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Toscana Beni Culturali 7 7 Maurizio Martinelli La lancia, la spada, il cavallo Il fenomeno guerra nell’Etruria e nell’Italia centrale tra età del bronzo ed età del ferro

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La lancia, la spada, il cavallo Toscana Beni Culturali

Toscana Beni Culturali 7 7

Maurizio Martinelli

La lancia, la spada, il cavallo Il fenomeno guerra nell’Etruria e nell’Italia centrale

tra età del bronzo ed età del ferro

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Maurizio Martinelli

La lancia, la spada, il cavalloIl fenomeno guerra nell'Etruria e nell'Italia centrale

tra età del bronzo ed età del ferro

7 ToscanaBeni Culturali

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Collana "Toscana Beni Culturali"Volume 7 - La lancia, la spada, il cavalloIl fenomeno guerra nell'Etruria e nell'Italia centrale tra età del bronzo ed età del ferro di Maurizio Martinelli

A Giovan Maria e Gabriello,guerrieri di battaglie di altre epoche

Regione Toscana Giunta RegionaleDirezione Generale delle Politiche formative e Beni culturaliSettore Musei Biblioteche Istituzioni culturaliGian Bruno Ravenni, Claudio Rosati, Maurizio Martinelli

Le immagini, oltre che dell'autore, sono di:Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana; Castiglion Fiorentino - Esposizione Archeologica; Chianciano Terme - Museo Civico Archeologico delleAcque; Massa Marittima - Museo Civico Archeologico; Bologna - Museo Civico Archeologico; Roma - Antiquarium Forense; Tarquinia - Museo ArcheologicoNazionale; Roma - Museo di Villa Giulia; Roma - Museo Gregoriano Etrusco; Piacenza - Museo Civico; Gubbio - Museo Civico; Verucchio - Museo CivicoArcheologico; Este - Museo Archeologico; Berlino - Staatliche Museen.Per l'eventuale completamento nella compilazione di referenze fotografiche dettagliate a questa pubblicazione fuori commercio senza fini di lucro, l'autore sidichiara a disposizione degli aventi diritto.

Catalogazione nella pubblicazione (CIP) a curadella Biblioteca della Giunta regionale toscana:

La lancia, la spada, il cavallo : il fenomeno guerra nell'Etruriae nell'Italia centrale tra età del bronzo ed età del ferro.- (Toscana beni culturali ; 7)

I. Martinelli, Maurizio II. Toscana. Direzione generale delle politiche formative e dei beni culturali1. Armi e Armature - Italia centrale - Età del bronzo e Età del ferro355.809375

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La lancia, la spada, il cavallo

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5 Mariella Zoppi, Assessore alla Cultura della Regione Toscana

7 Angelo Bottini, Soprintendente per i Beni Archeologicidella Toscana

9 Victor Davis Hanson, California State University Fresno,Hoover Institute - Stanford University

11 Introduzione

15 Gli elmi

35 Gli scudi

67 Corazzature e schinieri

83 Le lance ed i giavellotti

107 Le spade ed i pugnali

135 Le asce

147 Archi, frecce, frombole

159 Delle ipotetiche armi femminili: gli anelli da getto

163 I cavalli in guerra

183 I carri da guerra

201 Architettura e difesa militare

215 Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

271 Alcune ipotesi sulla presenza di guerrieri professionistie mercenari

279 Ipotesi sull'addestramento alle armi

299 Alle origini della guerra: il controllo dello spazioe le cause degli scontri

325 Le armi in una società che si evolve: benesseree combattimento

337 Le spoglie

341 I riti della guerra

367 La guerra ed il mare

377 Bibliografia

Indice

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“La lancia, la spada, il caval-lo" non è solo un titolo à lapage per evocare il mondodei guerrieri del passato:è, realisticamente, un iter

di dignità sociale, sempre più comples-sa, attraverso il quale transitavano inostri progenitori dell'Etruria, e conogni probabilità dell'area italica e divarie altre zone del mondo antico, agliinizi dell'età del ferro. Il fulcro di questo lavoro sta in questaconstatazione storica, che quindi signifi-cativamente ne va a formare il titolo;ma per arrivare a parlare di storia, disocietà, di vissuto e di pensiero, come laricerca archeologica vuole, si deve parti-re dalle fonti materiali, dagli oggetti cheil tempo ci ha conservati dalla distruzio-ne e dalla dispersione: il lettore, dun-que, viene in qualche modo accompa-gnato attraverso un viaggio che simuove consequenzialmente, per anelliconcentrici.

Da quello che il suolo ha restituito dopoaverlo protetto per secoli emerge così,poco per volta, un quadro di complessi-tà straordinaria, che giunge a toccare lasfera della spiritualità, dell'etica, dellareligiosità e del diritto.Per non perdere nessuno dei possibilidettagli, in questa narrazione si transitaattraverso l'archeologia, lo studio delsuolo e delle tecnologie antiche, si assi-ste a esperimenti ricostruttivi, senza tra-lasciare le fonti letterarie; di primariaimportanza sono poi quei dati etnologi-ci dove i confronti con popoli primitiviodierni permettono di recuperare, vivae vera, la mentalità delle società piùsemplici. Se ogni capitolo sembra costituire unsaggio autoconclusivo, le constatazioniche in successione emergono dallo stu-dio delle diverse tipologie di armidifensive ed offensive vengono in realtàaccumulandosi, preparando in qualchemodo la seconda parte, dove dai manu-

fatti scaturiscono delle considerazioni disempre più ampio respiro.Inevitabilmente forme, materiali, tecno-logia vengono dunque a determinare leopportunità di impiego delle armi, e fini-scono con l'indicare il modus in cui i guer-rieri potevano effettuare le loro operazio-ni sia singolarmente che in gruppo; ma lefinalità dei conflitti non erano casuali, nélo erano i loro effetti politici ed economi-ci; seguendo questo filo a ritroso, sino aitemi più generali, la società si rivela com-plessa e stratificata proprio attraverso l'a-nalisi di quegli umili resti, spesso corrosidall'ossido ed incompleti. Ne emerge un mondo insospettata-mente articolato, erede per certi versi diun universo di abitudini e prassi tra-mandate dalla preistoria, che si trova ascontrarsi con una improvvisa, celereintroduzione di novità di ogni genere, eche in ogni modo tenta di salvare la tra-dizione inserendovi, come innesti, lenuove realtà. Motori di questa trasfor-

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mazione furono i contatti col mondoesterno e con le altre civiltà coeve siamediterranee che mitteleuropee, lenuove tecnologie nello sfruttamentodelle risorse del suolo e del sottosuolo,l'introduzione della possibilità di con-servare e diffondere informazione attra-verso la scrittura, il movimento di gentie di beni sia in arrivo che in uscita dalsuolo italico, e la capacità di accumulo,cessione e tesaurizzazione del surplus -prima sostanzialmente assente-. L'Etruria delle origini, della culturadetta villanoviana, balza di fatto dallapreistoria alla storia nel giro di poco piùdi un secolo, in una sorta di lontana"globalizzazione mediterranea"; la tra-sformazione però non è indolore, e hatra i suoi aspetti più evidenti proprio laguerra. Se per tradizione il ruolo diguerriero aveva caratterizzato in ciascu-na comunità l'uomo di età matura e dipieno diritto sociale, l'importanza dellostrumento bellico per rafforzare la col-lettività a scapito delle comunità vicinee concorrenti tende a portare i combat-tenti ed i loro leader in una posizione digrande prestigio prima etico e poi eco-nomico. E' di questo che la lancia -pergli iniziati all'uso di base delle armi- epoi la spada, o persino il cavallo per ipiù benestanti, costituirono oggetti-pegno, e documentarono i livelli cre-scenti. La necessità di raggrupparsi perla difesa e per migliori opportunità divita in un unico centro, come nell'asilum

