Memorie di Lorenzo Da Ponte -...

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Memorie di Lorenzo Da Ponte PARTE PRIMA Non iscrivendo io le memorie d'un uomo illustre per nascita, per talenti, per grado, in cui le minime cose giudicare si sogliono importantissime per la importanza del soggetto di cui si scrive, parlerò poco de' miei parenti, della mia patria, de' miei primi anni, come di cose affatto frivole per se stesse o di pochissimo rilievo pe' leggitori. Parlerò di cose, se non del tutto grandi per lor natura e capaci da interessare ogni paese ed ogni lettore, pur tanto singolari per la lor bizzarria, da poterlo in qualche modo instruire o almeno intrattener senza noia. Il giorno decimo di marzo dell'anno 1749 nacqui a Ceneda, piccola ma non oscura città dello Stato Veneto. All'età di cinque anni perdei la madre. I padri prendono poco cura generalmente de' primi anni de' loro figli. Furono questi negletti interamente dal mio: all'età d'undici anni leggere e scrivere era tutto quel ch'io sapeva. Fu allora solamente che mio padre pensò a darmi qualche educazione: 1 scelse per mia disgrazia un cattivo maestro. Era questo il figliuolo d'un contadino, il quale, passato dall'aratro e da' buoi alla ferula magistrale, ritenne anche nel ginnasio la durezza e rusticità dei natali. Mi pose egli in mano la grammatica dell'Alvaro, e pretese insegnarmi il latino. Studiai qualche mese senza imparar nulla. Si credeva da tutti ch'io fossi dotato di una memoria e d'un ingegno poco comune, per la mia vivacità nel parlare, per una certa prontezza nel rispondere, e sopra tutto per un'insaziabile curiosità di tutto sapere. Maravigliandosi perciò il padre mio ch'io profittassi sì poco alle lezioni del contadino, si volse ad investigarne le cause. Non durò gran fatica a scoprirle. Venne un giorno per accidente nella camera dello studio, e misesi inosservato dietro alle spalle del pedagogo. Indispettito costui per certo errore da me commesso nel ripetere la lezione, serrò con rustica rabbia la destra mano, e colle incallite nocche delle ruvide dita si mise a battere la mia fronte, come Sterope e Bronte batton l'incudine. Divertiva ogni giorno in questa guisa costui la mia testa. Non so se più la vergogna o il dolore mi trasse dagli occhi qualche tacita lagrima, che fu da mio padre veduta. Preselo allora improvvisamente per gli capelli, trascinollo fuor della camera, lo gettò giù della scala, gettògli dietro il calamaio, le penne e l'Alvaro, e per più di tre anni non si parlò più di latino. Credette mio padre, e forse era vero, che la mia avversione pel maestro cagion fosse stata del mio pochissimo profittare nello studio di quella lingua. L'effetto però di questa storiella fu per me assai fatale. Rimasi fino all'età di quattordici anni del tutto ignorante in ogni genere di letteratura; e mentre tutti gridavano: «Oh che spirito! Oh che talento!» io mi vergognavo internamente d'esser il meno instruito di tutti i giovani di Ceneda, che mi chiamavano per ischerzo lo spiritoso ignorante. Non è possibile dire quanto ciò mi pungesse e quanto voglioso rendessemi d'instruzione. Montato un dì a caso nel soffitto della casa, dove mio padre era solito gettare le carte inutili, vi trovai alcuni libri, che formavano, credo, la biblioteca della famiglia. V'era tra questi il Buovo d'Antona, il Fuggilozio, il Guerino detto il meschino, la Storia di Barlaam e di Giosaffat , la Cassandra, il Bertoldo e qualche volume del Metastasio. Li lessi tutti con un'incredibile avidità, ma non rilessi che il poeta cesareo, i cui versi producevano nella mia anima la sensazione stessa che produce la musica. Pigliò frattanto una seconda moglie mio padre, e dopo dieci anni di vedovanza ci die' per matrigna una giovinetta, che non ne contava ancora diciassette. Egli avea passati i quaranta. 1 Lo studio della lingua latina era il sine qua non de' miei tempi.

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Memoriedi

Lorenzo Da Ponte

PARTE PRIMA

Non iscrivendo io le memorie d'un uomo illustre per nascita, per talenti, per grado, in cui leminime cose giudicare si sogliono importantissime per la importanza del soggetto di cui si scrive,parlerò poco de' miei parenti, della mia patria, de' miei primi anni, come di cose affatto frivole perse stesse o di pochissimo rilievo pe' leggitori. Parlerò di cose, se non del tutto grandi per lor natura ecapaci da interessare ogni paese ed ogni lettore, pur tanto singolari per la lor bizzarria, da poterlo inqualche modo instruire o almeno intrattener senza noia.

Il giorno decimo di marzo dell'anno 1749 nacqui a Ceneda, piccola ma non oscura città delloStato Veneto. All'età di cinque anni perdei la madre. I padri prendono poco cura generalmente de'primi anni de' loro figli. Furono questi negletti interamente dal mio: all'età d'undici anni leggere escrivere era tutto quel ch'io sapeva. Fu allora solamente che mio padre pensò a darmi qualcheeducazione:1 scelse per mia disgrazia un cattivo maestro. Era questo il figliuolo d'un contadino, ilquale, passato dall'aratro e da' buoi alla ferula magistrale, ritenne anche nel ginnasio la durezza erusticità dei natali. Mi pose egli in mano la grammatica dell'Alvaro, e pretese insegnarmi il latino.Studiai qualche mese senza imparar nulla. Si credeva da tutti ch'io fossi dotato di una memoria ed'un ingegno poco comune, per la mia vivacità nel parlare, per una certa prontezza nel rispondere, esopra tutto per un'insaziabile curiosità di tutto sapere. Maravigliandosi perciò il padre mio ch'ioprofittassi sì poco alle lezioni del contadino, si volse ad investigarne le cause. Non durò gran faticaa scoprirle. Venne un giorno per accidente nella camera dello studio, e misesi inosservato dietro allespalle del pedagogo. Indispettito costui per certo errore da me commesso nel ripetere la lezione,serrò con rustica rabbia la destra mano, e colle incallite nocche delle ruvide dita si mise a battere lamia fronte, come Sterope e Bronte batton l'incudine. Divertiva ogni giorno in questa guisa costui lamia testa. Non so se più la vergogna o il dolore mi trasse dagli occhi qualche tacita lagrima, che fuda mio padre veduta. Preselo allora improvvisamente per gli capelli, trascinollo fuor della camera,lo gettò giù della scala, gettògli dietro il calamaio, le penne e l'Alvaro, e per più di tre anni non siparlò più di latino. Credette mio padre, e forse era vero, che la mia avversione pel maestro cagionfosse stata del mio pochissimo profittare nello studio di quella lingua. L'effetto però di questastoriella fu per me assai fatale. Rimasi fino all'età di quattordici anni del tutto ignorante in ognigenere di letteratura; e mentre tutti gridavano: «Oh che spirito! Oh che talento!» io mi vergognavointernamente d'esser il meno instruito di tutti i giovani di Ceneda, che mi chiamavano per ischerzolo spiritoso ignorante. Non è possibile dire quanto ciò mi pungesse e quanto voglioso rendessemid'instruzione. Montato un dì a caso nel soffitto della casa, dove mio padre era solito gettare le carteinutili, vi trovai alcuni libri, che formavano, credo, la biblioteca della famiglia. V'era tra questi ilBuovo d'Antona, il Fuggilozio, il Guerino detto il meschino, la Storia di Barlaam e di Giosaffat, laCassandra, il Bertoldo e qualche volume del Metastasio. Li lessi tutti con un'incredibile avidità, manon rilessi che il poeta cesareo, i cui versi producevano nella mia anima la sensazione stessa cheproduce la musica. Pigliò frattanto una seconda moglie mio padre, e dopo dieci anni di vedovanza cidie' per matrigna una giovinetta, che non ne contava ancora diciassette. Egli avea passati i quaranta.

1 Lo studio della lingua latina era il sine qua non de' miei tempi.

Stimolato dunque da un canto dal desiderio d'ornare di qualche lume la mente, e prevedendodall'altro le conseguenze di un matrimonio sì disuguale, cercai d'ottenere dall'altrui beneficenza quelche non poteva sperare dalla paterna sollecitudine.

Era in que' tempi vescovo di Ceneda monsignor Lorenzo Da Ponte, soggetto d'insigne pietà,di benefica religione e di tutte le virtù cristiane eminentemente dotato. Era egli, oltre a questo, e dimio padre e di tutta la mia famiglia amantissimo. Me gli presentai con coraggio, pregandolo dicollocare me ed un altro fratello mio nel suo seminario. Piacque all'ottimo prelato il miocommendabile ardire, e, vedendo sì in me che in questo fratello mio un vivo desideriod'instituzione, unito a buone apparenze d'un pronto ingegno e d'una memoria felice, aderì non solocon giubilo all'onorata mia brama, ma supplì con rara bontà alla non piccola spesa del nostro interomantenimento I progressi fatti da noi nello studio risposero in qualche modo alle speranze concepitedal nostro benefattore. Imparammo in men di due anni a scrivere con qualche eleganza il latino,ch'era la lingua che con particolare cura insegnavasi da' valentissimi professori di quel dottoseminario, come la più necessaria ad alunni che aspiravano al sacerdozio, per cui sonoprincipalmente stabiliti que' lochi in Italia. Le lingue moderne, senza eccettuare l'italiana, quasi deltutto si negligevano. Mio padre, ingannandosi nella scelta del mio stato e lasciandosi consigliarepiuttosto dalle sue circostanze che dal dovere di padre, pensava destinarmi all'altare, quantunque ciòfosse affatto contrario alla mia vocazione ed al mio carattere. Era dunque educato anch'io allamaniera de' preti, sebbene inclinato per genio e quasi fatto dalla natura a studi diversi; di modo cheall'età di diciassette anni, mentre io era capace di comporre in mezza giornata una lunga orazione eforse cinquanta non ineleganti versi in latino, non sapeva, senza commettere dieci errori, scriver unalettera di poche linee nella mia propria lingua.

Il primo a distruggere tal pregiudizio, a introdurre tra gli alunni di quel collegio il buongusto, indi una nobile gara e predilezione per la toscana favella, fu il coltissimo abate Cagliari,giovane pieno di foco e di valore poetico, che, uscito di fresco da' collegi di Padova, da' quali nonera escluso Dante e Petrarca più che Virgilio ed Orazio, cominciò a leggere, spiegare e far gustare aun buon numero di giovanetti, alla sua educazione affidati, le prose, i versi e le bellezze de' nostri.

Frequentavan le sue leggiadre lezioni due de' più colti e svegliati ingegni di Ceneda,Girolamo Perucchini e Michel Colombo. All'emulazione di questi deggio, più che a tutt'altro, larapidità de' miei avanzamenti nella poesia. Narrerò qui un fatterello, che, sebben frivolo e di pocomomento in se stesso, basterà nulla di meno a dar un'idea della forza c'hanno sugli animi giovaniligli esempi de' buoni, il timore del biasimo e l'onesto desiderio di eccellere. Aveva fatto MichelColombo i suoi primi studi, avanti d'entrare nel seminario di Ceneda, sotto la direzione di ottimiinstitutori. Scriveva bene in latino e componeva de' versi italiani pieni di gentilezza e di grazia. Nonisdegnava talvolta di leggerli a me, cui amava sinceramente, per incitarmi, diceva egli, a far unsaggio della vena poetica. Un giorno, difatti, mi misi alla pruova. Occorrendomi una piccola sommadi danaro pe' soliti giovenili diporti, credei d'ottenerla più facilmente da mio padre,domandandogliela in versi. Ecco dunque il primo quadernario, che schiccherai, di quattordici versi,ch'io osai chiamare «sonetto»:

Mandatemi, vi prego, o padre mio,quindici soldi o venti, se potete,e la cetera in man pigliar vogl'io,per le lodi cantar delle monete.

Aveva io appena finito quest'ultimo verso, quand'odo dietro alle spalle un grandissimoscroscio di riso, per lo quale volgendo il capo, veggomi a tergo l'amico Colombo, che mostrava averletto i miei versi, che, sul tuono che gli orbi cantano per le strade d'Italia, modulava, sempreridendo, l'ultimo di quelli, e che imitava col movimento delle dita lo strimpellamento delcolascione. Piansi di vergogna e di rabbia; e per più di tre giorni non parlai né guardai in facciaColombo, che tuttavia seguitava maliziosamente a cantar alla foggia de' ciechi il mio verso e a

mettersi in attitudine di strimpellare. Dopo avermi così tormentato per qualche tempo, fu il primoegli ad incoraggirmi a novelle prove, ed io gli promisi di farle. Mi feci allora a leggere ed a studiarecon tanto fervore i buoni autori di nostra lingua, che non pensava più né a cibo né a sonno, non chea quegli ozi e trastulli, che sono naturalmente sì cari a' giovani, e per cui sì spesso si perde il fruttode' più conspicui talenti. Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso furono i miei primi maestri: avevaimparato a memoria in meno di sei mesi quasi tutto l'Inferno del primo, tutti i migliori sonetti delsecondo, e non poche delle sue canzoni, e i più be' tratti degli altri due. Dopo questo esercizio edopo aver composto segretamente e bruciati più di duemila versi, ebbi speranza di poter cimentarmico' miei condiscepoli, e di scriver de' versi non interamente da cantarsi sul colascione. Essendo statoeletto in quel tempo il rettore del nostro collegio ad altro onorevole grado, per cui doveva partire daquell'impiego, tra le varie composizioni, che da molti alunni in lode di quello si recitarono, recitaianch'io un mio sonetto. Lo stampo in queste Memorie, non perché mi paia degno d'esser pubblicato,ma perché si giudichi de' progressi fatti da me in soli sei mesi, e ciò diventi un eccitamento perquelli che, anc'un po' tardi, natura favente, agli studi poetici si rivolgono.

Quello spirto divin, che, con l'ardentee puro raggio del superno amore,la caligin dilegua a' sensi e fuored'ogni fallace error tragge la mente, fu quel, saggio signor, che dal possentetrono di gloria al destinato onoret'elesse, onde con santo e vivo ardoreper lo retto cammin guidi sua gente. Su vanne or dunque e il nuovo popol reggi,e ascendi il nuovo seggio, onde co' tuoifregi divenga più lodato e adorno. Vanne, quivi per te le sante leggivivan di Cristo, di Satàno a scorno:ma deh! signor, non ti scordar di noi.2

Come prima di questo sonetto io non aveva lasciato vedere ad alcuno i miei versi italiani,tranne i quattro da colascione, così nessuno voleva credere che questi quattordici fossero miei. Ilsolo Colombo mostrò di crederlo, e fece giuramento solenne di non iscrivere più in italiano;giuramento che poi gli fe' rompere una leggiadra e bellissima giovanetta, di cui eravamo ambidueinnamorati e per cui verseggiammo a vicenda. Questo non voler credersi generalmente che quelprimo sonetto fosse composto da me, fu un nuovo genere di lode, che, senza sollecitare

2 Il seguente sonetto fu composto in quella stessa occasione dal mio amico Colombo. Lo pubblico qui,sperando di fargli cosa grata, nel pruovargli che sessantacinque anni non bastarono a cancellar dalla mia memoria i versid'un amico sì caro:

Quanto è possente amor! Padre avevamo,tenero amante padre, e insomma tale,che niun credo giammai n'ebbe l'ugualedal dì che prima aperse gli occhi Adamo.

Sì caro padre or noi perduto abbiamo:ché divino volere, alto, immortale,con decreto a lui fausto, a noi fatale,lo trasse altrove; e noi pupilli or siamo.

Ben conosciam quant'aspro e grave è il danno,ma non ci pesa ché ne scema il duolosua felice avventura, anzi ne 'l toglie.

