MAURIZIO RICCI DOMENICA DICEMBRE di...

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DOMENICA 27 DICEMBRE 2009 D omenica La di Repubblica l’attualità La casa dell’energia fai-da-te MAURIZIO RICCI PARIGI «I l terzo millennio è nato sotto il segno della cata- strofe». Per Paul Virilio — filosofo e urbanista, au- tore di saggi come L’incidente del futuro o Città panico — il decennio che sta per concludersi è stato dominato da avvenimenti traumatici d’ogni tipo, di fronte ai quali però gli uomini non sempre hanno tratto i necessari inse- gnamenti. «Il decennio si è aperto con la tempesta del secolo che si è ab- battuta sull’Europa, ma anche con la paura provocata dal Mille- nium Bug, che già allora mostrava i rischi di un mondo in balia del- l’informatica», spiega lo studioso francese, che oltralpe ha da po- co mandato in libreria un volume intitolato Le Futurisme de l’in- stant (Galilée, 96 pagine, 16 euro). (segue nelle pagine successive) FABIO GAMBARO le tendenze Abiti da sera per una notte di velluto LAURA ASNAGHI e IRENE MARIA SCALISE l’incontro John Lasseter, il re dei tecno-cartoon ARIANNA FINOS ILLUSTRAZIONE GETTYIMAGES VITTORIO ZUCCONI WASHINGTON I l decennio delle grandi paure cominciò nella prima notte dell’Anno Zero, quando ci fu spiegato che il mondo sareb- be stato inghiottito nel buco nero dei computer impazziti. Si chiamava Y2K la trappola dell’Anno Duemila nella quale saremmo stati risucchiati dai cervellini confusi dai troppi zeri, alle ore 00.01 dell’anno 00. Come, dieci anni più tardi, quella stessa umanità sopravvissuta alla vendetta dei numeri zero contro i nu- meri uno sarebbe stata sterminata da un’altra formula, la H1/N1, popolarmente fraintesa come “influenza suina”. Una decade di terrori senza ragione, di agitazioni periodiche, di tragedie vere non previste e di false tragedie annunciate e mai avvenute, sta tutta rac- chiusa fra queste due parentesi di nulla, o di ben poco, che hanno creato un’altalena spossante fra panico e scetticismo. (segue nelle pagine successive) Terrorismo, guerre, pandemie, effetto serra, crac globali. Ma non bastano i fatti a spiegare uno stato d’animo collettivo che ha marchiato il primo segmento del nuovo millennio cultura Gli ex garibaldini che fecero la California FEDERICO RAMPINI spettacoli Saul Bass, il mago dei titoli di testa MARIO SERENELLINI 2010 Il decennio della paura 2000 Repubblica Nazionale

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DOMENICA 27DICEMBRE 2009

DomenicaLa

di Repubblica

l’attualità

La casa dell’energia fai-da-teMAURIZIO RICCI

PARIGI

«Il terzo millennio è nato sotto il segno della cata-strofe». Per Paul Virilio — filosofo e urbanista, au-tore di saggi come L’incidente del futuro o Cittàpanico — il decennio che sta per concludersi è

stato dominato da avvenimenti traumatici d’ogni tipo, di fronte aiquali però gli uomini non sempre hanno tratto i necessari inse-gnamenti.

«Il decennio si è aperto con la tempesta del secolo che si è ab-battuta sull’Europa, ma anche con la paura provocata dal Mille-nium Bug, che già allora mostrava i rischi di un mondo in balia del-l’informatica», spiega lo studioso francese, che oltralpe ha da po-co mandato in libreria un volume intitolato Le Futurisme de l’in-stant (Galilée, 96 pagine, 16 euro).

(segue nelle pagine successive)

FABIO GAMBARO

le tendenze

Abiti da sera per una notte di vellutoLAURA ASNAGHI e IRENE MARIA SCALISE

l’incontro

John Lasseter, il re dei tecno-cartoonARIANNA FINOS

ILL

US

TR

AZ

ION

E G

ET

TY

IMA

GE

S

VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON

I l decennio delle grandi paure cominciò nella prima nottedell’Anno Zero, quando ci fu spiegato che il mondo sareb-be stato inghiottito nel buco nero dei computer impazziti.Si chiamava Y2K la trappola dell’Anno Duemila nella quale

saremmo stati risucchiati dai cervellini confusi dai troppi zeri, alleore 00.01 dell’anno 00. Come, dieci anni più tardi, quella stessaumanità sopravvissuta alla vendetta dei numeri zero contro i nu-meri uno sarebbe stata sterminata da un’altra formula, la H1/N1,popolarmente fraintesa come “influenza suina”. Una decade diterrori senza ragione, di agitazioni periodiche, di tragedie vere nonpreviste e di false tragedie annunciate e mai avvenute, sta tutta rac-chiusa fra queste due parentesi di nulla, o di ben poco, che hannocreato un’altalena spossante fra panico e scetticismo.

(segue nelle pagine successive)

Terrorismo, guerre, pandemie, effetto serra,crac globali. Ma non bastano i fatti a spiegareuno stato d’animo collettivo che ha marchiato

il primo segmento del nuovo millennio

cultura

Gli ex garibaldini che fecero la CaliforniaFEDERICO RAMPINI

spettacoli

Saul Bass, il mago dei titoli di testaMARIO SERENELLINI

2010Il decennio della paura2000

Repubblica Nazionale

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vissuto in diretta e poi in infiniti, ossessivi re-play, a focalizzare e materializzare quella vo-glia di terrore che brontolava sotto l’apparen-te noiosità di un tempo senza più titanici scon-tri di ideologie e di apparati militari: l’11 set-tembre. Nell’America che sempre detta i tem-pi delle euforie e delle ansie globali, in un’ege-monia culturale che continua nonostante isuccessi economici di altre nazioni, un presi-dente era stato eletto controvoglia e quasi percaso, con 537 voti di margine su cento milioniespressi, sostanzialmente per reazione e pu-nizione contro il predecessore, non per esse-re un presidente di guerra come poi sarebbediventato. Ma l’attacco alle Due Torri e a Wa-

shington quella mattina fu, come in un ro-manzo pulp di Tom Clancy, The Sum of AllFears, la summa di tutte le paure del mondomoderno, sfidato e straziato dall’odio del pri-mitivismo fanatico con i mezzi, quegli aereimeravigliosi, del progresso materialista.

La mattina dell’11 settembre fu la brecciadalla quale fecero irruzione le furie delle no-stre paure. Per mesi gli uffici postali america-ni si trasformarono in frontiere della guerraanti batteriologica quando esplose la psicosida antrace, il batterio degli ovini, e ogni citta-dino apriva la cassettina della posta come unartificiere che debba disinnescare una bom-

ba, agitando le buste con il braccio teso al mas-simo per vedere se ne uscisse la insidiosa pol-verina bianca. Di antrace morirono cinquepersone, in quel 2001, e diciassette furono ri-coverate in ospedale, ma i colpiti dalla sindro-me delle spore furono milioni. Otto anni dopoancora non si sa con certezza chi le avesse spe-dite e perché, a parte un “sospetto”, america-nissimo e del tutto estraneo alla “jihad del ter-rore”, arrestato dallo Fbi.

Arrivarono promesse di epidemie, prestodivenute tutte pandemie — espressione cheproduce effetti assai più inquietanti e share te-levisivi più gustosi —, generate da antichi ger-mi come quelli dell’Ebola e poi da micro-or-ganismi mutanti, come tutti i micro-organi-smi diffusi attraverso, di nuovo, la modernitàplanetaria e le comunicazioni transoceani-che. Saremmo stati inesorabilmente colpitidalla Sindrome respiratoria acuta, la Sars; poidall’influenza aviaria H5N1 coltivata in quel-le mostruose pollerie asiatiche (sempre l’A-sia); e dalla “maiala”, anch’essa cucinata neilaboratori infernali dell’allevamento intensi-vo e crudele.

Dove non fossero arrivati batteri e virus,avrebbero provveduto le tossine contenutenei coloranti usati dai cinesi (sempre l’Asia)per dipingere i giocattoli che i nostri bebèmordicchiano e leccano; nei dentifrici con iquali ci strofiniamo i denti; o nel micidiale “bi-sfenolo A” comunemente usato dai dentisti. IlComune di New York, guidato da un sindacoassai poco propenso alla politica dello “statomamma” ma convertito allo “stato nutrizio-nista”, il miliardario Bloomberg, per primoimpose il divieto a tutti i ristoranti della città di

usare acidi grassi insaturi, accusati di favorirele malattie coronariche.

Nel quadrilatero delle paure — enti scienti-fici ansiosi di pubblicità per contendersi fon-di preziosi per la ricerca; grandi multinazio-nali della farmaceutica decise a lucrare sulleondate di paura; mass media trasformati inuntori delle ansie con la complicità di Internetdove ogni voce e ipotesi circola; governantiche hanno capito l’enorme potenziale politi-co dell’industria del terrore — la Decade Zeroci ha sballottati fra annunci di scontri epocalidi civiltà tra Islam (sempre Asia) e Cristianità,ed esplosioni di violenza ormai dentro le no-stre mura illuminate dalle fiamme delle ban-

lieues parigine. Con sapienza ovvia e consumata, i governi

imparavano a usare la manopola del volumedella paura, come ammise di avere fatto nel2004 Tom Ridge, il capo dell’Agenzia america-na per la sicurezza interna, favorendo così larielezione del “Presidente di Guerra” Bushcon l’invenzione di complotti e pericoli inesi-stenti. La paura fa vincere le elezioni, venderepillole, guardare gli speciali televisivi, meno igiornali che, nel catalogo delle paure, comin-ciavano a dare segni di possibile estinzione.

