MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA · 2019-02-11 · e Luciano Ardesi MISSIONE, CHIESA,...

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DOSSIER Lebbra Lo stigma curabile PANORAMA Religioni e minoranze in Medio Oriente ATTUALITÀ Giochi di potere le lobby delle armi In caso di mancato recapito, restituire all’ufficio di P.T. ROMA ROMANINA previo addebito Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50 1 MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIA ANNO XXXIII GENNAIO 2019 GIORNATA MONDIALE DELLA PACE Onestà e impegno politico

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DOSSIERLebbraLo stigma curabile

PANORAMAReligioni e minoranzein Medio Oriente

ATTUALITÀGiochi di poterele lobby delle armi

In caso di m

ancato recapito

, restituire all’ufficio di P.T. R

OMA ROMANINA previo addebito

Rivista della Fondazione Missio • Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 Aut. GIPA/ C / RM • Euro 2,50

1M E N S I L E D I I N F O R M A Z I O N E E A Z I O N E M I S S I O N A R I A

ANNO XXXIII

GENNAIO2019

GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

Onestàe impegnopolitico

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MENSILE DI INFORMAZIONE E AZIONE MISSIONARIATrib. Roma n. 302 del 17-6-86. Con approvazione ecclesiastica.

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Foto di copertina: Afp Photo/Osservatore Romano Foto: Nelson Almeida / Afp, Apu Gomes / Afp, Mladen Antonov /Afp, Afp photo John MacDougall, Ahmet Izgi / Anadolu Agency,Godong / Lissac / Bsip, Rijasolo / Afp,Tim Graham / Robert HardingHeritage / Robertharding, Stefan Heunis / Afp, Gabriele Maricchiolo /NurPhoto, Sebastian Backhaus / NurPhoto, AF/POSI, Archivio Missio(a cura di Simone Lentini), Associazione Amici di Adwa, GaetanoBorgo, Ennio Brilli, Francesco De Domenico, FSD (Florence Schoolof Dialogue), Paolo Manzo, Chiara Pellicci, Filomena Rizzo, PaoloScarafoni, Ufficio Stampa CESI. Abbonamento annuale: Individuale € 25,00; Collettivo € 20,00;Sostenitore € 50,00; Estero €40,00.Modalità di abbonamento:- Versamento sul C.C.P. 63062327 intestato a Missio o bonifico postale (IBAN IT 41 C 07601 03200 000063062327)- Bonifico bancario su C/C intestato a Missio presso Banca Etica(IBAN IT 03 N 05018 03200 000011155116)

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CON I MISSIONARI A SERVIZIO DEI PIÙ POVERI:

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1P O P O L I E M I S S I O N E - G E N N A I O 2 0 1 9

È sempre più evidente che la que-stione migratoria continuerà adessere oggetto di dibattiti a non

finire anche nel corso del 2019. Ilrischio, però, sempre in agguato, èquello di assecondare i luoghi comuniche imperversano su certa stampa no-strana. Ad esempio, la mobilità umanadalla sponda africana è spesso descrittacome un fenomeno in aumento, in-controllabile e pernicioso per la stabilitàe la sicurezza dei Paesi europei. Ma lasituazione è davvero così allarmante?Andiamo con ordine: dal gennaio 2014al mese di giugno 2017, sono approdatein Italia dalle coste africane oltre589mila persone (dati del Viminale).Per fare un paragone, sempre secondoil Viminale, dal 1997 al 2011 - l’annodella caduta di Gheddafi in Libia – gliarrivi dall’Africa erano stati in tuttocirca 388mila. Successivamente, dalluglio 2017, si è verificato, con ilgoverno Gentiloni, un drastico calo aseguito di una serie di accordi stretticon i governi di Libia, Niger e Sudan,coinvolgendo anche alcune tribù libichee milizie che da terra stanno impedendole partenze. Inoltre, la stretta del go-verno Conte nei confronti delle ongpreposte agli aiuti dei profughi, harafforzato le politiche di respingimento.C’è però, per così dire, un rovesciodella medaglia. Infatti, secondo fontiumanitarie autorevoli, restano bloccatiin Libia, in condizioni penose, oltre

700mila profughi, molti dei quali su-biscono vessazioni d’ogni genere. Stadi fatto che l’analisi solitamente offertadai giornali italiani del fenomeno mi-gratorio è riduttiva, non tenendo contodella complessità dello scenario africanoa livello continentale.Secondo lo studio “Africa in movi-mento: dinamica e motori della mi-grazione a Sud del Sahara”, pubblicatonel novembre 2017 dall’Agenzia del-l’Onu per l’Alimentazione e l’Agricoltura(FAO) e dal Centro di CooperazioneInternazionale nella Ricerca Agronomicaper lo Sviluppo (Cirad), il 75% di coloroche nell’Africa Sub-sahariana hannodeciso di migrare è rimasto all’internodel continente. I rilevamenti sulle mi-grazioni effettuati dalle Nazioni Unite,nel 2017, evidenziano che l’Africa haospitato 24,7 milioni di migranti, controi 14,8 milioni registrati nel 2000 alivello globale. Sempre stando allastessa fonte, nel 2015 la maggior partedei migranti nati in Africa che vivevanoal di fuori del continente, risiedeva inEuropa (nove milioni), in Asia (quattromilioni) e in Nord America (due milioni).Assecondare la retorica dell’invasione,come spesso si legge sui giornali, èquindi decisamente fuori luogo. Pe-raltro, spesso si sottovalutano gli effettidell’attività predatoria, legata al bu-siness delle commodity africane (ma-terie prime e fonti energetiche in pri-mis) da parte di molte potenze

EDITORIALE

di GIULIO [email protected]

(Segue a pag. 2)

»

Migrazioni eluoghi comuni

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Indice

EDITORIALE

1 _ Migrazioni e luoghi comuni di Giulio Albanese

PRIMO PIANO

4 _ Giornata mondiale della pace 2019 Promemoria d'impegno

politico e di onestà di Pierluigi Natalia

ATTUALITÀ

8 _ Intervista esclusiva con ilcardinale Sérgio da Rocha

Il Brasile con gli occhi della Chiesa di Paolo Manzo

11 _ I giochi di potere delle lobby delle armi Spifferi di guerra fredda di Roberto Bàrbera

FOCUS14 _ Un libro, un’intervista

Oltre l’egoismo, l’amore di Dio di Giulio Albanese

STORIA DELLA MISSIONE18 _ Dagli apostoli ai testimoni di oggi

Paolo, il primo missionario di Ilaria De Bonis

MO(N)DI DI DIRE21 _ POLE POLE

Prendiamoci il tempo per vivere di Loredana Brigante

P O P O L I E M I S S I O N E - G E N N A I O 2 0 1 92

straniere. I numerosi conflitti armati cheinsanguinano Paesi come la RepubblicaDemocratica del Congo e la RepubblicaCentrafricana sono emblematici delle ingiu-stizie e sopraffazioni che interessano il con-tinente, congiuntamente alla povertà dellepopolazioni autoctone e al deficit di virtuo-sismo da parte delle leadership locali.Le informazioni raccolte in questi annidall’Onu hanno anche evidenziato lo strettorapporto esistente tra le risorse accumulatedalle famiglie africane e la loro effettivadisponibilità a migrare. I più poveri, quellicioè che sopravvivono in condizioni di forteesclusione sociale (ad esempio, nelle grandibaraccopoli delle megalopoli africane o inregioni rurali depresse), non si spostanoaffatto, semplicemente perché non dispon-gono delle risorse economiche per farlo. Imigranti, invece, che hanno disponibilitàlimitate, preferiscono trasferirsi nei Paesilimitrofi. In termini di numero di immigrati, ilSudafrica è il Paese di destinazione più signi-ficativo in Africa, con circa 3,1 milioni dimigranti internazionali che risiedono nelPaese (circa il 6% della sua popolazione tota-le). Solo una parte dei migranti africani siallontana di molto dal proprio Paese d’origi-ne.Com’è noto, i governi europei, in linea diprincipio, sono disposti ad accettare i “rifu-giati” e non i “migranti economici”. Il para-dosso è evidente. Se il migrante fugge dallaguerra o è perseguitato da un regime totali-tario, può essere accolto (qualificandosiappunto come profugo, vittima di migrazio-ne forzata), se invece corre via da inedia epandemie, in quanto nel suo Paese non esi-stono le condizioni di sussistenza, non puòpartire e deve accettare inesorabilmente ilsuo infausto destino. E dire che molti popoliafricani sono penalizzati proprio dalla globa-lizzazione dei mercati che non hanno certoinventato i migranti. Ecco perché sarebbeauspicabile definire un progetto europeo chetrovi nella solidarietà il suo punto di forza,nella consapevolezza che la libertà di partireo di restare è un diritto sociale esigibile esacrosanto.

(Seg

ue d

a pa

g.1)

OSSERVATORI

DONNE IN FRONTIERA PAG. 6

La scelta di Rebeccadi Miela Fagiolo D’Attilia

GOOD NEWS PAG. 7

I rosari della GMGcambiano la vitadi Chiara Pellicci

MEDIO ORIENTE PAG. 17

Primi passi per la pace in Yemen di Ilaria De Bonis

ASIA PAG. 19

Tragico bilancio sul Kashmirdi Francesca Lancini

8

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SCATTI DAL MONDO

22 _ Sulle rotte migratorie in Africa Orientale

Metema, crocevia di disperati A cura di Emanuela Picchierini Testo di Marco Benedettelli Foto di Ennio Brilli

PANORAMA

26 _ Il futuro delle religioni in Medio Oriente Minoranze, oltre i numeri di Ilaria De BonisDOSSIER

29 _ Lebbra Lo stigma curabile A cura di Giovanni Gazzoli e Luciano Ardesi

MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

37 _ A scuola di dialogo

Le religioni a servizio della società di Chiara Pellicci

39 _ La rinascita della Cambogia

Una piccola Chiesa piena di vita di Miela Fagiolo D’Attilia

41 _ Etiopia La missione di suor Laura, manager di Dio di Ilaria De Bonis43 _ Testimoni della Chiesa in uscita Helena Kmieć Dalla Polonia alla Bolivia per la missione di Stefano Femminis44 _ L’altra edicola Le marionette libiche e il vertice di Palermo La pace che nessuno desidera di Ilaria De Bonis

47 _ Posta dei missionari Ricominciare dalla periferia a cura di Chiara Pellicci

3P O P O L I E M I S S I O N E - G E N N A I O 2 0 1 9

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RUBRICHE50 _ Ciak dal mondo “TRE VOLTI” Passato presente e futuro

della donna iraniana di Miela Fagiolo D’Attilia52 _ Libri Rwanda: la buona notizia fa notizia di Chiara Anguissola Le ragioni dell’uomo di Chiara Anguissola

53 _ Musica Ritmi yemeniti Tra tesori e tragedie di Franz Coriasco

VITA DI MISSIO

54 _ A colloquio con suor Roberta Tremarelli, Segretaria Generale POSI Bambini, missionari universali di Chiara Pellicci57 _ Intervista a padre Francesco De Domenico, direttore dell’Ufficio Cooperazione missionaria di Sicilia Aprire gli orizzonti missionari di Loredana Brigante59 _ Missio Adulti&Famiglie Il Pellegrinaggio ad gentes

di M.F.D’A. 60 _ Missio Giovani La visita del viandante di Benedetta Tomarchio

MISSIONARIAMENTE

62 _ Intenzione di preghiera L’amore dei giovani per Maria di Mario Bandera

63 _ Inserto PUM C’è più gioia nel dare… e mi basta! di Gaetano Borgo

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4 POPOL I E M I SS I ONE - G E N N A I O 2 0 1 9

PRIMO PIANO Giornata mondiale della pace 2019

Promemoriad'impegnopolitico edi onestà

Promemoriad'impegnopolitico edi onestà

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volute e istituite da Paolo VI, sonofiglie del Concilio.

ASSIMILARE LA LEZIONEDELLA STORIALa politica, per citare un’espressione diquel grande papa, è la più alta formadi carità. E papa Francesco, che oggi èsuo successore, quell’espressione la citaspesso. Così come è perentorio nel de-nunciare la cattiva politica, nel bocciaresenza se e senza ma le teorie e gli in-terventi volti a costruire muri, a farprevalere l’uno sull’altro, a rafforzaredivisioni culturali, sociali, politiche.Questo promemoria, o meglio questorichiamo all’impegno politico e all’onestà,morale e intellettuale, prima ancorache circoscritta al non rubare, va allaradice del bene comune. La breve notadiffusa dalla Santa Sede all’annunciodel tema scelto dal papa per la Giornata,lo evidenzia. Parla infatti di missioneche non può prescindere dal salvaguar-dare il diritto e dall’incoraggiare il dia-logo tra gli attori della società, tra legenerazioni e tra le culture. E deveavere lo sguardo al tempo stesso sulpassato, sul presente e sull’avvenire,interpretare la realtà quotidiana, assi-milare la lezione della storia, guardareal «futuro della vita e del pianeta»,pensare ai «più giovani e ai più piccoli»,interrogarsi su come dare risposte allaloro «sete di compimento».Mentre sottolinea come «la responsa-bilità politica appartenga a ogni citta-dino», aggiunge che questo principiovale «in particolare per chi ha ricevutoil mandato di proteggere e governare».Chi quel mandato sollecita e ottienedeve agire per rafforzare la comunità eil rispetto tra i suoi attori. Deve costruire,come si è detto tante volte, ponti enon muri, bandire i pregiudizi, pro-muovere un dialogo di fraternità chegarantisca fiducia. «Non c’è pace

5POPOL I E M I SS I ONE - G E N N A I O 2 0 1 9

di PIERLUIGI [email protected]

Palazzo delQuirinale. IlPresidenteSergio Mattarellaaccoglie papaFrancesco, invisita ufficiale il10 giugno 2017.

«L a buona politica è al serviziodella pace». Il tema sceltoin questo 2019 per la Gior-

nata mondiale della pace, celebrata daoltre mezzo secolo il primo giorno del-l’anno, può assumere i connotati di unasfida, un’altra sfida di senso lanciatada papa Francesco a un’epoca di caco-fonico qualunquismo, reso pervasivo eimperante dallo strapotere di cosiddettisocial. E sembrerebbe una sfida per-dente contro quanti quegli strumentisanno sfruttare per garantire successoalle proprie politiche – queste sì, cattive- fondate sulla ricerca di un nemicocontro il quale indirizzare l’odio e larabbia (e il termine è scelto apposita-mente: non ira, che è certo un peccatocapitale, ma che appartiene comunquealla sfera umana, ma rabbia animale,malattia contagiosa di ferocia e delitti).Era accaduto con il tema scelto per laGiornata dello scorso anno, dedicata amigranti e rifugiati, uomini e donne incerca di pace. Era accaduto e accadeogni volta che il magistero pontificiosi pone in contrasto con quanti nel con-flitto accrescono la propria ricchezza eil proprio potere. E in contrasto anchecon una parte dei cattolici, che sarebbeillusorio credere minoritaria, i qualiascoltano il papa solo quando è d’ac-cordo con loro.Sì, definire buona la politica oggi po-trebbe sembrare una sfida e una pro-vocazione. E invece è un promemoria.Un promemoria necessario, in un’epocache dimentica costantemente – o megliomistifica – avvenimenti vecchi di pochigiorni, figuriamoci un magistero pluri-secolare, rinverdito e rinvigorito in oltreun cinquantennio di attuazione delConcilio Vaticano II. Perché, per inciso,anche le Giornate mondiali della pace, »

Nell’era della“tristezzaindividualista”, papaFrancesco rilancia iltema dell’impegnocivile e sociale con iltitolo scelto per laGiornata mondialedella pace di questonuovo anno. «La buonapolitica è al serviziodella pace» non è unosloganma unprogramma di lavoroin cui i cattolici tuttidebbono sentirsiimpegnati.

(Foto: Presidenzadella Repubblica)

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PRIMO PIANO

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«S ono orgogliosa di non aver rinunciato allamia fede. È questa forza che mi ha aiutato

a sopravvivere». Lo ha detto a papa Francesco,che ha incontrato in Vaticano nel febbraio delloscorso anno, Rebecca Bitrus, una delle pochedonne in grado di raccontare la drammatica espe-rienza di essere sopravvissuta al rapimento e allalunga prigionia a cui è stata costretta dai milizianidi Boko Haram. Nigeriana, cattolica, mamma didue bambini, è stata catturata nell’agosto 2014,portata nella foresta e costretta a convertirsiall’islam. Il suo rifiuto di abiurare la fede cristianale ha valso feroci ritorsioni. Un miliziano le hadetto che stava «per darle una lezione»: ha rapitoil figlio minore di Rebecca, Jonathan, di tre anni,e lo ha annegato nel fiume vicino all’accampamento,sotto gli occhi disperati della madre. Temendopotesse essere ucciso anche il fratello più grande,Zachary, di cinque anni, Rebecca ha partecipatoalle preghiere islamiche, recitando in cuor suo leorazioni cristiane. Racconta che «venivano accantoa noi e, con le pistole puntate alle tempie, ci co-stringevano ad invocare Allah. Ma dentro di merecitavo l’ “Ave Maria” e il “Padre Nostro”». Èstata chiusa in una gabbia sotto terra per alcunigiorni senza cibo né acqua. Come altre donneschiave di Boko Haram è stata data in moglie adun capo dei guerriglieri e dopo ripetute violenzefisiche, è rimasta incinta. Ha partorito da solanella foresta un maschio di nome Christopher.Dopo due anni di prigionia, Rebecca riesce afuggire con i due bambini, ma quando le prendela tentazione di abbandonare il piccolo di seimesi, il figlio più grande Zachary le dice: «Jonathannon c’è più e io non ho più un fratello, perchénon portiamo Christopher con noi?». La fugadura un mese e alla fine la donna viene portatanella sua casa a Maiduguri nello Stato settentrionaledel Borno. Si ricongiunge al marito che volevadare il figlio nato dalla schiavitù in adozione, mail vescovo Oliver Dashe Doeme l’aiuta e la sostienenel crescere entrambi i figli con lo stesso amore.Padre Innocenzo Zambua, parroco a Maiduguri,ha raccontato la storia di Rebecca in una lettera apapa Francesco che ha voluto riceverla, ricono-scendo la sua grande testimonianza di fede. In-contrare il papa era il suo sogno. Una speranza acui si è aggrappata nei momenti più bui e che si èfortunatamente realizzata.

di Miela Fagiolo D’Attilia

LA SCELTADI REBECCA

OSSERVATORIO

DONNE INFRONTIERA

pensati e realizzati solo per costruiresteccati, per rafforzare divisioni culturali,sociali, politiche, per incattivire glianimi e per istupidire le menti. Giànell’Evangelii Gaudium, Francesco avevasollecitato ad un pensiero forte e so-prattutto a pensare al plurale, oltre laristrettezza dell’io dominante, esclusivistae sterile. Quel pensiero, cioè, in gradodi «un autentico dialogo che si orientiefficacemente a sanare le radici profondee non l’apparenza dei mali del nostromondo».

POPOLARE E POPULISTAMa certo non è questa la politica oggitrionfante. Né il papa lo ignora. Nel-l’ottobre dello scorso anno, ha dettouna cosa che ben poca stampa ha ri-portato, anche se – come può confer-mare ogni giornalista appena discreto– dava “l’opportunità di un titolo”. Se-

Beato Giuseppe Toniolo, il massimo esponenteitaliano della scuola etico-cristiana.

Camera dei deputati

infatti senza fiducia reciproca. E la fi-ducia ha come prima condizione il ri-spetto della parola data», si legge ancoranel documento vaticano. E questo si-gnifica anche evitare le false promesse,o peggio, quando si rivelano impossibilida mantenere, ostinarsi in decisioni chesi ripercuotono negativamente sull’interacomunità e che schiacciano soprattuttoi più poveri.

FARE POLITICA È SERVIRE, NON SERVIRSI«Conforme alla propria vocazione –scrive Paolo VI nelle Lettera apostolicaOctogesima adveniens - il potere politicodeve sapersi disimpegnare dagli interessiparticolari per considerare attentamentela propria responsabilità nei riguardidel bene di tutti, superando anche ilimiti nazionali. Prendere sul serio lapolitica nei suoi diversi livelli - locale,regionale, nazionale e mondiale - si-gnifica affermare il dovere dell’uomo,di ogni uomo, di riconoscere la realtàconcreta e il valore della libertà discelta che gli è offerta per cercare direalizzare insieme il bene della città,della nazione, dell’umanità». La politicanon è dunque cosa da bistrattare inossequio a logori luoghi comuni, macosa da assumere come vocazione oalmeno da richiedere impegno. Il papachiede ancora una volta, nel messaggioper questa Giornata, impegno politicoe sociale. Ed è perentorio nel bocciaresenza appello teorie, azioni, interventi

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7POPOL I E M I SS I ONE - G E N N A I O 2 0 1 9

fanno strame, ma anche per pigrizia,per isolazionismo, persino per un radi-calismo acritico incapace di porsi indialogo. La lezione del Concilio ha certocambiato le cose, nelle strutture ecclesialie nei singoli fedeli. Ma quella tentazionea chiudersi nel particolare, a concentrarsisul culto, a ritenere il pubblico e la po-litica dimensioni estranee alla fede,continua ciclicamente a farsi largo.Per stare alla sola Italia, ci sono volutidecenni perché il contributo cattolicoentrasse nella costruzione di un’identitànazionale. Decenni scanditi da dueguerre mondiali con nel mezzo unadittatura che ha rappresentato il puntopiù basso dell’esperienza politica italiana.Non è intenzione di questo articolo ri-percorre la “questione romana”. Tuttavia,a un secolo e mezzo di distanza, alcunesomiglianze appaiono evidenti. Nel no-vembre scorso si è ricordato – per la

verità poco e con scarsorilievo – il centenario dellamorte di Giuseppe Toniolo.Era un cattolico come cene vorrebbero tanti ancheoggi. Fu tra i primi a met-tere in discussione l’ideadell’homo oeconomicus,cara a tanta dottrina ot-tocentesca, di matrice sialiberale sia marxista. Quel-l’idea nella quale ha tantaparte la deificazione ido-latra del mercato. C’è dachiedersi se di nuovo oggiil ritiro dei cattolici dallapolitica non contribuiscaal ritiro dalla vita italianadi quella che il papa chiama“politica buona”, quella checonsente al cosiddetto Pae-se reale, di incontrare leistituzioni e dare loro unsenso di servizio. Sì, servequesta politica, servono an-ticorpi sani in questo tempoche il papa definisce «dellatristezza individualista».

condo il papa, «oggi sono di moda ipopulismi, che non hanno niente a chevedere con il “popolare”: il popolare èla cultura del popolo, e la cultura delpopolo si esprime nell’arte, si esprimenella festa: ogni popolo fa festa, a suomodo. Ma il populismo è il contrario: èla chiusura nel modello “siamo chiusi,siamo noi soli”, e quando si è chiusinon si va avanti». E quale risposta sonochiamati a dare i cattolici, o meglioquanti abbiano volontà e cuore perprendere davvero in considerazione illoro battesimo? Non è argomento daesaurire nello spazio necessariamenteristretto di un articolo giornalistico.Ma pure qualche accenno è necessariofare, se non altro per ricordare le lezionidi una Storia che ha visto spesso il cat-tolicesimo isolato sul piano valoriale,certo a causa di spinte potenti che deivalori umani, soprattutto di quelli sociali,

Giornata mondiale della pace 2019

A lla Giornata Mondiale della Gioventù (GMG)di Panama dal 22 al 27 gennaio, vengono

distribuiti milioni di rosari realizzati in legnod’ulivo a Betlemme. Quella coroncina, che ognipartecipante si troverà tra le mani, non è solouno strumento per incoraggiare i giovani apregare il rosario: è anche una benedizioneper chi l’ha costruita dall’altra parte del mondo.Nell’estate scorsa, infatti, 250 lavoratori delgovernatorato di Betlemme, realizzandone unmilione e mezzo, hanno avuto modo di mi-gliorare la loro condizione economica. Si trattadi uomini e donne in difficoltà, scelti dallaCaritas di Gerusalemme all’interno di unprogetto dal titolo “Cambiare le vite fabbricandorosari” che prevedeva 22 workshop per la la-vorazione del legno d’ulivo: un modo per assi-curare un «futuro sicuro e libero dalla povertà»– si legge nel comunicato diffuso dalla Caritas- ma anche «per incoraggiare i giovani a pregareil rosario per la pace, l’amore e la giustizia».È papa Francesco in persona, in un video-mes-saggio lanciato in preparazione alla GMG, aproporre ai partecipanti l’esempio di Maria:«Cari giovani, abbiate il coraggio di entrareciascuno nel proprio intimo e chiedere a Dio:che cosa vuoi da me? Lasciate che il Signore viparli, e vedrete la vostra vita trasformarsi eriempirsi di gioia. […] Che la Vergine Maria viaccompagni in questo pellegrinaggio e che ilsuo esempio vi spinga a essere coraggiosi egenerosi nella risposta. Buon cammino versoPanama!».La preghiera del rosario, quindi, unirà idealmentei partecipanti alla GMG con i 250 artigiani dellaTerra Santa, anch’essi in gran parte giovani.Uno di loro, 26 anni, nel comunicato racconta:«Sono sempre stato un duro lavoratore, ma isalari erano così bassi che avevo difficoltà a vi-verci. Caritas ha ridato vita al mercato e alzatogli stipendi a un livello più equo». Con il nuovolavoro, il giovane betlemmita ha ottenuto unaumento di reddito dell’80% e la possibilità didare lavoro ad altri quattro uomini disoccupati.Per lui (e non solo) la vita anche si è già tra-sformata e riempita di gioia. Grazie anche allaGMG.

di Chiara Pellicci

I ROSARI DELLAGMG CAMBIANO LA VITA

OSSERVATORIO

GOODNEWS

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ATTUALITÀ

non si pronuncia, né si è mai pronunciatasulle personalità dei singoli governanti osui vari governi o partiti politici, masulla realtà del Brasile e sulle questionisociali dal punto di vista etico e teologi-co».

