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MEDIOEVO: ARTE E STORIA X Convegno Internazionale di Studi Parma, 18-22 settembre 2007 ABSTRACT DELLE RELAZIONI (in ordine alfabetico) FRANCESCO ACETO Roberto d'Angiò e la questione dell'Impero. In margine a una rara iconografia giottesca nella Cappella Bardi in Santa Croce a Firenze L'intervento prende le mosse da un'insolita raffigurazione di San Ludovico di Tolosa all'interno degli affreschi di Giotto nella Cappella Bardi, datati dalla critica più autorevole poco prima del trasferimento del pittore a Napoli (dicembre 1328), preceduto, a sua volta, dalla signoria fiorentina di Carlo duca di Calabria (1327). Nel considerare tale occorrenza iconografica un omaggio dei Bardi agli Angiò, il relatore ne ricostruisce le valenze politiche, ponendole in stretta relazione con la discesa in Italia dell'imperatore Ludovico il Bavaro e, al tempo stesso, con le rivendicazioni sull'Impero di Roberto d'Angiò, sostenute in varie forme, letterarie e figurative, dai suoi partigiani. ROSA ALCOY La Catalogna alla ricerca dell’Italia medievale. Pittura, studi, ideologia e immagini Le relazioni esistenti tra l’arte italiana e l’arte catalana nel corso del Medioevo costituiscono un tema storiografico ampio e ramificato che si configura su una base storica tangibile e perfettamente rintracciabile di documenti e di materiali. Su tali materiali, in particolar modo pitture, si è addensata nel corso degli ultimi secoli una letteratura specialistica che ha cercato di indagare la misura e la qualità di queste relazioni, i modelli formali e iconografici, i centri italiani referenti, i peculiari esiti artistici in terra catalana. L’intervento che qui si propone non intende passare in rassegna le numerose pitture catalane che furono il tramite e l’oggetto delle relazioni tra i due paesi da una sponda all’altra del Mediterraneo, prodotti molteplici e diversificati di tale particolare congiuntura di incontro e di scambio, ma intende analizzare i lavori eruditi e scientifici che su quelle opere sono stati pubblicati da studiosi che furono veri pionieri dell’indagine sugli italianismi dell’arte catalana medievale e sul nesso artistico Italia- Catalogna. Di questo contesto si esamineranno soprattutto l’ottica culturale e il filtro intellettuale dal quale gli studiosi di volta in volta presero l’avvio, si cercheranno di comprendere le ragioni storiche che li condussero a schierarsi e a prendere posizione per un’idea o per l’altra, e si illustreranno i modi in cui tale tendenza storiografica si diffuse in Catalogna e in Europa.

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MEDIOEVO: ARTE E STORIA

X Convegno Internazionale di Studi

Parma, 18-22 settembre 2007

ABSTRACT DELLE RELAZIONI

(in ordine alfabetico)

FRANCESCO ACETO Roberto d'Angiò e la questione dell'Impero. In margine a una rara iconografia giottesca nella Cappella Bardi in Santa Croce a Firenze

L'intervento prende le mosse da un'insolita raffigurazione di San Ludovico di Tolosa all'interno degli affreschi di Giotto nella Cappella Bardi, datati dalla critica più autorevole poco prima del trasferimento del pittore a Napoli (dicembre 1328), preceduto, a sua volta, dalla signoria fiorentina di Carlo duca di Calabria (1327). Nel considerare tale occorrenza iconografica un omaggio dei Bardi agli Angiò, il relatore ne ricostruisce le valenze politiche, ponendole in stretta relazione con la discesa in Italia dell'imperatore Ludovico il Bavaro e, al tempo stesso, con le rivendicazioni sull'Impero di Roberto d'Angiò, sostenute in varie forme, letterarie e figurative, dai suoi partigiani. ROSA ALCOY La Catalogna alla ricerca dell’Italia medievale. Pittura, studi, ideologia e immagini

Le relazioni esistenti tra l’arte italiana e l’arte catalana nel corso del Medioevo costituiscono un tema storiografico ampio e ramificato che si configura su una base storica tangibile e perfettamente rintracciabile di documenti e di materiali. Su tali materiali, in particolar modo pitture, si è addensata nel corso degli ultimi secoli una letteratura specialistica che ha cercato di indagare la misura e la qualità di queste relazioni, i modelli formali e iconografici, i centri italiani referenti, i peculiari esiti artistici in terra catalana.

L’intervento che qui si propone non intende passare in rassegna le numerose pitture catalane che furono il tramite e l’oggetto delle relazioni tra i due paesi da una sponda all’altra del Mediterraneo, prodotti molteplici e diversificati di tale particolare congiuntura di incontro e di scambio, ma intende analizzare i lavori eruditi e scientifici che su quelle opere sono stati pubblicati da studiosi che furono veri pionieri dell’indagine sugli italianismi dell’arte catalana medievale e sul nesso artistico Italia-Catalogna. Di questo contesto si esamineranno soprattutto l’ottica culturale e il filtro intellettuale dal quale gli studiosi di volta in volta presero l’avvio, si cercheranno di comprendere le ragioni storiche che li condussero a schierarsi e a prendere posizione per un’idea o per l’altra, e si illustreranno i modi in cui tale tendenza storiografica si diffuse in Catalogna e in Europa.

GIANLUCA AMERI Una storiografia in divenire: il collezionismo e la ricezione degli smalti en ronde-bosse in Italia

Gli studi sullo smalto en ronde-bosse, vertice qualitativo della produzione artistica europea nell’età del “Gotico internazionale”, hanno conosciuto recentemente un infittirsi di pubblicazioni e iniziative scientifiche, come mostre e convegni. In Italia, l’intervento di specialisti nell’analisi di diverse tecniche (oreficeria, pittura, scultura, miniatura) ha ampliato il discorso a un ventaglio di proposte critiche articolate, in dialogo con le analoghe esperienze internazionali. Questa apertura è sollecitata dalla qualità dei manufatti smaltati e dalla loro mobilità a scala europea, dove vengono acquistati o donati nel tempo passando di corte in corte, da un mecenate all’altro, e da collezione a collezione. Quello italiano sembra un caso emblematico, sia per quanto riguarda il collezionismo, sia per quanto concerne la ricezione degli smalti en ronde-bosse: questi materiali si ritrovano intorno al 1400 negli inventari dei Visconti, e poi alle corti degli Este, dei Savoia, dei Medici, della Curia pontificia, dove offrono motivi di riflessione ad artisti quali Gentile da Fabriano, Pisanello, Luca Della Robbia e altri. Apprezzati dai Papi e dai loro orafi – come il Cellini – ancora in pieno Cinquecento, sono rivalutati e imitati nell’Ottocento, per essere acquistati oggi da prestigiose istituzioni museali. L’analisi delle opere rimaste e delle fonti inventariali, nel delineare un quadro ricco e variegato sul piano culturale come su quello geografico, indica nuove direzioni di indagine – tanto sui rapporti con le altre arti, quanto sul collezionismo presso corti come quella dei Gonzaga e non solo – prospettando una avvincente storiografia “in divenire”, le cui pagine già scritte fanno intuire l’importanza, la ricchezza e il fascino delle tante ancora de scrivere. MICHELE BACCI L'arte delle società miste del Levante medievale: tradizioni storiografiche a confronto

Il mio intento è offrire un percorso relativo alle interpretazioni che le diverse storiografie (francese, inglese, greca, americana, armena) hanno dato dell'arte del Levante tardomedievale (Cipro, Cilicia, Palestina, Libano) enfatizzando ora l'una ora l'altra tradizione artistica. Nella fatti specie vorrei porre in luce quanto spesso finalità politiche si siano sovrapposte all'interpretazione dei fatti artistici e quanto la costruzione di singole storie delle arti delle singole comunità del Levante sia servita a dar forma alla loro identità storica. A questo sarà accompagnata la presentazione di un caso singolare di compresenza di stili e schemi iconografici di diversa origine culturale all'interno dello stesso edificio (la cosiddetta chiesa dei Nestoriani di Famagosta, sec. XIV) che metterà in luce la complessità dei problemi di interpretazione delle manifestazioni artistiche nelle società miste medievali. ANTONELLA BALLARDINI Scultura per l’arredo liturgico a Roma: tra modelli paleocristiani e Flechtwerk

In età carolingia a Roma e nel Patrimonium Petri la riproposizione dei modelli paleocristiani nell’architettura e nella decorazione degli edifici di culto coincide con lo sviluppo e la diffusione della decorazione a intreccio nell’arredo liturgico. Nel passaggio tra VIII e IX secolo, il presbiterio delle basiliche romane e degli antichi tituli di rinnovata fondazione vengono dotati di recinzioni liturgiche che rielaborano creativamente gli schemi compositivi “paleocristiani” e ne introducono dei nuovi trasformando il nastro vimineo a Kerbschnitt nel nuovo linguaggio della scultura: i pontificati di Leone III e di Pasquale I costituiscono il momento decisivo dell’incontro tra passato e presente e

della formalizzazione di un linguaggio “romano” della scultura orientato agli ideali della renovatio. XAVIER BARRAL I ALTET Francia e arete medievale: le contraddizioni di un percorso storiografico

L'intervento si propone di riconsiderare criticamente la storia della storiografia dell'arte medievale in Francia, prendendo come primo termine cronologico il secolo d'oro. Particolare attenzione sarà prestata alle origini, e soprattutto al tema delle relazioni (o meglio della reciproca ricezione) che gli eruditi francesi intrecciarono con gli intellettuali italiani tra Sei e Settecento (in special modo Muratori). Su questa ineludibile base storiografica si analizzeranno poi le grandi tendenze dell'Ottocento francese e si metteranno in rilievo i punti nodali di queste correnti di pensiero, fino ad arrivare allo “spartiacque” Mâle, la cui opera segnerà il passaggio al Novecento. In quest'ottica, si sottolineerà l'aprirsi di nuove contraddizioni che segneranno la storia dell'arte medievale francese fino ai nostri giorni, puntando su alcuni esempi monografici tra arte e storia, come la Broderie di Bayeux, il Saint-Sernin di Toulouse e la facciata di Notre-Dame di Parigi. ROBERTO BARTALINI «Segnori al tutto d’Arezzo». Alcune considerazioni sulla committenza dei Tarlati

All’indomani della morte del vescovo Guido Tarlati (nell’ottobre del 1327), acclamato nel 1321 signore a vita di Arezzo, la potente consorteria dei Tarlati di Pietramala s’impadronisce delle redini del potere cittadino, introducendo modifiche statutarie che comportano l’instaurazione di nuove magistrature (i Defensores civitatis), le quali permettono ai Tarlati di assumere saldamente tutti i poteri e le prerogative già del vescovo-signore.

