MELLINI Il colore dei papaveri - Edizioni...

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IL COLORE DEI PAPAVERI

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  • MANUELA MELLINI

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  • Realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

    ISBN 978-88-566-4554-5

    I Edizione 2016

    © 2016 Manuela MelliniPubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano

    © 2016 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano www.edizpiemme.it

    Anno 2016-2017-2018 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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  • A quel concentrato di tenerezza, romagnolità e follia che è la mia famiglia.

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    «Wie bitte?» dico, indicando tremolante il grosso libro che l’atletica tedesca tiene aperto a due passi da me.

    «Sie sprechen doch Deutsch!» mi fa lei.«No no no» m’affretto a risponderle. Continui pure

    a parlare inglese, che già così è abbastanza difficile. Wie bitte? era il titolo del mio libro di tedesco al liceo. Vuol dire “Come, scusi?” ed è la tipica frase che si pronuncia quando non si capisce una mazza di quello che l’altro ti sta dicendo. Ovvio che, con questi presupposti, non ho mai imparato la lingua.

    Non so perché mi sia uscita proprio ora. Forse per-ché provo l’esatta sensazione di smarrimento di quando quello che ti sta davanti si esprime in un idioma per te incomprensibile. Solo che stavolta ho capito perfetta-mente, anche se vorrei tanto che non fosse così.

    «C’è scritto qui» prosegue lei, nel suo inglese impec-cabile. «Dice che il castello è dell’epoca bla bla bla e che per sapere del fantasma del maggiordomo bisogna chie-dere alla bibliotecaria.»

    «Posso vedere?» domando, prima di strapparle la guida di mano. È una Lonely Planet Italia, in lingua tede-sca. Ultima edizione, settembre 2014. Fresca di stampa.

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    La apro e d’istinto infilo il naso fra le pagine per annu-sarne il profumo, poi mi accorgo che mi stanno guar-dando e balbetto «sorry». Sfoglio il capitolo che mi ri-guarda, ma ovviamente non riesco a capire una parola. Di Castelfreddo, paese in aperta campagna a diciotto chilo-metri da Ravenna, sono citati solo il castello e il bar Cen-trale. Mi prende una botta di caldo. Mi tremano pure le mani. Oh mamma. Sfoglio il libro alla ricerca della pa-gina degli autori, e subito il mio sospetto diventa realtà: eccola lì la faccia di Tom, il giornalista inglese, con quei suoi ricciolini neri e quel sorriso aperto e simpatico che so solo io quanto vorrei demolirgli a bastonate ora.

    Ma non ho tempo per proseguire nei miei improperi. La bibliotecaria, in effetti, sono io, anche se in questo pre-ciso momento pagherei oro per essere quella che vende il pesce al mercato. Guardo i coniugi tedeschi davanti a me, i loro polpacci marmorei inguainati in una ridicola tutina da ciclista, le bici ultraleggere disinvoltamente appoggiate sul fianco. E loro guardano me. Forse potrei buttarmi per terra e mettermi a piangere, che è anche la cosa che mi verrebbe più facile. O dire che non ne so niente, che ri-passino domani e li farò parlare con chi di dovere. Op-pure mi invento una balla e me la sbrigo in tre minuti, così se ne vanno e non ci penso più. San Carlo Lucarelli, ve-glia su di me. Infondimi la tua loquela, fa’ sì che io riesca a uscire al più presto da questa strana brutta storia.

    Le mie preghiere vengono esaudite e così, senza nean-che accorgermene, comincio a raccontare la triste vi-cenda del maggiordomo di casa Freddi... Era un amico della signora, sì, un amico di infanzia. In realtà era in-namorato di lei, e anche lei era stata innamorata di lui. Però poi lei aveva dovuto sposare il signor Freddi, che era ricco e per di più conte, per questo i genitori l’ave-

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    vano costretta. Allora il poveretto, impazzito dal dolore, aveva fatto carte false per diventare il maggiordomo di casa. All’inizio lei non ne voleva sapere, perché era spo-sata a un uomo importante, in vista. Ma dai e dai, a forza di star lì tutti i giorni, un’occhiata oggi, un sussurro do-mani, un biglietto il giorno dopo... Insomma, aveva ce-duto. Era successo quando il marito era via, era in mis-sione per conto di... coso lì, Napoleone. Ma si vede che già nell’Ottocento Castelfreddo era un paese di vecchie zabette, per cui il signor Freddi l’aveva saputo subito che l’avevano fatto becco. E il povero maggiordomo aveva fatto una brutta fine. Anche se ufficialmente sem-brava una disgrazia, tipo che era caduto giù dalle scale o cose del genere. Fine della storia.

    «Ganz toll!» esplode lei, dopo un attimo di silenzio. È una storia bellissima, dice. Molto molto romantica.

