliargini della preghiera “data”, “citata”, “to-pica”. Come ci si può immaginare, nel pri-mo caso l’atteggiamento soggettivo è scan-dagliato in tutta la sua profondità dallo “sti-le dell’autore”, ovvero dalle complesse ri-sorse linguistiche della scrittura verdianadei primi anni Settanta (asimmetrie sintat-tiche, ellissi armoniche, ricerche timbricheinusitate); nel caso della preghiera “litur-gizzata”, invece, Verdi fa ricorso in diverseforme e gradi ad atteggiamenti stilisticipreesistenti, a registri “non d’autore”: eccodunque i passaggi fugati o a cappella, i rin-vii a musiche processionali o semplici in-nodie devozionali, insomma ai diversi to-poi che rendono immediatamente ricono-scibile la musica come linguaggio liturgico.Ora, la scelta dei segmenti di testo da sotto-porre all’uno o all’altro trattamento non èper nulla arbitraria: prende le mosse dall’a-nalisi del contenuto affettivo, ma anche dauna specifica distinzione in qualche modogià insita nel testo liturgico stesso: lo statu-to stilistico di “citazione”, infatti, è solita-mente dato ai versetti di salmo – nei branidel proprium missae di struttura antifonaleo responsoriale – oppure ai testi dell’ordi-narium missae. In altre parole, è come se lecornici liturgiche “specifiche” della messaper i defunti (ovvero le antifone d’introito,d’offertorio e di communio) venissero into-nate in prospettiva monologizzante e sog-gettiva, come espressione lirica dell’atteg-giamento del fedele dinanzi alla morte, eviceversa il passaggio alla citazione deiversetti o ai brani dell’ordinario venisse vi-sto come uno scatto al “discorso diretto”, in

cui si riecheggiano e si “inscenano”, piùoggettivamente, i modi della preghiera col-lettiva, nei termini del topos che ne denun-cia il carattere liturgico. In questi passaggi,insomma, la scrittura di Verdi si avvicina aimodi della «funzione 2» sopra descritta, so-lo che qui essa non è più l’istanza regolatri-ce del sistema, ma solo l’oggetto di unacontemplazione esterna, una sorta di “mu-sica di scena” senza scena. Così, il discorsomusicale volutamente sfilacciato ed esitan-te dell’Antifona d’Introito «Requiem aeter-nam dona eis, Domine» lascia spazio, indue successivi trapassi, allo stile arcaiciz-zante a cappella del versetto «Te decethymnus», poi all’ordinata successione dientrate del «Kyrie», sezione dell’ordinario;l’irrequietezza dell’antifona d’offertorio, si-glata dalla straordinaria armonizzazionedel distico «Quam olim Abrahae», si scio-glie nell’immediatezza devozionale, nellacantabilità innodica del versetto «Hostias etpreces»; «Sanctus» e «Agnus Dei», due se-zioni dell’ordinarium missae, sfoggiano ri-spettivamente una bella fuga patentata e untono arcaico-salmodico che a molti ha fattovenire in mente le parti “liturgiche” di Ai-da, il tutto rinforzato dalla stabilità struttu-rale della forma di variazione. Infine all’in-quietante antifona di communio «Lux ae-terna», con le sue concatenazioni di inclas-sificabili armonie vaganti, fa da contrasto ilcarattere processionale, un tantino grandopéra, del versetto «Requiem aeternam»(un contrasto che sarebbe andato perdutose Verdi, come logica voleva, avesse quiriutilizzato il materiale musicale che into-na il testo simile dell’Introito e del «Liberame»: in questo caso la coerenza “dramma-turgica”, se mi si passa il termine, ha fattopremio sull’idea astratta dell’«unità musi-cale»). Solo nel «Libera me» finale questanetta differenziazione fra testualità sogget-tiva e oggettiva, fra immedesimazione liri-ca linguisticamente rivissuta e discorso di-retto cessa di funzionare; forse per la suagenesi antecedente al resto della Messa,forse per la posizione anomala di questo re-sponsorio appartenente al rito dell’Absolu-tio super tumulum, non alla messa in sen-so stretto, forse per la sua particolarissima

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struttura ad incastri testuali, forse perchéimpedita dal fatto che quivi compaiono, infunzione di versetti, dei segmenti testualiche altrove hanno funzione diversa. (Inogni caso, anche qui il carattere “costruito”e “ufficiale” della fuga dapprima culminain una grande perorazione omoritmica, poisi sfalda nella frammentazione sintattica,nell’indeterminazione declamatoria.) Un altro aspetto che differenzia nettamentele sezioni soggettive da quelle “topiche” è ildiverso atteggiamento nei confronti dellesfumature del testo: nelle sezioni topiche,ove conta soprattutto la loro riconoscibilità“esterna” in quanto musica liturgica, Verdievita di soffermarsi sulle possibili differen-ziazioni testuali interne. Così, il testo di«Kyrie» e «Christe» viene intonato contem-poraneamente e in modo indifferenziato,laddove altre celebri messe diversificanonettamente il tono della preghiera rivolta alPadre onnipotente e al Figlio misericordio-so; lo stesso vale per l’articolazione «Sanc-tus» vs. «Benedictus» (la Missa solemnis diBeethoven può essere un buon esempio perentrambi i luoghi; si veda anche, più indie-tro nel tempo, la cosiddetta Messa in si mi-nore di Bach). È insomma evidente che nelRequiem funziona una netta differenziazio-ne dei punti di vista, e quando questo è“esterno” (quando cioè il brano è visto, daldi fuori, essenzialmente come manifesta-zione della sua appartenenza al “livello” 2)ogni personalizzazione interpretativa deltesto appare fuori luogo.

Fino ad ora ho volutamente evitato di toc-care la questione della Sequenza, visto cheda tutti i punti di vista il suo statuto all’in-terno della Messa è estremamente anoma-lo. È soprattutto qui che, grazie alla ric-chezza drammatica delle immagini mistaall’insistenza delle invocazioni di graziacondotte in prima persona, si sarebbe ten-tati di leggere l’intonazione verdiana comeuna “scena” apocalittica, in cui il coro fa lafunzione del “narratore” e i solisti quelladelle “anime terrorizzate”. In realtà, come èstato sottolineato, una simile ripartizionedei materiali non esiste, visto che fram-menti di testo in terza e prima persona, co-

ro e solisti s’intersecano in più luoghi. Ep-pure, l’impressione di “presenza” dramma-tica che ogni ascoltatore prova all’ascolto diquesto monumento del sublime musicalenon è priva di giustificazione, ma agiscenel contesto di una prospettiva lirico/nar-rativa tutta particolare, che vorrei qui pro-vare a chiarire.Innanzitutto diamo un’occhiata al testo: di-ciannove strofe di tre versi, di cui le primesei stese come “narrazione”, o meglio “vi-sione”, in terza persona; le successive un-dici consistenti in un’articolata invocazio-ne di pietà in prima persona; le ultime duedi nuovo neutre, con chiusa di caratterecollettivo/liturgico («dona eeiiss requiem»).Verdi ne riconosce chiaramente la struttu-ra: infatti, come nota David Rosen, separafra loro i tre spezzoni mediante due ritorni– non necessitati dal testo – del cataclismamusicale con cui s’era aperta la sequenza.Meno facile è definire esattamente lo statu-to del testo stesso: pare logico leggerlo co-me l’allucinazione visionaria del fedele cheimmagina il giorno del giudizio universalee vede se stesso, prima ammutolito di ter-rore, poi implorante, come parte della sce-na. Verdi, almeno, sembra aver accettatoquesta visione allucinatoria, caratterizzatada una graduale “messa in situazione” delsoggetto fantasticante, poi dal ritorno im-provviso ad una visione più distaccata. An-che in questo caso, lo stacco fra narrazionee discorso diretto è sottolineato non solodal gioco delle “voci” corali o solistiche, maanche e soprattutto da quello dei registri,sebbene le “voci” contribuiscano a modu-lare il senso prospettico con cui le immagi-ni sono presentate. Il soggetto lirico iniziaad evocare, sulla scorta di immagini trattedalle Scritture, la scena del giudizio finale(nella cataclismatica messa in musica diVerdi, fra l’altro, è evidente che le pur fortiimmagini della Sequenza vengono rivisita-te alla luce della nota familiarità del com-positore con l’immaginario biblico, in que-sto caso magari con l’Apocalisse). Per Ver-di, l’iniziale segmento narrativo non potevache rispecchiarsi in una resa corale che as-sicuri una visione d’insieme della scena.Ma a partire dalla quarta strofa («Mors stu-

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pebit») risuona nel testo piuttosto lo sgo-mento del soggetto lirico di fronte al quadrodelineato: Verdi passa dunque il testimonealle voci soliste, pur mantenendole nel con-testo di un linguaggio fortemente atipico,spezzato, aperiodico, dalle incerte direzio-nalità armoniche; ovvero, narratologica-mente, di un linguaggio “d’autore”. Le stro-fe da 4 a 6, dunque, con gli assoli di basso emezzosoprano, mantengono nel testo e nel-la scelta del registro la struttura narrativa“autoriale” (il soggetto dell’enunciato è an-cora l’io lirico terrorizzato, che nel presen-te s’immagina la scena del giorno terribile),ma la contaminano con una dimensione diforte immedesimazione personale, che pre-para il passaggio ad un vero “gioco di ruo-lo” in cui l’io lirico si vedrà proiettato all’in-terno della scena stessa. Si noti che que-st’anticipazione dell’organico solistico inrelazione alla struttura grammaticale deltesto configura un netto allontanamento ri-spetto alla ben più prevedibile articolazio-ne della Messa per Rossini, la quale avevasemplicemente previsto che le sezioni di te-sto a struttura grammaticale narrativa fos-sero affidate al coro, quelle in prima perso-na ai solisti; e si noti anche che, come spes-so avviene nei modi del suo processo com-positivo, Verdi giunse a questa soluzionepiù sofisticata, meno prevedibile, solo gra-dualmente, visto che l’assolo di mezzoso-prano al «Liber Scriptus» / «Judex ergo» co-stituisce un ripensamento (operato a parti-re dalle esecuzioni londinesi del 1875) del-l’originale fuga corale, quale s’intese a Mi-lano nel 1874.L’assolo di mezzosoprano, dunque, culmi-na nel ritorno della musica del «Dies Irae»,che in questo caso, anziché persistere nellasua caratteristica instabilità tonale, si asse-sta in un’enfatica cadenza sulla settima didominante di Sol minore. Nella sua eviden-za preparatoria, essa costituisce una chiara“apertura di sipario”, al di là del quale citroviamo in una cornice narrativa interna:il testo dei versetti successivi, scritto in pri-ma persona e riferito evidentemente ad unatteggiamento di terrore personale (conscivoloni imbarazzanti del tipo: “mandapure gli altri all’inferno, basta che salvi