E amor, fatto di noi dolce tiranno,nostra sciagura a pianger no, ma sololieti ne tragge a secondar sue voglie.

soverchiamente il mio amor proprio, m'incoraggì a sforzi maggiori e mi fece risolvere fin d'allora adarmi interamente all'italiana poesia. In men di due anni ho letto più d'una volta e versato, diurna etnocturna manu, tutti non solo i poeti classici, ma tutti quelli eziandio che vanno per le mani de' piùcome scrittori di un vero merito, eccettuando i soli secentisti, che non ho osato leggere prima dicrede me stesso capace de' lumi necessari per distinguere il buono dal cattivo ed il bello apparentedal vero bello. E non era già contento di leggere, ma trasportava in latino i più nobili tratti de' nostri;li copiava più volte, li criticava, li commentava, gli imparava a mente, esercitandomi spesso in ognimaniera di composizione e di metro, e procurando imitare i più vaghi pensieri, adoperar le piùleggiadre frasi, scegliere i più bei modi da' miei antesignani usitati, preferendo sempre e sopra tuttigli altri quelli del mio idolatrato Petrarca, in ogni verso del quale mi pareva ad ogni lettura diritrovar qualche nuova gemma.

In questa maniera, e con questo continuo ed infaticabile studio, arrivai verso ilcominciamento del terzo anno a gareggiare co' primi e non raramente riportarono i versi miei l'onordel trionfo. Ottenni molte lodi per una canzone, da me a pruova composta co' più colti giovani diCeneda. Ma non servirono queste a farmi inorgoglire od a farmi credere veramente che la canzonemia fosse bella. Ebbi, fin da' prim'anni della mia studiosa carriera, la buona sorte di credere che daaltro non nascessero le lodi, ch'io riportavo, che da una cortese intenzione di avvalorare i mieigiovanili sforzi e di condurmi col tempo a meritarle veracemente. Questo mi tenne lontanodall'oziosa superbia e da una vana opinione di me medesimo; scogli in cui spesso urtano glistudiosi, che, credendo di saper tutto, ivi il più delle volte si fermano, donde forse dovrebberoincominciare. Qualche talento poetico, da me ottenuto dalla natura, e questo infinito amore per lapoesia, unito a princìpi sì sani, m'avrebber forse portato un giorno alla riputazione ed al grado dibuon poeta, se la fortuna non si fosse attraversata continuamente alle mie onorate intenzioni e nonmi avesse tratto con man prepotente e quasi per forza tra i più pericolosi e crudeli vortici della vita,togliendomi quella pace, quei mezzi e quei placid'ozi, senza de' quali l'umana mente invans'argomenta di giungere agli alti fastigi. Infiammato, siccome io era, del nobile desiderio d'ornarel'ingegno di tutti quei lumi e di tutte quelle cognizioni che in un poeta richiedonsi, aveva acquistato,a forza di economia e di giovenili risparmi, una picciola collezione di libri latini, e preparavami adarricchirla de' migliori italiani. Avevamo un libraio a Ceneda, che per solo capriccio, sebbeneignorante ed idiota, aveva una bottega d'ottimi libri. Mi trovai appena in possesso di poche lire, cheandai a trovarlo, e feci scelta di un numero di libri, per la maggior parte elzeviriani, il valore de'quali superava di molto il contenuto della mia povera borsa. Aveva un figlio costui, che faceva ilmestiere di calzolaio. Trovò il buon vecchio un ottimo spediente pei miei e suoi bisogni.«Portatemi,» diss'egli, «alcune pelli di sommaco e di vitellino della manifattura di vostro padre, eaccomoderemo le cose.» Mi piacque il ripiego: corsi a casa, entrai segretamente nel magazzino,scelsi tre pelli di vitello, ne feci un fardellino bene stretto, me lo adattai tra l'abito talare e laschiena, e m'incamminai alla porta per uscire. Stava allora per mia disgrazia, sul limitare di quella,la mia matrigna, chiacchierando con qualche donna del vicinato. Come io temeva che s'accorgessedel furto fatto, così feci un giretto per andarmene a un'altra porta. Arrivato in istrada, bisognavapassare davanti al crocchio donnesco. Non avevo fatto che pochi passi, quando udii una di quelledonne dire altamente: «Che peccato che quel giovinetto sia così gobbo!» Tale faceami parere ilnascosto fardello. Mentre fo un salterello per lanciarmi a sghimbescio dall'altra parte della via, ilfardello cade per terra, le femine ridono, mia matrigna corre a raccoglierlo, ed io, senza voltarmi, néfar motto, sèguito il mio camino, e vommene quatto quatto dal buon libraio. Narratagli la miadisgrazia, gli diedi alcune lire a caparra, e lo pregai caldamente di tener que' libri per me; il che eglifece. Non mancò la matrigna di narrar la cosa a mio padre, che venne la domane3 al seminario, mene disse a bizzeffe, né valse ragione a placarlo, non che a ottenere da lui la somma che mi occorrevaper comperare que' libri, che non era più di dodici piastre. Riseppe la novelletta l'ottimo vescovo;

3 La voce «indomani» è proscritta da' puristi. Cesarotti ed altri l'usarono. Ma io non l'userò più, da che la trovairiprovata dal Cesari.

mandò sul fatto per me, mi fece ripetere tutta la cosa, che udì lacrymoso non sine risu, e mi diede ildanaro necessario a comperare que' libri. Il piacere di tale acquisto non fu di lunga durata per me.Una terribile malattia, che tenne per più di sei mesi la mia famiglia in continuo timore di perdermi,varie disgrazie domestiche, che afflissero in que' tempi mio padre, e sopra tutto la morte dimonsignor Da Ponte, mio protettore, mi tolsero non solo i modi di proseguire gli studi intrapresi,ma posero in estrema indigenza mio padre, che dalla beneficenza di quel prelato traevaincessantemente protezione e soccorsi.

Perdei più d'un anno in tal guisa, tra le malattie, le lagrime e l'ozio, e fui alfine costretto avendere la maggior parte de' libri, che aveva acquistati, e di venderli or per coprirmi d'un decenteabito ed or per supplire alle quotidiane occorrenze della famiglia. Questo stato di povertà, da cui fuallor assalita la mia famiglia, mi fece rinunziar alla mano di nobile e vaga giovine, ch'io amavateneramente, e ad abbracciare m'indusse uno stato del tutto opposto al temperamento, al carattere, a'princìpi e agli studi miei, aprendo in tal guisa le porte a mille strane vicende e pericoli, di cuil'invidia, l'ipocrisia e la malizia de' miei nemici mi reser per più di vent'anni vittima lamentevole.Permetti, cortese lettore, ch'io copra colle tenebre del mistero questo punto dolente della mia vita,risparmiando così alla mia penna un risentimento, che desterebbe intempestivi rimorsi in un cuore,che, ad onta di tutto, riverisco e che non cesserò in alcun tempo di riverire.

Dopo questa tempesta, da me sofferta con coraggio e rassegnazione, monsignor Ziborghi, unvenerabil canonico di quella cattedrale, che ereditate aveva le benefiche inclinazioni del defuntoprelato per noi, procacciò sì a me che agli altri due miei fratelli l'assistenza di uno di que' begliinstituti, che ne' tempi felici della sventurata Venezia onoravano con tanta gloria quella repubblica.Fummo tutti tre collocati nel seminario di Portogruaro, dove un nuovo campo mi fu aperto daproseguire con agio e decoro gl'interrotti miei studi. Attesi il primo anno alla filosofia ed allematematiche, senza perder però di vista le mie predilettissime muse. Mentre s'affaticava il maestro aspiegar Euclide o qualche astruso trattato di Galileo o di Newton, io leggeva furtivamente oral'Aminta del Tasso, ora il Pastor fido del Guarini, che aveva quasi imparati a memoria. Verso la finedel primo anno recitai pubblicamente una canzone in lode di san Luigi, che fu applaudita: piacquerosopra tutto questi tre versi:

Ma sel ritolse il ciel, quasi sua gloriafosse manca e men bellasenza la luce di quell'aurea stella.

Un bravo!, uscito di bocca a dotto e nobile personaggio, mi fruttò la cattedra di retorica, chemonsignor Gabrielli, vescovo di Concordia, soggetto per dottrina, per nobiltà e per religiosa luceeminente, in quel giorno stesso m'offerse. Aveva allora in pensiero di perfezionarmi nell'intelligenzadella lingua ebraica, che aveva ne' primi anni miei molto studiata, e di applicarmi ad un tempostesso allo studio de' greci, portando ferma opinione che, senza la lettura di quelli, nessuno potessedivenir gran poeta. Per questa ragione esitai più giorni a risolvere. Mi lasciai vincere alfine dallepersuasioni del buon rettore, che infinitamente mi amava, e più dalle circostanze paterne, che co'guadagni del mio impiego aveva speranza di ammegliorare. Accettai dunque l'offerta, e in un'età, incui aveva bisogno d'imparar io medesimo infinite cose, mi posi all'arduo cimento d'insegnar aglialtri le belle lettere. Non credo però che questa specie d'interruzione cagione sia stata di ritardo o didetrimento a' miei letterari avanzamenti.4 Non aveva ancora ventidue anni al momento della miaelezione. Erano affidati alle cure mie trenta e più giovani, pieni di ardore, d'ingegno e diemulazione, e fino allora miei condiscepoli. Il vescovo non cessava di fomentar ed infiammardentro il mio spirito i più forti e pungenti stimoli dell'amor proprio, tutti gli occhi della città erano inme solo rivolti; imagini il mio leggitore com'io tremava. Raddoppiai quindi la diligenza, lemeditazioni e gli sforzi, per adempiere non senza gloria i doveri del mio impiego; e quel che non

4 E da'miei discepoli imparai più che da tutti.

ebber tempo d'insegnarmi i maestri, imparai, come disse un dotto rabino, da' miei discepoli.Umitalmidai rabàdi miculàm.

Il fortunato effetto delle mie onorate premure eccitò in alcuni l'iniquo pungolo dell'invidia.Due o tre maestri di quel seminario divennero miei indomiti persecutori. Pretendendo ch'io nonavessi studiato a fondo la fisica e le matematiche, tentarono assalirmi da questo lato, gridando ch'ionon era che un parolaio, un verseggiatore senza scienza. Composi allora varie poesie, tanto italianeche latine, sopra diversi argomenti fisici, che si recitarono pubblicamente da' giovani della mia scolaverso la fine dell'anno. Piacquero generalmente i miei versi, ma sopra tutto un ditirambo sopra gliodori, in cui si credette vedere qualche lampo del foco rediano:

Qual felice avventura, ecc.

Quanto mortificati rimasero i miei nemici, tanto fui io lodato ed accarezzato da' letterati diquella città, dalla scolaresca e dal vescovo; il che aumentò a dismisura l'odio de' miei rivali.

Dopo due anni di pazienza, mi congedai. Passai sfortunatamente a Venezia. Essendo nelbollor dell'età, di temperamento vivace e, al dire di tutti, avvenente della persona, mi lasciaitrasportare dagli usi, dal comodo e dall'esempio alle voluttà ed ai divertimenti, dimenticando onegligendo quasi del tutto la letteratura e lo studio. Aveva concepita una violentissima passione peruna delle più belle, ma insieme delle più capricciose dame di quella metropoli. Teneva occupatoquesta tutto il mio tempo nelle solite follie e frivolezze d'amore e di gelosia, in feste, stravizzi ebagordi, e, salvo qualch'ora della notte, ch'io dava per uso alla lettura di qualche libro, non credo, intre anni di tempo che durò quella tresca, d'aver imparata cosa che pria non sapessi o che fosse purdegna di sapersi. Parve che la provvidenza volesse liberarmi dal pericolo terribile che sovrastavami.Ad onta di tutte le gelosie e di tutti i capricci di quella donna, ritenuto aveva il buon uso di andare lasera a certo caffè, dove i più colti e dotti uomini di Venezia si radunavano, ed era chiamato perquesto il «Caffè de' letterati». Trovandomivi una sera mezzo mascherato, entrò un gondoliere,guardossi attorno, fissò gli occhi in me e mi fece cenno d'uscire. Arrivato sulla strada, mi fe' cennodi seguirlo. Mi trasse allora alla riva di un canale vicino, e mi fece entrare in una gondola, che dallaparte opposta di quella bottega era situata. Credendo di trovar ivi la mia amica, che soleva venirtalvolta a pigliarmi in quel loco, v'entrai senza altro indagare, e me le assisi vicino. Era la nottetenebrosissima. Un fanale acceso in qualche distanza mi aveva fino allora mostrato il cammino; ma,quando fui nella gondola, il barcaiuolo lasciò cadere il solito panno sull'imboccatura di quella,perlocché il buio era perfettissimo. Salutando ella me ed io lei nel punto medesimo, discoprimmoambidue, al suon di una voce che c'era nuova, che il gondoliere dovea avere equivocato. Io l'avea,sedendo, presa per la mano, per baciargliela all'uso nostro, la quale era assai più pienotta di quelladell'amica mia. Tentò ella subito ritirarla; ma io la ritenni con dolce forza, assicurandola con viveespressioni che non aveva nulla a temere. Mi rispos'ella cortesemente, pregandomi tuttavoltad'andarmene. Accorgendomi che non era veneziana, come quella che prettissimo toscano favellava,venni in maggior curiosità di saper chi fosse e adoperai tutta l'eloquenza perché mi permettessed'accompagnarla alla sua dimora. Dopo molte difficoltà, consentì di pigliare qualche rinfresco, conpatto che le promettessi d'uscire fuori dalla gondola senza investigare più oltre. Andò il gondolierepei rinfreschi al caffè vicino, e portò con sé una lanterna. All'apparir della luce mi si offerse alguardo una giovane di bellezza maravigliosa e di nobilissime apparenze. Non sembrava avere e nonaveva ancora diciassett'anni. Era vestita con molto buon garbo, ornata di maniere gentilissime ebrillava in ogni suo detto la costumatezza e lo spirito. Tacemmo entrambi per qualche tempo.Parendomi però ch'ella guardasse me con un sentimento non dissimile a quello con cui io leiguardava, presi coraggio e tutte quelle cose le dissi che in simili avventure si soglion dir alle belledonne. La pregai novellamente a voler permettermi d'accompagnarla fino alla sua abitazione, ofarmi almeno sapere con chi aveva la sorte di conversare. Vedendo ch'io trattava con lei con tuttaquella delicatezza e rispetto che il suo stato esigeva e che dà generalmente l'idea del carattere d'unuomo ben educato, sembrò compiacersene e parlò così: «Le circostanze bizzarre, in cui mi ritrovo,

mi vietano di condiscendere alle vostre brame. Si può dare che cambino, e in quel caso cirivedremo. Di tanto dovvi parola e, se volete di più, vi dirò francamente che lo desidero e cheadoprerò tutti i mezzi perché succeda.» Le dissi allora chi io era e si fissò quella medesima bottegae quella medesima ora pel nostro futuro incontro. Dopo breve intervallo, partì.