È il tentativo – forti del peso politico e militare già del vescovo Guido e attestandosi quali funzionali strumenti della politica imperiale in Italia – di insediare ad Arezzo una signoria familiare. Tale signoria s’infrangerà nel giro di appena un decennio: un decennio, tuttavia, di rilievo nella storia istituzionale, politica e culturale di Arezzo, che non ha avuto adeguato riscontro sul piano storiografico.

Entro tale disegno anche le iniziative di committenza architettonica e artistica hanno una loro piena funzionalità. Nel quadro storico che è loro proprio, si proverà a ricostruire gli interventi dei Pietramala riguardo alla città e le strategie della loro committenza privata, che in un breve volgere di anni riuscì quasi a trasformare la cattedrale cittadina in un mausoleo familiare. JEAN-PIERRE CAILLET La posizione delle arti cosidetti «minori» nella storiografia dell’arte medievale: le tappe d’un processo di rivalutazione

Fu Aloïs Riegl, nella sua Spätrömische Kunstindustrie, il primo ad includere gli oggetti solitamente classificati nella categoria delle «arti applicate» (o «arti industriali», «arti minori» comunque, il più spesso considerati sotto l’aspetto puramente tecnico dai specialisti di allora) in un panorama ragionato dell’evoluzione artistica dall’Antichità fino alla soglia del Medio Evo. Però, fu ancora mediante l’analisi prealabile delle realizzazioni pertinenti alle categorie nobile (architettura, scultura, pittura) che ci furono precisati gli aspetti maggiori del processo.

Il presente contributo si propone di oppore a questo tipo di procedimento, sempre determinato dall’ascendente d’una gerarchia tradizionale delle arti, quello che doveva cominciare a prevalere verso la metà del secolo XX. L’interesse di alcuni

ricercatori per il primo Medio Evo, per il quale le considerevole perdute nel campo monumentale indurono a riportare buona parte dell’attenzione alle realizzazioni mobiliari, si rivela decisivo per la rivalutazione di quest’ultime. Si focalizzara poi sull’apporto di Marie-Madeleine Gauthier, la quale, nel quadro di partenza dei suoi studi dell’oreficeria a smalti, pienamente sviluppò le investigazioni sulle circostanze della committenza e la destinazione delle opere, nonché sull’iconografia che incorporevano – cioè, lo studio veramente esauriente dal quale godevano prima le sole arti «maggiori». JORDI CAMPS I SÒRIA Il chiostro de la cattedrale di Tarragona. Un esempio della internazionalità e dell’ecletticismo della scultura del XIII secolo nella Catalogna

Il chiostro della cattedrale di Tarragona è una delle più importanti imprese archittetoniche ed artistiche dei primi decenni del XIII secolo in Catalogna, coevo alla costruzione della stessa chiesa della cattedrale. La documentazione che si conosce tradizionalmente ci permette suporre che intorno al 1215 la sua officina sarebbe attiva, anche se è dificile determinare il momento in cui è stata chiusa. Possiamo situare i suoi promotori nell’ambiente propiziato della construzione, nello stesso periodo, altre imprese anche molto ambiziose, tali come la Seu Vella de Lleida oppure i monasteri cistercensi di Poblet, Santes Creus e Vallbona de les Monges.

Il suo programma iconografico concentra la tematica istoriata nei capitelli di tre punti specifichi delle gallerie, dov’anche si sviluppa una grande varietà di motivi figurativi (lotta, bestiario, etc.), vegetali e geometrici, concretamente nelle imposte. Comunque, nei capitelli spica una impostazione austera degli insiemi cistercensi. Questo risponde ad un ampio bagaglio di repertori, che ogni tanto, ha dei rapporti con i precedenti catalani oppure dell’area di Languedoc. Il trattamento delle scene e dei personaggi ci situa dentro un panoramma che ricorda le apportazioni intorno al 1200, d’accordo ad altri insiemi dell’epoca. Inoltre alle analogie con gli esempi catalani e di Languedoc, sono notevoli i punti di somiglianze con alcune oppere dei scultori attivi in Toscana come, ad esempio, Biduino. La conferenza anche tentarà di far vedere questi punti di affinità ed impostare i motivi delle medesime analogie. SILVANA CASARTELLI NOVELLI <<Organicità e astrazione>>: statuto e funzione del linguaggio altomedievale delle immagini alla nuova luce della “macrostoria del segnico”

Sono trascorsi cinquant’anni da quando, nel 1956, la neonata casa Editrice Feltrinelli pubblicava il celebre saggio di Ranuccio Bianchi Bandinelli dal titolo Organicità e astrazione, meritamente riproposto nel 2005 dall’Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte all’attenzione degli studi storico-artistici e in particolare agli studi sullo statuto e funzione del linguaggio delle immagini nella “invenzione del Medioevo”1 e nella nascita dell’Europa.

Nel quale saggio, ricordiamo, dalla lezione del linguaggio anorganico/astratto della monetazione celtica quale “scelta formale”, Bianchi Bandinelli portava l’analisi “sperimentale” al problema generale del rapporto arte-realtà, non solo delle immagini “realistiche” ma altresì delle immagini “astratte”; assumendo di “esaminare la genesi interna delle forme dell’arte e possibilmente di esaminarne la storia” nel panorama globale che va dalla Preistoria fino alla famosa sequenza degli alberi di Mondrian e alle opere dei massimi maestri dell’astrattismo del primo Novecento.

Da cui l’affatto nuova lezione che l’archeologo e storico dell’arte classica Bianchi Bandinelli ha avanzato nel merito della “cosidetta <<decadenza della forma>> che interessa il trapasso fra mondo antico e mondo medievale” non quale fenomeno negativo, portato “provinciale” o “barbarico” che nella caduta di “rappresentatività”

riduce la funzione dell’immagine a mera “decorazione”; bensì all’opposto fenomeno positivo in quanto, omologamente al “geometrico greco”, manifestazioni artistiche di forma “astratta” che si sono date storicamente quali espressioni “aurorali” di una nuova civiltà.

E ciò, vale rilevare, alla metà del ‘900; quando, nel merito delle creazioni “aurorali” assolute e primarie del linguaggio visuale/figurativo, Bianchi Bandinelli non poteva che rifarsi al quadro conoscitivo e critico contemporaneo, che ne fissava la nascita nel possente “realismo magdaleniano” esploso nei tempora ignota della Preistoria 17.000-11.000 anni a.C.

Ma la nuova macrostoria del segnico che, alla luce della rivoluzione epistemologica della “nouvelle histoire” e della teoria del segno e del testo, ha preso campo nel secondo ‘900 per il concorso sempre più attrezzato e fecondo delle scienze umane dedicate a interrogare le “Origini dell’arte e della concettualità”2, ha sovvertito completamente il panorama storico generale in cui ancora fidava Bianchi Bandinelli; fondando la nuova “storia della Preistoria” a partire dagli astratti segni-simboli nei quali, circa 40.000 anni fa, l’Homo simbolicus ha iniziato a dare corpo e forma (e ‘memoria’) alla sua ricerca della “modellizzazione” del mondo, alla definizione della “sacralità” dello spazio della vita sociale, al disegno escatologico del “dopo morto vivere ancora”, ben avanti il sorgere dell’arte magdaleniana.

Da cui la lezione dello statuto “simbolico”3 fondativo e distintivo del “segnico in generale”4, quindi omologamente delle immagini di codice astratto e delle immagini di codice organico; e, nel nostro specifico, del linguaggio “astrattivo” dell’arte altomedievale5, eminentemente nell’arte del libro, dell’oreficeria e della scultura del nuovo “sacro” cristiano.

Quale ha preso avvio dall’età e dall’opera di Gregorio Magno, il primo “papa monaco” della Chiesa di Roma, nella funzione di significare e comunicare il messaggio ‘apocalittico’, o della Nuova Rivelazione, a tutti gli uomini <<di ogni tribù, lingua, popolo e nazione>> (Ap 5,9 ) “qui legere in codicibus non valent”. ROMA, 23,V, 07 1 L. G. G. RICCI (a cura di), Gregorio Magno e l’invenzione del Medioevo, Firenze 2006. 2 E. ANATI, Origini dell’arte e della concettualità, Milano 1989. 3 J. VIDAL, Sacré, symbole, créativité, Centre d’Histoire des Religions, Louvain-la-Neuve 1990 (ed. it. Sacro, simbolo, creatività, Milano 1992). 4 A. LEROI-GOURHAN, Le geste et la parole. I, Technique et langage, Paris 1964; II, La mémoire et les rythmes, Paris 1965 ( ed. it. Il gesto e la parola. I, Tecnica e linguaggio; II, La memoria e i ritmi, Torino 1977). 5 cfr. A. M. ROMANINI, Conclusione. Il concetto di classico e l’Alto Medioevo, in Magistra Barbaritas, collana di studi sull’Italia antica “Antica Mater” a cura di G. PUGLIESE CARRATELLI, vol.I, MILANO 1984, pp. 663-680. MANUEL CASTIÑEIRAS GONZÀLES Tre miti storiografici sul romanico ispanico: Catalogna, il cammino di Santiago e il fascino dell’Islam

Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento vengono sviluppati i tre grandi soggetti dello studio del romanico nella Penisola Iberica. L'idea di un romanico catalano diverso e strettamente collegato alle rivendicazioni nazionalistiche è la base del discorso di Ll. Domènech i Montaner o J. Puig i Cadafalch, la cui visione ha condizionato finora la percezione della Catalogna romanica. Dal canto suo, la scoperta estetica della Compostella medievale, la cui origine si trova negli scrittori locali e negli viaggiatori romantici inglesi, ebbe un grande sviluppo nel Novecento sotto il termine arte di pellegrinaggio (A. K. Porter, J. K. Conant, E. Lambert), diventato il deus ex machina dell'arte romanica spagnola (S. Moralejo). Inoltre la mitica pluralità culturale dei regni ispanici nei tempi del Cid e l'esotica visione d'Al-Andalus come paradigma della storia medievale spagnola hanno contribuito a creare un'immagine molto particolare della formazione e dell'evoluzione della stessa arte cristiana (M. Gómez Moreno, Torres Balbás, Chueca Goitia, Gaya Nuño). Perciò, i luoghi comuni

sull'originalità, sulla diversità raziale e addirittura sul genio del romanico ispanico hanno fornito la leterattura artistica nazionale ma anche estraniera (G. Gaillard, J. Williams, J. Dodds). LAURA CAVAZZINI Il Maestro della Loggia degli Osii: ultimo epigono della tradizione campionese?