che Romolo aprì nella Roma delle ori-gini, sta alla base di questo conglome-rarsi delle genti etrusche, comportandola necessità di identificare e consorziarei diversi gruppi con sistemi organizzati-vi sempre più complessi.Osservare questo periodo e, al suointerno, le sue conflittualità e le suedinamiche, permette di leggere dei pro-cessi che poi la storia ha più volte ripe-tuto: le molte collettività disperse in pic-coli centri dell'età del bronzo finale -come i pagi del Medioevo- appaiono inqualche modo bloccate in una perenneriproduzione di se stesse, ma l'introdu-zione di nuove tecnologie ed i connessicontatti col mondo esterno -come nel-l'età comunale- porteranno alla nascitadi comunità più ampie, dove con lapace -per immigrazione- o con la guer-ra -per sottomissione- la popolazione siverrà a concentrare ed evolvere. Se le comunità etrusche della prima etàdel ferro non controllavano più pochedecine di chilometri quadrati, ma alcu-ne migliaia, esse tuttavia non eranoancora città. Ma il concetto civico siviene a formare proprio a partire daquesto processo evolutivo, innescato inItalia appunto con l'età del ferro; essoha nell'Etruria la culla della concezioneitalica di civitas, che attraverso la civiltàdi Roma, il Medioevo, il Rinascimentogiunge fino a oggi, ed alla nostra sensi-bilità sociale, per la collettività, caratte-ristica del Vecchio Continente. E' solo il

caso di accennare come gli Etruschi,secondo le fonti letterarie antiche, siidentificassero come ethnos col nome diRasenna, dal probabile significato di "cit-tadini", ovvero di "quelli delle città",distinguendosi dalle collettività ancoraaggrappate ai tradizionali raggruppa-menti tribali.Dunque la conflittualità di questo perio-do del passato, unico per la sua funzio-ne di giuntura tra preistoria e storia, traprimitivo e moderno, è la chiave perapprendere molto anche sul nostromondo attuale; i meccanismi che hannomesso in lotta l'uomo con l'uomo tremillenni fa non sono, nel loro nocciolo,molto diversi da quelli che oggi, in unaltro momento di transizione caratteriz-zato da un globalismo planetario, pon-gono altri uomini in conflitto tra loro.Ma allo stesso tempo, la lezione del pas-sato ci mostra come innovazioni tecno-logiche e influenze di altre culture pos-sono essere un motore per conseguirelivelli di civiltà insospettabilmente piùalti, laddove si riesca a porre in equili-brio la complessa scultura calderianache forma una società in evoluzione:l'archeologia si conferma non solo lascienza del passato, ma anche lo spec-chio del nostro percorso e uno stru-mento insostituibile per la pianificazio-ne del futuro.

Mariella ZoppiAssessore alla Cultura della Regione Toscana

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Nel leggere le pagine di que-sto libro chi, come l'estenso-re di questa prefazione, "fa" -come si dice- l'archeologo(anche se in quella forma

molto particolare che corrispondeall'appartenenza ai ranghi ministerialidelle Soprintendenze) è indotto adiverse considerazioni.La prima riguarda l'autore stesso. Dalmomento che svolge la propria attivitàprofessionale occupandosi di temi cul-turali in senso molto più generale, ciripropone una figura intellettuale di cuiè andata affievolendosi la tradizione,fino ad esaurirsi quasi del tutto, non-ostante l'importanza rivestita fino alme-no alla metà del secolo scorso: quelladello studioso che un tempo, ricordan-do anche la britannica Society of Dilettan-ti, sarebbe stato lieto di essere qualifica-to appunto come tale.Uno studioso, per intenderci, capace ditenere sempre sotto controllo l'argo-

mento di cui si occupa, senza naufraga-re nelle secche del municipalismo piùriduttivo o di perdersi inseguendo queifantasmi tanto affascinanti quantoinconsistenti che agitano in modo spe-ciale le notti etrusche, ed insieme liberodi sfuggire all'obbligo di tenersi dentro imargini imposti dall'ortodossia di quelvero e proprio genere letterario -di soli-to piuttosto noioso- che sono le pubbli-cazioni accademiche (che pure dimo-stra, com'è doveroso ed indispensabile,di praticare con attenzione).La seconda considerazione riguarda diconseguenza il frutto di questa attività, apartire dallo stesso argomento presceltoper arrivare al modo in cui viene trattato.Il soggetto innanzi tutto, dal momentoche va a coprire una lacuna molto visto-sa nella bibliografia archeologica italia-na, dove non sono certo molti i testi diquesta ampiezza dedicati alla ricostru-zione di aspetti della vita sociale (e laguerra lo è certamente al massimo

grado per tutte le compagini apparte-nute alla civiltà classica, intesa nel sensopiù generale), e quindi il metodo dilavoro seguito. Nelle pagine di Maurizio Martinelli allaprecisione nel riferimento ai datiarcheologici di tipo tradizionale siassomma la cura per l'analisi degli ele-menti conoscitivi di carattere tecnico esperimentale (si vedano, per fare unesempio, il paragrafo dedicato all'effica-cia delle armi che appartengono algruppo più diffuso e comune, quellodelle lance); entrambe si saldano infinealla continua ricerca di riscontri, raccol-ti al di fuori dei confini cronologici espaziali prescelti, dove appunto le rifles-sioni accademiche non si spingono, eche certamente costituiscono uno stru-mento di conoscenza prezioso, a pattodi aver sempre ben presente il pesodeterminante esercitato sull'agire collet-tivo dai condizionamenti socio-cultura-li, in definitiva dalla storia.

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La lancia, la spada, il cavallo

La lancia, la spada, il cavallo è insommaun libro fuori dal consueto, divulgativo(altra parola che spero non dispiacciaall'autore, nella stessa prospettiva anglo-

sassone richiamata prima), nel modo incui dovrebbero essere i testi che hannol'ambizione di essere letti da molti: nonsempre accade, come si sa.

Angelo BottiniSoprintendente per i Beni Archeologici

della Toscana

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Maurizio Martinelli’s reviewof the spear, the sword,and the horse in earlyEtruria and central Italy iswelcome and much nee-

ded study for a variety of reasons.When we think of early warfare at thedawn of the city-state and its precur-sors in the Dark Age, we usually turn toGreece, and often in an entirely nar-row archaeological framework giventhe limitations of our literary sources.But Dr. Martinelli, both an archaeol-ogist and military historian whoworks in Tuscany, reminds us of aparallel military universe in Etruriaand Central Italy that shared much ofthe same characteristics as early Hel-lenic warfare, but was in its own rightalso innovative and indeed oftendeveloped quite independently. Hisresearch shows that much of the mili-tary innovation that followed the col-lapse of the Mycenaean palaces in

fact was a product of cross-fertiliza-tion from the West, and that latersophisticated Hellenic weaponry is inmany cases derivative from early Etr-uscan designs. It is no accident, forexample, that some of our mostdetailed evidence of close-orderedcombat on black-figure vases derivesfrom the excavation of Italian tombs,and that the only extant woodenhoplite shield presently resides in theVatican museum.What is especially original about thisstudy is both Martinelli’s practicalityand common sense-and his imagina-tion in moving from the particular tothe general in providing a broadreconstruction of early Italian mili-tary society. Arms and armor are notmerely discussed in an antiquariansense, but as practical appurtencesthat were employed by real menunder often difficult conditions. Thuswe learn of the weights, composition,

and challenges in use of swords,lances, and body armor that lead tobroader questions still of the socialand economic status required to ownand use such weapons-and the largercultural milieu in which rural soci-eties predicated their conflictsbetween such well-equipped warriors.We are seeing here the glimpses ofthe beginning of close-ordered fight-ing between highly trained bodies ofheavily-armored spearmen, whoenjoy special status and craft weaponsthat are not just militarily efficacious,but rather symbolic of new social andeconomic paradigms that putemphasis on group discipline, unitcohesion, and are firmly rooted in thereligious and ceremonial heart of theemerging city-state.Indeed, only the nascent beginningsof city-state life, a productive agricul-ture that could create real surpluses,and a stable political structure

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explain the emergence of these newsophisticated-and costly-weapons. Atits most basic, this detailed account ofspecific arms and armor is also adefense of archaeology itself, thatwith proper guidelines and an imagi-nation that crosses traditional disci-plines, the study of material objects is

more than mere treasure-hunting oran ancillary source to corroborate orreject ancient literary accounts, butrather a touchstone in its own right todiscovering the very nature of ancientsocieties.