Non so se la curiosità o la speranza che questa avventura mi liberasse d'una troppo violentapassione per una donna, che fin dal principio della mia pratica non parea fatta per la mia felicità, mifece andare ogni sera costantemente al caffè indicato; ma dopo qualche tempo cominciai a perdereogni lusinga. Cresceva intanto di giorno in giorno la mia passione per l'altra, e con quella il suotirannico dominio. Aveva questa un fratello, che fu sempre per me un oggetto odiosissimo, e che,volendo partecipare del comando sororio, mi faceva suo schiavo, suo confidente, suo tesoriere.Risolsi improvvisamente partir da Venezia, sperando che la lontananza servisse a guerirmi.Aumentò questa invece la mia debolezza e il mio desiderio. Non ebbi forza di resistere. Dopo ottogiorni di battaglia tormentosissima, tornai a Venezia ed accettai per mia disgrazia l'offerta, chefecemi quella donna, d'andare ad abitar in sua casa. Non mancai per altro la sera d'andare al caffèsolito, dove udii, non senza rincrescimento, che un gondoliere eravi stato pochi giorni prima per mee che il bottegaio detto gli avea ch'era partito. Non credeva perciò probabile di poter più ricevernovella della bella incognita. Alcuni dì dopo, passeggiando per la piazza di San Marco, sento tirarmipel lembo dell'abito e chiamarmi per nome. Era il rematore di quella giovine, che mi disse consomma gioia: «Go gusto che la xè tornada; vago a consolar la parona; se revederemo stasera.» Partì,ciò detto, senza aspettar risposta e tornò la sera al caffè colla bella giovine. Appena entrai nellagondola: «Eccomi venuta,» disse ella, «a mantenere la mia parola.» Dopo i soliti complimenti,ordinò al barcaiuolo di condurci da lei. Mi fece passare, quando vi giungemmo, in un'elegantecamera; entrò sola in un gabinetto contiguo, dal quale uscì, pochi istanti dopo, vestita ed ornata congrande ma semplice eleganza; s'assise quindi vicino a me, e così parlommi:

«Prima d'ogni altra cosa, è giusto che vi informi dell'esser mio e delle bizzarre cagioni chem'hanno condotta a Venezia. Io sono napolitana, e mi chiamo Matilda, figliuola del duca di M…a.Mio padre, che non aveva che due figliuoli quando morì la madre mia, sposò, dopo dieci anni divedovanza, la figlia di un droghiere, che prese su lui un dominio affatto tirannico, e, abusando delsuo carattere naturalmente debole, reso più debole dall'amore, giunse a fargli raffreddare, se non aspegnere in lui, sì per me che per mio fratello, ogni sentimento paterno. Fu egli mandato per suocomando nel collegio militare di Vienna, ove in meno di sei mesi morì; ed io, che non aveva ancoraundici anni, fui messa in un convento a Pisa, dove vissi contra mia voglia sei anni, senza il confortodi vedere mio padre o di aver novella di lui. Tentarono tutti i mezzi le monache di quel convento perpersuadermi d'abbracciare il lor medesimo stato; il che però rifiutai costantemente di fare. Arrivòall'improvviso a Pisa la mia matrigna. Mio padre era con lei; ma non gli permise la cruda donna divenir a trovarmi. Venne ella sola; e, fingendo per me tutta la tenerezza e l'amore di madre:«Figliuola,» diss'ella, «odo che non avete la vocazione di darvi a Dio: bisogna dunque darvi almondo. Vostro padre, che mi ha lasciata la cura della vostra futura sorte e che sa che meno nonv'amo di quello che farei se foste mia propria figlia, v'offre uno sposo, ch'io v'ho già scelto e chepuò assicurare la vera felicità della vostra vita. Se promettete ubbidire a' voleri miei, che sono quellidi vostro padre, preparatevi a uscire domani da queste mura che non amate; se no …» Io, che odiavail convento, le monache e le loro pratiche, e che dopo sei anni di prigionia desiderava ardentementela libertà, sopra tutto per veder e abbracciare quello a cui doveva la vita, appena udii questo «se no,» che sorsi sollecitamente dal loco dove sedeva, mi gettai al collo di quella donna che pococonosceva, e «Tutto, » dissi, «mia cara madre, tutto son pronta a fare quel che a voi piace. »M'abbracciò allora anch'essa e mi baciò più volte teneramente, e volle che uscissi dal convento,senza aspettar il domani. Andammo allora all'albergo, dov'era mio padre. «è questa mia figlia?»gridò egli altamente, vedendomi. «Vostra figlia, e figlia ubbidiente,» rispose la perfida. Ripigliòallora la natura tutti i suoi dritti. Non è necessario dirvi i suoi baci, le sue carezze, i suoi trasporti edi miei.

«Partimmo tosto per Napoli, dove arrivata, ad altro non si pensò che ai preparativi del miomatrimonio. La mia matrigna m'aveva dato due stanze contigue alle sue, dove custodivamigelosamente, senza lasciarmi vedere o parlare da sola a sola con chi che sia. Io non sapeva qualgiudizio formar dovessi di questa strana riservatezza. Un giorno, mentre io stava del tutto immersain questo pensiero, entrò improvvisamente nella mia camera la matrigna, mi trasse con sé nella suae vi si chiuse meco, e, traendo da un armadio uno scrignetto pieno di perle e di gemme: «Questo,»mi disse, «è il primo dono del vostro sposo, il resto, che corrisponde perfettamente al suo grado, lotroverete da lui. Non siate ingrata alla mia bontà, all'amicizia mia.» Spalancò, ciò detto, le porte, evidi comparire un vecchio d'aspetto orribile, ch'io giudicai avere più di sessant'anni, seguito da unpomposo corteggio di staffieri, lacchè e paggi e da due ministri dell'altare. Mio padre veniva dopotutti, taciturno e con occhi bassi. «Ed eccovi, Matilda, lo sposo vostro,» mi disse coleibaldanzosamente. «Eccovi, o principe,» vòlta a lui, «quella che adesso dalla mia mano, e poi daquella dei sacerdoti, riceverete in consorte.» Io avevo sulle prime perduto il moto, non che la voce.Mormorò allora quello sciagurato diverse parole, che non intesi. Ma, risentitami alfine e quasianimata dal dolore, dal dispetto, dalla disperazione, misi un terribile grido, mi strappai dal capoalcuni veli, che m'avevano posti, e con quelli gran parte de' crini, e, aprendomi furiosamente ilcammino tra quella gente, mi gettai a' piedi del padre mio, gridando tra i singhiozzi e le lagrime:«Padre mio, soccorretemi!» Questo bastò per rendere quella serpe furente. Non è possibil descriverelo schiamazzo che fece. Disparvero tutti, ed io rimasi sola con lei e con mio padre, che non aveva nécoraggio né forza da difendermi. Chiamò ella infine due servi, che mi strascinarono semiviva in unacarrozza. Aveva perduto novellamente l'uso de' sentimenti. Tornata, non so quanto tempo dopo, inme stessa, mi trovai in una camera, ch'aveva tutta l'apparenza di una prigione. Non v'era in quellache un letto, due sedie e una vecchia tavola; assicurate erano le finestre da grate di grosso ferro, ederan sì alte nelle pareti, ch'io non poteva giungervi per alcun modo. Agitata da mille sospetti, passaitutto il rimanente del giorno in querele ed in lagrime. Verso la sera udii uno sbattimento di chiavi aldi fuori, e, aperta la porta, entrar vidi nella mia stanza una donna di forme orribili, con un picciolocesto in mano, cui depose sopra la tavola, e, dopo avermi fissamente guardata, senza aprir boccapartì. Guardai allora nel cestello, e vi trovai una bottiglia d'acqua, due ova e del pane. Ma io non erain istato di prendere altro nutrimento che quello delle mie lagrime, di cui mi cibai, più che di altracosa, pel corso di quindici giorni, che durò quella prigionia. Credo che la disperazione mi avrebbeuccisa, se non avessi riflettuto che ogni sventura era preferibile a quella di maritare un fetentecadavere, ché tale era infatti lo sposo offertomi.

«Cominciava già a sospettare che quella carcere dovesse essere la mia tomba, quando lanotte del decimoquinto giorno, ad ora alquanto avanzata, dopo essermi messa a giacere, udii aprirepian piano la porta e vidi entrare una donna con una lanterna accesa, la quale a mezza voce mi dissesubito: «Non temete, figliuola, io sono la vostra nutrice.» Mi gettò quindi le braccia al collo, e, dopoavermi bagnata di lagrime, mi esortò a vestirmi immediatamente e seguirla. Sapeva che quelladonna m'amava quanto la propria vita: non esitai però un momento a ubbidire. M'aiutò consollecitudine a vestirmi, e mi fece discendere dalle scale con lei. Alle porte della casa v'era uncalesse da posta a quattro cavalli, un cocchiere ed un giovine vestito da viaggio, con un mantello ecappello da uomo nelle mani. M'abbracciò di nuovo la mia nutrice, e con parole interrotte da'singulti: «Ecco,» mi disse, «o figliuola e signora mia, l'unica strada che rimane allo scampo e libertàvostra. Questi è mio figlio, che vi accompagnerà in loco di sicurezza e vi sarà fedelissimo servidore,come lo sarei io medesima. Non posso or dirvi di più; il tempo è prezioso. Saprete il rimanente dalui.» Mi mise allora il mantello addosso e il cappello in testa, e mi fece entrar nel calesse.

«Andammo sì rapidamente, che giungemmo in poche ore a Garigliano. Arrivammo il dìdopo a Roma, e il terzo a Fiorenza. Non ci fermammo né notte né giorno, se non a Padova, dovechiesi di riposare. Non volle però il mio compagno fermarsi più di una notte. Aveva saputo da luicome riuscito era alla mia nutrice di deludere la vigilanza de' custodi, che quella iniqua m'aveaposti; come aveva stabilito di farmi perire in quella prigione, che in un antico castello dellafamiglia, tre miglia lontano da Napoli era situata, se non condiscendeva a sposare quel mostro; e

come a ciò era stata sedotta dalla promessa, ch'ei fecele, di pagarle una somma esorbitante incompenso d'un feudo, che a me appartenea di ragion materna. Aveva udito inoltre la storia di queldisgustoso epulone, che, ad onta di tante grandezze, non aveva donna trovata che non gli rifiutassela mano, e questo per le deformità del corpo non solo, ma per quelle ancora dell'animo. Parevamidunque d'essermi salvata da un naufragio o da un terremoto, e ne ringraziava di core la provvidenza.Non sapevamo però né io né il mio compagno a qual partito appigliarci, per assicurare la mia libertàe la mia pace. M'aveva ei già data una borsa d'oro e una cassetta di gemme, che di mia madre stateerano e che l'infelice mio padre aveva, non so come, salvate e date alla mia nutrice per me,acconsentendo non solo, ma pregandola di fare quello che fece per liberarmi. Ma queste ricchezzeerano atte più tosto a discoprire ch'io era, che a tenermi celata. Sembrandomi dunque il soggiorno diPadova pericoloso, risolvemmo d'andare a Venezia, dove l'uso della maschera era comunissimo,onde m'era più facile nascondermi. Mi procurai per maggior precauzione un abito da uomo, e presinella solita barca di Padova il mio passaggio. Non v'eran che tre passeggeri quel giorno. Due donnedi povera apparenza e un giovane signore, che, da' titoli che gli davano i barcaiuoli, m'accorsi esserenobile. Le sue maniere erano gentili, la sua persona piacevole. Procurava parere ammalata, parlavapochissimo e mi teneva coperta la faccia, in modo da non poter essere ben veduta. Ad onta diquesto, non eravamo stati due ore insieme, che sospettò del mio sesso e francamente mel disse. Ilrossore della mia faccia e la confusione, che non seppi nascondere, accrebber i suoi sospetti e loresero più ardito. Ebbe per altro la discrezione di parlar piano e di non far intendere alle due donne,ch'ivi erano, i suoi discorsi. Non trovando via da schermirmi, lo pregai di tacere e gli promisi che,arrivando a Venezia, appagherei la sua curiosità, almeno in parte. Mi fece capire frattanto essere eglidella nobilissima famiglia Moc…o, una delle prime di Venezia. Arrivati a questa città, volleaccompagnarmi ad una locanda, dove, sedotta da qualche buona apparenza e più dal bisogno cheaveva di persona d'autorità nelle circostanze in cui era, gli narrai parte subito, e pochi dì dopo ilrimanente delle mie avventure. In otto giorni la nostra pratica era un misto d'amicizia e d'amore. Ionon m'era innamorata, ma incominciava ad esserlo. Aveva dello spirito, della vivacità, ed era beneducato. Parendomi d'esser caduta in buone mani, non ebbi difficoltà di permettere al miocompagno di viaggio di tornar a Gaeta, dove aveva lasciata una moglie, che amava molto, e tre figli.Presi allora in affitto questa casuccia, e vissi ognora ritiratissima. Io non era tuttavia senza qualcheinquietudine. Il Moc…o se ne avvide, e mi disse un giorno: «Vedo che non siete tranquilla; losareste, credo, se diventaste mia sposa, il che son disposto di fare quando a voi piaccia.» Egli eraassoluto signore di se medesimo. Chiesi qualche tempo a rispondere, benché non mi dispiacesse laproposizione. Una sera venne a trovarmi ad un'ora insolita, e mi domandò cento zecchini, perrestituirmeli il dì seguente. Non esitai a darglieli, e non mi passò allora alcun sospetto pel capo. Noncessò egli di venire a visitarmi, ma non mi parlò più per alcuni giorni di quel danaro. Mandò unamattina un suo servo con un biglietto, e me ne domandò altri cento. Io aveva ancora molte doppie diSpagna, oltre la cassetta di gemme, che di non picciol valore credo essere; onde, nonincomodandomi quella somma, gli mandai gli altri cento.

«Cominciai però a sospettare che il povero cavalierino non avesse, come quasi tutti i signoriveneziani, il vizio del gioco. Gli scopersi con franchezza il mio dubbio e mi confessò il suo peccato.Compresi ancora da' detti suoi che aveva fatto in quel carnovale delle perdite immense, alle qualinon era facile metter riparo. Vero è che promisemi di abbandonare il gioco, ma io m'accorsiprestissimo che le sue promesse erano simili a quelle di tutti i giocatori viziosi. Le sue visite nonerano più né sì spesse né sì lunghe come a' primi tempi. Era malinconico e pensieroso, ed avevaognor delle scuse pronte per esimersi dall'uscir meco, quantunque sapesse ch'io non usciva in alcunaoccasione senza di lui. A questo suo procedere devo il piacere della vostra conoscenza. Ei dovevatrovarsi al caffè medesimo, al quale voi eravate la sera del nostro primo incontro. Essendo voi difigura e d'abito assai a lui somigliante, ed oltre a ciò mascherato, equivocò il mio gondoliere, econdusse voi in sua vece nella mia gondola.

«Fu trattenuto il Moc…o dal gioco, ed io, che sapeva le case che frequentava, andai atrovarlo. Ho giudicato allora prudente cosa lo sciogliere ogni relazione con lui. Foss'egli innamorato

d'un'altra donna, o fosse talmente distratto dal gioco, che luogo in lui più non rimanesse per un'altrapassione, pareva che il suo amore si fosse non solo raffreddato, ma quasi estinto. S'adattò facilmentealla mia risoluzione, e andò alla campagna per qualche tempo. Ho mandato allora per voi; ma,udendo ch'eravate partito da Venezia, aveva quasi deposto la lusinga di rivedervi. Siete con me,udiste i miei casi e lo stato mio. Se il vostro cuore è libero (il che nell'età vostra non parmi facile),se vi dà l'animo di lasciare la vostra patria, se vere sono le belle cose che mi avete dette la primavolta che mi vedeste, io vi fo dono di me e di tutto quel che possedo; il che credo che siasufficientissimo a farci vivere decorosamente in qualunque parte del mondo. Basta trovar un paese,che ponga in salvo la mia libertà; giacché la mia pace mi pare che sarà abbastanza assicurata, sepotrò esser con voi.»

Per quanto bella sembrasse un'offerta sì generosa, non ebbi coraggio d'accettarla senzariflettere prima alcun tempo. Le domandai tre soli giorni a risolvere, il che non senza noia e malanimo parve accordarmi. Pareva che questa misera avesse un interno presentimento della sorteinfelice, che le pendeva sul capo. Rimasi due ore con lei. Ritornato a casa, ebbi una piccolabattaglia di gelosia colla mia damina. Passai il resto della notte in riflessi e meditazioni. Era difficiledire quale di queste due donne fosse la più bella, benché diverse l'una dall'altra quanto è possibileimmaginare. La veneta era piccola, delicata, gentile, candida come la neve, con due occhilanguidamente dolci e due vezzose pozzette che ornavano le sue guance, a fresche rosesomigliantissime. Tutte l'altre sue parti erano regolari. Non aveva avuta molta cultura quanto allospirito, ma era dotata d'una tal grazia nelle maniere e di tale vivacità ne' discorsi, che non solos'insinuava negli animi, ma incantava chiunque. L'altra era grandicella anzi che no e d'un'ariamaestosa e venerabile. Era alquanto brunetta, con occhi e capelli assai neri, e, benché le sue formenon fossero regolarissime, pur si accordavano sì bene insieme, che formavan un tuttomaravigliosamente bello e piacevole. Queste bellezze erano animate dalle grazie d'uno spiritocoltivato, da una borsa di doppie e da una cassetta di diamanti, che non ebbe difficoltà di mostrarmi.Io era dunque in una guerra fierissima con me medesimo. Sentiva che il mio core era più alla primainclinato, come quella che più lungamente dell'altra io aveva amato, ma la ragione si dichiarava perl'altra, che pur sommamente piacevami e con cui giudicava dover esser più felice.