me”) costituisce un’estesa sezione di “di-corso diretto” (ecco dunque la “teatralità”)nella quale il soggetto lirico, immaginando-si ormai al centro della scena apocalittica,si vede nell’atto d’implorare la pietà divinanel momento fatale (in senso lato, questeundici terzine rispondono tutte alla do-manda iniziale: «povero me, cosa dirò allo-ra? Dirò …»). A dare questa sensazione di“discorso diretto”, dunque, non è solo l’uti-lizzo dei timbri solistici, che già prima del-lo stacco aveva contribuito ad accrescerel’orientamento soggettivo del punto di vi-sta, ma soprattutto la scelta del registro: diqui in poi Verdi gioca su caratteri musicalipiù semplici e di più consueta formalizza-zione, su simmetrie fraseologiche chegiungono a echeggiare la consueta formaoperistica («Qui Mariam absolvisti» del te-nore), su riferimenti topici (lapreghiera/berceuse del «Recordare Jesupie») e così via. È dunque innegabile chequesta sezione giochi volutamente con uneffetto di “teatro mentale”, con lo sforzo dirappresentare la messa in situazione del fe-dele che si proietta nella scena del giudizio.Il carattere conchiuso di questa poco ame-na fantasticheria è evidente anche nei mo-di del suo sparire: il ritorno dell’incipit del«Dies Irae», al termine dell’«Oro supplex»,avviene come irrompere inaspettato dellestrappate di Sol minore su una cadenza aMi, dunque come vera e propria interruzio-ne della rappresentazione mentale, comebrusco risveglio dall’incubo. L’inframmet-tersi del «Dies Irae» ricostruisce dunque ilmodo di visione iniziale, “oggettivo”, e per-mette di passare alle considerazioni finali –temperate da un senso più liturgico di pre-ghiera collettiva – del «Lacrymosa» e deiversi di commiato. È però evidente che perVerdi, anche recuperato il lucido distaccoper contemplare la scena, tutto avviene inun contesto totalmente privo di senso e digiustificazione provvidenziale. Non occor-re ricordare che il materiale del «Lacrymo-sa» era nato nel contesto del Don Carlos,come lamento di Filippo II sul corpo di Po-sa da lui appena fatto uccidere. Il re ha do-vuto assassinare l’unico amico che avessein terra, e ha per giunta scoperto che questi

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s’era autoaccusato di crimini mai commes-si: la sua trenodia «Qui me rendra ce mort»denuncia sconsolatamente non solo la po-tenza del male e del dolore, ma anche, so-prattutto, la sua stupida e beffarda inutilità,l’assenza di senso nella presenza del male.

Tutto sommato, cattolici e spiritualisti ave-vano ragione. Il Requiem non sarà propria-mente “teatrale”, ma nella scomposizionedei suoi piani narrativi si verifica esatta-mente ciò che essi temevano: la secolariz-zazione dell’immagine della morte e dellasofferenza, la relativizzazione della liturgiada cornice motivante a semplice evento, amanifestazione della paura umana; l’as-sunzione insomma di una lucida e rigoro-sissima morale laica che evita di aggrap-parsi all’idea consolatoria di una qualcheprovvidenzialità del male e del dolore, op-pure al valore ansiolitico e lenitivo del rito.Non è giusto dire che Verdi sia indifferenteal sacro: semplicemente, lo manda in fran-tumi. Con buona pace di Giuseppina.

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Prima pagina della partitura autografa della Messada Requiem donata da Verdi al soprano TeresaStolz.

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Giuseppe Verdi e gli interpreti della prima esecuzione della Messa da Requiem in una caricaturapubblicata sul periodico musicale «Il Trovatore» nel 1874.

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REQUIEM - KYRIE

Requiem aeternam dona eis, Domine: et lux per-petua luceat eis.Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddeturvotum in Jerusalem: exaudi orationem meam,ad te omnis caro veniet.

Requiem aeternam dona eis, Domine: et lux per-petua luceat eis.

Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison.

DIES IRAE

Dies irae, dies illa,Solvet saeclum in favilla,Teste David cum Sybilla.

Quantus tremor est futurus,Quando jude est venturus,Cuncta stricte discussurus.

Tuba mirum spargens sonumPer sepulcra regionum,Coget omnes ante thronum.

Mors stupebit et natura,Cum resurget creatura,Judicanti responsura.

Liber scriptus proferetur,In quo totum continetur,Unde mundus judicetur.

Judex ergo cum sedebit,Quidquid latet, apparebit:Nil inultum remanebit.

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REQUIEM - KYRIE

L’eterno riposo dona a loro, o Signore, e splendaad essi la luce perpetua.Dal monte Sion si elevi a te, o Dio, la nostra lode;ti sia offerto in Gerusalemme un sacrificio.Esaudisci la mia preghiera: ogni essere di carnegiungerà a te.L’eterno riposo dona a loro, o Signore, e splendaad essi la luce perpetua.

Signore, pietà! Cristo, pietà! Signore, pietà!

DIES IRAE

Giorno terribile quel gran giornoquando il mondo finirà incenerito,secondo la profezia di Davide e della Sibilla.

Quale tremito pauroso il peccatorequando il Giudice sovranoscruterà severamente ogni cosa!

Il rimbombar della trombapei campi seminati di sepolcri,tutti trarrà al trono di Dio.

Natura e morte rimarranno allibitenel vederli risorgereper rispondere al Giudice.

Verrà presentato il gran Libroin cui è scritto tutto ciòdi cui l’umanità deve rispondere.

Il Giudice è assiso sul suo seggio,ogni colpa nascosta sarà svelata,e niente rimarrà impunito.

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Quid sum miser tunc dicturus?Quem patronum rogaturus,Cum vix justus sit securus?

Rex tremendae majestatis,Qui salvando salvas gratis,Salva me, fons pietatis.

Recordare, Jesu pie,Quod sum causa tuae viae:Ne me perdas illa die.

Quaerens me, sedisti lassus,Redemisti Crucem passus:Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultionis,Donum fac remissionisAnte diem rationis.

Ingemisco, tamquam reus:Culpa rubet vultus meus:Supplicanti parce, Deus.

Qui Mariam absolvisti,Et latronem exaudisti,Mihi quoque spem dedisti.

Preces meae non sunt dignae:Sed tu bonus fac benigne,Ne perenni cremer igne.

Inter oves locum praesta,Et ab haedis me sequestra,Statuens in parte dextra.

Confutatis maledictis,Flammis acribus addictis:Voca me cum benedictis.

Misero me! che dirò a mia discolpa?chi invocherò a patronoquando appena il giusto è senza timore?

O Re, o Maestà tremenda,che per gratuita misericordia salvi i buoni,o fonte di pietà, salvami!

O buon Gesù, ricordatiche per me scendesti dal cielo in terra:in quel giorno non lasciarmi perire!

Per cercarmi ti affaticasti,per riscattarmi moristi in Croce:non torni inutile tanto travaglio!

Giusto giudice della vendetta,concedimi il perdonoprima del supremo rendiconto!

Sono reo e me ne pento,il mio volto si copre di rossore:o Signore, perdonami, te ne scongiuro!

Hai perdonato la Maddalena,hai accolto la preghiera del buon ladrone:anch’io posso sperare nel tuo perdono!

Le mie preghiere sono indegne,ma la tua bontà farà la graziach’io non arda nel fuoco eterno.

Fammi un posto fra gli agnelli,separami dai capri,chiamami alla tua destra!

Quando avrai giudicati i reprobie li avrai destinati alle fiamme brucianti,chiamami insieme ai tuoi eletti!

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Oro supplex, et acclinis,Cor contritum quasi cinis:Gere curam mei finis.

Lacrymosa dies illa,Qua resurget ex favilla,Judicandus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:Pie Jesu Domine,Dona eis requiem.

Amen!

DOMINE JESU

Domine Jesu Christe, Rex gloriae, libera animasomnium fidelium defunctorum de poenis infer-ni, et de profundo lacu: libera eas de ore leonis,ne absorbeat eas tartarus, ne cadant in obscu-rum: sed signifer sanctus Michaël repraesenteteas in lucem sanctam, quam olim Abrahae pro-misisti et semini eius.

Hostias et preces tibi, Domine, laudis offerimus:tu suscipe pro animabus illis, quarum hodie me-moriam facimus: fac eas, Domine, de mortetransire ad vitam, quam olim Abrahae promisi-sti et semini eius.

SANCTUS

Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sa-baoth! Pleni sunt caeli et terra gloria tua. Hosan-na in excelsis!

Benedictus, qui venit in nomine Domini.Hosanna in excelsis!

AGNUS DEI

Agnus, qui tollis peccata mundi, dona eis re-quiem.Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona eis re-quiem sempiternam.

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Prostrato a terra, invoco pietà;il mio cuore è spezzato e incenerito:non mi abbandonare nel mio ultimo istante!

Tremendo giorno di piantoquando il reo risorgerà dalle ceneriper essere giudicato.

Perdona, perdona, o Dio;Gesù, Signore pietoso,concedi a tutti il riposo eterno!

Amen!

DOMINE JESU

Signore Gesù Cristo, Re di gloria, libera le animedi tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno edal profondo abisso. Liberale dalla bocca delleone; non siano inghiottite dal baratro, non ca-dano nel buio della notte eterna. Ma che l’Arcan-gelo Michele, col suo vessillo, le introduca nellaluce divina che un tempo promettesti ad Abra-mo e alla sua discendenza.

Signore, ti offriamo questo sacrificio e questepreghiere: accettale per le anime di cui oggi fac-ciamo memoria: falle passare, Signore, dallamorte alla vita che un tempo promettesti adAbramo e alla sua discendenza.

SANCTUS

Santo, Santo, Santo, il Signore Dio delle Forze ce-lesti! Il cielo e la terra sono pieni della tua gloria.Osanna nel più alto dei cieli!

Benedetto colui che viene nel nome del Signore!Osanna nel più alto dei cieli!

AGNUS DEI

Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, do-na a loro il riposo.Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, do-na a loro il riposo eterno.

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LUX AETERNA

Lux aeterna luceat eis, Domine: cum sanctis tuisin aeternum: quia pius es.

Requiem aeternam dona eis, Domine: et lux per-petua luceat eis, cum sanctis tuis in aeternum:quia pius es.

LIBERA ME

Libera me, Domine, de morte aeterna,in die illa tremenda;quando caeli movendi sunt et terra,dum veneris judicare saeculum per ignem.

Tremens factus sum ego et timeo,dum discussio venerit,atque ventura ira,quando caeli movendi sunt et terra.

Dies irae, dies illa,calamitatis et miseriae,dies magna et amara valde,dum veneris judicare saeculum per ignem.