Quali sono le linee guida che vi orientanonei vostri pronunciamenti?«Innanzitutto, la dottrina sociale dellaChiesa e poi l’esempio di papa Francesco.Alle nostre riunioni abbiamo sempre unmomento di “analisi congiunturale” nelmodo più obiettivo possibile, con datisulla realtà sociale brasiliana e mondiale.Per la sua missione profetica, la Chiesa sipronuncia su problemi specifici, indi-pendentemente da chi governa. E lo facon la massima autonomia».

Qual è il ruolo della Chiesa oggi in Brasi-le?«Essere aperta al dialogo per la giustiziae la pace, per il bene del popolo brasiliano,

di PAOLO [email protected]

P iove ogni giorno a novembre aBrasilia e il cielo è così basso chesi tocca con un dito. Jair Bolsonaro

è il primo presidente di destra dal ritornoalla democrazia nel 1985 e molti lohanno paragonato a Trump, con la dif-ferenza che il brasiliano non capisce«nulla di economia» per sua stessa am-missione. Per analizzare il futuro che at-tende il gigante sudamericano, Popoli eMissione ha intervistato l’arcivescovo diBrasilia, il cardinale Sérgio da Rocha,presidente della Conferenza episcopalebrasiliana (CNBB). Ecco le sue parole.

Cosa rappresenta la vittoria di Bolsonaro,un ex capitano dei paracadutisti che sista circondando di militari, e come mai èfallito il sogno di Lula, il primo presidentebrasiliano ex operaio?«Non posso risponderle, perché la CNBB

Quali sono gli scenari futuriche l’arrivo al potere di JairBolsonaro prepara per ilBrasile? Risponde inqueste pagine la voceautorevole dell’arcivescovodi Brasilia, il cardinaleSérgio da Rocha, presidentedella Conferenza episcopalebrasiliana (CNBB).

Intervista esclusiva con il cardinale Sérgio da Rocha

Il Brasile con gli occhidella Chiesa

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9P O P O L I E M I S S I O N E - G E N N A I O 2 0 1 9

ndr), la conservazione dell’Amazzonia edi altri ecosistemi».

Cosa rappresenta il Sinodo speciale perla Regione amazzonica del 2019?«Riaffermare l’importanza della conser-vazione ambientale, nonché della vita edella cultura dei popoli dell’Amazzonia,come parte integrante della missioneevangelizzatrice».

La preoccupazione per l’ambiente impregnal’enciclica Laudato Si’di papa Francesco...«Sì, ed è proprio la preoccupazione perla distruzione dei vari ecosistemi brasilianie la difesa della “casa comune” chehanno dato il via alla Campagna di Fra-ternità e continueranno a far parte dellamissione della Chiesa in Brasile. In generale,in questo grande Paese, la Chiesa ha bi-sogno di incoraggiare di più l’eserciziocoscienzioso della cittadinanza e la par-

in particolare dei poveri e dei più vulne-rabili, cercando sempre di restare fedelealla sua missione profetica. Nel nuovopanorama politico del Brasile, continue-remo a difendere i valori che hanno gui-dato le posizioni della Chiesa. Attraversole sue diciotto Regionali (le circoscrizioniecclesiastiche in cui è diviso il Brasile,ndr), la CNBB terrà d’occhio le realtàlocali nelle varie regioni del Paese. Ab-biamo insistito sulla necessità di preservarele conquiste democratiche e di garantirei diritti sociali. Misure e provvedimentipolitici, ad esempio nel campo economico,non possono essere realizzati con laperdita dei diritti ed il sacrificio deipoveri e dei lavoratori».

Quali sono le vostre priorità?«Difendere, tra gli altri, i diritti dei poveri,delle popolazioni indigene e dei quilom-bolas (i discendenti degli schiavi africani,

tecipazione politica dei cristiani, nellafedeltà al Vangelo, come uno dei fruttidel 2018, l’Anno nazionale dei laici inBrasile».

Molti oggi attaccano la CNBB in Brasile.Perché a suo avviso?«Piacere al mercato o servire gli interessipolitici non è missione della CNBB. Sfor-tunatamente, c’è sempre il rischio che laCNBB non sia bene compresa quando sitratta di questioni di natura politica. »

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pastorali sociali e stabilire partnershipcon la società civile, attraverso agenziee organizzazioni pubbliche. La Chiesanon pretende di spiegare o risolvere dasola i problemi sociali, ma piuttosto diaiutare a superare le disuguaglianze, laviolenza e i tanti problemi sofferti dalpopolo brasiliano. Il compito di costruiregiustizia e pace è collettivo. Senza cristianilaici, questo non è possibile. Oltre a va-lorizzare il laicato, è necessario dare atutti gli effetti la priorità ai poveri. Evan-gelizzare i poveri è la missione di Cristoe della Chiesa, chiamata ad essere unaChiesa povera per i poveri, come sottolineapapa Francesco».

La Chiesa cattolica in Brasile ha un pro-blema di perdita dei fedeli. Il ritorno allapolitica come nell’era delle Comunità ec-clesiali di base (Ceb) e la rivitalizzazionedelle pastorali locali possono essere lasoluzione o pensate ad altre formule?«La cosiddetta questione della “perditadei fedeli” deve essere analizzata e com-presa meglio perché richiede un ampiostudio. La crescita del pluralismo religiosoin Brasile deve essere compresa nel con-

ATTUALITÀIntervista esclusiva con il

cardinale Sérgio da Rocha

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La Politica con la maiuscola va oltre ipartiti, anche se i partiti sono importanti.La Politica non può essere imprigionatadai partiti. Deve essere oggetto dell’in-teresse pubblico. La CNBB continuerà adesprimere la sua opinione sulle questionisociali in termini di valori etici e di inse-gnamenti del Vangelo, cercando di os-servare la dottrina sociale della Chiesa».

Qual è il suo pensiero sul futuro del Bra-sile?«È necessario superare il clima di intolle-ranza e aggressività che ha caratterizzatoil periodo elettorale. Nei momenti di crisinon può mai mancare il dialogo ed il ri-spetto, non bisogna mai fare appelloalla violenza. Allo stesso tempo, è impe-rativo difendere i valori etici ed i dirittidei poveri, così come lo Stato democraticodi diritto. Non possiamo rinunciare allamissione profetica che richiede coraggio,fermezza e soprattutto fedeltà a GesùCristo, in qualsiasi contesto politico».

Che fare per superare le grandi sfidesociali che il Brasile ha davanti?«È necessario valorizzare sempre più le

testo di una società complessa. Ha a chevedere con la dinamica interna della so-cietà contemporanea e non solo con i li-miti dell’azione pastorale cattolica. Nonè possibile mantenere la situazione reli-giosa egemonica di altri tempi, né sarebbeconveniente, dal punto di vista teologico,essere una Chiesa che controlla la società.Inoltre, non si può intendere la “perditadei fedeli” come lo svuotamento dellechiese, come alcuni sostengono, poichéla grande sfida è stata trovare posti dovecostruire nuove chiese e non chiudere leesistenti».

E però, ovviamente, c’è molto da fare…«Certo. La vita comunitaria, la Bibbia ela missione presenti nelle Comunità ec-clesiali di base sono state rivalorizzatecome risposte pastorali che devono esserecoltivate dalla Chiesa nel suo complesso.L’atteggiamento pastorale deve esseredi vicinanza amorevole con le persone,di servizio e valorizzazione della vita co-munitaria, con la formazione di comunitàdi preghiera e impegnate nella trasfor-mazione sociale. Il clero ed i suoi leaderdevono essere vicini alla loro gente, cer-

cando di conoscere da vicino i dolorie le gioie della loro gente, andandoincontro a loro e accogliendo piùfraternamente. Papa Francesco hasottolineato la necessità di una “Chie-sa in uscita”, una madre misericor-diosa, una casa con le porte aperte,una famiglia accogliente. L’obiettivogenerale dell’azione evangelizzatricedella Chiesa in Brasile si propone dicostruire una Chiesa “discepola, mis-sionaria, profetica e misericordiosa”.A tal fine, le attuali Direttive generaliper l’azione evangelizzatrice enfa-tizzano la missione, l’animazione bi-blica, l’iniziazione cristiana, la for-mazione di comunità e il servizioalla vita piena. C’è ancora moltastrada da percorrere, ma grazie aDio e agli sforzi di così tanti, moltipassi sono stati fatti e questo è unmotivo di gratitudine e di speranzaper il cammino della Chiesa».

Famigliaappartenenteai Waiapi, tribùdella forestaamazzonicabrasiliana.

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Negozio di armi nel centro di Mosca.

I giochi di potere delle lobby delle armi

Spifferi di guerra freddaSpifferi di guerra freddadel fenomeno si tenga conto che solonel nostro Paese ci sono 8,6 milioni diarmi da fuoco in possesso di civili. Duemilioni sono registrate, mentre oltresei milioni e mezzo risultano del tuttoclandestine. In confronto con gli altriPaesi europei, in Italia ci sono 14,4armi in mano ai civili ogni 100 abitanti,in Francia 19,6, in Spagna 7,5, in In-ghilterra e Galles 4,6. Si tratta di unoscenario allarmante, ma che non haimpedito recentemente al nostro go-verno di modificare le norme sul possessodelle armi. Oggi detenere una pistola oun fucile è diventato più facile, anchese dopo gli Stati Uniti siamo al secondoposto al mondo per omicidi compiuticon armi da fuoco: 0,71 ogni 100milaabitanti.Sul fronte degli eserciti regolari la si-tuazione non è certo migliore. Il Sipri,lo Stockholm International Peace Re-search Institute, ha calcolato che

di ROBERTO BÀ[email protected]

osservazione circolano non meno di unmiliardo tra mitragliette, fucili e pistole.Il gigantesco arsenale non è in mano aforze militari, ma è gestito per l’85%da civili: milizie, agenzie per la sicu-rezza, gang criminali.Non solo. Small Arms Survey ha ag-giunto che negli ultimi dieci anni l’ar-senale è cresciuto del 32%, quantobasta per mettere a ferro e fuoco anchegli angoli più sperduti del pianeta senzadover ricorrere neppure ad un solo mi-litare. Per comprendere meglio l’entità

L’ Istituto universitario di studiinternazionali e sviluppo di Gi-nevra (IHEID), attraverso il suo

progetto di ricerca Small Arms Survey,studia le problematiche connesse allaproduzione, vendita e diffusione dellearmi di piccolo calibro nel mondo. Glianalisti svizzeri, in un report diffuso nelnovembre dello scorso anno, hanno va-lutato che nei 230 Paesi tenuti sotto

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Il mercato internazionale delle armi nonconosce crisi e fomenta con i traffici illegali iconflitti in atto che minano la pace nel mondo.Perché l’industria non dorme mai e nuovee più sofisticate armi cercano mercati in cuifar fruttare cospicui business.

»

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ATTUALITÀ

lo scorso anno si è raggiunto il recordstorico per le spese militari. Secondo idati ufficiali resi noti dai governi nel2017 si sono impegnati 1.739 miliardidi dollari in armamenti, l’1,1% in piùdel 2016. Intanto nello stesso anno 821milioni di persone nel mondo sonostate vittime della fame, sei milioni inpiù rispetto al 2016.

GUERRE NASCOSTEIl 21 settembre, fin dal 1981, è la Gior-nata internazionale della Pace, una ri-correnza voluta dall’Assemblea Generaledelle Nazioni Unite. Tuttavia, i dati innostro possesso piuttosto che di paceci spingono a parlare di violenza e diguerra.L’Integrated Regional Information Net-work (IRIN), specializzato nell’analisidei conflitti dimenticati (o troppo spessopoco raccontati), ha dati aggiornati adue anni fa, perché tenere il passo con

la irrazionale tendenza umana ad uc-cidere il prossimo non è facile.L’Africa è al momento il continente nelquale si combatte di più. Oltre alleguerre dichiarate ed alle situazioni dicrisi, sono in corso nove missioni militari,dette di peacekeeping, dell’Onu. Nel-l’occhio del ciclone ci sono Algeria,Ciad, Costa d’Avorio, Liberia, Libia, Mali,Niger, Nigeria, Repubblica Centrafricana,Repubblica Democratica del Congo, Sa-hara Occidentale, Somalia, Sudan e SudSudan. In crisi seria anche Burkina Faso,Etiopia, Guinea Bissau e Uganda.Va male anche in Medio Oriente doveè in corso una specie di guerra mondialein miniatura. In Siria sono coinvoltedirettamente le potenze globali: StatiUniti, Russia, Regno Unito e Francia.Oltre ad una serie di attori con velleitàdi leadership regionale, ovvero Israele,Iran, milizie curde e libanesi e Turchia.In azione anche finanziatori degli Emirati

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I giochi di potere delle lobby delle armi

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razzate, cannoni, carri armati e mitra-gliatrici fanno funzionare fabbriche,danno lavoro, sviluppano settori dellaricerca. Mentre il mercato delle piccolearmi, quello orientato ai civili, liberaspazio per negozi, reti commerciali,specialisti della sicurezza, scuole d’ad-destramento e naturalmente fa affarid’oro con il mondo del crimine. Perl’esperto dell’IRIAD «questo “complesso”è una articolazione tricefala e difattile aziende non provano ad esportarearmi al di fuori dell’approvazione delpotere politico, anche perché farlo po-trebbe comportare dei contraccolpi ne-gativi sulla strategia politica interna-zionale del loro stesso Paese. Oggi ve-diamo i governi nella veste di agentipromotori dell’industria. Il sostegno cheTrump sta dando all’Arabia Sauditanella guerra dello Yemen lo ripaga conle sanzioni all’Iran. Vietando agli altriPaesi di commerciare con Teheran equindi di comprare il petrolio iraniano,colpisce il principale competitor di Riadnel mercato dell’energia. Ed i sauditihanno già annunciato che aumente-ranno il costo dei loro prodotti petroli-feri».Ed il futuro? «Siamo certamente in unaseconda guerra fredda – conclude Si-moncelli - con in più una molteplicitàdi attori sullo scacchiere internazionaleche rendono più difficile la gestionedel quadro politico. Prima, grosso modo,c’erano solo due competitor a livellointernazionale, gli Stati Uniti e l’UnioneSovietica. La Cina, per esempio, avevaun ruolo del tutto marginale, mentreoggi Pechino si avvia a diventare ilprimo protagonista rispetto alla Russia,anche perché cresce enormemente lasua importanza economica dello scenarioasiatico e del Pacifico».A discapito delle apparenze, quindi, ilnostro pianeta non è per nulla indirizzatoverso un cammino di pacificazione glo-bale. Il complesso industriale-militare-politico lavora nella direzione opposta.In un silenzio che diventa ogni giornopiù drammatico.

citare la storica questione coreana, dasola vero e proprio incubo per la pacemondiale fin dal 1950.E l’Europa? Problemi complessi e continuiscoppi di violenza in Cecenia, Cipro,Georgia, Kosovo, Ucraina e Russia.

CONNIVENZA POLITICAInvece di affrontare le incognite delfuturo, mentre il mutamento climaticocausa danni imponenti al pianeta e lacrisi finanziaria mondiale cominciatanel 2007 continua a colpire, i Paesi piùpotenti da sempre ed alcuni nuovi ar-rivati smerciano armi e contribuisconoalla crescita esponenziale dell’intolleranzae dell’odio.Maurizio Simoncelli, vicepresidente del-l’Istituto di Ricerche Internazionali Ar-chivio Disarmo (IRIAD), a proposito delruolo delle industrie produttrici disistemi d’arma ha detto a Popoli e Mis-sione: «Si parla di complesso militare-industriale, ma in realtà la definizioneè monca. Sarebbe meglio definirlo com-plesso militare-industriale-politico. NegliUsa, per citare un caso tra tanti, questa

relazione è evidente.Ci sono dirigenti delleaziende che diven-tano ministri o sot-tosegretari e chehanno ruoli chiaveall’interno dell’ese-cutivo. Per fare unesempio del passato,Robert McNamaraveniva dall’industriaed è diventato poiSegretario alla Difesadurante la presidenzadi John F. Kennedy».La guerra e le armi,infatti, non sono soloportatrici di morte edistruzione, ma rap-presentano anche unefficacissimo stru-mento per creareprofitti e ricchezza.Aerei da guerra, co-

Arabi e dell’Arabia Saudita. La stessacompagnia di giro si fronteggia inYemen ed in Iraq. Si combatte in Libia,che è una polveriera pericolosissima,mentre il Libano è in uno stato di peri-colo permanente. E last but not least,ultima ma non meno importante, c’èla Striscia di Gaza, chiusa nella morsadi Tel Aviv e controllata da Hamas, unabomba sempre pronta ad esplodere.In Sud America ci sono Colombia edHaiti in bilico, Brasile, Venezuela e Ar-gentina con problemi interni moltogravi ed il Messico è un vero e propriomattatoio messo a ferro e fuoco oraper ora dai narcotrafficanti. Nel 2017nel Paese che fu di Pancho Villa ci sonostati 24mila omicidi, più ammazzamentiche in Somalia e Afghanistan messi in-sieme.In Asia c’è l’Afghanistan ormai nel caosda 39 anni, il Tibet alle prese con l’im-perialismo cinese, le Filippine soffocatedai trafficanti di droga. India, NagornoKarabakh, Kashmir, Kirghizistan, Pakistane Thailandia sono dilaniati tra colpi diStato e sommosse interne. Per non

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FOCUS Un libro, un’intervista

Oltre l’egoismo,l’amore di Dio

di GIULIO [email protected]

Don Paolo Scarafonie Filomena Rizzo.

Gli autori collaborano nell’insegnamento dellaTeologia in Italia ed in Africa, nella pubblicazione dilibri e articoli, e nelle missioni in Etiopia. In questaintervista parlano del loro ultimo libro che mette alcentro l’amore nel cuore della Chiesa e dell’umanità.

“L’ egoismo non è un attri-buto di Dio” di Paolo Sca-rafoni e Filomena Rizzo.

Questo il titolo del vostro nuovo libro.Non è troppo astratto oggi scrivereun libro su Dio?«Scrivere un libro su Dio per noi significaanche scrivere un libro sulla Chiesa esull’umanità. Siamo partiti dalla nostraesperienza ecclesiale, gettando lo sguardopiù in alto al fine di non rimanere in-trappolati in questioni immediate, ecercando di capire quale percorso haimboccato la Chiesa e l’umanità dal

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conciliare ribadito da papa Francesco».

Linguaggio semplice. Concetti chiari.Un nuovo modo di fare teologia?«La nostra collaborazione teologica ciha chiarito la strada. Ci siamo propostidi partire dal basso, non soltanto daglistudi, ma anche dalla vita. Cerchiamoun modo di avvicinare Dio a chi non loavvicinerebbe mai attraverso un testodi teologia. Il nostro non è un manualema comunque un testo teologico. Trop-po spesso i libri di teologia, anchequelli che vorrebbero rivolgersi algrande pubblico, in realtà parlano adun gruppo ristretto, agli “addetti ailavori”. Gran parte del popolo di Diorimane estraneo all’elaborazione delpensiero teologico. La sfida è quella diriavvicinare un pubblico più vasto nonabituato a pensare a Dio. Quel lin-guaggio così astratto ha allontanatole persone. La teologia oggi è comple-tamente fuori dal tessuto quotidiano.In questi giorni ci è capitato di parlarecon alcuni ragazzi che nell’orientamento

universitario scartano le università cat-toliche perché gli esami di teologiaproposti nel piano di studio sarebberoper loro completamente estranei econsiderati materie “da sfigati”. In que-sto libro abbiamo cercato di esprimerele verità della fede cristiana su Diocreatore e salvatore, e i suoi rapporticon le creature, attraverso un linguaggiovolutamente semplice, accessibile atutti, e con un solido fondamentoscientifico, che ci auguriamo non de-luderà gli esperti. Il testo è frutto del-l’impegno in ambito accademico, pa-storale e missionario».

Parlate di Dio per parlare della Chie-sa?«In questo libro esce fuori una chiaralettura del cammino della Chiesa po-stconciliare che entra nel mondo, edin mezzo ad un grande travaglio co-mincia a vedere orizzonti e segni piùveri di vita cristiana e di autenticoprogresso umano. Nel catalogo delleEdizioni Cantagalli il libro è inserito »

Concilio in poi; ma non solo. La visioneche gli uomini hanno su Dio si riflettesulle relazioni umane. La questione deldivino è in stretta relazione con laquestione della esistenza umana».