Mentre stava sospeso ed irresoluto sulla mia scelta, un trasporto geloso della veneziana mifece risolver per l'altra. Erano passati non tre, ma otto giorni dal mio ritorno a quella capitale. Io nonmancava di andare più volte al giorno a far delle visite alla Matilda. Rimasi una sera al quanto piùtardi del solito con lei. Mi disse al partire: «Caro Da Ponte, bisogna finirla: o domani partiremo daVenezia, o me ne andrò in un convento.» Le giurai di contentarla il dì dopo, di dirle cioè quel chepensava di fare. A casa trovai il diavolo scatenato. Mi venne incontro l'Angela con uno stiletto nellemani, e non so veramente se voleva ferire me o se medesima. Mi venne fatto di disarmarla, maquell'atto mi fece orrore. Ruppi quell'arme e mi ritirai nella mia stanza. Vi venne anch'ella unminuto dopo e si fece la pace. Andò quindi a dormire, ma io uscii di casa novellamente e andaiall'albergo della napolitana, risoluto di partire con lei e di proporle Ginevra o Londra per suo e miorifugio. Non erano ancora suonate le due dopo la mezzanotte. Picchiai più volte con le mani e co'piedi la porta, prima che si venisse ad aprirmi. Discese alfine una vecchia, che abitava con lei incarattere di cameriera, e mi narrò lagrimando come, pochissimo tempo dopo esser io partito, ilministro degli inquisitori di Stato, accompagnato da alcuni sbirri, aveva cavata dal lettoquell'infelice, presi tutti i bauli e condottala in una gondola. Il mio dolore fu eccessivo. Il misteroonde quel tribunale diabolico copriva sempre le barbare e dispotiche sue sentenze e il terrore cheinspiravano generalmente in Venezia i suoi tremendi giudizi, mi facevano non sol disperare di poterin alcuna maniera soccorrerla, ma di scoprire giammai ciò che di lei fosse adivenuto. Mi pareva inqualche maniera d'essere stato io la cagione del suo infortunio colla mia ingiusta irresolutezza; equesto raddoppiava il mio rincrescimento e il rimorso mio. Convenne però assoggettarsi al dirittodel più forte e contentarsi di spargere qualche lagrima sul destino crudele di quella bellissimagiovine, di cui per dodici anni continui mi fu impossibile udir novella. Fu il cavalier Foscarini,ambasciatore della repubblica presso l'imperatore di Germania, che, udendo da me questa storiella,

mi narrò, dopo molte reciproche esclamazioni, come la Matilda era stata, per ordine della suapersecutrice, chiusa nel convento delle Convertite; com'egli avevala intimamente conosciuta, ecome alfine era a lui riuscito, dopo sei anni di prigionia, di farla uscire da quel convento e dirimandarla al padre, cui la morte della moglie aveva al governo domestico richiamato.

Partita questa rivale, tornai subito al primo laccio, il quale fu per due anni interi più forte epiù pericoloso che mai. Era la donna ch'amava agitata continuamente dalla passione del gioco. Ilfratello di questa, giovinastro insolente, prepotente, caparbio, era per grandissima nostra sciagura,ancor più vizioso di lei. Io era obbligato di accarezzarlo. Lo secondava ora per complimento ed oraper noia. A poco a poco diventai anch'io giocatore. Non essendo ricchi né essi né io, perdemmo inbreve tutto il danaro. Cominciammo allora a fare de' debiti, a vendere, ad impegnare, e vuotammoprestissimo la guardaroba. Era aperta in que' tempi la famosa casa da gioco in Venezia, conosciutacomunemente sotto il nome di pubblico Ridotto, dove i nobili ricchi avevano il privilegio esclusivodi tener gioco di resto col proprio danaro, e i poveri, per certo prezzo, con quello degli altri, e per lopiù dei doviziosi discendenti di Abramo. Noi vi andavamo tutte le sere, e tutte le sere ce netornavamo a casa, maledicendo il gioco ed il suo inventore. Non aprivasi questa casa che ilcarnovale. Era giunto l'ultimo giorno e non avevamo danaro né mezzi onde procurarne. Spinti dallaviziosa abitudine e più da quella fallace speranza che sempre anima i giocatori, impegnammo ovendemmo alcuni vestiti che ci rimanevano e raccapezzammo dieci zecchini. Andammo al Ridotto eperdemmo in un batter d'occhio anche quelli. Si può pensare come partimmo da quelle camere.C'incamminammo taciturnamente al loco dove eravamo soliti ogni giorno di prender gondola. Ilcondottiero di quella mi conosceva. Io l'aveva trattato più volte generosamente. Vedendocimalinconici e muti, s'accorse del fatto e domandommi se mi occorreva danaro. Credendo chescherzasse, gli risposi, scherzando anch'io, che mi occorrevano cinquanta zecchini. Guardommisorridendo, e, senza soggiungere una parola, vogò per breve intervallo cantando, e fermossi altragitto delle prigioni. Discese allor dalla gondola; e, in pochi minuti tornandovi, mi pose in manocinquanta zecchini, mormorando tra' denti queste parole: «Andé, zioghé e imparé a cognoscer ibarcaroli veneziani.» Non fu picciola la mia sorpresa. Alla vista di quel danaro la tentazion fu sìgrande, che non mi lasciò tempo di far certe riflessioni, che per delicatezza di animo fatte avrei inaltri tempi. Tornammo sul fatto al Ridotto. Entrando nella prima camera, pigliai in mano una cartada gioco, e, avvicinandomi al banco d'un tagliatore, posi su quella la metà del danaro che iopossedeva e lo raddoppiai. Passai da quello a molti altri banchi e giocai per più di mezza ora con sìcostante buona fortuna, che mi trovai in breve carico d'oro. Trassi allora alle scale la mia compagna,discesi velocemente, corsi alla gondola, e, dato al gondoliere il suo danaro ed un bel regalo, gliordinai di condurci a casa.

Aveva io appena vuotate le tasche e messo insieme tutto quell'oro sopra una tavola, cheudimmo picchiar la porta. Era il fratello di madama. Vid'egli appena questo danaro, che, mettendoun urlo di gioia, gettovvi sopra i barnabotici artigli5 e se ne impadronì, intascandone senza indugiouna parte, e l'altra in due fazzoletti accogliendo. Passò frattanto tra noi il seguente dialoghetto:

«Avete guadagnato questo danaro al gioco?»«Eccellenza sì.»«L'avete contato?»«Eccellenza no.»«Avreste gusto di raddoppiarlo?»«Eccellenza sì.»«Andrò tener banco al Ridotto, e non dubitate dell'esito.»«Eccellenza no.»Come questo «no» non pareva chiaro, soggiunse, digrignando i denti, ch'erano di smisurata

grandezza: «Eccellenza sì!» «Eccellenza no!» Volete o non volete?»«Eccellenza sì! Eccellenza sì» Che avrebbe giovato il mio no?

5 I nobili poveri abitavano generalmente nella contrada di San Barnaba: detti eran da ciò «barnaboti».

«Ebbene, prendete con voi mia sorella, e seguitatemi.»«Eccellenza sì.»«Non vi fate aspettare.»«Eccellenza no.»Corse, ciò detto, giù dalle scale, ed io gli andai dietro colla sorella grattandomi il capo e

bestemmiando «Sua Eccellenza sì», il libro d'oro e tutta la contrada di San Barnaba. Giunto alRidotto, espose tutto il danaro sopra una delle tavole da gioco e cominciò a mescolare un mazzo dicarte. Vi accorsero subito molti giocatori, tra' quali non pochi di que' medesimi, che avevano pocoprima perduto meco. Sapendosi la mia connessione con cotestui, si giudicò della cosa sul fatto. Ciòaccrebbe in tutti la bramosia di riguadagnare quell'oro. Era già passata la mezzanotte e tutti gli altribanchieri avevano deposte le carte. Si giocò dunque disperatamente. Ne' due primi tagli ebbe coluifavorevolissima la fortuna. Una montagnuola d'oro aveva davanti a sé. Io gli sedeva da un lato e lasorella dall'altro. Non ardivamo parlare, ma gli facevamo de' cenni cogli occhi, colle mani, co' piedi,perché cessasse di giocare. Tutto fu vano; cominciò un terzo taglio, ma nol finì: verso la metà diquello tutto quell'oro era ito. Depose allora con maravigliosa freddezza le carte,

mi guardò, sogghignò, scosse la testa,

e, pigliando la sorella per mano, mi diede la buonanotte e partì. Non occorre dire com'io rimanessi.Mi ritirai nella camera de' sospiri (così detta era una certa stanza, dove solevano passeggiare gliamanti o i giocatori sventurati, per conversare, sospirare o dormire). Dopo qualche tempom'addormentai. Non mi svegliai che a giorno chiaro, quando tutta la compagnia era partita,eccettuati alcuni pochi, che come me s'erano addormentati.

Un uom mascherato, che mi sedeva vicino, vedendomi svegliato, mi chiese due soldi. Dopoavermi frugolate invano le tasche, misi la mano nel borsellino laterale dell'abito; e qual fu lasorpresa e la gioia mia nel trovarvi alcuni zecchini, che, stretti e coperti essendo da un fazzoletto,non m'accorsi d'averveli e non li trassi con gli altri, che dalle tasche cavai, quando arrivò a casa ilmio Eccellenza carnefice. Durai fatica a celare la mia lieta confusione. Non avendo perciò altramoneta, offersi al mio vicino un di que' zecchini. Lo rifiutò sulle prime; ma poi, fissamenteguardandomi: «Lo accetto,» diss'egli, «ma con patto che mi accordiate di restituirvelo in casa mia.»Prese, così dicendo, una carta da gioco e sul rovescio vi scrisse la strada e il numero della suaabitazione, assicurandomi, nell'atto di rimettermi quella carta, che non mi spiacerebbe poi d'averglifatto una visita. Ma io, che aveva allora la mente piena del danaro salvato, e più dell'amica mia, posiin tasca la carta senza curarmene e corsi a casa di volo. Stava essa alla finestra aspettandomi. Mifece cenno di non picchiare; discese sul fatto, aprì l'uscio, mi s'affacciò e, senza lasciarmi direparola: «Andate,» disse, «al caffè vicino e non venite se non mando per voi.» Serrò l'uscio e tornòalla finestra. Io non sapeva che pensare. Andai al caffè: dopo aver due ore aspettato, entrò il servo,mi fece motto di uscire e di seguirlo.

Mi condusse a un viottolo poco frequentato, in fondo del quale aspettavami la mia donna.Entrammo subito in una gondola, dove ella proruppe in singhiozzi e dirotte lagrime. Non potevaimmaginarne le cause. «Se è pel danaro perduto che voi piangete, consolatevi,» le diss'io. «No no,»soggiunse ella, interrompendomi: «piango pel mio crudel destino, piango per l'iniquità del fratellomio. Egli non vuole assolutamente che io più vi vegga e molto meno che più alloggiate con noi. Ilperfido, che crede di non poter più succhiare di voi cosa alcuna, avendovi già tutto rapito, disegnòd'introdurre in casa un ricco birbante e, ciò ch'è peggio, vostro nemico implacabile.» Com'erapersuaso ch'ella con sincero animo quelle lagrime fuori per gli occhi spargesse, così, volendosollecitamente trarla di affanno, le feci cadere un pugno di sonanti zecchini nel grembo. Balenòsubito un sorrisetto sulla sua faccia, e crebbe la gioia a proporzione del danaro mostratole. Le narraiallora la storia de' due soldi; contammo, col giubilo che ognun può credere, cento e sette zecchini; e,dopo molte scambievoli feste, studiammo come si doveva profittevolmente usarne col fratello.Questo metallo solo aveva la virtù d'imbrigliare quella gran bestia. Ci venne quindi pensato di

porlo in sospetto ch'io fossi capace di far dell'oro; e ciò eseguì la sorella mirabilmente. Mancò pocoperò che questa burletta non mi costasse, come vedremo in appresso, la vita. Aveva già SuaEccellenza dato ordine al servo di vendere il mio letto, ch'era l'unica masserizia lasciatami finoallora dalla sua sfrenata ingordigia, e di dare a lui il danaro che ne ricaverebbe. Il servo, che amavapiù me che lui, l'aveva invece impegnato e recatigli sei zecchini. Con questi era ito a giocare.Essendomi noto il loco ch'ei frequentava, mi vi recai anch'io sollecitamente, e mi misi a giocare alui vicino. Non mi salutò quando entrai. Posi sul desco alcuni zecchini, e finsi non essermi accortoch'ei fosse presente. La vista di quell'oro lo solleticò. Salutommi subito con patetica tenerezza, mistrinse la mano e sorrise. Pochi minuti dopo domandommi pian piano dieci zecchini: io invece gliene diedi venti, co' quali ebbe la fortuna di guadagnarne cinquanta. Era fuori di sé dal piacere. Volevarestituirmi quelli che prestato gli aveva, ma io lo stimolai a ritenerli come danaro fortunato. Ciaccompagnammo, finito il gioco, e prendemmo la via che conduceva alla sua abitazione. Mi fecemille scuse pel danaro perduto la notte e mille questioni per quello che miracolosamente m'erarimasto. L'assicurai che niente del perduto importavami, e che, se voleva esser discreto e nondomandarmi mai quello che dire non gli poteva, avrei sempre avuto qualche zecchino da dargli. Miabbracciò con cordialità, mi protestò che non avrebbe mai osato chiedermi alcun secreto, e,pregandomi di rimanere pochi momenti nella bottega di certo libraio, dove era solito andare, corse acasa, narrò molte belle cose alla sorella, ordinò di ricuperare il letto, e tornò per me immantinente.Fu quel danaro invero fortunatissimo. Giocò varie settimane, sempre vincendo, ma quello cheguadagnava giocando, spendeva poi a sfogo di cento altri vizi, di cui Sua Eccellenza era un veroemporio. Per qualche tempo però non ebbi né brighe né dispute con costui. Tutto pace era nellafamiglia; e quel ch'è più singolare, sì io che l'amica mia giocavamo con indicibile fortuna, il cheaumentava alcun poco, o almeno non diminuiva, il nostro piccolo erario.

Ma non voglio qui ommettere una storiella, che, per quanto straordinaria possa parere, non èperò meno vera di tutti gli altri fatti descritti in queste Memorie. La prima domenica diquadragesima, nel trarre alcune carte da' miei vestiti, mi venne alle mani quella carta da gioco chem'aveva dato al Ridotto l'uom mascherato. Come aveva allora tranquillo lo spirito, mi nacquecuriosità di andare da lui e di vedere la fine di quella storia. Arrivato all'indicata abitazione, non miparve che l'esteriore di quella desse speranza di alcuna importante avventura. Picchiai varie volteprima che fossemi aperto; si tirò alfine una corda, la porta si spalancò, ed io andai nel secondopiano, dove, picchiando un'altra porta, mi fu aperto al medesimo modo; ed al momento in cui entrainella stanza, udii una voce, che mi pregò di sedere e di aspettar pochi istanti. Qualche minuto dopo,uscì da un gabinetto laterale un vecchierello, che mi pareva di conoscere. Era questi vestito condecente semplicità, aveva un aspetto venerabile ma dolcissimo, ed un tuono di voce chepropriamente empieva il core di un sentimento piacevole. Salutommi cortesemente, mi prese per lamano e fecemi passare da quella camera, in cui non v'erano che due sedie e una vecchia tavola, a unpicciolo gabinetto, ornato di libri da quattro lati e adobbato con molta leggiadria. Mi fece sederesopra un sofà, dove pur egli sedette; e, per la mano stretto tenendomi, parlommi così: «Vi ringrazio,cortese giovine, del favore che, visitandomi, oggi mi fate; e desidero, se è possibile, che la visitavostra torni ad entrambi gradevole.» Voleva rispondere al suo complimento, ma egli me lo impedì,pregandomi d'ascoltarlo in silenzio e ricominciando in tal modo:

«Io sono assai vecchio, come ben vedete. Ho già compiuto pochi dì fa l'anno settantottesimodella mia vita. Seguendo l'ordine naturale delle cose, non mi rimane più lungo tempo da vivere; ma,prima di lasciar questo mondo, vorrei pur dare l'ultima mano ad un'opera, in cui da molti anni in quatutte le mie cure e sollecitudini sono ristrette. Su voi ho gittati gli occhi pel compimento di tallavoro.»