Nel calderone di streghe, manipolazioniideologiche, esagerazioni pubblicistiche, fat-

UNDICISETTEMBRENell’attacco

alle Twin

Towers di New

York del 2001

rivendicato

da Bin Laden

muoiono

2.749 persone

MILLENNIUMBUGIl pianeta

festeggia

il 2000

col fiato

sospeso

per la paura

del crac

informatico

ALLUVIONIIN EUROPANell’agosto

2002, l’Europa

dell’est

è funestata

da inondazioni

Dresda la città

più colpita

Decine i morti

GUERRAIN AFGHANISTANNell’ottobre

2001 scatta

l’operazione

Usa EnduringFreedom:

la guerra

al terrorismo

contro i taliban

RISCHIOAVIARIANell’agosto

2005, l’Oms

lancia l’allarme

pandemia

a causa

del virus

che colpisce

gli uccelli

TSUNAMIIN ASIA26 dicembre

2004:

uno tsunami

colpisce

l’Oceano

Indiano

Le vittime

sono 230mila

TERREMOTONEL SICHUANIl 12 maggio

2008 il sisma

più devastante

del decennio

nella provincia

cinese:

7,8 Richter,

88mila i morti

URAGANOKATRINAFine agosto

2005,

un uragano

flagella l’Est

degli Usa:

1.836 morti,

New Orleans

è in ginocchio

Si parte col Millennium Bug, si chiude col climafuori controllo. In mezzo Twin Towers, guerre, pandemiee catastrofi naturali. Dieci anni, 2000-2010, dovela paura è diventata protagonista delle nostre vite:evocata, stimolata, sfruttata, soprattutto onnipresente

la copertina

La superbia tecnologicasembrava aver cancellatol’idea dell’Apocalisse

L’11 settembre è la brecciadalla quale hanno fattoirruzione i nostri terrori

I fantasmi degli Anni ZeroVITTORIO ZUCCONI

(segue dalla copertina)

Se ogni tempo ha le proprie paure esi deve misurare con minacce dipestilenze, di invasioni, di care-stie, di stragi, di guerre, la concen-trazione spontanea, reale o ma-novrata, di ansie in questa decade

zero del millennio è stata straordinaria. Latentazione del “millenarismo”, che avevasconvolto l’umanità alla fine dell’anno 999nella certezza del secondo avvento di Cristo edell’Apocalisse, sembrava essere stata scon-fitta o attenuata dalla superbia tecnologica delVentesimo secolo soltanto per riaffiorarepuntuale e ironica proprio grazie agli stru-menti della modernità materiale. Allo scatta-re degli zeri, i cervelli elettronici che controlla-no ormai tutto, dai nostri conti correnti al traf-fico aereo, sarebbero impazziti. Al trillare deitelefonini ormai incollati alle orecchie di mi-liardi di umani, le microonde avrebbero sicu-ramente fritto i soffici cervelli umani. La cor-nucopia di cibi che si è rovesciata sulla partericca del mondo avrebbe condannato adulti esoprattutto bambini a un avvenire di obesitàimpotente e di arterie sclerotizzate, come nelfilm di animazione Wall-E. E, dove non fossearrivato l’eccesso di nutrizione, avrebberoprovveduto gli ogm, gli organismi genetica-mente modificati, a snaturarci e a trasformar-ci in mutanti tarati. «L’uomo è ciò che man-gia», aveva avvertito ancora nel 1862 il filosofotedesco Ludwig Feuerbach.

Fu un evento incontestabilmente reale, e

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Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

«Subito dopo abbiamo avuto gli attacchidell’11 settembre, che hanno inauguratouna tragica sequenza d’atti terroristici, a

cui sono anche legate le guerre in Afghanistan e inIraq. Quest’ultima, secondo me, è da considerare al-la stregua di un vero e proprio incidente militare. Na-turalmente non si possono dimenticare le grandi ca-tastrofi ecologiche, come lo tsunami dell’Oceano In-diano o l’uragano Katrina. Anche la fine del decen-nio è stata particolarmente drammatica, con il crol-lo dei mercati finanziari e la crisi economica che n’èseguita. A tutto ciò, dobbiamo aggiungere il fiascodella Conferenza sul clima di Copenaghen, i cui de-ludenti risultati sono una vera e propria catastrofe.Infine, tra gli avvenimenti drammatici del decennio,includerei anche la crisi delle forme tradizionali del-la democrazia, dato che in molti paesi — e in Italia losapete bene — la democrazia rappresentativa sta ce-dendo il passo alla democrazia dell’istantaneità, ba-sata sui sondaggi e le reazioni emotive. Una forma discivolamento ai miei occhi molto pericolosa».

Il suo è un bilancio particolarmente fosco...«La catastrofe, nelle sue diverse forme e manife-

stazioni, è lo sfondo permanente entro cui tutti noioggi ci muoviamo. Ma la vera novità è che siamo en-trati nell’era dell’incidente integrale, sistemico. Dal-l’incidente isolato siamo passati all’iper-incidenteglobalizzato, vale a dire un incidente che degenera,producendo altri incidenti a catena. Si pensi al re-cente crac finanziario. Un primo fallimento ne haprovocati altri, con ripercussioni che non sono an-cora finite, visto che ora rischiano di fallire interi sta-ti».

Qual è la sfida maggiore che il decennio trascor-so ci lascia in eredità?

«Il problema della velocità, ma nessuno sembrapreoccuparsene. Siamo passati dalla velocità mobi-le alla velocità immobile delle nuove tecnologie.

L’attuale accelerazione tecnologica supera ogni no-stra precedente conoscenza, alimentando rischi al-tissimi e costringendoci a vivere in una realtà domi-nata dall’istante. Siamo in balia di un’istantaneitàche sfugge alla ragione, rischiando continuamentedi travolgerci. La Terra è diventata troppo piccola peril progresso e per la ricerca del profitto istantaneo og-gi dominante. Questo cambiamento è un avveni-mento politico fondamentale».

La velocità trasforma il nostro rapporto con iltempo?

«Finora avevamo presente, passato e futuro. Oggiperò la velocità immobile e la dittatura delle nano-cronologie annullano la durata della storia, condan-nandoci al futurismo dell’istante. Siamo prigionieridi un’istantaneità di fatto inabitabile, senza memo-ria del passato né immaginazione del futuro. L’uo-mo si crede onnipotente ma, delegando alla tecno-logia, perde il suo vero potere che è quello dell’intel-ligenza. Di fronte a questa deriva catastrofica, so-stengo da tempo la necessità di un’università dellacatastrofe che, attraverso un’alleanza tra scienzeumane e scienze tecniche, possa produrre un’intel-ligenza del disastro contemporanea. Solo così si po-trà tentare di prevenire i disastri futuri».

C’è chi vede nella fine del decennio l’occasione divoltare pagina. Che ne pensa?

«Mi auguro che sia vero. Ma l’ottimismo, per esse-re reale, deve innanzitutto riconoscere i danni pro-dotti dalla deriva tecnologica. Altrimenti è solo unbluff della propaganda del progresso. In realtà, dob-biamo aspettarci nuove inevitabili catastrofi, comeil tracollo d’internet, che paralizzerebbe tutte le no-stre attività, o qualche cataclisma provocato dallageoingegneria che cerca di dominare il clima. Pur-troppo, i rischi dell’incidente globale crescono pa-rallelamente al progresso tecnico, ma gli uominipreferiscono far finta di non saperlo. È per questoche bisogna continuamente ripeterlo».

Paul Virilio.Prigionieridella velocità immobile

FABIO GAMBARO

ti reali, pericoli concreti, germi e interessi si so-no mescolati e sembrarono, come nel 2001, dinuovo manifestarsi concretamente quandoun potente uragano battezzato Katrina si ab-battè su New Orleans, “The Big Easy”, la cittàdel libertinaggio, del carnevale, del “vudùn”.Accadde nel 2005 esemplificando la vendettadel sempre feroce Dio della Bibbia contro «fro-ci, dissoluti e negatori», come disse il predica-tore Jerry Falwell, lo stesso che aveva letto unapiaga biblica nelle Due Torri. Il fatto che quel-l’uragano, potente ma non inaudito nel Golfodel Messico, avesse soltanto dimostrato la de-bolezza delle dighe urbane in una città che stasotto il livello del mare e la vergognosa ineffi-cienza della protezione civile bushista nei soc-corsi, colpì meno dell’idea che Katrina fossel’annunciatrice di catastrofi ecologiche da ri-scaldamento della Terra, un anticipo del prez-zo che tutti avremmo presto pagato per i no-stri peccati di consumatori e di inquinatori.

Ecologia e ideologia, farmacologia e virolo-gia, tossicologia e strategia, hanno formato inquesta prima decade del 2000 una alleanzaoggettiva per sballottarci dalla pauradell’«islamico tagliagole» a quella del cellula-re oncogeno. Tutto sembrò maturare e venirea sintesi in quella fine estate del 2008 quandoanche il tempio del dio Mammone, WallStreet, con le sue finanziarie, il suo castello dicarte, i mega-magliari come Madoff, crollò eascoltammo neo economisti convertiti dalterrore, profeti di sventura interessati a lucra-re sulla caduta dei corsi (nelle Borse si posso-no fare soldi sia in salita che in discesa) e paleomarxisti finalmente vendicati dalla storiaspiegarci che quella non sarebbe stata una cri-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 27DICEMBRE 2009

ILLU

ST

RA

ZIO

NIA

LAM

Y

ALLARMESARSLa “Sindromeacutarespiratoriasevera”spavental’Asia a inizio2003. L’Omslancia l’allarme

CALDO RECORDIN FRANCIAEstate 2003nella morsadel caldoper l’EuropaLa Franciail paesepiù colpito:tremila i morti

PETROLIERAPRESTIGEAffondain Galizianel novembre2002, diffondeuna mareaneraper centinaiadi chilometri

INVASIONEDELL’IRAQGli Usanell’ottobre2002 avvianol’interventoin Iraqper rovesciareil regimedi Saddam

INFLUENZASUINAÈ allarmepandemiaa partiredall’aprile2009In Messicoi focolaipiù gravi

CRAC A WALLSTREETNel settembre2008le bancheamericanecollassano:è la piùgrande crisidal 1929

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si come le altre, una ennesima “bolla” foratadall’ingordigia e dalla mancanza di regole.Quello era il collasso del capitalismo come si-stema e come cultura, nell’attesa di un nuovoe non meglio identificato meccanismo piùumano, meno avido, più “sociale”.

Il “fiasco” della pandemia suina è stato il sug-gello esemplare alla decade dei terrori, speran-do che il virus, dopo avere generato trenta mi-liardi di dollari in vendite per le case produttricidi vaccini, non si risvegli di cattivo umore duran-te la stagione dell’influenza annuale, in febbraio.Naturalmente, come fanno sempre tutti i virusinfluenzali, “mutato”. Il decennio del terrore fi-nisce come era cominciato, con un sospiro, non

con una esplosione. E semmai preoccupa un po’il fatto che si attenda la nuova diecina (i mate-matici abbiano pazienza, il resto del mondo con-ta le decadi dall’anno zero, non dall’anno uno)senza annunci di apocalisse. Ma poiché il mon-do (come ci spiegano i Maya che lo pronostica-rono nel loro calendario ma senza prevedere lafine del loro mondo e del loro impero) finirà, co-me tutti sappiamo, nel 2012, chi se ne importa.Fra due anni resteranno soltanto gli scarafaggi,come sarebbero dovuti restare soltanto loro, pa-droni della Terra, dopo la guerra atomica. Chenon venne.