Il Maestro della Loggia degli Osii deriva il suo nome convenzionale da una serie di nove sculture che ornavano appunto in origine (oggi sono sostituite da copie) la milanese Loggia degli Osii, la cui esecuzione fu terminata nel 1316. Si tratta di figure ad un tempo ruvide e possenti, accese nei volti da un'aspra espressività, animate da una gestualità lenta e quasi inceppata. Per spiegare le radici culturali di questo artista, gli studiosi hanno evocato a più riprese l’influenza di Guido Bigarelli da Como e dei cosiddetti maestri campionesi, calando implicitamente il caposcuola del Trecento scultoreo di Lombardia in quella congiuntura critica individuata acutamente da Geza De Francovich alla metà del secolo scorso, che troverebbe in tal modo il suo epilogo a date estremamente avanzate. Qualche nuova osservazione sull’attività del Mestro degli Osii e sugli itinerari di Guido Bigarelli potrebbe gettare luce su questo legame, che potè essere solo ideale, visto lo scarto di generazione tra i due scultori, offrendo inoltre l’occasione per un ponderato riesame del significato critico conferito da De Francovich alla definizione della cultura campionese, troppo spesso privata, negli interventi recenti, del suo preciso significato stilistico per divenire piuttosto una semplice indicazione di provenienza geografica. ELISABETTA CIONI Appunti per una storia dell’oreficeria a Siena nella seconda metà del Trecento. La croce del Cleveland Museum of Art

La comunicazione si articolerà in due parti. Nella prima si intende delineare molto brevemente la situazione che si verifica a Siena, nel settore della produzione orafa, a partire dalla metà del Trecento circa con alcuni esempi di opere realizzate sia intorno alla fine del quarto decennio – come il calice con la firma di Giacomo di Guerrino (Chicago, The Martin d’Arcy Gallery of Art, Loyola University) o il reliquiario a busto di San Flaviano dello stesso orafo (Montefiascone, cattedrale) – sia nel corso del sesto decennio del secolo come il Reliquiario donato alla cattedrale di Toledo dal cardinale Gil de Albornoz sottoscritto dagli orafi Andrea di Petruccio e Giacomo di Tondino. In questa prima parte si farà cenno anche alla situazione storica e ad alcune problematiche di carattere generale. Si intende proporre quindi una approfondita analisi della croce decorata con smalti champlevés proveniente da Trequanda e ora nel Cleveland Museum of Art nel tentativo di giungere ad una sua definizione quanto più precisa possibile soprattutto – ma non solo – attraverso il confronto con altre opere di oreficeria precedenti o presso a poco contemporanee. ROBERTO CORONEO Problematica delle chiese biabsidate

Le chiese medievali a due absidi differiscono da quelle ad absidi opposte per il fatto che i due invasi semicircolari si collocano in linea e non alle opposte estremità dell'aula. Quest'ultima può essere mononavata o divisa in due navate, di uguale o differente larghezza, talché anche le due absidi possono presentarsi di identico diametro oppure l'una più ampia dell'altra. In ogni caso nelle autentiche chiese biabsidate l'aula mononavata o binavata e le due absidi risultano coeve e non frutto di aggiunte successive all'impianto. All'interno di questa tipologia le chiese biabsidate si

distribuiscono entro un'area geografica assai vasta (dalla Catalogna all'Armenia) e si concentrano in due periodi: il primo fra il V e il VI secolo; il secondo fra il IX e il XIV secolo. La storiografia ha proposto varie interpretazioni della presenza di due absidi, nessuna delle quali soddisfacente in quanto non applicabile in maniera univoca a tutti gli esempi documentati. Sulla linea della casistica e delle proposte di Georges Dimitrokallis (nella monografia in lingua greca Oi dikonchoi christianikoi naoi, Athenai, Grigoris, 1976) sembra da abbandonare la ricerca di un'unica chiave interpretativa, in favore di una pluralità di motivazioni, dipendenti di volta in volta da esigenze di natura funzionale, liturgica, culturale. ENRICA COZZI “Da Poppone a Bertrando di Saint-Genies. Aspetti della committenza artistica nel Patriarcato di Aquileia”

Il Patriarcato di Aquileia ebbe, lungo tutti i secoli del Medioevo, un ruolo storicamente rilevante: e – a livello di committenza – i patriarchi svolsero spesso un ruolo-guida in vari campi della produzione artistica. L’attenzione verrà focalizzata su alcune opere particolarmente significative, in un arco di tempo che va dalla tradizione ottoniana (1031 circa: affreschi voluti da Poppone per il catino absidale della basilica di Aquileia), al periodo gotico (1350: fine di Bertrando di Saint-Genies, il patriarca caorsino voluto dalla curia avignonese). L’analisi toccherà vari aspetti (architettura, scultura, pittura, miniatura, oreficeria), scelti nell’ottica di evidenziare il rapporto molto stretto che sempre intercorre tra “arti e storia” in un ampio ventaglio di occorrenze, modalità, esiti qualitativi. FABRIZIO CRIVELLO Ancora uno smalto del falsario di Botkin?

È recente emerso da una collezione privata uno smalto cloisonné raffigurante Cristo benedicente. La placca ripete fin nei particolari uno degli smalti presenti sulla Pala d'Oro di Venezia. Per spiegare le stringenti corrispondenze tra le due opere, esse sono state in un primo momento ritenute coeve, uscite dallo stesso atelier costantinopolitano nella seconda metà dell'XI secolo; tuttavia in base ad attenti confronti appare più probabile che smalto in collezione privata sia una contraffazione tardo ottocentesca della placca veneziana. ANDREA DE MARCHI Il tramezzo e il pulpito di Santa Caterina a Treviso. Cronologia e funzione delle pitture murali in rapporto allo sviluppo della fabbrica architettonica

La fabbrica della chiesa trevigiana dei Servi di Maria, insediatisi nel 1346 sul luogo delle case dei da Camino, conobbe una decisa ripresa negli anni precedenti al capitolo generale del 1399. Le complesse vicende architettoniche che accompagnarono l’abolizione del tramezzo e della facciata in legno provvisori, e l’erezione di un nuovo tramezzo in muratura con quattro cappelle addossate, permettono di seriare e contestualizzare meglio alcune pitture murali di straordinaria qualità, a cavallo fra Tre e Quattrocento, in cui l’eredità di Tommaso da Modena e del neogiottismo padano cede il passo all’influenza di Gentile da Fabriano, tanto da adombrare gli inizi ancora problematici di Pisanello. I lacerti superstiti a prima vista possono sembrare frutto di sporadiche iniziative votive, mentre assumono un altro e più organico senso se inseriti all’interno di scansioni architettoniche ora smantellate, ma ricostruibili sulla base di varie tracce indiziarie. Particolare attenzione merita la

decorazione illusionistica organizzata attorno ad un pulpito, che era svincolato dalla funzione canonica in rapporto al coro e destinato alla predicazione nell’aula dei laici, come quello eretto negli stessi anni in San Fermo maggiore a Verona per iniziativa di Barnaba da Morano. CLARIO DI FABIO Il prezzo e il riconoscimento sociale del lavoro dello scultore nell’Italia del primo Trecento. Alcuni casi

L’assenza di studi sistematici e comparativi sul prezzo dei beni che oggi diremmo “artistici” in età bassomedievale frappone un ostacolo non irrilevante alla valutazione dei meccanismi e delle procedure della loro produzione e impedisce una comprensione piena del valore effettivo ad essi attribuito dalla società del tempo. “Valore sociale” che era simboleggiato e misurato, in buona parte, proprio dal prezzo pagato dai committenti per la manodopera dell’artefice. Per la sua prestazione professionale, in termini moderni. Per la sua specifica ars, in definitiva. Era pagata “tanto”, insomma, la scultura, o “poco”? E quanto, rispetto agli altri prodotti “artistici”?

Riconoscimento monetario del lavoro scultoreo, qualità e originalità personalizzata delle opere, consapevolezza e disagio dell’artefice davanti al mancato, o parziale riconoscimento del suo “valore” (paradigmatico il caso di Giovanni Pisano) sono aspetti intrecciati di una dialettica in cui gli elementi più critici ed eloquenti appaiono proprio la misurazione – in termini di puro salario, in qualche caso; in modi più comprensivi, in altri – del valore attribuito al contenuto lavorativo di quel processo e la mancanza di un vero ed esplicito riconocimento sociale e culturale del ruolo dello scultore, testimoniata dai punti di vista (e dai silenzi) di autorevoli intellettuali coevi. Tappa di un percorso di ricerca che dovrà trovare successivi sviluppi, questo contributo analizza alcuni casi significativi, temporalmente inscritti nell’ “età di Giotto”, che è anche – per ironia della storia – anche una delle più splendide “età della scultura” che l’Europa abbia conosciuto. MARIA MONICA DONATO Frammenti di “Verità”. Un affresco nel palazzo già degli Anziani di Pisa, un modello perduto e i tempi lunghi dell’iconografia giudiziaria

Nel 1980, nel corso di lavori di ristrutturazione al Palazzo dei Cavalieri di Pisa – frutto della trasformazione vasariana dell’antico Palazzo degli Anziani e ora sede della Scuola Normale – venne in luce un bel frammento d’affresco tardogotico: la parte superiore d’una figura femminile nuda, la cui identità è dichiarata da un cartiglio in rima. Restaurato, il frammento si vede ora, protetto da un vetro, a livello del pavimento in un’aula della Scuola e, a parte una mia breve segnalazione (1997) e l’uso a mo’ di logo nel sito della Classe di Lettere, resta inedito.

In base allo studio storico, morfologico, iconografico e paleografico del lacerto si tenta 1) di stabilire il soggetto, un’allegoria del conflitto fra Verità e Bugia; 2) di fissare la datazione, poco successiva alla conquista fiorentina di Pisa (1406); 3) di ragionare sull’area in cui cercare l’artefice. 4) Soprattutto ci si propone di ricostruire, incrociando fonti letterarie e monumentali, la nascita e la diffusione del tema, pensato per l’arredo figurativo di tribunali: a partire da un perduto, insigne modello trecentesco fiorentino (‘secolarizzazione’ d’un tema già dell’arte sacra romanica), la storia ‘profana’ della Verità si segue fino al XVI sec. in ambiti secolari-giudiziari soprattutto repubblicani, attraverso tappe che, mentre ne attestano la fortuna, consentono una parziale rievocazione dei passaggi perduti.