«Su me?»«Sì, su voi: ma non m'interrompete. Il mio stato, se si eccettui il peso degli anni e la ansietà

del mio core in sì fatto suo desiderio, è, quanto può esserlo, felice. Non vi formate un'idea di quellodai due soldi al Ridotto chiestivi e dall'apparenza di questa casa. Io son ricco, son sano di mente e di

corpo, e non ho né debiti né rimorsi. E, perché voglio che di tutto siate informato, prima che diniente decidiate, vi dirò quel ch'era in altri tempi e quel ch'ora sono.

«Livorno è la patria mia. Mio padre, ch'era un ricco negoziante di quella città, morì elasciommi all'età di ventidue anni unico erede della considerabile facoltà di cinquantamila scudi. Ioaveva avuto fin allora da lui, che prudente e benevolo padre era, un'ottima educazione. Ho fatto imiei studi nel collegio più riputato di Firenze. Pensava di darmi per mio diporto alla medicina; mala necessità di proseguire il traffico di mio padre, almeno per qualche tempo, mi trasportò malgradomio dai collegi alla fattoria. M'accorsi in quattro anni d'esser entrato in un mare pericolosissimo. Milasciai condurre dalla facilità d'un core buono e compassionevole a prestare, dare a credenza, donarea tutti quelli che abusar vollero della mia inesperienza; ed alla fine del quinto anno la facoltàlasciatami da mio padre bastò appena a pagare i debiti contratti da me per una imprudente condotta.Pagai tutti quanti; ma concepii fin d'allora una insuperabile avversione per ogni maniera di negozioe, se non affatto per gli uomini, almeno pel commercio di quelli, da nessuno de' quali trovai ne'bisogni miei il conforto della pietà, non che quello della gratitudine.6 Abbandonai allorasecretamente Livorno: andai a Bologna, e due mesi dopo a Venezia. Pochi giorni dopo l'arrivo mio,fui assalito da una lenta febbre, che, divorandomi a poco a poco, mi ridusse infine agli estremi.Senza roba, senza amici, senza danaro, mi vidi costretto d'andar domandando limosina per sosteneruna vita, che non credeva già che potesse durar lungamente. Non fui disgraziato in questo mestiero.Per tre o quattro mesi continui io tornava a casa ogni sera con diciotto o venti lire in tasca, il che eradue e tre volte più di quello che mi occorreva per vivere. Ebbi, ad onta di questo, diverse volte inpensiero di lasciare questo genere di vita, che non mi pareva convenire ad animo ingenuo; ma iltimor di ricadere in novelli mali pei difetti medesimi del mio core, e più l'incertezza dello stato a cuidovessi appigliarmi, mi vi tenne per quarantasette anni continui, nel lungo corso de' quali ricuperainon solo la mia salute, ma dalla sobrietà, dalle vigilie e dal moto fui fatto fortissimo. Arrivato all'etàdi cinquanta anni, crebber talmente l'elemosine de' miei benefattori, che mi trovai padrone didiecimila ducati, senza contarne altri ottomila, che spesi nel mio frugale mantenimento, in una nondispregiabile collezione di libri ed in limosine da me fatte, per mano del direttore della miacoscienza, a molti che avean più bisogno di me di soccorso. Fui allora tentato di tornar a Livorno,dove chiamavami un certo affetto alle ceneri de' miei genitori; ma non potei risolvermi di lasciarVenezia, dove tanta carità verso i poveri trovato aveva, ed ancor men certa giovine, di cui vi faròparola tra poco.

«Dovete sapere che, poco tempo dopo il mio arrivo in questa città, presi un piccolo alloggioin casa d'una vedova, con cui abitai per lo spazio di ventidue anni. Non aveva costei che unafanciulletta di pochi mesi, quand'io la conobbi. Era onesta in povertà di stato, e questo bastava perfar che il mio core si dichiarasse per lei. Ma la bambina, che per alcuni anni io trattava condomestichezza di padre, mi crescea sotto gli occhi impercettibilmente, e, giunta ai quattordici, eradonna non solo, ma era di più un prodigio di bellezza e di spirito. Le dava la madre la solitadonnesca educazione, ed io l'esercitava per mio diletto nella letteratura. Aveva dodici anni, quandoincominciai. Non è possibile dire quali furono i suoi progressi. All'età di diciassette anni scrivevacon qualche grazia sì in prosa che in verso. Io non era di sasso. Me ne innamorai sì focosamente,che non poteva più vivere senza lei. V'erano circa trentacinque anni di differenza tra noi; ma questonon bastò a moderare, non che ad estinguere la mia passione. Una sera, essendo colla madre soletto,le narrai per intero la storia mia, ch'ella non sapeva che in parte, e le domandai se consentiva didarmi in isposa la figlia. ‘A Dio non piaccia,' mi rispose ella, ‘ch'io neghi a voi cosa alcuna, che inmio poter sia di concedere. Possiate, o signore, esser colla Lisetta felice, com'ella sicuramente saràfelice con voi.' Queste poche parole tutto dicevano. Chiamò sul fatto la giovine, che, saggia essendoe costumatissima, quello disse serenamente di voler fare, che all'amorosa sua madre fosse piaciuto.In pochi dì la sposai. Presi allora in affitto questa casuccia, dove conobbi per sedici anni tutta quellafelicità, di cui uom, vivendo, è capace. Una lunga e penosa malattia mi tolse dopo questi la moglie,

6 Ecco il mio quadro!

la quale non mi lasciò per conforto della mia vecchiezza che una figliuola. Questa è l'opera da meincominciata: vorrei, prima di morire, terminarla, assicurando, per quanto posso, la sua felicità. Ellase 'l merita. È buona, non è ignorante, ed agli occhi miei pare bella. Ma l'affetto paterno mi puòingannare. Vedetela, giudicatene: vi dirò poi il rimanente.»

Uscì, ciò detto, da quella camera, e vi tornò quasi subito, conducendo seco la figlia, cheveramente aveva l'aria di un angelo. Dopo alcune tacite riverenze ed inchini, sedemmo.

«Ed ecco, Annetta,» ripigliò il vecchio, «la persona di cui ti parlai, e ch'io t'offro in isposo,se tu gli piaci.» La sorpresa di questa avventura mi aveva quasi del tutto tolta la facoltà di parlare.Vedendo ch'io non rispondeva nulla: «Venite meco,» soggiunse egli: «voglio incoraggire la vostratimida lingua.» Mi prese, così dicendo, per mano, e mi condusse in una terza camera; e, aprendo ungran cassone di ferro: «Ora mostrerovvi,» mi disse, «quello che finora nec oculus vidit, nec manustetigit.» Mi balenarono allora agli occhi, in diverse scatole aperte, varie monete d'oro di vario conio,in mezzo alle quali v'era la più grande, ed in quella non v'erano che zecchini. «Questi sono,» midisse allora, «cinquemila zecchini, ch'io vi darò il giorno in cui sposerete mia figlia. Alla mia mortepoi, o prima, se occorrerà, ne avrete altri quattromila, ch'è tutto quel ch'io possiedo; ma vo' che mipromettiate di ricordarvi sempre dei poveri. Io vi credo capace di tanto. Son circa due anni che hofissato gli occhi su voi. Il vostro personale mi piacque appena vi vidi. Crebbe la mia benevolenza ela mia stima per voi ai replicati atti di limosina che praticaste a me stesso, al piede del ponte di SanGregorio, dove io sto sedendo da qualche anno in qua e dove voi passate ogni giorno. Questalimosina, che voi a me faceste, mi parve cosa maravigliosa, sapendo lo stato in cui vi trovate; e mifece credere che il cor vostro fatto sia per la beneficenza, che a me pare il complesso delle virtù el'anima della vera religione.»

Il mio stordimento era grande, ma crebbe questo moltissimo, quando udii che sapeva il mionome, i miei studi, le mie vicende, e che perfino le mie avventure colla donna ch'amava e con suofratello gli erano note. Si può credere facilmente ch'era imbarazzato a rispondere. Oltre l'amorosapassione, da cui era allora signoreggiato, che d'accettar m'impediva un'offerta che per ogni contodoveva sembrar vantaggiosa, v'era un altro ostacolo grande, che non voleva a lui palesare; meritavaperò il generoso suo tratto ch'io fossi sincero, a risico ancora di dispiacergli. «Io sento, signore, nelpiù vivo dell'anima,» soggiunsi allora, «il peso del bene che voi m'offrite; ma a Dio non piace ch'iopossa esserne il possessore. Giacché d'altro però pagare non posso la vostra bontà, pagherollaalmeno d'una confessione sincera, che non può offendervi, e vi dirò schiettamente non esser io incaso di maritarmi.» Rimase mutolo per pochi istanti il buon vecchio, né altro soggiunse che questeparole: «Mio caro figlio, me ne dispiace per voi.» Restai con lui e con sua figlia tutto il rimanentedel giorno: mi caricarono entrambi di cortesie e di favori, palesando ambidue ne' detti e nel trattoun'anima degna di onorare piuttosto regum turres che pauperum tabernas. Ma io era tantoinnamorato dell'altra donna, che un nulla mi parve il sacrificarle questa fortuna. Non andò guari chevidi il gran fallo, che aveva fatto nel rifiutare l'offerta fattami. Me ne pentii, ma troppo tardi. Sposò,pochi mesi dopo, quell'amabile giovinetta un giovane veneziano, che andò a stabilirsi col padre aVienna, e che mi fu poscia familiarissimo nel tempo del mio soggiorno in quella metropoli.

Tornai a casa la sera un po' tardi. Trovai l'amica mia agitata da mille furie. Negli accessidelle sue gelosie ella era brutale. Appena m'accostai alla sua camera, che lanciommi incontra, senzaparlare, un fiaschetto d'inchiostro. V'opposi con moto naturale la mano, onde difender la faccia, mail vetro, che in quella entrò, ferimmi in tal guisa, che per più di un mese non potei farne alcun uso.Non contenta di questo, benché, alla vista di molto sangue che uscinne, paresse e placata e dolente,venne la notte nella mia camera, mentre dormiva, e tagliommi d'un colpo tutti i capelli cheondeggian sul collo; il che sì destramente ella fece, che non m'accorsi che la mattina seguente chel'esempio di Sansone avea in me la mia Dalila rinnovellato. Suo disegno era di obbligarmi in talmodo a non uscire di casa, nel che,

Vedi se Amor m'avea tolto il cervello!

fui tanto cieco d'accontentarla. Questa compiacenza però mi costò assai cara. Una nobilissima damaveneta scelto m'aveva ad institutore di due giovanetti figli. Ella mi pagava con generosità e mitrattava con amicizia. Lo stato in cui era m'impedì qualche tempo d'andar da lei: il che di mal animoella soffrendo, venne a trovarmi personalmente, e, come accorta era e perspicacissima, vide la gentecon cui io viveva, e un giorno dopo mi congedò. La perdita di questo impiego fummi, e per l'onoree per l'interesse, fatale. La gelosia di quella donna era divenuta eccessiva. Io non usciva di casa, senon con lei, in tempo di notte. Andavamo ai teatri, agli spettacoli, a cene di società, spendendomoltissimo e non guadagnando più nulla. In questa guisa diminuivansi le nostre non grandiricchezze, e la fortuna del gioco ci aveva voltate le spalle. Anche il di lei fratello ricominciava amungere la mia borsa e ad intorbidar la mia pace. Una sera, avend'egli perduto tutto il danaro, entròminacciante nella mia stanza e mi domandò armata manu cento zecchini. Assicuratolo ch'io nonpossedeva tal somma. «Fatela,» mi rispose: «io so bene, messer Lorenzo, che voi sapete far l'oro;onde pretendo, e credo poter pretendere, che voi m'insegniate il secreto.» Per ammansare quell'orso,fui costretto dargli tutto il danaro che aveva e promettergli che in quattro o sei giorni gli avrei dato ilrimanente de' cento zecchini. Cominciai però allora ad aprire gli occhi e a vedere il pericolo, in cuiera, di ruinar per sempre la riputazione della mia vita civile. Il saggio e amoroso fratello mio, concui non so s'era più legato co' vincoli dell'amicizia o con quelli della natura, tentò spesso scuotermidal mio letargo; ma io era troppo vivamente combattuto dalle due forti passioni del gioco edell'amore, e, quantunque vedessi il male che sovrastavami, pur non aveva forza di liberarmene.

Un bizzarro accidente operò alla fine in me quel che né i fraterni consigli né mille danni opericoli in tre anni intieri operarono. Un prete friulano, che stato era mio condiscepolo nelseminario di Portogruaro e che frequentava famigliarmente la casa mia, venne una sera a trovarmi.Egli solea ciò fare tutte le volte che aveva bisogno d'una cena o d'un pranzo; il che accadevaspessissimo. Passammo qualche ora insieme in discorsi piacevoli. Finita la cena, partì. Qualchemomento dopo, volendo io uscire di casa ed essendo fredda e piovosa la notte, domandai al servo ilmantello. L'aveva posto io medesimo sopra una sedia, ch'era situata comunemente presso la scala.Non era stato da me quel giorno altri che costui. Il mantello era sparito, ma io non poteva crederech'ei me lo avesse involato. Arrivò in questa il fratello mio e si mise a cercar meco per tutti gliangoli della casa. Il servo, ch'era più scaltro di me e che non amava molto quel sacerdote: «Che sì,»mi disse ridendo, «ch'io trovo il vostro mantello!» Uscì di casa, così dicendo, e, tornandovi in pocotempo: «Il mantello vostro,» gridò, «è in loco molto sicuro. Il nostro signor abate l'impegnò perottanta lire dal magazziniere vicino.»7

Questa novella mi sbalordì. Giurato avrei di sognare. Uscì col servo il fratello mio, e,pagando la somma prestata, fece in maniera di riaverlo. Me lo portò il buon giovane lagrimando, enon mi disse che questo: «Vedete, caro Lorenzo, a che riducono le passioni!» Alcuni affari non glipermisero di rimanere meco più lungamente. Rimasto solo, mi misi a pensare seriamente alla cosa.«Come,» dissi a me stesso, «non bastano i princìpi della religione, della educazione, dell'onore afrenar un uomo guidato dalle passioni, e a trattenerlo, se non dal libertinaggio, dagli atti almeno chela sociale infamia costituiscono? Un uomo, ch'entra nella mia casa sotto il manto della ospitalità edella amicizia, si lascia accecare a segno da rubare il mantello al compagno, al benefattore,all'amico? E che lo conduce a questo? Il gioco e l'amore!» Appena m'usciron di bocca queste dueparole, che tremai dal capo alle piante per me medesimo, e pigliai, detto fatto, la lodevolerisoluzione di abbandonare le carte, l'amante e sopra tutto quella pericolosissima capitale. Presi,senza perder tempo, la penna e scrissi al fratello mio questi pochi versi:

Girolamo, non più gioco, non più amori, non più Venezia. Partirei sul fatto, se avessi danaro. Ma fovoto di non rimanervi più altri tre giorni. Ringraziamo Dio ed il povero ladro. Ci vedremodomattina.

7 V'erano in Venezia alcune osterie, o piuttosto taverne, dette «magazzini», dove chi portava in forma di pegnoalcuna cosa di valore, riceveva una certa somma dal taverniere, due terzi in danaro ed il rimanente in vino; ed avea ildiritto di ricuperarla, pagando in certo prefisso tempo la intera somma, senza altro interesse.

Mandai la lettera pel servo; ma il fratello mio, invece di aspettare il domani, venne sul fattoa trovarmi, e, dopo un amorevole amplesso, cavò la borsa, mi diede tutto il danaro che possedeva, equello bastò all'urgenza del momento e a pormi in istato di allontanarmi da quella città. Né fuquesto il primo od il solo tratto di fraterna amorevolezza da quell'angelico giovane praticatomi. Lamorte, che mel rapì all'immatura età di trenta anni, mi privò d'un compagno, d'un consiglier, d'unamico, cose sì rare generalmente e sì difficili a ritrovarsi in un fratello. Aggiungeva a questo granpregio un ingegno sublime, una erudizione vastissima ed un gusto squisito di ogni genere d'italianaletteratura; cose che, unite a una matura prudenza, a una maravigliosa modestia e ad una raraurbanità di costumi, gli avean acquistato l'amore e l'ammirazione de' suoi. Io non piangerò maiabbastanza l'impareggiabile perdita.