    «Ma qualcuno l’ha mai visto il fantasma?» replica lui, più scettico.

    «Io no» m’affretto a precisare con un modesto sorri-sino, ma in paese sono molti a giurare di averlo avvistato. Specie di notte, in estate. Un piccolo lume che si sposta da una finestra all’altra. Poi ogni tanto capita che den-tro il castello le cose cambino posto da sole. Non ci sono mai stati contatti diretti, diciamo così.

    Annuiscono. Si guardano. «Sta venendo buio» dice lei, tirandosi su il cappuccio del k-way per proteggere i capelli rossastri dalla nebbia sempre più fitta, e per un attimo mi sembra di vederla rabbrividire.

    «Meglio se andiamo» osserva lui. «Dobbiamo tornare a Ravenna.»

    «C’avete messo molto ad arrivare qua in bici?» chiedo io, felice di deviare l’argomento dal castello e dal suo presunto abitante.

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    «Poco più di mezz’ora. Ma tra il buio e la nebbia adesso sarà più difficile.»

    «Seguitemi, vi riporto dove ci siamo incontrati prima» concludo, e così dicendo corro a infilarmi nella Panda verde acqua del Comune. Accendo a palla il riscalda-mento per cercare di togliermi di dosso l’umidità accu-mulata nelle ultime ore, e già che ci sono accendo anche la radio e una sigaretta. Il contachilometri mi segnala che sto facendo poco più dei 30 km/h, che poi è la velocità massima con cui è possibile affrontare lo stradino che dal castello porta verso il paese, eppure i due folli crucchi mi stanno attaccati come se dovessero scendere e spingermi avanti. Procedono a una velocità impressionante sullo sterrato e, quando torniamo sulla strada asfaltata, devo persino accelerare per non farmi tamponare. Arrivata nel parcheggio davanti alla biblioteca scendo e li saluto. A giudicare dai sorrisoni e dall’energia con cui mi strin-gono la mano, sembrano molto felici della visita fatta. Li vedo sparire nella nebbia, con i loro fari sempre più fio-chi che dopo poco non si distinguono più, e mi auguro che riescano a tornare sani e salvi all’albergo senza farsi asfaltare sulla statale.

    Risalgo in macchina e sto per dirigermi verso casa, quando l’occhio mi cade sull’orologio: sono appena le 16.45, c’è ancora un sacco di tempo prima di cena. Ma-gari potrei approfittarne per fare un salto al cinema e salutare Fede... Basta il pensiero a farmi rabbrividire. Colpa del freddo, dell’emozione o di un principio di crisi d’astinenza? D’altra parte è un sacco che non lo vedo, saranno almeno due settimane. Anzi sedici giorni, venti ore e dodici minuti, uno più uno meno, e da al-lora non c’è stato un momento in cui non abbia pensato

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    a lui. Come sempre d’altronde, da un paio d’anni a que-sta parte.

    Federico Vecchi, classe 1980. Segno zodiacale: Leone. Segni particolari: bello come il sole, almeno secondo me. Lo conosco da quando io ero alle elementari e lui, già or-mai al liceo, girava per Castelfreddo con un gruppetto di amici, tutti fighissimi, che facevano impazzire me e le mie coetanee. Le altre provavano ad avvicinarli, tenta-vano un approccio, fantasticavano interi pomeriggi per un «ciao». Io no. Ero terrorizzata. Li evitavo proprio. Soprattutto lui.

    Fede è stato fidanzato per parecchi anni con una spe-cie di fotomodella. Mai vista così tanta bellezza tutta in-sieme in una ragazza. Quando camminava per strada la sera avrebbero potuto spegnere i lampioni, bastava lei a fare luce. Poi non so cosa sia successo, ma si sono la-sciati. Lei ha spostato il suo splendore di pochi metri e si è messa con un giovane avvocato dai denti bianchi e l’a-ria rassicurante. Lui ha smesso di lavorare nell’azienda di suo babbo e ha rilevato il cinema. Da allora, la ver-sione più accreditata è che lei l’ha lasciato perché lui è diventato gay. Che se non sei gay, dicono tutti, non te la fai scappare una così.

    Io invece ho avuto una storia di sei anni con Robi, il gigante buono, un concentrato di muscoli e dolcezza. Vista da fuori, la nostra era una relazione perfetta. An-che da dentro non era male, era tutto molto tranquillo. Troppo tranquillo. A dire il vero era una noia mortale, roba da rimanerci sepolti. Per fortuna siamo riusciti a lasciarci giusto in tempo. Forse era colpa mia: non ero molto propositiva e non ho mai avuto grandi slanci. In-fatti ora Robi convive con la sua nuova fidanzata, hanno un figlio e fra sei mesi si sposano. Diciamo che tutto

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    sommato non deve aver sofferto troppo per la nostra se-parazione, via.