I governi hanno imparatoa usare la manopoladel volume dell’angoscia

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38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27DICEMBRE 2009

Dopo Copenaghen

PROCENO (Viterbo)

La sensazionedi avere fatto davveroqualcosa fuori dal comune Rober-to Cherubini l’ha avuta in una not-te di fine estate del 2003. Era molto

tardi, ma stava ancora guardando la televisionequando, di colpo, il segnale è sparito ed è rima-sto solo un formicolio grigio sullo schermo. «Ec-co, ho pensato, adesso si è proprio rotta». Poi, haguardato fuori dalla finestra del suo casale inmezzo alla campagna, poco oltre il punto in cuii boschi dell’alto Lazio fanno spazio ai campi delsenese: Proceno, Radicofani, i paesi sulle colli-ne vicine erano immersi in un buio totale. Nonuna luce all’orizzonte, tranne quella sotto il por-tico di casa sua. Cherubini non poteva ancorasaperlo ma, in quello stesso momento, la NotteBianca di Roma era paralizzata, parecchie cen-tinaia di persone erano intrappolate nelle me-tropolitane, trentamila viaggiatori bloccati suitreni, gli aeroporti venivano chiusi. La tv nonfunzionava perché i ripetitori non erano più ingrado di diffondere il segnale. Per nove ore —quanto durò il più grave blackout italiano degliultimi vent’anni — Cherubini fu l’unico in Italia(Sardegna esclusa) a potersi permettere unabirra gelata e una doccia calda: l’elettricità per ilfrigorifero e per lo scaldabagno se la produce dasolo.

Rimbocchiamoci le manicheNon sempre stare off-grid, fuori rete, offre bri-

vidi simili. Dopo il flop di Copenaghen, però,con il riscaldamento globale che incombe e ileader politici che, al momento, non sembranoin grado neanche di metterci una pezza, l’idea dirimboccarsi le maniche e cominciare a fare dasoli, tagliando energia e anidride carbonica, èdestinata a trovare proseliti. Certo, ci sono degliinconvenienti, bisogna giostrare con una di-

sponibilità di energia limitata. A volte, dopo unacena con gli amici, Cherubini rimpiange di nonavere una lavastoviglie. Sua figlia (dodici anni)vorrebbe essere sicura che niente interromperàil suo videogioco sul computer. Ma adattarsinon è troppo difficile. Certo, i puristi possono

osservare che tutto è più facile se uno, dopo ilweek end o le vacanze, rientra a Roma in una ca-sa come tutte le altre. D’altra parte, Cherubini èandato fuori rete quasi quindici anni fa, a metàdegli anni Novanta: se lo facesse oggi, avrebbeprobabilmente più comodità con la stessa spe-

sa. Basta guardare qualsiasi casa ecologica inesibizione. La differenza è che questa è una ca-sa vera, dove vive una famiglia vera che riesce acondurre una vita normale, anche fuori rete.Dove, per fuori rete, si deve intendere il tuttocompreso: luce, gas, acqua, riscaldamento. Ca-sale Cherubini non dipende da nessuno.

Anche l’occhio vuole la sua parteIn Italia, a parte qualche rifugio d’alta monta-

gna, è un’anomalia, un’eccezione. Ma, all’este-ro, c’è un crescente movimento off-grid: si cal-cola che duecentomila famiglie americane,quarantamila famiglie inglesi abbiano consa-pevolmente scelto di tagliare contatori e bollet-te. Quasi sempre, è una decisione dettata damotivazioni ecologiche, all’insegna del «bastacon i combustibili fossili e con l’effetto serra».Cherubini confessa che la sua è stata piuttostouna ribellione estetica. «L’Enel mi spiegò che,per portarmi la corrente da due chilometri di di-stanza, bisognava far correre i fili della mediatensione su tutta una serie di pali, alti cinquemetri, in mezzo ai campi. E, allora, mi sono det-to: che gusto c’è a venire in campagna per guar-dare i pali della luce? Così, ho deciso di fare dasolo, spendendo non più di quanto mi avevachiesto l’Enel: allora, quindici milioni di lire».Sfida per sfida, Cherubini l’ha affrontata a 360gradi: non solo la luce, ma anche acqua, gas e ri-scaldamento. Il risultato è un mix di tecnologiemoderne e antichissime. Naturalmente, uno simuove con più disinvoltura nella materia se dimestiere insegna Progettazione architettonicaall’università di Roma, con un interesse specifi-co nell’architettura sostenibile. Ma nessunadelle scelte del prof Cherubini è particolarmen-te sofisticata. Vediamo come ha fatto: è il Ma-nuale per il Fuori Rete Integrale.

Le antiche regole dei nostri nonniAnzitutto, le cose facili. Il gas per la cucina vie-

ne dalla bombola. Il riscaldamento della casa

Energia fai-da-temanuale per una casa

da vivere senza reteMAURIZIO RICCI

LASCHEDA

Sette metri quadri di pannelli fotovoltaici e un vecchiopozzo artesiano. Due stufe a legna e un display segnala-consumi. Un mix di tecnologie moderne e antichissimepermette a un’intera famiglia di abitare in un casaledi campagna senza alcun genere di allaccioUn caso unico in Italia. Ma forse ancora per poco...

attualità LA CASA

LE IMMAGINISoprae in bassoal centro,il casaleCherubini(a destrapadre e figlia)A sinistrai pannellisolari

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 27DICEMBRE 2009

pera a lungo la produzione perché la vita in ca-sa è (sotto la voce elettricità) troppo allegra, l’e-nergia accumulata diminuisce. E, poiché unabatteria a secco muore, quando l’energia im-magazzinata scende sotto il trenta per cento, ilsistema si blocca. E il videogioco della giovaneCherubini si spegne.

Acqua potabile, la sfida più difficileQuesto codice spartano non si applica, tutta-

via, a quello che, tecnicamente, è il problemapiù difficile per i «fuori rete»: l’acqua potabile.Qui, Cherubini, ha fatto un salto all’indietro:«Mi hanno spiegato che era un sistema comu-nissimo, nelle campagne, ancora cinquanta an-ni fa, ma poi ce lo siamo tutti dimenticato». Aimargini del giardino, leggermente più in alto ri-spetto alla casa, c’è un invaso di dieci metri perdieci, profondo circa un metro, fitto di giunchi.In parole semplici, uno stagno. Dieci metri piùin qua, vicino alla casa, c’è un pozzo largo duemetri e profondo sette. Cherubini si è accortoche le due cose andavano viste insieme: l’acquadello stagno lentamente scende, sottoterra, e siraccoglie nel pozzo. Il punto è che, trasudandolentamente attraverso il terreno argilloso, l’ac-qua si depura. «La controllo più volte l’anno edè sempre risultata potabile».

Cento litri al giorno a personaIl pozzo contiene circa 15-20mila litri d’ac-

qua. Considerando che il consumo medio ita-liano è di cento litri al giorno a persona e, al ca-sale, senza lavatrice e lavastoviglie, assai meno,ce n’è quanto basta per attraversare, senza pro-blemi, la stagione secca. A condizione, natural-mente, che funzioni la pompa che deve estrarrel’acqua dal pozzo. È il pezzo più importante delsistema elettrico del casale: ha un circuito a par-te, prioritario rispetto agli altri utilizzi. Perché,nel manuale del fuori rete, dice Cherubini, «laregola numero uno è che per la luce ci sono sem-pre le candele, ma l’acqua non ha sostituti».

(living, cucina, due stanze da letto) da due stufea legna. L’accorgimento, in questo caso, è statodi far passare i tubi di sfiato delle stufe all’ester-no dei muri, sulle pareti delle camere da letto:quando la stufa è accesa, funzionano come ter-mosifoni. I nostri nonni lo sapevano benissimo.Adesso le cose complicate, a partire dall’elettri-cità. In un angolo del giardino (Cherubini nonvoleva toccare le tegole del tetto), ci sono settemetri quadri di pannelli fotovoltaici. Bastanoper fornire un kilowatt di potenza. Per offriretutti i comfort di una casa di città (la lavatrice, adesempio), ci vorrebbero tre kilowatt, cioè ven-tuno metri quadri di pannelli, per un costo più omeno doppio, rispetto ai quindici milioni (otto-mila euro) impegnati da Cherubini. Ma cosa sipuò fare con un kilowatt? Niente lavatrice eniente asciugacapelli, ad esempio. Invece, cirientrano il televisore, il frigorifero, il computere lo scaldabagno. Il professore si è interrogatosull’opportunità di mettere un pannello solaretermico per l’acqua calda ma dato che, d’inver-no, dovrebbe comunque aggiungere elettricitàper contribuire al funzionamento del pannello,ha deciso di lasciar perdere.

Un solo kilowatt può bastareUn po’ stretti, insomma, ma dentro quell’u-

nico kilowatt ci si sta. Il problema è che non ci so-no margini. L’elettricità prodotta dai pannellifotovoltaici viene convogliata e immagazzinatain cinque grosse batterie (più o meno comequelle delle auto). Dei display spiegano quantaelettricità viene prodotta dal sistema, quanta neviene consumata, quanta ce n’è di riserva nellebatterie. Ma, in realtà, Cherubini può decidereassai poco. L’energia immagazzinata nelle bat-terie può alimentare la casa per quarantotto ore.In altre parole, c’è abbastanza elettricità per an-dare avanti, con il televisore e lo scaldabagno,anche in presenza di un’assai improbabileeclisse solare che lasci i pannelli al buio per duegiorni. Ma il sistema è rigido: se il consumo su-

Negli Stati Uniti sono duecentomila le famiglie che hannodeciso di vivere “off-grid”, in Gran Bretagnapiù di quarantamila. Ma il movimento cresce ovunque

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MUSICISTIFoto di gruppo

dell’Italia

Social

Mandolin Club

di Oakland,

1912

(Courtesy

of Paola

Sensi-Isolani)

VIGNAIOLISopra, l’Italia

delivery wagon,

1908; a sinistra,

i vignaioli

di Sonoma

County, 1918

(Courtesy

of Paola

Sensi-Isolani)

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27DICEMBRE 2009

Una mostra al Museo italo-americano di Fort Mason,San Francisco, racconta la storia sorprendente dei nostriconnazionali alla conquista della West Coast. Dalla corsa

all’oro alla migrazione dei cervelli nella Silicon Valley, gli emigranti italiani hanno via viacostruito settori strategici dell’economia californiana: nettezza urbana, vino, pesca, banche

CULTURA*

in conflitto con i missionari di San Francisco. Poi la febbre del-l’oro innesca la prima ondata di massa. Viene dall’Italia setten-trionale, per una semplice ragione logistica: sono genovesi lecompagnie specializzate nella navigazione verso la West Coast(mentre da Napoli partono i bastimenti per New York). In Ca-lifornia arrivano liguri, piemontesi, toscani soprattutto dallaLucchesia, seguiti più tardi da siciliani e calabresi.