Scusi il mio cortese lettore questa picciola digressione, e accompagni colla sua pietà questotributo di lagrime e di riconoscenza, che devo sì giustamente alla memoria onorata di un fratello sìcaro.

Torniamo al prete. Non era ancor sorta l'alba del giorno seguente, quando ricevei una letteradi questo tenore:

Amico, ier sera ho commesso un'azione indegna. V'ho rubato il tabarro e l'ho impegnato perottanta lire. Il peggio si è che son ito a giocare ed ho perduto il danaro. Son disperato. Vi manderei ilmio, ma è vecchio, corto, e mal atto alla stagione in cui siamo [era un tabarro logoro, di camelotto,che parea fatto a posta per far fuggire i ladri e gli uccelli]. Voi però avete bisogno del vostromantello. Che cosa si deve fare? Disponete di me. Tutto vostro

F…RI

Questa lettera mi fece ridere. Uscii sul fatto di casa e andai da lui. Appena entrato nella suastanza, vedendo egli ch'io aveva indosso il mio ferraiuolo, rimase attonito; e, dandomi, senza aprirbocca, un'occhiata brusca, andò in istrada e si mise a fuggire da forsennato. Lo sèguito. Entra in unviottolo che mette in un canale, e, giunto alla sponda di quello, si pone in atto di balzare nell'acqua.Non n'aveva forse l'intenzione. A ogni modo, lo raggiungo e sono a tempo di trattenerlo. Invece dirimproverarlo, mi contento dirgli tranquillamente quello che a me detto aveva il fratello mio:«Vedete a che riducono le passioni!» Egli era tiranneggiato da molte. La mia moderazione glipenetrò il core profondamente. Non poté trattenere le lagrime, ed io non potei trattenermi di nonpianger con lui. L'abbracciai, gli feci coraggio e gli promisi di non parlargli mai più di mantelli,s'egli voleva promettermi di partir da Venezia. Mel promise, gli diedi qualche danaro, e partì. Nonessendo privo d'ingegno e di spirito, si diede seriamente all'applicazione e allo studio, e dopoqualch'anno ottenne una cattedra di belle lettere nel seminario di C…a, indi la cura d'una pingueparrocchia, dove, per quanto mi fu poi detto, ei copre ogni anno aere proprio diversi ignudi, incommemorazion religiosa di quel fortunato mantello. L'esempio di quell'infelice giovine miriconfermò nel salutare proposito di allontanarmi da quella pericolosissima capitale. Felice me, seavessi avuto coraggio di far lo stesso in tutte l'altre occasioni, in cui era agitata dalle grandi passionil'anima mia, come, si mens non laeva fuisset, avrei dovuto fare, se tenuto avessi sempre dinanzi agliocchi gli effetti felici di questa virtuosa risoluzione! Non valsero né preghiere, né lagrime, néminacce di quella donna per trattenermivi.

Andai a Ceneda. Non passarono dieci giorni, che la provvidenza coronò, per così dire, la miavittoria. Trovandosi vacanti due cattedre di belle lettere nel seminario di Trevigi, nobilissima ecoltissima città dello Stato veneto, furono queste offerte a me ed al fratello mio. Le accettammoentrambi con giubilo. Rinunziò egli al cospicuo impiego di segretario in una illustre famigliaveneta, pel solo piacere d'essermi vicino. Non è facile dire qual fu la mia gioia, quando m'accorsiesser libero delle mie vergognose catene. Tali erano veramente le mie. Colei, che per tre annicontinui mi tenne avvinto e ch'io, anche in lontananza, seguitava ad amare ferventemente, si diede

in braccio, pochi dì dopo la mia partenza, a novello amante, e non ebbe ribrezzo di por la mia vita arepentaglio in mano del mio iniquo rivale, per assicurarlo, con ciò, d'aver ella cessato d'amarmi.

Era solita questa donna scrivermi ogni dì da Venezia, non ommettendo nelle sue lettereartifizio né frase, ch'atta credesse ad assicurarmi della sua tenerezza e costanza. Il primo dì digennaio mi scrisse queste poche parole:

Lorenzo, se amate l'onor mio e la mia vita, venite subito a Venezia. Verso le dieci della notte mitroverete da mia cugina. La vostra fedele amica.

Alla lettura di questa, corsi senza indugi alla posta, presi un calessino ed andai a Mestre.L'eccessivo freddo di quell'anno avea fatto gelar le lagune, e non fu che a prezzo di molto oro edopo molta fatica che mi riuscì di farmi aprir un passo da quattro giovani e robusti gondolieri, daMestre a Venezia. Erano già vicine le dodici della notte, quando approdai alla riva del palazzo, dovela mia Origille trovavasi. La porta di quello era chiusa. Nell'appressare al battitoio la mano, sentoun'altra mano, che, con somma violenza tirandomi pel mantello, in cui io era imbacuccato, mistrascina quasi per forza qualche passo lontano; e odo ad un tempo stesso una fioca voce che dice:«Sior paronsin, no andé là drento, per carità!» Era il mio vecchio servo, che, da Venezia partendo,aveva io lasciato a quella rea femina, e che al lume delle pubbliche lanterne, o piuttosto al suondella voce, mi venne fatto di riconoscere. Non lasciandomi tempo di rispondergli, continuò astrascinarmi seco, finché giungemmo all'altra parte del ponte, a' piedi del quale era situato il palagioindicatomi nella lettera. Quando gli parve d'essere in loco sicuro: «Sappiate,» mi dissesinghiozzando e tremando, «che la vostra damina ha un novello amante. Questo è un certoDondirologi, gentiluomo veneziano anch'egli, ma il più prepotente e pericoloso soggetto di Venezia.Sapendo che la padroncina era innamorata di voi, se ne mostrò per qualche tempo geloso, e, benchéella giurasse di non amarvi più, pure non volle persuadersene, finch'ella non gli promise di farvivenire notturnamente in Venezia, dove arrivando voi ed entrando nella sua casa, egli vi avrebbe, perdirvi le sue parole, fracassate le ossa con un bastone.»

Non è necessario dire qual io rimanessi a questo racconto. Dopo aver combattuto alquantocon quel buon servo e co' giusti riflessi della prudenza, vinto dalla gelosia, dalla collera, daldispetto, tornai quasi furente alla casa di quella donna, risolutissimo di vendicarmi aut certaeoccumbere morti. Quel misero vecchio mi seguitò per soccorrermi. Ma io era abbastanzaprovveduto di coraggio e d'armi per difendermi, anche solo, da un assassino. Picchio. M'aprondall'alto l'uscio, tirando una corda attaccata al chiavistello. Monto con cautela per le scale,illuminate dal languido lume d'un antico fanale. Entrato nell'anticamera, vedo uscire quella perfidadalla camera della cugina. Ella era sola. Verso le dodici della notte, come udii poscia dal servo mio,il nuovo amatore, che aggiungeva a tutt'altri vizi quello del gioco, impatiens morae, s'era annoiatodal lungo attendermi ed era partito. Appena mi ravvisò quella femmina indegna, che, mettendo ungrido di falsa gioia, mi corse incontra per abbracciarmi. Lo stato indecente in cui m'apparve, e piùancora quell'atto di nuova sfacciataggine raddoppiò le mie furie. La respingo impetuosamente e,dopo aver dette queste profetiche parole: «Distrugga la man di Dio una simil razza d'infami!»discendo tosto a precipizio le scale, e, come uom che si salva da gran pericolo, corro al più vicinotragitto, prendo una gondola, torno a Mestre, indi a Treviso, ed ho la costanza di non voler mai piùudir parlare di quella donna. Parve che un raggio celeste scendesse in quel punto sulla mia menteper illuminare la mia ragione e per guerirmi del tutto.

Cominciò dunque la mia libera anima a spaziare novellamente pe' dolci e deliziosi campidelle muse. N'aveva questa, per vero dir, tutto il comodo e tutti i più nobili incitamenti. Una bella ecopiosa biblioteca, ch'ebbi l'agio e l'autorità d'ordinare e d'arricchire di tutti que' libri ch'erano aparer mio vantaggiosi; un paese abbondante di dotti e perspicui ingegni,8 che inspiravan agli animila santa e nobile emulazione; un numero sceltissimo di giovanetti pieni di vivacità, di talenti e di

8 IL paese di Trento e de' Riccati: non occorre dire di più.

amor di gloria infiammati; un prelato sapiente, magnanimo e del suo collegio amantissimo; unabrillante società, amica delle lettere e de' letterati; un clima, che colla purità, giocondità e freschezzaparea creare le fantasie ed empiere di foco i poeti, formarono per più di due anni le vere deliziedella mia vita. Io divideva intieramente il mio tempo col mio caro fratello e con Giulio Trento,letterato d'infinita coltura, di saper sommo e di gusto squisito dotato, all'urbana critica ed al finegiudizio del quale, non meno che alla sua gaia familiarità ed alla sua giusta riputazione tra' dotti, iodeggio quasi tutta la lode delle mie letterarie pruove a Trevigi. Il Cechino, novelletta in ottava rima,recitata da me in un'assemblea accademica che instituissi a que' tempi in quella città, accrebbe dimolto la mia fama poetica e la buona opinione, che di me avevan quel vescovo e quel paese. Nondispiacerà, credo, al mio leggitore trovarla novellamente in queste Memorie.

Al cominciamento dell'anno scolastico fummo promossi, sì io che mio fratello, a più gravicattedre. Questo sbalzo improvviso offendeva l'amor proprio degli altri maestri di quel loco, che perimaginari diritti credevano di dover essere a noi preferiti. Avevan torto. Non essendo privi didottrina e di erudizione, mancavano interamente di quel genio e di quel buon gusto, che sonol'anima delle belle arti e che, se non vengono da natura, difficilissimamente e assai di raros'acquistano. Questo buon gusto per le lettere, oserò francamente dirlo, fu per la prima volta da me edal fratello mio in quel seminario introdotto. Da quarant'anni in qua seguesi il nostro metodo,s'adottan le nostre regole, si studiano i medesimi autori, che erano nomi ignoti a' professori diquell'instituto, quando arrivammo a Trevigi.

Cominciarono da quell'epoca, i grandi avvenimenti e le strane vicende della mia vita, e fuispinto fin da quel punto in una carriera affatto diversa da quella, per cui dagli usi, dalle circostanzee dagli studi già da me fatti io mi credea destinato. Era incombenza mia, come professore di lettereitaliane e latine, far recitare l'ultimo giorno dell'anno scolastico, dagli alunni affidati alla miaeducazione delle composizioni scritte da me sopra qualche soggetto scientifico. Quello che scelsi inquell'anno, fu per mia disgrazia il seguente problema: Se l'uomo procacciata si fosse la felicitàunendosi in sistema sociale, o se più felice potea riputarsi in istato semplice di natura . Questoproblema, e più la maniera onde fu trattato da me, per somma ignoranza de' miei giudici e per lemaligne interpretazioni de' miei rivali, parve o si volle almeno far parere scandaloso, imprudente econtrario all'ordine e pace sociale. S'infiammò sopra tutto la testa de' riformatori agli studi diPadova, soggetti ch'avevano più bisogno d'esser riformati che morale e giudizio da riformare; equesti portarono l'affare al senato, che per la prima volta in Venezia forma si vide assumere edautorità esecutiva; e, dando a un ghiribizzo poetico, ché tale era quella esercitazione, tutti gliapparati di faccenda importante e d'interesse pubblico, si stabilì con gran pompa il giorno delladiscussione. I parenti ed amici miei, sopra tutto i signori Giustiniani, della cui illustre famiglia era ilvescovo di Treviso, mi consigliarono d'andar a Venezia a difendermi.

Pochi giorni dopo il mio arrivo a quella capitale, ebbi la sorte di conoscere BernardoMemmo, uno de' più conspicui e dotti soggetti di quella repubblica. Udì egli la storia mia e mipromise favore. Procurommi immediatamente la protezione di Gasparo Gozzi, eminentissimoletterato di que' tempi, caro a' riformatori di quell'anno e loro attual consigliere. Fu per avviso delMemmo che gli mandai que' malaugurati componimenti e che gli scrissi la ben nota epistola

Gozzi, se un cor gentil, ecc.

Produssero questi versi un ottimo effetto nell'anima cortese di quel gran letterato. Ne parlòcon calore, ma le sue parole ad altro non valsero che a prestare nuove ragioni pel mioabbassamento. «Questo giovine,» diceva il Gozzi, «ha dell'ingegno: bisogna incoraggiarlo.» «Tantopeggio,» soggiungevano i riformatori: «bisogna tôrgli i mezzi onde divenire pericoloso.» Sottoquesto pretesto l'odio coprivano e la nemicizia, che contra la famiglia Giustiniani nudrivano, dellaquale, come già dissi, il vescovo di Trevigi era membro e cui, nella mia umiliazione, di umiliarecredevano. Perorato aveva efficacemente in senato, alcuni anni prima, il di lui fratello contro unprofessore di Padova per certi scritti antipapalini da quest'ultimo pubblicati, e voleano, per

vendicarsene, far perdere a me la cattedra di belle lettere nel seminario di Trevigi, come avevaperduto il professorato di Padova il lor protetto. Così ne' tempi infelici di quella moribondarepubblica, ora per vendetta, ora per capriccio, l'ingegno e l'innocenza opprimevasi, e così dallaseduttrice e fallace eloquenza de' pochi erano indotti i molti in error di giudizio, che, o ligi per viltào condiscendenti per ignoranza, diventavano gli ordigni e le molle de' despoti.

Arrivò intanto la sera fissata alla senatoria discussione. Il Memmo e il Zaguri con alcuni altripochi, che per solo amore della giustizia avrebbero potuto difendermi, o impauriti dalle parole e dalcredito de' miei avversari, o credendo che la natura stessa della mia accusa bastar dovesse asalvarmi, non giudicarono prudente o necessaria cosa parlare. Accusò parimenti me che i duepubblici revisori il dissertissimo procurator Morosini, come coloro a cui apparteneva ex officioproibire o permettere la pubblicazione delle mie proposte. Il revisore ecclesiastico era un frate, cui ilBarbarigo, proteggitor infaticabile del cappuccio, amava e favoriva usque ad aras et ulterius. Presequesti la sua difesa, unendosi a un tempo stesso al Morosini per declamar contra me. E, vedendo ocredendo vedere disposti gli animi a secondarlo, lesse con voce stentorea un'elegia latina, che pocodoveva intendersi da quegli eccellentissimi Pantaloni, ma che, declamata tra una folla d'invettive esarcasmi, servì maravigliosamente a infiammar contra me que' perrucconi irritabili. L'americano inEuropa era il titolo dell'elegia.

Ergo ego semotae tactus telluris amore, ecc.

Terminata la lettura di questi versi latini, di cui il serenissimo senato veneto

Molto udì, poco intese e nulla seppe,

recitò lo scaltro zoppo un sermone, che, per essere in italiano, dovette parergli piùintelligibile. L'argomento di quel sermone era questo: L'uom, per natura libero, per le leggi divenneservo. Non si potrebbe imaginare il tumulto insorto nell'assemblea alla lettura di quel poeticoscherzo, non per altro da me composto (come pure tutte l'altre composizioni di quello scolasticointrattenimento), che per esercitare nell'arte declamatoria un certo numero di quegli alunni. Io neaveva fatta la confutazione nella proposizione opposta, che aveva per fondamento il noto adagio diCicerone: «Servi legum facti sumus, ut liberi esse possimus»; ma il mio accusatore non si prese labriga di leggerla.