    Qualche tempo dopo le nostre reciproche rotture, una sera sono andata al cinema di Fede con una mia amica. Lui s’è avvicinato per salutarmi e all’improvviso mi ha chiesto: «Come mai sei con lei? Non stai più con He-Man?».

    «No. E tu, non stai più con la Barbie?»«No. Che sfigati, siamo rimasti da soli. Potremmo

    metterci insieme noi, no?» Scherzava, era evidente.«Plgnmsdrtzvscdn» ho risposto io. Da quel momento in poi, non ho più avuto tregua.

    La cotta che avevo per lui da bambina è tornata più vio-lenta che mai. Un po’ come il morbillo: finché lo prendi da piccola non è male, tutti ti coccolano, stai a casa da scuola e puoi vedere anche i cartoni animati di mattina; se lo prendi da grande, soffri come una bestia e per di più nessuno viene a letto a leggerti la storia della buona-notte.

    Mi guardo nello specchietto, tanto per accertarmi di non essere davvero a pois rossi come la Pimpa. Tutto sotto controllo: ho la solita tonalità bianco antico che la mia pelle assume spontaneamente nei periodi più freddi dell’anno. Insomma, non è che sia proprio una grande bellezza oggi. Cerco di ravvivarmi i capelli con le mani, studio il contorno occhi, tiro in aria il contenuto della borsa fino a trovare, ben nascosto sul fondo, un tubetto di crema idratante. Sarebbe per le mani ma fa lo stesso, sempre crema è. Me la spalmo generosamente sulla fac-cia, come se fosse una pozione magica che nell’arco di dieci secondi può trasformarmi nella sosia perfetta di Charlize Theron. In realtà, come sottolinea implacabil-mente lo specchietto, la crema non ha alcun effetto mira-

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    coloso e io sono esattamente quella di prima, ma almeno il profumo è buono.

    Rimango seduta dentro la macchina ancora un po’, picchiettando le dita sul volante. Non so bene come com-portarmi. Magari farei meglio ad andare subito a casa e intorpidirmi per un paio d’ore davanti alla tivù invece che avventurarmi dalle parti del cinema. Che poi, ma-gari, oggi è pure chiuso. Anzi, sarà sicuramente chiuso. Talmente chiuso che potrei anche andare a dare un’oc-chiata. Arrivo lì davanti, vedo la serranda giù, lo inter-preto come un segno del destino, mi metto l’anima in pace e torno a casa. Facile, no?

    E se invece fosse aperto? mi chiedo, con un piede già fuori dallo sportello. Be’, se lo fosse (ma tanto non lo sarà) allora potrei entrare, fare un po’ quella che è ap-pena tornata da una giornata divertentissima e si ferma giusto il tempo di un saluto, bere un caffè, struggermi davanti a Fede quei dieci, venti minuti e poi andarmene. Insomma, a parte l’ansia, di controindicazioni non ne vedo.

    Scendo dalla macchina e mi guardo intorno: la piazza è completamente deserta e sempre più immersa nella nebbia. Dalle finestre delle case si intravede qual-che luce accesa. Cammino verso il cinema con le mani in tasca, ostentando indifferenza. Ci manca solo che inizi a fischiettare, tanto per non dare nell’occhio. Pas-seggio sempre più lentamente fino ad arrivare alla fine della strada, poi giro l’angolo e... eccolo qua, il cinema è aperto. Apertissimo. Ti pareva.

    Mi sento un po’ ridicola, forse dovrei andarmene. Ma temo di essere già entrata nel campo magnetico di Fede: superata una certa distanza, non riesco più a tornare in-dietro. E soprattutto, se per disgrazia vede dalla vetrata

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    che sono arrivata fin qui e poi sono fuggita senza salu-tare, mi prende per scema. Non avrebbe tutti i torti, ma non mi sembra neanche il caso di ammetterlo così pla-tealmente. Faccio un respiro da fare invidia a un apnei-sta e poi via, ingresso trionfale.

    «Ciao!» dico entrando, prima ancora di aver visto chi ci sia dentro. Meglio segnalare subito la propria presenza.

    La testa di Fede sbuca da dietro il bancone. «Tesoro! Ma tu cosa ci fai qua?» Appoggia lo strofinaccio che ha in mano e si sporge per darmi un bacio sulla guancia. Appena sento il contatto delle sue labbra e il suo pro-fumo, mi prende una botta di caldo. Già la seconda oggi. Sarò mica in menopausa, a ventisette anni? Tolgo la ber-retta e la sciarpa, tanto per iniziare.