Così impostata, la ‘micro-storia’ della Verità pisana può costituire un significativo case study per la storia dell’arte politico-giudiziaria, del suo diramarsi fra

centri e periferie e del suo rapporto con l’arte sacra, nonché per la messa a fuoco dei problemi di metodo che – dati la decimazione e l’oblio di tanti testimoni – si oppongono a tutt’oggi a un suo inquadramento compiuto. MARINA FALLA CASTELFRANCHI La decorazione pittorica d’epoca macedone della chiesa presso Torre Santa Susanna (Br), e un’ipotesi sul committente

Presso la più importante direttrice di traffico istmica dell’antica Calabria, che collegava l’Adriatico allo Ionio, in un vico tardoantico, si eleva un interessante edificio di culto del pieno VI sec., in origine una basilica a tre navate che, in epoca alltomedioevale, fu trasformata, stando ad un mio recente lavoro, in chiesa a cupola in asse, tipologia di origine beneventana che nella regione ebbe vasta fortuna fino all’epoca romanica. In sincronia con le significative trasformazioni che interessarono innanzitutto le strutture, tra la fine del IX e gli inizi del X sec., la chiesa ricevette una decorazione pittorica di segno bizantino, coagulata in specie nell’abside, che si colloca all’indomani della conquista di Basilio I il Macedone (867-86), e che rappresenta, insieme con una testa maschile rinvenuta in una cappella bizantina ubicata nel castello di Santa Severina (Cs), la testimonianza più alta di pittura di direzione macedone in Italia meridionale. La presenza di un ritratto di un funzionario bizantino anonimo campito sotto la seconda cupola, che si salda alla bella iscrizione in greco in maiuscola ogivale che corre sotto il catino, consente di identificarlo, con molte probabilità, come si dirà, con il committente, un alto funzionario bizantino residente nella vicina Oria ed ivi insediato, dallo stesso Basilio I, alla fine del IX sec. ERIC FERNIE Il Medioevo europeo ed inglese Parte prima: l’idea di Medioevo

I periodi storici non sono più reali dei secondi o dei secoli ma, come ha giustamente affermato Heinrich Wölfflin, ci aiutano a rimanere sani di mente. Allo stesso modo le etichette che ci servono ad identificare un’epoca sono per la maggior parte semplici convenzioni; alcune, addirittura, non sono che cifre, termini coniati in altri periodi e senza alcun reale legame con il loro soggetto di studio. Esempi in tal senso vanno dal termine architettonico ‘gotico’, a ‘Medioevo’, derivato dall’idea petrarchiana e vasariana delle tre età ed applicato a mille supposti anni di squallore e barbarie tra quelle due cime della civiltà occidentale rappresentate dall’Antichità classica e dal Rinascimento. Mentre però il termine ‘gotico’ è staccato dal suo soggetto e non troppo d’intralcio al nostro pensiero, la parola ‘Medioevo’, in quanto termine d’uso ricorrente nel nostro panorama storico e linguistico, ha il potere di influire sull’idea comune di un intero periodo. Esempi nel campo delle scienze, del costume e della rappresentazione nei secoli immediatamente precedenti il Rinascimento, ed altri ancora nell’ambito dell’economia e della tecnica fino all’VII secolo, sembrano indicare che, al posto delle tre suddette età, ci troveremmo davanti ad un modello che ne implica solo due. Si tratterebbe, nel primo caso, dell’Antichità classica, la cui fine contrassegna la più radicale e duratura rottura nella storia dell’Occidente; in secondo luogo, dell’età post-antica, o moderna. A sua volta, quest’ultima può esser suddivisa in vari periodi che includerebbero, innanzi tutto, il Rinascimento. È nostra convinzione, però, che tale suddivisione rappresenti poca cosa rispetto all’enorme cambiamento contrassegnato dalla fine del periodo antico. Parte seconda: il Medioevo inglese a) La definizione del periodo nel contesto inglese

Fin di recente, il Medioevo inglese era definito in maniera straordinariamente precisa, ovvero come il periodo compreso tra gli anni 1066 e 1485. Possiamo considerare la data 1485, legata all’inizio della dinastia dei Tudor, come un convenzionale termine ante quem dovuto all’arrivo della cultura rinascimentale in Inghilterra durante quel regno. La data del 1066 come termine post quem appare invece più difficile da difendere, come se a metà dell’undicesimo secolo l’Inghilterra si fosse ancora trovata nel tardo antico, con strutture e culture sviluppatesi addirittura nel VI e VII secolo. È chiaro che in realtà le società anglo-sassoni e normanne del periodo intorno al 1066 presentano talmente tanti aspetti in comune che una loro distinzione, sebbene importante, non può surgere a cerniera tra un’età storica ed un’altra. È per questo che, tanto per ciò che riguarda la fine dell’Antichità classica, quanto per quello che concerne l’inizio dell’era post-antica in Inghilterra, una data maggiormente significativa andrebbe individuata in un passato più remoto. b) L’odierna storiografia dell’arte medievale inglese Partendo dalla descrizione e dall’analisi dell’impatto e degli effetti del post-strutturalismo e della nuova Storia dell’Arte – nonché da quelle del loro recente, parziale, abbandono –, prenderemo in esame i più significativi sviluppi della disciplina negli ultimi anni. MARIA LUIGIA FOBELLI La Megale Ekklesia nelle pagine di Procopio di Cesarea

In questa relazione, dopo aver esaminato i diversi luoghi dell'opera di Procopio di Cesarea (Bella, Anecdota, De Aedificiis) in cui viene menzionata la basilica di Santa Sofia di Costantinopoli, tratterò alcuni aspetti della descrizione della chiesa contenuta nel De Aedificiis (I, 1, 20-78), soffermandomi sulla struttura e l'ordine dell'ekphrasis, le intenzionali digressioni che la intervallano e lo sguardo con cui lo storico di Giustiniano 'vede' la Grande Chiesa. TIZIANA FRANCO “Ogni parete si vede pitturata”. Storia e sfortune del sacello di San Michele presso la chiesa dei Santi Nazaro e Celso a Verona

Sono parole di Scipione Maffei riferite al sacello rupestre di San Michele presso la chiesa dei Santi Nazaro e Celso a Verona che nel XVIII secolo ancora si presentava integro, mostrando sulle sue pareti la decorazione di XII secolo e, in corrispondenza delle sue lacune, anche quella della fine del X secolo. È una testimonianza dell’interesse precoce della storiografia locale per la “grand’antichità” del luogo e per le sue pitture “rozzamente dipinte”, un interesse rinfocolato dalla scoperta, in occasione dello strappo del ciclo più recente, dell’iscrizione che datava quello più antico al 996. Tale interesse non ha però impedito il progressivo degrado del complesso e la perdita della sua integrità decorativa. L’intervento intende affrontare le travagliate vicende conservative del luogo e della sua decorazione in stretta connessione con la loro altalenante fortuna critica. JULIAN GARDNER Painting in Florence and Siena after the Cold War

The hypothesis of a fundamental change in painting in Florence and Siena as a consequence of the Black Death proposed by Millard Meiss in 1951 has come under critical attack in recent years. Important works of art have been re-dated, and new interpretations have been proposed for some of the works discussed in Meiss'

pioneering book. What has been less examined is the intellectual climate and historiographical tradition within which the hypothesis was formulated. VLADIMIR PETER GOSS Monuments of Art as Historical Documents

In our opinion art history has become much too dependent on documents provided by other historical sciences forgetting that, as lucidly pointed out by Panofsky, art monuments can also be historical documents. The corollary seems to be equally true – scholars in other disciplines are downplaying the documentary value of art. Therefore art history must come back to its primary task – a study of art forms and artistic language. Much too often, in order to appear «scientific» art historians use documents provided by political history, archeology, religious history etc., fishing for texts that would “prove” their conclusions

Of course, dynamics of art language are established with the help of firmly dated documents, nevertheless we propose that art historians first of all study the monument itself in the same way a diplomatist studies a charter, a literary historian a text, a music historian a piece of music. Having reached our conclusion we should then come back, with open eyes and minds, to enquire if our ideas could be confirmed by related disciplines.

The new Europe without borders urges a reassessment of the concepts of the global, the national, and the regional, leaving an ample room for reassessment of individual monuments as well as of cultural landscapes, which would require a new visual and intellectual sensitivity as described above. Consequences for preservation and further development of the European cultural landscape are quite obvious. Our suggestions would be illustrated by examples primarily from the area of the rural Romanesque, the art of the Crusader orders, the late Romanesque sculpture, and the beginnings of the Gothic in East-Central Europe. WERNER JACOBSEN La storiografia dell’arte medievale in Germania

L’intervista si preoccupa dello sviluppo di storia dell’arte medievale in Germania, particolarmente sotto l’aspetto di ricerche tedesche sull’arte italiana. La storia di storia dell’arte in Germania si può dividere in cinque grandi passi. Le prime ricerche crescevano di un’ambiente romantico e anticlassicisto. Perciò si concentrava nell’Ottocento sull’arte medievale nordica. Centro era per primo il Gotico tedesco e francese, poi anche il Romanico. L’arte italiana era per lungo tempo visto sotto l’aspetto classicisto e barocco e perciò era ignorata. Solo verso la fine del secolo, sotto l’influsso di Jakob Burckhardt, si comincava interessarsi del Rinascimento italiano. Si fondò per iniziativa privata i due Istituti tedeschi a Firenze e Roma, dove si preoccupava principalmente dal Rinascimento, non dal Medioevo (fino ad oggi). All’inizio del ventesimo secolo si cominciavano in Germania i grandi debattiti metodologici. Però questi debattiti non taccavano l’arte italiana, e a parte di questi debattiti, i italianisti si continuavano lavorare tradizionalmente, adesso sempre di più su edifici e artisti singolari. Si svilluppava un “ramo italiano” dei storici dell’arte tedeschi, un ramo che si assimilava anche metodologicamente sempre di più al modo di lavorare come i colleghi italiani, inglesi ed americani, più o meno influenzati dal sistema vasariano. Questo “ramo” italiano neanche cambiava negli anni trenta e poi, quando in Germania la storia dell’arte veniva in conflitto tra tradizionali “positivisti”, nuovi e “nazionalisti” (uno sviluppo che cominciava già dopo il 1918 ed era solo poi “utilizzato” dal regime 1933). Dopo 1945 non si toccava più l’arte tedesca ma si preoccupava sia dell’arte francese (proseguendo la grande tradizione tedesca sul Gotico francese) sia dell’arte italiana (dove si poteva senza interuzzione continuare le sue ricerche

tradizionali). Nel 1968 cose si cambiavano completamente. La nuova generazione disapprovava sia l’arte medievale (some antiquario) sia l’arte taliana (come borghese). Alle università le cattedre divenivano sempre di meno adattate all’arte medievale o all’arte italiana ma ad altri campi di ricerca, prima di tutto all’arte del Ottocento francese e tedesco. E gli Istituti tedeschi in Italia divenivano sempre di più isolati. Adesso la situazione in Germania difficile. A tante università ci mancano colleghi di specialisazione sull’arte medievale e italiana, mentre una nuova generazione mostra un nuovo interesse a questi campi di ricerca, senza aver professori che ne sono interessati. IMMACULADA LORÉS I OTZET Percorrere la scultura: nuovi approcci allo studio dei chiostri romanici catalani

