Mescolando il riso alle lacrime - DeriveApprodi€¦ · orme, parlava ancora. Nella stanza della...

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Il libraio stava quasi sempre chiuso nella sua stanza quadrata della torretta. Là traffi- cava con montagne di libri e carte polverose. C’erano autori a me totalmente sconosciuti come Giovanni Papini e Rosso di San Secondo, romanzi di Gabriele D’Annunzio e libri per ragazzi de La Scala d’Oro. Là erano ammucchiati anche giornali, riviste, volantini, pubblicazioni degli anni Settanta, un sterminata quantità di titoli e di edizioni, durate forse qualche mese o anno, estemporanei «fiori di Gutenberg» come li chiamava lui. Alla raccolta e schedatura del materiale, il libraio dedicava molta cura, come fosse una cosa viva. E lo era, diceva, perché la vicenda politica di quegli anni, in quelle orme, parlava ancora. Nella stanza della torre poteva ascoltare le voci gridare alle ma- nifestazioni, alle assemblee, alle riunioni. Sentiva le canzoni, quasi vedeva le figure affannarsi, discutere o litigare. No, non è nostalgia – diceva – anche se talvolta scorgevo un’ombra nei suoi occhi. È storia, la storia di una generazione, ha rappresentato un passaggio, un segnatempo che, nel nostro Paese, ha cambiato le scadenze delle ore. Oggi nessuno dà valore a quegli anni: si nutre inconsapevolmente dei frutti che quella stagione ha regalato, ma la liquida in fretta, come fosse un vergognoso amore. Rintraccio segni, raccolgo parole – diceva il libraio – prima che i fiori di Gutenberg secchino e vengano messi sotto vetro. Forse sono ancora in tempo. Il passato si in- carna nelle nostre vite, oggi. E solo chi l’ha vissuto può trasmetterne il tesoro. Ida Faré, Malamore, 1988 Mescolando il riso alle lacrime In onore e memoria di Primo Moroni Sergio Bianchi Primo Moroni al torchio a 12 anni. Milano 1948. Fabbrica OM di via Toscana

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Il libraio stava quasi sempre chiuso nella sua stanza quadrata della torretta. Là traffi-cava con montagne di libri e carte polverose. C’erano autori a me totalmente sconosciuticome Giovanni Papini e Rosso di San Secondo, romanzi di Gabriele D’Annunzio e libriper ragazzi de La Scala d’Oro. Là erano ammucchiati anche giornali, riviste, volantini,pubblicazioni degli anni Settanta, un sterminata quantità di titoli e di edizioni, durateforse qualche mese o anno, estemporanei «fiori di Gutenberg» come li chiamava lui.Alla raccolta e schedatura del materiale, il libraio dedicava molta cura, come fosse

una cosa viva. E lo era, diceva, perché la vicenda politica di quegli anni, in quelleorme, parlava ancora. Nella stanza della torre poteva ascoltare le voci gridare alle ma-nifestazioni, alle assemblee, alle riunioni. Sentiva le canzoni, quasi vedeva le figureaffannarsi, discutere o litigare.No, non è nostalgia – diceva – anche se talvolta scorgevo un’ombra nei suoi occhi.

È storia, la storia di una generazione, ha rappresentato un passaggio, un segnatempoche, nel nostro Paese, ha cambiato le scadenze delle ore. Oggi nessuno dà valore aquegli anni: si nutre inconsapevolmente dei frutti che quella stagione ha regalato, mala liquida in fretta, come fosse un vergognoso amore.Rintraccio segni, raccolgo parole – diceva il libraio – prima che i fiori di Gutenberg

secchino e vengano messi sotto vetro. Forse sono ancora in tempo. Il passato si in-carna nelle nostre vite, oggi. E solo chi l’ha vissuto può trasmetterne il tesoro.

Ida Faré, Malamore, 1988

Mescolando il riso alle lacrime

In onore e memoria di Primo Moroni

Sergio Bianchi

Primo Moroni al torchio a 12 anni. Milano 1948. Fabbrica OM di via Toscana

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Primo è stato un archivista d’eccezione dei più variegati materiali prodottidal movimento rivoluzionario italiano e internazionale. Ma la più grande ar-chiviazione che aveva saputo produrre risiedeva tutta nella sua testa, e nonha avuto modo o voglia o tempo di tradurla su un qualche supporto riprodu-cibile. Primo era il più ricco archivio storico umano ambulante che il movi-mento disponesse. La sua capacità narrativa orale era stupefacente eindefinibile, poiché sapeva con disinvoltura e divertimento intrecciare nessitra tutte le discipline dei saperi. Ascoltare i suoi racconti era come assistere auna conferenza univeritaria e vedere nel contempo un film d’avventura. Pro-fondo conoscitore dei linguaggi, dai più specialistici ai più gergali, sapeva co-lorare le sue narrazioni dei toni adatti agli ascoltatori che si trovava di fronte,fossero auditori consapevoli od occasionali. Affascinante affabulatore sapevacatturare l’attenzione, governarla e riempirla di senso.