    «Non pensavo fossi aperto.»«Io sono sempre aperto, amore. A tutto proprio!» E

    ride. Cristo. «C’è L’Ape Maia. La sala è piena. Hanno saccheggiato anche tutti i pop corn, guarda lì» mi fa, in-dicando l’espositore vuoto. «Ma tu perché sei qua?»

    «Va’ che se vuoi me ne vado...» Sono sempre più bor-deaux. Sbottono anche il cappotto. Forse la crema idra-tante ha preso la sua missione un po’ troppo sul serio, a momenti sudo.

    «Quanto sei scema... Siediti, dai! Cosa ti offro?»«Un caffè?» chiedo, inerpicandomi sullo sgabello. Al-

    tro che Alba Parietti e i suoi tre metri di gamba, io as-somiglio più a un ornitorinco che ha mangiato pesante.

    «No, un caffè no» risponde, deciso. «Mi fa tristezza farti un caffè. Guarda, se proprio vuoi, visto che fuori fa freddo, ti posso fare un Irish Coffee così ti riscaldi. Op-pure...» e sparisce di nuovo sotto al bancone, a frugare nei frigo. «Oppure ci beviamo insieme un bicchiere del Pignoletto di mio babbo. Ti va?»

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    A me il vino frizzante non piace. Non mi è mai pia-ciuto. Ma come si fa a dire di no a Fede che mi chiede di berci un bicchiere di vino insieme, per di più quello fatto da suo babbo che è notoriamente il più buono della pro-vincia e che di certo mica lo darà a tutti?

    «Perfetto» dico entusiasta. Non riesco a staccare gli occhi dalle sue mani, mentre apre la bottiglia. Ha dita lunghe, sottili ma non troppo. Se ne intuisce la forza, ma ciò che più colpisce è il loro equilibrio. L’eleganza. L’ar-monia. Sembra che ballino sul cavatappi. Versa il vino in due bicchieri e me ne porge uno.

    «Ecco! A cosa brindiamo?» «Gdlbgnfztnm» balbetto io. Mi capita sempre quando

    sono in imbarazzo: è come se mi si annodasse la lingua. Fastidiosissimo.

    «Lo so io a cosa brindiamo!» fa lui. «Ho avuto un’i-dea. Cioè, è da un po’ che ce l’ho in testa. Pensavo a una cosa per gennaio-febbraio, quando son passate le feste e stanno tutti a casa a non fare un cazzo la sera.»

    «Tipo?»«Tipo rassegna di film. Magari il mercoledì sera, che i

    mariti sono sul divano o vanno al bar a vedere la partita e le donne vengono qua. Perfetto, no?»

    «Geniale! Ma rassegna di che esattamente?»«Eh, ci devo ancora pensare... Hai delle idee?»«Mah, così su due piedi mica tante... Tarantino? Cosa

    ne dici?»«Sì, poi tu ti vesti di giallo come Uma e vieni a stac-

    care i biglietti!»Non so se ridere o arrossire all’idea; nel dubbio, opto

    per entrambi. «Qual è il programma delle prossime set-timane?» chiedo. È una domanda farlocca, anche per-ché giusto ieri m’è arrivata la newsletter e quindi so be-

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    nissimo cosa ci sarà al cinema per tutto il mese. Però gliela faccio lo stesso, un po’ per non stare in silen-zio ma soprattutto perché sono poche le cose che mi fanno sciogliere più di Fede, quando parla del suo la-voro. Lui, con gli occhi che gli brillano, si sporge leg-germente verso di me e inizia a raccontare: i film che ha scelto per novembre, quelli che usciranno sotto Na-tale, quelli dei mesi scorsi che «questo l’hai visto? T’è piaciuto? E quello?». Fra l’altro è un argomento su cui anch’io sono molto preparata perché, da quando lavora al cinema, il numero di film che ho visto è cresciuto in maniera esponenziale. Sono diventata una cinefila di prima categoria; un’appassionata ammiratrice di registi di cui, fino a pochi anni fa, non sospettavo neanche l’e-sistenza; un’anacronistica groupie dei fratelli Lumière. E per fortuna che, invece, non gli è venuto in mente di gestire una palestra di judo. Per fortuna.

    Parliamo fitto fitto per una ventina di minuti, occhi negli occhi, io con un ghigno che si allunga da un orec-chio all’altro e probabilmente risulta più simile a una paresi facciale che a un sorriso. Non riesco a stare at-tenta tutto il tempo a quello che mi dice perché la mia più grande preoccupazione è quella di tenere a bada il cuore, che sta zompettando da un angolo all’altro del mio corpo: prima me lo sento battere in testa, poi nello stomaco, poi su una spalla, poi all’altezza del ginocchio, poi in gola... spero che non decida di saltare fuori pro-prio ora, sarebbe imbarazzante.