L’espressione maggiore della scultura romanica catalana si registra nei chiostri, attraverso la decorazione dei quali è possibile indagare la maggior parte delle sue tappe e tendenze. In questa sede ci proponiamo di esporre alcune questioni relative allo studio della scultura dei chiostri catalani, nonché le direttrici di lavoro che abbiamo seguito. 1. I cicli narrativi presenti nei chiostri costituiscono un discorso molto frammentario, leggibile attraverso i capitelli e i rilievi dei pilastri il cui ordine corrisponde spesso a un programma perfettamente disegnato e la cui logica si spiega in relazione ai fruitori delle immagini: cioè coloro che abitavano quotidianamente i chiostri e gli spazi adiacenti. Lo studio delle topografia delle immagini ha cominciato a dare risultati molto interessanti. Nel caso di Sant Cugat del Vallès, per esempio, esiste un vincolo molto stretto tra il programma iconografico e i diversi usi e funzioni dei loggiati del chiostro e gli ambienti a cui davano accesso. La collocazione dei temi era pensata in relazione alla vita monastica e alla liturgia e ai distinti accessi al chiostro e agli spazi annessi. Nello stesso tempo, si individua l’utilizzo di temi biblici, soprattutto del Nuovo Testamento, messi al servizio di un preciso ideale monastico. 2. La riesamina degli aspetti formali della scultura, così come dei repertori decorativi e della loro circolazione, porta a una revisione delle datazioni finora basate su argomenti insufficienti. È il caso del chiostro del monastero di Ripoll, tradizionalmente datato intorno al 1180 per la presenza del rilievo dell’Abate Ramon de Berga. Questa cronologia, eccessivamente tardiva, ha condizionato a sua volta la datazione di una parte molto importante della scultura catalana della seconda metà del XII secolo, soprattutto delle opere della cattedrale di Vic, del chiostro della cattedrale di Elna e di quello di Cornellà de Conflent, entrambi nella regione del Rosselló. 3. Il vincolo con la regione della Languedoc è praticamente il denominatore comune della tradizione plastica romanica catalana, con un’incidenza varia e che in alcuni casi si spiega con l’arrivo di artisti stranieri, soprattutto provenienti dalla zona di Tolosa. L’influenza della bottega di Gilabertus e della terza bottega della Daurade al sud dei Pirenei, in alcuni casi è così immediata e così formalmente vicina, da far pensare allo spostamento di artisti di Tolosa: per esempio nei chiostri di Solsona e della Cattedrale di Girona. VINNI LUCHERINI Dunstan di Canterbury (958-988) e il mito dell’artista-santo nel Medioevo occidentale

La cinque biografie medievali dell’arcivescovo di Canterbury Dunstan, databili tra il X e il XII secolo, riportano una notizia degna di particolare attenzione: in esse si afferma che il giovane Dunstan, prima di divenire arcivescovo, aveva coltivato molteplici arti fabbrili, riuscendo al meglio in ognuna di esse, tanto da diventare già

celebre per le sue abilità artistiche. La notizia è di particolare interesse perché le vite in questione sono di fatto delle agiografie, visto che Dunstan fu canonizzato immediatamente dopo la morte: l’esaltazione della sua esperienza artistica deve dunque essere considerata elemento costitutivo della formazione del futuro santo.

L’intervento si propone di riattraversare criticamente le fonti anglosassoni nelle quali l’informazione è attestata e di contestualizzare quanto da esse emerge nella complessa concezione medievale del ruolo dell’artifex. In particolar modo nella relazione si spiegherà la genesi del mito storiografico dell’artista-santo in Europa, la sua specifica funzionalità nella ricostruzione biografica di Dunstan, le modalità con cui la tradizione si è tramandata fino all’età moderna e l’uso che se ne è fatto a posteriori. SILVIA MADDALO Immagini e ideologia: riflessioni sulla tradizione iconografica del Constitutum Constantini

La redazione del Constitutum Constantini ha origine, come è noto, in ambiente pontificio, agli albori dell’età carolingia. Il falso documento che, nella forma di diploma imperiale, si voleva far risalire all’età costantiniana, promulgava la cessione da parte di Costantino a favore del vescovo di Roma dei diritti a regnare sull’orbe cristiano e proclamava, di fatto, il primato della Chiesa romana sul potere imperiale.

Il racconto della Donazione di Costantino si innesta sulla tradizione della leggenda di s. Silvestro tradìta dagli Actus Sylvestri, opera letteraria anonima, a sfondo agiografico, che narra la storia della così detta “svolta costantiniana”, e cioè della conversione al cristianesimo di Costantino, per intervento di Silvestro. La Decretalis de recipiendis, attribuita a papa Gelasio e databile al transito tra il secolo V e il secolo VI, rappresenta la prima attestazione della circolazione a Roma degli Actus, la cui origine va a intersecarsi con quella, di sorgente romana e papale, dei leggendari medievali.

Interessa qui rilevare è che gli Actus, che propongono a loro volta un tentativo di recupero e di riassemblaggio di varie tradizioni, circolanti in forma anche orale (la malattia di Costantino, la dimensione visionaria e onirica della sua conversione, l’intervento dei santi Pietro e Paolo, l’incontro decisivo con Silvestro e il battesimo ortodosso, il viaggio dell’imperatrice Elena in Terra Santa, la lotta e la vittoria sulle forze del male…), costituiscono una sorta di ‘correzione della memoria’ di matrice filocattolica, operata anche, ed è quello che si tenterà di dimostrare, al fine di creare un mitema di potere secolare cristiano, che contrasta la versione del battesimo ariano dell’imperatore da parte di Eusebio di Nicomedia, che si innestava a sua volta sulla Vita Constantini di Eusebio di Cesarea e cui, ancora oggi, viene dato ampio credito in sede storica.

Nella tradizione iconografica il racconto della Donazione di Costantino contenuto nel Constitutum si contamina, in una peculiare e suggestiva operazione di sincretismo figurativo, con episodi della Vita Constantini, per un verso, e dall’altro con gli esiti della leggenda di Silvestro, che, alla metà del Duecento, vengono riproposti dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze, mentre è significativa l’inserzione nella narrazione dei santi Pietro e Paolo, con riferimento alla origini apostoliche del papato.

La ricerca, di cui si prospettano in questa sede le linee generali, si propone di verificare il ruolo che la tradizione iconografica riveste all’interno del capolgimento di prospettiva storica e ideologica che connota la complessa tradizione testuale degli Actus; di precisare le origini di tale tradizione iconografica – tarde e circoscritte nello spazio e nel tempo: nella II metà del secolo XII, in area romana o in territori legati a Roma –, collegandole alla politica teocratica del papato riformato e postriformato, in connessione alla quale tornano a suscitare interesse la Donatio costantiniana, le storie di Silvestro e la lettura che ne offrono i testi figurativi; di fissarne le tappe più significative, che si individuano quasi esclusivamente in ambito monumetale: dall’architrave scolpito con Storie di Silvestro e Costantino, proveniente dalla chiesa pisana dedicata al santo, agli affreschi ‘politici’ dipinti nella chiesa di S. Silvestro a

Tivoli, al fregio a mosaico sul portico orientale di S. Giovanni in Laterano, al programma iconografico di spiccata valenza ideologico-politica della cappella di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati, al ciclo ad affresco della bonifaciana Loggia lateranense. FLORENCE MARGO Les cryptes romanes du Mont-saint-Michel : étude historiographique

«[Une] région terrible, [un] bolge dantesque où l’on erre comme dans un mauvais rêve, où les ombres sont les ténèbres visibles de Milton, labyrinthe suintant où gémit le vent de la grève, où crie l’oiseau marin, où blasphème le prisonnier, région tristement uniforme et ténébreuse, dont on se rappelle rien que son horreur». C’est en ces termes qu’un historien du XIXe siècle, parmi d’autres, décrivait les niveaux inférieurs de l’abbaye du Mont-Saint-Michel, alors qu’elle était encore une prison. L’imaginaire est prégnant. Une vision romantique émerge alors qui conditionnera pour des décennies le regard porté sur le monument.

La topographie du chantier, une construction autour d’un cône rocheux qui nécessita d’établir une série de constructions pour créer une assiette sommitale sur laquelle reposerait l’église abbatiale, a généré une vision erronée des espaces. Les espaces inférieurs ont été assimilés à des espaces souterrains. Et ceci d’autant plus que de nouvelles constructions étaient venues envelopper les premières au fil des siècles, s’enroulant autour d’elles dans un mouvement concentrique. En outre, une partie de ces espaces inférieurs sont des chapelles et, dans l’état actuel, des cryptes. Ce fait accentue indubitablement l’impression de souterrain. De cette perception faussée, vient le biais des recherches et leur focalisation sur des espaces clos.

Enfouies au creux des bâtiments, les cryptes étaient à l’origine largement ouvertes sur l’extérieur. La crypte Notre-Dame-sous-Terre était même une chapelle de plein air, nichée en contrebas du sommet, avant de devenir un des supports de la nef qui, au-dessus, est comme suspendue, sans aucun appui direct sur le rocher. Autour d’elle s’élevaient d’autres bâtiments que l’on ne peut deviner sans envisager le développement externe de cet espace. Pourtant c’est sans doute ici que les représentations mentales ont le plus œuvré à enfermer la recherche. L’idée de souterrain s’est doublée de celle d’archaïsme. Et la découverte d’une grossière maçonnerie de moellons alimenta tous les fantasmes. Etaient-ce les vestiges d’un cairn celtique? Les maçonneries d’une chapelle édifiée à l’image de la grotte garganesque durant le haut moyen age? L’architecte Yves Marie Marie trancha pour la seconde hypothèse, prenant le parti de présenter cette maçonnerie par une ouverture artificielle. La mise en scène archéologique acheva de concentrer les regards à l’intérieur de la chapelle Notre-Dame-sous-Terre comme à l’intérieur d’un reliquaire, alors que des études récentes montrent qu’il s’agit ici d’un travail de fondation. On ne le comprend qu’en envisageant les dimensions extérieures.