Requiem aeternam dona eis, Domine,et lux perpetua luceat eis.

Libera me, Domine, de morte aeterna,in die illa tremenda,quando caeli movendi sunt et terra,dum veneris judicare saeculum per ignem.

LUX AETERNA

La luce eterna, Signore, li illumini, insieme aituoi santi per sempre, perché sei buono.

Dona loro, Signore, l’eterno riposo, e splenda adessi la luce perpetua, insieme ai tuoi santi ineterno, perché sei buono.

LIBERAMI

Liberami, Signore, dalla eterna morte,in quel giorno tremendoquando il cielo e la terra saranno sconvolti,quando verrai a giudicare il mondo col fuoco.

Io tremo di spavento e ho pauradavanti al severo giudizioe all’ira di Dio che si avvicina,quando il cielo e la terra saranno sconvolti.

Giorno terribile quel gran giornodi calamità, di miseria,giorno grande e ben amaro,quando verrai a giudicare il mondo col fuoco.

Dona loro, Signore, l’eterno riposo,e splenda ad essi la luce perpetua.

Liberami, Signore, dalla eterna morte,in quel giorno tremendoquando il cielo e la terra saranno sconvolti,quando verrai a giudicare il mondo col fuoco.

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Pietro Bertoja, bozzetti dello scenario predisposto per la prima esecuzione della Messa da Requiem aVenezia, Teatro Malibran, luglio 1875. (Venezia, Museo Correr).

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MESSA DA REQUIEM

SULLE SCENE VENEZIANE

Nelle pagine seguenti si riproduce in anastatica il volumetto Il Requiem del Maestro Giuseppe Verdi […]apparso a Venezia nel luglio 1875, nel quale sono raccolti gli «scritti» del critico musicale P. Faustini, giàapparsi nella «Gazzetta di Venezia» e nella «Gazzetta Musicale» di Milano in occasione delle esecuzioni delcapolavoro sacro verdiano.

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Nelle pagine seguenti: riproduzione della lettera autografa di Giuseppe Verdi indirizzata al Sindaco diVenezia il 3 luglio 1875. (Venezia, Museo Correr).

Giuseppe Verdi.

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Nel marzo del 1859 la Fenice chiudeva i battenti per non riaprirli che dopo l'unificazionedel Veneto all'Italia, il 31 ottobre 1866, con Un ballo in maschera concertato e diretto daFranco Faccio con l'assistenza di Emanuele Muzio. Tuttavia le condizioni economichedel teatro erano ormai tali da non consentire più contratti per opere nuove, tanto menocon un compositore quale Verdi, le cui paghe erano diventate accessibili solo ai granditeatri stranieri (Pietroburgo, Parigi, Il Cairo…). Restava però la speranza che egli potesserecarsi a Venezia per assistere all'esecuzione di alcune sue opere. Nel 1875 la Messa daRequiem fu portata in tournée a Parigi, a Londra e a Vienna, sotto la personale direzionedell'autore, interpreti principali Teresa Stolz, Maria Waldmann, Angelo Masini e PaoloMedini. Tale tournée doveva concludersi al Teatro Malibran di Venezia. E così avvenne

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infatti, ma con la sostituzione, peraltro prevista, di Franco Faccio sul podio del direttored'orchestra: cinque esecuzioni trionfali della Messa a partire dal 10 luglio. Le autoritàveneziane avevano rivolto a Verdi un invito ufficiale, nella lusinga che egli potesseassistere almeno alle prove e alla prima esecuzione. Ma Verdi, rientrato in tutta fretta daVienna a S. Agata per rivedere i conti con Ricordi rispondeva il 3 luglio al sindaco diVenezia, Antonio Fornoni:

Ill.mo Sig.r SindacoSpiacemi che il mio rapido passaggio da Venezia mi abbia tolto il vantaggio di riverirla,quando le piacque onorarmi d'una sua visita. Mi sono gratissimi i saluti, e lecongratulazioni della Cittadinanza Veneziana, e sono ben lieto, se ho potuto, anche in

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piccola parte, contribuire al lustro che gl'Italiani seppero sempre dare all'arte che ioprofesso. Vorrei poter rispondere, come desidera, all'invito che la S.V. con tantagentilezza d'espressioni mi ha fatto anche a nome di Venezia: ma (prima di partiredall'Italia) avevo fissato che dopo Vienna sarei irrevocabilmente rientrato nel mioPaesello, dove importanti affari domandano la mia presenza.Voglia dunque la S.V. tenermi per iscusato se non posso assistere alle prove edesecuzione della mia Messa in Venezia.Rinnovando i miei ringraziamenti, le mie scuse, ed i miei ossequi.Ho l'onore di dirmiDella S.V. Ill.ma Dev.mo

G. Verdi

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MESSA DA REQUIEM ALLA FENICE: LE LOCANDINE

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CORTILE DEL

PALAZZO DUCALEVenerdì 26 luglio 1991 - ore 21.30Sabato 27 luglio 1991 - ore 21.30

ORCHESTRA E CORO

DEL TEATRO LA FENICE

direttore

VJEKOSLAVSUTEJ

soprano

CAROL VANESS / DEBORAH VOIGHT

mezzosoprano

LUCIANA D’INTINO

tenore

PETER DVORSKY

basso

SAMUEL RAMEY / FRANCO DE GRANDIS

GIUSEPPE VERDIMessa da Requiem

Posto unico non numerato L. 35.000

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Giuseppe Verdi.

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La storia dei rapporti artistici di un compo-sitore con un Teatro – nel nostro caso diVerdi con La Fenice – è tutta scritta nelledate, nei titoli, nelle cifre, scrupolosamenteregistrati negli Annali del Teatro. Affasci-nante, difficile lettura che richiede moltapazienza, attenzione e compiuta conoscen-za del tema in oggetto. Assieme alla corri-spondenza, alle cronache dell’epoca, e adaltre diverse fonti, tutte insieme formano lapreziosa, indispensabile premessa per scri-vere, o meglio per ricostruire, quella storia.Il primo capitolo, o se si preferisce, il prolo-go, reca la data del 26 dicembre del 1842.Verdi aveva composte e rappresentate treopere: Oberto, conte di San Bonifacio (Mila-no, Teatro alla Scala, 17.XI.1839) il feliceesordio; Un giorno di regno, ossia il fintoStanislao (Milano, Teatro alla Scala,5.IX.1840), il solenne fiasco che Verdi, uomodai tenaci rancori, non volle mai dimentica-re; Nabucodonosor (Milano, Teatro alla Sca-la, 9.III.1842), la trionfale rinascita, la prima,virile affermazione di una prorompente gio-vinezza, in un’opera che, per molti aspetti,“parlava” un linguaggio nuovo, sconosciutoai melomani dell’epoca.Nella Introduzione ad una purtroppo in-compiuta monografia, della quale non mistancherò mai di segnalarne i grandi, origi-nali pregi, biografici e critici (Aldo Oberdo-fer, Giuseppe Verdi, Matteo Editore, Trevi-so, 1994), l’autore seppe cogliere, nei se-guenti, affascinanti termini, il profondo si-gnificato di tanta novità: «Le ultime note del grandioso finale si per-dettero nell’urlo d’entusiasmo del pubblico.Platea e palchi, in piedi, acclamavano. Latensione, crescente di scena in scena, du-rante tutto quel primo atto, si scioglieva

nell’applauso frenetico. Commozione, me-raviglia, quasi un espansivo senso di rico-noscenza. Da molto tempo nessuno avevaparlato un linguaggio così robusto, e perso-nale, rispettoso della tradizione – Rossini, ilsolenne Rossini del Mosè, era sempre pre-sente – ma spesso d’una originalità ancoraacerba, sanguigna nel modo d’interpretarele vecchie formule. Senza vederne ancoranettamente i contorni, senza poterne misu-rare la statura, il pubblico della Scala, te-diato dalla mediocrità di una grigia folla dioperisti senza genio, condannati alla steri-lità artistica d’una produzione abbondan-tissima, salutava con gioia la forte indivi-dualità che si annunciava da quel prim’attoveemente, a forti chiaroscuri, che correvavia rapidissimo, tutto interessante, dalprincipio alla fine. Situazioni violentemen-te drammatiche, personaggi nettamente ca-ratterizzati, un’atmosfera di solenne gran-dezza che avvolgeva uomini e cose, unaspiritualità tutta penetrata del misticismobiblico, meno perfetta formalmente, ma piùintima, più essenziale che nel Mosè».C’è in questa suggestiva descrizione, tutto ilprofondo significato della nuova poeticamelodrammaturgica di colui che sarebbediventato il più grande operista tragico del-l’intera storia del nostro teatro musicale,quale si presentava in questa ribelle, orgo-gliosa affermazione, come, a nessun altrostudioso verdiano sarebbe riuscito dopo.Pure al Teatro La Fenice, nonostante le 24repliche (un numero oggi impensabile, maa quell’epoca non leggendario) l’opera,stando alle cronache del tempo, non ebbe ilsuccesso che aveva ottenuto alla Scala. Illungo articolo che la Gazzetta di Venezia glidedicò, dopo un breve, scherzoso preambo-

GIUSEPPE PUGLIESE

VERDI E LA FENICE

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lo, iniziava con questa constatazione: «… lasua musica non ha fatto qui quella grandeimpressione che a Milano. Non già ch’ellasia un lavoro acciabattato o volgare; ci sinotano anzi molte dotte bellezze; certe me-lodie facili, piane, spontanee, un’armoniaspesso imitativa, che accompagna e vesteacconciamente le immagini della parola,una intelligente distribuzione di parti; tuttipregi d’arte e di stile, che ad essere valutatirichiedono paziente e sottile esame, e pos-sono piacere a periti, ma non per iscaldaregli animi. Ciò che veramente commuove erapisce, sono la forza, la novità del concet-to, il brio, la passione, l’entusiasmo, e que-sto per verità o ci manca od è in tropposcarsa misura».Sono proprio, questi ultimi, invece, i grandipregi, la novità, dell’opera, che il pubblicodella Scala aveva dimostrato di capire e diapprezzare, e che l’Oberdorfer, come ab-biamo potuto constatare, aveva messo incosì vivido rilievo. È una delle tante incom-prensioni, cecità che appartengono alla sto-ria, diciamo pure della “critica” di tutti itempi, e che gli studiosi conoscono moltobene. Oggi sappiamo con certezza che, nelNabucodonosor, Verdi parlava un linguag-gio nuovo, opposto, ribelle, alle convenzio-ni, ai modi civili, al culto formale, ai virtuo-sismi belcantistici di Rossini, così come al-lo splendido, canoviano neoclassicismo diSpontini. L’intera partitura sembra scolpitamusicalmente con una essenzialità miche-langiolesca, racchiusa, con gli spessori diun bassorilievo, in una fantasia elementa-re, ribollente come un magma vulcanico,sospinta, anzi flagellata, da un eloquio, unvigore sconosciuti. Mai prima, pur senzadimenticare il formidabile esempio dellacherubiniana Medea, era risuonata in unteatro italiano, tanta incandescente voca-lità. Abigaille è la sintesi esasperata di que-sta nuova morfologia vocale, eguagliata,ma solo in parte, da quella di Lady Mac-beth, nell’opera pure di Verdi. Tutto – tessi-tura, intervalli, fraseggio – nel canto di Abi-gaille, scorre, come lava incandescente aformare il primo, compiuto esempio di unverdiano soprano drammatico di agilità. Difronte a lei si erge Nabucco, personaggio di