    A un certo punto, spezzando questa specie di trance in cui sono precipitata, Fede guarda l’orologio e mi fa: «Tesoro, fra cinque minuti finisce il primo tempo. Per me puoi fermarti quanto vuoi, ma appena si apre la porta qui dentro arrivano cinquanta bambini urlanti con geni-

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    tori al seguito, che al confronto le invasioni barbariche sono una visita di cortesia... Insomma, fossi in te andrei via subito, ecco».

    «Bella idea» rispondo. Maledetti bambini, proprio oggi dovevate venire tutti a rompere l’anima a me, che stavo tanto bene dov’ero?

    Stavolta Fede esce da dietro al bancone e mi accom-pagna alla porta. Mi dà un bacio sulla guancia, forse av-vicinandosi appena alle labbra, cosa che mi provoca un brivido dalla punta dei piedi alle doppie punte dei ca-pelli. Spero che non se ne accorga. Poi mi mette le mani sui fianchi e dice: «Vero che ci pensi alla rassegna? Anzi, una delle prossime sere passa di qua, così quando fini-sco di lavorare facciamo due chiacchiere e la studiamo bene, okay?».

    Oggi è il primo novembre. Ho letto da qualche parte che, secondo le statistiche, è il giorno più triste dell’anno, quello in cui è più probabile che scatti la depressione e dove persino si registra il più alto numero di suicidi. Ma mentre cammino, sempre più inghiottita dalla nebbia, verso la Panda verde acqua del Comune, mi sento una coloratissima farfalla che svolazza leggiadra in un prato fiorito.

    Il castello non è mai stato un castello. È semplicemente un palazzo grande a pianta rettangolare, messo in una posizione leggermente più elevata rispetto al paese. L’ha fatto costruire a fine Settecento un luogotenente di Na-poleone, tale Gustavo Freddi, che lì alloggiava con la sua famiglia. Ravennate da generazioni, nessuno s’è preoccu-

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    pato di mandarlo via dopo la Restaurazione: non era una presenza particolarmente significativa, non dava fastidio e soprattutto ha avuto la proficua idea di abbandonare la carriera politica e militare per dedicarsi all’agricol-tura. Ha rilevato ettari di terreno intorno alla villa e pian-tato vigne a non finire: ancora oggi la Tenuta Freddi è un marchio di tutto rispetto, noto agli appassionati di San-giovese. Morto Gustavo, l’attività è stata portata avanti dai figli per tutto il corso dell’Ottocento. Ma poi, lenta-mente, la progenie s’è sparpagliata. Uno s’è fatto prete, una s’è sposata un avvocato napoletano, l’altro è finito a Oxford a insegnare Storia romana. L’ultimo ad andar-sene è stato Gilberto, illuminato dagli ideali interventisti della Prima guerra mondiale: ha mollato baracca e burat-tini ed è andato a combattere in prima linea. Suppongo gli sia andata male, perché non è mai più tornato. Negli anni Trenta il palazzo è stato occupato da un gerarca fa-scista che faceva un po’ da capoccia qui nella zona, ma nel ’43 ha capito che il vento cambiava e s’è prontamente di-leguato. Poi ci sono stati i partigiani, che nelle cantine del castello avevano allestito una specie di ripostiglio, e poi, con la solita precisione, sono arrivati i bombardamenti degli americani, che hanno tirato giù mezza facciata. Ne-gli anni Cinquanta il muro è stato ricostruito a spese del Comune che, dato che non era di nessuno, s’è imposses-sato dell’intero palazzo, ha dato due manate d’intonaco sulle pareti interne («Fa bene, tiene lontano gli animali») e ha cominciato a usarlo come magazzino.

    In effetti, la storia del castello che non è un castello è ben poco gloriosa. Nessuna scolaresca l’ha mai visitato, non c’è mai stato allestito nessun museo, non è tornato a vivere come residenza privata di nessun riccone della zona né di qualche star hollywoodiana in cerca di tran-

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    quillità. Se ne sta lì anonimo e silenzioso sulla sua colli-netta, come un qualsiasi elemento del paesaggio, come un gigantesco sasso a cui non è chiesto altro che di es-sere un sasso.