Victor Davis HansonProfessor of Classics,

California State University, FresnoSenior Fellow, Hoover Institute,

Stanford University

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Non è semplice scrivere una introduzio-ne ad un proprio lavoro, specie se vi si èimpegnato molto del proprio tempo ese attraverso di esso si è cambiato il pro-prio modo di pensare la ricerca archeo-logica, che è comunque un procedi-mento di ricostruzione storica, ovveroun tentativo di ridare vita ad un passatofatto di cose e di uomini.Non disponendo delle doti di stupendasintesi ed efficacia di cui disponeva Vir-gilio, che apriva l’Eneide con “Armavirumque cano...”, debbo spiegare checiò che segue non è un consueto saggiodi tema archeologico -dove vengonoesposti dei materiali omogenei per cate-goria, pazientemente schedati in catalo-go, con un corredo di brevi considera-zioni d’insieme- e neanche un normalelavoro di divulgazione.E’ invece un tentativo di raccoglierequanto c’era di disponibile su un tema,su un periodo e su un’area –la guerraall’inizio dell’età del ferro in Etruria e

nell’Italia centrale tirrenica- fondamen-tali per la comprensione dello sviluppostorico dell’Italia antica. Al passaggiodall’età del bronzo a quella del ferro laconflittualità –militare ma anche socia-le- si rivela come un modus col qualeviene trasformato quanto già da secolipareva consolidato; le armi e l’organiz-zazione dei guerrieri –ovvero dei mem-bri di pieno diritto della collettività-mostrano così di aver assolto ad unafunzione importantissima, centrale atutta una serie di altri fenomeni cheavrebbero determinato l’entrata dell’I-talia centrale dalla preistoria nella sto-ria, con la creazione di organizzazionisocioculturali complesse, con l’avventodel concetto stesso di città prima assen-te, con l’introduzione del surplus e diun’economia che abbandonerà persempre le pratiche di mera sussistenza;con l’adozione della scrittura, e quindicon la possibilità di dilatare le nozioniconservate dalla società.

In tale contesto, il guerriero mostra diaver costituito il personaggio che social-mente assommava su di sé la maggiorquantità di funzioni rilevanti ed anche–per quanto concerne alcuni individui –di essere stato tra i leader che guidaronola trasformazione della cultura nel diffi-cile passaggio dal modus protostorico–sostanzialmente immutato dal neoliti-co- al modus storico, del quale il nostromondo attuale è in qualche modo anco-ra il continuatore.La lancia, la spada, il cavallo costituisconocosì –secondo la concorde testimonian-za delle fonti letterarie ed archeologi-che- tre livelli crescenti di dignità dell’é-lite sociale della prima età del ferro ita-liana, un’élite guerriera che proprioattraverso questi simboli ha profonda-mente influenzato le élite seguenti.Per ridare vita a quel periodo, del qualela documentazione non è copiosa comeper periodi più recenti, si sono raccoltitutti i possibili contributi offerti da inda-

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Introduzione“Bene ognuno la lancia affili e lo scudo prepari,bene ognuno dia il pasto ai cavalli dai celeri piedi,bene ognuno ispezioni il suo carro pensando alla guerra,affinché tutto il giorno lottiamo nell’odiosa mischia”

Omero, Iliade II, 382-385

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gini diverse: oltre allo studio delladocumentazione archeologica si è dun-que fatto ricorso a dati sulle tecnologiedei metalli e dei materiali deperibilicome legno, cuoio, vimini; a risultati diarcheologia sperimentale; a studi dipaleobotanica, di climatologia e di tec-niche di utilizzo del suolo; a documen-tazione sulla cultura materiale e sullatradizione; al controllo di fonti lettera-rie coeve e più tarde, locali o di altrearee antiche; a confronti sia storici cheantropologici ed etnologici; a risultati distudi di etologia e di psicologia sociale,e ad altro ancora. L’opera di unione ditutto ciò non è stata semplice, al che sideve in alcune parti l’andamento nonsempre fluido del testo.Lo studio parte dall’analisi delle singoletipologie di armi –difensive ed offensi-ve-, dei mezzi e delle strutture, ricavan-do dai materiali tutto ciò che essi posso-no testimoniare. Le informazioni cosìricavate formano poi, aggregandosi, deiquadri complessivi del contesto –oplo-logico, tattico, socioculturale, rituale,religioso- che pur esaminati singolar-mente formano un continuum organico,come ribadiscono i frequenti richiamiad aspetti già toccati per ambiti diversi.Si è così tentato di ricollocare al proprioposto tutto ciò che è stato possibile rac-cogliere e che, in qualche modo, potevaoffrire un contributo all’indagine; mapiù esattamente tutto ciò ha dato vita–quasi da solo, agglutinandosi- ad unaricostruzione più ampia possibile, piùsfaccettata possibile, più vicina possibile

all’approccio degli uomini dell’antichitàverso il fenomeno guerra. Per ritrovare–coi materiali ed i luoghi- anche l’habi-tus mentale degli uomini del tempo, si èfatto largo ricorso a confronti con altripopoli del passato e coi popoli primiti-vi attuali, peraltro verificati per compa-tibilità col quadro culturale del Centroi-talia antico. Penso infatti che l’archeolo-gia debba sforzarsi sempre più di resti-tuire, per così dire, “carne e cuore” airisultati delle proprie indagini, chemirano ad una ricostruzione storicacomplessiva.Affacciandosi nel campo della letteratu-ra, trovo magnificamente efficaci, pernarrare il clima dei conflitti antichi, lepagine in cui Gabriele D’Annunzio,nella novella Gli idolatri, racconta l’assal-to e la strage di una comunità ai dannidi un’altra, in un clima psicologico cosìapparentemente lontano da quello del-l’uomo occidentale del XXI secolo;altrettanto suggestivo e chiarificatore èil racconto di Herman Hesse Il magodella pioggia attorno alla spiritualità pri-mitiva, dalla quale dobbiamo necessa-riamente ridurre la distanza se voglia-mo riuscire a capire i processi mentali eculturali di epoche lontane.Abbandonando la letteratura, uno deisaggi storici più interessanti, effettuatoproprio nel campo dei conflitti dell’an-tichità, trovo sia L’arte occidentale dellaguerra di Victor Davis Hanson, docentedell’Università di Fresno in California;in quel libro vi è uno sforzo ricostrutti-vo, tecnico e rigoroso ed al tempo stes-

so efficace e vivido, della battaglia opli-tica greca, una battaglia restituita nelsuo clangore, negli odori, nel sudore enella paura, come nella determinazionedi chi lotta per la propria terra. Quellosforzo è proseguito attraverso i seguentilavori di Hanson –The other Greeks eMassacri e cultura- sino all’individuazio-ne di certi meccanismi mentali cometopoi della cultura occidentale; il suopercorso mi ha sostenuto nel mio lavo-ro, ed un carteggio mi ha fatto apprez-zare, con le sue doti di studioso, anchequelle qualità umane e quella forzaetica, con le quali ha profondamenteconquistato la mia stima.Già molti anni fa l’antropologo ameri-cano Harry Turney-High -come JohnKeegan la ricordato nella sua Grande sto-ria della guerra- aveva sottolineato comeun approccio errato allo studio dei con-flitti “ha avuto come risultato centinaiadi teche di museo contenenti armi ditutto il mondo, catalogate, contrasse-gnate dal numero di accessione e noncapite”.Qualche mese fa un vecchio amico dal-l’inesauribile entusiasmo per l’archeolo-gia –Marzio Cresci della Archeoproget-ti- nel parlarmi di un suo scavo mi hadetto: “Dai materiali esce un piccoloracconto, che comunque è un racconto,ed è sempre degno di essere ascoltato”.Serve un altro linguaggio, rispetto aquello tecnicamente ineccepibile matalvolta troppo freddo, criptico e da“addetti ai lavori”, troppo diffuso daqualche decennio, per narrare tutti quei