L’étude historiographique est donc le double nécessaire de l’analyse archéologique au Mont-Saint-Michel. Elle permet de renouveler les problématiques en mettant en lumière l’importance des représentations mentales. Consciente des enjeux, l’analyse se fait alors avec un regard plus mobile. ANNA ROSA CALDERONI MASETTI "Pulpiti istoriati di età medievale: riflessioni critiche e qualche proposta"

Dopo un breve excursus sulla funzione e la struttura dei pulpiti istoriati di età medievale in ambito toscano, l'intervento si sofferma sulle più recenti pubblicazioni in proposito, dandone una lettura critica. Prosegue poi indagando sulle testimonianze relative all'esistenza, inequivocabile, di pulpiti nella Cattedrale di Genova, tentando di

ricostruirne la fisionomia, anche alla luce di alcuni resti rimastici, riconducibili con ogni probabilità a una struttura di questo tipo. MARIA RAFFAELLA MENNA Cavalieri crociati e cavalieri ‘bizantini’

Il tema del cavaliere, in particolare nell’immagine del santo cavaliere, ha particolare fortuna tra XII e XIII secolo in numerosi i cicli pittorici in area orientale, che nel corso delle indagini degli ultimi anni, si sono rivelando sempre più numerosi (Dodd 2004; Immerzel 2004). È raffigurato ripetutamente non solo all’interno in decorazioni nell’ambito di territori sotto la dominazione crociata, ma anche in territori indipendenti: in Siria (Mar Musa, Qara), Egitto, Libano, in zone dove sono molto attive e vivaci le comunità locali.

Nella relazione si intende individuare da una parte la genesi del tema del cavaliere, verificandone il tasso di “occidentalità”, dall’altra di indagare sulla linea individuata da Leroy (1971, 1974-1975) e dalla Hunt (1991) le ragioni della scelta dal punto di vista delle comunità cristiane orientali. ALESSIO MONCIATTI ‘Giottesca’: la Mostra, la categoria e il loro giudizio storico settanta anni dopo

A distanza di settanta anni della sua apertura ci si interroga sul ruolo che ricoprì per la storia dell’arte italiana, e in particolare per la storia della pittura, una mostra sovente evocata in termini epici o mitici, ma mai studiata: la Mostra giottesca che si tenne a Firenze nel 1937. Nei locali degli Uffizi, la raccolta di pittura medievale, irripetibile grazie anzitutto al fattivo appoggio del Regime, fotografava lo stato degli studi sulla pittura duecentesca e trecentesca toscana e si apprestava a segnare una tappa fondamentale nella storia degli studi che ruotavano intorno a Giotto e alla rivoluzione figurativa della fine del secolo XIII.

La Mostra fu chiamata giottesca perché «il maggior numero delle opere era formato da pre-giotteschi e post-giotteschi». L’aggettivo era da tempo diffuso e indicava una categoria critica riconoscibile, ma qual’era stato il suo impiego fino allora? che relazione aveva con il ruolo tradizionalmente riconosciuto a Giotto nella storia della pittura italiana? e, soprattutto, a cosa esattamente alludeva nel contesto specifico? Studiarne le diverse declinazioni e interpretazioni offre una chiave di lettura efficace per capire la Mostra, evidenziarne le contraddizioni, spiegarne le dissonanti reazioni. Le diverse ragioni di queste ultime risultano illuminate, e chiarita la lunga e pesante eredità storiografica. XENIA MURATOVA La storia della storia dell’arte medievale in Russia (XIX-XX secolo)

Nel suo intervento Xenia Muratova propone un panorama largo e sviluppato della storia della storia dell’arte medievale in Russia. La relazione consiste di tre parti essenziali: 1) storia del collezionismo degli oggetti medievali in Russia ( dove si tratta delle collezioni dell’arte medievale occidentale, di quelle dell’arte bizantina e di quelle dell’arte russa medievale); 2) storia della storia dell’arte bizantina e russa medievale (personaggi, mostre, autori); 3) storia della storia dell’arte medievale occidentale (arte medievale occidentale nei musei e nelle biblioteche russe; destino delle opere; studiosi, conservatori e autori).

ENRICA NERI LUSANNA Consacrare gli studi “all’arte Dedalea”. L’avvio delle ricerche sulla scultura italiana del Medioevo

Partendo dalla dichiarazione d’intenti di Leopoldo Cicognara, sintetizzata nel titolo, l’intervento prende in esame il progressivo interesse storico-critico che nasce nell’Ottocento verso la scultura del Duecento e del Trecento; e analizza esempi in cui il formarsi di collezioni di sculture, sotto la guida di illustri esperti, talvolta artisti essi stessi, non è stata soltanto occasione di mercato, ma anche conseguente veicolo di storiche operazioni museali (dalla Collezione di Ottavio Gigli, catalogata da. M. A. Migliarini e approdata al South Kensington Museum, a quella di Stefano Bardini, visitata da Wilhelm Bode per i musei di Berlino).

Tra gli storici della scultura di maggior peso, la figura di Wilhelm R. Valentiner esemplifica, agli inizi del Novecento, la sintesi di tutti questi aspetti e sarà pertanto considerata nella sua valenza di conoscitore, artista, direttore di musei, storico dell’arte. Dai suoi contributi sono scaturiti importanti raggiungimenti per la storia della scultura dell’Italia centrale, che verranno partitamente analizzati con l’ulteriore approfondimento filologico di alcune opere quali, ad esempio, il monumento dell’imperatore latino di Costantinopoli in San Francesco ad Assisi, ancora oggi al centro di un vivace dibattito. GIULIA OROFINO Femmes au foyer-femmes cloîtrées. Le donne e il revival della miniatura medievale tra Otto e Novecento

Prima di entrare a pieno titolo e con autonomia (non più in rapporto alla paleografia, alla pittura, alla documentazione storica e di costume) nella storia dell’arte, con Franz Wickhoff, e dopo gli elitari interessi antiquari e collezionistici del XVIII secolo e dei primi anni del XIX, la miniatura vive, grazie ai progressi delle tecniche di riproduzione, alla diffusione di manuali, di prodotti del fai-dai-te, di corsi amatoriali e di riviste specializzate, un fenomeno di larga diffusione, che raggiunge il suo apice alla fine dell’Ottocento.

Nel corso della seconda metà del XIX secolo il revival della miniatura medievale assume, soprattutto in Francia e in Inghilterra, una caratterizzazione sempre più ‘borghese’ e ‘domestica’, fino a diventare “l’art des femmes par excellence”, espressione di una più generale dicotomia sociale tra sfera maschile e sfera femminile, tra spazio pubblico e spazio privato, che investe anche la divisione delle arti. Sarà sempre in un ambito prevalentemente femminile, questa volta nei chiostri legati agli ambienti dell’ultramontanismo, del corporativismo cristiano e della rinascita monastica, che la miniatura sopravviverà, riconquistando un’importante funzione di legittimazione e di strumento politico, fino alla seconda Guerra mondiale. VALENTINOPACE La Maniera Greca e l’Italia: un rapporto difficile Negli anni ’40 dello scorso secolo due saggi impressero una svolta agli studi storico-artistici interssati al medioevo figurativo e al mondo bizantino: sui DOP del 1940 il saggio di Wilhelm Koehler su “Byzantine Art and the West”, su Proporzioni del 1948 il “Giudizio sul Duecento” di Roberto Longhi. Sulla scia del Koehler o, comunque, sulla base di un’educazione accademica fondata sulla storiografia tedesca, il mondo degli studi europei e statunitensi impostò una feconda stagione di ricerche che ha sostanzialmente condotto a una piena comprensione del ruolo essenziale di Bisanzio alla nascita della pittura europea, sintetizzabile dal volume delle Wrightsman lectures di

Otto Demus. In Italia invece, sulla scia di Roberto Longhi, più di una generazione di studiosi ha per così dire demonizzato Bisanzio, la cui arte è stata vista in alternativa negativa alla nuova lingua “latina”. La condanna del “neoclassicismo balcanico” di Nerezi e Sopocani, del “neoclassicismo bizantino dal IX al XIII secolo” veniva a segnare, a erigere uno spartiacque o, ancor più, un muro che, da quegli anni di Yalta sarebbe durato, nella coscienza comune e in alcuni circoli specialistici, più dello stesso muro di Berlino. La conseguenza ne è stata la sostanziale incomprensione da parte di larga e autorevole parte della storiografia italiana verso un tema e un campo di studi in cui la sua stessa collocazione territoriale avrebbe dovuto e potuto farne l’avamposto della ricerca. Solo a Padova, Bettini e la sua scuola, a Roma, Francovich svilupparono una cosciente alternativa accademica e di ricerca. Poche altre le individuali eccezioni. La relazione articolerà questo tema di carattere storiografico, affiancandovi osservazioni di specifica indagine su monumenti e/o opere nelle quali si può ribadire quanto la “maniera greca” sia stata essenziale e integrante nello sviluppo artistico della penisola. ALESSANDRA PERRICCIOLI SAGGESE L'iconografia dell'albero di Jesse nella pittura e nella miniatura dell'Italia meridionale in età angioina

L'intervento si propone di mettere a fuoco le peculiarità iconografiche dell'Albero di Jesse nella tradizione figurativa dell'Italia meridionale, in pittura e in miniatura, con particolare riferimento all'età angioina. In questo periodo, infatti, la raffigurazione della discendenza regale di Cristo, pur non raggiungendo la fortuna incontrata in Francia, trova spazio, probabilmente grazie alla presenza della dinastia angioina, oltre che in alcune bibbie miniate, in ben due episodi monumentali realizzati a distanza di circa un secolo l'uno dall'altro: l'affresco della controfacciata della Cappella di San Paolo nella Cattedrale, commissionato dall'arcivescovo Umberto d'Ormont a Lello da Orvieto prima del 1320, e l'affresco della cappelletta di Sant'Antonio di Sant'Angelo d'Alife in provincia di Caserta. FLORENCE PIAT «Les stalles médiévales de l’ancien Duché de Bretagne (XIVe-XVIe siècle): une présentation»

Les stalles médiévales de l’ancien duché de Bretagne représentent un corpus peu connu et largement sous-exploité. En effet, malgré l’importance de leur nombre – dix ensembles, soit plus de 300 sièges – et leur qualité iconographique autant que stylistique, ces stalles n’ont encore jamais fait l’objet d’une étude d’ensemble. Notre thèse propose donc de recenser dans un premier temps ce type de mobilier religieux. Cet inventaire, qui se fait en partenariat avec l’institution de l’Inventaire Général des Monuments et Richesses de France, est systématisé par la création d’une base de données, consultable sur Internet et qui propose d’accéder à toutes les représentations des miséricordes.

La création de cet outil offre des avantages multiples et sert de base à une étude élargie sur les stalles en Bretagne. Nous nous intéressons ainsi aux mécanismes de commande et aux rapports entre les commanditaires et les sculpteurs via les contrats et comptes de Fabrique. La question de l’iconographie des stalles est évidemment centrale et implique qu’on l’aborde de différents points de vue: les rapports qu’elle entretient avec la liturgie (et donc les questions de la fonction de l’image), les modèles et les programmes mis en œuvre, les sources multiples de cette iconographie, les sujets qu’elle aborde, etc. Bien entendu, le contexte de création est fondamental, particulièrement dans des ensembles mêlant des thématiques issues des répertoires du Gothique international et de la première Renaissance.