    Quando ero piccola, d’inverno mio babbo mi por-tava sempre al castello se c’era la neve. Andavamo su piano in macchina per lo stradino sterrato; mia mamma imbacuccata dentro il cappotto, con il cappello calato sulla fronte e la sciarpa tirata su fin sopra al naso, che si vedevano sì e no solo gli occhi; io con una giacca a vento rossa e un fazzoletto di lana bianca in testa (non che mi ricordi, ci sono le foto a testimoniarlo), piccola e tonda che sembravo una palla dell’albero di Natale; mio babbo, che all’epoca aveva un fisico invidiabile, con i jeans e i mocassini ai piedi. Arrivavamo su in cima e ci fermavamo. Poi lui tirava fuori dal baule lo slittino, rosso anche quello. Mi ci caricava sopra, mi spiegava come fre-nare e come curvare – sempre me lo ripeteva, a ogni di-scesa, anche se passavano venti secondi da una all’altra – e mi mollava giù. Io ridevo, con l’aria fredda e gli schizzi della neve che mi arrivavano in faccia. Poi, non so se era lo slittino o se ero io, ma finivo sempre ribaltata. Sempre. Cadevo in mezzo ai rovi, sui tronchi delle viti, prendevo tutti i sassi che c’erano sul terreno e immancabilmente rotolavo giù fino al primo spiazzo pianeggiante. Allora recuperavo lo slittino e risalivo, e la cosa si ripeteva due, tre, dieci volte. Mia mamma aspettava in macchina. Io facevo sempre finta di non essermi fatta male, perché non volevo che lei si arrabbiasse con mio babbo. Sem-brava felicissimo, lui. Allora io facevo vedere che mi di-vertivo, e forse un po’ mi divertivo davvero. Non gliel’ho mai detto, ma in realtà avevo una fifa boia.

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    «Sono tornata» dico a mia mamma entrando a casa sua.«Bene» fa lei, senza alzare gli occhi dal libro che sta

    leggendo.«Mangio giù stasera?»«Va bene.»«A dopo.»«Ciao.»Sempre grandi dialoghi con lei, penso, mentre salgo le

    scale che portano nel mio appartamento. In realtà la casa è una sola. Ma, da quando mio babbo

    non c’è più, ci è sembrata improvvisamente gigantesca. Strano, perché lui era sempre in giro per lavoro, non è che occupasse poi tutto questo spazio. Allora c’è ve-nuto in mente di dividercela: a me il piano di sopra, a lei quello di sotto, da dove può raggiungere, attraverso un sistema di porte comunicanti (e passaggi segreti, so-spetto, anche se non sono mai riuscita a verificare questa mia ipotesi), il suo studio.

    Mia mamma è psicologa, è per questo che viviamo in mezzo ai campi e non a Castelfreddo city. Perché i clienti – che ce ne sono e sono pure tanti – non amano l’idea di farsi vedere da tutto il paese mentre vanno da

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    quello che, almeno qui in zona, è ancora chiamato «il medico dei matti». Quindi i miei hanno preso e ristrut-turato una casa di campagna, con tanto di giardino con alberi e laghetto, e un comodo ingresso secondario che garantisce un’inviolabile privacy. Mia mamma ha sem-pre saputo gestire le cose alla grande. Sono convinta che abbia una mente superiore. La lucidità con cui coordina orari, ingressi e persino parcheggi dello studio ha dell’in-credibile. Mai successo, a mia memoria, che due clienti si incrociassero per sbaglio. Mai successo che qualcuno vedesse chi era arrivato prima di lui o chi sarebbe arri-vato dopo. Mai successo che due macchine si trovassero una di fianco all’altra. Una vera stratega. Se c’era mia mamma a Waterloo con Napoleone, le cose andavano a finire in un altro modo.

    Quando la sera sono a casa e non viene a trovarmi nessuno, mangio sempre con lei. Mi fa tristezza lasciarla giù da sola. Non che insieme ci si faccia chissà che risate, ma, insomma, meglio così che peggio.

    Appena salgo da me, alzo il riscaldamento e mi infilo sotto la doccia. L’acqua calda mi scivola addosso e final-mente riesce a togliermi dalle ossa il freddo umido im-magazzinato durante il pomeriggio passato a far da ba-lia ai due tedeschi. Poi mi butto sul divano. Appoggio la testa all’indietro, sprofondo nella morbidezza dei cu-scini, fisso il soffitto. Immagino di tirare una riga da un angolo all’altro, poi una seconda linea che congiunge gli altri due angoli, quindi di dividerlo tutto a spicchi rego-lari, come fosse una girandola... e mentre sono assorta in questo passatempo, estremamente rilassante benché di rara inutilità, ecco che Fede torna di nuovo a insinuarsi nei miei pensieri.

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    Ormai sono due anni che va avanti così. Ogni due, tre settimane lo vado a trovare. A volte con degli amici, per vedere un film; altre volte da sola, per vedere lui. In fondo ci conosciamo da una vita, quindi all’apparenza non c’è nulla di strano. Davanti agli occhi mi passano le immagini delle nostre serate: le sue risate, le battute, le camicie che gli stanno bene, il vetro della finestra appan-nato, il viavai della gente all’uscita, l’odore dei popcorn, le birre al tavolino, quando qualcuno mi vede e si ferma a parlare e io invece vorrei che sparisse per rimanere sola con Fede.