Primo ha attraversato l’Italia e parte dell’Europa raccontando l’accumulo deisuoi saperi. Per lui era indifferente che l’ambiente fosse la più autorevole sedeistituzionale o il più scalcinato seminterrato di periferia; che l’interlocutorefosse il più impettito funzionario statale piuttosto che il più marginale soggettosociale metropolitano o provinciale. La passione del raccontare rimaneva la me-desima. Per lui, sapiente conoscitore delle soggettività, occorreva solo modu-lare, secondo le circostanze del caso, l’infinito repertorio del linguaggio adatto ainterloquire nella situazione data, situazione che era in grado di percepire istin-tivamente con la velocità di un gatto. Il messaggio comunque rimaneva semprelo stesso: la miseria quotidiana impone la necessità di una sovversione, ma lasua effettualità è possibile solo alla condizione del partire da sé.

Nel suo operare narrativo Primo aveva una metodologia che spesso amavaricordare a chi presumeva di potersi mettere sul suo stesso terreno di pratica.Ed era un percorso severo e impervio. Occorre innazitutto affinare la dotedella sensibilità, della predisposizione all’ascolto, capire realmente chi è ilsoggetto che ti parla e con cui parli, capire ciò che travalica la sua rappresen-tazione linguistica, ma di questa comunque farne strumento di prima presacomunicativa, essere capaci quindi di scendere sul suo terreno linguisticocome presupposto dell’indagine. Già in questa condizione preliminare Primoindicava un percorso di scienza. Lo stesso che aveva ereditato dalla confi-denza con i più grandi maestri italiani della conricerca orale.

Ma l’indagine sui soggetti reali va coniugata con l’indagine sui livelli piùalti che esprime la progettualità del comando capitalistico. Da qui le ragionidella sua internità a progetti di ricerca sociale commissionati da ambiti istitu-zionali e governativi. E la sua battaglia affinché gli esiti di quelle ricerche fos-sero messi a disposizione di tutti gli ambiti di movimento che lirichiedessero.

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Primo, inoltre, è stato protagonista della fondazione e della conduzione di«Primo Maggio», la rivista di storia «dell’altro movimento operaio» più pre-stigiosa degli anni Settanta, ideata e diretta da Sergio Bologna, la persona chePrimo ha sempre preso a suo riferimento teorico principale stimandonel’acutezza d’analisi coniugata a un singolare rigore espositivo.

secondo me disse il libraio dovrebbe essere lei che determina la rottura perché lei hala coscienza della situazione in cui si trova il loro rapporto mentre lui sente solo un di-sagio che non si preoccupa tanto di approfondire per me allora è stato il contrario ioinvece in quel periodo ho fatto una famiglia ho fatto una figlia con quella ragazza concui ero andato quella volta a trovare l’editore e ho fatto la libreria proprio in quell’annol’ho fatto perché allora c’era una necessità che si sentiva anch’io sentivo che quellafase lì il ’68 la contestazione l’autunno caldo era finita era stata una fase esaltanteavevi capito tante cose però quello che facevi non era più sufficiente sentivi che oc-correva costruire qualcosa di nuovo nei luoghi in cui ti trovavi a operare o altrimentiuscire da quel luogo e inventarne un altroe questo in un certo senso è quello che ha fatto anche l’editore perché anche lui

sentiva questa necessità che è diventata chiara per tutti in quel periodo di questo pas-saggio dalla teoria alla prassi come sperimentazione nel quotidiano e che da lì in poinon era più possibile la doppia funzione per esempio conciliare li lavorare in un gior-nale borghese e stare nel movimento adesso tu dovevi mettere in discussione diretta-mente il tuo ruolo e proprio nell’ambito del lavoro che sapevi fare costruiredirettamente quotidianamente la possibilità di sperimentare la rivoluzione oggi qui dasubito e con gli strumenti che tu avevise fai l’insegnante metterai in discussione il tuo libro di testo come facevano allora

gli insegnanti che avevano fatto un centro di documentazione che faceva capo alla li-breria e che volevano abolire tutta la cutura borghese fin dalla scuola materna se fai ilprofessore all’Università farai dei seminari sui Grundisse come facevi tu e se lavori neilibri inventi una libreria magari un circuito di diffusione come struttura di servizio delmovimento queste cose bisognava fare e si facevano allora ma questo forse quella cop-pia non l’ha capito o almeno non l’hanno capito insieme l’hanno capito forse con tempidiversi ma dovreste essere voi a dircelo a dirci insomma perché allora vi siete lasciati.