«Eccellentissimi signori,» gridava altamente l'iniquo oratore, «udite con attenzione lescandalose massime di questo giovine, e giudicate poi di quel che si potrebbe rispondere.» E quiripeteva alcuni passaggi di quella poesia, tra gli altri il seguente, che fu sopra tutti gli altridisapprovato e fischiato:

Suddito e servoper error de' mortali, appena io sentode' ferri il peso, che suonar da lungeode il sano di mente; io di censoreo di console irato i fasci e il cigliominaccioso non temo; io d'un sol guardomiro i regi sul trono, e per le stradeil cencioso mendico, a cui talvoltaporgo vile moneta, onde l'imbarcopaghi al nocchier della letea palude.Il garrìr de' signor, che è pien d'orgoglioergon le corna auratem un lieve fischioparmi d'aura nascente; e, mentre loroprestano omaggio le divote torme,

io con equabil ciglio, in me raccolto,or la gru passeggiera, or per le nubiqualche mostro volante, ed ora i marmidi Pasquin, di Marforio intento miro.

Credette la più gran parte di que' poveri togati di veder nelle corna aurate da me derise ilpicciol corno del doge, e, non potendo soffrir l'orribile profanazione, con un grido generaledisapprovommi. Si proferì allora la gran sentenza; si dichiararono uno ore i due revisori innocenti,ed io solo fui proclamato colpevole e degno di punizione. Corse sul fatto il Memmo a darmi novelladi tutto. Non s'era ancora però proposta la pena convenevole al mio delitto. Se ne lasciò il carico a'medesimi riformatori. Il peso dato alla cosa da' miei avversari e gli abbaglianti apparati di pubblicosenatorio giudizio, che accompagnavan l'accusa, misero in capo a molti che appagare non si potessela maestà aristocratica da me offesa, se non col sacrifizio totale della mia libertà o della mia vita.Volevano i fratelli e gli amici miei ch'io evitassi il fulmine colla fuga. Ma io rideva di essi e de' lortimori. Non poteva credere che si dovesse operare con severità di pene, dopo aver cercata con tantostudio la pompa dell'apparenze. La politica veneta non latrava mai, quando aveva intenzione dimordere. Non mi sono ingannato. Il mio gastigo, se pur tale si può chiamare, fu tanto leggiero cheridicolo. Citato a comparire, dopo alquanti giorni, davanti al tribunale dei riformatori, letta mi fu dalsegretario la mia sentenza. Era concepita questa ne' seguenti termini:

«Il tuo nome?»«Lorenzo Da Ponte.»«Di che paese?»«Di Ceneda.»«Lorenzo Da Ponte di Ceneda, d'ordine e decreto dell'eccellentissimo senato, ti si commette

di non esercitare mai più in alcun collegio, seminario, università del serenissimo dominio venetol'uffizio di professore, lettore, precettore, institutore, ecc. ecc. E ciò sotto pena dell'indegnazionesovrana. Vade.»

Chinai la testa, mi misi le mani e il fazzoletto alla bocca per non ridere, e me ne andai. Sullascala del palazzo ducale incontrai mio fratello ed il Memmo. Il pallor della morte era dipinto sulloro volto. Un sorriso, che mi balenò sulla faccia, rassicurolli. Il Memmo, ch'era stato più volteinquisitore di Stato e che conosceva a fondo le leggi e la politica del suo paese, rimase estatico alracconto del fatto e gli scappò di bocca: «Parturient montes!» Ma, mettendosi poi un dito sullelabbra, m'abbracciò e mi condusse a casa. Passammo il resto di quel giorno in gozzoviglie ed infeste, a spese de' riformatori e del loro «Vade». Uscimmo verso la notte e andammo a trovare ilZaguri, di cui non so se fu maggior il piacere o la maraviglia.

M'offerse il Memmo la stessa sera un onorato asilo in sua casa, dove passai alcuni mesi tra ledelizie della ospitalità e della filosofia. Presentato fui in questo tempo da' miei due beneficimecenati ai più colti e conspicui soggetti della repubblica, da cui, per la storia delle mie vicende epiù forse pel credito de' miei protettori, io era accolto graziosamente ed accarezzato. Io nonm'accorgeva della mia passata disgrazia. Aveva, quanto all'onor letterario e quanto all'interesse,tutto ciò che poteva solleticare uno spirito fervido. La borsa del Memmo era aperta a tutti i mieionesti bisogni, ch'ei sempre con singolare generosità preveniva. Non conversava che con uominiillustri per letteratura e per grado. Le belle di Venezia andavano a gara nel distribuirmi lodi e favori:tutte volevano vedermi, tutte udire i miei versi, tutte biasimavano il gobbo, lo zoppo, i riformatori, ilsenato ed i lor giudizi.

Fu in questi tempi che, avendo avuto occasione di conoscere diversi celebri improvvisatoriitaliani, tra i quali l'abate Lorenzi, monsignor Stratico e l'Altanesi, mi misi al cimento anch'iod'improvvisare. Mio fratello fece lo stesso, e riuscimmo abbastanza ambidue per essere con qualchediletto ascoltati. Ci solevano chiamare generalmente gli «improvvisatori di Ceneda». Questa facilitàdi recitare o cantare improvvisamente in buoni versi, su qualunque soggetto e in qualunque metro,quasi esclusivamente propria degli italiani, dovrebbe bastare a far conoscere quanto poetica, quanto

per tutti i modi pregevole stimar si debba la nostra lingua, che presta colle sue grazie, colle suemelodie, colle sue dovizie i mezzi di dire ex abrupto quelle cose, che da' verseggiatori dell'altrelingue, anche dopo lungo studio e meditazione, difficilmente si scrivono; cose non solo vaghe edornate e d'esser lodate ed udite degnissime, ma atte a dilettare, a sorprendere ed a rapire gli animi dichi le ascolta, come quelli diranno, che non solo gli incomparabili Gianni e Dal Mollo, ma laCorilla, la Bandettini e qualch'altra famosa improvvisatrice ebbero la sorte d'udire.

Questo nuovo ornamento, in me improvvisamente sviluppatosi, accrebbe sommamente labenevolenza del Memmo per me e il desiderio, ad un tempo stesso, di beneficarmi. Poco mancòperò che non nascesse da questo suo affetto medesimo la mia rovina. Questo illustre soggetto, cheper nascita, per sapere e per grandezza d'animo non aveva forse chi l'agguagliasse nella repubblica,teneva in sua casa una giovine, che, senza gran pregi di corpo o di spirito, ma di tutti quegli artifizied astuzie fornita, di cui una malvagia donna è capace, dominava tirannicamente sul di lui animo, eligio affatto rendevalo d'una cieca passione. Invano si avrebbe cercato di disingannarlo. Per tre oquattro mesi ebbi la sorte di non dispiacere a costei. Il Memmo passava meco molte ore in letture emeditazioni; usciva di casa più spesso che in altri tempi far non soleva: aveva insomma per mevarie occasioni di occupazione, che davano maggior libertà ed agio a colei di divertirsi a suo senno.La mia disgrazia volle che questa donna s'innamorasse d'un giovine, che sulle prime piaceva alMemmo. Ei disegnava già farlo suo marito. Per qualche ragione, ch'uopo non è menzionare, glidispiacque in breve a tal segno costui, che scacciollo non solo di casa, ma comandò alla ragazza dinon praticarlo. Ella l'amava perdutamente e soffriva di mal animo questo divieto. Dopo aver tentatetutte le strade e tutti i soliti artifizi per distornare il Memmo dalla sua risoluzione, indusse me, aforza di lagrime, ad adoperarmi per lei.

I miei tentativi non furon vani. Il medesimo giorno ritornò in casa l'amante, ricondottovi dalMemmo stesso e da me. Si stabilì, con intero giubilo della famiglia, un matrimonio e se ne fissaronole condizioni ed il tempo. Dopo la cena, che fu oltremodo lieta, andai al solito nelle stanze delMemmo, che erano nel secondo piano di quella casa e a cui la mia camera era contigua. Passammoalcune ore in riflessi piacevoli e filosofici. Arrivata l'ora d'andare a letto, il Memmo mi strinse alseno e mi disse, congedandomi, queste parole: «Andate a dormire allegro. Oggi avete fatta felice lamia Teresa.» Tale era il nome di quella femina vile.

Era la porta della mia camera alla scala vicina; accostandomivisi pianamente, per nondisturbar chi dormiva, udii un bisbiglio, un mormorio di parole basse al fondo di quella.Fermatomivi per ascoltar chi parlava, riconobbi la voce de' due amanti. Il perfetto silenzio, chedominava allor nella casa, mi permise di udire ogni detto distintamente. «Il Da Ponte,» diceva colui,«ha troppo potere sull'animo del padrone. Egli è un uomo pericoloso per noi in questa casa. Vedicome l'ha cangiato in un punto, quando sì tu che tua madre e tutti gli amici lo ritrovaronoinflessibile.» «Se tu credi questo,» soggiunse la donna perfida, «sarà mia cura far sì che parta inpochi giorni di questa casa.» Non è necessario dire qual io rimanessi a queste parole. Lostordimento mi tolse per alcun tempo la voce ed il moto. Entrai alfine nella camera trasognato e fuordi me stesso. Non sapeva che cosa risolvere. Passai il rimanente della notte in mille diversi pensieri.Entrai il mattino nell'appartamento del Memmo, e presi il partito di dirgli placidamente quel cheaveva udito la notte. «Avete sognato, caro Da Ponte,» mi rispose freddamente quel buon signore.Passammo insieme alcun tempo senza più favellare di questo fatto. Fummo chiamati infine allacolazione, ed allora il Memmo cominciò a vedere che la faccenda non era sogno. Discendemmo alprimo piano, dove si trovava colla famiglia la giovine. Costei non mi guardò, non corrispose alsaluto mio, e non offerse a me solo la cioccolatta, che pur agli altri ella offerse. Il Memmo mi diedela propria tazza ed uscì dalla camera. Lo sèguito, usciamo di casa insieme; ma né egli a me, né io alui feci alcun cenno dell'avvenuto. Egli era però molto pensieroso. Tornammo a casa all'ora delpranzo, al quale tenne meco colei il medesimo modo che tenne al mattino. La compagnia de'convitati era più numerosa del solito. Il Memmo fremeva, ed io più di lui. «Perché non servi il DaPonte?» diss'egli alfine altamente. «Perché, avendo le sue e le tue mani da servirlo, bisogno non hadelle mie.» Sentendo che il sangue mi bollìa nelle vene come un Vesuvio, diffidai della mia

prudenza, m'alzai di tavola, andai alle mie stanze, e, pigliando pochi vestiti con me, corsi al tragitto,da cui ogni sera partia una barca per Padova, e mi vi imbarcai.

Non aveva che dieci scudi, quando partii da Venezia. Pagate le spese del mio viaggio, chefeci parte per terra, non me ne rimaser che sei. È facile immaginare l'angustie del mio spirito. Ioperdeva in un punto, per l'ingratitudine di due perfidi, un benefattore, un protettore, un amico,dirollo francamente, un maestro, e molte future speranze, che la bontà di quel cavaliere in me avevaeccitate. Prevedeva, oltre a questo, lo stato infelicissimo d'indigenza, in cui io doveva ben prestoprecipitare. Aveva un fratello in Padova, che vicino era a terminare i suoi studi in quella università;ma quel buon giovine avrebbe avuto più bisogno di ricevere soccorsi da me che di darmene.Sperava io bene d'aver un amico in quella città, a cui poter confidare i miei casi e qualche sollievoriceverne; ma anche in questo mi sono ingannato. Era questo un prete dalmatino, che, per laprotezione di certa dama, il posto ottenuto aveva di professore di ius canonico nell'università diPadova e ch'io in casa del Memmo, che amavalo, aveva conosciuto. Costui, che ne sapevapochissimo di latino, aveva lasciata in mano di quel cavaliere un'orazione, che recitare doveva comeintroduzione delle sue lezioni a' numerosi scolari ed agli altri professori di Padova. Il Memmo me ladiede da leggere, ed io per onestà fui obbligato dirgli che la trovava inelegantissima. Rimase egliafflittissimo e lo disse al suo candidato. Non era questi per sua ventura né ostinato né superbo.Credeva anch'egli che la maniera del suo scrivere non fosse molto elegante e abbastanza pura. Nonaveva da trent'anni letto Cicerone, s'era dimenticato di Erasmo e di Cesare da che faceva il cavalierservente in Venezia; nel resto era sicuro che la sua orazione era, in quanto alla materia, bellissima.Egli doveva però partir fra tre giorni per Padova. Vedendo che il Memmo s'interessava molto perlui, gli offersi di rifondere e di rifare, quanto allo stile, il suo discorso; il che nel solo spazio diventiquattr'ore ho potuto eseguire. Andò a Padova, recitollo e ne riscosse lodi ed onore. È difficileimmaginare in quanti modi egli ringraziommi e con parole e con lettere, e quante promesse eproteste fece al Memmo ed a me d'una gratitudine eterna.

Pensai dunque di fargli una visita e domandargli qualche soccorso in quella circostanzainfelice, narrandogli la storia di quella donna, ch'ei conosceva mirabilmente. Andai dunque con lietoanimo alla sua dimora. Nel picchiare la porta, alzai con un natural movimento alle finestre losguardo, e vidi ritirarsi frettolosamente una testa, che quella mi parve essere del buon sacerdote.Dopo un piccolo indugio, mi s'aperse l'uscio da un servo, il quale, udendo ch'io chiedeva delprofessore, mi rispose, non senza qualche imbarazzo, che il signor professore non era in casa.Dubitando d'essermi ingannato e volendo chiarirmi del fatto, m'allontanai alcun poco da quella casae ad osservare mi misi celatamente se non uscisse. Sapeva che l'ora d'andare all'università eravicina; difatti non andò molto che uscì. Me gli avvicinai immediatamente e non gli dissi che questo:«Vi ringrazio, signor abate, d'avermi prestata occasione di conoscervi.» Ciò detto, volevaandarmene; ma, prendendomi con violenza pel lembo dell'abito, mormorò mille scuse, che, a miogiudizio però, più e più mostravano la sua ingratitudine e la sua vilissima anima: onde, da luisbarazzatomi, lo lasciai. Il Memmo, a cui appena arrivato a Padova io aveva scritto, informatoaveva costui d'ogni cosa e me gli aveva raccomandato. Ma né le raccomandazioni di quel cavaliere,né la fresca memoria de' miei servigi operarono nel petroso dalmata in modo da renderlo umano, senon generoso e riconoscente; fu la paura di vedersi scornato che l'indusse a farmi delle offertecortesi, ch'ei sperava probabilmente ch'io d'accettare rifiutassi, e che infatti osai rifiutarecostantemente. Egli si ricordò d'avermi lasciato in mano l'originale della barbara orazione, e,vedendomi incollerito, tremava di timor che la pubblicassi. Io m'accorsi di tal timore; gli mandai ildì seguente il suo manoscritto e nol rividi mai più. Ei scrisse le cose al Memmo a suo modo; ma nonpoté astenersi di confessare le sue paure in queste parole: «Il Da Ponte mi fece un più gran dono nelrestituirmi la mia orazione che nel rifarmela. Avrei volentieri pagato cinquanta zecchini perriaverla.» Ma io, invece di vendicarmi col pubblicar uno scritto che l'avrebbe per sempredisonorato, gliel rimandai volontariamente, senza nemmeno esserne chiesto, contento di punire, conuna generosità che il confuse, una viltà ed una ingratitudine senza pari. La maniera però, con cui

egli mi ricevette, m'insegnò a tener a tutti celata la mia povertà. Procurai all'incontro di farmi crederricco ed agiato e, quanto mi fu possibile, ne conservai le apparenze.

Alcuni dì dopo la mia partenza, ebbe cura il Memmo di spedirmi i pochi abiti che avevalasciati in sua casa; potei comparire con questi in decente stato ne' caffè e ne' ridotti pubblici diquella città, dove ogni giorno faceva vedermi lindo e ben attillato. Divisi in cinquanta parti lecinquanta lire di quel paese (una ghinea!), disegnando che mi bastassero per cinquanta giorni, esperando intanto che dii meliora ferant. Aveva dunque una lira, cioè venti soldi veneti al giorno daspendere; ne pagava otto per un letto e cinque per una tazza di caffè ogni mattina, rimanendomenesette pel mio pane quotidiano. Ebbi la costanza di cibarmi, per quarantadue giorni continui, di panee di certe olive nericce, che, per essere salate, mi fortificavano l'appetito di bere dell'acqua, celando,non che agli altri, al fratello mio la dura necessità della mia più che poetica parsimonia. Terminòquesta fortuitamente per un fatterello bizzarro.