statuaria grandezza, con regale, tragica im-ponenza. Figura scolpita nel marmo, attra-verso un percorso vocale non meno diffici-le, ma più civile, direi classico. Prima diproseguire in questa ricostruzione, si devericordare che, dal ‘debutto’ di Verdi nelTeatro veneziano, al novembre del 2000,data nella quale scrivo queste note, delle26 opere che formano l’omnia teatrale (aparte i rifacimenti) del nostro compositore,ne sono state rappresentate 23. Le treescluse sono: Oberto, conte di San Bonifa-cio, Un giorno di regno, ovvero il finto Sta-nislao, Alzira. Ma due di esse vennero rap-presentate in altri due Teatri veneziani. Laseconda al Teatro di San Benedetto, oggiRossini (1845), la terza al Teatro Apollo,oggi Goldoni (1847).Proseguiamo. Fra il Nabucco e la primadelle opere dedicate alla Fenice, Verdi scri-ve I Lombardi alla prima crociata andati inscena al Teatro alla Scala l’11.XI.1843 e ri-presi, con straordinaria sollecitudine, dallaFenice il 25 dicembre dello stesso anno.Proprio nel corso di queste rappresentazio-ni vennero avviate le trattative per un’ope-ra nuova da comporre per il Teatro vene-ziano: Ernani. Prima di addentrarci nel ca-pitolo principale della storia dei rapporti diVerdi con La Fenice, è necessaria un’altrapremessa non dettata da uno sterile, cam-panilistico orgoglio, che sarebbe di pessi-mo gusto e del tutto fuori luogo, ma soltan-to dalla semplice constatazione di una del-le componenti essenziali di questa storia.La seguente. Se, accanto al numero delleopere da Verdi composte per La Fenice,mettiamo il reale valore artistico di ciascu-na di esse, e, di più, l’importanza che han-no avuto nello svolgimento dell’itinerariocompositivo dell’autore, risulta chiaro cheLa Fenice, in questo senso, divide il privile-gio di primo Teatro italiano soltanto con ilTeatro alla Scala.Tutto ciò premesso, possiamo affermareche il grande Teatro veneziano non avreb-be potuto desiderare esordio artisticamentepiù felice. Ernani è, sotto ogni aspetto, ope-ra giovanile, e non minore, come a volte siè creduto. È un dramma di personaggi sin-goli, dopo quelli “corali” del Nabucco e dei

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Lombardi. Si tratta, in sostanza della primaopera interamente verdiana di Verdi. Conessa il compositore prende coscienza, intermini chiari e compiuti, di quelli che sa-ranno, d’ora in poi, alcuni dei temi, dei sen-timenti, dei miti più tenaci della sua fanta-sia, della sua poetica melodrammaturgica.Composta su libretto di Francesco MariaPiave (il primo dei nove che il fedelissimo,geniale autore veneziano avrebbe scrittoper il tirannico compositore) su un sogget-to tratto dall’omonimo dramma di VictorHugo, l’opera presenta due figure fonda-mentali della drammaturgia verdiana. Ilprotagonista, il proscritto Ernani, non perpuro caso, romanticissimo bandito peramore, e Silva, il cocciuto, vendicativo ve-gliardo, l’archetipo di una nobile, antipati-ca stirpe. Non bisogna dimenticare, il ma-gnanimo, sebbene un poco ridicolo, sovra-no Carlo. L’intera partitura, come sappia-mo, è una rigogliosa successione di Arie di-venute presto famose, anzi popolari: Comerugiada al cespite, Ernani, Ernani invola-mi, Da quel dì che t’ho veduta, Infelice… etu credevi, La vedremo, veglio audace, Vie-ni meco, sol di rose, Ah de’ verd’anni miei.Per non parlare di due Cori famosissimi epopolarissimi, che infiammarono gli animidi tutti i Teatri di allora, quali Si ridesti ilLeon di Castiglia, e Oh sommo Carlo.Due furono le lunghe, analitiche cronachededicate all’Ernani da Tommaso Locatellisulla Gazzetta di Venezia, a quello che ven-ne ritenuto subito un avvenimento, andatoin scena il 9.III.1844.«Pochi spartiti produssero più forte, più vi-va impressione di questo soavissimo Erna-ni. L’entusiasmo, come fiamma per nuovaesca, andava ogni sera crescendo; ogni seraera folla, era calca in teatro; s’abbandona-vano le più gravi faccende, s’interrompeva-no le più dilette partite, per udirne almeno,chi più non poteva, il terzetto. Quella musi-ca era divenuta un caro bisogno, e se nonera il privilegio del signor Ricordi, ella sa-rebbe su’ leggi di tutti i pianoforti, come ipiù bei motivi sono già sui labbri di tutti. Ilsignor Ricordi ha un bel difendere il suoprivilegio: cento voci glielo usurpano ognisera per le vie e ti ricantano l’Ernani di

contrabbando».«Nè nessun’opera d’ingegno ebbe più meri-tata fortuna. Questa musica ha non so qua-le impronta originale, un carattere sì pro-prio e conveniente al soggetto, che la tre-menda creazione di Vittor Hugo non potevatrovar veste più acconcia a produrre queglieffetti di pietà e di terrore ch’egli vide e stu-diò nella sua mente».Soltanto due anni dividono l’andata in sce-na dell’Ernani da quella dell’Attila. Pure, inquesto breve intervallo, Verdi scrive altretre opere, diversissime per caratteristichedrammaturgiche e valori musicali: I dueFoscari (Roma, Teatro Argentina,3.XI.1844), Giovanna d’Arco (Milano, Tea-tro alla Scala, 15.II.1845), Alzira (Napoli,Teatro San Carlo, 12. VIII.1845).Il libretto dell’Attila, derivato da una trage-dia di Zacharias Werner, dovuto a Temi-stocle Solera che, tuttavia, non lo condussea termine e anzi, doveva segnare la burra-scosa fine della sua collaborazione con l’i-rascibile compositore, ha, al centro dellavicenda, la figura del leggendario re degliUnni. Divisa in un Prologo e tre Atti, oltreun Preludio, la partitura di quest’opera èdavvero degna del carattere del suo prota-gonista da cui prende il nome. Opera aspra,ferrigna, corrusca, tutta percorsa da ritmimartellanti, spesso rapidi, intessuta di Coricon prevalente funzione timbrica, immersain un’orgia di Cabalette e Cavatine selvag-ge, nella loro più spietata simmetria, incor-niciata da tre grandiosi, retorici Finali, Atti-la sprigiona, nella sua primitiva rozzezza,un fascino impetuoso, irresistibile. E se èvero che il più ingaglioffito romanticismoletterario dell’illetteratissimo Verdi, avevafatto il suo trionfale ingresso con i Lombar-di, è vero anche che qui esplode con unatravolgente, scultorea, brutale, vitalità, euna stupefacente, delirante frenesia. Ma ilsolo itinerario vocale dell’Attila, soprattuttoquello sopranile (penso alla parte di Oda-bella), esigerebbe una ampia, approfonditaanalisi per lo sviluppo di uno stile che, par-tendo dal Nabucco sarebbe giunto fino alMacbeth.Una breve, prima riflessione conclusiva,che non bisogna mai dimenticare, potrebbe

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essere la seguente. Anche l’itinerario arti-stico di Verdi, è stato sempre ascensionale,mai rettilineo. Questo spiega i numerosi ce-dimenti, le incertezze, le cadute, i crolli, fraun’opera e l’altra, quando non dentro unastessa opera, anche di un capolavoro. Maspiega pure come egualmente, all’internodi questi aspetti e nonostante essi, Verdi ab-bia sempre proceduto, senza mai interrom-persi, alla costante ricerca di un sempremaggior approfondimento drammatico emusicale, di cui la stessa Attila rappresentaun momento originale. E non importa, na-turalmente, che il sentimento della patria,gli ardori risorgimentali, facciano ricorso,qui come altrove, alla più popolare retori-ca. Nell’Attila, come sappiamo, il culmine èrappresentato dalla infiammata frase cheEzio, nel duetto con Attila, lancia come unasaetta: Avrai tu l’universo resti l’Italia a me.È un aspetto che appartiene allo svolgi-mento della drammaturgia verdiana. Mauno studio analitico del lunghissimo cam-mino che ha dovuto percorrere il senti-mento dell’amore per la patria, la suaespressione musicale, dai Cori del Nabuccoe dei Lombardi, attraverso Macbeth, Labattaglia di Legnano, I vespri siciliani, perricordare solo gli esempi più significativi,prima di approdare alle aristocratiche am-piezze mozartiane, e alle stilizzate raffina-tezze, raveliane, con le poeticissime implo-razioni di Aida, al III Atto di questo capola-voro, attende ancora di essere scritto.Con l’Attila si concludono i primi due capi-toli di questa storia. Il debutto di Verdi allaFenice e l’altro delle prime due opere com-poste per il Teatro veneziano. Il terzo, ulti-mo e più importante capitolo, avrà inizioesattamente cinque anni dopo, con Rigolet-to (11.III.1851). Seguiranno La Traviata(6.III.1853), e Simon Boccanegra(12.III.1857). Due capolavori molto diversie la prima versione di una grande opera,tormentatissima, mai portata ad una sinte-si unitaria, ma carica di futuro.Sono numerose le riflessioni, i chiarimenti,che esigerebbe questo travagliato e moltoimportante periodo del cammino artisticodi Verdi. Esso comprende, anche, la parteforse più drammatica di quelli che Verdi, in