Nanni Balestrini, L’editore, 1989

Primo è stato uomo felice perché ha capito che prerequisito della felicità è lalibertà dell’autederminazione esistenziale, che lì sta l’elemento fondativo, co-stitutivo del soggetto sovversivo. « … esci dagli anni Cinquanta, hai parteci-pato all’attività del grande partito operaio, ne sei uscito con una serie dicasini, sei in qualche modo acculturato, allora che fai: vai nelle case editrici,grande serbatoio dove passano tutti per qualche mese o anno. Ho fatto que-

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sto lavoro mentre c’era l’aria stagnante del centrosinistra fino a quando nonarrivò il Sessantotto con la presa di coscienza, la scoperta di metodi nuovi difar politica, per cui sei un dirigente alle vendite ma non te ne frega più uncazzo. Molli tutto».

Non ci si affranca dall’infelicità abbracciando un’ideologia, sia essa anchela più radicale, vissuta separatamente dal comportamento minuto quoti-diano. Da qui la grande curiosità, attenzione e cura di Primo per il vissutoconcreto degli individui e per le contraddizioni e le crisi del loro relazionarsiproduttivo, creativo e affettivo. Da qui la sua capacità, per esempio, di dedi-care notti intere all’ascolto, e alla discussione sui dettagli della crisi di un rap-porto di coppia da parte di un ragazzo o una ragazza magari conosciuti dapoche ore.

Nella sua indagine sulla soggettività Primo usava una scrupolosa atten-zione a tutto ciò che anche in forma microscopica o addirittura inconscia ri-levava nella coscienza il lento farsi e manifestarsi di un processo prepolitico.Su questo terreno metodologico molto aveva attinto dalla collaborazione nelcorso degli anni Settanta con Elvio Fachinelli e il circuito culturale della rivi-sta «L’erba voglio». L’esplosione dei movimenti politici è sempre precedutadalla lenta incubazione e metabolizzazione da parte dei soggetti degli ele-menti materiali di una trasformazione sociale in atto che ha come sboccol’espressione di una rivolta esistenziale. In assenza di queste condizioni unmovimento politico può autodefinirsi rivoluzionario, ma non lo potrà mai es-sere concretamente proprio perché difetta dell’essenza rivoluzionaria che èpercorso di coscienza indissolubilmente intrecciato alle rotture del vissutomateriale degli individui. Per questo tra i libri più amati e suggeriti di Primospicca Militanti politici di base di Danilo Montaldi.

Il discorso del libraioQuelle carte, quelle lettere, quei giorni e quei pensieri sono nel ricordo le cose più

care che ho. Per questo non le porterò con me, non devono più restare nel mio cuore.Fanno parte della storia, delle mille storie disseminate dallo spirito del tempo. Sevuoi, lo raccolgono e ne distillano l’essenza più propria, come solo la materia d’amorepuò fare. Ma è una cosa fragile, non si può trattenere, va lasciata andare nell’aria,come un sospiro. A raggiungere semmai qualcuno che, come te, ha voglia di scriverla. Per la curiosità che vedo nei tuoi occhi e per la fine del romanzo posso dirti che,

dopo quella mattina quando lei, la mia donna, se ne è andata con la valigia, io nonl’ho più vista.Dopo poco tempo ho lasciato anch’io la “donna ombra” e la casa al quarto piano sul-

l’Alzaio Naviglio Grande. Non riuscivo a entrare nella stanza da lavoro, senza vedere leidavanti a me, seduta a correggere i compiti di matematica. Non riuscivo a entrare in