La communication se propose donc d’être une présentation, non exhaustive, des stalles médiévales bretonnes, de leurs spécificités autant que de leur implication dans la création artistique en Occident à la fin du Moyen Âge. SIMONE PIAZZA Pittura “beneventana”? Questioni storiografiche e nuove acquisizioni

Nell’ambito del convegno si intende presentare i risultati di un recente studio rivolto ad alcune testimonianze pittoriche altomedievali della provincia di Benevento e al tempo stesso interrogarsi sul loro ambito artistico-culturale. Con il libro intitolato Beneventanische Malerei, del 1968, Hans Belting offriva un quadro di insieme su pitture, databili per lo più fra VIII e XII secolo, disseminate all’interno di un’area corrispondente all’incirca all’odierna Campania e appartenenti a contesti spesso di difficile accesso o di ardua lettura: dalla Chiesa dell’Angelo di Olevano sul Tusciano all’abside della basilica dell’Annunziata di Prata, dalle Grotte dei Santi e delle Fornelle a Calvi alle cripte di San Michele a Corte di Capua e dei Santi Martiri di Cimitile. La scelta del titolo, “Pittura beneventana”, tradiva l’ipotesi di un linguaggio pittorico che sarebbe stato messo a punto nella capitale del ducato longobardo, irradiandosi nel territorio circostante e protraendosi ben oltre la soglia dell’anno Mille grazie al perdurare di conoscenze artistiche all’interno dei cantieri. La teoria di Belting entrava nel vivo di un dibattito critico innescato dall’esigenza di assegnare una definizione di insieme ai casi pittorici sopramenzionati, in precedenza considerati espressione di un’arte “benedettina” (Bertaux 1903) o “benedettino-cassinese” (Cilento 1966), e in seguito assorbiti nella voce “beneventano-cassinese” dell’Enciclopedia dell’Arte Medievale (Aceto 1992). Le novità dello studio sul campo offrono l’opportunità di ridiscutere l’annosa, ma sempre attuale, questione storiografica. ARTURO CARLO QUINTAVALLE “ L'éveil de la sculpture italienne. La sculpture romane dans l'Italie du Nord ”?

Il titolo, salvo l’interrogativo finale che ho aggiunto, è quello del noto volume pubblicato nel 1945 da René Jullian, allievo di Henry Focillon. Ma davvero agli inizi del XII secolo la scultura nell’Italia del nord -si riveglia-? Ed è corretto distinguere la scultura dell’Italia settentrionale dalla scultura (e dalla architettura aggiungerei) nel resto della penisola? Ed ha senso l’aggettivo “italienne”, italiana, per questa stessa arte?

Il problema storico della architettura e della scultura detta “romanica” al settentrione è dei più dibattuti e le divergenze fra gli storici dell’arte muovono da una serie di presupposti dei quali si deve dimostrare la correttezza: antecedenza della scultura in Francia rispetto alle altre aree dell’Occidente; “influenza” dell’arte aquitanica e borgognona su quella in Italia; arcaismo dell’arte detta lombarda; esclusione dell’arte nell’Italia centrale e meridionale dal dibattito in quanto portatrice di formule neopaleocristiane, estranee al “vero” romanico europeo. Un altro aspetto del confronto fra storici dell’arte sta nel taglio “spaziale” del racconto: “romanico” come fenomeno regionale, nazionale, sopranazionale? Arte legata alla officina di un monumento oppure arte sulle strade dei pellegrinaggi?

Riflettendo sulle cronologie e su nuovi dati emersi anche e proprio a livello archeologico su alcuni edifici chiave del “romanico” al settentrione e in particolare sulla Cattedrale di Cremona, è forse possibile ripensare i reali rapporti delle officine attive agli inizi del XII secolo al settentrione in Italia con quelle d’Occidente, fino a Conques, Toulouse, Jaca, Leon, Compostela.

Il tema dei modelli narrativi sarà utilizzato per comprendere quanto l’adozione, da parte degli studiosi, di una certa “struttura” di racconto, abbia condizionato, o meglio predeterminato, i risultati della ricerca.

NICOLAS REVEYRON Une crypte en historiographie et épistémologie: Saint-Philibert de Tournus

Souvent reléguée à l’arrière plan des recherches sur l’architecture médiévale, l’historiographie connaît en France actuellement un net regain d’intérêt, qui va de paire avec l’acquisition par les grandes institutions des archives de chercheurs et avec le renouveau de leur étude. En soi, l’historiographie est un précieux conservatoire de la mémoire contemporaine, restituant non seulement les centres d’intérêt et les démarches des historiens de l’art, voire les méthodes d’enseignement, mais aussi l’intimité de leur travail, jusqu’à la qualité de leur style. Pour l’époque moderne, elle mord sur le domaine des sources écrites, pour avoir enregistré des documents originaux disparus par la suite et le chercheur est parfois bien embarrassé de classer des textes qui lui sont d’abord utiles pour leur valeur historique.

L’historiographie doit être considérée comme une source de connaissance en histoire de l’art pour une troisième raison: sa dimension épistémologique. En effet, les différentes études menées à la même époque ou successivement sur un édifice majeur nous renseignent d’abord sur la façon d’aborder alors l’architecture et ses sources, sur la manière de traiter conjointement ou hiérarchiquement les données disponibles (textes, sources iconographiques, archéologie), sur les tendances générales de l’époque et les types de problématiques abordées, enfin sur la généalogie d’une recherche et l’impact de cette ascendance sur la recherche actuelle.

Les exemples de Tournus et du Mont Saint-Michel sont en cela éclairant. Et ce d’autant plus vivement que les deux abbayes possèdent des cryptes, lieux souterrains qui, en France, ont marqué profondément, consciemment ou non, les esprits, même ceux des scientifiques. Pour Saint-Philibert de Tournus, dont l’histoire a été transmise par des érudits heureusement soucieux de donner leurs preuves textuelles, les premières sources écrites, la chronique de Falcon, pose le premier jalon d’une discussion qui a occupé tout un siècle, c'est-à-dire la mention de la «crypte» ayant préservé de l’incendie des objets du culte. Par ailleurs, la teneur des textes du XIe, du XIIIe et du XVIe siècle relatant de terribles incendies ayant totalement détruit l’abbaye ne laisse pas de poser des problèmes d’interprétation. Enfin, le manque d’études archéologiques, malgré les travaux récents de B. Saint-Jean-Vitus, n’a pas encore permis de reconsidérer de fond en comble les problématiques attachées à ce monument bourguignon insigne. La présente communication se propose modestement de considérer toutes ces données et ces démarches sur le plan épistémologique. STEFANO RICCIONI L’Epiconografia: l’opera d’arte come sintesi visiva di scrittura e immagine

Si vuole presentare una proposta di metodo che introduca lo studio delle epigrafi nell’ambito della storia dell’arte per le qualità iconiche e semantiche di questi documenti. Tale terreno di indagine potrà diventare materia di una disciplina per la quale suggeriamo la definizione di: Epiconografia. Essa si propone di studiare il manufatto storico artistico come un sistema unitario in cui convergono più codici linguistici che non possono essere compresi, se non nelle loro reciproche relazioni.

L’interesse della storiografia artistica nei confronti dei testi epigrafici, quali fonti storiche o quali espressioni letterarie, non è nuova. Si ricordino le prime raccolte di testi epigrafici realizzate dai pionieristici lavori di Johannes Ficker e Anton Springer, i primi ad interessarsi ai tituli. Si trattava di un interesse nato nella “Scuola di Vienna”, dove Franz Wickhoff stava fondando la critica delle fonti letterarie relative alla storia dell’arte; in questa direzione Julius von Schlosser ha fornito uno sguardo completo sull’argomento. In Italia, anche Roberto Longhi e Pietro Toesca, mostrarono interesse ai testi scritti nelle opere d’arte. Più recentemente, i rapporti tra testo e immagine sono

stati affrontati da numerosi studi secondo le diverse prospettive e gli specifici ambiti disciplinari dei ricercatori. Si ricordino, tra gli altri, i lavori di Herbert Kessler sulla narrazione pittorica e sulla visibilità spirituale, suggerita proprio dalla lettura dei testi scritti contiguamente, in funzione delle immagini. Soprattutto la paleografia e la neonata epigrafia medievale hanno affrontato lo studio dei testi e delle forme scrittorie, secondo una linea di progressiva emancipazione di queste testimonianze dalla ristretta indagine dell’erudizione antiquaria. Gli studi di Augusto Campana, Armando Petrucci e Robert Favreau hanno precisato tale orientamento giungendo a svincolare la disciplina epigrafica dalla nozione del supporto per considerarla nel più ampio orizzonte del monumento/documento, soprattutto secondo la nozione di “scrittura esposta” coniata da Petrucci. In tale prospettiva l’epigrafia e, in senso ampio, la storia della scrittura, incontrano la storia dell’arte anche nel terreno dell’iconografia e dell’iconologia, secondo le definizioni di Erwin Panofsky. Su questa via le ricerche nel campo dell’antropologia culturale e della linguistica suggeriscono, dal canto loro, importanti indicazioni di metodo sulla produzione, la funzione, l’uso e la ricezione dei testi, intesi, questi, non solo in senso strettamente letterario. L’Epiconografia, avvalendosi di strumenti metodologici interdisciplinari e raccogliendo l’eredità dei precedenti studi, si propone di aggiornare l’esame dell’opera d’arte medievale, considerandola nella sua complessità semantica e riconducendola alla sua unitarietà di composizione e alla sostanziale univocità del suo messaggio. MARTA SANTACATTERINA Una rilettura della basilica dei SS. Felice e Fortunato di Vicenza attraverso i documenti di restauro

Il complesso monastico dei SS. Felice e Fortunato, a partire dalla fine del XIX secolo e fino ad oggi, è stato oggetto di radicali interventi di restauro compiuti al fine di riportare gli edifici al loro aspetto “originario”, principalmente attraverso la demolizione delle sovrastrutture barocche. L’indagine sui documenti relativi alle campagne di restauro conservati sia presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma sia presso quello parrocchiale, e il rinvenimento di altro materiale inedito, ha permesso di individuare le operazioni più significative e di identificare in modo preciso le parti rifatte, anche mediante l’ausilio di numerose fotografie d’epoca. Attraverso i dati emersi la relazione porterà quindi in evidenza una ipotesi cronologica ed una nuova lettura dei resti medievali della basilica. LUCINIA SPECIALE Exultent divina mysteria. Ambrogio Autperto, San Vincenzo al Volturno e l’origine del ciclo dell’Exultet

Il contributo si propone di riprendere i fili di una questione storiografica avviata all’inizio del Novecento dagli studi di Émile Bertaux e mai risolta in modo soddisfacente, quella del luogo e del momento d’origine del ciclo dell’Exultet. I rotoli liturgici italomeridionali sono uno dei fenomeni più interessanti della cultura scritta dell’Occidente latino. La produzione di questi manufatti librari si concentra in un'area molto ristretta dell'Italia meridionale, quella che coincide con l'ambito d'influenza della liturgia beneventana, la tradizione di rito latino che accomuna, tra il X e il XIV secolo, i territori della Langobardia minor e il confinante tema bizantino di Puglia. In questa regione, a partire da un momento imprecisato dell'alto medioevo, si diffonde l'uso di trascrivere i testi e le prescrizioni liturgiche del rituale di Pasqua su rotoli illustrati da utilizzarsi nel corso della cerimonia.