Come mai l’Editrice Cantagalli, chespesso accoglie autori con una visionediversa da papa Bergoglio, ha accettatodi pubblicare un libro così chiaramentein linea con il magistero attuale, eaddirittura con la prefazione di donDario Vitali?«Questo nostro libro mostra che lalinea di papa Francesco non lascia in-differenti e trova posto anche sugliscaffali delle edizioni Cantagalli. Il libroè stato accettato integralmente, cosìcome lo abbiamo presentato, anchecon la prefazione di don Dario Vitali.Don Dario è l’ecclesiologo dell’UniversitàGregoriana, tra i maggiori esperti dellasinodalità, e per questo consultoredella Segreteria generale del Sinododei Vescovi. Egli esprime in modo moltochiaro la necessità del cambiamento

Don Scarafoni e Rizzo in visita alla missione di Gumuz, Etiopia.

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un Dio che chiama alla relazionalità,dispone non da solo il cammino da se-guire, ma insieme a noi. Tanti hannofalse idee su Dio e lo trasformano nelprimo degli egoisti, per poter giustificareil loro egoismo: l’onnipotente al serviziodei potenti. Ci addolora sempre ricordarela frase di Mu’in Bsisu nei suoi “Quadernipalestinesi”: «I ricchi hanno Dio e lapolizia, i poveri hanno le stelle e ipoeti». I poveri non sembrano percepireancora oggi chiaramente che Dio stadalla loro parte. Come direbbe papaFrancesco si tratta di un Dio che rifiutala “cultura dello scarto”, si rivela comeil Dio potente proprio nella “tenerezza”.Man mano che si procede nella lettura,

nella sezione “Cristianesimo e mondomoderno”. In mezzo a quel travagliodella Chiesa, che mette a disagio nonsoltanto i cristiani, il nostro punto diosservazione infonde serenità. Parteda una molteplicità di ascolti. Non vo-gliamo creare uno schieramento a fa-vore o contro papa Francesco; piuttostocogliere gli elementi di continuità e dinovità nel percorso della Chiesa, spe-cialmente del magistero pontificio con-ciliare e postconciliare».

Una Chiesa di comunione e di servizio.Siete sicuri che ormai sia questo ilcammino intrapreso?«Sì, pensiamo che, anche se in mezzo

FOCUSFOCUS

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In occasione dellacelebrazione di unaLiturgia etiope.

a tante resistenze e difficoltà, sia ormaiirreversibile nella Chiesa il superamentodell’ideologia, del clericalismo, dell’isti-tuzione e delle apparenze. La Chiesacon fatica cerca di uscire da una si-tuazione di stallo, di egoismo e di pri-vilegio, per tornare a mettersi veramenteal servizio dell’umanità intera e ditutto il Creato. Ci sembra che stiamopassando dalla fase di decisione sedobbiamo intraprendere la strada delservizio, alla fase di come farlo».

Che c’entra l’egoismo con Dio?«Lo sguardo si posa su un Dio chevuole il bene di tutti e non escludenessuno, tanto meno i piccoli e i poveri;

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Un libro, un’intervista

non solo si cambia idea su Dio, maanche sull’uomo».

Voi parlate anche dell’egoismo pre-sente nella mentalità dei conservatorifondamentalisti…«Descriviamo sinteticamente l’egoismodei borghesi e dei conservatori evan-gelici e cattolici, specialmente negliStati Uniti. Offrono una visione mo-struosa di Dio, garante della prepotenzadegli eletti, che sono loro, ai qualiavrebbe consegnato il dominio sulCreato, contro l’immensa massa di co-loro che sono sfavoriti. La narrativadella paura è il grande punto di forzamediatico che essi usano. Dio assicu-rerebbe l’ordine stabilito e il loro pri-vilegio. Papa Francesco è loro nemicoperché propone la narrativa della spe-ranza e dell’ottimismo a quella dellapaura e affermacon maggiorechiarezza e fran-chezza, sulla sciadei suoi prede-cessori, la caritàcome motoreprofondo delcammino dell’uo-mo e del mondointero».

Ma questa stra-da è percorribi-le?«Molte persone,anche tra i cat-tolici, restanoperplesse sullarealizzabilità diquesto cambia-mento del cuoreumano. Moltisorridono quando si parla di amoreper risolvere i problemi dell’umanità.Ormai è chiaro che i potenti della Terrahanno rifiutato il cammino dell’amore,proposto da Cristo. Per questo papaFrancesco si rivolge in modo preferen-

D opo Rimbo, in Svezia, dove si è svolta laconferenza di pace per lo Yemen, qual-

cosa forse inizia a muoversi nel Paese arabodevastato dalla guerra. L’Onu ha presentatodue bozze per un piano di pace: una delledue prevede la riapertura dei valichi diconfine e degli aeroporti per consentire l’in-gresso degli aiuti umanitari; la seconda, unostop alle azioni militari attraverso la forma-zione di un comitato militare e di sicurezzaformato da ribelli Houthi e governo. Le Na-zioni Unite faranno da supervisore. Inoltrele due delegazioni che rappresentano i con-tendenti hanno parlato per la prima volta discambio dei prigionieri. Adesso più che maisarà però importante il contributo della co-munità internazionale per agevolare il dialogoe lo scambio. La prima cosa che l’Occidentedovrà seriamente smettere di fare è sostenerel’Arabia Saudita anche tramite l’invio di armi.Tra i responsabili del rifornimento bellico,come è noto, ci siamo anche noi con la fab-brica di bombe Rwm di Domusnovas, inSardegna. I gesti di riconciliazione per lo Ye-men devono venire anche dal basso, nonsolo dall’alto: va in questa direzione ilconcerto del musicista jazz Gavino Murgia,a Iglesias a sostegno del primo flebile incontrotra le parti in conflitto. Ad organizzare l’eventoerano il Comitato di Riconversione dellaRwm e l’Arci Sardegna. L’idea è nata quandoMurgia ha dichiarato pubblicamente il propriodolore di jazzista per le nostre bombe sgan-ciate sullo Yemen.La consapevolezza di quello che sta succe-dendo oramai da oltre quattro anni nelPaese mediorientale, riguarda in effetti ognu-no di noi: perché le guerre sono lontane male implicazioni ce le abbiamo sotto casa. Seai tavoli della pace non fanno seguito fatticoncreti da parte di coloro che alimentanole guerre, lo stallo durerà in eterno. Di certoil tavolo di Rimbo non porterà a una soluzioneimmediata né alla fine della guerra. Ma èun primo passo e non possiamo permettercidi lasciarlo morire.

di Ilaria De Bonis

PRIMI PASSI PERLA PACE IN YEMEN

OSSERVATORIO

MEDIO ORIENTEziale ai poveri. Dalla loro realtà puòvenire la speranza di un passo avantidi tutta l’umanità: i poveri rompono inostri confini, le nostre sicurezze edanno vita ad una più grande relazio-nalità».

Si può superare realmente l’egoismo?«Pensiamo che sia possibile. Non ci il-ludiamo. Si tratta di un cammino lungoe faticoso. Bisogna continuare conforza sulla strada della purificazioneinterna alla Chiesa, intrapresa dai papi,e specialmente da papa Benedetto,che ha rifiutato una Chiesa che vuoleessere potente nel mondo e si permettedi operare in modo disonesto, insi-nuando l’egoismo in tutte le cose,anche le più sante. Nel libro, comeconclusione, abbiamo suggerito treelementi da sviluppare, contro il pre-

valere dell’egoi-smo: la relazio-nalità, il discer-nimento e l’im-previsto. Le trecose vanno sem-pre insieme epossono aiutarea ridurre il gran-de problema delclericalismo cheblocca le relazio-ni, che trasformail discernimentoin calcolo e falsaprudenza e pre-tende di control-lare tutto. Noiamiamo la Chie-sa. Invece di unDio per pochi euna Chiesa di po-chi santi, insieme

a papa Francesco vorremmo “un Dioper tutti e una santità per tutti”. Saràimportante ripartire dalle cose quoti-diane, dalle relazioni familiari. L’egoismosi vince con l’amore. Dove si vivel’amore, lì inizia il Paradiso».

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18 P O P O L I E M I S S I O N E - G E N N A I O 2 0 1 9

STORIA DELLA MISSIONE

di ILARIA DE [email protected]

P aolo di Tarso, nato nell’allora Cilicia, in Asia Mi-nore, presumibilmente attorno al 10 d.C., con ilnome di Saulo, può essere considerato il primo

grande missionario della Chiesa. Da pagano, di famigliaebraica, divenne cristiano, anzi da persecutore dicristiani divenne missionario della Parola. Lui stesso sidefiniva «l’apostolo dei Gentili»: fu prescelto dalloSpirito Santo - colpito fisicamente dall’apparizionedivina - che lo sconvolse totalmente e da quelmomento in poi amò così tanto Cristo da farsi divul-gatore del suo messaggio di salvezza. Da feroce tortu-

Con questo numero si apreuna nuova rubrica che cicondurrà attraverso unviaggio nella storia dellamissione, dagli esordi ainostri giorni. Si tratta di unaffascinante excursus

spirituale e storico chevuole indagare un percorsoe tracciare una traiettoriaper il futuro. La missione èin continua evoluzione,come sappiamo, e noi citroviamo attualmente inuna fase di cambiamento,ma non possiamo nontenere conto del passato edella strada che ci hacondotti fin qui.Iniziamo il nostro viaggiocon la storia del primomissionario in assoluto:san Paolo di Tarso, vissutotra il 10 e il 64 d.C.

Paolo, il primomissionario

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19A P O P O L I E M I S S I O N E - G E N N A I O 2 0 1 9

Dagli apostoli ai testimoni di oggi

avrebbe poi definito come una sorta di«agguato della Grazia» di Dio: «Io chesono stato afferrato da Gesù Cristo»,scrisse (Fil 3, 12). Una luce dal cielo loinvestì, rendendolo cieco, e una voce glichiese: «Saulo, Saulo, perché mi perse-guiti?». E lui: «Chi sei o Signore?»; e lavoce: «Io sono Gesù che tu perseguiti.Orsù alzati ed entra nella città e ti saràdetto ciò che devi fare» (Atti 9, 3-7). Ildivino, cioè, irrompe in modo “prepo-tente” nella storia di un uomo che erasostanzialmente un fariseo. «Mentre si

reca a Damasco per combattere e im-prigionare coloro che professano il nomedi Cristo, giunto alle porte della città,Saulo fa l’esperienza di una straordinariailluminazione. Lungo la via, Cristo risortosi presenta a lui e, sotto l’influsso diquesto incontro, si produce in lui unaprofonda trasformazione: da oppositoredel Vangelo, ne diviene grande missio-nario. La lettura degli Atti degli Apostoliricorda con abbondanza di particolariquesto avvenimento che ha cambiato ilcorso della storia», a pronunciare questeparole è papa Giovanni Paolo II nel

ratore dei seguaci di Cristo, divenne pa-store: la sua rabbia si tramutò in unafeconda mansuetudine, attraverso l’ef-fetto dello scandalo che Cristo produssenel suo cuore. Una conversione miraco-losa, quella di Paolo, talmente radicaleda non avere pari. Sebbene non avesseconosciuto di persona Gesù, fu tra i di-scepoli il più appassionato e convinto. Ilsuo contributo alla diffusione del mes-saggio evangelico è anche molto estesogeograficamente.Un bel libro di Teresio Bosco, uscitoqualche anno fa per la Elledici, dal titolo“Paolo. Primo missionario”, parla di luicome di una figura ricca e complessa:l’Apostolo delle nazioni, come vennedefinito, prima di essere l’autore delleLettere indirizzate alle diverse comunità,è un predicatore. Divulgò la parola inSiria, dove ebbe in un certo senso, deipredecessori. A Damasco, a Tarso e inparticolare in Antiochia, erano già sortedelle comunità nelle quali convivevanoex giudei e coloro che non si considera-vano vincolati alle stringenti regoleebraiche di riposo sabbatico, circoncisionee astinenza da cibi contaminati.Prima dell’ “incontro” con Gesù, Paoloperseguitava coloro che vivevano total-mente riferiti agli insegnamenti del Na-zareno. Di lui, della sua conversione mi-racolosa e delle modalità della sua pre-dicazione, parlano numerosissimi studiosi,teologi come Giancarlo Biguzzi che hascritto diversi libri e in particolare iltesto dal titolo “Paolo e la donna”, cheindaga il rapporto con le donne cristiane.A Filippi, Corinto, Efeso, Paolo scegliecome collaboratrici alcune donne allequali non chiede affatto di tacere, comespesso si pensa erroneamente di lui, in-dicato come apostolo contrario alla pre-dicazione femminile. Prima della suaconversione, scrivono gli esperti, Paolonon tollerava la dedizione totale e latestimonianza radicale dei cristiani cheerano per lui dei sacrileghi. Sulla via diDamasco, mentre andava in Siria da Ge-rusalemme, accadde ciò che lui stesso »

O ltre 400 persone uccise in un solo anno. Il2018, appena terminato, è stato l’anno più

sanguinoso nell’ultima decade per il Kashmiramministrato dall’India. Nella valle omonima,contesa dal Pakistan, si è intensificato unconflitto fra militari indiani e militanti filo-pa-chistani che dura dal 1989. In realtà, questaregione himalayana è stata anche teatro di treguerre indo-pachistane. Il conflitto in corso,invece, è scaturito a fine anni Ottanta daelezioni contestate da vari gruppi musulmani,filo-pachistani.L’escalation di violenze ha avuto inizio nelluglio 2016, quando le forze di sicurezza indianehanno ucciso il leader di un gruppo armato.Le manifestazioni di protesta sono state di unaportata mai vista prima. La situazione è cosìgrave che finalmente lo scorso giugno l’AltoCommissariato Onu ha redatto il suo primorapporto su scontri e abusi. La relazione evi-denzia violazioni dei diritti umani da ambo leparti, seppure con proporzioni diverse. Al-l’esercito indiano è imputato un uso eccessivodella forza, che ha causato morti e feriti anchetra i civili: almeno 145 da metà luglio 2016 amarzo 2018. Nello stesso periodo i gruppiarmati hanno ucciso 20 cittadini inermi. Inparticolare, i militari governativi sono condannatiper l’uso delle pistole ad aria compressa o apiombini che, sebbene meno letali delle armiusuali, hanno assassinato 17 persone e nehanno ferite più di seimila con danni spessopermanenti.A novembre dello scorso anno, le immagini diuna bambina di 19 mesi colpita gravemente aun occhio erano sui principali media internazionali.Heeba è la vittima più piccola dei cosiddetti pel-let-guns. La madre Jan ha raccontato: «Stavopreparando la colazione, quando a pochi metrida noi sono cominciati degli scontri tra locali esoldati. Il fumo dei lacrimogeni è entrato incasa. Heeba ha cominciato a vomitare e l’altromio figlio di cinque anni non riusciva a respirare.Sono scappata fuori con i bambini, ma Heeba èstata ferita». Come la casa di Jan, il Jammu Ka-shmir sembra una trappola per civili espropriatidei loro diritti fondamentali, mentre restanoimpuniti stupri, sparizioni, esecuzioni.

di Francesca Lancini

TRAGICO BILANCIOSUL KASHMIR

OSSERVATORIO

ASIA

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apostoli che lo arricchirono con la co-noscenza della vita e della Parola diGesù. Da allora in poi Paolo intrapreseuna serie di viaggi apostolici, spesso ac-compagnato dall’apostolo Barnaba e daaltri discepoli e amici. Conobbe perse-cuzioni e prigionia, da parte degli ebreie dei romani, ma non si fermò mai,perché a quel punto la sua fede era to-talizzante e la sua sete di verità iniziòad essere contagiosa. La sua missione loportò ad essere perseguitato e poi mar-tirizzato, a Roma, attorno al 64-67 d.C.Ma di lui ci rimane molto: le Lettere cheha lasciato Paolo sono alla base dellaDottrina della Chiesa come la conosciamo.Ha toccato nei suoi studi e nelle suepredicazioni tutti gli argomenti legatialla vita terrena degli uomini e al cam-mino verso la salvezza. In san Paolo laChiesa riconosce uno dei suoi più grandi

Dagli apostoli ai testimoni di oggi

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discorso che fece il 6 maggio 2001proprio a Damasco, nella cattedrale cat-tolica greco-melchita. Non appena aPaolo tornarono le forze, dopo la “visione”sulla via di Damasco, si mise a predicarenelle sinagoghe: «Destando generalemeraviglia, va’ proclamando Gesù di Na-zareth come Figlio di Dio, cioè il Cristo»(At 9, 19-22). Non fu facile per Saulocomprendere quella chiamata, né ade-guarsi alla sua nuova vita. Perché furinnegato dai suoi compagni e guardatocon sospetto da coloro i quali eranoabituati a vederlo come un nemico,ossia i primi cristiani. Insomma, Paolonon era più a suo agio in nessun luogo,e non era più sostenuto né dentro néfuori. Un totale isolamento che però luiebbe la forza di sopportare e di nonsentire come un peso. Successivamenteincontrò e frequentò Pietro e gli altri

sapienti e maestri e il primo dei suoipredicatori. Dello stile e del metodoseguiti da san Paolo nella sua attivitàmissionaria parlano gli Atti degli Apostolie soprattutto le sue Lettere, autenticistrumenti di evangelizzazione. Ne risultauna figura altamente significativa, unmodello apostolico per tutta la Chiesa,come scrivono Paolo Iovino in “Paolo:esperienza e teoria della missione” eCarlo Ghidelli, “Lo stile e il metodo mis-sionario di Paolo”, in Parole di Vita. Lasua vita e la sua storia sono esemplari ein un certo senso simili a quelle chepossono vivere nella persecuzione alcuninostri missionari anche al giorno d’oggi:inviati in Paesi spesso ostili alla fedecristiana, oppure ignorati o calunniatiper la loro fede profonda, vanno avantinell’evangelizzazione e nella loro testi-monianza fedele alla figura di Gesù.

La Basilica di San Paolo fuori le mura.

STORIA DELLA MISSIONE

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MO(n)DI DI DIRE

Prendiamociil tempoper vivere«S aliamo sullʼautobus e prendiamo posto… Comincia-

mo a guardarci attorno, ad agitarci e a chiedere: “Quan-do parte lʼautobus?”. “Come ̒ quandoʼ?” risponde il guidato-re stupito. “Quando ci sarà abbastanza gente da riempirlo”».Così il cronista Kapuścińsky rappresentava due concezio-ni opposte del tempo che, per lʼeuropeo, esiste a prescin-dere dallʼuomo e lo rende schiavo, mentre per lʼafricano è«una categoria molto più flessibile, aperta, elastica, sogget-tiva».«Pole pole», dicono nella lingua swahili che vuol dire «pia-no, piano».Per padre Stefano Camerlengo, superiore dei Missionari del-la Consolata, «è una cultura, una mentalità per cui non valela pena correre e affannarsi». Non è indolenza, ma calma:è la capacità di vivere il tempo, arricchendolo di significatoe relazioni.Ha imparato questo padre Fernando Paladini, missionario

per 25 anni in Congo: «Pole pole ndiyo mwendo», cioè «pia-no piano è il giusto andamento».«In Rwanda, invece, si dice “buhoro buhoro ni rwo rugen-do” – racconta lʼabbé Gakindi Jean Marie Vianney – “pianopiano si fa il viaggio o lʼuccello fa il suo nido”».Per un proverbio congolese, noi abbiamo lʼorologio e gli afri-cani il tempo, ed è curioso che, in una classifica mondialestilata da Robert Levine in A geography of Time, il Paese piùveloce risulti proprio la Svizzera.«Per me che sono siciliano, invece, non è un concetto lon-tano dallʼimmaginario perché, notoriamente, noi siamo simi-li». Antonio Di Lisi è di Monreale ma è stato a Migoli comelaico missionario fidei donum. «In Tanzania, pole pole vuoldire rallenta, prenditi il tempo che ci vuole, perché “harakaharaka, haina baraka”, ossia “veloce veloce, non cʼè bene-dizione”».È un tempo «dilatato, che scorre in modo da restare uma-ni»: sono le impressioni di viaggio di Claudia Favaro che la-vora al Centro missionario diocesano di Torino ed ha anco-ra negli occhi le immagini a rallentatore sulle strade sterra-te. Pole pole, infatti, per lei, è condivisione e rispetto dei rit-mi della natura e di strumenti più lenti: «Pomeriggio di piog-gia torrenziale: programmi saltati e cortile bloccato dal fan-go. Così, abbiamo iniziato a sbucciare i piselli con Dada, par-lando, conoscendoci, raccontandoci... Un tempo che, in Ita-lia, chiameremmo morto, ma che in Africa è tempo vissuto,donato, in ascolto dellʼaltro. Come il cibo, che cuoce a fuo-co lento».Pole pole e con semplicità, lʼAfrica ci mostra uno dei suoi va-lori più grandi: «Andare lenti […], ringraziare il mondo, far-sene riempire». Sta a noi metterci al passo contro una ve-locità che ci divora.

POLE POLE

Ci sono parole oespressioni che apronomondi: di valori,atteggiamenti, approccialla vita. In ogni numeroapprofondiremo modi didire diversi, attraversandopopoli e culture dei cinque continenti eattingendo allʼesperienzadiretta di persone del luogo, missionari,volontari, migranti.

di Loredana Brigante

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Metema, croceviadi disperatiO gni giorno è attraversata da invisibili viaggiatori che vi

arrivano dopo essersi messi nelle mani dei trafficanti diuomini, per poi varcare, nottetempo, la linea di frontiera colSudan, attraverso piste che si perdono nel fitto della vegetazione.Benvenuti a Metema, città al confine sudanese nel Nord-Ovestdell’Etiopia, rampa di lancio delle rotte migratorie in AfricaOrientale. È qui che converge chi inizia il viaggio attraverso ilSudan, e poi la Libia, e poi forse l’Italia e l’Europa. Etiopi,somali, ma soprattutto gli eritrei della diaspora, che già vivonoin Etiopia: nei campi profughi abissini ne stazionano 130mila,già scappati dalla loro patria per mettersi in salvo dal regimedistopico di Asmara. Per loro il viaggio verso l’Europa

rappresenta l’unica possibilità di disperato riscatto.Il check point di Metema è famoso in tutta l’Africa Centrorientale.Vi si arriva in pullman, partendo da Addis Abeba, oppure tra-sportati dagli smuggler, di nascosto dentro macchine o furgoniprivati. «Qui è pieno di trafficanti di uomini. Anzi, preferisconon parlare di questo argomento: rischio la vita se si sapesseche ne discuto con dei ferengi (come vengono chiamati glistranieri di pelle bianca in Etiopia, ndr) – racconta un uomosulla strada che porta dritto in Sudan – Per attraversare lafrontiera si paga dai mille ai tremila birr (dai 30 ai 100 euro,ndr). Soldi che in buona parte servono per corrompere lapolizia». Negli ultimi mesi il nuovo governo di Addis Abeba haintensificato i controlli e arrestato alcuni dei trafficanti più invista, ma la migrazione irregolare attraverso Metema nonsmette. Avere cifre ufficiali è molto difficile nel contesto etiope:occorrono infiniti permessi burocratici. Fino a due anni fa co-munque i passaggi illegali erano calcolati sulle 200 unità al

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Metema, check point al confine con il Sudan.