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cucina senza che lei fosse accanto a me a preparare la pasta aglio olio e peperoncino.Se ne era andata, ma da lì non se ne voleva andare. Era sempre vicina a me, anche

nei momenti meno opportuni.Subito dopo sono arrivati gli anni difficili, gli “anni del silenzio”, e hanno riempito

la casa di non so quali e quante storie disastrose. I compagni un po’ spariti, un po’ ingalera, qualcuno nel confuso oblio dell’eroina. La tensione a trasformare il mondo si èrinchiusa, adagio. Il grande si è spento nel piccolo, nelle piccole cose, un giorno dopol’altro. Abbiamo rimesso le serrature intorno ai nostri pensieri, ai nostri interessi per-sonali, privati dei sogni.Anch’io ho raccolto ciò che mi era caro e l’ho portato qui, in questa casa, trasformata

ormai in un monastero, una fortezza di parole, scritte e per sempre riscritte, nel ricordo.Così è nata la mia passione al racconto delle mille storie e sono diventato un buon

narratore, come dici tu. Ho scritto e continuato a lavorare. Sono diventato un libraio,un testimone del tempo, un archivio vivente. Nella mente e sulla carta ho registratoragioni e sragioni politiche, cicli e rivoluzioni economiche, percorsi individuali e col-lettivi, del nostro e di altri Paesi. Ho raccontato tutto il bene e il male che ho vistoscorrere sotto i miei occhi.Di me non ho scritto mai, né mai sono riuscito a parlare di quell’amore né di quel

dolore. Se potessi, come non posso farlo ora, ti direi che avere cura dell’amore è unadifficilissima arte, un delicato disegno che né io né lei abbiamo saputo comporre.La fretta di lasciare tutto dietro le spalle, di rompere limiti e andare al di là dei

confini, ha determinato uno scarto tra il tempo del desiderio e la tartaruga delle cose,che vanno secondo imprevisti sentieri.Non abbiamo avuto il tempo di seguire il divenire lento e veloce delle cose d’amore,

distinguere ciò che muta e ciò che permane, indissolubile, nel cuore di un uomo e diuna donna. La fantasia si esercitava nell’invenzione del futuro e non sapeva applicarsial presente, avere cura, custodire e riconoscere il viso, lo sguardo, i gesti, l’unicità delcorpo d’amore. Così non sapevamo di vivere ciò che vivevamo e i nostri “momenti di essere” non

comunicavano con la mente.Così non sapevamo di sapere ciò che il nostro corpo diceva. Perchè lei è ancora, per me, tutto ciò che conosco dell’amore.

Ida Faré, Malamore, 1988

Fuoriuscito dal Partito comunista nel 1963, dopo una militanza che datavadal 1952, Primo non ha mai appartenuto ad alcuna organizzazione politicadel movimento, mentre con tutte ha saputo intrattenere rapporti, soprattuttosul piano culturale ed editoriale. Le aree teoriche a cui si riferiva erano prin-cipalmente quelle di derivazione operaista, anarchica e situazionista. A par-tire dalla metà degli anni Ottanta ha riservato inoltre una particolare

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attenzione alla produzione teorica cyberpunk, grazie al rapporto fraterno equotidiano, di cui andava fierissimo, con i soggetti che hanno animato la rivi-sta «Decoder» prima e la casa editrice Shake poi.

La sua disponibilità al lavoro di servizio e consulenza culturale di qualsiasitipo, per singoli o collettivi di movimento, è difficilmente comparabile.Primo apparteneva innanzitutto a se stesso e poi, indistintamente, a tutti co-loro con cui decideva di intrattenere un rapporto. Proprio questa sua infinitagenerosità, questo suo donarsi a tutti, rende impossibile un’appropriazionedella sua memoria da parte di qualcuno in specifico. Come è per l’aria, la me-moria di Primo appartiene a tutti coloro che l’hanno respirata. E tra quei tuttinon c’è nessuno che possa dire di non essere rimasto segnato da quel rap-porto, fosse stato il più fugace.

va bene adesso andiamo a fare due passi dice lui passiamo il ponte e poi scendiamo giùfino al torrente vi voglio fare vedere dove era il vecchio mulino lei è contenta di buonu-more gli prende il braccio ridendo mentre scendono giù per il sentiero ripido verso il tor-rente incassato giù tra le rocce poi dietro viene il libraio mentre il biondo era rimasto unpo’ più indietro perché era tornato indietro a prendere qualcosa la macchina fotograficaforse e il sentiero è molto ripido sotto si vedono le rocce appuntite tra cui scorre l’acquadel torrente e sopra di noi c’è il grande ponte che ci sovrasta da una riva all’altra riva ealzando ancora più gli occhi si vedono le cime delle montagne vicineio credo che quella fascia generazionale lì che è quella del biondo dice il libraio

mentre scendono giù per il sentiero credo che questi giovani che allora avevano 15 o20 anni quando si trovano a fare questa scelta che matura tra il 71 e il 72 e che di-venta negli anni successivi processo generale nelle fabbriche nelle scuole nelle par-rocchie nei quartieri è come se avessero subìto una modificazione antropologica nontrovo altro termine una modificazione culturale di sé irreversibile da cui non puoi piùtornare indietro per questo poi questi soggetti più tardi dopo il 79 quando tutto finisceimpazziscono si suicidano si drogano proprio per l’impossibilità e l’insopportabilità diessere riomologatiperché gente come il biondo non può più tornare indietro da quella vicenda che nel