una lettera indirizzata all’amica ClarinaMaffei il 12.V.1858, riassunse nella seguen-te, lapidaria frase, divenuta subito famosa:«Dal Nabucco in poi non ho avuto, si puòdire, un’ora di quiete. Sedici anni di galera».Non era una esagerazione, e le cifre, nellaloro uguale, anzi maggiore, crudele elo-quenza, lo confermano. Dal Nabucco(1842) al ’58, data della lettera, quindi neisedici anni da lui indicati, Verdi composediciotto opere, oltre ad occuparsi di tre rifa-cimenti. Un numero, per il suo ritmo crea-tivo, opposto a quello di Rossini e di Doni-zetti, addirittura folle. Ma il cuore di queisedici anni di galera, è formato dai sette chevanno dal 1844 al 1851. Un tunnel lungodieci opere, e dal quale Verdi doveva uscir-ne proprio con il Rigoletto.Esso giunge alla Fenice, preceduto dalle se-guenti opere, composte per altri teatri: Mac-beth, prima versione (Firenze, Teatro LaPergola, 14.III.1847), I Masnadieri (Londra,Her Majesty’s Theatre, 22.VIII.1847), Il Cor-saro (Trieste, Teatro Grande, oggi TeatroVerdi, 25.X.1848), La battaglia di Legnano(Roma, Teatro Argentina, 27.I.1849), LuisaMiller (Napoli, Teatro San Carlo,8.XII.1849), Stiffelio (Trieste, Teatro Grande,16.XI.1850) che, nel più strampalatorifacimento librettistico verdiano, diventerànel ’57, Aroldo. In mezzo il debutto francesecon Jerusalem (Parigi, Opéra, 26.XI.1847),faticoso ma affascinante rifacimento, riccodi novità, dei Lombardi.Verdi è diventato già uno degli autori predi-letti del Teatro La Fenice, e del pubblico ve-neziano. Lo conferma anche la sollecitudi-ne con la quale vengono riprese alcune del-le sue opere nuove: I due Foscari (1847),Macbeth (1847), I Masnadieri (1849), LuisaMiller (1850).Sappiamo che, con Rigoletto e La Traviata,Verdi aveva scelto, e ne era consapevole,due soggetti, per quei tempi, ritenuti, e siapure per ragioni molte diverse, entrambi ol-tremodo scandalosi. Tormentatissima fu lastesura del libretto di Rigoletto con un sog-getto derivato da Le roi s’amuse di VictorHugo che provocò la più dura ostilità dellacensura. Ma Verdi non si arrese e riuscì asuperare tutti gli ostacoli.

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Ebbe a ricordarlo lui stesso in una letterascritta all’amico Cesarino De Sanctis il 1gennaio del ’53, quando già stava pensandoalla Traviata: «A Venezia farò la Dame auxCamélias che avrà per titolo, forse, Travia-ta. Un soggetto dell’epoca. Un altro forsenon lo avrebbe fatto, per i costumi, per itempi e per altri mille goffi scrupoli. Io lofaccio con tutto il piacere. Tutti gridavanoquando io proposi un gobbo da mettere inscena. Ebbene: io ero felice di scrivere il Ri-goletto». E tutti sappiamo bene oggi quantaragione avesse.Non è questa la sede (né lo scopo delle pre-senti note) per una interpretazione criticaaggiornata di Rigoletto. Pure si deve preci-sare, almeno, che, fra le molte sciocchezzescritte sull’omnia operistico verdiano, pri-meggia quella che volle unire tre capolavo-ri diversissimi in tutto – Rigoletto, Il Trova-tore, La Traviata – sotto la generica defini-zione di “Trilogia romantica”. Tre opere se-parate dalle profonde differenze, dramma-turgiche e musicali, sulle quali sovrasta lainacessibile, solitaria grandezza del Trova-tore.Tutto ciò premesso si deve ricordare che Ri-goletto rimane una delle opere più unitarie,coerenti di Verdi. Un’opera che, nella suagrandezza semplice, o addirittura nella sem-plificazione drammatica della vicenda, e deipersonaggi, non conosce le incoerenze, i ce-dimenti, le prolissità che troveremo, adesempio, proprio nella Traviata. E quantoalle obbiezioni mosse anche da alcuni illu-stri studiosi verdiani circa le caratteristichedel dongiovannismo del Duca di Mantova,ritenuto superficiale e poco convincente, hocercato di dimostrare l’infondatezze di quel-le critiche, in un mio breve articolo, «Il liber-tino di Verdi», pubblicato nel ’94, in un pro-gramma della Scala.Rigoletto conquistò sin dalla prima rappre-sentazione il favore del pubblico venezia-no. «Un’opera come questa – scriveva laGazzetta di Venezia – non si giudica in unasera. Ieri fummo come sopraffatti dalla no-vità. Novità o piuttosto stranezze nel sog-getto: novità nella musica, nello stile, nellastessa forma dei pezzi, e non ce ne facem-mo un intero concetto. Ciononostante l’o-

pera ebbe il più compiuto successo e ilMaestro fu quasi ad ogni pezzo festeggiato,richiesto, acclamato, e due se ne dovetteroanche ripetere. E nel vero, stupendo, mira-bile, è il lavoro dell’istrumentazione: quel-l’orchestra ti parla, ti piange, ti trasfonde lapassione. Mai non fu più possente l’elo-quenza dei suoni».«Meno splendida, – prosegue il cronista – oche ci parve così al primo udirla, è la partedel canto. Ella si discosta dallo stile usatofinora, poiché manca di grandiosi pezzid’assieme e appena si notano un quartetto eun terzetto nell’ultima parte, di cui nem-meno si afferrò tutto il pensiero musicale».Prosa saporita, a suo modo ermetica che ri-chiederebbe uno studio a parte per chiarir-ne molteplici significati.Comunque, il successo del Rigoletto, andòaumentando di recita in recita, ed ebbe lasua definitiva conferma nelle riprese avve-nute l’anno dopo.Fra la composizione del Rigoletto e quelladella Traviata c’è soltanto Il Trovatore (!),vale a dire uno dei capolavori assoluti dellamelodrammaturgia verdiana e di tutto l’Ot-tocento. È l’opera che suggerì a GianandreaGavazzeni, il seguente, sacrilego accosta-mento: «Violetta, dopo Il Trovatore, saràcreatura inimitabile per la novità psicologi-ca, per la pienezza sentimentale, ma Leo-nora vive nel canto verdiano con lo stessovalore estetico col quale in Bach hanno vo-ce le figure della Passione. Il Trovatore è laitaliana Passione secondo San Matteo. I no-stri Corali sono D’amor sull’ali rosee e ilMiserere».E fu sempre Il Trovatore a suggerire ad Al-berto Savinio, le più belle, poeticissime me-tafore che io conosca: «È il capolavoro diVerdi. In nessun’altra delle tante sue opere,l’ispirazione è così alta. Non si tratta d’in-venzione melodica, non di facilità melodica,e neppure di felicità melodica: ma di cantid’una specie singolare, che aprono una fine-stra improvvisa, per la quale l’anima salpaviolentemente, e dolcissimamente insieme,nella sconfinata libertà dei cieli… In nes-sun’altra opera come nel Trovatore, i cantisono aquiloni solitari, che in una strana cal-ma, in un cielo senza vento, salgono dritti

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nella notte infinita».La Traviata non ebbe, alla prima rappre-sentazione, il successo riservato al Rigolet-to; «le sue Arie, queste magre farfalle di unaserata senza domani» (Alberto Savinio)non suscitarono l’entusiasmo di quelle delRigoletto. Tuttavia, la causa, o le cause, diquello che venne definito, pare con eviden-te esagerazione, un fiasco, non sono da at-tribuire alla qualità musicale dell’opera, eneppure alla “scandalosa” attualità socialee contemporaneità scenografica del sogget-to, bensì alla infelice esecuzione e interpre-tazione da parte dei cantanti.Lo stesso Verdi al fedele Emanuele Muzio,in una lettera scritta il giorno dopo la primarappresentazione, affermava: «La Traviata,ieri sera, fiasco. La colpa è mia o dei can-tanti? Il tempo giudicherà».Con il direttore d’orchestra Angelo Maria-ni, prima suo grande interprete, poi di Wa-gner, Verdi fu più esplicito: «La Traviata hafatto un fiascone e peggio, hanno riso. Ep-pure che vuoi? Non ne sono turbato. Ho tor-to io o hanno torto loro. Per me credo chel’ultima parola sulla Traviata non sia quel-la d’ieri sera». Ancora una volta aveva vistogiusto. L’anno dopo, il 6.5.1854, l’operavenne ripresa, con grande successo, al Tea-tro di San Benedetto. Il 26 dello stesso meseVerdi scriveva all’amico Cesarino De Sanc-tis: «Sappiate adunque che La Traviata chesi eseguisce ora al S. Benedetto è la stessa,stessima che si eseguì l’anno passato allaFenice, ad eccezione di alcuni trasporti ditono, e di qualche puntatura che io stessoho fatto per adattarla meglio a questi can-tanti: i quali trasporti e puntature resteran-no nello spartito perché io considero l’ope-ra come fatta per l’attuale compagnia. Delresto non un pezzo è stato cambiato, nonun pezzo è stato aggiunto o levato, nonun’idea musicale è stata mutata. Tuttoquello che esisteva per la Fenice esiste orapel S. Benedetto. Allora fece fiasco: ora fafurore. Concludete voi!!».Ma le cose non stavano proprio in questitermini, e Verdi non poteva non saperlo. Icambiamenti apportati furono più numero-si e consistenti, anche se non tali da giusti-ficare il mutato giudizio del pubblico, che

non fu un vero e proprio capovolgimento:fiasco e trionfo. È un problema, questo del-le due versioni in parte diverse, di Traviatache gli studiosi verdiani conoscono bene, eche Julian Budden riassunse nei seguentitermini: «In realtà, Verdi per la ripresa del-l’opera, apportò cambiamenti leggermentepiù ampi di quanto vorrebbe farci credere.L’autografo dice poco, perché come al soli-to il compositore ha nascosto i propri inter-venti strappando le pagine e sostituendole.Ma una partitura manoscritta della versio-ne del 1853 conservata negli archivi dellaFenice (e salvata, come tutti gli altri prezio-si documenti, dal rogo che distrusse il Tea-tro, perché conservati presso la FondazioneLevi ndr.) ci consente di esaminare in det-taglio i mutamenti che sono di grande inte-resse».Due furono i lunghi articoli che il Locatellivolle dedicare alla Traviata. Dopo aver ri-cordate le parti più belle del I Atto, dal Brin-disi alla grande Aria finale di Violetta, egliosservava: «La Salvini-Donatelli cantò queipassi d’agilità, che molti per lei scrisse ilmaestro, con una perizia e perfezione danon dirsi: ella rapì il teatro che, alla lettera,la subissò d’applausi. Quest’atto ottenne ilmaggior trionfo al maestro; si cominciò achiamarlo, prima ancora che si alzasse latela, per la soavissima armonia di violini,che preludia allo spartito; poi al brindisi,poi al duetto, poi non so quante altre volte,e solo e con la donna, alla fine dell’atto».«Nel secondo atto mutò fronte, ahimè lafortuna. Imperciocché nella guisa medesi-ma che dell’arte oratoria fu detto ch’ella trecose richiede: azione, azione, azione; trecose egualmente in quella della musica sidomandano: voce, voce, voce. E nel vero,un maestro ha un bello inventare, se nonha chi sappia o possa eseguire ciò ch’eglicrea. Al Verdi toccò la sventura di non tro-var ieri sera le sopraddette tre cose, se nonda un lato solo; onde tutti i pezzi che nonfurono cantati dalla Salvini-Donatelli, an-darono, per dirla fuor di figura, a precipi-zio».Anche nel secondo articolo, l’autore si sof-ferma a descrivere le parti più belle dell’o-pera. «Nel terz’atto non c’è da scegliere: egli