A cura di EMANUELA [email protected]

Testo di MARCO [email protected]

Foto di ENNIO BRILLI

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23P O P O L I E M I S S I O N E - G E N N A I O 2 0 1 9

momento del picco. Un funzionario dello International Organi-

zation for Migration Iom incontrato presso il check point

spiega informalmente che da Metema ogni giorno attraversanoil confine con il Sudan decine di persone, dirette alle porte deldeserto libico. Il movimento non si arresta.Nel dedalo amorfo di stradine addensate alla frontiera, ogninotte i migranti senza documenti stanziano pronti ad attraversareil confine. Così è avvenuto ad Hamid, nome di fantasia, unragazzo che già una volta ha tentato il viaggio verso la Libia,per essere poi intercettato in Sudan dalla polizia e rimandatoindietro. Oggi vive in uno dei campi profughi disseminati nelTigrai, la regione settentrionale dell’Etiopia che confina per911 chilometri con l’Eritrea. «Mi sono rivolto a un trafficantedi uomini etiope, è facilissimo contattarne. Mi hanno caricatoin un furgone fino a Gondar e poi portato a Metema, dovesono rimasto un paio di notti, poi ho attraversato la frontiera dinascosto, verso Khar tum». Ad oggi, secondo i dati

SULLE ROTTE MIGRATORIE IN AFRICA ORIENTALE

»

Il campo profughi di Hitsats.

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dell’Unhcr, si registrano in Etiopia circa 130mila rifugiati eritrei,concentrati soprattutto nel Tigrai. Dal 2004 è di 2.300 personeal mese la media di chi fugge dal regime del governo a Partitounico di Isaias Afewerki, il Fronte Popolare per la Democraziae la Giustizia (Fpdg). Secondo la procedura, i profughi che siaffacciano in Etiopia sono registrati in uno dei 12 puntid’ingresso lungo il confine. Quindi sono condotti ad Endabaguna,hotspot dove stanziano una ventina di giorni, fino ad essereassegnati in uno dei quattro campi per rifugiati dell’area: Schi-melba, Mai Aini, Adi Harush, Hitsats, gestiti dall’agenzia go-vernativa etiope Administration for Refugee and Retuneer

Affair (Arra), in collaborazione con Unhcr Etiopia.Avvicinarsi a queste immense distese di moduli abitativi in

lamiera è entrare in contatto con dei “non luoghi” di sconfortoe senso di vuoto. Le testimonianze raccolte fra i rifugiatiincontrati sono annichilenti: «Non abbiamo libertà di movimento.C’è molto controllo attorno a noi. E chi si comporta male ètenuto lontano dai programmi di ricollocamento verso l’Europa,la nostra unica speranza per uscire da qui in modo sicuro.L’altra via è quella della fuga, come ha fatto un ragazzoproprio ieri notte, scomparso. La prima tappa del nostroviaggio è Metema» raccontano. Altri riportano episodi durissimi:«Le violenze sessuali sono molto frequenti, soprattutto su mi-norenni. Ci sono suicidi ogni settimana. Trascorriamo legiornate pensando che dobbiamo andare via, scappare. Èun’ossessione che s’insinua nella mente». Fra gli eritrei esuli

S C A T T I D A L M O N D O

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Rifugiati nel campo Mai Aini.

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è cresciuta la paura dopo il patto di pace fra Etiopia ed Eritrea,siglato lo scorso luglio. Ora c’è ansia che la crisi fra i duePaesi sia da considerarsi conclusa e inizino i rimpatri. «Maper noi tornare significherebbe solo morire: noi espatriatisiamo considerati traditori da torturare», spiegano. Di più. Itestimoni raccontano che i campi pullulano di spie mandatedal regime eritreo: finti profughi mescolati ai veri rifugiati percontrollare, sorvegliare e fare punire, in patria, i parenti di chifa qualsiasi propaganda anti regime fuori Eritrea. Ma le difficoltàsono anche di ordine pratico: non c’è acqua a sufficienza, la-mentano in molti. Né spazi aggregativi, nonostante la massicciapresenza di minorenni. I rifugiati ricevono una quota di 60 birr

mensili (meno di due euro) e 10 chili di viveri per cucinarsi

qualcosa nelle proprie baracche. Con il loro reticolo di stradee le microscopiche attività commerciali che qualche profugo èriuscito ad aprire, i campi hanno l’aspetto di precari centriurbani, dove si consumano le giornate fra fili spinati divisori eil nulla del paesaggio lunare tutt’attorno degli altipiani tigrini.Non c’è da stupirsi che Metema, 480 chilometri a Ovest, conil suo amorfo profilo di città frontaliera, tutta negozi di piccolicommerci e baracche, rappresenti una delle porte verso il pa-radiso. Racconta un giovane eritreo ai bordi di una baracca diMai Aini: «Sappiamo che nel deserto di muore, che nel maresi affoga, che il governo italiano ha chiuso i por ti, macontinuiamo a volere andarcene da qui. Scappare è la nostraunica speranza».

SULLE ROTTE MIGRATORIE IN AFRICA ORIENTALE

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È nel concetto stesso di “minoranza” che si annidano i virus dell’esclu-sione sociale e della paura esistenziale. Sentirsi – ed essere – mino-

ranza etnica, religiosa, linguistica, economica, in realtà complesse, comenel Medio Oriente in fiamme, può portare alla perdita di speranza. Senzaun’adeguata protezione e senza dialogo la vulnerabilità può condurre an-che all’esodo dalle terre d’origine. È quello che di fatto accade in Iraq, inSiria, in Palestina, in Libano, dove le popolazioni di origine cristiana, manon solo, abbandonano il campo. Molte altre, come i curdi yazidi in Iraq,sono loro malgrado costrette a lasciare. La chiave dell’auto-affermazio-ne sta invece nell’uscire fuori dalla paura e dallo stereotipo, facendo per-no sui diritti umani fondamentali e l’identità religiosa.Lo hanno detto in vario modo e con accenti differenti, gli studiosi, i poli-

Minoranze, oIn un convegno internazionale aRoma, promosso dal Centro Studisul Medio Oriente della Fundacion

Social e dal Religion and Security

Council, si sono approfondite leragioni all’origine dell’esodo dei

cristiani e di altri gruppi minoritaridal Medio Oriente. La chiave è:

affermare i diritti umani e la libertàreligiosa, sentendosi non più

minoranza, ma maggioranza umana.

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27P O P O L I E M I S S I O N E - G E N N A I O 2 0 1 9

tici, i teologi che lo scorso 11 dicembrehanno preso parte al Forum “Il futuro del-le minoranze religiose in Medio Oriente”,svoltosi all’Ambasciata d’Italia presso laSanta Sede.«Mettere l’accento sullo squilibrio non èutile al dialogo - ha spiegato AmbrogioBongiovanni, professore di dialogo inter-religioso e interculturale all’Università Ur-baniana di Roma - Io ho vissuto in con-testi di minoranza cristiana ma dico chedobbiamo tutti andare oltre e non vedere

le cose in modo separato. I cristiani sonouniti e devono ragionare in modo intercon-nesso. La parola chiave è interconnessio-ne». Il dialogo interreligioso è una delle so-luzioni, ma può anche «essere confinatonella sfera dell’ingenuità – ha fatto nota-re Bongiovanni - oppure addirittura diven-tare uno strumento di controllo. È una pa-rola di moda e rischia di rimanere solo unbuon proposito. Ma sta a noi chiederci:“Cosa vogliamo farne del dialogo”? Lastrumentalizzazione politica non tiene

conto che esso ha un fondamento teolo-gico. Guardare l’altro come una minacciaè un dialogo che nasce male».Eppure l’ostacolo al dialogo tra le fedi ar-riva proprio dai «luoghi di potere». La pre-varicazione dei potenti non accetta loscambio dal basso. «Il dialogo è minac-ciato spesso dalla politica – ha spiegatoancora il docente - che non favorisce per-corsi di base. Un esempio? La libertà re-ligiosa è uno dei diritti fondamentali più cal-pestati al mondo, persino nei Paesi euro-pei dove la violazione avviene ed è oltre-tutto molto più sottile».Certamente i cristiani soffrono pene indi-cibili in Medio Oriente, hanno evidenzia-to tutti i relatori intervenuti al convegno,come soffrono altri gruppi numericamen-te scarsi, perché sono e si sentono emar-ginati, quando non addirittura perseguita-ti. L’Iraq è uno degli esempi più eclatanti.«Qui la situazione dei diritti umani non èmigliorata, anzi è in declino – ha detto Pa-scale Warda, ex ministro dell’immigrazio-ne e dei rifugiati nella Repubblica d’Iraq –Il Paese è pieno di rischi e di sfide. Le mi-noranze sono in declino nei loro stessi Pae-si. Ma non vogliono essere chiamatecosì, perché questo è un termine usato perindicare chi viene da fuori, chi è estraneoal contesto». La storia nell’antica Meso-potamia si ripete da migliaia di anni: le per-secuzioni, gli esodi, le violenze non sononuove, ha spiegato ancora la Warda.«Vorremmo ricostruire un nuovo Iraq - haprecisato la ministra - ma manca una stra-tegia politica per l’integrazione». Ancorauna volta il potere alimenta se stesso e siavvantaggia della paura e dell’emargina-zione degli altri. Inoltre, ha spiegato, l’Iraqè «circondato da Paesi che non voglionola sua libertà. La Turchia, ad esempio, chevuole proteggere solo se stessa. O l’Iranche bombarda il Sud. Ai confini del Nordci sono villaggi curdo-cristiani sotto attac-co».«Io non sono né uno storico né uno stu-dioso – ha esordito padre Rachid Mi- »

oltre i numeri

Bambini curdi yazidi in fugadall’Iraq con le loro famiglie.

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strih, ministro regionale della Custodia diTerra Santa per la Siria, il Libano e la Gior-dania - sono un frate, prima ancora cheun cristiano del Medio Oriente. Perché i cri-stiani diminuiscono? Perché emigrano la-sciando i Paesi arabi? Chi c’è dietro la loroemigrazione? La migrazione dura da se-coli: prima l’occupazione ottomana, poi nel1915 il massacro dei cristiani armeni. Nel1948 i cristiani in Palestina erano più del20% della popolazione mentre a Gerusa-lemme erano la metà del popolo, oggi sonosempre di meno».Quella che molti europei considerano la mi-naccia numero uno, quella islamica, nonè stata definita così dai relatori intervenu-ti al convegno. Non sono i credenti di fedemusulmana ad allontanare i cristiani dal-le loro terre, ma semmai una violenza set-taria e fondamentalista che minaccia tut-ti, islamici compresi. L’Isis chiaramente haavuto questa funzione in Iraq.«La questione di fondo – ha spiegato in-vece il professor Francesco Zannini, do-cente di linguistica araba al Pisai - è chei cristiani devono accettare il mondo ara-bo considerandolo come casa loro. Dal-la mia esperienza sul campo e dai miei stu-

di emerge che i cristiani del Medio Orien-te guardano con troppa enfasi all’Occiden-te, perché considerato faro della cristia-nità, ma dimenticano la loro appartenen-za a pieno titolo ai Paesi nei quali vivono,anche se a maggioranza islamica. Biso-gnerebbe aiutarli a promuovere l’idea diuna sola nazione e un solo popolo, seb-bene di diverse religioni. Spingerli a coo-perare con gli islamici, più che a percepi-re se stessi come vittime, sebbene in mol-ti casi essi lo siano».Ma cos’è esattamente che rende una mi-noranza socialmente ed economicamen-te svantaggiata?«L’appartenere ad una minoranza noncomporta automaticamente una situazio-ne di inferiorità o di sofferenza – ha pun-tualizzato ancora il professor Bongiovan-ni - Ci sono minoranze al mondo che go-dono di prestigio e di autorevolezza; mal’appartenenza può assumere una valen-za negativa quando il gruppo è in declinoo addirittura è perseguitato». Il motivo èspesso ideologico. Fa perno sul pregiudi-zio, sulla mancanza di cultura e la scar-sità di diritti condivisi. In poche parole afare la differenza sono la libertà, la demo-

crazia e la partecipazio-ne ad un progetto di cit-tadinanza collettiva.«Laddove i pregiudizinon ci sono, il conso-lidamento di una mino-ranza si basa su duefattori: strumenti quali-ficati per emergere al-l’esterno, e conserva-zione della propria iden-tità all’interno», ha det-to infine Bongiovanni.Emergere, essere ri-spettati, poter goderedegli stessi diritti di tut-ti gli altri, senza neces-sariamente scendere apatti con i dittatori,sono elementi fonda-

mentali per la riqualificazione delle perso-ne.In questo senso si è parlato in manieraestesa di Palestina, dove non è tanto la di-scriminazione religiosa a spingere via i cri-stiani soprattutto da Gerusalemme e Be-tlemme, quanto la mancanza di diritti el’occupazione militare israeliana.«La Terra Santa senza i cristiani sarebbesolo un museo», hanno detto i relatori. «Èindispensabile che i cristiani e le altre mi-noranze religiose si sentano parte integran-te della loro società. I cristiani non posso-no accettare la segregazione dagli altrigruppi», ha detto anche Elie Al Hindy as-sociato alla facoltà di Scienze politiche al-l’Università Notre Dame di Parigi. Infine, ladomanda cruciale: «Può la religione ac-cettare una logica di violenza? La volon-tà di potenza che schiaccia l’uomo è un’al-tra cosa. Paolo Dall’Oglio ce lo insegna»,ha concluso il professor Bongiovanni. Unasoluzione è quella di “de-istituzionalizza-re” il dialogo, partendo dal basso, metten-do le persone nella condizione di incon-trarsi e di scambiare davvero le esperien-ze, il vissuto, i progetti, per imparare a con-dividere ognuno le verità degli altri.

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APadre Rachid Mistrih, ministroregionale della Custodia di Terra Santaper la Siria, il Libano e la Giordania.

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LEBBRA

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UNA VOLTA ERA CONSIDERATA UNA MALEDIZIONE DI DIO CHESEGNAVA PER LA VITA UNA PERSONA. POI NEL 1873 UN MEDICONORVEGESE, HANSEN, INDIVIDUA IL BATTERIO COLPEVOLE E SCOPRECOME CURARLO. MALGRADO LE MODERNE TERAPIE, PERÒ, LALEBBRA È ANCORA UNA DELLE MALATTIE PIÙ DIFFUSE AL MONDO.

Lo stigmacurabileLo stigmacurabile

A cura di Giovanni Gazzoli e Luciano Ardesi

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Per millenni la lebbra ha rappresentato un maleterribile, incurabile e spaventoso, per le de-

formità che provoca. Ciò ha contribuito a infliggereogni sorta di discriminazione e di emarginazionenei confronti di coloro che venivano consideraticolpiti da un vero e proprio “castigo di Dio”. Laparola “lebbroso” costituiva di per sé un marchioinfamante che accompagnava il malato per ilresto della vita. Anche per questo il termine ogginon è più utilizzato. Per secoli i lebbrosari hannocostituito quellʼunica istituzione totale, dove lepersone venivano relegate fino alla morte in con-dizioni subumane.La conoscenza scientifica della lebbra è relativa-mente recente. Dobbiamo al medico norvegeseG.H.A. Hansen lʼaver individuato nel 1873 ilbatterio allʼorigine della malattia, che da allora hapreso anche il nome di “morbo di Hansen”. Coltermine di hanseniani sono talvolta indicati questimalati per non ricorrere allʼantico termine, caricodi paura e di stigma.Oggi la lebbra può essere curata. A partire dallʼiniziodel trattamento, la persona non è più contagiosa

e il suo isolamento non è più necessario. Se nonaffrontata adeguatamente o per tempo, la malattiaprovoca gravi disabilità, principalmente perché ilbatterio colpisce i nervi periferici degli arti superiorie inferiori e dellʼapparato oculare.

La situazione della lebbra oggiAnnualmente lʼOrganizzazione Mondiale della Sa-nità (OMS) pubblica i dati sulla situazione dellalebbra nel mondo, provenienti dai Paesi endemici.Gli ultimi dati disponibili fotografano la malattia al31 dicembre 2017. Uno degli indicatori importantiutilizzati è il numero annuale delle persone a cuiè stata diagnosticata la malattia. Nel 2017 sonostati diagnosticati 210.671 nuovi casi, di cui il39,3% donne (82.922), con una leggera diminuzionerispetto al 2016 (217.968).Interessante è la distribuzione geografica dellamalattia. Come mostra la tabella 1 affianco, ilSud-est asiatico è il più colpito (153.487, pari al72,86% del totale), seguito a lunga distanza dalleAmeriche (29.101, 13,82%) e dallʼAfrica (20.416,9,70%). Allʼinterno di questa distribuzione, tre

L’India, con126.164 casi dilebbra registratinel 2017, è ilPaese più colpitoal mondo.

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Paesi da soli concentrano lʼ80,2% deltotale mondiale. Il primo posto spetta al-lʼIndia con 126.164 casi, seguita dal Brasile(26.875) e dallʼIndonesia (15.910). LʼIndiaconcentra dunque oltre la metà delle nuovediagnosi. Altri Paesi con un numero signi-ficativo di persone colpite (superiore amille) sono: Bangladesh, Repubblica De-mocratica del Congo, Etiopia, Filippine,Madagascar, Myanmar, Mozambico, Nepal,Nigeria, Sri Lanka, Tanzania. Comunque,i numeri assoluti non dicono tutto: in alcuniPaesi con numeri relativamente inferiori, inuovi casi rappresentano una percentualepiù elevata, rispetto alla popolazione totale.

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Il rischio di abbassare la guardiaPer capire meglio queste cifre va precisato chedallʼintroduzione del trattamento standard dellʼOMSnel 1981 (vedi box a pag.32), sono stati raggiuntirisultati ragguardevoli: negli ultimi 36 anni, finoalla fine del 2017, sono stati curati milioni dipersone nel mondo. Nel 1991 lʼOMS ha adottatouna risoluzione nella quale si afferma che lalebbra può considerarsi eliminata, come problemadi salute pubblica, quando il numero delle personeregistrate per il trattamento (la cosiddetta “preva-lenza di registro”) è inferiore a un caso ogni10mila abitanti.In molti Paesi endemici che hanno raggiuntoquesto parametro, la lebbra non è più considerataun problema di salute pubblica. Ciò ha portato aduna situazione paradossale. Nella maggior partedi questi Stati, i servizi per il trattamento dellalebbra sono stati infatti ridotti e il personale non èpiù adeguatamente formato per garantire unadiagnosi precoce e un trattamento di qualità.Conseguentemente, in diverse aree geografichedei Paesi endemici, sono aumentati i casi dia-gnosticati tardivamente, in uno stadio dunquedove gli effetti sulla persona sono più importantie tali da provocare un maggior grado di disabilità,con effetti fisici irreversibili. Secondo le stime del-lʼOMS, nel mondo vi sono più di tre milioni di per-sone con disabilità gravi causate dalla lebbra cherichiedono cure quotidiane. Il minor controllo portaanche allʼaumento delle possibilità di contagio edi trasmissione della malattia. Inoltre, sempre acausa della diminuita attenzione, si ritiene che idati epidemiologici, raccolti annualmente dallʼOMS,siano sottostimati e quindi da non considerarsicompleti.

Guadare al futuroPossiamo affermare che la lebbra è ancora »

Il numero delle persone colpite sta lentamente di-minuendo negli ultimi anni, come mostra la tabella2 qui sotto, meno tuttavia di quanto preventivato.Soprattutto, ed è il dato più significativo dellʼultimoanno, in quattro regioni il numero è invece au-mentato rispetto al 2016: Africa (1.032 persone inpiù), Americhe (1.745, di cui 1.657 nel solo Brasile),Mediterraneo orientale (888) e, ancorché in manierapiù modesta, Pacifico occidentale (170).

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oggi un problema sanitario impor-tante in alcune aree del mondo.Da quando si dispongono farmaciefficaci, la strategia principale peril controllo della malattia si basaessenzialmente sulla diagnosi pre-coce e il trattamento, ma si do-vranno utilizzare sempre più in fu-turo nuovi indicatori per misurarnelʼandamento. Un dato significativo èquello della percentuale dei bambinial di sotto di 15 anni tra le personecolpite. Quando questa percentuale è ele-vata, significa che la catena di trasmissionedella malattia è ancora attiva e precoce. Nel2017, tra le persone diagnosticate, lʼ8,05% (16.979)aveva meno di 15 anni.Un altro indicatore significativo riguarda la disabilità.La percentuale delle persone diagnosticate chepresentano gravi disabilità, a causa di una diagnositardiva, è ancora elevata: nel 2017 tra le personediagnosticate era pari a 5,78% (12.189 sul totale,di cui 238 con meno di 15 anni). Le disabilità, oltrea determinare un importante carico sanitario alungo termine, tendono a perpetuare il preconcettoe lo stigma e molti malati, dopo il trattamento, ri-mangono isolati, segregati, senza lavoro e senzapossibilità di reinserimento sociale.Nella storia della lebbra un punto è chiaro: ilcontrollo della malattia, con effetti duraturi, richiede

L a storia moderna della lebbra inizia con la scoperta del bat-terio da parte di G.H.A. Hansen nel 1873 in Norvegia. Altre

date significative sono il 1941 quando è stato introdotto il “sol-fone”, che può considerarsi il primo farmaco valido nella curadella malattia. Nella seconda metà degli anni Sessanta delsecolo scorso, è stata introdotta la rifampicina che ancora oggirimane il farmaco più efficace.Attualmente la lebbra è una malattia curabile poiché dal 1981è disponibile un trattamento specifico standard, chiamatoPolichemioterapia – PCT (associazione di tre farmaci: rifampi-cina, clofazimina e dapsone), che ha consentito di curare milio-ni di persone e ha permesso di interrompere l’internamentoobbligatorio nei lebbrosari. Infatti, dopo l’inizio del trattamento,

la persona non è più contagiosa e di conseguenza non è piùnecessario l’isolamento. La durata della terapia dipende dallaforma clinica della malattia: da un minimo di sei mesi a unmassimo di un anno.Nel 1991 è iniziata una nuova fase gestionale della lotta controla malattia: l’Assemblea Mondiale della Sanità adotta una riso-luzione che intende eliminarla entro l’anno 2000. Nella risolu-zione si afferma che può considerarsi eliminata, come proble-ma di salute pubblica, quando il numero delle persone regi-strate che sono in trattamento (prevalenza di registro) è infe-riore a un caso ogni 10mila abitanti. Tale indicatore è stato rag-giunto in vari Paesi endemici, ma ciò ha causato una diminu-zione della qualità dei servizi di trattamento. Oggi la lebbra sitrova nella lista delle Malattie Tropicali Neglette (MTN)dell’OMS. La diagnosi e il trattamento sono disponibili gratui-tamente nei centri di salute dei Paesi endemici.

Come curare lo stigma

A fianco: Gerhard Henrik Armauer Hansen,medico norvegese, scopritore nel 1873 delbatterio all’origine della lebbra.

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mondo. Ciò è dovuto ad un retaggio culturale dif-fusissimo, praticamente universale, che i progressinella conoscenza e nella cura della malattia nonsono riusciti a scalfire. Infatti, anche a causa delledisabilità permanenti e visibili dopo il trattamento,le persone colpite permangono isolate e segregate.Inoltre, senza lavoro e senza possibilità di reinse-rimento sociale, vedono le proprie condizioni divita ben distanti anche dagli strati più poveri dellapopolazione.Raoul Follereau (vedi box a pag. 34) aveva benvisto per primo che la battaglia contro la lebbrapassava soprattutto attraverso la lotta al pregiudizio:bisognava infatti fare dei malati di lebbra «personecome gli altri».Oltre allo sviluppo della medicina, decisiva è lariabilitazione delle persone colpite dalla disabilità.Da molti anni tale processo, che si avvale

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non solo unʼazione di tipo sanitario, ma anche unmiglioramento socio-economico della popolazione.Povertà, alimentazione insufficiente e sbilanciata,scarsa igiene coincidono quasi sempre con lamappa della lebbra. Laddove persistono, le condi-zioni socio-economiche precarie favoriscono latrasmissione della malattia.Per combattere la lebbra è dunque necessario unapproccio multisettoriale: trattamento precoce eadeguato dei malati, prevenzione delle disabilità,riabilitazione fisica, informazione e sensibilizzazionedella popolazione in generale per combattere lostigma, e riabilitazione socio-economica delle per-sone colpite.