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racconti, che fanno insieme l’archeolo-gia e la storia degli antichi; e ciò nonsolo per avvicinare il grande pubblico aquesto magnifico patrimonio culturale(un obiettivo che la Regione Toscana siè posta con molte proprie attività com-presa questa iniziativa editoriale), maanche per aumentare il “valore aggiun-to” degli studi e la reale fruizione deidati anche a favore degli specialisti. Qualche anno fa Andrea Carandini, nel“Bollettino di Archeologia”, ha scritto:“per troppo tempo gli archeologi italia-ni si sono combattuti difendendo oral’umanesimo e ora la scienza, come sel’umanesimo non fosse stato originaria-mente altamente scientifico. Il risultatoè che l’archeologia ha perso nel paese ilruolo formativo che aveva conquistato.(...) La ragione morale prima dell’ar-cheologia consiste nel resuscitare lembidel passato per i viventi, che siano il piùpossibile interi e comprensibili il che èdifficile, per la diversità dei costumidelle società antiche e per lo stato fram-mentario e complicato del sottosuolo.Basta con rovine, oggetti e scritti incom-prensibili e cominciamo finalmente adialogare”.Negli ultimi anni, felicemente, varistudi hanno appunto dialogato, affron-tando l’archeologia ed il passato connuova chiarezza e con una volontà di farluce, per così dire, “dall’interno” sullaforma mentis dei popoli antichi; conl’ambiziosa speranza di collocarsi inquesto solco nasce appunto il libro cheavete tra le mani, che tenta come si è

detto di avvicinare a 360 gradi il temadella guerra nella prima età del ferroitaliana, ricorrendo spesso e volentieriall’antropologia per “cucire assieme” ilacerti storici ed archeologici: ne emer-ge una protostoria che –solitamentefantasticata nel nostro immaginario col-lettivo intriso di epos, di miti letterari piùtardi e di grandi civiltà- si rivela invecemolto simile alle culture tribali dell’Afri-ca o dell’Asia, forse meno aulica diquanto supposto ma molto più verosi-mile e concreta.Come ha scritto Robert McC. Adams suiconfronti antropologici, “con ciò non sivuole implicare l’esistenza di una corri-spondenza puntuale di tutte le loroparti (...) ma le somiglianze sono suffi-cientemente strette e numerose da farritenere che, in questo e analoghi casi,sia realmente utile –ossia proficuo diintuizioni sul piano della comprensionedelle singole sequenze storiche- proce-dere a volte da una posizione generaliz-zante e comparativa”. Lo stesso studio-so ha inoltre soggiunto: “fino a chepunto è legittima la nostra ricostruzione(...) a partire da prove tanto ambigue eincomplete? (...) d’altra parte il compitodi un antropologo comparativo è di col-locare (le ipotesi) in una griglia operati-va più generale, consapevole degli erro-ri interpretativi che tale struttura sen-z’altro comporterà, ma anche consape-vole del fatto che il progresso cumulati-vo della sua disciplina dipende dall’ela-borazione di ipotesi verificabili e dalloro progressivo perfezionamento”.

V. Gordon Childe aveva ammonito che“il lettore deve tenere ben presente ilcarattere ipotetico della maggior partedelle conclusioni degli archeologi”, eDavid Ridgway ha aperto un suo saggioricordando che “è altrettanto naturale(...) che nessun contributo possa essereconsiderato come «l’ultima parola» suquesto affascinante argomento, poichénel campo dei dati disponibili per lo stu-dio e l’interpretazione la parte del leonespetta a una massa di testimonianzearcheologiche in continuo aumento, let-teralmente di anno in anno”.Nel fare ricerca archeologica e storicanon debbono dunque scoraggiare leincompletezze e le debolezze della sinte-si che si tenta, le quali vanno messe inpreventivo come un “peccato originale”che la disciplina stessa comporta; d’al-tronde il lavoro di ogni ricercatore èinfluenzato inevitabilmente dal contesto–individuale e collettivo- in cui agisce.Luigi Polacco scrisse che “non per nientel’opera dello storico, per quanto lontanovoglia scrutare nel passato, è sempre esoltanto una visione analogica del pre-sente. Donde l’inesauribilità e la peren-nità della disciplina”: è una frase che citaidieci anni fa in apertura di un mio librosulla religiosità etrusca, e che mi è sem-pre stata di guida e di sostegno.Errori ed incompletezze certo nonmancheranno quindi anche in questapubblicazione, che però si augura –pro-prio attraverso questi difetti- di stimola-re chi legge e chi ricerca a nuovi e piùesatti recuperi del passato e della forma

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Introduzione

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La lancia, la spada, il cavallo

mentis dei popoli antichi, dei quali èquesta la più importante eredità da nonmandare dispersa.In chiusura non posso tralasciare di rin-graziare tutti coloro che in diversi modimi hanno sostenuto in questo lavoro:sono molti, e per non farne un lungoelenco ho tentato di ricordarli prevalen-temente –per quanto mi ha sostenutouna memoria imperfetta- nelle note altesto, vicino ai dati che hanno contri-buito ad acquisire. In primis tra essi sitrova la dirigenza dell'Area di Coordi-namento e del Settore Musei Bibliote-che Istituzioni culturali, cui sono grato

per la fiducia nel mio lavoro; inoltrecome un pegno d'amicizia ho accoltol'impegno del collega Sandro Beni delCentro Stampa regionale, dalle cuimani, come un prodotto d'artigianato,escono queste pagine.Ci sono poi ancora due persone a cuidebbo un ringraziamento particolare.Uno è Luca Viviani, amico vero che alledoti di archeologo assomma una sensi-bilità per il passato di cui avremmo tuttibisogno; queste parole che Hanson hascritto sembrano fatte per lui: “he is asearcher, pathetically and all too simpli-stically seeking those who would live by

some consistent ethos, even if it be nar-row and outdated”. Grazie ai nostri dia-loghi e alle lunghe e-mail questa ricercaha acquisito anche la dimensione di unpercorso etico ed umano, superando imomenti più difficili.L’altro ringraziamento va a ManolaTuci, alla quale ho sottratto molte oredel mio ristretto tempo libero –e tavoltaanche del suo- per cercare un museo oper potermi isolare nello studio, tralibri, carte e computer; a lei il ringrazia-mento per aver capito quanto fosseimportante, per me, inseguire questopensiero.

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Prendendo in esame per prime le armidifensive, una tra le più importanti di essenella prima età del ferro fu senz’altro l’el-mo. Questo elemento è di fatto, assiemealla lancia, l’oggetto caratterizzante nelleraffigurazioni del tempo dell’uomo inarmi, dato che riveste una consistenteimportanza ideologica oltre che tecnica.Il copricapo da combattimento dellaprima età del ferro non è comunque unoggetto tipologicamente univoco,anche al di là dell’evidente varietàdovuta alla realizzazione artigianale;esso è presente infatti in vari tipi emateriali -di cui alcuni deperibili, acomplicare l’opera di ricostruzione- iquali, pur riconducibili essenzialmentea due o tre concezioni basilari diverse,sono stati attentamente distinti. La monumentale opera sui più antichielmi da guerra europei di Hugh Henc-ken1, relativa all’età del bronzo finale edalla prima età del ferro sull’intero terri-torio europeo, consente di rilevare che

le tipologie attestate in area centroitali-ca e villanoviana sono di fatto simili aquelle coeve di altre zone d’Europa, purcon alcune interessanti varianti tecnicheutili alla definizione di derivazioni ecronologie.L’attestazione di elmi si ha in area cen-troitalica solo dalla fine del X sec. a. C.,ovvero col formarsi dell’Etruria villano-viana; la documentazione di cui dispo-niamo offre sia tipi diversi di elmi inbronzo, sia repliche in terracotta di elmi-destinate ad un uso funerario comecoperchi dei vasi per le ceneri deldefunto-, sia infine alcuni esempi sep-pure di epoca più tarda, di elmi inmateriale deperibile, campioni di unaproduzione probabilmente molto vastaed antica ma quasi totalmente perduta. Gli elmi metallici presenti in tale areasono di norma in lamina di bronzo,ovvero dotati di una limitata resistenzameccanica. Questo dato li accomuna aquelli del resto d’Europa, dove

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Elmo crestato con ornato a sbalzo, dalla Tombadel Guerriero di Poggio alle Croci pressoVolterra - Volterra, Museo Guarnacci

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“sono generalmente di metallo sottile e sonoper la maggior parte più grandi dei modernicappelli. Hanno in genere un vario numero difori sul bordo, i quali devono essere stati utiliz-zati per tenere in posto una spessa imbottituradi materiale deperibile. Deve essere stata pro-prio questa imbottitura ciò che prevalentemen-te proteggeva la testa di chi portava gli elmi, esopra la quale l’elmo metallico era in parte unrinforzo, in parte un involucro ornamentale. Ifori sugli orli degli elmi sono disposti a suggeri-re che sostenessero dei sottogola e forse anchedei paraguance o delle difese del collo, anche sequesti erano principalmente di materiale depe-ribile, dal momento che non si sono conservatinessun paranuca e solo pochi paraguance2”.