    Chissà lui cosa pensa. È vero che io sono sempre molto discreta nelle mie apparizioni: arrivo tardi, vado via pre-sto, parlo poco e bevo tanto. E forse non può immaginare che, prima di andare da lui, passo almeno due ore in ba-gno a impiastricciarmi la faccia con ogni tipo di crema, latte e tonico; a truccarmi, struccarmi e ritruccarmi un’in-finità di volte; a guardarmi allo specchio mentre, un pezzo alla volta, provo e riprovo tutto quello che c’è dentro al mio armadio e impreco perché, su sei ante piene di roba, non c’è niente ma proprio niente che mi stia bene; a la-varmi, pettinarmi, lisciarmi o arricciarmi i capelli, e mai che vengano come dico io. Anzi, di sicuro non lo può immaginare, perché i preparativi mi esasperano talmente tanto che, alla fine, mi presento sempre da lui in scarpe basse, jeans e maglione, ripetendomi che sentirsi a pro-prio agio è la prima regola per far colpo. Non so chi me l’abbia raccontata questa; sospetto sia una bufala di di-mensioni clamorose, ma voglio crederci comunque.

    Insomma io non dico e lui non capisce; io non capi-sco e lui non dice. Potrebbe anche andare avanti così per sempre; a volte penso che sarebbe la soluzione migliore per tutti.

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    Scendo da mia mamma e la trovo nella stessa identica posizione in cui l’ho lasciata un’ora fa: seduta su una se-dia di fianco al tavolo, intenta a leggere voracemente non so che libro. Sussurro un «ciao» veloce, giusto per farle capire che sono lì, ma non c’è verso di smuoverla dalla sua lettura. Sembra accorgersi di me solo qualche mi-nuto più tardi, quando inizio ad armeggiare intorno al camino.

    «Cosa fai?» mi chiede.«Lo accendo, così ci riscaldiamo. Hai visto che nebbia

    fuori? È la sera ideale da camino!»«Mmm. Non sporcare per terra però.»«Hai delle castagne?»«Non lo so» sbuffa, chiudendo il libro e alzandosi per

    andare in cucina. «Ah sì, eccole, le avrà portate la Ma-risa. C’è dell’arrosto per cena, ti va bene?»

    «Perfetto. Magari faccio anche due patate al forno, cosa dici?»

    «Come vuoi.»Estrae l’arrosto dal frigorifero e torna di nuovo alla

    sedia, ma stavolta abbandona il libro e accende la tv: come tutte le sere che il Signore manda sulla terra, è ora dell’Eredità.

    Il fuoco inizia a crepitare e io lascio che pian piano cresca. Potrei passare ore a guardarlo e ad annusarne l’o-dore. Mi piacciono i colori delle fiamme, quelle grandi rosse e gialle e quelle più piccole blu. Mi incanta il modo in cui cambiano forma, il fatto che si muovano in conti-nuazione. Guardare il camino è uno dei miei passatempi preferiti.

    Come sottofondo ho la voce di mia mamma che litiga con i concorrenti che sbagliano qualche risposta: «Cin-quantatré! La prima scalata all’Everest è del Cinquanta-

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    tré!», «Ma no! L’inventore di Mazinga è Go Nagai, non Miyazaki!», «E certo, adesso nel Kir c’è la vodka! Ma dove vive ’sta gente?».

    «Perché non ci vai te?» le chiedo, al ventesimo com-mento.

    «Ma va’ là» risponde.Le patate le ho bruciate, ma l’arrosto della Marisa

    è una garanzia. Mia mamma odia cucinare, e anche di mangiare credo che gliene freghi ben poco, così come non tollera fare i lavori di casa. Quindi ha optato per una sorta di all inclusive, assumendo una persona che, oltre a pulire, stirare e via dicendo, le riempie il frigo di cibo. Con grande gioia anche mia.

    Finita la cena, mentre le castagne scoppiettano sotto le braci abbrustolendosi ben bene, le faccio: «Domani vado al cimitero».

    «Io ci sono andata ieri.»«Come ieri? Non potevamo andarci insieme?»«Non mi piace. C’è troppo casino domani.»«Vabbe’ ma mica dobbiamo starci tutto il giorno, no?

    Cinque minuti, portiamo i fiori e via.»«Li ho già portati io ieri, un paio di settimane resi-

    stono.»La fisso mentre sparecchia, nel silenzio più totale.

    Non può finire così, deve dire ancora qualcosa. Che c’ha ripensato, che alla fine se torna al cimitero anche do-mani, insieme a me, mica si fa male, che le fa piacere ac-compagnarmi.

    In effetti, dopo qualche secondo, qualcosa dice. «Pesce.»«Cosa?»«Pesce. La parola della Ghigliottina è pesce. Pesce

    palla, sano come un pesce, la colla di pesce...»