79 si rompe allora tutto si rompe tutto si è rotto però per rompere tutto occorrel’unione di tutti i partiti occorrono le forze armate occorre la magistratura occorronotutti i mass media non è mai successo in uno stato moderno che ci voglia tutto questospiegamento di forze per far fuori quella che viene definita una minoranza che inveceera una maggioranza sociale un movimento di trasformazione di cui una parte ha su-bito una radicale modificazione antropologica come percezione del mondo delle emo-zioni del sesso della cultura del rapporto col denaro e quindi adesso se non sonoimpazziti restano ai margini o si appassionano per qualcosa che li riporta al loro pas-sato come il biondo che è così appassionato adesso per l’idea di questo film.

Nanni Balestrini, L’editore, 1989

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Primo non ha mai deflesso dal principio della solidarietà, dell’assistenza edel soccorso fattivo a favore di tutti coloro che avevano subìto, per ragioni po-litiche ma non solo, la repressione. E questo indipendentemente dalle suepersonali convinzioni culturali e politiche. Lo sanno bene gli attuali ed ex pri-gionieri politici, lo sanno bene gli esuli. Ma lo sanno bene anche molti extra-legali, tossicodipendenti, perseguitati psichiatrici, omosessuali otransessuali, prostitute, molti anonimi ragazzi e ragazze “difficili” delle peri-ferie. Perché questo era il “popolo” che Primo di più amava e difendeva eproteggeva, oltre che dalle istituzioni repressive anche dai pregiudizi morali-stici, dai conformismi e opportunismi di tanta, troppa sinistra.

Difficile è, per tutti noi, imitare il modello di comportamento solidale pra-ticato da Primo perché esso aveva, come presupposto, lo sgombero mentaledelle appartenenze ideologiche, familistiche, settarie, dei piccoli interessi pri-vati. In questo Primo ha sicuramente attinto dalla tradizione storica rivolu-zionaria più coerente a riguardo, quella anarchica: ogni gesto diinsuborinazione al potere, cosciente o meno che sia, va difeso, sempre e co-munque, dalla repressione che subisce.

Dopo il Sessantotto ho aperto un Club in via S. Maurilio che si chiamava Si o Si Club.Un circolo pazzesco in un palazzo del Settecento che aveva il compito di recuperarenell’attività del tempo libero tutti indistintamente. Avevamo 600 commesse dellaStanda, 200 professionisti, 400 attori del Piccolo Teatro ecc.Facevamo tutto contemporaneamente. C’era ristorante, bar, teatro, cinema, reading

di poesie con Fernando Pivano e Salvatore Passarella, Pino Franzosi. Un casino infer-nale dove si mischiavano borghesi, medio borghesi, proletari, sottoproletari, com-messe, ostetriche dell’Ospedale Maggiore. Il risultato più appariscente è stato unospettacolo un po’ matto «Off Off» durato tre giorni, organizzato da me e R. Dane doveil pubblico ha tentato di distruggere il teatro, la platea invasa da migliaia di scatolettedi detersivi che signore impellicciate e impazzite ci lanciavano. Lo spettacolo era aciclo totale. Gli attori recitavano già nell’atrio, nelle scale, nei palchi, a ruota libera, eognuno, debbo dire, faceva “i cazzi suoi”. C’erano dei momenti di grande violenza.Ghigo, che allora era veramente bravo, suonava una musica pazzesa e urlava: Merda!,era un jazz di sottofondo intercalato dai ritmi del maggio francese. Il tutto incredibil-mente rabbioso. A questo punto nel buio qualcuno ha cominciato a lanciare questescatole di detersivi di cui era sommersa la sala, perché in ogni sedile ne avevanomesse tre o quattro e le signore quando entravano dovevano togliere le scatole e tener-sele addosso. Partita questa violenza di musica nel buio rischiarato da lampi di lucipsichedeliche le signore salirono sulle poltrone e cominciarono a tirare con una vio-lenza incredibile migliaia di scatolette. Poi il pubblico tentò l’assalto al palcoscenicocon il padrone che voleva chiamare i vigili del fuoco. Nel finale due enormi strutture a

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forma di fallo gonfiato con il compressore, illuminate, partivano dal fondo della sala earrivavano al palcoscenico dove sgonfiate con una catenella ritornavano a cadere insala. C’era chi gli saltava addosso. Lo spettacolo è durato solo tre giorni perché il pa-drone del locale non voleva che si continuasse. Poi abbiamo aperto un cabaret politicocon Roberto Brivio, ma questo non capiva molto per cui ci aveva stancato. Gli ab-biamo detto: «Ti regaliamo questo cabaret, basta che non ci rompi più».