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è tutto un gioiello, incominciando da quelsoave preludio di violini… Il fatto è che do-po le prime rappresentazioni, il favore del-l’opera è cresciuto; tanto che mercoledì ilmaestro fu domandato, non solo al prim’at-to, ma e al termine del secondo e del terzo».Rimane pur sempre il fatto che l’articolodedicato, dal Locatelli, alla trionfale ripresadell’anno seguente, aveva questo significa-tivo titolo Una riparazione.Comunque, prima o seconda versione, diquesto che rimane pur sempre un capola-voro, fra i più amati ed eseguiti di Verdi,nessuno dei cronisti di allora, e per la ve-rità, anche nessuno fra i più preparati, mo-derni critici, dei decenni successivi, parveaccorgersi di alcuni limiti, musicali edrammaturgici, dell’opera i quali, se nonne intaccavano la superba bellezza com-plessiva, mettevano a nudo la mancataunità di svolgimento, le zone grigie, cioè lepagine musicalmente brutte (al primo po-sto le due Cabalette di Alfredo e del padre)e la prolissità della partitura, se l’opera vie-ne eseguita integralmente (ciò che in Tea-tro non avviene quasi mai). Ho lasciato perultimo le fragilità, le debolezze dramma-turgiche, alcune delle quali, è vero, esiste-vano già negli originali, cioè nel lungo rac-conto (1847) e nella pièce teatrale (1852),La dame aux camélias di Alessandro Du-mas figlio, ma furono aggravate nella ste-sura librettistica del Piave. Sono debolezzee incongruenze che vennero messe in vivi-da, cruda luce prima da Benedetto Croce,poi da Massimo Bontempelli, nella esem-plare Prefazione da lui scritta alla suasplendida versione italiana, entrambe rela-tive al testo di Dumas.Diretto riferimento all’opera di Verdi, fan-no, invece, i severi, intelligenti rilievi di Al-do Oberdorfer: «Alfredo è, lo sappiamo, unuomo comune. Canta con misura un recita-tivo, un’aria e – dopo aver appreso senzasoverchia commozione che la donna inna-morata deve vendere “quanto ancor possie-de” per pagarsi il lusso di quella solitudinea due, in campagna – una cabaletta: “O miorimorso”. Un uomo qualunque: un qualun-que tenore, privo come forse nessun tenoreverdiano… di ogni e qualsiasi attributo

eroico». E più avanti prosegue con questaconclusione che va al cuore della sostanzadrammatica della Traviata: «Dove non c’èlei Alfredo è un qualunque tenore un po’scolorito, il vecchio Germont un padrenoioso che predica delle banalità piccolo-borghesi. Violetta appare, e Alfredo vibrad’amore, di disprezzo, di disperazione, e ilvecchio genitore diventa un commosso ba-ritono ed un cuore di galantuomo…».La inevitabile conclusione a me pare, anco-ra oggi, quella che proposi molti anni ad-dietro in una mia breve presentazione dalsignificativo titolo: «Come ascoltare oggi laTraviata?» La Traviata è il dramma esclusi-vo di Violetta, vissuto, sofferto, consumatointeramente dalla protagonista. Cioè unmonodramma. In esso i pochi cedimenti sialternano agli slanci superbi, le tiepidezzealle corrusche incandescenze espressive.Quanto all’opera, nella sua totalità, la ge-niale invenzione del I Atto (quasi per inte-ro) tutta la febbrile, incalzante drammati-cità della seconda parte del II Atto (Atto IIInella suddivisione in quattro Atti) e l’intero,grandissimo III Atto (o quarto), possonocontinuare a garantire alla Traviata la posi-zione di opera amatissima, eseguitissima,popolarissima che mantiene da circa un se-colo e mezzo.Siamo giunti all’ultima puntata di un capi-tolo che possiamo definire ultimo di questastoria, soltanto se riferito alle opere da Ver-di scritte per La Fenice. Con Simon Bocca-negra, Verdi prendeva congedo, sotto que-sto aspetto, dal Teatro veneziano. E, pur-troppo, non fu un congedo felice. L’opera,densa, come poche altre di futuro, traguar-do fondamentale della drammaturgia ver-diana, nella fase dell’ultima, grande matu-rità che aveva inizio proprio con essa, nonsarebbe mai riuscita a conseguire, quellacompatta, totale, unità stilistica e poetica,del capolavoro. Neppure quando il compo-sitore la sottopose ad una profonda revisio-ne che presentò al Teatro alla Scala il24.III.1881. Anzi. Fu una revisione in virtùdella quale essa entrò a far parte dei tre piùampi, importanti rifacimenti verdiani, conMacbeth (1847-1865) e Don Carlo (1867-1884). Librettista, ancora una volta, il Piave

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che trasse il soggetto dall’omonimo dram-ma, Simón Bocanegra di Antonio GarcíaGutierrez, l’autore di El Trovador.Il problema di questo formidabile e sempre“incompiuto” torso musicale, si può riassu-mere, schematicamente, come feci inun’ampia analisi dedicata alle due versionianni addietro, nell’insanabile dissidio chevenne a determinarsi, soprattutto sul pianostilistico, fra le due versioni, e che provoca-rono una sorta di “strabismo” espressivo.La versione del ’57 che, in alcune Scene, ar-retrava fino all’Ernani, e la seconda dell’81,tutta proiettata in avanti, con intuizioni chefecero di Simon Boccanegra, come scrisseGuido Pannain, «La prova generale di Otel-lo».Il primo ad accorgersi, come era accadutosempre, dei difetti dell’opera, di quello chein essa non funzionava, fu proprio Verdi.Ma cominciamo dal resoconto della serata.Uno di Verdi, e l’altro, molto diverso, delcronista. All’amica Clarina Maffei, due set-timane dopo che l’opera era andata in sce-na, il 29.III.57, Verdi scriveva: «È stata trat-ta in inganno sui miei ultimi successi. IlBoccanegra ha fatto a Venezia un fiascoquasi altrettanto grande che quello dellaTraviata. Credevo di aver fatto qualche co-sa di possibile, ma pare che mi sia ingan-nato».Il Locatelli, sempre sulla Gazzetta di Vene-zia, invece scriveva: «La musica del Bocca-negra non è di quelle che ti facciano subitocolpo. Ella è assai elaborata condotta colpiù squisito artifizio, e si vuole studiarla ne’suoi particolari. Da ciò nacque che la primasera ella non fu in tutto compresa, e se neprecipitò da alcuni il giudizio; giudizioaspro, nemico, che nella forma, con cui s’èmanifestato, e rispetto ad un uomo chechiamasi Verdi, uno de’ pochi, che rappre-senti di fuori le glorie dell’arte italiana, checompose il Nabucco, i Lombardi e tanti al-tri capolavori, i quali fecero e fanno il girodel mondo, ben poteva parere, per non diraltro, strano e singolare».«Se non che le cose mutarono faccia alla se-conda rappresentazione: le opinioni si modi-ficarono; alcuni pezzi che erano prima inav-vertiti e negletti, si notarono, s’applaudirono,

e il maestro, ben contate, fu domandato perinsino 19 volte sul palco: trionfo tanto piùgrande, quant’egli sorgeva dalla caduta, mache non sorprese nessuno».Tuttavia, qualcosa doveva pur esserci inquesto “tavolo zoppo” che non funzionava.Torniamo all’intelligente cronista: «Ciò chepuò in qualche modo spiegare quella primae sinistra impressione, è il genere dellamusica forse troppo grave e severa, quellatinta lugubre che domina lo spartito, e ilprologo in specie». Il diligente cronista cosìprosegue: «A questo punto, fin dalla primasera fu domandato il maestro, e più voltecomparve alla seconda». E in precedenzaaveva commentato: «Sarebbe difficile nota-re tutt’i pregi, che si riscontrano in questaveramente grandiosa composizione in cuitutti si manifestano il profondo sapere e ilgrande ingegno dell’insigne maestro». Lariflessione fondamentale che Verdi fece, inuna lettera scritta a Giulio Ricordi quandodecise di mettersi al lavoro per la nuovaversione, coincide con alcune delle osser-vazioni del Locatelli: «Lo spartito come si trova non è possibile. Ètroppo triste, troppo desolante. Non biso-gna toccare nulla del primo atto, né dell’ul-tima scena e nemmeno, salvo qualche bat-tuta qua e là, del terzo. Ma bisogna rifaretutto il second’atto, e dargli rilievo e varietàe maggior vita. Musicalmente si potrebbeconservare la cavatina della donna, il duet-to col tenore e l’altro duetto tra padre e fi-glia, quantunque vi siano le cabalette!!(Apriti o terra!). Io però non ho tanto orro-re delle cabalette, e se domani nascesse ungiovane che ne sapesse fare qualcuna delvalore per es. del “Meco tu vieni o misera”(La Straniera di Bellini ndr.) oppure “Ahperché non posso odiarti” (La Sonnambula,sempre di Bellini ndr.) andrei a sentirlacon tanto di cuore, e rinuncerei a tutti gliarzigogoli armonici, a tutte le leziosagginidelle nostre sapienti orchestrazioni. Ah, ilprogresso, la scienza, il verismo… Ahi, ahi!Verista finché volete, ma… Shakespeareera un verista, ma non lo sapeva. Era unverista d’ispirazione; noi siamo veristi perprogetto, per calcolo. Allora tanto fa: siste-ma per sistema, meglio ancora le cabalette.