La fase storicamente meglio documentata di questa produzione libraria è senz’altro quella più matura, quasi certamente collegabile ai riflessi italomeridionali della Riforma Gregoriana e alla Montecassino dell’abate Desiderio, che di quel

movimento fu uno dei centri promotori. Assai meno chiari restano invece gli esordi di questo singolare costume liturgico, documentato solo a partire dal X secolo – ma verosimilmente assai più remoto – e i connotati originali dei primi rotoli liturgici beneventani.

L’analisi di alcuni degli esemplari più antichi e prestigiosi – in special modo quella del rotolo Vat. lat. 9820 – permette tuttavia di isolare nel ciclo “beneventano” dell’Exultet il riflesso di uno dei più importanti commenti altomedievali al testo dell’Apocalisse, quello composto a San Vincenzo al Volturno da Ambrogio Autperto intorno al 776.

Il testo, del quale non si conoscono edizioni illustrate, ebbe com’è noto una straordinaria fortuna figurativa, riconoscibile in alcuni tra i più rilevanti cicli monumentali dell’Apocalisse. Se ne riconosce l’impronta a Civate, a Saint-Savin e ancora in Spagna, a Sant Quirze de Pedret.

L’influenza di Ambrogio Autperto sul ciclo “beneventano” dell’Exultet illumina un elemento-chiave di questa recensione iconografica, e permette di identificarne il momento e il luogo d’origine, da collocarsi nell’abbazia di San Vincenzo al Volturno e nell’ultimo quarto dell’VIII secolo, o poco più tardi. Ciò consente di individuare un episodio assai precoce, e sinora sconosciuto, della germinazione iconografica di una delle principali tradizioni interpretative dell’Apocalisse e di legarne l’origine ad un importante centro dell’Europa carolingia, San Vincenzo al Volturno. BELA ZSOLT SZAKACS The italian connection: theories on the origins of Hungarian Romanesque Art

The lecture will present briefly the different attempts to define the origin of Romanesque art in Hungary which oscillated between the Italian influences and the German connections. I would start with the scholars of the 19th century who, being trained in the Austrian school, preferred the German parallels. At the turn of the century, however, new trends turned to Italy and discovered the Hungarian connections. The close relationship of Hungarian and Italian scholarship, especially the work of Tibor Gerevich, was significant in the period between the two World Wars, not independent from the political circumstances. Interestingly, his students were able to follow this trend in the next decades, i.e. the 1950-60s. The next generation representing a new way of understanding stylistic connections, started its carreer in the 1970s which, again, emphasised the South German and Austrian influences. Certainly, the question cannot be posed as Italy or Germany, however, in the newest Hungarian research the importance of Italy in the interpretation of Romanesque monuments seems to be more and more crucial. CARLOTTA TADDEI Quomodo predicabunt, nisi mittantur? Il fonte di San Frediano a Lucca e la predicazione antiereticale Il fonte battesimale di San Frediano presenta una conformazione inusuale e un apparato scolpito complesso ed enigmatico; per questa sua eccezionalità è stato ipotizzato che potesse avere in origine diversa funzione, forma, ubicazione e decorazione. Verranno perciò riconsiderate le caratteristiche della vasca, i momenti principali delle sue vicende (smontaggi-rimontaggi- antiche descrizioni) per definirne, alla luce di inedite fonti storiche, collocazione, forma, e funzione. Il fonte verrà così inserito in un preciso contesto culturale, quello delle officine attive nell’ultimo quarto del XII secolo. Analizzando la situazione storica in cui il fonte viene realizzato, trapelano dalle fonti i rapporti conflittuali che legano la città al papato, fino alla scomunica che quest’ultimo infligge alla cattedrale lucchese; è inoltre documentata la presenza di comunità di eretici attivi a Lucca come a Firenze e a Pisa. In questo contesto la chiesa

di San Frediano si mantiene autonoma rispetto al capitolo della Cattedrale coltivando una stretta alleanza col papato. In un manoscritto antiereticale sono stati trascritti testi -composti fra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo- aderenti alle immagini scolpite sul fonte battesimale; diviene così possibile leggere le singolari narrazioni del fonte ipotizzando una funzione diversa da quelle finora previste. Le sculture potrebbero infatti configurarsi come un supporto iconografico alle parole dei predicatori che la chiesa Lucio III stava in quegli anni sistematicamente preparando nel quadro di uno scontro aperto con le comunità ereticali. FEDERICA TONIOLO Il lungo viaggio del Breviario di Lionello d’Este tra le due sponde dell’Atlantico

L’intervento prende in considerazione il Breviario di Lionello d’Este, codice miniato a Ferrara tra il 1441 e il 1448 da Giorgio d’Alemagna, Matteo de’ Pasti, Bartolomeo da Benincà e Guglielmo Giraldi. Per il prezioso manoscritto, di cui esiste una cospicua documentazione archivistica, la critica ha già da tempo proposto un’identificazione con il Breviario Llangattock che, passato da Christies a Londra nel 1958, fu smembrato e venduto a fogli sciolti dall’antiquario Goodspeed di Boston nel 1959. Da allora le membra disiecta del codice sono apparse in varie vendite ed hanno raggiunto collezioni pubbliche o raccolte private, in specie americane, ma anche europee e giapponesi, peraltro lievitando di prezzo mano a mano che gli studi sulla miniatura ferrarese ne rendevano chiara l’importanza. Si intende seguire la dispersione dei fascicoli e dei fogli e mostrare come alcuni recenti ritrovamenti permettano di togliere ogni dubbio sull’identità del Breviario Llangattok con il Breviario di Lionello; i nuovi fogli, inoltre, chiariscono la facies stilistica delle illustrazioni del manoscritto e i contributi dei miniatori che vi lavorarono, in specie quelli di Matteo de’ Pasti e Giorgio d’Alemagna. Si cercherà di far luce sul ruolo seminale che questi maestri ebbero per la nascita della nuova cultura figurativa estense. CARLO TOSCO La storia del paesaggio medievale: prospettive di ricerca

La storia del paesaggio rappresenta una nuova frontiera per gli sviluppi più recenti delle ricerche medievali. Lo studio dell’architettura e delle arti figurative ha in genere trascurato di approfondire i rapporti instaurati tra l’uomo e l’ambiente, tra gli edifici, gli insediamenti e le forme del territorio. Studiare il paesaggio storico significa cercare di ricostruire i contesti naturali in cui si collocavano le opere d’arte, contesti oggi necessariamente alterati e trasformati dallo sviluppo dei processi di antropizzazione. La fondazione di un centro religioso, di una struttura fortificata, di un ospedale destinato all’accoglienza, erano fenomeni che si collegavano alle risorse presenti sul territorio, alle organizzazioni agrarie, alla rete di strade, alla presenza attiva delle popolazioni rurali. Si delinea così un progetto di storia locale globale che offre nuove letture per una comprensione più vasta delle arti figurative nel medioevo.

L’intervento si propone di tracciare un quadro di riferimento metodologico, offrendo strumenti di lavoro sperimentati sul campo in progetti di ricerca internazionali, con la collaborazione di studiosi provenienti da aree disciplinari diverse. Nella seconda parte del saggio verranno presi in considerazione alcuni casi studio, per sperimentare la validità dei metodi delineati e indagare le potenzialità scientifiche di una storia dei paesaggi medievali. JEAN WIRTH Les chapiteaux du cloître de Saint-Ours à Aoste. Étude iconographique

Malgré les remaniements et les pertes, les chapiteaux romans du cloître de Saint-Ours à Aoste présentent un programme iconographique exceptionnellement homogène et cohérent. Dans une disposition que nous ne pouvons reconstituer, il présente un grand cycle historique, de la Chute à l’Enfance du Christ, de la résurrection de Lazare à la fondation du cloître, située dans la tradition apostolique. Le futur eschatologique est annoncé par les inscriptions qui légendent les images des prophètes et plusieurs chapiteaux consacrés à la vie canoniale l’inscrivent dans le plan divin. Mais l’ensemble à la fois le plus développé et le mieux conservé est consacré à la vie de Jacob dans la galerie ouest. Il ne peut se comprendre qu’à la lumière du commentaire biblique et correspond assez bien à celui de Raban Maur, car il évite les commentateurs récents. Comme Marthe et Marie dans les épisodes néotestamentaires, Lia et Rachel symbolisent la vie active et la vie contemplative. Les oppositions entre Jacob et Esaü ou entre Joseph et les autres fils de Jacob signifient à un premier niveau celle des chrétiens et des juifs, mais les chrétiens sont ici les chanoines réformés, les juifs les chanoines séculiers. C’est à ces derniers que s’adressent les imprécations du chapiteau de la vie de saint Ours et celles des prophètes. Le programme iconographique, extrêmement polémique, légitime la scission du chapitre cathédral par ceux des chanoines qui, désireux de se réformer, sont partis en 1132 s’installer à Saint-Ours. GIUSEPPA ZANICHELLI Tra oralità e “scrittura”: le immagini del legislatore nei codici altomedievali

Tra V e X secolo le consuetudini di popoli quali i Visigoti, i Burgundi, i Franchi, gli Alamanni, i Bavari e i Longobardi vennero tradotte in latino e messe per iscritto, mentre parallelamente nelle sinodi conciliari si formulavano e trascrivevano i canoni ecclesiastici; fra i manoscritti superstiti delle due redazioni, alcuni esemplari di lusso non solo documentano la sopravvivenza del sistema di immagini derivato dalla tradizione romana, ma testimoniano anche questo passaggio dalla formulazione orale a quella scritta della legge mediante una serie di codici narrativi che costituiscono l’oggetto specifico di questa indagine, che si propone anche di verificare la funzione, destinazione e uso di tali volumi.