Emina Cevro-Vukovic, Vivere a sinistra, 1975

Primo era un autodidatta, e ne era orgoglioso. Nonostante la lunga militanzanegli anni Cinquanta nel Partito comunista, la sua formazione culturale eragrandemente eclettica. Ciò gli permise di comprendere, per esempio, l’espe-rienza presessantottesca di Mondo Beat a Milano, quel che rappresentava eannunciava in termini di rivolta esistenziale socialmente dispiegata. Primo eratra i pochi che avevano una conoscenza approfondita della genesi e del con-torto sviluppo delle culture e delle espressioni underground, sia in Italia chenel panorama internazionale. E di questo panorama oltre che studioso è statoanche protagonista. La scelta di radicare il proprio agire quotidiano all’internodei luoghi dell’autoproduzione e dell’autogestione ne è la prova più lampante.

Ma questo non significa che non avesse piena consapevolezza dei limiti edelle contraddizioni di quelle pratiche spesso legate a una visione semplici-stica, rozza e autoghettizzante. Pur militando senza incertezze nelle strutturedi base del movimento, non si faceva illusioni sulle difficoltà di questi anni.Non credeva alle scorciatoie delle forzature politiche. E rimarcava spesso ildramma determinato dallo scarto prodotto dal nuovo «piano del capitale» ela necessità di un duro e paziente lavoro di ricostruzione analitica dellenuove forme del dominio. Ma ancor di più aveva consapevolezza, grazie allapostazione di osservazione privilegiata che si era scelto, della vacua autorefe-renzialità che molte situazioni di movimento abbracciavano per compensarealla difficoltà di elaborare un concreto sentire comune in una società decom-posta e frammentata.

Cox 18 non è un luogo sociale a direzione politico-ideologica (verticale o orizzontale). Èun “luogo sociale” e basta. In quanto tale non può che essere, nelle sue soggettività,anche espressione dei devastanti processi del potere che producono una umanità do-lente e carica di disagio povero. Possiamo forse stimare (desiderare?) altri luoghi socialicon più precisi universi vitali politici e soggettivi; ma noi abbiamo “scelto” di tentare di“vivere”, di convivere, con la composizione giovanile più “frantumata” della zona Suddella città. D’altronde non è forse vero che una grossa fetta dei centri sociali degli anniOttanta si è più formata come “aggregazione sul disagio” che sul “progetto politico”?

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Questo ha voluto dire convivere con il malessere e frequentemente nutrirsi dei suoiveleni. Forse in Cox 18 abbiamo compiuto/subito una scelta di presunzione. Sicura-mente non abbiamo mai avuto nessuna illusione di cambiare il mondo con le parole ocon l’ideologia. Solo “sporcandosi” con il “reale” si può comprenderlo e, forse, comin-ciare a modificarlo.

Primo Moroni, 30 giugno 1992

Ho conservato queste righe scritte da Primo in un momento di drammaticaemergenza perché credo siano una sintesi adeguata a rendere conto della suascelta di vita consumata in una emergenza perenne. Emergenza non come“dedizione” agli ultimi nella versione pelosa dei cattolici, ma come scom-mesa rivoluzionaria sugli ultimi.

Chi ha voluto denigrarlo in vita lo ha tratteggiato come un inguaribile in-namorato degli emarginati, un «prete rosso». Primo non si è mai meravi-gliato di questa “critica”, anzi, nella circostanza agitava, con ironia e malizia,il libro Lettera a una professoressa di don Milani.

Primo è riuscito, nella sua condotta esistenziale quotidiana, a incarnarel’esempio di un compiuto «francescanesimo laico e ateo». L’umanità espressada Primo ci mette al riparo dal ricatto cattolico, ma anche cristiano, sull’im-possibilità dei comunisti e dei libertari di contemplare nella loro idealità eprogettualità sociale il presupposto della pietas, perché Primo era, per suastessa definizione, un comunista libertario.