Esaurita l’illusione dell’oro, i nostri si lanciano alla conquistadell’agricoltura. Marco Fontana diventa il re della frutta in sca-tola, del suo impero oggi rimane la Del Monte. Nel 1881 pie-montesi e svizzeri ticinesi creano le prime aziende vinicole. An-drea Sbarbaro, Joe Gallo sono i più grandi produttori di vino al-la fine dell’Ottocento. Sopravviveranno agli anni duri del proi-bizionismo con uno stratagemma: specializzandosi nel vino perla messa, esentato dai divieti. Riemergeranno trionfanti dopo laSeconda guerra mondiale, quando la metà di tutta la produzio-ne di vino californiano è in mano a quattro cooperative di origi-ne familiare: Di Giorgio, Franzia, Petri, Gallo Winery.

Le antiche foto, i carteggi riesumati dagli archivi delle fami-glie locali documentano anche storie di miseria, sfruttamento,battaglie sociali. Nel 1900 alla Southern Pacific Railway è di ori-gine italiana il quaranta per cento della manovalanza ferrovia-ria, un gruppo altrettanto numeroso dei cinesi. Nel 1909 sonosettecento taglialegna italiani i protagonisti di uno sciopero a ol-tranza alla McCloud Lumber Company, represso con il duro in-tervento della Guardia nazionale. Nel 1910 genovesi e sicilianihanno il monopolio dei due mestieri più umili e pericolosi: la pe-sca e la raccolta dell’immondizia, da San Francisco a Santa Cruz,da Monterey a San Diego.

A lungo andare gli italiani riescono a trasformare anche quel-le attività in vere miniere d’oro. Lo scrittore californiano JohnSteinbeck nel romanzo Vicolo Cannery descrive la miseria deinostri pescatori a Monterey. Ma Antonino Alioto, siciliano diPonticello, crea una flotta di pescherecci e poi un’industria diconservazione del pesce. Tra i suoi discendenti ci saranno il pri-mo sindaco italo-americano di San Francisco (Jo Alioto) e unadinastia tuttora influente nella politica locale. Figlio di un pe-scatore siciliano venuto dall’Isola delle Femmine è Joe Di Mag-gio, il leggendario campione di baseball che sposerà MarilynMonroe. Anche gli “scavengers”, i netturbini, diventano un po-

FEDERICO RAMPINI

ItaliaAmericad’

Gli ex garibaldiniche fecero la California

SAN FRANCISCO

Quando il 24 gennaio 1848 James Marshall scopre leprime pepite sulla Sierra Nevada scatena quellafebbre dell’oro che in soli dodici mesi attira in Ca-lifornia centomila cercatori dal mondo intero. Ma,

come racconta Henry Williams Brands in The Age of Gold, la cor-sa all’oro finisce per trovarne davvero poco, di mercato giallo. Incompenso trasforma San Francisco in una metropoli, e arric-chisce soprattutto quelli che nel porto d’arrivo fabbricano pic-coni e badili, affittano carrozze o prostitute, vendono jeans e ci-bo ai cercatori. È quello che accade a Domenico Ghirardelli diRapallo. Con il metallo prezioso è sfortunato due volte: la suaprima spedizione in Perù nel 1848, la seconda in California nel1849 vanno a vuoto. Alla fine il suo oro sarà il cacao. Nel 1852 l’e-migrato ligure fonda la Ghirardelli Chocolate Company, tutto-ra la più celebre marca di cioccolatini americani e un monu-mento storico di San Francisco. Milioni di turisti ogni anno visi-tano la sua ex fabbrica trasformata in centro commerciale. Stadietro la spiaggia di Fort Mason, affacciata sulla baia dirimpet-to all’isola di Alcatraz.

Proprio a Fort Mason il Museo italo-americano ospita fino al28 marzo l’esposizione In cerca di una nuova vita(che poi andràin Canada e a Genova). È una raccolta di foto d’epoca, cimeli, te-stimonianze. Racconta la storia sorprendente degli italiani allaconquista della West Coast. Non è esagerato dire che la Califor-nia com’è oggi l’hanno fatta in buona parte i nostri emigranti.Non a caso nel 1860 i primi promotori immobiliari battezzaro-no questo Stato «l’Italia d’America». Fino al 1920 gli italiani era-no il dodici per cento di tutta la popolazione di origine stranie-ra. Dominavano settori strategici dell’economia: il vino, la pe-sca, la raccolta della spazzatura, perfino le banche.

È un’immigrazione particolare, diversa da quella della EastCoast per le origini regionali, la cultura politica, il tipo di suc-cesso economico. In avanscoperta, tra il 1830 e il 1848, arrivanoi pionieri «rossi»: ex-garibaldini, rifugiati politici, esuli delle ri-voluzioni liberali e contro-rivoluzioni che agitano l’Europa inquel periodo. Quei nuclei radicali e anticlericali entrano spesso

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PESCATORIImmigrati preparano le retial Fisherman’s Wharf, 1905(Fisherman’s Wharf HistoricalSociety) tratta dal libro SanFrancisco’s Fisherman’s Wharfdi Alessandro Baccari Jr,Arcadia editore

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 27DICEMBRE 2009

Un flusso migratorio particolare, diversoda quello della East Coast per originiregionali, cultura politica, tipo di successoeconomico. In avanscoperta, tra il 1830e il 1848 arrivarono i “pionieri rossi”

tere economico: sulle loro cooperative per un secolo si fonda ilbenessere del quartiere di North Beach, la Little Italy di SanFrancisco.

Pescatori e netturbini forniscono la base di massa per un fe-nomeno culturale, la popolarità dell’opera. Nel 1850 all’angolofra Jackson Street e Kearny si inaugura il primo teatro lirico del-la California, con La Sonnambula di Bellini. Per reclutare i cori-sti il direttore d’orchestra va a colpo sicuro: li prende sui moli delFishermen’s Wharf, dove i pescatori rammendano le tele can-tando a memoria Ernani e La Traviata. Quando la soprano Lui-sa Tetrazzini annuncia che interpreterà dei brani d’opera alla vi-gilia di Natale del 1910, le autorità devono spostare il concertoin piazza, sulla Market Street: per ascoltarla accorre una folla di250mila persone.

Prima del miracolo economico giapponese, molto prima chela globalizzazione risvegli l’Asia tutta intera, San Francisco s’im-pone come la più importante piazza finanziaria affacciata sulPacifico. Anche questo avviene grazie agli italiani. Il milaneseJohn Fugazi nel 1893 crea la cassa di risparmio Columbus Sa-vings & Loans. Il ligure Andrea Sbarboro nel 1899 fonda la Ita-lian-American Bank. La figura più importante è Amedeo Gian-nini che nel 1904 dà origine alla Bank of Italy, poi divenuta laBank of America, tuttora uno dei colossi della finanza mondia-le. In un’epoca in cui ancora i banchieri vogliono svolgere unamissione sociale, Giannini si conquista l’aureola del salvatore diNorth Beach. Dopo il terremoto che distrugge San Francisco nel1906, lui dà fondo alle riserve per prestare senza garanzie a tut-te le famiglie di pescatori della zona. Grazie ai suoi aiuti nella ri-costruzione, il quartiere italiano è il primo a rinascere dalle ma-cerie.

Anche nel ruolo della California come laboratorio di rivolu-zioni tecnologiche, c’è un’impronta italiana. Per esempio quel-la di Giovanni e Teresa Jacuzzi, immigrati nel 1907 da Casarsanel Friuli coi loro tredici figli. Una dinastia d’ingegneri con lapassione dei motori a propulsione. Ne inventano per estrarrel’acqua dai pozzi e irrigare l’agricoltura più fertile d’America. Poili usano nell’aviazione, fondano la compagnia aerea JacuzziBrothers che collega con voli di linea San Francisco e Oakland,Richmond, Sacramento. Abbandonano gli aerei nel 1921, dopoun tragico incidente sul parco Yosemite. Infine nel 1943 Candi-

do Jacuzzi per curare il figlio malato di reumatismi ha l’idea diapplicare lo stesso principio della turbina a una vasca da bagno:nasce la più celebre marca di impianti d’idromassaggio.

L’innovazione segna la seconda fase delle migrazioni italianein California. Quella che si apre all’epoca del fascismo. È un pe-riodo in cui gli ingressi di stranieri negli Stati Uniti avvengonocol contagocce. La società americana è attraversata da tensioniisolazioniste e xenofobe. Il nucleo “Wasp” (bianchi anglosasso-ni protestanti) fa muro contro la mescolanza multietnica in cuivede una minaccia alla propria identità. Lo U. S. ImmigrationAct del 1924 limita rigorosamente gli ingressi. In questo periodoun po’ di italiani arrivano grazie ai ricongiungimenti familiari.Poi ci sono i rifugiati politici, in particolare gli ebrei in fuga dal-l’Italia per le leggi razziali del 1938. Il più illustre è Emilio Segre,uno dei «ragazzi della Via Panisperna», docente di fisica a Berke-ley, dirigente nel Progetto Manhattan per la bomba atomica. Ilcontributo dei fisici italiani alla ricerca militare, così come ilsangue versato in Asia e in Europa da tanti soldati italo-ameri-cani, non impedisce un’infamia: i campi d’internamento in cuivengono rinchiusi durante la guerra molti nostri immigrati, in-giustamente sospettati di collusione con il nemico fascista. In ri-cordo di quel periodo a Fort Mason si può ammirare un model-lino del Rex, immortalato da Fellini in Amarcord: fu uno degli ul-timi transatlantici a trasportare gli ebrei italiani in America.