Queste osservazioni3 fanno giustizia del-l’ipotesi, a lungo riproposta nella lette-ratura etruscologica, che gli elmi bron-zei villanoviani in lamina fossero tuttioggetti da parata, ovvero inutilizzatidurante i combattimenti. In realtà -salvoforse pezzi come il colossale esemplaredi elmo crestato da Grotta Gramiccia diVeio ed altri- gli elmi in lamina con forisugli orli a fermare un’imbottitura eranotutti destinati ad un uso reale. Inoltre,considerando tutti i reperti in laminacome degli oggetti da parata o funerari,si arriverebbe all’assurdo di non dispor-re di nessun elmo funzionale, postulan-do l’esistenza di esemplari più robustiche in laminato ed imbottitura -dunquein fusione o in spessa foglia- i quali però,pur più resistenti all’usura del tempo,non esistono in nessun esemplare in nes-sun luogo dell’Europa4.

Gli elmi villanoviani, usando la tipolo-gia dello Hencken, appartenevano aitipi “a campana arrotondata con apice”,“a calotta con o senza apice” e “crestaticon calotta appuntita o arrotondata”.Il primo tipo è diffuso anche in Unghe-ria orientale, dove forse si hanno i ritro-vamenti più antichi (XI-X sec. a. C.),Romania, Germania orientale ed Istria,in un ambito di tempo che scende finoall’VIII sec. a. C., equivalente al periodomitteleuropeo detto Hallstatt B5. Si trat-ta di una calotta di porzione ovoidale

sormontata da un elemento tubolare abottone sull’apice, unito con la fusionein loco, dotato di un foro passanteinterno dove dovevano essere inseritidei piumaggi o del crine. Il tipo mitte-leuropeo dimostra, nella struttura enella cronologia, di discendere da unavariante ben documentata detta “a cam-pana conica”; gli esemplari di area villa-noviana sono, rispetto ai mitteleuropei,più bassi in proporzione al diametro.Inoltre l’elemento sull’apice terminanon a sfera ma a bottone schiacciato,

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La diffusione degli elmi a calotta in Europanella carta stilata da Hugh Hencken nel 1959

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mentre la superficie dell’elmo è decora-ta con ornati a sbalzo. Oltre ad alcuniesemplari metallici (da Tarquinia) se neconoscono varie repliche fittili destinatead uso funerario da Caere, Falerii, Tar-quinia, Veio, Vetulonia e Pontecagnano;un esemplare metallico di provenienzaignota (forse Tarquinia) e conservato alBadisches Landesmuseum di Karlsruheè da ritenere simbolico, in quantocoperchio di una elegante urna biconi-ca in lamina metallica sbalzata. A questoesemplare si doveva riferire, innestatosull’apice, un curioso elemento a tri-dente su cui troneggiano tre figurinemaschili, di cui quella al centro allargale braccia, quella a sinistra reca unoggetto sulla spalla, l’altra protendeun’asta dinanzi a sé. Tale elmo-coper-chio, con le sue particolari statuettebronzee applicate, ricorda artisticamen-te ed ideologicamente il coperchio delcinerario dell’Olmo Bello di Bisenzio,ed in modo più generico pezzi come ilcinerario di Montescudaio o come i piùrecenti cinerari con figure applicate delterritorio chiusino; tutti infatti si inseri-scono nel filone dei vasi per incineratidove si tenta di riprodurre plasticamen-te una scena di valore simbolico, il cuicontenuto esalta l’aretè guerresca ed ari-stocratica, e dove l’effigie umana va ariproporre idealmente le forme che ildefunto cremato ha perso.Di fatto questa categoria di elmi a cam-pana arrotondata, se non per la formanon esattamente emisferica, è vicinissi-ma a quella “a calotta con apice”, dove

però il pezzo che forma l’apice è pienoe privo del foro per il piumaggio; l’e-semplare di questo genere descrittodallo Hencken e proveniente da unatomba di Grotta Gramiccia a Veio (risa-lente tra IX ed VIII sec. a. C.), per il suouso di coperchio, per la sua assenza difori da imbottitura e per l’ipotetica som-maria riproduzione di un volto nei suoirilievi, potrebbe essere un oggetto sim-bolico e non di uso. Un elmo a calottacon apice di probabile produzione mit-teleuropea è stato rinvenuto nella Grot-ta delle Mosche a San Canziano nelVeneto6.Tutti gli elmi bronzei italici privi di cre-sta -a campana o calotta- erano realizza-ti da un unico foglio metallico martella-to sino ad assumere la forma arroton-data, anche se qualche studioso (secon-do quanto osservato su alcuni reperticoevi da altri Paesi europei) ritiene chesi potesse anche partire da una fusionegià conformata a calotta (ma di dimen-sioni minori) a cui la martellatura davaforma e formato definitivi, accompa-gnati da una resistenza meccanica piùche doppia ai colpi7. Il pezzo dell’apicecon foro, ottenuto per fusione, era bloc-cato in loco dalla sua stessa conforma-zione, il che induce a ritenere che gliapici venissero realizzati in cera, appli-cati sull’elmo con infissa una barretta acreare il foro per il piumaggio e quindiricoperti di argilla nella quale, una voltariscaldato l’insieme, restava lo stampocavo in negativo del pezzo. Il getto dimetallo fuso otteneva, per la sua tempe-

ratura, che l’apice venisse non soloimprigionato ma anche saldato allalamina dell’elmo con un legame dura-turo.La presenza di un ben fermato cimieroin crine -che vedremo non essere pro-babilmente ancora finalizzato ad unasegnalazione di rango militare- avevaalcune controindicazioni pratiche, se sipresta fede al commento del Warry alterzo libro dell’Iliade dove

“Menelaus (...) seized Paris by the helmet crestand began to drag him towards the Greeklines. Paris was thus nearby strangled by hishelmet strap, and no doubt would have beenbut for the attention of his goddess mother,who arranged for the strap to break8”.

Sul materiale dei cimieri, in assenza direperti conservati di tale epoca, ci soc-corre soltanto quanto indicato daOmero, che parla di crine di cavallo(Iliade XIII, 132) talvolta tinto o misto afili d’oro9, come peraltro confermanodei ritrovamenti di Verucchio poco piùrecenti. La funzione del cimiero era,ancora per Omero, l’intimidazione del-l’avversario (Iliade III, 337) forse attra-verso l’altezza che conferiva al guerrie-ro (anche per Livio, IX, 40).E’ degno di nota che elmi a calotta conapice esistevano anche nel Mediterra-neo orientale ed in area asiatica, sianelle zone interessate dalla civiltà mice-nea che altrove, con una lunga diffusio-ne anche nel tempo: un esempio inte-ressante può essere considerato l’elmodel re Argisti I di Urartu, rinvenuto a

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Karmir-blur nell’attuale Turchia e risa-lente tra il 781 ed il 760 a. C. Questoelmo si discosta da quelli italici per larealizzazione omogenea dell’apice, cheè ricavato dallo stesso foglio di bronzodella calotta10.Da un unico foglio di bronzo erano rica-vati nell’Etruria villanoviana anche glielmi a calotta senza alcun apice, diffusiperaltro dall’Ungheria alla Francia oltreche nell’area egea; nella penisola italia-na se ne hanno esemplari anche a norddel Po (Oggiono, Iseo, Brancere) com-pletamente lisci. I tre esemplari villano-viani citati dallo Hencken11 provengonotutti da Tarquinia, e due dalla stessatomba di Poggio dell’Impiccato dovecoprivano l’urna. Di questi ultimi duereperti, risalenti all’ultimo quarto dell’-VIII sec. a. C., quello più interessante èsenz’altro il più grande, sul quale lo sbal-zo riproduce molto schematicamente unvolto umano stilizzato, a ribadire l’usodell’umanizzazione del cinerario cui si ègià fatto cenno; l’elmo comunque nondoveva essere simbolico, in quanto recadue fori per lato atti ad un soggolo, edue sul retro forse per una guardia sulcollo. Sul secondo reperto dalla stessatomba, privo di fori, resta l’incertezza sulsuo uso, che poteva essere di elmo sim-bolico o di coppa.L’elmo a calotta dai Monterozzi di Tar-quinia, decorato con borchie ed anatrel-le sbalzate come il primo da Poggio del-l’Impiccato, reca anch’esso alcuni fori -quattro coppie- sul bordo, a rivelare l’o-riginaria presenza di un’imbottitura. La