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Il bello si è che a furia di progresso, l’artetorna indietro. L’arte che manca di sponta-neità, di naturalezza, e di semplicità non èpiù arte».Dopo questo sfogo in cui si può leggere, framille contraddizione anche con se stesso,una parte della sua poetica, Verdi riprendel’argomento che gli sta a cuore: «Torniamoal second’atto. Chi potrebbe rifarlo? Cosa sipotrebbe trovare? Ho detto in principio chebisogna trovare in quest’atto qualche cosache doni varietà e un po’ di brio al tropponero del dramma. Come?… Per es.: metterein scena una caccia? non sarebbe teatrale. –Una festa? troppo comune –. Una lotta coiCorsari d’Africa? sarebbe poco divertente. –Preparativi di guerra o con Pisa o con Vene-zia?».«A questo proposito mi sovviene di due stu-pende lettere di Petrarca, una scritta al Do-ge Boccanegra, l’altra al Doge di Veneziadicendo loro che stavano per intraprendereuna lotta fratricida, chè entrambi erano fi-gli d’una stessa madre: l’Italia, ecc., ecc. Su-blime questo sentimento d’una patria ita-liana in quell’epoca! Tutto ciò è politico,non drammatico; ma un uomo d’ingegnopotrebbe ben drammatizzare questo fatto.Per es.: Boccanegra, colpito da questo pen-siero, vorrebbe seguire il consiglio del Poe-ta: convoca il Senato od un Consiglio priva-to ed espone loro la lettera ed il suo senti-mento. Orrore in tutti, declamazioni, ire, fi-no ad accusare il Doge di tradimento, ecc.,ecc. La lite viene interrotta dal rapimentod’Amelia… Dico per dire. Del resto se tro-vate il modo di aggiustare e di appianaretutte le difficoltà che vi ho esposto, io sonopronto a rifare quest’atto. Pensateci e ri-spondetemi».Quell’uomo d’ingegno di cui scriveva a Ri-cordi, Verdi lo avrebbe trovato in ArrigoBoito, ma con i successivi interventi, ora-mai è accertato, di Giuseppe Montanelli,poeta e patriota. E quella Scena sarebberiuscita una delle più grandi di tutto il suoteatro. Rimarrebbe da scoprire, o da sapere,in qual modo l’illetteratissimo compositore,sia venuto a conoscenza, (o chi, eventual-mente, possa avergliele indicate) di quelledue lettere, scritte dal Petrarca in latino, e

che appartengono al gruppo delle Letterefamiliari (Rerum familiarum). Ma le vicen-de molto complesse di questa revisione nonappartengono, come sappiamo, alla storiadei rapporti di Verdi con La Fenice. Ci sonoinvece, e importanti, quelle relative allaprima versione, mi riferisco ai personaggiprincipali, già nella edizione veneziana,ben definiti e caratterizzati. La figura delprotagonista riassume due sentimenti, ostati d’animo, molto importanti, nella poeti-ca verdiana, quali l’amor di patria e l’affettopaterno. Fiesco rappresenta quella tetraggi-ne, quella tristezza alla quale si riferiva an-che Verdi, nella citata lettera a Ricordi. Lasua fierezza, la sua nobiltà d’animo, sonofrustrate dalla ossessiva costanza con laquale persegue i suoi propositi di vendetta.Appartiene, cioè, a quel modello di perso-naggio verdiano che, proprio per queste ra-gioni, finisce col diventare antipatico, e chetrova il suo archetipo nel personaggio di Sil-va dell’Ernani. Infine, Paolo, figura di gran-de rilievo psicologico, aurorale anticipazio-ne di quello che sarebbe stato Jago nell’O-tello.Musicalmente poi, anche nella prima ver-sione, Simon Boccanegra contiene nume-rose pagine di sicura bellezza musicale. In-fine, si può concludere che, nonostante lamancata unità poetica, l’opera appartieneal Verdi della grande maturità. Congedopiù felice non poteva darsi dal grande Tea-tro veneziano.Ma di quello che l’autore aveva definito unfiasco, in Verdi rimase un tenace, rancoro-so ricordo. E quando la Presidenza del Tea-tro La Fenice lo invitò a comporre una se-sta opera, Verdi rispose con questa brevelettera, nella quale, al di là di una formalecortesia, tradisce il risentimento di un tortopatito, esposto con ironico distacco: «Ill. Si-gnor Presidente. Busseto 17 maggio 1858.Soltanto da pochi giorni ho ricevuto lapreg.ma sua lettera in cui mi invita a scri-vere ancora un’opera per quel massimoteatro. Sarebbe la sesta volta. Credo sia me-glio per me di lasciare quest’onore ad altropiù fortunato, e che sia più di me capace ameritare l’approvazione del pubblico dellaFenice. Ciò però non mi toglierà il piacere

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di stringerle la mano quando io venga a Ve-nezia per nuovamente ammirare le mera-vigliose bellezze di quella magnifica città».«Ho l’onore di dirmi con la più profonda sti-ma dev.serv. Verdi».Con questa lettera si chiudeva definitiva-mente il capitolo del rapporto di Verdi conLa Fenice, nel significato che ho voluto da-re a questa ricostruzione. Aveva inizio, omeglio, proseguiva, l’altro, quello che pote-va conoscere una sola conclusione: la con-tinuità. Una continuità della quale, proprioin occasione del centenario della morte delMaestro, La Fenice offre una delle provepiù felici, rappresentando entrambe le ver-sioni dell’opera con la quale Verdi avevapreso congedo dal Teatro veneziano.

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Giuseppe Verdi.

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ISAAC KARABTCHEVSKY

Brasiliano di genitori russi, Isaac Karabt-chevsky ha compiuto gli studi di direzioned’orchestra e composizione in Germaniaperfezionandosi con Wolfgang Fortner,Pierre Boulez e Carl Ueter. Attualmente èDirettore Musicale del Teatro La Fenicedove dal 1995 è anche Direttore Principale.Dal 1981 al giugno 2000 è stato DirettoreArtistico del Teatro Municipal di San Paolo.In entrambi i teatri è costantemente impe-gnato sia nella direzione di opere liricheche nelle stagioni sinfoniche. Inoltre, dal1988 al 1994, Karabtchevsky è stato Diret-tore Artistico della NiederosterreichischerTonkunstlerorchester di Vienna, con laquale ha compiuto numerose tournée in-ternazionali. Per questa sua importante at-tività è stato insignito dell’Alta Onorificen-za del governo Austriaco per meriti cultu-rali, riconoscimento assegnato per la primavolta ad un artista brasiliano. Gli impegnidi direttore lo hanno portato alla Staatsopere alla Volksoper di Vienna dove ha ottenutoun particolare successo con Una tragediafiorentina, Il compleanno dell’infanta diZemlinsky, L’affare Makropulos diJanácŠek, Carmen e Il barbiere di Siviglia.Ha inoltre diretto al Musikverein di Vienna,al Concertgebouw di Amsterdam, al RoyalFestival di Londra, alla Salle Pleyel di Pari-gi, al Kennedy Center di Washington, allaCarnegie Hall di New York, alla Staatsoperdi Vienna, alla Staatsorchester di Hanno-ver, al Teatro Comunale di Bologna, all’Ac-cademia Nazionale di Santa Cecilia, al Tea-tro Massimo di Palermo, al Teatro Real diMadrid, alla RAI di Torino, al Teatro Colondi Buenos Aires, alla Deutsche Oper amRhein Düsseldorf. Alla Fenice è stato prota-

gonista di importanti allestimenti qualiErwartung, Il castello del principe Barba-blù, L’olandese volante, Don Giovanni, Fal-staff, Carmen, Fidelio, Aida, Re Teodoro inVenezia di Giovanni Paisiello, Sansone eDalila, Un ballo in maschera, Sadkò diRimskij-Korsakov, Billy Budd nonché inmolti concerti sinfonici. Nel febbraio 1999ha diretto all’Opera House di Washington ilBoris Godunov con Samuel Ramey; il criti-co Tim Page del Washington Post ha giudi-cato questa esecuzione come uno dei duemigliori spettacoli della stagione. L’attivitàconcertistica lo ha portato a dirigere le piùprestigiose orchestre internazionali colla-borando con solisti quali Isaac Stern, Mti-slav Rostropovic, Martha Argerich, ClaudioArrau, Gidon Kremer, Eva Marton, MariaGuleghina. Le principali interpretazioni diKarabtchevsky alla Fenice sono state editein CD da «Mondo Musica» di Monaco di Ba-viera, la casa discografica del teatro vene-ziano. Sergio Segalini, direttore di «Operainternational», ha indicato il suo Fidelio co-me un punto di riferimento tra le ultimeproduzioni dell’opera beethoveniana.

ANGELA M. BROWN

È un’artista eclettica, dedita all’opera, allesong, al gospel ed al teatro. Ha debuttatonel 1992 in 1600 Pennsylvania Avenue diLeonard Bernstein. Ama interpretare i ruo-li di Aida, Serena (Porgy and Bess), Arian-na, Tosca, Amelia (Ballo in maschera) –impersonata anche al PalaFenice nel 1999per la direzione di Karabtchevsky – e pari-menti impegnarsi nel repertorio sinfonico-vocale (Beethoven, Mendelssohn, Verdi eBrahms). Quest’anno si è esibita per l’In-dianapolis Opera, la San Antonio

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BIOGRAFIEa cura di PIERANGELO CONTE

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Symphony, l’Opera Company di Phila-delphia. Si è perfezionata all’Oakwood Col-lege e successivamente all’Indiana Univer-sity School of Music, dove ha studiato conVirginia Zeani.

TATIANA GORBUNOVA

Solista nella compagnia del Teatro dell’O-pera e di Balletto di Novosibirsk fin dal1992, Tatiana Gorbunova ha interpretato leprincipali opere russe (ChovansŠcŠina, Bo-ris Godunov, La dama di picche) senza tra-lasciare di confrontarsi con lavori di reper-torio (Il trovatore, Aida, Sansone e Dalila).Nel 1992 ha preso parte alla tournée del suoteatro, esibendosi nel Principe Igor ed inBoris Godunov, nel 1999 ha cantato allaScala il ruolo di Ljubov in Mazeppa diCŠajkovskij sotto la direzione di MstislavRostropovicŠ e per la regia Lev Dodin; que-st’anno ha preso parte alla produzione diSadkò di Rimskij-Korsakov al PalaFenice.

FABIO SARTORI

Tra i più promettenti giovani tenori liriciitaliani, Fabio Sartori ha mosso i primi pas-si in Fenice debuttando nel 1993 in Mosè,nel 1994 in Tristano e Isotta, nel 1995 inBohème. Successivamente ha cantato a Bo-logna la Petite Messe Solemnelle per la di-rezione di Leone Magiera e la parte diPercy nell’Anna Bolena, ha debuttato alRossini Opera Festival nell’Occasione fa illadro, ha impersonato Pinkerton al Comu-nale di Firenze ed al Verdi di Trieste, Carlonella Linda di Chamounix al Comunale diBologna ed Edgardo nella Lucia di Lam-mermoor alla Fenice di Venezia. Nella sta-gione 1997-1998 ha lavorato con RiccardoMuti alla Scala per il Macbeth inaugurale

(Macduff) e per la Messa da Requiem diVerdi, con Daniele Gatti al Comunale diBologna nel Simon Boccanegra e conEliahu Inbal nel Don Carlo; al PalaFeniceha cantato il ruolo del titolo nel Werther diMassenet. Recentemente ha collaboratocon Oren per Lucia di Lammermoor, conCallegari per Oberto, conte di San Bonifa-cio, con Abbado per Simon Boccanegra.