La terza ondata d’immigrazione italiana è segnata dai prota-gonisti del dinamismo economico della Silicon Valley. AndreaViterbi inventa l’algoritmo essenziale per la telefonia mobile (al-la base dello standard Cdma). Federico Faggin crea il microchip404, brevettato da Intel, all’origine dei moderni personal com-puter. Il biologo Roberto Crea è uno dei fondatori della Genen-tech e il padre dell’insulina artificiale. Luca Cavalli-Sforza aStanford è un’autorità mondiale della biogenetica. L’ultima ge-nerazione è fatta di scienziati, ricercatori, imprenditori. Qual-cosa nella loro vicenda ricorda i primi esuli garibaldini fuggitisulle coste del Pacifico. Ciò che attira nella zona più libertaria,trasgressiva e anticonformista d’America, è lo stesso senso di sfi-da: la convinzione che la California è ancora un libro da scrive-re, una società aperta, la cui storia viene tracciata dai suoi im-migrati.

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BOLOGNA

Faceva in dieci secondi quelche gli altri facevano in un’o-ra e mezza. Era il centometristadello schermo: un lampo, un bignami

visivo. Poi, caracollando, seguiva con tempi e ritmisuoi il film del titolo. Ma il titolo del film, con i titolidi testa, era già stato il suo podio vincente. Sprinterdella maratona d’immagini chiamata cinema, SaulBass è stato il migliore. Perché, come riconosceMartin Scorsese che gli ha affidato quattro film, «isuoi titoli di testa non sono semplici etichette sen-za fantasia, ma fan parte del film in quanto tale.Quando il suo elaborato appare sullo schermo, laproiezione comincia».

Con Bass, maestro dei titoli di testa per registi il-lustri, da Alfred Hitchcock a Stanley Kubrick, da Ot-to Preminger a Billy Wilder, l’inizio dei film è diven-tato un film nel film, miniopera d’autore e, insieme,prologo sempre più organico allo spirito e alle at-mosfere della pellicola. Una piccola rivoluzione,avvenuta negli anni Cinquanta, come ricordava,con un sorriso ironico, lo stesso cineasta Usa, cele-brato nel ’94 — due anni prima della scomparsa —con una personale e una mostra al Festival di Taor-

mina, allora diretto da Enrico Ghezzi: «Nelle abitu-dini molto fotografiche del tempo, il mio stile, fattodi rapide sintesi e di metafore visive, ha portato su-bito un bello scompiglio».

Bastava il barbaglio grafico dei suoi “incipit” incelluloide per inchiodare il pubblico alla poltrona.Alcuni sono entrati nella storia del cinema, comeL’uomo dal braccio d’oro di Preminger, che nel ’55insinua tra le lettere del titolo un artiglio grafico, ilnero ritaglio d’un braccio di carta, immediato logo— anche nei manifesti — della parabola d’un musi-cista jazz (Frank Sinatra) in lotta contro la dipen-denza dall’eroina: «Il mio proposito è di prepararelo spettatore all’emozione della visione, di stuzzi-cargli l’appetito del film, immergendolo nelle spiredella storia. Una prima ambientazione, un pre-as-saggio che dia l’impressione, quando il film inizia,di averne già intuito il sapore».

Son queste innovazioni a spingere Preminger, ilregista più gemellato a Bass in titoli di testa e mani-festi — Santa Giovanna (’57), Bonjour Tristesse(’58), Anatomia di un omicidio, ’59 (la silhouette apezzi d’un manichino), Exodus (’60) —, a rivoluzio-nare le abitudini delle sale Usa dove, fino agli anniCinquanta, il sipario scopriva lo schermo solo dopoi titoli di testa. Preminger cominciò a mettere su tut-te le sue bobine l’avviso intimidatorio: «Projectio-nists! Pull Curtain before Titles» (Aprite il sipario

MARIO SERENELLINI

STORYBOARDSopra, Il manifestodi Anatomia di un omicidiodi Otto PremingerA destra lo storyboarde la sequenza della doccia di Psycho

LOCANDINEIn alto West Side Storye L’uomo dal braccio d’oroQui accanto,la firmadi Saul Bass

Saul Bass, il geniodei film-miniatura

Ha firmato i migliori incipit della storia del cinemae manifesti che hanno la dignità di opere d’arteBasti pensare all’occhio-voragine de “La donna

che visse due volte”. A novant’anni dalla nascita, il Future Film Festival di Bolognasta per rendergli omaggio. Sarà l’occasione per scoprire un artigiano dietro le quintema che, pochi lo sanno, inventò e forse girò la scena della doccia di “Psycho”

SPETTACOLI

IL FESTIVAL

Il XII Future FilmFestival (Bologna,Palazzo Re Enzo,26-31 gennaio)oltre allo spazioSaul Bassprevede anteprimedi stop motion,con gli inglesidella Aardman(Walllace & Gromit)e i francesidi Paniqueau village,e il “3dDay”[email protected]

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27DICEMBRE 2009

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Esistono ulteriori “ricette Bass” per il titolistaideale. Prima regola, «rendere straordinario l’ordi-nario, trasformare il noto in ignoto». «È quanto hofatto in Nine Hours to Rama di Robson, sulle noveore che precedono l’assassinio di Gandhi: ho resoossessivi i meccanismi dell’orologio per trasmette-re l’inesorabilità del passaggio di ogni istante. Op-pure, in Anime sporche di Dmytryck, ho caricato diminaccia l’andatura di un gatto nero che poi si az-zuffa con un gatto bianco». Sequenza tra le più ama-te da Steven Spielberg ragazzo, che nel ’93 affideràa Bass uno dei manifesti di Schindler’s List, un fram-mento d’elenco trafitto dal filo spinato. Seconda re-gola, «partire da un’immagine elementare per svi-lupparla in un numero infinito di combinazioni».«È il caso del globo martoriato, trasformato, irriso,in Questo pazzo pazzo pazzo mondodi Kramer, o deigraffiti di West Side Storydi Robert Wise che da sem-plice annotazione ambientale diventano “attori”centrali dei titoli». Terza regola, «ribaltare in prota-gonisti della storia i momenti che precedono l’ar-gomento della pellicola». «Come in Grand Prix, do-ve ho scomposto gli attimi d’attesa della corsa».

Il film del ’66 di John Frankenheimer, su senti-

menti e rivalità in sei gare di Formula 1, offre felici«incursioni fuori titolo» a Bass, che vi dirige tutte lesequenze delle corse. Animale di cinema e non so-lo di grafica, non si contenta di dare il “la” ai film al-trui, ma quando può ne realizza di propri: tanti cor-ti, tra cui Why Man Creates, Oscar nel ’68, e un sololungo, nel ’74, Fase IV: Distruzione Terra («dopo unavita trascorsa a realizzare gli inizi e la fine dei film, hoprovato a girare anche quello che ci sta in mezzo»).

Ma il clou l’attinge intrufolandosi in sequenze-chiave, condizionandole con i suoi formidabilistory boards o girandole lui stesso: la battaglia fina-le di Spartacus(’60) di Kubrick, e soprattutto (anchese non è mai stato ufficialmente riconosciuto) la se-quenza della doccia nel film di Hitchcock, Psycho,altro classico di cui si festeggia nel 2010 il mezzo se-colo. A ogni occasione Bass ne sventolava, con or-goglio, lo story board da lui disegnato, «sequenzamuta — glossa Ghezzi — che diventa il ritratto cu-bista di un urlo, l’urlo più famoso di tutta la storia delcinema. Bel paradosso, per il re dei titoli, restar le-gato per sempre a una sequenza senza titoli».

prima dei titoli di testa). Era il battesimo ufficialed’un “supplemento” di celluloide, finora trascura-to. Era anche il riscatto definitivo da quel limbo del-la visione definito in un altro omaggio di recupero aBass, due anni fa al Palazzo Reale di Milano, “Pop-corn Time”, il momento dello sgranocchiamento,cui fino allora erano sacrificati i minuti iniziali d’unfilm, le fantasie in libertà al primo giro di rullo: ma-gari titoli-capolavoro, come l’occhio-voragine diLa donna che visse due volte (’58) di Hitchcock.

L’ultima promozione sarà al prossimo FutureFilm Festival di Bologna, dal 26 al 31 gennaio, la re-trospettiva del microcinema di Bass, visto senza ilsuo naturale “continua” — il film ispiratore —, mariproposto (a novant’anni dalla nascita dell’autore)come prodotto autonomo, genere a sé. Si potrannodegustare una sessantina di sfolgoranti “pre-visio-ni”, a partire dalla rosa avvolta nella fiamma dellapassione all’inizio di Carmen Jones(’54) di Premin-ger, primo titolo di Bass e preannuncio d’uno degliultimi, L’età dell’innocenza (’93) di Scorsese: unosbocciare a ripetizione di rose rosse, quasi una fio-ritura dei rimpianti, filtrati dal ricamo di una tenda.

Lui li definiva «film in miniatura». Rivisti oggi, con

l’occhio saturo di pubblicità, possono apparire an-tenati immaginosi e suadenti degli spot, sfarfalliipromozionali del “prodotto” cinema. Dietro le infi-nite peripezie grafiche, non si tarda però a indivi-duare lo stesso, solido principio, che Bass non sistancava di ripetere: «Il coinvolgimento della plateadeve cominciare subito, fin dal primo fotogramma:la funzione dei titoli è di iniziare “al” film, di antici-parlo più che di annunciarlo, facendone già pre-sentire il tono e il clima». Era l’unico punto su cui s’e-ra sempre trovato d’accordo con Preminger, la sua“bestia nera” preferita (di Bass, fedele collaborato-re per oltre trent’anni, Preminger ricordava «le liticontinue e furibonde, che non facevano che rinsal-dare l’amicizia, perché la sua reputazione di pas-sionale senza controllo era compensata da una ra-ra generosità»). È il principio cui si rifà con rigore lasua lunga carriera di titolista, affiancato nel “perio-do Scorsese” dalla moglie Elaine: «È stata la mia pri-ma segretaria, encomiabile per scrupolo e inventi-va. Quando mi chiese un aumento, le risposi chenon potevo permettermelo ma, in cambio, potevopermettermi di sposarla».