Sviluppo inclusivo su base comunitariaIl preconcetto e lo stigma nei confronti dei malatidi lebbra sono ancora molto forti e presenti nel »

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P oeta, commediografo, scrittoree giornalista francese, Raoul Fol-

lereau (1903-1977) ha indissolubil-mente legato il suo nome alla battagliacontro la lebbra, iniziata quasi percaso nel corso della Seconda guerramondiale. Ma è stato soprattutto ungigante della solidarietà, il pioniere di battaglie e di metodologie,a cominciare dall’uso dei media, d’una straordinaria modernitàancora oggi. A lui dobbiamo ad esempio i “bilanci di guerra”,il confronto tra i costi degli strumenti di morte e i beneficiche se ne potrebbero trarre se quelle risorse fossero altrimentiimpiegate. «Datemi due bombardieri e curerò tutti i malatidi lebbra» è stato, in piena guerra fredda, uno degli sloganrimasti più famosi.Quando dall’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso siimpegna totalmente contro la lebbra, lo fa a tutto campo. Haun solo modo per abbattere le barriere orribili che circondanoi malati: non è un medico e pertanto usa l’esempio personaleper rimuovere i pregiudizi. Diventerà presto “l’uomo che ab-braccia i lebbrosi”. Ma sa che la solidarietà e l’amore (avevauna fede profonda) non possono andare in un’unica direzione.La battaglia contro la lebbra diventa quella contro tutte lelebbre: il denaro, l’egoismo, l’ingiustizia, la fame, la povertà,l’emarginazione. Si batte a favore dell’integrazione, delrapporto fecondo tra le religioni e le culture, e, naturalmente,della pace. Diventa, in estrema sintesi, il difensore e ilpromotore dei diritti degli ultimi.La sua penna è graffiante contro coloro che si accomodanoin una vita tranquilla ma indifferente, che non si lascia coin-volgere. Anche perché la sua passione è travolgente e nelgiro di pochi anni crea un movimento mondiale che gli so-pravvive in numerosi Paesi. Ha fin dai primi anni del suo im-

si deve garantire la parteci-pazione e il coinvolgimentodella comunità (villaggio, quar-tiere, scuola) dove le personecurate dalla lebbra vivono. Èla comunità che deve prendersicarico della persona, dei suoibisogni, dei suoi diritti, checoincidono, in ultima analisi,con quelli di tutti.Poiché le barriere che osta-colano le persone colpite (an-che se curate) sono molteplici,oggi i programmi di inclusionesociale adottano un approcciocomplessivo chiamato “Sviluppo inclusivo su basecomunitaria”. Lʼinserimento dellʼex malato sarà piùfacile se è lʼintera comunità che partecipa, offrendoa tutti uguali opportunità (le disabilità colpisconomolte più persone) di educazione e formazione, dilavoro, di partecipazione sociale e democratica.Lʼinclusione nella comunità costituisce il presuppostoper far venire meno i pregiudizi nei confronti dellepersone colpite dalla lebbra, e non solo.I gruppi di auto aiuto socio-economico sono aquesto proposito uno strumento fecondo di parte-cipazione comunitaria, attraverso lʼanalisi dei bisognie la ricerca delle risposte più adeguate, tenutoconto delle particolarità di ciascuna comunità. Laloro azione in ambito comunitario sviluppa il sensodella partecipazione, amplifica e potenzia il ruolodella società organizzata, della democrazia inultima analisi.

Triplo ZeroIl 2015, lʼanno in cui lʼOnu ha adottato i nuoviObiettivi di sviluppo sostenibile, è stato importante

dei risultati ottenuti in molteplici discipline, non èpiù esclusivamente centrato sul trattamento dellapersona, ma anche sullʼambito sociale. Affinchéuna persona possa ritenersi inclusa socialmente ènecessario coinvolgere le autorità pubbliche perchéinvestano in molteplici servizi (azioni multisettoriali).Necessariamente nei Paesi poveri, in aree isolate,

Follereau, l’uomo cheabbracciavai lebbrosi

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e cruciale per tutte le associazioni impegnate inazioni congiunte per raggiungere un mondo senzalebbra. LʼInternational Leprosy Federation (ILEP),di cui AIFO è socio fondatore (vedi box a pag.36),si è dotata di una nuova strategia operativa, inlinea con il programma globale dellʼOMS (2016-2020). In pratica i rispettivi piani operativi si fondanosu tre obiettivi principali:

1 - Interrompere la catena di trasmissione dellamalattia (Zero trasmissione): di particolare interessela ricerca in atto per definire un percorso di trattamentounico e breve per tutte le forme cliniche dellamalattia, la possibilità di utilizzare sul campo lachemioprofilassi per i contatti (rifampicina) e lʼintro-duzione di un vaccino;2 - Prevenire le disabilità causate dalla malattia

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T ra le opere durature di Raoul Follereau, la più nota è laGiornata mondiale dei malati di lebbra (GML), che si celebra

ogni anno, dal 1954, l’ultima domenica di gennaio, la terzasettimana dopo l’Epifania, quando la Chiesa leggeva il Vangelosecondo San Matteo: Gesù incontra e guarisce il lebbroso (Mt8,1-4). La GML si celebra ancora oggi in tantissimi Paesi, anchequelli che non sono di tradizione cristiana. Ad esempio: in India,dove si registra il più alto numero di malati di lebbra, si celebranella domenica dell’ultima settimana di gennaio che coincide

con quella della morte di Gandhi (30 gennaio 1948).La GML è l’occasione per ricordare che la lebbra non è ancorastata definitivamente sconfitta, non bisogna abbassare la guardacontro questa e tutte le altre lebbre. Una giornata di solidarietàche in Italia si celebra particolarmente, ma non solo, nelleparrocchie, coinvolgendo migliaia di volontari, e che da sempreè ricordata con un messaggio del papa. Quest’anno cadedomenica 27 gennaio, ma in Italia il suo svolgimento inizia benprima e si prolunga per quasi tutto l’anno.

La Giornata mondiale dei malati di lebbra

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Bambino affetto dalebbra, anche nota come“morbo di Hansen”,curato nell'ospedale diSitanala, in Indonesia.

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(Zero disabilità): nessun programma di controllopuò definirsi efficiente se non è in grado di dia-gnosticare un caso precocemente, prima quindidello sviluppo di qualsiasi tipo di disabilità;3 - Promuovere e sostenere lʼinclusione socialedelle persone colpite, eliminando le barriere po-litiche, sociali e culturali (Zero discriminazione):si tratta di sostenere lʼinformazione e il coinvol-gimento delle comunità, incentivando lʼazionedelle associazioni di persone che hanno sofferto

L’ Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau (AIFO) èstata fondata nel 1961, da un gruppo di volontari e missionari

comboniani, ispirati dal messaggio di Follereau. Oggi è una ongspecializzata nel settore della salute e dello sviluppo inclusivo,partner dell’OMS. A partire dalla battaglia fondamentale del suoispiratore, AIFO si è specializzata nella cura non solo della lebbraed ha iniziato ad integrare la cura di altre malattie tropicalineglette, che hanno con la lebbra in comune la disabilità, lapovertà e l’esclusione. Le sue iniziative (nel 2018, 42 progetti in 11Paesi dell’Africa, Asia e America Latina) promuovono, salute,diritti e lotta alle disuguaglianze. Si rivolgono agli ultimi, alle fascevulnerabili della popolazione, adottando l’approccio dello “Sviluppoinclusivo su base comunitaria” e collaborando con partner e per-sonale locali (associazioni non governative, movimenti popolari,congregazioni religiose, governi).

AIFO è al tempo stessoun’associazione che coin-volge centinaia di ade-renti e migliaia di vo-lontari sul territorio na-zionale, particolarmenteimpegnati non solo asostenere i progettiall’estero (attraversola GML o altre mani-festazioni), ma attivitàdi educazione alla cittadinanza globale,sensibilizzazione, informazione (pubblica il mensile Amici diFollereau) e di solidarietà con gli ultimi (poveri, migranti).Per saperne di più, visita il sito: www.aifo.it

L’eredità di Follereau nell’AIFO

a causa della malattia, garantendo la partecipa-zione dei loro rappresentanti nelle sedi istituzionali.Inoltre bisogna garantire lʼinserimento nel mondodel lavoro e lo sviluppo di attività produttrici direddito, volte al miglioramento delle condizionieconomiche. In definitiva, affinché la rispostapossa essere efficace e i risultati sostenibili, sitratta di promuovere contemporaneamente e in-dissolubilmente la resilienza del singolo e quelladelle comunità.

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Firenze, ndr), constatavamo che l’incontroera bello ma poi finiva lì: c’era bisognodi strutturare questa collaborazione. Ecosì abbiamo chiesto al Comune di Firenzedi accogliere una scuola per il dialogointerreligioso». Questa la genesi dell’ideae l’avvio del progetto.Oggi la Scuola suscita interesse non soloa livello regionale, ma anche nazionale:risale al 17 ottobre scorso l’incontro trail presidente della Repubblica, SergioMattarella, e una delegazione dell’ente.Concretamente la Scuola si rivolge aleader politici e culturali, oltre che aglioperatori dei servizi amministrativi e dellasanità, agli insegnanti e al mondo del-l’educazione, alle forze dell’ordine, al si-stema giudiziario e al futuro corpo di-plomatico in Italia, in Europa e nel mon-do.L’obiettivo principale è quello di prepararela dirigenza del Paese ad un prossimofuturo - che ormai è già presente – diuna società multiculturale, arricchendola conoscenza del linguaggio religioso epromuovendo il dialogo, l’inclusione

Florence School of Dialogue (FSD) -questo il suo nome inglese e sintetico -nasce poco più di tre anni fa, dallacomune volontà della comunità ebraica,cattolica e musulmana di Firenze. A dettadel presidente Levi, durante un recenteincontro con i giornalisti nel capoluogotoscano, «la Scuola è il risultato di unaconstatazione: negli ultimi anni, (noirappresentanti delle tre religioni abra-mitiche, ndr) quasi tutti i giorni siamostati chiamati ad intervenire nelle diverserealtà regionali per esprimerci sui valoricomuni e sulle vicende della società mul-ticulturale. Quando ci vedevamo perqueste questioni (per 20 anni Levi èstato rabbino della comunità ebraica di

C iò che colpisce di più, quando sivedono riuniti insieme i rappre-sentanti della Scuola fiorentina

di alta formazione per il dialogo interre-ligioso e interculturale, è che sono tuttiamici tra loro. Sì, perché il presidenterav Joseph Levi (ebreo) e i vicepresidenti,imam Izzeddin Elzir (musulmano) e mon-signor Andrea Bellandi (cattolico), si fre-quentano, si stimano e si vogliono ilbene di un’amicizia consolidata. Un’altrapeculiarità e originalità di questa Scuolaè il fatto che sia stata fondata dalle reli-gioni, non dalle istituzioni. Infatti, la »

A scuola di dialogo

A Firenze, da poco più ditre anni, grazie all’idea eall’impegno delle religioniabramitiche (ebraismo,cristianesimo e islam), ènata una Scuola di altaformazione per il dialogointerreligioso einterculturale. La societàitaliana guarda coninteresse a questo ente,considerato prezioso perpreparare il Paese ad unprossimo futuro - cheormai è già presente – disocietà multiculturale.

di CHIARA [email protected]

Le religionia serviziodella società

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balità, in una prospettiva positiva di cre-scita personale e di collante per l’inclusionesociale.Anche monsignor Bellandi, vicepresidentedella Scuola e vicario generale delladiocesi di Firenze, ne è convinto: «O lereligioni vengono viste e consideratecome un fattore che può contribuire amigliorare la società, oppure si perdeuna grande opportunità», ha affermatoil sacerdote davanti ai giornalisti toscani.D’altronde, precisa monsignor Bellandi,il dialogo interreligioso porta frutti se sifonda su tre pilastri: «Il dovere dell’identità,che implica che l’incontro con l’altrodebba seguire ad un’identificazione dise stessi; il coraggio dell’alterità, che si-gnifica credere fortemente che l’altrosia un bene, qualcuno che mi può arric-

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ A scuola di dialogo

e l’interazione positiva e cooperativa frapersone appartenenti a differenti culture.Un altro aspetto innovativo è la naturatrasversale della formazione, idonea adogni tipo di professionista che lavora acontatto con il pubblico, mentre le me-todologie utilizzate possono essere adat-tate a settori più specifici, divisi adesempio per categorie (amministrazionepubblica, medici, insegnanti, giornalisti,ecc.).Un elemento essenziale che caratterizzala Scuola è il coinvolgimento di leaderreligiosi esperti nel campo del dialogointerculturale, per imparare a scoprire lereligioni in una dimensione che non èaffatto generatrice di conflitti, quantopiuttosto promotrice di opportunità perl’uomo e la società umana nella sua glo-

chire, un fattore di positività; e, infine,la sincerità delle intenzioni, che sottintendeun dialogo non strumentale ma sincero,mosso dallo scoprire l’altro con una co-mune disponibilità alla correzione dieventuali sovrastrutture che non appar-tengono all’identità autentica della fede».Un contributo per far conoscere la Scuolafiorentina ai giornalisti è stato datoanche dal segretario generale dell’ente,Osama Rashid, in supplenza del vicepre-sidente, l’imam Izzeddin Elzir molto im-pegnato nel dialogo interreligioso e in-terculturale a livello locale, nazionale ed

europeo. Osama Rashid è nato in Iraq,ma da oltre 40 anni vive in Italia e nel2013 ha ricevuto dalla più alta caricadello Stato la nomina a Cavaliere almerito della Repubblica Italiana. Più chedi sé, Rashid ha voluto parlare dei suoiamici: «Levi – ha fatto notare - è israelianoe vive a Gerusalemme; Elzir è palestinese,originario di Hebron: insieme sono riuscitia creare dei ponti. Un esempio concretoche più si conosce l’altro, più si impara arispettarlo».Non c’è dubbio, dunque, che la conoscenzasia un antidoto all’intolleranza, come ilmodello della Scuola fiorentina per ildialogo interreligioso testimonia con-cretamente. Qui, è esperienza comune,l’altro è solo un mistero da scoprire econtemplare.

Premio Galileo 2000,Firenze, 25 giugno 2018

Firma del protocollo d'intesa con ilComune di Firenze, 8 novembre 2015

Forum for Promoting

Peace in Muslim

Societies, Abu Dhabi,6 dicembre 2018.

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edifici rimasti in piedi lungo le stradedissestate. Immutato era rimasto soltantoil largo, maestoso passaggio del Mekongsotto i ponti perlopiù precari della capi-tale. L’intero territorio era cosparso dimilioni di mine che hanno causato mortie mutilazioni anche per molti anni dopola fine delle violenze.Girata con fatica la pagina della Storia,la Cambogia di questi anni è uno deiPaesi più giovani al mondo, con l’etàmedia della popolazione che si aggiraintorno ai 22 anni. Reduce dal genocidiodel dittatore Pol Pot che, inseguendol’utopia omicida di un comunismo radicaleha ucciso oltre due milioni di persone, laCambogia ha subito la perdita d’identitàdi una delle culture del Sud-est asiatico.Basti dire che per essere arrestati daiKhmer Rossi, i soldati del dittatore,bastava portare gli occhiali e avere »

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L a Cambogia sopravvissuta al ge-nocidio sta cambiando in fretta,secondo le leggi della globalizza-

zione che dallo spopolamento delle cam-pagne portano all’urbanizzazione sel-vaggia delle città. Basta vedere igrattacieli e le costruzioni avveniristichedi Phnom Penh, risorta dalle sue maceriedopo la fine del regime di Pol Pot (1975-9) e della guerra civile, oggi diventatauna delle grandi capitali asiatiche con isuoi oltre due milioni di abitanti. Ven-

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t’anni fa i segni della distruzione del re-gime del sanguinario dittatore (all’epocaancora vivo e fuggito nelle foreste delNord del Paese) erano sui volti dei so-pravvissuti come nelle facciate dei pochi

di MIELA FAGIOLOD’ATTILIA

[email protected]

La rinascita della Cambogia

Una piccolaChiesapiena di vita

Padre Luca Bolelli, missionario del Pime daoltre 11 anni in un villaggio nel Nord dellaCambogia, racconta di una «piccola Chiesapiena di vita». In questo Paese profondamenteprovato dal genocidio consumato dal dittatorePol Pot, i giovani sono oggi protagonisti di unanuova pagina di Storia. Piena di speranza.

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

vero epocale. Questo cambiamento creapaure ma anche tante aspettative». Nellazona rurale di Kdol Leu padre Luca èparroco di una comunità di cristiani,una fetta della piccola Chiesa del Paeseche su oltre 14 milioni di abitanti (inmaggioranza buddhisti) conta circa due-mila fedeli. «I cattolici sono un piccologregge molto giovane. Anche la Chiesariflette la situazione di un Paese che starisorgendo dalle sue ceneri. Da quando iconflitti sono finiti nel 1997, abbiamoavuto molte conversioni soprattutto trai giovani khmer (etnia dominante, ndr)e non dai gruppi vietnamiti in maggio-ranza già cristiani. Cresciamo con piccolinumeri, ma cresciamo».Padre Luca si considera un parroco dicampagna e tra le tante attività, dedicamolto tempo alla formazione dei bambini.Si sente a buon diritto «portavoce deigiovani, delle loro esigenze. Abbiamodue case dove si fanno attività con i

una professione liberale. Avvocati, medici,artisti venivano catturati e fatti sparirenelle fosse comuni. Monumenti, templi,palazzi, tutto era stato distrutto. Persinole apsaras, le giovani “danzatrici celesti”della millenaria tradizione religiosa cam-bogiana che vivevano presso il Palazzoreale di Phnom Penh, erano state ucciseo disperse perché nulla sopravvivessedel passato. Le ferite di un popolo riccodi cultura e di dignità sono diventatecosì profonde che c’era da temere chela Cambogia non sarebbe più tornataad essere una terra con un futuro possi-bile.Invece dallo sterminio è rinato un Paeseche oggi guarda al futuro, come raccontapadre Luca Bolelli del Pontificio IstitutoMissioni Estere (Pime), 43 anni, da 11missionario a Kdol Leu, un villaggio sullerive del fiume Mekong, a circa 250 chi-lometri dalla capitale. In un incontrosvoltosi presso la sede di AsiaNews, ilmissionario ha spiegato che «la Cambogiaattraversa un momento critico, dal mo-mento che sta passando dal millenariocontesto rurale al mondo moderno. Que-sto ha un grande impatto sulla popola-zione, in particolare sui giovani. Alcunigiorni fa, una signora mi raccontava diaver vissuto come sua madre, che a suavolta aveva vissuto come sua nonna, ecosì via per generazioni. Il modo di viveredi sua figlia invece è completamentediverso. È in atto un cambiamento dav-

bambini, si gioca con i più piccini, ai piùgrandi si insegna l’inglese per dare lorouna chiave di volta per un futuro mi-gliore». Ma padre Luca insegna soprattuttocosa vuol dire la solidarietà a partire dainiziative molto concrete, come la raccoltadi aiuto ai coetanei della Siria martoriatadalla guerra. Durante la Quaresima 2017,bambini della parrocchia di Kdol Leuhanno rinunciato per due settimane allemerendine (costo 500 riel, circa 15 cen-tesimi di euro) per inviare attraversoAsiaNews la somma simbolica di 3,2euro ai bambini in Siria.Spiega ancora il missionario che dopotanti anni di missione conosce dall’internola mentalità e la cultura cambogiana:«La Chiesa è molto coinvolta nell’edu-cazione dei giovani: si parla di scuole,legate ai salesiani o ad alcune realtàparrocchiali e missionarie; di centri perstudenti che frequentano la scuola pub-blica e poi tornano a casa; di gruppigiovanili, cosa che qui in Cambogia nonesiste. I giovani non hanno un luogodove potersi aggregare ed incontrare.Questo non esiste nella realtà cambogiana,neanche nelle pagode. A casa, nelle fa-miglie vi è poca comunicazione tra ge-nitori e figli e anche nelle scuole si pri-vilegiano i contenuti e non l’educazione.La possibilità che hanno nelle nostreparrocchie e missioni di aggregarsi comegruppi giovanili è incredibile e nuova. Igiovani sono attratti dall’idea di potersiincontrare e parlare di ciò che hannopiù a cuore».

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La chiamano la madre diAdua perché è madre legaledi una sessantina di bambiniin una missione speciale cheè cresciuta negli anniassieme a lei, fino a diventareuna vera e propria cittadellafatta di scuole, oratori eattività ricreative nella cittàsimbolo dell’Etiopia.