rarità di elmi a semplice calotta indicacomunque che questa tipologia metalli-ca ebbe scarsa diffusione, a tutto favoredi quelle dove era presente un cimieroo una cresta.Per completare l’esame delle tipologiedi elmi villanoviani resta appunto daconsiderare la variante crestata. Si trattadi un tipo di difesa per la testa prodot-ta in più zone d’Europa ed attestataprincipalmente nell’Europa centrale,ma finanche in Spagna, in Istria ed inUcraina12, con lievi varianti nella foggiadella calotta (ovvero ovoidale, conica,appuntita). In Italia tale tipologia concresta metallica, per quanto riguardaprodotti etrusco-villanoviani, è diffusaprincipalmente in Etruria meridionale,ma anche a Fermo delle Marche, a SalaConsilina, Santa Maria di Capua Veteree, verso nord, a Verucchio e nei dintor-ni di Asti (dal letto del Tanaro)13; alcuniframmenti ornati a borchie ed anatrellevengono dalla Grotta delle Mosche diSan Canziano14. Gli studi appaionoconcordi nel ritenere in particolare iltipo crestato villanoviano con la calottaappuntita (ovvero quello che dai ritro-vamenti risulta destinato all’uso reale)una derivazione ispirata ai tipi dell’Eu-ropa centro-occidentale adottati dallacosiddetta Civiltà dei Campi d’Urne15.Questi elmi villanoviani, come i loromodelli, si compongono di due valve,una per lato, solidali ad una delle faccedella cresta; l’unione dei due lati eraottenuta ripiegando il margine esternodi una delle due creste sull’altra, e

sovrapponendo sulla calotta delle partidi una valva sull’altra; i due elementierano poi fissati con ribattini collocati siasopra la punta della calotta che sotto leestremità della cresta, a perforare le duevalve. In queste ultime posizioni sotto lacresta veniva inoltre collocata una placcarettangolare che copriva un ribattinopassante per le due valve, e che era sor-

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In alto, l'elmo a calotta dalla Tomba II diPoggio dell'Impiccato di Tarquinia -Firenze,Museo Archeologico Nazionale-; in basso,schema esploso della parte metallica di unelmo crestato a due valve

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retta da quattro rivetti angolari passantianche per i due fogli della calotta. Alcentro della placca, sporgenti quanto lacresta dalla calotta, trovavano posto treelementi cilindrici dall’aspetto di lunghiribattini, ma ormai defunzionalizzati inarea italica16.La discendenza dei reperti villanovianida quelli dell’Europa centrale ed occi-dentale è chiaramente documentataproprio dall’uso di apporre questi falsiribattini sulle placche di rinforzo, giac-ché in Francia ed in Germania essi sonoveri, e servono a fissare assieme le duevalve. In tal senso si erano già espressida tempo il Merhart e lo Hencken, ilsecondo dei quali ribadì come “the falserivets of the Villanovan helmets arederived from the real rivets of the hel-mets north of the Alps. Hence, the typemust have come from there intoItaly17”. Quest’ultimo studioso nellastessa sede segnalava come -allo statodelle ricerche nel 1941- il tipo di elmocrestato apparisse diffuso, in Europa,prevalentemente ad ovest del corso del-l’Elba, mentre quello a calotta fosse dif-fuso ad est di tale fiume, lungo il cuicorso peraltro risultavano concentratele attestazioni di urne cinerarie a formadi casa, oggetto notoriamente diffusoanche nell’Etruria villanoviana.L’uso degli elmi crestati con calottaappuntita si ha nell’Etruria villanovianadal IX-VIII sec. a. C. (con repliche fittilisia in Etruria meridionale che a Veruc-chio in Romagna) sino a tutto l’VIIIsecolo, con propaggini in Etruria pada-

na sino alla seconda metà del VII sec.a.C. ad Idice -dove un guerriero conelmo crestato è ritratto su una stele adisco del Villanoviano IV, B218- ed aVerucchio, dove la tomba 89 Sotto laRocca della metà del VII sec. a.C. con-teneva un alto elmo crestato in metallo.Si intuisce una prima fase (IX secolo)con calotte più basse ed arrotondate, eduna seconda (VIII secolo) con calottepiù alte e coniche. L’ornato si mantienenel tempo piuttosto stabile, con 2-4 filedi grossi sbalzi discoidali convessi tralinee, richiamati da più piccoli sbalzisulla cresta, in file che seguono il margi-ne del cimiero.Gli esemplari crestati metallici la cuicalotta non è appuntita, tutti veienti19,sembrano repliche simboliche per l’as-senza di fori per imbottiture, comeanche per le dimensioni particolari oper la forma. Inoltre la loro datazione èsempre all’interno dell’VIII sec. a. C.,ad indicarne la seriorità e la derivazione-intuibile anche dalla presenza di rivettivestigiali del tutto defunzionalizzatiquando la calotta è di un solo pezzo- daquelli con calotta appuntita.Nonostante la documentata diffusionedella tipologia di elmi crestati dalla mit-teleuropa verso l’Italia, è stato rilevato20

che in direzione opposta alcuni esem-plari etruschi di queste armi trovaronodiffusione, attraverso i commerci, nel-l’Europa continentale. Oltre agli esem-plari diffusi oltre l’Appennino, cui si ègià fatto cenno (Verucchio, Asti, Vene-to), si ricorda la presenza di un elmo

crestato villanoviano in frammenti nellanecropoli di Hallstatt21, a cui si aggiun-ge un elmo crestato del tipo tarquinieserinvenuto a Zavadintsy, nella Podoliaucraina. Questo esemplare è stato rite-nuto un documento della forte influen-za dell’ideologia guerriera etrusca eser-citata sull’Italia settentrionale e sulmondo transalpino nell’VIII sec. a.C.(Periodo Hallstatt C)22. A questa diffu-sione di ritorno verso i luoghi mitteleu-ropei di origine dei prototipi si aggiun-gono alcune attestazioni di elmi villano-viani a cresta, in frammenti, nel santua-rio ellenico di Olimpia23, da intendersicome prede belliche di personaggi grecio come doni votivi di viaggiatori etru-sco-villanoviani.Alcune indagini statistiche, seppurdatate, hanno dimostrato24 che l’opi-nione estremamente diffusa che gli elmicrestati fossero largamente i più diffusinella cultura etrusco-villanoviana èinfondata. In un gruppo di ben 142sepolture di Veio e Tarquinia, 53 elmisono crestati, 40 ad apice pileato e solo2 a calotta emisferica. La diffusione percittà, laddove la provenienza è certa,pur da dati non recenti aveva messo inluce invece che a Veio gli elmi crestatierano 39 mentre solo 3 erano quelli adapice, ma al contrario a Tarquinia se neconoscevano 22 ad apice contro 13 cre-stati, dimostrando forse l’esistenza di“mode” locali che -pur non indicandouna univocità tipologica- sembravanoevidenziare preferenze di gusto esclu-dendo valori di significato o di “grado”

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militare nell’uso di un tipo piuttosto chedell’altro. Queste “mode” almeno nelcentro tarquiniese non sembravanolegate a fasi cronologiche, e la diffusio-ne dei diversi tipi sembrava ridursi pertutti col tempo, sino alla scomparsa conil periodo orientalizzante. Indagini piùrecenti su Veio sostengono invece che inquesto centro nel IX sec. a.C. l’elmo piùdiffuso fu quello pileato (riprodotto in

impasto ceramico nelle tombe) “sosti-tuito progressivamente da quello cresta-to25”. La focalizzazione della produzionedegli elmi crestati a Veio e Tarquinia haindotto alcuni studiosi ad ipotizzare, colritrovamento di elmi crestati a Veruc-chio, che questa località romagnola, tra-mite le valli del Marecchia e del Tevere,fosse stata oggetto di

“vere e proprie forme di colonizzazione daparte di Tarquinia e, soprattutto, di Veio, checontrollava la bassa vallata tiberina in età villa-noviana. E’ certo, comunque, che fin dalle fasiiniziali del villanoviano verucchiese, elementicome l’elmo fittile crestato a copertura dell’os-suario hanno precisi riferimenti all’Etruriameridionale26”.

Le osservazioni in ordine alla diffusionedegli elmi e all’assenza di significato di

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Sopra, foto e disegno dell'elmo crestato in bronzo dalla Tomba I acassa, da Poggio dell'Impiccato a Tarquinia - Firenze, MuseoArcheologico Nazionale; nella pagina a fronte, l'askos Benaccidalla tomba 525 del sepolcreto omonimo di Bologna; sul ventredel vaso campeggia un cavaliere con elmo crestato e scudo sullespalle - Bologna, Museo Civico Archeologico

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“grado” militare nelle fogge d’elmo sem-brano dunque smentire l’ipotesi secondola quale il cimiero di crine, coi suoi colori,avrebbe avuto già in quest’epoca un finedi riconoscimento per alcuni “emergenti”,fatto attestato invece solo ben più tardinell’esercito romano, dove la iuba o cristaequina serviva all’ufficiale per venir piùfacilmente riconosciuto dalla truppa27.