SPARTACUSLa locandina della Donnache visse due voltedi Hitchcock; a destra,lo storyboard della battagliafinale di Spartacusdi Stanley Kubrick

La sua ricetta era: «Rendere straordinario l’ordinario,trasformare il noto in ignoto». Non si stancava di ripetere:«Il coinvolgimento della platea deve cominciare subito,dal primo fotogramma che serve a far presagire il clima»

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 27DICEMBRE 2009

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27DICEMBRE 2009

Libiam ne’ lieti calici, intona Alfredo ne La Traviata.Nei giorni dei cento brindisi, i consumi di bollicinesi impennano, per la gioia di vignaioli e grossisti, ne-gozianti e degustatori, importatori e sommelier.Non esiste pranzo celebrativo, cena festaiola, contoalla rovescia esente dal rituale della bottiglia stap-

pata con allegra baldanza, in un tintinnare di bicchieri e sorrisi.Fino a ieri, la prima scelta si chiamava champagne, campione

mondiale dell’effervescenza alcolica, signore e padrone di tutti icin-cin del pianeta, felicità da trangugiare in sorsi frizzanti. Tut-to ciò che non usciva dalle sontuose maison adagiate nelle cam-pagne a est di Parigi era considerato un surrogato, quasi mai benriuscito: perlage grossolani o inesistenti, aromi indefinibili, re-trogusti dolciastri o allappanti. Per molto tempo, le bollicine ita-liane sono state orfane di quella briosa armonia che titilla il pala-to e fa schioccare la lingua al primo sorso. Un tale senso di inade-guatezza da schiacciare i primi champenois made in Italy sotto ilpeso di storiche realtà vinicole industriali (e profondamente di-verse) come quelle di Asti Spumante e prosecco.

Ma il tempo delle bottiglie-cenerentola è finito, e non certoperché quest’anno la produzione complessiva di vini frizzantiitaliani per la prima volta ha superato quella francese. A contare,finalmente, è l’alto profilo degli spumanti a rifermentazione na-turale. Una crescita notevole, polarizzata in due zone vitivinico-le — tra Lombardia e Trentino — che si specchiano nel lago diGarda, vicine ma assolutamente originali e distinte. In scia a tan-ta svelata bontà, via libera ai nuovi spumanti di qualità dal Pie-monte alla Sicilia, a cui aggiungere la riscoperta delle terre voca-te nell’Oltrepò Pavese. Uno scatto in avanti che ha indotto anchei migliori produttori di prosecco a innalzare gli standard di pro-duzione.

La sfida è tosta e articolata, in un saliscendi di riconoscimentisplendenti, ma anche di speculari mancanze, come l’impossibi-lità di trovare un sinonimo per champenois, dopo che i francesihanno ottenuto di usare il termine in esclusiva. Così, anche gra-zie allo scarso appeal di “Talento” e “Metodo Classico”, la defini-zione “bollicine” continua a spopolare tra enoteche e ristoranti.

Che arrivino dalle colline bresciane o dalle vallate trentine, lebollicine italiane vanno trattate bene: niente botto per conser-vare il massimo dell’effervescenza tanto faticosamente guada-gnata nei mesi/anni di maturazione, bottiglia inclinata a 45 gra-di, pollice a “contenere” il tappo. E poi servizio a giusta tempera-tura, in bicchieri possibilmente più generosi dell’ormai datataflute, fra il momento dell’aperitivo e gli antipasti (per i dolci, so-no perfetti i demi-sec). Gli appassionati dal polso d’acciaio pos-sono cimentarsi nella rutilante arte del sabrage, la bottiglia deca-pitata con un colpo secco di spada (sabre), usanza mutuata daifesteggiamenti sul campo della Guardia Reale francese ai tempidi Napoleone. Astenersi se di mano delicata o malferma.

LICIA GRANELLO

Bollicine© RIPRODUZIONE RISERVATA

Riserva AquilaReale 2002È figlia di unoChardonnay in purezza coltivatoin Valle di Cembra a cinquecento metrislm la riservaprodotta da Cesarini Sforza,caratterizzata da colore intenso,bouquet minerale e fruttato Prezzo al pubblico:40 euro

Balter BrutRiserva 2003Sei anni di maturazione,prima di poterassaggiarel’elegante cuvée —80% di uveChardonnay,20% di Pinot Nero — che Nicola Baltercura personalmentenella campagna di Rovereto Prezzo al pubblico:28 euro

976 Riservadel FondatoreQuasi otto anni sui lieviti: la sboccaturaritardata(dégorgement tardif)voluta dalla famigliaLetrari regalaa questo blancde blanc aromicomplessi, gustopieno e grandepersistenza Prezzo al pubblico:45 euro

AltemasiRiserva GraalCopre quasi i due terzidella produzionevinicola trentina la cooperativaCavit. Ma il suoGraal è cosìcomplessoe suadente che laguida del GamberoRosso l’ha elettospumante dell’anno Prezzo al pubblico:29 euro

Cuvéedell’Abate2004Nasce nellevendemmie migliori,questo sontuosomillesimatodi Abate Nero, fruttodi un trittico di uve(Chardonnay, PinotBianco, Pinot Nero)coltivatesulle collinedi Trento e LavisPrezzo al pubblico:30 euro

FerrariPerlè Grazie a un’intuizionestraordinaria, la partnership col vignaiolo GiulioFerrari nel ’52, i Lunelli hanno creatouno splendidoimpero enologico Squisito il millesimato di ChardonnayPrezzo al pubblico:30 euro

contro

Tempo di brindisii sapori

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L’anno in cui la nostra produzione di vinifrizzanti supera quella francese segnaanche la fine del complesso d’inferioritàdello spumante rispetto allo champagneLa crescita delle zone d’eccellenza,Trentino e Franciacorta, lo dimostra

La sfida delle ex cenerentole

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 27DICEMBRE 2009

Come competerecon una storia di secoli

LUCA GARDINI

Lo confesso: ho un debole per le bollicine. Sarà perché arrivo da una terra, l’E-milia-Romagna, che ama da sempre i vini frizzanti. Abbiamo salumi e for-maggi fantastici: culatello, parmigiano, prosciutto di Parma e di Carpegna:

niente è meglio di una bollicina per esaltarne i gusti sapidi e lasciare la bocca fre-sca, pulita.

Sono buoni i nostri spumanti, a volte buonissimi. La Franciacorta è il polmonedella spumantistica made in Italy, per area coltivata, quantità di produttori, ca-pacità di comunicazione. Ma come per i rossi non esistono solo Toscana e Pie-monte, anche per le bollicine esistono aree privilegiate, a cominciare dal Trenti-no, seguito da Alta Langa e Oltrepò Pavese. Gli stili sono molto diversi. Il Trentinosi caratterizza per morbidezza e profumi. Succede perché lo Chardonnay, che do-na eleganza e finezza, si trova nella sua zona più vocata. È uno stile che identifica,e a volte limita, l’intera regione: non a caso, le produzioni migliori sono quasi tut-te blanc de blanc, ovvero Chardonnay in purezza. Anche la Franciacorta ha un suoconnotato territoriale: da “Ca’ del Bosco” alle “Marchesine”, aziende grandi e pic-cole sanno tirar fuori il terroir, fatto di grande mineralità, aromi complessi, im-patto di personalità. Ma la maggiore frammentazione produttiva permette ai sin-goli marchi di sviluppare un carattere più originale e distintivo.

Lo champagne è diverso, imparagonabile. Non è meglio o peggio, è proprioun’altra cosa. Quattrocento anni di storia alle spalle qualcosa vorranno pur dire.Guardiamo anche i loro vini rossi: in Bordeaux mettono giù le stesse quattro uve— Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Petit Verdot — da mille anni. Illoro super campione, il mitico “Petrus” non è mai cambiato. È uno dei segreti delloro successo, un po’ come i nostri grandi barolisti: se sei sicuro di quello che fai,non segui le mode, resti fedele alla tua linea, tieni duro. E alla fine vinci. Invece noitendiamo a cambiare, modificare, aggiungere. La terra non gradisce, e nel bic-chiere ritrovi quel disagio.

Se devo scegliere, come professionista non posso tralasciare il rapporto qua-lità-prezzo: le nostre bollicine sono competitive nelle produzioni-base, mentrenei millesimati più pregiati il costo a volte non corrisponde a quello che si trovanelle bottiglie, a maggior ragione se le confrontiamo con le pari grado francesi. Ilfatto è che per crescere di più sarebbe importante unire le forze, e questo per noiè sempre difficile: preferiamo andare da soli, anche a costo di fare poca strada. Seproprio vogliamo fare la lotta allo champagne, la sfida deve essere italiana, nonregionale. Quando i consorzi di Franciacorta e Trentino, ma anche Alta Langa eOltrepò, faranno fronte comune, comunicando il valore e l’originalità dello spu-mante metodo classico italiano, sarà un grande giorno per la nostra viticoltura.

L’autore, capo sommelier del ristorante milanese “Cracco”,è campione europeo dei sommelier

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dove comprare dove comprare

CuvéeAnnamariaClementi 2002Arrivano da sedicivigne differentile uve (Chardonnay,Pinot Bianco e Pinot Nero) della magica cuvéedi Cà del Bosco,l’azienda di Maurizio Zanella,presidente del ConsorzioPrezzo al pubblico:75 euro

BrutMajoliniPigiatura soffice,fermentazionein acciaio e affinamentoin piccole bottidi rovere per l’assemblaggiodi uve Chardonnaye Pinot Nero, risultaperfetto comeaperitivo, va benesu pesci e crostacei Prezzo al pubblico:20 euro

MagnificentiaUbertiHa spuma sofficee cremosa, tipicadei satèn,il 100 per centoChardonnayprodotto nella campagnadi Erbusco, cuoredi FranciacortaFine e persistente,risulta perfetto sui piatti di pescePrezzo al pubblico:27 euro

RiservaVittorio Moretti2002Solo nelle annatefantastiche, Mattia Vezzola,super enologodi Bellavista,dedica al proprietariodell’aziendauna cuvée-gioiellodi rara intensità,da goderea tutto pasto Prezzo al pubblico:100 euro

Satèn BaronePizziniTessiturae piacevolezzasoavi, tre annidi affinamento sui lieviti in bottigliaper il premiatissimospumante ottenutoda uve Chardonnay,rigorosamentecoltivate in regimebiologico. Perfettoper il pesce Prezzo al pubblico:27 euro

FranciacortaP. R.MonterossaDedicate ai fondatoridell’azienda, PaolaRovetta e PaoloRabotti: sono50mila le bottigliedi armonioso blancde blanc (100%Chardonnay)appena lanciatodal talentuoso figlioEmanuele Prezzo al pubblico:19 euroFr

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LE CANTINE DI FRANCIACORTAVia Iseo 98ErbuscoTel. 030-7751116

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MANI GUANTATEMani di velluto per Camomilla. Guanti altial gomito e con una fila di bottoncinidecoro che li rendono ancora più preziosi

le tendenzeLook 2010

Napoleone lo usava per le uniformi da cerimonia,le dive del cinema lo hanno indossato come stoffa simbolodei gran gala. E adesso gli stilisti ne hanno decretatola rinascita. Perché lucentezza e morbidezza sonosinonimo di eleganza perfino negli accessori, dettagli di stileche accompagnano la mise scelta per San Silvestro

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27DICEMBRE 2009

Notte di velluto

IRENE MARIA SCALISE

Èdi velluto la rivoluzione delle donne per i giorni di Natale. Nientea che spartire con quella che, proprio intorno alle feste di fine an-no del 1989, rovesciò il regime comunista cecoslovacco: la “Sa-metovà revoluce”. E non è neppure lontana parente della lobbyprogressista che, in vista della corsa di Hillary Clinton alle presi-denziali del 2008, aveva scelto di chiamarsi appunto Velvet revo-

lution. Questa volta non ci sono cortei pacifisti o elezioni alle porte ma, sem-plicemente, la voglia di ammorbidire il guardaroba. Il velluto avvolge, ad-dolcisce, quasi stordisce. È il tessuto destinato alla gran sera ma anche agliarredi preziosi. È antico ma, come per incanto, sempre giovane. Piace alledonne e incuriosisce gli uomini. È amato dai più piccini che, grazie a quel-la stoffa morbida e calda, non soffrono del contatto con le lane ruvide e pru-riginose che spesso li fanno piangere.