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La missionedi suor Laura,La missionedi suor Laura,manager di Dio

Etiopia

che hanno i loro coetanei nelle zone piùfortunate del globo. Il laboratorio di chi-mica e quello di informatica sono cosìall’avanguardia che le attrezzature fati-cosamente ottenute non sono secondea nessuno. «L’unica soluzione per uscireda quel ciclo di morte è l’educazione»,spiega Laura. Per i suoi studenti e per ibambini la missionaria vuole il massimo,

S uor Laura Girotto, salesiana, 60anni, è un’istituzione nel Paese delCorno d’Africa. Una di quelle suore

non solo infaticabili ma anche decisamentecapaci di pensare in grande, con una vi-sione di futuro e qualità managerialioltre che evangeliche. La palestra e lasala informatica della scuola di Aduagestita dalle salesiane, somigliano a quelledei college inglesi. Laura spiega che al-l’inizio quando si rivolgeva ai suoi donatoria Roma, per chiedere finanziamenti peril progetto, la reazione era di sdegno:«“Ma come?”, mi dicevano, “lì muoionodi fame e voi volete dargli delle attrez-zature sportive”?». E invece era proprioquesta l’intuizione della missionaria: daredi più e fornire ai ragazzi le stesse chance

di ILARIA DE [email protected]

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perché non esistono figli di Dio di secondoo terzo livello. Le opportunità fornite aigiovani africani e ai giovani di altre zonepiù sviluppate del mondo, devono essereidentiche.Sul sito che racconta la storia di questoprogetto e di molti altri, apprendiamoanche che il governo etiopico ha ricono-sciuto di recente l’autorizzazione adavviare persino le attività sanitarie nella

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ Etiopia

grazie a loro che si è sentita a casa, e conloro ha avviato le prime attività di oratorio.Da lì in poi è stato tutto un crescendo diattività e di idee. Sono arrivati anche isoldi, i finanziamenti per il progetto epoi la costruzione delle strutture. «L’Africaè l’ultimo posto al mondo dove puoi faredegli angelismi – spiega - qui la concre-tezza e la praticità sono la chiave perchéle cose funzionino». Ma l’esempio di LauraGirotto era davvero elevato: «Noi abbiamoun grande modello ed è quello di donGiovanni Bosco, il più grande imprenditoredell’Ottocento, che ha sempre maneggiatosoldi senza mai tenere uno spicciolo intasca». Suor Laura prosegue il progettodi don Bosco coltivando quel carismache fa della missione qualcosa di più diuna semplice alternativa alla povertà: nefa un luogo di crescita e di sviluppo perpoter in autonomia raggiungere un livellodi auto-promozione umana.La scuola oggi conta 1.500 ragazzi e vadalla materna alle superiori, compresi idue anni preparatori per l’università e lascuola di avviamento al lavoro. Ma nonfinisce qui: «Abbiamo reparti di taglio ecucito, confezioni, modellistica, maglieria,ricamo, tipografia». Una piccola città cheva dalla scuola al lavoro, messa su contanta pazienza e tenacia. E che è decisa-mente un miracolo.

prima ala di un nuovo ospedale di Aduaed è stato rilasciato un permesso per leattività ambulatoriali, di pronto soccorsoe sala parto che andranno ad arricchirele strutture già esistenti. Dunque, la mis-sione della salesiana si allarga.Ma la storia di Laura Girotto, come rac-conta lei stessa, è fatta di piccoli passi.Non è stato sempre tutto così fiorente,anzi. Quando il dittatore etiopico Men-ghistu cadde, nel 1987, le «mie superiorenon pensavano di mandare nessuno inEtiopia e invece l’impegno era stato preso,il vescovo insisteva ma non sapevano chimandare. Io in quel momento avevo ap-pena perso la mamma e lasciato l’attivitàin cui ero impegnata. Mandarono me»,racconta. «Il primo impatto che ho avutocon Adua è stato traumatico», dice.Appena arrivata lì nel lontano 1987 lamissionaria avrebbe dovuto prenderecontatti con la realtà locale e deciderequali opere e attività avviare ma il pano-rama era davvero scoraggiante.«Arrivammo che non c’era neanche lacasa – dice - non c’era niente, niente. Miaccampai in tenda e la mattina dopo fuipresa da scoramento e da paura. Dovettiandare al mercato per cercare l’essenziale,cercavo cherosene e candele. Una pentolae qualche piatto». All’inizio suor Laura èstata “salvata” dai bambini africani. È

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Dalla Poloniaalla Boliviaper la missione

HELENA KMIEĆ

C hissà se ci sarebbe stata anche lei allaGiornata Mondiale della Gioventù (GMG)

che si svolge a Panama dal 22 al 27 gen-naio. Probabilmente sì, ricordando con qua-le entusiasmo aveva partecipato, da vo-lontaria, al raduno mondiale dei giovanidel 2016, nella sua Polonia. Invece la vitadi Helena Kmieć, nata a Cracovia nel1991, si è spezzata improvvisamente dueanni fa, in quella Bolivia che per sei mesiaveva scelto come terra di missione. Lamorte di Helena ha lasciato unʼimmensa

tristezza tra parenti ed amici, ma anche tan-ta ammirazione per unʼesistenza spesa

per gli altri, nel nome del Vangelo. E che lasua sia una testimonianza missionaria a tutto

tondo lo dimostra il fatto che è stata inserita nelmartirologio dellʼAgenzia Fides.

Ma facciamo un passo indietro, tornando alle giornate diCracovia, con i giovani pazzi di gioia per l̓ incontro con papaFrancesco. In quel clima festoso ma tuttʼaltro che super-ficiale, in cui Bergoglio esorta tra lʼaltro i ragazzi a rifug-gire dalla «divano-felicità, una paralisi che rovina la gio-ventù», Helena, attivissima nel gruppo giovanile dei Mis-sionari Salvatoriani, sente parlare dellʼorfanotrofio diCochabamba, in Bolivia, dove alcune suore legate aglistessi Salvatoriani assistono bambini abbandonati. Perlei, che ha già fatto esperienze simili in Romania, Unghe-ria e Zambia, è un colpo di fulmine. Decide che quella,una volta terminati gli studi di Ingegneria chimica, sarà laprossima meta. Il 6 gennaio, due giorni prima della par-tenza, la ragazza riceve la croce missionaria insieme adAnita Szuwald, sua compagna di viaggio. Poi il volo tran-soceanico, con le ultime foto mandate agli amici: una laritrae in aeroporto, il viso raggiante; unʼaltra mentre dipin-ge dei fiori sulle pareti dellʼasilo a Cochabamba. Reste-ranno i suoi ultimi messaggi, perché la sera del 24 gen-naio un tentativo maldestro di rapina nellʼorfanotrofio fi-nisce in tragedia: Helena, sorpresa dai ladri dove non “do-veva” essere, viene barbaramente uccisa a coltellate.Sulla pagina Facebook dei Salvatoriani, nei giorni succes-sivi, viene lasciato tra gli altri questo messaggio: «Hele-na rimarrà per noi un modello irraggiungibile di gioiosa umil-tà senza limiti e di servizio a Gesù e alle persone. Gra-zie a lei, sappiamo che le persone veramente sante vi-vono molto vicino a noi».«È una martire», ha aggiunto senza giri di parole il car-dinale polacco Stanislaw Dziwisz, mentre lʼarcivescovodi Cracovia, monsignor Marek Jedraszewski, ha sottoli-neato come la morte di Helena ci ricorda «una grande ve-rità: la Chiesa costruisce la sua perenne giovinezza at-traverso i martiri; non solo quelli lontani nel tempo ma an-che quelli dei nostri giorni».

Alcuni sono personagginoti, altri pressoché sconosciuti persino nel mondo ecclesiale.

Diversi hanno trascorso una vita inmissione, ma sono numerosi anche

quelli morti giovani, spesso in modoviolento. Forse, qualche anno fa,

non li avremmo nemmeno definiti“missionari”, ma oggi capiamo

meglio che la missione è un’immensa opera di misericordia a cui sono

chiamati tutti i cristiani.

TestimonidellaChiesa

in uscita

di Stefano Femminis

[email protected]

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L’altra edicola

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LA NOTIZIA

IL 12 E 13 NOVEMBRESCORSI SI È TENUTO APALERMO UN VERTICE DIMEDIAZIONE PER FAVORIREIL PROCESSO DI PACE INLIBIA. LA CONFERENZAALLA QUALE HANNOPARTECIPATO I DUE LEADER,IL GENERALE KALIFAHAFTAR E IL PREMIER ALSERRAJI, È STATA MOLTOMEDIATICA MA DI POCASOSTANZA. A DISTANZA DIMESI LA STAMPA ARABACONTINUA A PARLARNE.

LA PACE CHE di ILARIA DE BONIS

[email protected]

P otrà la conferenza di Palermo “per la Libia” e non “sulla Libia” - comeha più volte precisato il premier Conte - contribuire a portare la pacenel Paese del Nord Africa dilaniato da anni di lotte fratricide?

La domanda se la pongono in molti. Nello specifico la tira fuori il quotidia-no on line Middle East Eye, a distanza di qualche settimana dal vertice del-lo scorso novembre che ha portato i due protagonisti libici in Sicilia. La ri-sposta è un secco no. «La triste verità – scrive il giornale che ha un fitto net-work di corrispondenti in tutti i Paesi arabi - è che quelli che detengono il

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NESSUNO DESIDERAunici due rappresentanti del potere ufficiale, a Tripoli succe-deva l’inimmaginabile. O, se vogliamo, il prevedibile. Lo rac-conta con minuziosi dettagli sempre Middle East Eye, stavol-ta con un pezzo firmato dalla giornalista freelance italiana Fran-cesca Mannocchi che era in Libia in quei giorni. Le “BrigateRivoluzionarie di Tripoli” hanno preso la situazione in manoe sotto gli occhi degli uomini delle milizie armate hanno te-nuto aperte le banche fino a notte fonda in quei giorni, con-sentendo ai libici di «ritirare dieci volte tanto la quantità didenaro normalmente loro consentita». Uomini e donne, sepa-ratamente, erano in fila presso le loro banche con grande »

Le marionette libiche e il vertice di Palermo

potere e sono sul campo, non sono ancora pronti per la pace.In un Paese dove la cultura politica è pesantemente sottosvi-luppata, dove il concetto di bene collettivo o nazionale è sta-to monopolizzato dalla politica delle tribù, ognuno difende ipropri interessi ad ogni costo».Non esistono istituzioni in grado di trascendere le divisioni set-tarie nella Libia post-gheddafiana. Questa è la verità negata.O meglio, quella che tutti conoscono ma che la politica in-ternazionale finge di non vedere o sembra voler trascurare. Così,mentre il generale Haftar e il premier in pectore Al Serraji era-no in Italia con tutti gli onori, il 12 novembre, considerati gli

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Perfino le Nazioni Unite faticano a tene-re a bada gli alleati di Haftar e i gruppiarmati rivali, accusati di violare i dirittiumani. Mosca è ben presente in Libia, etira i fili di quelle marionette che si la-sciano manovrare meglio.Ancora, è Foreign Affairs a tracciare unparallelismo tra il vertice di Palermo equello di Parigi del maggio scorso: «Alsummit in gran parte unilaterale di Pa-rigi – si legge - il presidente EmmanuelMacron aveva ottenuto dai quattro lea-der libici un impegno verbale a tenereelezioni generali entro la fine di dicem-bre 2018, una deadline che le NazioniUnite avevano già dichiarato essere in-verosimile». Quindi Macron ha fondamen-talmente fallito, e la rivista di geopoli-tica lo evidenzia senza pudori. «Palermosuonava dunque come la rivincita italia-na sui francesi – scrive ancora - Ma nonè questo quel che è accaduto». Conte haperso la partita come l’ha persa Macron,dice Foreign Affarirs. Chi l’ha vinta dun-que? Nessuno. Il popolo libico è ancorain balia del caos e della povertà. I migran-

ti soffrono pene indicibili, ostag-gi nelle prigioni improvvisate e il-legali messe su dalle tante mili-zie locali che devono far cassa percontinuare a fronteggiarsi. I lea-der europei e mondiali tirano idue uomini “forti” Haftar e AlSerraji per la giacchetta. Manessuno dei due possiede in re-altà la carta vincente.La pace non è desiderabile per-ché sono troppi i nuclei che vor-rebbero la loro porzione al ban-chetto dei vincitori. E nessunnucleo si accontenta di una por-zione minima. Tutti vogliono latorta per intero o quantomenouna grossa metà.Tra altisonanti vertici bilaterali einfinite mediazioni internaziona-li il teatrino libico prosegue e c’èda temere che possa andareavanti ancora a lungo.

gendo la stampa specializzata nel MedioOriente da Gulf News ad Al Arabyia.Scrive ancora Middle East Monitor cheanche uno dei figli dell’ex dittatoreMuammar Gheddafi, il giovane Saif Al-Islam, ha partecipato al vertice di Paler-mo, ed è ancora in ballo tra i capi tribùlocali, sostenuto peraltro dalla Russia. Saifè anche a capo del Russian ContactGroup, il gruppo di contatto russo che fada mediatore. Alcuni editorialisti si chie-dono se non vi siano, per l’appunto, trop-pi intermediari nel caos libico. Ognunotira dalla sua parte, soprattutto Mosca.Lo nota ad esempio la prestigiosa rivistaForeign Affairs, notando che sulla LibiaItalia e Francia sono rivali. Ma la Russiadomina su tutti.Gulf news scriveva qualche tempo fa che«sostenendo Haftar contro Al Serraj adOvest, la Russia potrebbe rafforzare il suoruolo nella regione ed assicurarsi miliar-di di dollari dalla Libia in armi e contrat-ti». Ma la scelta di Putin, dettata dal solodesiderio di potere, non tiene conto diun’esplosiva miscela interna in Libia.

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L’altra edicolaLe marionette libiche

e il vertice di Palermo

Saif Al-Islam Gheddafi.

emozione per ritirare soldi, raccontaMannocchi. «Non ci aspettiamo moltodalla conferenza di Palermo – dichiara-va al giornale uno dei giovani in fila pres-so il suo istituto di credito – è un teatri-no di pupazzi e Al Serraji è la prima ma-rionetta». «Alla fine di agosto dell’annoscorso la “Settima brigata di Tarhouna”- scrive sempre il quotidiano – aveva at-taccato un gruppo di milizie alleate, in-cluse le “Brigate rivoluzionarie di Tripo-li” con l’intento dichiarato di ripulire lacittà dalla corruzione».Leggendo la stampa araba che si occu-pa del tema - da Middle East Monitor adAl Jazeera – si comprende che la lottaè capillare, locale e davvero molto set-taria. Impossibile redimerla se non en-trandoci dentro. Ma è impossibile entrar-ci dentro, se non stando sul posto, cono-scendo minuziosamente le intenzioni ele azioni di ciascun capo brigata. Un gi-nepraio che i nostri leader europei,compreso l’italiano Conte e la sua intel-ligence, possono solo sfiorare in super-ficie. Questa è la realtà che emerge leg-

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di regalarvi sorrisi. Ve li donano i 189bambini e adolescenti coinvolti nelleattività. Durante il 2018 sono cresciutiin uno spazio traboccante di tenerezza.Insieme agli educatori e alle educatricie in stretta collaborazione con le famiglie,hanno avuto la possibilità di percorrereitinerari alternativi a quelli imposti dallamalavita organizzata che controlla il

N el quartiere di Marcos Moura,alla periferia di Santa Rita, Co-mune dello Stato della Paraíba,

nel Nord-est brasiliano, c’è un presepepermanente. È il Progetto Legal. Qui ungruppo di uomini e donne, con l’esempiodi Giuseppe e Maria, accolgono bambinie adolescenti per i quali non c’è postoin questo mondo. Non è un lavoro assi-stenzialista, ma un laboratorio di espe-rienze nuove ispirate dai valori del Van-gelo, il cui unico obiettivo è aiutare ra-gazzi e ragazze ad emanciparsi e avivere da protagonisti. Il Progetto esistesolo da quattro anni, ma i risultati sonosorprendenti.All’inizio di quest’anno siamo in grado

Posta dei missionari

territorio abbandonato dallo Stato. NelProgetto Legal hanno respirato un’ener-gia trasformatrice: arrivati per essereassistiti, stanno imparando a vivere daprotagonisti; costretti da sempre a con-vivere con le loro carenze, hanno intra-preso la felice scoperta delle loro qualitàe potenzialità; abituati a chiedere, ini-ziano a condividere le loro inestimabiliricchezze; amati disinteressatamente,protetti con tenacia, ascoltati nei lorobisogni, rispettati con le loro differenzee riconosciuti come soggetti di diritti,stanno avviando i primi passi verso ilpieno esercizio della cittadinanza. L’am-biente è abbastanza sereno. Le aggres-sioni reciproche sono diminuite note-volmente attraverso i “circoli restaurativi”e la mediazione non violenta dei conflitti.Perfino la violenza domestica è in »

a cura diCHIARA PELLICCI

[email protected]

Ricominciaredalla periferia

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MISSIONE, CHIESA, SOCIETÀ

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calo. Durante l’anno, oltre a una salutarealimentazione, i bambini e gli adolescentihanno potuto frequentare il doposcuoladi portoghese e matematica con ottimiprofessori. «Ora mi sento più prontoper parlare in pubblico e riesco adesprimere le mie idee con chiarezza»,ha detto Sandro, giovane del progetto,in un momento di revisione delle attività.Gli ha fatto eco Larissa che, nonostantei suoi 15 anni, svolge un ruolo impor-tante nella sua Comunità ecclesiale dibase, aiutando nell’animazione dellacelebrazione della Parola: «Ora non hopaura di sbagliare. Leggo correttamentee comprendo il contenuto». Attraversoil teatro, la musica, la capoeira, lapittura, il circo, l’hip hop, lo sport e illaboratorio di artigianato con materialiriciclabili, i ragazzi e le ragazze hannomesso all’opera la loro creatività dando

vita a creazioni veramente belle.Tutte queste attività sembrano inutili daun punto di vista prettamente economico.Ma la vita non è fatta solo di economia:c’è anche l’estetica e, soprattutto, l’etica.Non solo di pane vive l’uomo, ma anchedi bellezza, bontà, solidarietà, tenerezza,attenzione verso tutti e integrazione ri-spettosa con gli altri e la natura. In unmondo marcato dalla frenesia e dominatodall’ansia di vincere a qualunque costo,la sosta per contemplare la bellezza, in-cantarsi al suo cospetto e coltivarla haun potere di cura straordinario: sana gliocchi contaminati dall’ossessione di vederesoltanto il brutto che c’è in noi e attornoa noi e ci invita a scoprire e coltivare labellezza interiore. Occhi allenati dallabellezza intravedono orizzonti di speranza:«La bellezza è la grande necessità del-l’uomo; è la radice dalla quale sorgono il

tronco della nostra pace e i frutti dellanostra speranza» (Benedetto XVI).Grazie a un finanziamento della Confe-renza Episcopale Italiana, abbiamo potutoampliare le nostre installazioni e acquistareun pulmino con il quale abbiamo realizzatovarie gite per conoscere meglio le bellezzenaturali e la ricchezza culturale della re-gione. «Non avevo mai visto il mare:sono rimasto a bocca aperta. Eppure –racconta Rikelmy, un bambino di 11 anni- abito a pochi chilometri da questa im-mensa piscina. I miei genitori non mi cihanno mai portato. Non sapevo che lamia regione fosse così bella».Con un progetto del Governo dello Statodella Paraíba, è nata un’orchestra. Bambinie adolescenti ora stanno frequentandocorsi di violino, violoncello, chitarra,flauto e percussione. Negli ultimi mesil’Orchestra Legal si è esibita varie voltenel principale teatro di João Pessoa, ca-pitale della Paraíba. Le famiglie sono an-date a teatro per la prima volta. In unquartiere dove era facile incontrare ado-lescenti e giovani con armi in pugno, orasi vedono ragazzi e ragazze che vanno ingiro con uno strumento musicale. Doveprima si udiva il mostruoso rumore deicolpi di pistola forieri di morte, ora rie-cheggiano note musicali che si articolanoin sinfonie di allegria e vita. «Grazie peraver disarmato i nostri figli – ha dettouna madre – e aver messo nelle loromani libri, penne, palloni, strumenti mu-sicali, strumenti di lavoro, giocattoli...Avevo paura di perderli. Ora vedo che ilpresente sa più di vita che di sopravvivenzae già comincio a intravedere che c’èfuturo per loro!».Ciò è stato possibile grazie a chi cisostiene con la sua generosità, scegliendodi ricominciare dalla periferia e decidendodi camminare con tutti coloro che sonoimpegnati ostinatamente nella costruzionedi un mondo giusto, accogliente versotutti e solidale.

Padre Saverio Paolillo

Santa Rita (Brasile)

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Gli Oromo e la riconciliazione

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Posta dei missionari

si espongono le proprie ragioni, si diconoi motivi del litigio. Si tratta di riunioniche, a seconda della gravità del dissidio,possono durare anche più giorni, ma poisi deve concludere con la riparazione deldanno causato o subito, quando è ilcaso, e con la riappacificazione e ilperdono vicendevole. Per gli Oromo, sec’è una ferita aperta e sanguinante, bi-sogna intervenire, curarla e aiutarla a ri-marginarsi: non si può continuare a viveresenza porre rimedio alle divisioni tra lepersone. Spesso accade che un tale mododi risolvere i conflitti sia più importante,e in molti casi sostitutivo, del ricorso altribunale civile.Quest’antica tradizione aiuta a capiremeglio anche le mosse politiche che stafacendo il nuovo primo ministro del-l’Etiopia: essendo un Oromo, dietro lesue iniziative di pace con l’Eritrea e conil Sudan ci sono certo ragioni di tatticapolitica, ma c’è anche la mentalità oromoche non può sopportare per troppo temporotture e dissidi tra le persone. Sperodavvero che le riforme messe in campodal nuovo primo ministro favoriscano lacrescita pacifica e democratica di tuttala nazione (e non solo).

Don Giuseppe Ghirelli

Adaba (Etiopia)

Rientrato in Etiopia, dopo un pe-riodo in Italia, mi sto reinserendonella vita ordinaria della missione

di Adaba e Dodola.Qui si respirano tanti bei valori, comesolidarietà e sostegno reciproco. Questepopolazioni sono grandi lavoratori, anchese con tempi e modalità diverse dallenostre, gente povera che deve pensarea campare giorno dopo giorno. Le mam-me sono la spina dorsale della società,sono vere “mamme coraggio”: con pochimezzi e con tanta tenacia portano avantile loro famiglie, molte vivono senza unmarito, sono loro a provvedere a tutto,le uniche che pensano ai figli sempremolto numerosi.Certo, anche qui, le tentazioni del con-sumismo si fanno sempre più forti: intanti pensano a guadagnare di più, adun posto di lavoro più sicuro, ad unacasa più confortevole, ad avere il telefono,la macchina. Ma non è quello che ab-biamo cercato anche noi negli annidella crescita economica italiana? Co-munque, vedo che nella popolazionesono molto forti le antiche tradizioni

culturali: anche i giovani, i più tentatidal consumismo, le osservano e le ri-spettano.Un valore molto sentito da tutti è quellodella riconciliazione tra le persone. Quandosi offende qualcuno non si può rimanereper troppo tempo in disaccordo: è obbli-gatorio riconciliarsi. Per questo ci siriunisce con gli anziani della comunità,

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del nuovo cinema iraniano, Panahi viveda anni nel limbo di “ostaggio culturale”ovvero di intellettuale a cui non è concessalibertà di movimento, da quando nel 2010ha preso parte al movimento contro l’allorapresidente Mahmoud Ahmadinejad. Fuimprigionato, processato e condannatoa sei anni di carcere, con il divieto digirare film per 20 anni, con il ritiro delpassaporto e impossibilità di recarsi al-l’estero, pena l’esilio.Divenuto simbolo di una classe culturalelaica e critica verso gli estremismi di re-gime, Panahi produce da solo i suoi filmche meglio di lui riescono a varcare i con-fini nazionali e a portare nel mondo il suopensiero lucidamente dissidente. Con unparticolare minimalismo virtuoso, il regista

evita accuratamente ogni ideologizzazione,ogni tono pamphlettistico, lasciando chesiano i fatti, le storie delle persone a rac-contare la verità. Di qui lo stile neorealistae al tempo stesso “mediato” dei suoi film,metà presa diretta, metà raffinato svolgi-mento di una trama. Ecco dunque il suoultimo film-documentario sulla condizionedella donna nel cinema, dove il registronarrativo gioca tra finzione e realtà a partiredai due protagonisti principali: la popolareattrice di fiction Benhaz Jafari e Pahahi,entrambi nelle parti di loro stessi. Il set èl’interno del fuoristrada intorno al qualescorrono i paesaggi delle aspre montagneche si ergono al confine con l’Afghanistan,dove tra sentieri sterrati a precipizio sullevallate e villaggi di quattro case, poco o

L o avevamo lasciato alla guida di untaxi per le caotiche strade di Teheran

e lo ritroviamo alla guida di un fuoristradatra i villaggi rurali del Nord-est dell’Iran.Jafar Panahi è sempre lo stesso: appa-rentemente distaccato, in realtà partecipeosservatore della vita del suo Paese chenon può lasciare in quanto intellettualescomodo e sgradito al regime. Dopo “TaxiTeheran” (Orso d’Oro al Festival di Berlino2015), il regista iraniano, classe 1960,allievo ed erede del grande Abbas Kiaro-stami (“Il palloncino bianco” 1995), tornaalla ribalta internazionale con “Tre volti”,migliore sceneggiatura al Festival di Cannes2018, premio non ritirato da Panahi (comealtri) dato che non gli è concesso di la-sciare l’Iran. Star internazionale e maestro

PASSATOPRESENTE EFUTURODELLA DONNAIRANIANA

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O “TRE VOLTI”

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una piccola casa isolata, per evitare ilcontagio delle altre donne con una “bal-lerina”. È lei il terzo volto del titolo delfilm. Un volto che appartiene al passato,mentre il presente è Benhaz e il futuro èla giovane Marziyeh. Di questa vecchiaartista solitaria non vedremo nulla più diun’ombra dietro le tende, o la sagomavelata di una donna che dipinge in mezzoalla campagna. Delle altre due invece ciresta l’incontro-scontro tra generazionidiverse, sul filo di una scommessa co-mune che vede nella donna una risorsain tutti i settori della società, anche e so-prattutto all’interno del mondo islamico.Il film girato in clandestinità è illegale edè stato spedito all’estero tramite hard disk

inseriti all’interno di torte e con altri sistemidi fortuna. Il regista non può rilasciareinterviste né partecipare ad eventi all’esteroe per questo nei festival in cui sono pre-senti i suoi film, una sedia col suo nomein prima fila rimane sempre vuota. Il suonome è diventato famoso per i film cheha firmato, consegnando al mondo delleautentiche dichiarazioni d’amore per ilsuo popolo.