Primo ha testimoniato la necessità di condurre la lotta contemporanea-mente sul fronte esterno della nemicità di classe e quello interno dell’ideolo-gia come principale ostacolo a una qualsiasi definizione strategica diliberazione. Come dire la testimonianza della consapevolezza che il nemicooltre a marciare di fronte a noi marcia anche nella nostra testa. Indomita esenza tregua è stata infatti la lotta di Primo contro tutti i ceti politici rivolu-zionari che ha incontrato sulla sua strada. E la memoria della condotta di vitadi Primo sarà arma acuta per chi vorrà continuare la lotta anche contro tuttaquesta genìa miserabilmente innamorata del potere.

EternitàLa concezione materialista dell’eternità consiste nel rinviare le azioni alla sola re-

sponsabilità di coloro che le compiono. Ogni azione è singolare, non influisce dunqueche su se stessa e non rinvia a nient’altro che alle relazioni che essa determina e allacontinuità dei rapporti che intrattiene con gli altri. Ogni volta che si fa qualche cosa, sene accetta la responsabilità: questa azione vive per sempre, nell’eternità. Non si trattadi immortalità dell’anima ma di eternità delle azioni compiute. È l’eternità del presente

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vissuto a ogni istante trascorso: una pienezza completa, senza trascendenza possibile,sia logica che morale. È questa l’intensità dell’azione e della sua responsabilità. (…)Ognuno di noi è responsabile della propria singolarità, del suo presente, dell’intensitàdella vita che investe nella vecchiaia e nella giovinezza. Ed è questo l’unico modo dievitare la morte: occorre afferrare il tempo, tenerlo, riempirlo di responsabilità. Ognivolta che lo si perde a causa della routine, dell’abitudine, della stanchezza, della de-pressione o della rabbia, si perde il senso “etico” della vita. L’eternità è questo: la no-stra responsabilità di fronte al presente, in ogni momento, in ogni istante.

Toni Negri, Esilio, giugno 1997

Insieme abbiamo studiato; progettato e realizzato libri e riviste, soggetti tele-visivi, sceneggiature cinematografiche; partecipato a conferenze, presenta-zioni e dibattiti; lavori di ricerca orale, sociale, sulla ristrutturazioneproduttiva. Abbiamo parlato di tutto per giorni e notti, scherzato, giocato. Ab-biamo speso milioni al telefono parlando di cose politiche e personali, digrandi avvenimenti e di minuzie. Abbiamo viaggiato, fumato, mangiato benee meno bene, bevuto lo stesso, ma molto di più.

Dei mie cattivi maestri, tutti amati, sei stato comunque il più amato, per-ché il più buono, generoso, paziente, umile e gentile. Mi hai insegnato,senza mai fare l’insegnante, a capire che ciò che è più difficile nella vita èavere il coraggio di cambiare, di rinunciare, di ricominciare da capo, di nonspostarsi di un millimetro dall’etica che si è scelta, neanche se ti sparano,perché comunque saresti destinato a essere ucciso lo stesso, ma senza onore.

Mi hai fatto scoprire scrittori, poeti e raffinati pensatori. E insieme l’umanitàricca dei disperati, dei pazzi e dei reietti. Avevi le chiavi di tutte le loro case per-ché avevi le chiavi dei loro cuori. E di tutto questo amore che ti aleggiava in-torno, che ti avvolgeva, sapevi dedicare cura infinita, perché avevi capito che lìstava il senso della tua esistenza, la dimostrazione che era possibile vivere inmezzo ai dannati senza essere contagiati dalla loro necessaria cattiveria.

Mi piacevano i nostri appuntamenti perché avevano sempre il sapore com-plice e furtivo di chi progetta e costruisce, sia pur contro i mulini a vento. Emi ricordo questa complicità disperata, negli anni della prima stesura deL’orda d’oro. Anni maledetti di solitudine, circondati dal deserto, dall’esilio,dalla galera, dall’eroina, dal tradimento. In quelle stanze piene di libri tra-sportati con grandi valigie, automobili, furgoni, e ammucchiati alle paretifino al soffitto. I nostri libri, salvati dai roghi dell’odio e della paura dei ne-mici, dalla dimenticanza del sentimento di una irreparabile sconfitta dei no-stri vecchi compagni. Io, ragazzo di bottega, a catalogare, selezionare,predisporre il materiale grezzo. Tu a scrivere incessantemente con una scal-

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cinata macchina meccanica con il tasto della a rotto, che dovevi risollevaredal rullo con il dito quasi a ogni parola. E Nanni Balestrini, silenzioso, infondo al grande tavolo, alla regia, a leggere, correggere, aggiungere, tagliare,spostare, rimontare, segnalare lacune e incongruenze, suggerire migliorie.Così per ore, giorni, settimane e mesi tra Roma e Milano. Una catena dimontaggio, come disse Sergio Bologna, che per una parte di questo lavoro ciospitò nella sua casa.