Che origini ha il velluto? Il nome, vellus, deriva dal latino. Per alcuni na-sce in India, per altri in Cina o forse in Persia. Intorno al Tredicesimo seco-lo divenne il simbolo delle classi più agiate e arrivò in Italia. Era prodotto aLucca, Genova, Firenze e Venezia. Certo è che il velluto, da sempre, ha con-quistato fan illustri. Napoleone lo usava nelle occasioni ufficiali e, grazie alsuo esempio, gli uomini del tempo lo scelsero per i gilet e le giacche a mez-za gamba. Ma anche tante dive del cinema lo hanno adottato come una se-ducente divisa: dalle attrici del muto fino a Greta Garbo, Marlene Dietriche Joan Crawford. Per non parlare delle mille volte che, quella scivolosa pa-rolina, è entrata nei dizionari cinematografici: Velluto blu, Mani di velluto,Quattro mosche di velluto grigio. O nella storia della musica grazie al rockamericano dei Velvet Underground.

In questo indefinito inverno 2009, in cui tanti piangono la crisi e altri ti-rano la giacchetta a una miracolosa rinascita, il velluto evoca fasti. Spingea sognare tempi migliori per il portafoglio e per la vita. Le donne lo hannoadottato su tutto: vestiti ma anche borse, cinture, cappelli e, perché no?,scarpe. Il velluto dona una speciale luce a tutte le età e, nell’intramontabi-le versione nera, fa subito festa. Le più accanite lo hanno anche scelto percoloratissime e comode tute da ginnastica, per abiti informali e per tuttol’abbigliamento che, convenzionalmente, rientra nella definizione di“tempo libero”.

Non solo. Mutuate dalle tradizionali pantofoline furlane, le scarpe in vel-luto sono entrate di prepotenza anche nel guardaroba maschile. Magari de-corate con piccoli stemmi o, per i più modaioli, con teschi rivisitati in ver-sione glamour. Queste scarpette, oltre a essere comodissime, ringiovani-scono il look e donano una certa aria chic anche a quegli uomini che trop-po chic non sono. L’importante, per questa trama così delicata e preziosache si realizza a telaio con filati molto sottili, è trattarla con amore. Il vellu-to mal sopporta le piogge improvvise o i colpi di ferro rovente. Si ama per-ché, più che un semplice tessuto, è un piacere della vita. Come un gioiellova curato e, periodicamente, lucidato con speciali spazzole.

Il velluto è il perfetto compagno di notti magiche e la più magica tra tut-te, si sa, è l’ultima notte dell’anno. Per quella sera così speciale è una ga-ranzia. Specialmente se nei toni del rosso, più o meno scarlatto, fa subitoun effetto festa. Un abito in velluto è migliore (e più economico) di tanti dia-manti. Per chi non osa il total look può comunque bastare una piccola bor-sa pochette. Magari rossa o dalla foggia antica. O anche il sandalo inverna-le che, se non si temono i grandi freddi, seduce a colpo sicuro. E allora buonCapodanno alle donne e agli uomini di velluto, vestiti per l’ultimo brindisidi questo anno che se ne va.

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DANDY PERFETTTOPer il perfetto dandyc’è lo smoking neroFerragamo. L’elementoin più? La pantofolinain velluto color ghiaccio

DRAPPEGGIO ROSSOÈ il simbolo delle festel’abito morbido, rossodi Fendi. Da indossarecon una cintura sottilee scaldamuscoli in rasoabbinati ai sandali vertigine

PORTAFORTUNAÈ piccola ma preziosala borsa in morbidotessuto di StrenesseIl colore rosso la rendeperfetta per fine annoPorterà fortuna

Capodanno è caldo e soffice

DA PRINCIPESSASembra fatto appostaper esaltare un incarnatoda principessa delle nevil’abito Prada con topdrappeggiato in vellutoe gonna sinuosa

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 27DICEMBRE 2009

DEA ROMANTICAÈ una dea della nottequella di Angelo MaraniL’abito romanticogioca con i contrasti:pantaloni in pelle nerae cappotto lungo in velluto

NUOVO SMOKINGSmoking da gran seradi Dolce & GabbanaLa giacca in velluto rossolo rende insostituibileper festeggiare l’ultimogiorno dell’anno

SPLENDORI AMARANTOPer il maniaco del dettaglioecco la giacca in splendidocolor amaranto dalla lineaavvitata di Lardini. Si puòindossare con camiciabianca e sciarpa fantasia

SEDUZIONI D’INVERNOPer chi non teme il freddoanche in pieno invernoci sono i sandali in vellutonero di ValentinoFiocco sul davanti e taccovertiginoso per sedurre

REMAKE CLASSICORivisitata ma in fondo classicala scarpa da uomo in vellutodi Santini. Ideale per l’abitoelegante, può essere indossata,dagli under trenta, anchecon un pantalone di tagliopiù sportivo

OPERA D’ARTEPer la donna che non teme di stupire

né di perdere l’equilibrio, ecco le scarpescultura griffate Chanel. Tacco opera d’arte

RIGHE VERTICALIGiacca a righe verticaliper l’uomo che sceglieun’eleganza originale comequella proposta da CanaliI più sportivi la potrannoabbinare anche ai jeans

Giorgio Armani.Abito da sera?“Giovane, vivace, dunque corto”

LAURA ASNAGHI

TOTAL BLACKMinimal ma elegantissimala donna in total blackdi Armani. Per non lasciarenulla all’eccesso e stupirecon la solita classedi “re Giorgio”

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Come deve essere l’abito da sera secondo Armani?«Elegante, splendente per il colore o il tessuto, piacevole da indossare. Ecorto, dopo tante stagioni dove la preferenza è andata ai vestiti lunghi. Il

corto è vivace, contemporaneo, molto giovane. Naturalmente ci sono vari tipidi corto fino al cortissimo: dipende dal gusto e dalle abitudini, ma c’è una bel-lezza, una modernità, nella figura che diventa agile, che è sempre attraente».

Ci sono suggerimenti o trucchi per le donne "rotondette"?«Giocare sui contrasti. Sopra un abito di linea sottile, ma non troppo ade-

rente, è meglio indossare qualcosa di sciolto, perché alleggerisce la figura. An-che la giacca non deve essere chiusa, ma slacciata. Qualche collana lunga, poi,può dare slancio al busto: piccoli effetti ottici che danno grandi risultati».

Nonostante la crisi c’è voglia di avere un abito da sera. Ma se non si hannograndi mezzi, cosa suggerisce Armani alle donne?

«Offritevi un bel paio di scarpe, o una borsetta o un accessorio che può cam-biare l’abito. Sbrigliare l’immaginazione per reinventare quello che si è solitiindossare: accostare una camicia a una gonna diversa dal solito o a un paio dipantaloni sportivi può dare un tocco fresco all’abbigliamento».

Lei fa una linea di alta moda di grande successo. Ma quando crea a cosa siispira?

«Per me, la collezione Privè, equivale alla realizzazione di un sogno, una oc-casione speciale nella quale fantasia, passione, memoria si fondono per crea-re qualcosa di unico. Tutto è concepito su misura, dal ricamo al dettaglio di unafibbia».

C’è un abito da sera ideale per le ragazze e uno per le donne? «Penso che una delle più importanti conquiste della donna in questi decen-

ni sia stato il superamento di questa regola generalizzata per cui a una certa etàera d’obbligo vestirsi da donna matura. Questa logica non esiste più. Oggi ledonne scelgono in base al proprio gusto. L’eleganza non è data da una serie diregole fisse, piuttosto si tratta di un atteggiamento che il tempo modifica. Lostesso vestito si può portare in modo diverso secondo l’età, ed essere sempreperfetto».

Come vanno abbinati gli accessori?«Per istinto e sentimento, cercando punti di contatto emotivi più che per il

colore o il materiale. Staccarsi dal nero per provare il piacere di tonalità forti».C’è un modo corretto di indossare un abito?«Mi piace pensare che la spontaneità è bella, e l’essere imprevedibile è una

caratteristica femminile. Così indossare un abito nuovo è sempre un’avven-tura, alla quale ci si può preparare con calma, riflettendo sull’effetto che si vuo-le raggiungere. Perché il modo corretto di indossare l’abito è anche il più na-turale, quello che corrisponde alla propria personalità e che si fonde con il mo-do di fare, lo stile».

Ha qualche consiglio make up per un abito elegante?«Mi piace il rossetto. Ma se si accentuano le labbra occorre tenere la mano

leggera sul maquillage degli occhi».

FOGGIA ANTICAHa una foggia anticail mini-bauletto di Robertadi Camerino. Giocasul contrasto dei colorie sui dettagli della chiusurae del manico rigido

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l’incontro

lità di trasformare in un pupazzo vendi-bile il vecchietto protagonista del re-cente Up.