Miela Fagiolo D’Attilia

[email protected]

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dai ruscelli montani ma dove tutti guardanola televisione e sono appassionati delletelenovele della popolarissima Benhaz edove i pochi giovani rimasti in campagnahanno uno smatphone a portata di manocon cui girare video e accedere ai social.Lungo la strada si incontrano bizzarri per-sonaggi, archetipi di un microcosmo fuoridal tempo e dallo spazio: un anziano con-tadino che rappresenta i saggi dei villaggidella zona; un gruppo di gente in festaper un matrimonio; ragazzini che condu-cono le capre al pascolo; vecchi seduti abere il tè fuori da quello che si può definireapprossimativamente un bar; donne av-volte in tabarri di cotone che svolazzanocome lenzuola stese ad asciugare.Fuori dal villaggio di Marziyeh c’è la casaisolata di una vecchia attrice, molto po-polare prima del 1978, anno dell’avventodel regime khomeinista. La rigida chiusuraall’interno della tradizione del passato fasì che la donna sia confinata a vivere in

nulla può turbare ritmi di vita arcaici. Macosa spinge di notte fin lassù il regista el’attrice? Attraverso i social (particolar-mente cari ai giovani che rappresentanoben il 60% della popolazione iraniana),Panahi riceve il video (destinato a Benhaz)di una ragazzina Marziyeh Rezaei (il veronome della protagonista) aspirante attriceche filma con il cellulare il suo suicidio,disperata per i divieti della famiglia di en-trare all’Accademia di recitazione. Saràfinzione o realtà?Il lungo viaggio nella notte è quasi unoscuro tunnel indietro nei secoli, fino adove la strada asfaltata smette di attra-versare le colline con gli alberi da fruttae si inerpica in stretti sentieri isolati. Dovela luce elettrica è precaria e l’acqua arriva

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C’ è ancora molto da imparare dal pen-siero di Emmanuel Lévinas, uno dei

filosofi più importanti del Novecento, li-tuano di origini ebraiche, e morto a Pariginel 1995. Studioso e traduttore delle operedel grande filosofo, Silvano Petrosino ri-propone l’analisi di uno dei testi più noti diLévinas “La verità nomade” (edito da JacaBook), pubblicato per la prima volta inItalia nel 1980. L’opera è talmente riccache merita di essere riletta per analizzarealcune tematiche metatemporali e carichedi contenuti trascendenti quali l’idea dicreazione, dell’aldilà, dell’irruzione del mi-stero della vita e della morte all’inizio e

alla fine di tutto ciò che vive. Ogni grande domanda dell’uomoè sovrastata dalla Bontà che permane al di sopra dell’essereumano e dell’idea di Infinito «messo in noi», che ci riportanoalla trascendenza e a comprendere la gratuità della creazione.Lévinas si propone una riflessione prevalentemente metafisicache verte allo stesso tempo, sulla trascendenza, sulla sogget-

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Rwanda, Paese tra i più poveri del mondoa causa della sanguinosa guerra civile

carica di torture, violenze e odi tribali. Allafine del conflitto nel 1994, il Rwanda riescea ricostituire il proprio tessuto sociale grazieagli aiuti internazionali e all’impegno dellasua governance. L’autore analizza il “modelloRwanda” raccontando come questi aiutisiano diventati uno strumento reale di svi-luppo e ripresa economica tanto da divenireun modello esemplare di rinascita ancheper altri popoli africani. In 20 anni di buonapolitica grazie a programmi come “Come

and see” o “Go and tell” il presidente PaulKagame ha favorito il rientro di oltre tremilioni di rifugiati dai Paesi confinanti facendoin modo che concorressero allo sviluppodell’economia e dell’istruzione. Nel rapporto2017 la Banca Mondiale riconosce le riformestrutturali e registra il tasso di crescita eco-nomica con un Pil reale di circa l’8% an-nuo.Questo studio presenta le politiche socialie industriali e le azioni concrete attuate percontrastare la povertà, rafforzare la lotta

LIB

RI Rwanda: la buona notizia fa notizia

civili è ancora lontano ma i risultati per-mettono di comprendere l’efficacia degliaiuti quale strumento di sviluppo e ripresaeconomica quando sono ben utilizzati.

Chiara Anguissola

alla corruzione, aumentare i livelli di istruzionee di formazione professionale. La protezionedell’ambiente, l’innovazione tecnologica (adesempio con l’utilizzo di droni per le con-segne urgenti di sangue) e digitale fannoparte degli investimenti in infrastrutture ericerca. Nel 2014 due giornalisti americaniscrivono la storia di un successo: “Rwanda

Inc.” ovvero come una nazione devastataè diventata un modello economico per iPaesi in via di sviluppo. Nel 2016 vengonoconferiti al Rwanda due riconoscimenti in-ternazionali: il premio Champion of the

Earth, uno dei più prestigiosi delle NazioniUnite per le sue politiche ambientali, e l’in-gresso al quinto posto (l’Italia è al 50esimo)nella classifica del Global Gender Gap

Report 2016 del World Economic Forum.Il percorso verso la conquista delle libertà

tività e l’alterità, e sull’uomo e in rapporto a Dio. La sua operasi basa sull’etica dell’Altro, dove l'Altro non è conoscibile enon può essere ridotto ad un oggetto in sé, come è detto dallametafisica tradizionale. La filosofia viene definita «conoscenzadell'amore» piuttosto che l'amore della conoscenza. Con questopensiero l'etica diventa un'entità indipendente dalla soggettivitàal punto che la responsabilità è intrinseca al soggetto. Per que-sto un'etica di responsabilità precede qualunque «oggettiva ri-cerca della verità».Lévinas ha conosciuto e si è confrontato con tutti i grandi pen-satori del suo tempo, da Husserl a Heidegger: a loro si rapportacirca il problema della fenomenologia, individuando il concettodi «apprendistato della fenomenologia». Durante la Secondaguerra mondiale vive la deportazione e l’assassinio della suafamiglia da parte dei militari nazisti. Il grande dolore lo avvicinaallo studio della Bibbia e del Talmud. E in tempi di guerra eodio razziale crede che l'incontro faccia a faccia con un altroessere umano sia un fenomeno privilegiato nel quale la prossi-mità o la distanza dall’altro sono entrambe fortemente sentite.

Chiara Anguissola

Silvano Petrosino

LA VERITÀ NOMADEINTRODUZIONE AEMMANUEL LÉVINASEdizioni Jaca Book - € 18,00

Le ragioni dell’uomo

M.B. GhilottiAIUTIAMOLI A CASA LORO.IL MODELLO RWANDAAss. Kwizera onlus - € 15,00

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Tra tesori e tragedieispiratore in Hajai Ab-dulqavi Masaed, me-glio conosciuto colnome d’arte di AJ.Nato in Ohio da geni-tori yemeniti, ha ini-ziato ad esibirsi nei tar-di anni Settanta, è tor-nato nel Paese dei suoiantenati nel 1981 edè di quel periodo la de-cisione di incrociarela tradizione sonorayemenita con le ca-denze del rap statuni-tense, arricchendo iltutto con dosi di funky

e di reggae, e utiliz-zando anche strumentia fiato locali come ilmizbar (il tipico flautoarabo). Un pacifistaconvinto, che ancoranon ha perso la vogliadi sognare uno Yemen unito e pacificato,come ben dimostra il titolo di uno dei suoiprincipali successi: No terrorists, plea-

se.A quanto ho scoperto, il suo ultimo albumrisale al 2014; ho trovato un suo video suinternet, registrato lo scorso anno in unacameretta che pare tanto un rifugio di for-tuna: AJ canta il disastro della sua terra edella sua gente, davanti alla videocamerada due soldi di un computer. Tutto il restopossiamo solo immaginarlo.

Franz Coriasco

[email protected]

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SIC

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Ritmi yemeniti

L o Yemen, uno degli scenari più tragicidel mondo contemporaneo, è uno

Stato della Penisola Arabica. È tra i Paesipiù poveri del mondo con dati terribili perquanto riguarda la mortalità infantile cheil conflitto in corso sta rendendo ancorapiù drammatica.Eppure lo Yemen è stato uno dei primicentri di civilizzazione del mondo, unazona fertilissima e florida di commerciche gli antichi romani definivano non acaso Arabia Felix. L’islam vi si diffuse ra-pidamente, in un continuo susseguirsi didinastie che non riuscirono a evitare cheil Paese, col passare dei secoli, finisse inuna posizione sempre più marginale dello

scacchiere geo-politico planeta-rio. Inglobatonell’Impero ot-tomano nel XVIsecolo, poi co-lonia britannica,ottenne l’indi-pendenza e sitrasformò dap-prima in una re-pubblica popo-lare d’ispirazionemarxista e, suc-cessivamente,nell’attuale re-

pubblica presidenziale. Una repubblica inverità precipitata nel caos a causa di unaguerra civile in pieno corso, in mano aun gran numero di “signori della guerra”al soldo delle potenze straniere – ArabiaSaudita in primis – e dei mercanti d’arminon solo statunitensi, ma anche britannicie italiani.Il 65% della popolazione è sunnita, il re-stante 35% è sciita-zaydita. «È il Paesepiù bello del mondo – ebbe a scriverePier Paolo Pasolini dopo averlo visitato –Sana’a, la capitale, una Venezia selvaggiasulla polvere senza San Marco... è unodei miei sogni».Anche la musica yemenita è ricca digioielli, in particolare la tradizione dei cantipoetici al-Ghināʾ al-Ṣanʿānī, la musica diSana’a appunto, che dal 2008 è stataproclamata Patrimonio dell’umanità dal-l’Unesco. Una tradizione che risale al XIVsecolo dove canto, poesia e danza s’in-tersecano generando atmosfere assaisuggestive. I più noti artisti locali sonoAmhed Fathey e Osama al Attar (oggi en-trambi risiedono negli Emirati Arabi), maaccanto al folk tradizionalista, dallo scorsodecennio ha cominciato a mettersi in mo-stra una nuova generazione di giovanimusicisti fortemente influenzati dal rap edall’hip-hop occidentale, una scuolaespressiva che ha tuttora il suo principale

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tissimo Sacramento, riveste questo in-carico dall’1 ottobre 2017, giorno del-la festa di santa Teresa del BambinoGesù, patrona delle missioni: una bel-la coincidenza.Alla vigilia della Giornata dell’InfanziaMissionaria, in Italia conosciuta comeGiornata Missionaria dei Ragazzi, la Se-gretaria Generale richiama il sensodell’appuntamento, ultimamente un po’affogato nelle varie attività parrocchia-li. «Forse quest’evento in Italia negli ul-timi anni è passato in secondo pianoperché non si sa bene a cosa serve equal è il suo significato. Qui si celebrail 6 gennaio, ma non in tutto il mon-do è così. Quando è stata istituita laGiornata, il 4 dicembre 1950 da papaPio XII, fu chiesto a tutti i Paesi di in-dividuare una data da dedicare allaSanta Infanzia, ma fu lasciata libertà.Molti la celebrano il 6 gennaio proprioperché è l’Epifania, la manifestazionedi Gesù ai Magi e la festa dei bambi-ni. Ma in altri Paesi viene celebrata afebbraio o maggio o luglio o ottobre,

dipende dal calendario scolastico e daicontesti diversi». Qual è il significatodella festa? «È un’occasione dedicata atutti i bambini che, come gli adulti, do-vrebbero essere missionari, in virtùdel Battesimo. Lo scopo di questa fe-sta - precisa suor Roberta - è quello diricordare ai bambini che ci sono altribambini nel resto del mondo: alcunisono cristiani, altri non conosconoGesù ed altri ancora si trovano in dif-ficoltà da un punto di vista umano,educativo e sanitario. Quindi avereuna Giornata dedicata all’Opera dell’In-fanzia Missionaria, anche se le datesono diverse nel mondo, significa chein quell’occasione tutti i bambini delpianeta vengono messi in relazione, incomunicazione tra loro. Gesù è il cen-tro e, al tempo stesso, il legame per i

I l palazzo di Propaganda Fide, nelcuore di Roma, ospita la sede dellePontificie Opere Missionarie (POM)

internazionali. È qui che avviene il co-ordinamento delle 120 direzioni nazio-nali presenti in altrettanti Paesi delmondo. Ed è qui che suor Roberta Tre-marelli, Segretaria Generale della Pon-tificia Opera della Santa Infanzia (co-nosciuta anche come Pontificia Operadell’Infanzia Missionaria), si reca ognigiorno per dedicarsi con passione a farcrescere la sensibilità missionaria tratutti i bambini del mondo. Lo si intui-sce sin da subito entrando nel suo uf-ficio: manifesti colorati, bandiere di variStati, salvadanai di qualsiasi forma e di-mensione, pupazzi dal colorito di ognitipo sembrano parlare diverse lingue delmondo e danno il benvenuto.Suor Roberta, della congregazione del-le Suore Ancelle Missionarie del San-

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VITA DI MISSIO

di CHIARA [email protected]

Bambini, missionari un

Nella pagina:

Suor Roberta Tremarelli, SegretariaGenerale della Pontificia Opera dellaSanta Infanzia (POSI), nel suo ufficionel Palazzo di Propaganda Fide (Roma).

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A colloquio con suor Roberta Tremarelli, Segretaria Generale POSI

ordinaria che coinvolge i bambini nonè facile: «Effettivamente – spiega la Se-gretaria Generale, che ha uno sguardoglobale sul mondo dei ragazzi missio-nari - in alcune realtà c’è un po’ di chiu-sura alla dimensione universale dellamissione. Lo vediamo anche da qui,dove arrivano le richieste di sussidio chepoi vengono finanziate attraverso ilFondo Universale di Solidarietà, forma-to dalle offerte di tutti i bambini delmondo con le quali contribuiscono adaiutare chi ha bisogno. Ci sono alcuniPaesi che per necessità di animazioneci chiedono le descrizioni di progettiparticolari da finanziare: è una ri-chiesta legittima, legata anche alla ne-cessità di dare alle missioni e ai missio-nari un volto tangibile, ma bisogna fare

attenzione, perché si rischia di limita-re la dimensione universale che inve-ce è quella che come POM dovremmogarantire. Purtroppo l’attuale contestodi poca fiducia nei confronti dellaChiesa chiede delle contropartite con-crete. In altre parole: io sono dispostoa dare la mia offerta, se vedo dove vaa finire. Ma si rischia che venga meno

ragazzi di tutto il mondo». Poiché ilpapa il 6 gennaio, durante l’Angelus, faun richiamo alla Giornata dell’InfanziaMissionaria, «sarebbe bello poter pre-vedere in piazza san Pietro la presen-za di alcuni gruppi di bambini dell’In-fanzia Missionaria. Sappiamo beneche oggi in Italia non ce ne sono qua-si più: ormai si parla di ragazzi missio-nari, che possono essere sia alunni diclassi scolastiche, sia della catechesi, siabambini particolarmente attenti a vi-vere la dimensione missionaria. Però, in-vitare i ragazzi in piazza san Pietro, at-traverso la direzione nazionale italia-

na (cioè Missio, ndr) e le varie diocesi,potrebbe essere anche un modo per ri-lanciare la Giornata».Riuscire a far passare la dimensionemissionaria all’interno della pastorale

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lo spirito cristiano del dono e il signi-ficato della condivisione e cooperazio-ne. Pensiamo, infatti, alla prima Chie-sa: tutti contribuivano e collaborava-no per il sostegno di tutte le Chiese.C’erano anche allora quelli che ne ap-profittavano, ma questo non dovreb-be limitare la buona volontà di condi-videre. Con i bambini, è l’adulto che tra-smette il messaggio della dimensionemissionaria e dell’universalità: se ci sonodei pregiudizi e delle chiusure nell’edu-catore, i ragazzi si limitano. È bene,quindi, che si vedano le foto e si cono-scano le realtà particolari, ma il cuoree lo sguardo devono rimanere univer-sali, sia negli adulti che nei bambini».Eppure l’aspetto dell’universalità, carat-teristico delle POM, è una peculiaritàche nessun’altra realtà ecclesiale vivein modo così spiccato. «Dobbiamo ri-cordarci - precisa suor Roberta – di par-tire dalla fede, ovvero: come cristiano,faccio tutto per amore, perché così in-segna Gesù. Anche con i bambini la sfi-da è quella di rimettere Gesù al centro,come ha detto papa Francesco: segui-re Gesù, perché diventi la guida prezio-sa del loro impegno di preghiera, di fra-ternità e di condivisione con i coeta-nei più bisognosi. Cioè doniamo nonsolo perché vogliamo bene all’altro ovogliamo aiutare l’altro: per questo, al-lora, basterebbe una semplice opera so-ciale. Abbiamo testimonianze di bam-bini della Mongolia o della Repubbli-ca Centrafricana che una volta alla set-timana rinunciano all’unico pasto quo-tidiano per aiutare altri ragazzi inun’altra parte del mondo. Questa è lavera carità: occorre tenere a mente cheaiutando gli altri, aiuto Gesù, anche senon so dove andrà a finire il mio aiu-to. Pure nella preghiera, che è il primopasso nella formazione e animazionemissionaria, si segue la stessa logica:cioè io prego, ma non vedo i risul-

universali

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Sopra:Suor Roberta Tremarelli in visita deiragazzi missionari dello Sri Lanka.

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VITA DI MISSIO

tobre, la Pontificia Opera dell’InfanziaMissionaria internazionale ha in pro-gramma un’iniziativa ad hoc: «Anchecome Segretariato internazionale del-l’Infanzia Missionaria – anticipa suorRoberta – abbiamo chiesto di lavora-re su “Battezzati e inviati”, il tema delMMS, e proposto un concorso per igruppi di ragazzi missionari e, in gene-rale, per i bambini di tutto il mondo. Sitratta di inventare un canto in lingua

originale o realiz-zare un video cheabbia come ri-tornello il temad e l l ’ O t t o b r e2019. Ogni dire-zione nazionalesceglierà un vin-citore. Gli elabo-rati selezionativerranno inviatiqui al Segreta-riato internazio-nale e raccolti inun cd/dvd: unmodo per vedere

tati della preghiera; però non dico: “Mache prego a fare?”. La preghiera è pertutti, come la solidarietà è per tutti. At-traverso Gesù, la preghiera arriva a chiha più bisogno. Ecco, il primo passo èquello di riscoprire l’aspetto spiritua-le che dà luce all’offerta e alla dispo-nibilità ad aiutare l’altro, che sia lon-tano o vicino. Si tratta di mettersi a di-sposizione della Chiesa sin da piccoli».Proprio per rendere i bambini protago-nisti della missione, in vista del MeseMissionario Straordinario (MMS), indet-to da papa Francesco per il prossimo ot-

come lo stesso tema viene vissuto, pre-sentato e compreso nei diversi Paesi.Inoltre saranno pubblicati sul sitowww.ppoomm.va e su www.octo-ber2019.va». Anche questa sarà un’oc-casione per coinvolgere i bambini a li-vello universale e farli sentire mis-sionari gli uni per gli altri.

“Vivi e… #passaParola”Il 6 gennaio il Segretariato italiano della Pontifi-cia Opera dell’Infanzia Missionaria, cioè MissioRagazzi, propone ai bambini di vivere al meglioquesta Giornata. Per il 2019 è stato scelto loslogan “Vivi e… #passaParola”: un invito ad es-sere attivi, briosi, interessati, curiosi nella cono-scenza del Vangelo, con l’obiettivo di raccontare a tutti la propria

amicizia con Gesù.Per la Giornata Missionaria dei Ragazzi, Missio ha preparato un

manifesto colorato, tante stelline adesive da diffondere, le im-

maginette con una preghiera da recitare, un salvadanaio dariempire. Ma anche un inno da cantare con gli amici ed un tuto-

rial che insegna a ballarlo. Sul sito www.missioitalia.it al link di

Missio Ragazzi si trova tutto il materiale. C.P.

GIORNATA MISSIONARIA DEI RAGAZZI

Nella pagina:Nella sede della POSI è esposto ilmateriale realizzato dai diversi Paesidel mondo per l’animazionemissionaria dei bambini.

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A colloquio con suor Roberta Tremarelli,Segretaria Generale POSI

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mensione missionaria». Ad un anno dal-l’incarico, il neodirettore fa un primo bi-lancio evidenziando «il cammino intra-preso in sinergia tra quattro uffici (Coo-perazione missionaria, Migrantes, Cari-tas ed Ecumenismo)», fortemente caldeg-giato dal vescovo delegato monsignorRosario Gisana, «sempre presente alle riu-nioni e molto legato a un discorso di pa-storale d’insieme».Altra nota positiva, «le riunioni naziona-li, occasione preziosa di scambio con glialtri direttori». Ricchezza da riportare«nelle 18 diocesi e nella Commissionemissionaria regionale che si incontraquattro volte l’anno». Riguardo ai pro-getti, «ne partirà uno a breve in Cambo-gia con la Cooperazione Paesi Emergen-ti (COPE)»: l’idea delle mucche da latteè nata sotto il suo predecessore, padreSalvatore Cardile, ora in Amazzonia.Padre Francesco, invece, di viaggi missio-nari ne ha fatti pochi e sono stati bre-vi: «Anni fa, sono andato in Messico equest’anno in Tanzania». Tuttavia, paro-le e tono di voce raccontano una mis-sionarietà autentica, centrata, in sinto-nia con la “Chiesa in uscita” della Evan-gelii Gaudium.

tunnale della Confe-renza episcopale si-ciliana (Cesi) del 20e 21 settembre 2017,padre De Domenicoè anche direttore del Centro missiona-rio diocesano (Cmd) di Messina – Lipa-ri - Santa Lucia del Mela e parroco di SanPier Niceto (Me).Nato il 28 gennaio 1964 a Messina e or-dinato presbitero il 17 novembre 1990,ha operato sempre in parrocchie di pe-riferia, a partire dal quartiere Camaro SanPaolo della sua città. Esperienze che nonsi perdono nei ricordi del passato maorientano il suo mandato regionale per-ché «la vita parrocchiale e diocesana di-venta un luogo dove concretizzare la di-

Sessione autunnale della CESI (Caltagirone, 21-22 settembre 2017).