E’ degno di nota come le raffigurazioniartistiche di guerrieri con elmi crestatisiano piuttosto tarde, recenzioni rispet-to agli elmi rinvenuti; tutte datanoinfatti al VII sec. a. C. Se esse sembranoin alcuni casi ascrivibili a località dove lacultura villanoviana ebbe durata piùlunga (Bologna, Este, Reggio Emilia,forse anche Arezzo), in altri casi (Tar-

quinia, Vetulonia) non si può escluderel’intento di celebrare, ormai in epocaorientalizzante, una formula tradiziona-le di guerriero con una sorta di preco-cissima laudatio temporis exacti.In particolare dalle raffigurazioni, a con-ferma di quanto rilevato sulle “mode”tipologiche in base ai ritrovamenti, nonemergono particolari connessioni del-l’elmo crestato con panoplie caratteristi-che in associazione, e neanche con“corpi” distinti (cavalleria o fanteria): ilcavaliere dell’askos Benacci di Bolognaha sulle spalle uno scudo rotondo comeil fante del circolo del Tritone di Vetulo-nia, ma cavalca come i soldati del tripo-de dai Monterozzi di Tarquinia; il fantedi Este reca uno scudo ovale, brandiscenella destra una lancia, similmente aquanto in origine facevano i guerrieridal circolo del Tridente di Vetulonia,mentre il soldato di Cupramarittima(presso Ascoli Piceno) veste solo una cin-tura, regge un’ascia nella sinistra ed unkyathos nella destra; un’ascia era forsebrandita anche dal fante del circolo delTritone di Vetulonia, che portava peròanche uno scudo rotondo sulle spalle edun elmo crestato; del tutto disarmato è ilguerriero a piedi da Reggio Emilia28.Siamo privati di documentazione sulleoriginarie associazioni di armi difensiveed offensive anche dall’uso veiente, peril IX sec. a.C., di non deporre armi realinelle sepolture, per cui con gli elmi fitti-li non sono mai state reperite altre armioffensive associate, tranne due tombedove, con l’elmo fittile, vi era un punta-

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le di lancia in bronzo29. Sulla presumibi-le particolarità sociale degli armati con-traddistinti da un elmo, a prescinderedalla foggia di questo, sembrano invececoincidenti i risultati di varie ricercheeffettuate in Etruria ed in area italica,delle quali si parlerà più estesamente nelcapitolo dedicato alle tattiche ed all’or-ganizzazione degli armati.Di come venissero indossati gli elmi cre-stati ci offrono interessanti rappresenta-zioni proprio le varie figurine a tuttotondo che effigiano guerrieri; da esse sievince che la cresta correva (come lasciaperaltro intendere l’ovale degli elmireali adattantesi alla scatola cranica)dalla fronte all’occipite, e che il coprica-po offriva di fatto -con il margine infe-riore pressoché orizzontale- più prote-zione alla fronte che al collo, lasciato sco-perto dalla calotta metallica come l’areadel cervelletto. Dall’analisi dei passiomerici emerge che nei conflitti di que-ste epoche l’elmo offriva una protezionemeccanica modesta; infatti in vari casi

“l’elmo è perforato e l’arma si conficca nel cer-vello, procurando la morte istantanea. Inoltrenei tre casi, in cui l’arma offensiva è un sasso,l’elmo non difende granché, giacché in unodei casi la pietra colpendo l’osso frontalerompe i sopraccigli e perfora l’osso e negli altridue casi «la testa si divise in due parti nel soli-do elmo» (...) Resta però da constatare che inalcuni passi del poema si parla di colpi paratidall’elmo, ma in genere questo fatto succedequando l’arma batte nella cresta30”.

Va di conseguenza osservato come lavariante crestata degli elmi della prima

età del ferro costituiva una miglioriabalistica intesa ad aumentare le mode-ste capacità di protezione del craniodegli elmi a calotta semplice o pileati, iquali non impedivano che il colpo aves-se, se non effetti perforanti, almenoeffetti traumatici sulla testa, come traEttore e Diomede in Iliade XI, 349. Lacresta invece poteva intercettare deicolpi fendenti delle leggere spade -odelle più pesanti asce- restando ovvia-mente danneggiata seppure di spessoredoppio, ma comunque proteggendo ilguerriero; sulla fronte e sulla nuca lepiastre di unione delle due semicalotte,sulle quali si ergevano i falsi rivetti cilin-drici, erano in grado di ridurre sensibil-mente anche le capacità perforanti diun urto di punta portato con la lancia,la spada o l’ascia.Nel complesso l’analisi formale deglielmi villanoviani e delle loro replichefittili mostra una tendenza a lasciarescoperti volto ed orecchie, e dunque anon offrire protezione dai colpi di lan-cia al viso e dai fendenti alla mascella,ma permettendo di vedere e sentireperfettamente. Ciò era intrinsecamenteconnesso col tipo di scherma e di tatticain uso all’epoca, dove agilità, comunica-zione audiovisiva e chiara percezionedella collocazione -tutt’attorno- deicommilitoni e degli avversari erano fon-damentali, in una fase ancora prece-dente allo schieramento chiuso. Anchein Omero sono citate frequenti ferite alnaso, alle tempie, alle guance ed alleorecchie, dal che si rileva l’uso di elmi

aperti31. Al contrario secoli dopo, conl’introduzione dell’elmo corinzio,

“non sorprenderebbe se la formazione e la tat-tica semplici della guerra per falangi -la forma-zione compatta, la carica, la collisione e la pres-sione finale- fossero nate almeno in parte dal-l’assenza di una comunicazione diretta tra i sol-dati e il loro comandante; con un copricapo delgenere erano fuori questione i singoli duelli, lescaramucce e gli attacchi brevi e ripetuti, e l’iso-lamento creato dall’elmo esigeva che ognuno sitenesse a stretto contatto con i compagni32”.

Nonostante la limitata protezione offer-ta dalle calotte metalliche degli elmi,l’osservazione dei fori nei reperti villa-noviani, ed in particolare negli elmibronzei d’uso rinvenuti, mette in condi-zione di “integrare” idealmente questearmi difensive con delle parti deperibilila cui presenza originaria è comunqueindiscutibile. Come si è infatti osservato,per la loro dimensione e per la presenzadi questi fori, gli elmi bronzei dimostra-no di avere in origine previsto un’imbot-titura interna e degli elementi laterali (eforse anche per la nuca). Con buona fre-quenza ad esempio gli elmi crestati reca-no tre fori, a modesta distanza tra loro,nella zona temporale, a vestigio del fis-saggio di un largo soggolo, probabil-mente in cuoio; questo, non essendo unsemplice lacciuolo di fermo, ma unavera e propria fascia di alcuni centimetridi larghezza, doveva assolvere conte-stualmente anche la funzione di somma-ria paragnatide33. Anche in Omero èindividuabile la presenza di paraguance;l’epiteto “kalkopàreos”, “dalle guance di