Tutti gli amici-colleghi della Pixar, daStanton a Docter, giurano che l’atmo-sfera di lavoro è la stessa di quand’era-no in un ufficio con tre stanze e quattrocomputer. Oggi lavorano ventidue oreal giorno in una specie di azienda-para-diso con corsi di teatro, palestre e ognitipo di svago. E se l’armonia regna so-vrana è tutto merito del leale John: «Nonci sono scheletri negli armadi, non cisono strategie nascoste nel nostro mo-do di lavorare come gruppo e comeazienda», dice orgoglioso Lasseter.

È ancora lui a dare l’esempio a unasquadra di registi padri di famiglia: di fi-gli ne ha cinque, avuti con Nancy, gi-gantesca rossa con un viso da bambina,conosciuta a una convention grazie alcollega regista Chris Wedge (quello diL’era Glaciale, fiore all’occhiello dellarivale Fox). «Nancy è una donna fanta-stica, capace di gestire la casa, i ragazzi,gli affari e perfino la nostra azienda vi-nicola», sorride Lasseter. «È stata lei aconvincermi, nel Duemila, a mollaretutto per un viaggio di due mesi in cam-per per le strade americane. Percorren-do la Route 66 è nata l’idea di Cars,omaggio a mio padre manager dellaChevrolet e alla mia passione per i mo-tori. Ci credereste, i miei ragazzi ancoraparlano di quel viaggio». Sospira: «Ac-compagnando uno dei miei figli al col-lege mi sono reso conto di quanto il la-voro, pure fantastico, abbia sottrattotempo alla mia famiglia. Da padre dicinque figli il consiglio che posso dare èdi goderseli giorno per giorno. L’ho vo-luto perfino far diventare il messaggiodel cartone animato Up: a rendere spe-ciale la vita non sono le grandi avventu-re ma i piccoli, straordinari, momentiquotidiani condivisi con chi ami».

mio». Lo annunciò alla madre, inse-gnante d’arte, e alla Disney con una lun-ga lettera che come risposta ebbe l’invi-to a una visita agli Studios e, nel 1971, re-galò al giovane Lasseter lo status di se-condo studente ad essere ammesso al-l’istituto d’arte californiano della Di-sney. Ci resterà quattro anni,realizzando due pregiati cortometrag-gi. Tra i suoi compagni di corso, all’epo-ca, John Musker (regista, appunto, di Laprincipessa e il ranocchio), Brad Bird(Ratatouille) e Tim Burton.

«Tim aveva un talento eccezionale edera già gotico quanto a gusti», raccontaLasseter. «Ricordo che trascorreva lenotti a guardare film dell’orrore e cheaveva una mano straordinaria: realiz-zava ritratti alle persone in pochi se-condi. Passava i fine settimana a fareschizzi della gente che girava per il cen-tro commerciale Glendale Galleria.Aveva un tratto unico. E aveva anche untalento d’attore innato, una mimica in-

credibile», ride Lasseter. John e Tim fu-rono assunti alla Disney nella stessaepoca, e quasi contemporaneamentelicenziati. Già, perché anche se per an-ni lo ha dolorosamente taciuto, il regi-sta fu fatto fuori senza pietà. «Ricordoun mio superiore che mi diceva di nonprendere iniziative e limitarmi a farequel che mi si chiedeva. Che ero uno trai tanti, facilmente sostituibile. Avevo vi-sto Tron della Disney, presentai il mioprogetto di un cortometraggio digitale.Fui bocciato. Non avevo saputo giocarela partita con diplomazia, la società erapiena di vecchi executive che avevanopaura del talento dei giovani».

Nel periodo della «grande frustrazio-ne», una nuova folgorazione lo abba-cinò: la visione di Star Wars.«Dopo avervisto il capolavoro di Lucas molti mieicolleghi lasciarono l’animazione perdedicarsi agli effetti speciali, io sentivoche il cartoon era la mia strada». In quelperiodo, il circuito dei workshop e i cor-si di animazione sono la sua rete di sal-vezza. Riesce a entrare nella “Divisioneanimazione al computer” della societàGeorge Lucas. Nell’86 Steve Jobs rilevala divisione, la ribattezza Pixar e mettealla guida proprio Lasseter, lasciando-gli piena libertà creativa. Ecco i cortiLuxo Jr, candidato all’Oscar, e Tin Toy,che vince la statuetta nell’88. È il mo-mento di Toy Story, il primo film realiz-zato tutto al computer e il primo carto-ne a ricevere una nomination alla sce-neggiatura.

Da allora film e premi fanno la storiadell’animazione recente: ultimo in or-dine di tempo il Leone d’oro alla carrie-ra tributato a Lasseter dalla Mostra diVenezia. La Pixar è, insieme, un vulca-no di creatività e una macchina da in-cassi. Tutto secondo i principi «la crea-tività al potere» e «quel che contano so-no la storia e le emozioni». «Come ci hainsegnato Walt Disney, che all’epocad’oro fece di Topolino il secondo perso-naggio più popolare al mondo dopoChaplin, quel che conta in un film, per-ché un cartone animato è un film, sonola storia, i personaggi, le emozioni». Ilresto, tutto il resto, viene dopo. Perfinoil messaggio, che pure non manca mai,non è sbandierato come elemento per ilquale promuovere o giustificare il film.Non è un caso che dopo anni di sodali-zio la nuova Disney abbia rotto con Mc-Donald’s, mentre in sala arrivava uncartone come Ratatouille a spiegareche il buon cibo significa arte e salute.Come nulla hanno potuto le lamenteledegli uomini marketing sull’impossibi-‘‘

Re di Hollywood

Ho prodotto“La principessae il ranocchio”,con le tavole disegnatea mano perché c’èun’intera generazioneche non ha mai vistoal cinema un filmdella vecchia scuola

È il Walt Disney del Ventunesimo secolo,ma non solo. Il leader della Pixar, padredi capolavori come “Toy Story”e “Wall-E”, è anche l’immagine

della serenità, il primoa divertirsi con il lavoroPerché l’animazioneè il sogno della sua infanzia«Da piccolissimo mi alzavoalle sei e mezza al sabatoper vedere i cartoni in tvAl liceo ero praticamente

un disadattato,uscivo da scuolae correvo dritto a casa per divorare BugsBunny insieme a quintali di popcorn”

John Lasseter ha il physique durôle da Babbo Natale in vacan-za. Corporatura robusta, car-nagione chiarissima, naso a pa-tata sovrastato da occhioni ce-rulei. Veste camicie hawaiane

con disegni ispirati ai suoi cartoon. Neindossava una anche il giorno, nel 2006,in cui è stato nominato leader creativodei colossi Pixar e Disney, diventandol’uomo più potente dell’animazionemondiale. «Sono la mia divisa ufficiale.Comprai la prima hawaiana nell’87. Mici sentivo talmente bene che la misi fin-ché non andò in pezzi. Mia moglieNancy, allora, mi suggerì di farne con-fezionare una dozzina con su stampatii personaggi dei miei film: giocattoli,animali, astronavi, macchinine. Il risul-tato è che a casa nostra esiste ormai unintero guardaroba dedicato e tematico:oltre alle hawaiane e alle automobilisti-che ci sono le camicie cinematografi-che ispirate a Toy Story, Cars, Bug’s Life,Monsters Inc., Wall-E, Bolt. Lo so che èuna cosa da ragazzini, ma gli animatorinon crescono mai veramente e una ca-micia hawaiana è come un giocattoloche puoi indossare».

All’anteprima di La principessa e ilranocchio nella californiana Burbank,sede centrale della Disney, un mese fane sfoggiava una nuova di zecca, sui to-ni dell’azzurro Mississippi e del verderana. Già, perché l’uomo della svoltaepocale dell’animazione, colui che haregalato al computer la paternità deicartoon della nuova generazione, il re-gista di Toy Story,per intenderci, è statoanche colui che ha riportato sul grandeschermo, quando ormai nessuno ciscommetteva più, le vecchie tavole di-segnate a mano e una storia in piena tra-dizione Disney. E il mercato, conse-gnando venticinque milioni di dollari

nel solo primo fine settimana a La prin-cipessa e il ranocchio, gli ha dato ancorauna volta ragione. «C’è un’intera gene-razione di ragazzini che non ha mai vi-sto un cartone della vecchia scuola Di-sney al cinema. Era ora di far conoscereloro la magia di una favola come quelleche hanno fatto sognare le mamme e lenonne». Lasseter, produttore esecutivodell’opera, ha voluto ambientare la sto-ria a New Orleans: «La mia città preferi-ta nel mondo». A La principessa e il ra-nocchio pure è affidato un elemento diforte innovazione: un’eroina afroame-ricana, prima volta per la Disney. «Lagrande novità è che Tiana non è unaprincipessa, ma una ragazza forte edemancipata che lavora duro e ha unobiettivo preciso: aprire un ristorante.Ma, nel suo viaggio verso la realizzazio-ne del sogno, imparerà che qualunquesogno, per essere davvero tale, deve es-sere condiviso».

Quando parla di emozioni e senti-menti Lasseter si fa serio. Perché per luil’amore, la lealtà, l’amicizia, l’onestàsono la materia di cui sono fatti i sognicinematografici per bambini e concre-ti valori di comportamento su cui il pro-duttore ha basato la vita e perfino gli af-fari. La vera favola che l’accompagna èquella di essere riuscito a creare un im-pero economico cinematografico rettoda un gruppo di creativi scelti tra i colle-ghi, i suoi vecchi amici di college, i ta-lenti conosciuti agli stage d’animazio-ne e ai workshop. Terry Gilliam, a pro-posito del gruppo di cervelli Pixar (PeterDocter, Brad Bird, Andrew Stanton, LeeUnkrich), ha detto che sono riusciti arealizzare su larga scala quel che neglianni Sessanta avevano sperimentato inGran Bretagna i Monty Python.

Non che Lasseter non abbia preso lesue sonore batoste, nella vita professio-nale. Il dolore più grande glielo inflisseproprio la Disney, che è stata la primamadrina artistica, per poi rivelarsi ma-trigna professionale. Nato nel ‘57 aWhittier, California, John Lasseter hamanifestato l’ossessione animata in etàprecoce: «Da piccolissimo ricordo chemi alzavo alle sei e mezza, di sabatomattina, per vedere i cartoni in televi-sione. Al liceo ero praticamente un di-sadattato, all’uscita correvo dritto a ca-sa per divorare Bugs Bunny insieme aquintali di popcorn. E quando alla bi-blioteca della scuola ho scovato il librodi Bob Thomas The Art of animation, sulmaking off della Bella addormentata,ho capito che l’animazione poteva es-sere un mestiere e che sarebbe stato il

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ARIANNA FINOS

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John Lasseter

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Repubblica Nazionale