Poi, finita quell’avventura, via con un’altra, quella de L’editore. Già con Gliinvisibili, e poi con L’orda d’oro avevamo contribuito a riaprire faticosamentedei piccoli pertugi in quell’industria culturale che era stata complice del mas-sacro del movimento. Occorreva insistere, e Nanni in questo era segugioostinato, tenace. Il materiale per il cuore de L’Editore lo abbiamo costruito re-gistrando una lunga conversazione a ruota libera tra noi, Nanni e Giairo Da-ghini, nella sua casa svizzera a strapiombo su un dirupo di montagna. Ecome ci siamo divertiti nel simularci sceneggiatori del film che avrebbe ri-dato quell’onore che ancora si aspetta il compagno Osvaldo.

E poi ancora, subito dopo, la tua allegria nell’annunciare che nell’orrida Mi-lano, divenuta capitale dell’eroina e di uno yuppismo volgare, corrotto e degra-dante, avevi intuito che qualcosa stava per muoversi, per cambiare di segno.Era proprio da quei ragazzi punk, con cui già da anni avevi saputo dialogare ecooperare, che si annunciava una ripresa, resa esplicita dall’inversione cultu-rale ed esistenziale che stavano operando: dal rifiuto totale del «no future»,dalla paranoia del «Grande Fratello» alla teorizzazione del possibile uso so-ciale anticapitalistico delle nuove tecnologie. Con quanta prudenza, discre-zione e rispetto hai saputo seguire lo sbocciare di questi nuovi fiori cheridavano una speranza che andava ben al di là del loro singolare destino. Conquanta dedizione hai costruito ponti tra quella loro inedita cultura e le altre an-tiche che certo più ti appartenevano. Questo era il tuo difficilmente imitabilestile di lavoro che non scindeva mai il personale dal politico, come il movi-mento del Settantasette, e più ancora quello femminista, ci ha insegnato.

Ho cercato di raccogliere la sollecitazione che mi avevi dato, all’inizio deldecennio che va chiudendosi, innanzitutto scongelandomi dalla condizioneesistenziale di “esiliato interno”. Poi, immaginando la possibilità della costru-zione di uno strumento pubblico, di uno spazio pubblico. Una rivista quindi,la cosa più a portata di mano che credevo di poter fare perché per anni avevospiato il lavoro tuo e degli altri miei cattivi maestri, cercando di capire e diimparare. E ancora, come sempre, ti ho trovato disponibile a discutere, a ra-gionare, a progettare un qualcosa che contenesse nei suoi segni e contenuti ilsenso di una trasformazione accaduta, terribile nelle sue conseguenze ma da

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affrontare con quel coraggio della speranza che solo può motivare l’andareavanti a guardare il mondo con la voglia di trasformarlo.

Su questo progetto, alla fine di tanto ragionare le tue parole sono statepoche, semplici e chiare. Sono state quelle che in copertina hanno annun-ciato la nascita di questa rivista:

«È possibile pensare che un lungo periodo di distruzione delle intelligenzecollettive cominci a volgere al termine e che nelle metropoli stia emergendoun nuova percezione del presente». Il resto delle tue parole dette riguardanoinvece qualcosa che va ben al di là di un annuncio, riguardano lo spirito delmetodo, la sintesi di un modo di essere e di fare soggettivo e cooperativo:«Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenzeunite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delleintelligenze soggettive».

In tutti questi anni, davanti a incomprensioni, ad attacchi, denigrazioni ecalunnie rivolte a questa nostra piccola esperienza, era mia consolazione erassicurazione andarmi a rileggere quelle parole. E ho, e abbiamo, tiratodritto, fino a qui. E andrò, e andremo avanti ancora. È promesso.

Queste righe scritte con tanta difficoltà e tanta sofferenza sono le primeche, da quando ti ho conosciuto, non posso sottoporre alla tua visione. E que-sto mi fa uno strano effetto di insicurezza, aggravato dalla consapevolezza didover parlare pubblicamente della tua persona in un momento ancora cosìcarico di delicatezza e di pudore. Ma sentivo di doverlo fare, e ce l’ho fatta, emi va bene così, per adesso. L’elaborazione del tuo lutto, per me, come credoper tutti coloro che ti hanno conosciuto, è questione infinitamente più com-plessa, lunga e dolorosa. Ma forse mi è di aiuto la riflessione di Toni sullamorte e l’eternità.

Maggio 1998