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Aprire gliorizzontimissionari

«Q uando si svolge un nuovoservizio, si entra in un mon-do nuovo». A dirlo è padre

Francesco De Domenico, direttore dell’Uf-ficio regionale per la Cooperazione mis-sionaria tra le Chiese di Sicilia. In real-tà, è entrato in un mondo che già cono-sceva. Nuovo è il punto di vista, con i variimpegni che ne derivano: «Partecipavosempre alla Commissione missionaria re-gionale, però è diverso avere la respon-sabilità, essere non più colui che è invi-tato ma colui che convoca, incoraggia,sollecita». Nominato per il quinquenniopastorale 2018-2022 nella Sessione au-

Intervista a padre Francesco De Domenico,direttore dell’Ufficio Cooperazione missionaria di Sicilia

di LOREDANA [email protected]

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Da direttore regionale non ha ancorachiari numeri e dati perché insediato dapoco ma, come sacerdote che ha accol-to un servizio, è un fiume in piena. «Sesi prova veramente la gioia del Vange-lo, si realizza la Chiesa missionaria, peril bisogno di comunicarlo agli altri. Lanuova sfida dell’evangelizzazione è ver-so gli adulti, le famiglie, i giovani, le par-rocchie». L’agenda fitta di impegni nonha offuscato il suo impegno principale:«Uscire da se stessi e aprire gli orizzon-ti, testimoniare la bellezza della vita deifigli di Dio, andare verso la stragrande

maggioranza di persone che nonconoscono Gesù e non vivono dabattezzati». È l’insegnamento piùgrande che si porta degli anni1990-1998, vicario in una parroc-chia che neanche esisteva, dove leprime messe si celebravano inuno scantinato. «Il parroco di al-lora, don Giuseppe Malgioglio, èstato un vero formatore; ha co-struito prima la comunità e poi lastruttura. Ricordo che in Quaresi-ma, pensando all’affluenza dellaSettimana Santa, invitava la co-munità all’accoglienza», affinchénuovi fedeli si avvicinassero.L’attenzione ai “lontani” l’ha im-

parata da lui ed è, questa, una delle ur-genze dell’Ufficio regionale, che devefronteggiare una situazione a volte ca-rente, in particolar modo per i giovani.«Molti vanno via per mancanza di lavo-ro e tanti altri non frequentano la comu-nità ecclesiale». Sono presenti dei grup-pi – e ci mettono impegno - a Palermo,Acireale, Catania, «ma si fa fatica a por-tare avanti il discorso di “Missio Giova-ni” che in passato, invece, era molto vivo».La Sicilia, che ha partorito ben due se-gretari nazionali (Ivano Lanzafame e AlexZappalà), «al momento, non ha un re-sponsabile regionale».Se da una parte, quindi, «bisogna impe-gnarsi sul fronte dell’evangelizzazione e

della pastorale giovanile», dall’altra oc-corre capire come farlo.A tale scopo può anche essere utile la ri-vista Popoli e Missione che «con le suerubriche di attualità, le inchieste, i dos-sier, è uno strumento meraviglioso perallargare il cuore al mondo intero e puòservire proprio per l’animazione e la for-mazione missionaria. Credo che do-vremmo diffonderla di più».Tanti altri i temi affrontati nell’intervi-sta. Dalla prima accoglienza ai migran-ti allo scambio tra le Chiese, dalla pre-senza dei sacerdoti stranieri «ricchezzavicendevole» alla collaborazione deimissionari comboniani e del Pime.Gli domandiamo come si sta preparan-do la Chiesa di Sicilia per il Mese Mis-sionario Straordinario indetto da papaFrancesco: «Nella Commissione delloscorso novembre, abbiamo iniziato apensare ad una marcia che, magari, an-drà verso il mare, guardando a Lampe-dusa, all’Africa, per dire questo nostroessere proiettati verso il Mediterraneoe verso gli altri Paesi. Segno delle diver-se iniziative che vorremmo realizzarenelle nostre Chiese locali, per aiutare lecomunità ad andare oltre, a non pen-sare “si è fatto sempre così”, a fare co-munità, a lasciarsi mettere in discussio-ne dal Vangelo».

Intervista a padre Francesco De Domenico,direttore dell’Ufficio Cooperazione missionaria di Sicilia

VITA DI MISSIO

Padre De Domenico nella sua recente esperienza in Tanzania conpadre Siegfrido e monsignor SeverinoNiwemugizi, vescovo delladiocesi di Rulenge Ngara.

Monsignor Rosario Gisana, Vescovo delegatoper la cooperazione missionaria – Sicilia.

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Missio Adulti&Famiglie

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fermarci in preghiera per chiedere a Luiche torni ad affascinarci. Abbiamo bi-sogno d’implorare ogni giorno, di chie-dere la sua grazia perché apra il nostrocuore freddo e scuota la nostra vita tie-pida e superficiale, conoscendo più davicino le difficili realtà in cui la maggiorparte della popolazione mondiale sitrova a vivere».

M.F.D’A.

sua enciclica Evangelii Gaudium: «La pri-ma motivazione per evangelizzare èl’amore di Gesù che abbiamo ricevuto,l’esperienza di essere salvati da Lui checi spinge ad amarlo sempre di più.Però, che amore è quello che non sen-te la necessità di parlare della personaamata, di presentarla, di farla conosce-re? Se non proviamo l’intenso desideriodi comunicarlo, abbiamo bisogno di sof-

Il Pellegrinaggioad gentes

O pera centrale nell’ambito dellarealtà pastorale missionaria ita-liana, Missio Adulti&Famiglie

si occupa dell’animazione missionaria diadulti, famiglie e comunità parrocchia-li attraverso la proposta di iniziative disolidarietà spirituale e offrendo mate-riale per sostenere i missionari e le gio-vani Chiese. Una di queste iniziative è ilkit del “Pellegrinaggio ad gentes”, gra-

zie al quale si intende favorire la parte-cipazione spirituale alla missione univer-sale, la conoscenza e l’apertura al mon-do. Il Calendario è lo strumento indi-spensabile per intraprendere il Pellegri-naggio in quanto fa corrispondere a cia-scun giorno una nazione per cui prega-re. Per ogni Paese c’è una scheda (inse-rita in un pratico raccoglitore) con co-lori diversi a seconda dei continenti, chedescrive sinteticamente le principalicaratteristiche dello Stato abbinato aquel giorno, le difficoltà vissute dalla po-polazione, la situazione dei cristianipresenti, la vita della Chiesa locale.Utile all’animazione di gruppi, comuni-tà, famiglie, il kit rappresenta un viag-gio quotidiano di preghiera per ogniPaese del mondo e per la sua Chiesa, unmodo per essere in comunione con i mis-sionari all’opera di evangelizzazionenel mondo.Il “Pellegrinaggio ad gentes” è un viag-gio che richiama anche le illuminanti pa-role che papa Francesco ci regala nella

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N el mese di gennaio, la terza scheda tematica del sus-sidio di animazione missionaria proposto da Missio Gio-

vani intitolata “Giovani viandanti del mondo” ci pone di fron-te una figura da sempre avvolta in un alone di mistero, cheha ispirato fiabe e storie di ogni tempo: quella del viandan-te.Il viandante è colui che bussa alla porta di casa chiedendoriparo per la notte e il suo incontro riserva spesso intrigantisorprese, magari schiudendo qualche avventura.Dietro quest’espressione poetica troviamo comunque temiche ci interrogano su questioni aventi un comune denomi-natore: il volto dell’Altro. Proprio per questo motivo la mo-bilità umana, la diversità culturale, il dialogo interreligioso nonsono solo tematiche di stretta attualità, ma argomenti che ri-chiedono una riflessione approfondita.Se è vero che parlare di migrazione e di integrazione oggisignifica attraversare un campo minato, è altrettanto vero chebisogna avere il coraggio di esporsi rischiando di non tro-vare il consenso della maggioranza.Innanzitutto l’integrazione è un processo complesso, che,avendo a che fare con persone in carne ed ossa, risulta pie-no di ostacoli culturali ma anche economico-sociali che, seda un lato possono causare incomprensioni e scontri, dal-l’altro rischiano di ridurre il meccanismo integrativo a una meraomologazione. Nonostante ciò, è bello ascoltare le storie diquei giovani universitari che, condividendo a volte la pro-pria casa con una persona di una cultura totalmente diver-sa, raccontano di conversioni innanzitutto di sguardi, che,dal sospetto iniziale col passare del tempo si modellano,divenendo di amicizia, alle volte persino di amore. E allo-ra non è strano trovare in tavola una saporita lasagna e i ma-kroud, oppure un couscous tunisino accompagnato da unbuon tiramisù.La chiave di lettura di un processo veramente integrativo pas-sa quindi attraverso l’incontro e lo scambio tra le persone.In quest’ultima parola, etimologicamente siamo davanti a due

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LA VISITADEL VIANDANTELA VISITADEL VIANDANTE

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VITA DI MISSIO

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ma anche e soprattutto quella con Dio: un Dio che non è unessere sadico che si compiace della distruzione dei gran-di progetti umani; è un Dio che ha a cuore la diversità, unDio che ha a cuore il pluralismo, un Dio che smaschera il de-siderio di omologazione generale che si annida come un ser-pente sotto la parola unità. L’unità rappresenta nel caso spe-cifico l’imposizione della propria lingua, della propria cul-tura, della propria razza. Non a caso allora integrazione nonè sinonimo di omologazione. Fa dunque quasi da eco al rac-conto di Genesi l’episodio della Pentecoste narrato negli Attidegli Apostoli: lo Spirito Santo scende sotto forma di lin-gue di fuoco e alla confusione di Babele si contrappone lacomprensione delle lingue; non un ritorno ad un unico mododi esprimersi, ma la capacità data agli apostoli di parlare piùlingue (potremmo intenderla come la capacità di far fron-te alle diversità). Dio precursore del multiculturalismo. In que-sto senso la Bibbia non offre un vademecum scientifico sul-l’incontro con l’Altro e sui processi integrativi, ma sicuramen-te ne traccia uno stile, che parte dalla comprensione dei va-lori altrui finalizzata alla identificazione di quelli che posso-no essere condivisi per arrivare a una nuova, comune con-cezione e pratica del convivere insieme.Tuttavia nelle istituzioni è purtroppo ancora lontano un dia-logo serio e realistico che si concentri sul “come” integra-re. Vale la pena, però, capire che c’è un filo sottile, quasi in-visibile, che collega la discussione sulla “grande migrazio-ne” ai problemi dei giovani di oggi. Non dobbiamo dimen-ticarci, infatti, che in tempi in cui vanno di moda i verbi “chiu-dere” e “differenziare”, gli inferni sono gli unici posti che ri-schiano di rimanere ad accogliere con le porte spalancatei nostri giovani. È questa la diretta conseguenza, “l’onda d’ur-to” di politiche che per far fronte alle sfide della moderni-tà si arroccano sulle proprie sicurezze e convinzioni: pen-sando di mettere in atto un meccanismo di protezione, siincentiva invece un processo autodistruttivo.Sarebbe meglio accostarsi alle sfide del nostro tempo comeviandanti, mai arroccandoci, ma sempre pronti a rimetter-ci in discussione, a rimetterci in cammino, percorrendo stra-de di pensiero nuove o traendo da strade già percorse sfu-mature e particolari che non avevamo considerato. Chissàche in questo modo non possiamo trarre ispirazione per cam-minare lungo le strade della nostra vita sulle orme di un Dioviandante, che non si impone nel nostro cuore, ma elemo-sina briciole d’amore per trasformarle in stelle che guidanoi nostri passi. Benedetta Tomarchio

enti, due forze (in- e -contra), di cui almeno una si muoveverso l’altra, trasformando quello che potrebbe sembrare unmoto aggressivo in una convergenza di forze che fa sì chele diversità si pongano in relazione e che diventino ricchez-za.Come cristiani, l’interpretazione molto spesso deviata del-l’episodio della Torre di Babele (contenuto nella Genesi) de-forma non solo la relazione con ciò che è diverso da noi,

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IntenzioniG E N N A I O

I N T E N Z I O N E D I P R E G H I E R AM

ISS

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ente

di MARIO [email protected]

Un’intenzione di preghieracome quella proposta que-sto mese non è semplice-

mente una frase devozionale da uti-lizzare nelle nostre orazioni quotidia-ne, ma un programma di vita, cheun buon animatore missionariodeve saper trasmettere ai giovani (ov-viamente anche agli adulti) della pro-pria comunità.Tenendo presente lo scenario con-tinentale che viene presentato comeriferimento per la nostra riflessione,non possiamo dimenticarci che tut-te le popolazioni dei Paesi del-l’America Latina hanno un partico-lare riferimento e una speciale devo-zione verso la Madre Celeste, ono-rata secondo usi e costumi locali.Ogni cultura latino americana haimmaginato la Virgencita come pri-ma missionaria dei popoli del con-tinente, capace di comunicare adogni uomo e ad ogni donna del nuo-vo mondo la gioia del Vangelo. Ba-sti pensare all’attenzione della Ma-donna di Guadalupe in Messico, incui la Madre di Dio appare all’indioJuan Diego con fattezze indigene, ve-stita con il costume tradizionale

scovo, scopre raffigurata sul suomantello la benedetta immagine diNostra Signora».L’evento guadalupano significò l’ini-zio dell’evangelizzazione nel conti-nente americano con una vitalità chesuperò ogni aspettativa. Il messag-gio di Cristo, attraverso sua Madre,riprese gli elementi centrali della cul-tura indigena e diede loro il defini-tivo significato di salvezza. Pertan-to, la Vergine di Guadalupe e JuanDiego possiedono un profondo si-gnificato ecclesiale e missionario esono un modello di evangelizzazio-ne perfettamente aderente alla cul-tura popolare latino-americana.Ieri come oggi, sono i giovani, i veriprotagonisti dell’annuncio del Van-gelo: la gioia di vivere che promanadalle loro esistenze li mette nella con-dizione ideale, più che di annuncia-re il Vangelo, di testimoniarlo in unmondo (il nostro!) distratto da mol-te realtà fatue e da esempi deleteri,propinati da personaggi più preoc-cupati di incrementare il loro por-tafoglio, piuttosto che di lasciare unatraccia positiva nella società. Inquesto frangente, Maria – più chemai – è al loro e nostro fianco.

della sua gente.Papa Giovanni Paolo II, quando vi-sitò il Messico nel luglio 2002, nel-la Basilica a Lei dedicata pronunciòqueste parole: «È commovente leg-gere le narrazioni guadalupane,scritte con delicatezza ed intrise ditenerezza. In esse la Vergine Maria,la serva “che glorifica il Signore” (Lc1,46), si manifesta a Juan Diegocome la Madre del vero Dio. Ella glidona, come segno, alcune rose pre-ziose e lui, quando le mostra al Ve-

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“L’amore deigiovani perMaria

“PER I GIOVANI,SPECIALMENTE QUELLIDELL’AMERICA LATINA,PERCHÉ SEGUENDOL’ESEMPIO DI MARIA,RISPONDANO ALLACHIAMATA DEL SIGNOREPER COMUNICARE ALMONDO LA GIOIA DELVANGELO

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I N S E R T O P U M

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men

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di GAETANO [email protected]

S uor Michela Agostini dellaCongregazione delle PiccoleAncelle del Sacro Cuore,

quando il tempo glielo permette, siferma sulla costa a guardare l’Ocea-no, ammira le onde che inghiotti-scono il sole, ascolta il vento che fi-nalmente calma il caldo torrido delgiorno. Lei sa che voltandosi deverituffarsi in quell’umanità in mag-gior parte afro, che ogni giorno lacirconda tra i barrio e le strade diEsmerldas. Ma la sua vita è questaed è felice perché deve la sua «scel-ta di consacrazione allo sguardo dipredilezione del Signore unito al-l’esempio di vita di fede datomi daimiei genitori e all’intensa vita par-rocchiale che ho vissuto nella miainfanzia e poi nella giovinezza».Le chiedo cos’è che rende giovaneil suo sguardo dopo 20 anni di vitaconsacrata e lei mi risponde: «C’èuna frase che mi ha sempre condot-to nel mio cammino di discerni-mento e che ancor oggi illumina ilmio cammino: “Il Signore è miaparte di eredità e mio calice, sullesue mani è il mio destino”. È dav-vero così. Pur in mezzo a tutto quel-

lo che mi circonda, abbracciata damomenti di gioia, spesso chiusa tradifficoltà, successi o cadute, possocon gioia affermare che per me lasorte è caduta su luoghi deliziosi, quia Esmeraldas; la mia eredità è ma-gnifica».Suor Michela si è già presentata: tra-volgente ed entusiasta. La sua gior-nata inizia fin dalle prime ore del-la mattina nella scuola San Danie-le Comboni dove sono presenti1.400 alunni di età compresa fra icinque e i 17 anni. Ha la responsa-bilità dell’ufficio pastorale che si oc-cupa della formazione umana e

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C’è più gioia neldare…e mi basta!

spirituale dei docenti, alunni e ge-nitori, dando l’opportunità di uno“sportello d’ascolto”; inoltre, incollaborazione con l’ufficio dei ser-vizi sociali, segue i casi dei ragazzicon differenti problematicità perso-nali o familiari. È anche inserita nel-la pastorale della parrocchia Virgende Fatima nei vari ambiti: cateche-si e pastorale giovanile. La presen-za delle Piccole Ancelle in Esmeral-das ha come caratteristica la pasto-rale di strada: «Dal momento che lagente dei quartieri passa moltotempo seduta sui marciapiedi aconversare, ci fermiamo con »

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coloro che incontriamo e intessia-mo relazioni di ascolto e amicizia»spiega.Sento tra le sue parole un profumodi Chiesa che sa stare sulla stradasenza vergogna, non è in uscita ognitanto, ma è sempre sui crocicchi.Esprimere il carisma della Congre-gazione tra i barrio è possibile?«Il carisma della mia Congregazio-ne, come dice il nome stesso “Pic-cole Ancelle del Sacro Cuore”, cichiama a mostrare la misericordiadel cuore di Gesù al mondo di oggi.Un dono bello e al tempo stesso im-pegnativo. È per questo che cerchia-mo con le mie consorelle, giornodopo giorno, di farci “compagne diviaggio” delle persone che incontria-mo condividendo la vita quotidia-na. Essere accanto alle persone conun sorriso, un saluto, un incoraggia-mento, una risata, aiutando a leg-gere gli avvenimenti con uno sguar-do di fede e a saper scorgere insie-me la presenza di un Dio amore, checi prende per mano e cammina connoi».In zona di missione la fraternità eil lavoro in équipe dovrebbero esse-re un must, una “linea Maginot” chenon si può valicare: è il “lavoro d’in-sieme” che rimane più a lungo in-ciso in una comunità. Suor Miche-la me ne parla: «La vita fraterna, illavorare insieme è fondamentale, èla testimonianza più grande che pos-siamo offrire alla Chiesa locale,perché mostra concretamente l’im-portanza dell’appartenenza a una co-munità cristiana, dove insieme siloda, si ringrazia e si chiede aiuto alSignore e lo serviamo nei fratelli.Cerchiamo, infatti, di fare in modoche le differenti attività che svolgia-mo in campo pastorale siano con-

divise da tutte, anche se, per questio-ne di organizzazione, ognuna di noiè responsabile di un ambito; però lepersone si rivolgono a tutte conmolta spontaneità».La fraternità prima o poi apre stra-de nuove, dischiude porte impen-sabili, incontra qualsiasi umanità.Per ogni “scarto” si cerca una solu-zione, e se non fosse possibile, la fra-ternità e il cuore ti offrono la crea-tività per arrivare oltre. Che ne pen-si?

«Come comunità abbiamo scelto dinon avere opere nostre ma di inse-rirci nelle differenti attività presen-ti nel territorio. La nostra casa è si-tuata in un barrio di gente moltosemplice e umile, che spesso si tro-va a fare i conti con scarse risorseeconomiche e una famiglia nume-rosa. Il mondo ormai si è ovunqueomologato, quindi ci imbattiamonel problema della crisi della fami-glia, oppure nei giovani che nonhanno prospettive di futuro e mol-to spesso l’ozio li blocca nel vizio

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della droga e dell’alcool. Incontria-mo una umanità ferita che ci chie-de, senza appello, di assumere l’at-teggiamento del buon Samaritanoche vede, sente il suo cuore muover-si a compassione e si fa carico delfratello. Alla sera molto spessochiudo gli occhi, stanca ma con ilcuore carico di tanti volti... Questodavvero mostra come ci sia più gio-ia nel dare…e mi basta».Spesso non ci sono soluzioni aidrammi quotidiani che la missioneti getta sulla strada. Non ci dormisopra, solo la troppa stanchezza tibutta al suolo. Eppure il giorno se-guente tutto ritorna sul tuo cammi-no, come tutte le domande che lacoscienza e la vita ti continuano aproporre. Suor Michela quali do-mande nascono di fronte ai dram-mi che incontri? Come li affronti?Che soluzioni cerchi?«Molto spesso di fronte alle sventu-re umane o ai piedi di chi è ferito,provo un senso di impotenza perchédavanti ad un uomo ubriaco che pic-chia e maltratta sua moglie e i figli,si prova un senso di pena e umilia-zione. Oppure di fronte ad una ra-gazzina di 15 anni incinta, lasciatasola... la domanda che nasce spon-tanea è: “Cosa posso fare?” L’atteg-

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MISSIO

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come luogo fisico ma come stile divita, se ne accorge. Percepisce que-sta umanità e ne immagazzina iprofumi, ma più spesso sono gli odo-ri acri della strada, si accolla le brac-cia di ogni relitto di parvenza uma-na. Per la missione, come scelta divita e non tanto come fugace espe-rienza, vivere dentro alle contraddi-zioni è un fatto naturale. Comepure cercare risposte, ribellarsi al so-pruso, rallentare il ritmo del cuore econtemplare il Crocifisso pregandonel silenzio. Tutto ciò come in que-sto pomeriggio d’estate con suor Mi-chela, che accetta la sfida dell’inuti-lità e dell’impotenza dinanzi aidrammi che hanno un nome!«La Chiesa di Esmeraldas è unaChiesa in cammino che lentamen-te muove i suoi passi verso l’autono-mia, ma ha bisogno sicuramente del-la presenza di personale apostolicoestero che la sostenga e la incoraggia proseguire la propria storia. Il nu-mero dei sacerdoti locali è ancora esi-guo, la popolazione è numerosa e ilterritorio è vasto. Ci sarebbe bisognodi una “strategia apostolica” chepreveda una formazione permanen-te solida e costante per i sacerdoti ei religiosi locali e non, ma anche peri laici che, se formati bene, sono dav-vero una grande risorsa per l’evange-lizzazione, potendo così accompagna-re il popolo di Dio a passare da unareligiosità di devozioni a una fede piùprofonda».Avanti suor Michela, tu e le tue con-sorelle avete un programma nonpiccolo da realizzare. Entusiasmo evivacità, desiderio di essere sui cro-cicchi e in fraternità. Auguri e buo-na strada, sempre alla scoperta dinuove luci del Regno tra le pieghedella storia.

giamento da assumere (perché ten-denzialmente la reazione è quella didispensare ricette) è l’ascolto, che per-mette all’altro di sentirsi accolto,amato, sostenuto, mai più solo. Unascolto che diventa presenza e com-pagnia, incoraggiamento a continua-re a guardare la vita con uno sguar-do di fede e di speranza».Qui in Ecuador, come in qualsiasi al-tra parte del mondo, tutto ciò è panequotidiano. La missione non tanto

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corso diMISSIO

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PONTIFICIE OPERE MISSIONARIE

L’UNIVERSITÀ URBANIANA

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