Un giovinotto, che aveva gran pretensione al gioco delle «dame», espose in una bottega dicaffè un manifesto, nel quale sfidava chiunque. Io credeva di non esser in quel gioco a chi che sifosse inferiore. Volli però cimentarmi. Gli feci fare l'offerta, ed ei l'accettò, fissando la somma deldanaro da giocarsi e il numero delle partite. Io non aveva danaro che per pagare la prima, se avessiperduto. Come però guadagnai, così seguitammo a giocare, ed io gli vinsi in breve ora le dodicipartite fissate, dieci delle quali fûr doppie. Mi pagò sul fatto ventidue piastre e confessossi inferiore.Alcuni giovani della università, ch'erano stati presenti e che pensavano forse di vendicare l'amico,riguadagnandomi quel danaro, mi proposero una partita al gioco dell'«ombre». Secondo l'uso delpaese sarebbe stata scortesia il rifiutarla. Mi convenne dunque accettare l'invito, quantunque fossecontra mia voglia. Ebbi la fortuna però di guadagnare anche a questi; e, prima che suonasse lamezzanotte, andai a casa dopo una buona cena e con trentasei piastre in tasca. Questo cambiamentoimprovviso mi diede un felice presagio per l'avvenire. Seguitai a giocare per vari giorni, semprevincendo.

Questa maniera però di vivere non mi piaceva molto. È vero che aveva occasione diconversare spesso co' più nobili personaggi e coi più chiari ingegni di quella città, e specialmentecoll'impareggiabile Cesarotti, a cui non so se più il Memmo o qualche mio verso m'aveva reso caro.Sebbene però trovato avessi nel favore della fortuna quello che la pietà degli uomini m'avevanegato, pur ricordandomi de' casi passati e desiderando di correre vie più onorate, risolsiimprovvisamente di lasciar Padova e di tornare a Venezia. Caterino Mazzolà, colto e leggiadropoeta, ed il primo forse che seppe scrivere un dramma buffo, con cui m'era in casa del Memmo inforte amicizia legato, volle condurmi immediatamente da quel cavaliere. Due cose seppi da lui.L'una, che quel giovinastro, pochi dì dopo la mia partenza, era stato cacciato novellamente da quellacasa; e l'altra, che la perfida femmina calunniato m'aveva presso il Memmo, facendogli crederech'io fossi innamorato di lei e che sol per guerirmi m'avea trattato in quel modo; nel che il Memmoavea commendata maravigliosamente «la sua prudenza e pudicizia, e la debolezza del suo poveroamico Da Ponte compianta». Io non potei udir senza rammarico una sì villana imputazione, edivenni ansiosissimo di disingannarlo. Andai perciò di buon grado a fargli una visita. Fui accolto sìda lui che dalla Teresa con cortesia non solo, ma con allegrezza. M'offerse il dì medesimo el'alloggio e la tavola, ma io ricusai d'accettare la sua offerta. Andava spessissimo a visitarlo, ed egliveniva da me. In pochi giorni la nostra intrinsichezza rinnovellossi, anzi divenne maggiore.L'egregio Zaguri, che con pari gioia mi ricevette, mi scelse a secretario di sue faccende private ed acompagno di studi. Io passai molte ore beate con lui. Era egli un cavaliere ornato di moltissimecognizioni; buon poeta, buon oratore e pien di gusto e d'amore per le belle arti. Era più generosoche ricco e più amico degli altri che di se stesso. Fu egli che mi fece conoscere il famoso GiorgioPisani, ch'era il Gracco di Venezia in quei tempi e di cui avrò occasione di parlare più a lungo nellamia storia. Volle quest'ultimo affidarmi l'intera educazione de' suoi figlioli, ed io di buon grado mene incaricai. Mi vidi dunque in un tratto favorito e protetto da tre nobilissimi e possenti soggetti, chegareggiavano nell'amicizia e ne' benefizi. Composi pochi versi in quei tempi, perché le occupazioni

d'un doppio impiego, e forse più le distrazioni piacevoli del paese, troppo all'età mia confacenti edalla vivacità del mio ingegno, non me ne lasciarono l'agio di farlo.

M'esercitava spesso, oltre ciò, così volendo gli amici miei, nell'improvvisare, ch'era divenutoallora cosa di moda; e mi convien confessare aver io trovato tal esercizio affatto contrario allapoesia scritta; e deve parer cosa maravigliosa che tra vari geni sublimi, che dicono o cantanoimprovvisamente de' versi bellissimi, molto pochi sieno quelli che non diventino mediocrissimi,quando scrivono.

Mi si presentò frattanto occasione di trarre il Memmo d'inganno, relativamente a ciò che laingiusta giovine avevagli di me fatto credere. Gli aveva io qualche volta di ciò parlato con moltafranchezza, ma, ostinato nella sua credulità, poco alfine mancò che non venissimo a una nuovarottura. Mi domandò un giorno, e fu per la prima ed ultima volta in sua vita, «se sapeva con chiparlassi». Quest'era la frase che aveano in bocca comunemente i gentiluomini veneziani. Gli risposiche sì; ed aggiunsi che non sarei né sì libero né sì franco, se nol sapessi. M'intese, m'abbracciò eringraziommi. «Bisogna dunque,» ripigliai allora, «che mi permettiate convincervi; e questo farò,dove mi promettiate di non farne motto alla vostra Teresa.» «Ebbene,» replicò egli, «convincetemi,se potete, ché io vi prometto di tacere.» Mi misi dunque all'impresa. Era quella fanciullaferventissima nelle passioni, ma, al solito delle sue simili, cangiava di amore colla maggior facilitàdel mondo. Si consolò dunque prestissimo dell'amante perduto, e gettò gli occhi su certo giovine,che frequentava la sua casa famigliarmente e che, privo essendo de' doni della fortuna, parevadisposto a corregger quel fallo, sposando una donna ricca, senza curarsi gran fatto del resto.Accortomi della cosa, procurai farmelo amico. Vedendo egli la mia intrinsichezza col Memmo, neparve lietissimo. Mi scoperse in breve il suo animo e mi pregò secondarlo. Io gli promisi tutto, conpatto ch'egli ottenesse dalla Teresa una sincera confessione della calunnia appostami, e adoperassein tal modo, che ella medesima la verità palesasse a quell'ingannato cavaliere. Ottenne egli ciòmolto facilmente da lei, come quella che sapeva di poter tutto fare impunemente con un uomo giàcieco.

Entrai un dì a caso nelle stanze di quel signore, mentre la ragazza di ciò parlavagli. «Venite,»mi diss'egli ridendo: «scopersi la verità e ne sono lieto e per me e per voi. Per voi, perché siete oranegli occhi miei più degno che mai d'amicizia e di stima; per me, perché sento d'esser sì amato dallaTeresa, da non potere essa per alcun modo soffrire nel mio core un rivale, nemmeno di generemascolino. Credette la poverina ch'io amassi più voi che lei. Questo timore la rese ingiusta: bisognacompatirla. No no, Teresa mia,» soggiunse allora, tutto tenerezza, quel buon signore: «non amo, nonamai, non amerò alcun più di te.» La prese per mano, così dicendo, la baciò cento volte in fronte egittò qualche lagrima; ed ella

Asciugavagli gli occhi col bel velo.9

Questa passione, questo acciecamento, questo fanatismo durò indelebilmente in quell'uomoottimo, in quell'eminente filosofo, fino agli ultimi giorni della sua vita. Sposò, pochi mesi dopo,Teresa il novello amante, in casa del Memmo; divenne madre di vari figli, dal Memmo; rimasevedova e consolata nelle braccia del Memmo; e, come prima di maritarsi, così nel matrimonio,nella vedovanza e nella vecchiezza, fu unica ed assoluta padrona della sua facoltà, della sua volontà,del suo cuore e della sua ragione! Che scola per la povera umanità! Torniam alla storia mia.

9 Questo signore aveva chiuso nel proprio armadio alcune centinaia di monete d'argento. L'aveva contate conme e con certo Muti egli stesso, al momento di chiuderlo. Pochi dì dopo ne prese alcune (credo venti) e rinchiuse achiave lo scrigno. Non passaron tre giorni, che, al prenderne altre venti, ne mancavano circa cento. V'era il medesimoMuti, e v'era io presente. Non si cessò di stupire. «La cosa è certa», diceva io. «Non v'è dubbio», diceva il Memmo. Ilbuon Muti, galantuomo, filosofo ed amico di quel signore: «Io non ci trovo,» soggiunse, «niente di strano. Vi son moltemani in casa.» «Zitto, lingua sacrilega!» replicò il Memmo, «dirò piuttosto averle rubate io che questa buona gente!» Ilpadre di «questa buona gente» era stato aguzzino di galera e la madre lavaceci!

Io era dunque amato dalle donne, stimato dagli uomini, accarezzato da' miei protettori epieno di buone speranze. Passai tranquillamente qualche tempo in questa maniera di vita. I mieinemici stessi parea che dormissero o non si curassero più di me. Durò poco il buon tempo. La miadisgrazia volle che l'incorrotta giustizia di Giorgio Pisani e la sua profonda cognizione delle leggi edella veneta costituzione, ch'ei voleva ristabilire, e che io con le cure e gli studi miei non pocoassisteva, ingelosissero prima, indi spaventassero tutti quelli che «grandi» antonomasticamentechiamavansi allora in Venezia. Meditarono questi gran pezza invano la sua rovina. La suaformidabile eloquenza e sopra tutto la sua integrità stabilito gli avea un tal partito tra i nobili, che, senon per le ricchezze e gli uffizi, pel numero almeno contrabilanciava i potenti ed i ricchi. Volseroquest'ultimi contra me i primi fulmini della loro vendetta. Si cominciò a dire ch'era strana cosach'un uomo del mio carattere e de' miei princìpi, scrittore d'elegie americane, derisore delleparrucche aristocratiche e del corno del doge, ad onta del senato e de'suoi decreti, instruire osasse einspirare i dommi della sua pericolosa dottrina ne'figliuoli d'un uomo, che parea fatto apposta peropporsi al partito de'grandi, i quali, coll'esclusione del più gran numero, voleano esser soli asignoreggiare nella repubblica. Mentre ardea conta me questo quasi tacito e coperto fuoco, sidivulgò per l'imprudenza di pochi un sonetto, che il mio zelo pel Pisani, e più l'amor di patria,cavato m'aveva dalla penna in una occasione, in cui gli fu preferito, ne concorso di pubblicoimportantissimo uffizio, uno de' più servili personaggi de' così detti grandi. Ecco, signori veneziani,la vera causa per cui mi bandì la mia patria! Veritas odium parit, e quello, ch'io dissi, non fu solovero, ma fu profezia!

Se ‘ fosse anco el Pisani un impostor, un prepotente, un ladro, un leca…e,se 'l stasse co le bestie buzarone,col Bafo in mano per so legislator; se 'l gavesse anca lu, come ga el sior,cento bardasse al fianco e cento done,perdio, tute ste cosse saria boneper volerlo in Venezia avogador. Ma, perché 'l segue la costituzion,perché nol pol sofrir le prepotenze,i furti, el despotismo e l'oppression; perché schieto el ghe parla a So Celenze,e nel mazor Consegio a l'Emo e al Tronel ghe dise anco lu le so sentenze, se ghe usa le insolenzedal senato e da grandi del paese,de farghe fin del lorogio un crimenlese; de dirghe che ogni mesega da bastar d'aver in quarantiael sachetin de la pitocheria. Che la xe una resìael pensar che la stola avogarescase ghe daga a una mama 10 ancora fresca. Ma i sa ben che se pescain fondo de sta mama quei tesori,che no se trova mai ne' cagadori. E questi xe i furoti,

10 Quasi tutte le famiglie venete si distinguevano da qualche particolar predicato. Quella di Giorgio Pisani eradetta Pisani Mama.

questa la rabia che li fa parlar,e che sti furbi voria mascherar. Lassémoli sloragiar,ché nol xe zelo del publico benquelo che in risse eterne li mantien. El xe un certo velenche i ga contra de st'omo, che protezeel santo, el giusto, el citadin, le leze. Che frena, che corezela petulanza e 'l fasto e 'l genio matod'esser in pochi a governar el Stato; e questo mo xe 'l fato,perch'el senato ga tanto trastulod'andarghe sempre cole bale in culo. I lo voria far mulo,i ghe voria cavar la nobiltà.E mandarlo a Madras o al Canadà, ché paura ghe fael cor da citadin, la lengua sciolta,la testa dreta e la viltà sepolta. Pensé megio una volta.Vardé, perdio! La patria sconquassadadala vostra superbia buzarada, pensé manco a l'entrada,al fumo dele case, a' gradi e a l'oro,e più al ben de la zeca e a quel del fòro. Lasséghe sto restoro,a quei che studia e che ve vol servir,de no aver mile imlorogi da sofrir. Quando i va a sgangolir,su quela renga a dir quelo che i crede,no ghe fe mal, se no ghe dé mercede; de quel che no se vede,vogio mo dir del cor, no giudiché,se no da quele azion che vu vedé. Né da strambi cerché,in tuto quel che i dixe, un qualche findesonesto e da furbo citadin. Moderé un tantininLa vogia d'esser soli i savi e i doti,e lasséve corezer dei stramboti. Segondé i primi motidel vostro cor, quando i ve dixe el vero,né vardé che vel diga Alvise o Piero. Metéve nel pensieroche questa xe repubblica comun,e che la xe de tuti e de nessun: che se ghe xe qualcunche se lamenta, el ga razon de farlo,perché de tutto voressi spogiarlo. Contentéve mandarlo

Con un magistratuzo e un rezimentoA sfadigar, sgonfiandose de vento. Ma, quando el xe là drento,dove tuti gavé una bala sola,feghe bon muso e no dixé parola. Che se, dopo sta scola,no pensé seriamente a qualche scampo,recordéve che 'l vien dopo el lampo.

Questo sonetto, essendo scritto in lingua veneziana, lo capivano tutti, e in pochissimi giornidivenne l'oggetto de' caffè, delle assemblee e delle mense.11 Il sonetto piaceva, e questo aumentavala rabbia e la collera di que' signori. Le donne, che amavano e me e il Pisani, a dispetto delle toghe,de' parrucconi e dell'aristocratico fumo de' lor mariti, l'aveano imparato a memoria, lo declamavanoper diporto e, tra gli scrosci d'un riso oltraggiante, ne ripetevano i tratti piccanti a quelli che piùdovevano sentirsi punti.

Si pensò allora di batter la sella, giacché non si poteva il cavallo. Si cercarono, e si trovaronofacilmente, accuse ed accusatori. Uno scellerato, che praticava in una certa casa dov'io mi trovavatalvolta, s'offerse di portar varie accuse contra me al magistrato della Bestemmia. Mi accusò d'avermangiato prosciutto in un venerdì (egli ne aveva mangiato con me!) e di non essere andato allachiesa varie domeniche. Costui non era stato a messa in tutta la sua vita! Queste due accuse le seppidallo stesso personaggio che presiedeva a quel tribunale, e che fu il primo a consigliarmi di lasciarsul fatto Venezia. «Se queste accuse non bastano,» dicevami quel signore, che assai m'amava, «netroveranno dell'altre. Vi voglion reo, e reo vi proveranno.» Credettero allora gli amici e i parentimiei che la mia libertà, e forse la mia vita, fosse in pericolo. Il nobiluomo Giovanni da Lezze, nellacui casa viveva il fratello mio in carattere di secretario e più d'amico, voleva ch'io mi ritirassi a unasua campagna, dove mi offriva un sicuro asilo, finché dileguavasi il turbine. Ma io non poteva piùamar un paese sì ingiusto e col Pisani e con me, sì cieco ne' suoi veri interessi e sì vicino alla suadissoluzione. Risolsi dunque di lasciar per sempre Vinegia. Andai a trovare i miei tre protettori epochi altri amici, che colle lagrime agli occhi udirono ed approvarono la mia risoluzione.Abbandonai dunque l'ingrata patria ed andai a Gorizia.

11 Chi conobbe il carattere della veneta aristocrazia può immaginare lo strepito che fece questo sonetto.