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    «Cristo!» sibilo scattando in piedi. Giro le spalle alla stanza e mi metto a rimestare la cenere nel camino, giu-sto per non far vedere che sto per scoppiare a piangere. Le lacrime, spinte indietro, fanno effettivamente retro-marcia, ma le mie mani continuano a tremare e spargo braci dappertutto, roba che a momenti do fuoco alla casa.

    Stringo i denti mentre mi risiedo e sbuccio le casta-gne, un po’ per la rabbia e un po’ perché mi sto ustio-nando la punta delle dita per quanto sono bollenti. Ho un muso talmente lungo che se mi mettessi a camminare rischierei di inciamparci.

    Poi mia mamma si alza, va in cucina e torna con una bottiglia. «Vuoi un bicchiere di Cagnina?» mi chiede. Credo che sia il suo modo per farmi capire che vuole fare pace. Sospiro forte e, senza alzare gli occhi dal tavolo, ri-spondo: «Grazie, sì».

    Era il 19 aprile 2007. C’era una gran nebbia, quella mattina. Abbiamo fatto colazione tutti e tre insieme senza grandi chiacchiere. Poi ci siamo salutati e ognuno è andato per i fatti suoi: io in stazione a prendere il treno per andare all’università, mia mamma nello studio e mio babbo al lavoro. Faceva il rappresentante per una ditta di Ravenna, infissi e roba del genere. Passava le ore in macchina, su e giù per l’Emilia Romagna, il Veneto, le Marche.

    Dopo un paio d’ore che ero a lezione m’ha chiamata mia mamma. Ho pensato subito che fosse una cosa grave, di solito non telefona mai. «Sto andando a Ra-venna all’ospedale, tuo babbo ha avuto un incidente.»

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    Sono corsa via senza dir niente a nessuno. Il treno da Bologna non partiva più, io fumavo una sigaretta dietro l’altra, mi mancava il respiro. Un’ora e mezzo di viaggio ma a me sono sembrati vent’anni. Non riuscivo a stare seduta. Ho passato tutto il tempo nello spazio fra gli scompartimenti, a guardare fuori dal finestrino senza ve-dere nulla. Chiamavo mia mamma in continuazione, ma dopo un po’ lei ha smesso di rispondere. Piangevo. Una mi s’è avvicinata e m’ha detto qualcosa, aveva una voce gentile. Io me ne sono andata senza neanche guardarla.

    Dalla stazione di Ravenna ho preso un autobus. I se-mafori erano tutti rossi. Presto, pensavo. Presto, cazzo, presto. A due fermate dall’ospedale mi son buttata giù e ho iniziato a correre. Mi faceva male tutto. Gambe, petto, faccia, mani. Polmoni, stomaco, gola, cuore. Male dentro e fuori. «Hanno ricoverato qui mio babbo, si chiama Sergio Fabbri, devo andare da lui» dicevo su-data e ansimante a tutti gli infermieri che ho trovato. Ma non riuscivo a parlare bene, loro non mi capivano, do-vevo ripetere il nome mille volte e ogni volta era una pu-gnalata. Alla fine uno m’ha indicato un piano e un re-parto. L’ascensore non arrivava, gli ho tirato un pugno e son corsa su per le scale.

    Troppo tardi. Quando sono salita, lo stavano già portando via. Mia

    mamma era seduta su una sedia, con le gambe accaval-late e la faccia coperta dalle mani. Non piangeva, non parlava, non si muoveva. Io mi sono buttata per terra e ho iniziato a urlare. Il pavimento sotto la mia guancia era freddo e duro.

    Da allora, la realtà s’è fatta da parte e ha lasciato posto all’assenza. È come se il tempo si fosse fermato e io fossi

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    rimasta incastrata, un criceto che gira sulla ruota con-vinto di andare chissà dove e invece rimane sempre lì. Solo che poi ci si affeziona, alla ruota. Si ha paura di scendere e scoprire che, con quegli stessi passi, si po-trebbe forse raggiungere un altro luogo, vero o immagi-nario che sia. Molto meglio girare in tondo, allora. Rivi-vere ogni giorno lo stesso pensiero, le stesse sensazioni. Le mie paure non sono una cosa che mi appartiene. No: sono io che appartengo a loro. Ma finché giro sulla ruota non mi può succedere niente di male. I fantasmi si zit-tiscono, si mettono in un angolo, stanno buoni. Io lo so che ci sono, ma so anche che, così facendo, non mi pos-sono disturbare. Se metto un piede giù e provo a cammi-nare, invece, mi arrivano tutti addosso. Loro sono mille e io sono una sola. È una lotta impari e io adesso non ho proprio voglia di combattere. Sto bene così, nasco-sta dietro le mie pile di libri, a diciotto gradini da quel mucchio di briciole che è diventata la mia famiglia. Vo-glio stare qui.

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