JULIAN KOSTANTINOV

Le sue prime esperienze teatrali lo vedonoesibirsi nel Barbiere di Siviglia a Sofia enella Bohème a Buenos Aires e a Rio de Ja-neiro. Ha intrapreso quindi una carriera in-ternazionale che lo ha visto cantare a Va-lencia e a Madrid nella Messa da Requiemdi Verdi, a Bregenz (diretto da Fedoseyev) ea Vienna, al Covent Garden e alla CarnegieHall nei Masnadieri, nella Forza del desti-no al Festival di Savolinna e nel PrincipeIgor al Festival di Santander. Recentemen-te ha collaborato con Abbado e i BerlinerPhilharmoniker per Simon Boccanegra (inseguito presentato anche a Salisburgo), conla New Israeli Opera, con la HoustonSymphony per la Messa da Requiem di Ver-di.

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CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE

presidente Paolo Costa

consiglieri: Giorgio Brunetti, vicepresidente

Giorgio Pressburger

Pietro Marzotto

Angelo Montanaro

,,sovrintendente Mario Messinis, sovrintendente

segretario Tito Menegazzo segretario

COLLEGIO REVISORI DEI CONTI

presidente Angelo Di Mico

Adriano Olivetti

Maurizia Zuanich Fischer

FONDAZIONE TEATRO LA FENICE DI VENEZIA

, sovrintendente Mario Messinis, sovrintendente

, direttore artisticoPaolo Pinamonti, direttore artistico

, direttore musicaleIsaac Karabtchevsky, direttore musicale

, primo direttore ospiteJeffrey Tate, primo direttore ospite

SOCIETÀ DI REVISIONE

PricewaterhouseCoopers S.p.A.

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segretario generaleTito Menegazzo

direttore del personalePaolo Libettoni

direttore dell’organizzazione scenica e tecnicaGiuseppe Morassi

segretario artisticoSandra Pirruccio

capo ufficio stampa e relazioni esterneCristiano Chiarot

fotocomposizione e scansioni immagini Texto - Venezia

stampa Grafiche Zoppelli - Dosson di Casier (TV)

Supplemento a: LLAA FFEENNIICCEENotiziario di informazione musicale e avvenimenti culturali della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia

dir. resp. C. CHIAROT, aut. Trib. di Ve 10.4.1997, iscr. n. 1257, R. G. stampa

finito di stampare nel mese di dicembre 2000

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AREA ARTISTICA

ORCHESTRA DEL TEATRO LA FENICE

ISAAC KARABTCHEVSKYdirettore principale

JEFFREY TATEprimo direttore ospite

MAESTRI COLLABORATORI

direttore musicale di palcoscenico maestri di sala maestri di palcoscenicoGiuseppe Marotta* Stefano Gibellato * Silvano Zabeo*

Roberta Ferrari ◆ Ilaria Maccacaro ◆Maria Cristina Vavolo

maestro suggeritore maestro alle luciPierpaolo Gastaldello ◆ Gabriella Zen*

Violini primiRoberto Baraldi •Mariana Stefan •Giselle CurtoloNicholas Myall Mauro ChiricoAndrea Crosara Pierluigi CrisafulliLoris CristofoliGiselle CurtoloRoberto Dall’IgnaMarcello FioriElisabetta MerloSara MichielettoAnnamaria PellegrinoPierluigi PuleseDaniela SantiAnna TosittiAnna TrentinMaria Grazia Zohar

Violini secondiAlessandro Molin •Gianaldo Tatone •Luciano CrispilliAlessio Dei RossiEnrico EnrichiMaurizio FagottoEmanuele FraschiniMaddalena MainLuca MinardiMania NinovaMarco PaladinRossella SavelliAldo TelescaJohanna VerheijenRoberto Zampieron

VioleAlfredo Zamarra •Elena BattistellaAntonio BernardiOttone CadamuroRony CreterAnna MencarelliPaolo Pasoli Stefano PioKatalin SzaboMaurizio TrevisinRoberto VolpatoElia Vigolo • ◆

VioloncelliLuca Pincini •Alessandro Zanardi •Marco Dalsass • ◆

Nicola BoscaroBruno FrizzarinPaolo MencarelliMauro RoveriRenato ScapinMarco TrentinMaria Elisabetta VolpiF. Dimitrova Ivanova ◆Carlo Teodoro ◆

ContrabbassiMatteo Liuzzi • Stefano Pratissoli •Ennio Dalla RiccaGiulio ParenzanMarco PetruzziAlessandro PinDenis Pozzan ◆

FlautiAngelo Moretti •Andrea Romani •Luca Clementi

OttavinoFranco Massaglia

Oboi Rossana Calvi •Marco Gironi •Walter De FranceschiKatia Curcio ◆

Corno ingleseRenato Nason

Clarinetti Alessandro Fantini •Vincenzo Paci •Federico Ranzato

Clarinetto bassoRenzo Bello

Fagotti Roberto Giaccaglia •Dario Marchi •Roberto FardinMassimo Nalesso

ControfagottoFabio Grandesso

CorniKonstantin Becker •Andrea Corsini •Adelia Colombo Stefano FabrisGuido FugaLoris Antiga ◆

TrombeFabiano Cudiz •Fabiano Maniero •Paolo Fazio • ◆Mirko BelluccoGianfranco BusettoMassimiliano Oldrati ◆Enrico Roccato ◆Eleonora Zanella ◆

Tromboni Giovanni Caratti •Massimo La Rosa •Federico GaratoClaudio Magnanini

TubaAlessandro Ballarin

TimpaniRoberto Pasqualato •

PercussioniAttilio De FantiGottardo Paganin

ArpeBrunilde Bonelli • ◆

Pianoforti e tastiereCarlo Rebeschini •

• prime parti◆ a termine* collaborazione

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CORO DEL TEATRO LA FENICE

GIOVANNI ANDREOLIdirettore del Coro

Alberto Malazzialtro maestro del Coro

SopraniNicoletta AndelieroCristina BastonLorena BelliPiera Ida BoanoEgidia BonioloLucia BragaMercedes CerratoEmanuela Conti Anna Dal FabbroMilena ErmacoraSusanna GrossiMichiko HayashiMaria Antonietta LagoEnrica LocascioLoriana MarinAntonella MeriddaAlessia Pavan Andrea Lia Rigotti Ester SalaroRossana SonzognoElisa Savino ◆

AltiValeria Arrivo Mafalda CastaldoMarta Codognola Chiara Dal Bo Elisabetta GianeseVittoria GottardiKirsten Löell LoneManuela Marchetto Misuzu OzawaGabriella PellosPaola RossiOrietta Posocco ◆Cecilia Tempesta ◆Laura Zecchetti ◆Francesca Poropat ◆

TenoriFerruccio BaseiSergio BoschiniSalvatore BufalettiCosimo D’Adamo Luca FavaronGionata MartonEnrico MasieroStefano MeggiolaroRoberto Menegazzo Ciro PassilongoMarco Rumori Salvatore ScribanoPaolo VenturaBernardino Zanetti Domenico Altobelli ◆Roberto De Biasio ◆Giovanni Gregnanin ◆Dario Meneghetti ◆Luigi Podda ◆Marco Spanu ◆

BassiGiuseppe AccollaCarlo AgostiniGiampaolo BaldinJulio Cesar BertolloRoberto BrunaAntonio CasagrandeA. Simone DovigoSalvatore GiacaloneAlessandro GiaconMassimiliano LivaNicola NalessoEmanuele PedriniMauro Rui Roberto SpanòClaudio ZancopèFranco ZanettePaolo Bergo ◆

◆ a termine

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AREA TECNICO-AMMINISTRATIVA

direttore di palcoscenico responsabile allestimenti sceniciPaolo Cucchi Massimo Checchetto ◆

capo reparto elettricisti capo reparto macchinisti capo reparto attrezzistiVilmo Furian Valter Marcanzin Roberto Fiori

capo reparto sartoria responsabile falegnameriaMaria Tramarollo Adamo Padovan

responsabile tecnico responsabile archivio musicale responsabile ufficio economatoVincenzo Stupazzoni ◆ Gianluca Borgonovi Adriano Franceschini

responsabile ufficio segreteria artistica responsabile ufficio promozine e decentramentoVera Paulini Domenico Cardone

responsabile ufficio produzione responsabile ufficio ragioneria responsabile ufficio personaleLucia Cecchelin e contabilità Lucio Gaiani

Andrea Carollo

MacchinistiBruno BelliniVitaliano BonicelliRoberto CordellaAntonio CovattaDario De Bernardin Paolo De Marchi Luciano Del ZottoBruno D’EsteRoberto GalloSergio GaspariMichele GaspariniGiorgio HeinzRoberto MazzonAndrea MuzzatiPasquale PaulonRoberto RizzoStefano RosanPaolo RossoFrancesco ScarpaMassimo SenisFederico TenderiniEnzo VianelloMario VisentinFabio Volpe

ManutenzioneUmberto BarbaroGiancarlo Marton

ElettricistiFabio BarettinAlessandro BallarinAlberto BellemoAndrea BenetelloMichele BenetelloMarco CovelliCristiano FaèStefano FaggianEuro MichelazziRoberto NardoMaurizio NavaPaolo PadoanCostantino PederodaMarino PeriniTeodoro ValleGiancarlo VianelloMassimo VianelloRoberto VianelloMarco ZenGiuseppe Bottega ◆

SarteBernadette BaudhuinEmma BevilacquaAnnamaria CanutoRosalba FilieriElsa FratiLuigina MonaldiniSandra TagliapietraTebe Amici ◆

AttrezzistiSara BrescianiMarino CavaldoroDiego Del PuppoSalvatore De VeroNicola ZennaroOscar GabbanotoVittorio Garbin

ScenografiaGiorgio NordioMarcello Valonta

Addetti orchestra e coroSalvatore GuarinoAndrea RampinCristiano Beda

Servizi AusiliariStefano CallegaroGianni MejatoGilberto PaggiaroThomas SilvestriRoberto Urdich

BiglietteriaRossana BertiNadia BuosoLorenza Pianon

ImpiegatiGianni BacciSimonetta BonatoElisabetta BottoniGiovanna CasarinGiuseppina CenedeseAntonella D’EsteAlfredo IazzoniStefano LanziRenata MaglioccoSantino MalandraLuisa MeneghettiAnna Migliavacca ◆Fernanda MilanBarbara Montagner ◆Elisabetta NavarbiGiovanni PilonFrancesca PiviottiCristina RubiniSusanna SacchettoDaniela SeraoGianfranco SozzaAlessandra Toffolutti ◆

Francesca TondelliAnna Trabuio ◆Barbara Terruzzin ◆

◆ a termine