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rame”, indica infatti la presenza di ele-menti metallici applicati a protezionedel largo soggolo34. Anche l’esiguitàdello spessore del bronzo negli elmi(caratteristica che peraltro non verràscomparendo neanche negli elmi diconcezione locale etrusca più tarda,come si osserva fino a quelli a calottacarenata tipo “Negau” ben più recenti)come si è già accennato costituisce unpresupposto per la presenza necessaria,a protezione del capo ed a sostegnodella camicia metallica, di una imbotti-tura interna (di cui, come nel caso del-l’elmo dalla tomba a pozzetto di Monte-rozzi35, erano presenti tracce al ritrova-mento), la quale ancor più del metalloattutiva i colpi e limitava la penetrazionedei fendenti. Nel citato ritrovamentotarquiniese “il rivestimento internodeperibile” era “di stoffa grezza36”. E’noto, riguardo le imbottiture, che piùtardi gli opliti greci utilizzavano calottedi feltro o lana sotto gli elmi corinzi37.D’altronde anche il passo omerico diIliade X, 261-265, pur riferendosi ad unpeculiare elmo miceneo rivestito dizanne di cinghiale, rivela che la struttu-ra portante di questo era “un casco fattodi cuoio; con molte corregge, dentro,era intrecciato ben saldo (...) in mezzo(tra il cuoio e le placchette esterne d’a-vorio) era aggiustato del feltro”.L’analisi degli elmi rinvenuti nell’Etruriavillanoviana, composti di bronzo o repli-cati in ceramica, ed alcune osservazionisulla loro relativa diffusione e sulle lorocaratteristiche costruttive portano a ipo-

tizzare l’esistenza anche di altre tipolo-gie di elmi non conservatisi, ovvero inmateriale deperibile38. Gli esemplaribronzei infatti non sono estremamentediffusi neanche nella sola Etruria meri-dionale, dove però molte sepolturerecano una copia simbolica fittile. Difatto il bronzo era un materiale che, perle sue caratteristiche tecniche, dovevaessere lavorato solo e soltanto da unartigiano specializzato, fatto questo chene aumentava il “valore aggiunto” inmanodopera oltre a quello già elevatodel materiale. Peraltro, in genere, glioggetti di alto valore in metallo moltospesso erano versioni pregiate di ogget-ti attestati anche in materiale più vile; leurne cinerarie biconiche a capannasono più diffuse in impasto che in bron-zo, come dovevano esserlo gli oggettid’uso in legno intagliato rispetto a quel-li metallici. I tavoli lignei a tre gambe diVerucchio sono in tutto affini ai piùcostosi tavolinetti bronzei di CasaleMarittimo39; i troni dei canopi chiusini,più comuni in ceramica che in metallo,sono repliche dei più diffusi, ma perdu-ti, troni in legno sul tipo di quelli diVerucchio; i cofanetti lignei come quel-lo parziale da Campo Casali -oggi alMuseo Civico A. C. Blanc di Viareggio-erano più diffusi delle pissidi in bronzoo in avorio; come meglio vedremo, gliscudi bronzei erano rare implementa-zioni metalliche degli scudi in pelle,legno e vimini, di cui talora riproduce-vano l’orditura.Queste osservazioni e alcuni recenti

ritrovamenti –frutto di condizioni fortu-nate e di metodi di scavo innovativi40-dimostrano il largo impiego che dovevaessere fatto di materiali deperibili percategorie di oggetti che solitamenteconosciamo in materiali durevoli, elasciano intendere che

“l’elmo di bronzo non fosse molto diffuso; essodoveva essere un segno distintivo per alcuni.Ma, giacché l’elmo è l’emblema stesso dellesepolture maschili, si può supporre che la mag-gior parte dei guerrieri portasse una protezio-ne di cuoio o di tessuto rinforzato41”.

Osservando ad esempio la realtà di uncentro dove la facies villanoviana ebbe unpeso particolare, ovvero Bologna, vi siosserva con sorpresa che “manca com-pletamente l’armamento difensivo(elmo, scudo), che nell’ambiente villano-viano (locale) è invece documentato inmaniera molto precisa dal piccolo guer-riero a cavallo dell’askos Benacci42”. Alvillanoviano III di Bologna (secondametà VIII - prima metà VII sec. a. C.)data peraltro la stele della tomba Benac-ci-Caprara 62, dove tra due scudi circo-lari “a spicchi” si trova un guerriero ocacciatore armato di lancia e con capocoperto da un copricapo appuntito. Latotale assenza di elmi (e scudi) bronzeidalle tombe villanoviane bolognesi (edalle abitazioni, largamente indagateanch’esse), ma la presenza di copricapida combattimento effigiati su reperticome il citato askos o come la stele, indi-cano che gli elmi e le armi difensive esi-stevano, ma in un materiale diverso.

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Gli elmi

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L’ipotesi più probabile è che gli elmi vil-lanoviani usati dalla maggior parte deiguerrieri fossero in cuoio. E’ stato infat-ti rilevato che “l’esistenza di armi dadifesa, anche in materiale deperibile(...) come il cuoio, nel più antico perio-do villanoviano può essere provatadagli elmi d’impasto ceretano rifacenti-si ad un modello reale di cuoio e non dimetallo43”.A Roma i Salii, sacerdoti collegati ai piùantichi rituali guerreschi ed alla conser-vazione degli scudi sacri detti ancilia,“portavano un elmo di cuoio, terminan-te in un apex, rinforzato di metallo etrattenuto da un soggolo44”. I velites del-l’esercito romano a lungo “conservanoquello (l’elmo) di cuoio un po’ diversodal primitivo, cioè più piccolo (dettogalericulum) che ha una copertura dipelle di lupo o di cane, con un bottonemetallico alla cima del casco45”.Nelle opere omeriche si parla spesso dielmi, usando nomi diversi (kòrus, kunèe,trufàleia, pèlex); l’elmo di Atena era dettoappunto kunèe, che

“significa propriamente «pelle di cane», e cer-tamente indica un antico uso di prepararsicopricapi difensivi con quel materiale. Il sensoprimitivo è in Omero del tutto offuscato e ilsignificato percepito nella parola è puramentequello di «elmo, copricapo»; così si può parla-re senza contraddizione di kunèe taurein (unelmo di cuoio taurino) e di kunèe aigheie (unberretto di cuoio di capra)46”.

In effetti nell’Iliade sono citati quattrovolte elmi esplicitamente in bronzo edue quelli in cuoio47, ad indizio di una

vasta diffusione anche di copricapi pro-tettivi in pellame. Di notevole interesseè la riserva degli elmi metallici, inOmero, per gli scontri diurni in campoaperto, e l’esclusione di elmi di bronzodall’impiego in caso di pattugliamenti omissioni notturne, per gli evidenti rischiconnessi alla rumorosità e lucentezzasotto la luna. Nel X libro dell’Iliade Dio-mede ha un casco aderente di pelle tau-rina –senza apice né cresta, 258-, Dolo-ne ha una sorta di celata in pelle o pel-liccia di lontra –335- e Ulisse ne portauno di pelle imbottito di feltro e rivesti-to di zanne di cinghiale –261, 265-48.Lo stesso berretto detto pileo (di pelle,di feltro o di stoffa), diffusissimo nel-l’antichità in Grecia, in Etruria ed aRoma, era formato da una calotta ade-rente alla testa, talvolta allungata acono, talvolta ovale, con un nastro sulbordo per legarlo sotto la gola. Si trattadi un copricapo che restò a lungo diffu-so tra le classi umili per la sua semplicearcaicità; a Roma era parte del “costu-me nazionale”, e nella cerimonia dell’e-mancipazione schiavile esso comparivacome simbolo di libertà e di cittadinan-za, valori questi peculiari del membrolibero ed adulto -come quello che acce-de all’uso delle armi- nella comunità.Alcuni studiosi49 hanno ipotizzato che leapplicazioni metalliche talvolta presentisugli elmi simbolici in impasto abbianoavuto il ruolo di ricordare accessori inmetallo applicati ai copricapi militarideperibili. Qualcosa di simile è già atte-stato probabilmente, nel XVI sec. a. C., in

ambiente miceneo, e per l’esattezza nelcorredo della tomba a fossa IV di Micene,dove è stato scoperto “un gruppo di piùdi quaranta piccoli dischi bronzei; un forone consentiva l’applicazione su elmi oaltri oggetti”. Tali pezzi sarebbero stati“gli unici elementi metallici d’armaturaeffettivamente usati in battaglia” nellaGrecia del tempo, secondo lo Snod-grass50. Anche gli elmi e le corazze raffi-gurati più tardi sul Vaso dei Guerrieri diMicene (risalente al Tardo Elladico IIIC –XIII sec. a.C.) appaiono ornati da punti-ni bianchi, che “sono generalmente inter-pretati come dischetti metallici cuciti allacalotta, che era probabilmente di cuoio odi feltro”51, e che anche Omero (IliadeXVI, 105) cita come “fàlara” delle borchiedi metallo che rinforzano l’elmo.L’impiego del cuoio per le armi difensi-ve era diffuso nella tecnologia dell’etàdel bronzo e della prima età del ferro, acausa dell’attitudine del materiale asostenere urti di armi da taglio e dapunta. L’estrema semplicità della realiz-zazione di copricapi in pellame rendeinoltre ben plausibile che, da un fogliodi cuoio, si tendesse anche a realizzarecopricapi da combattimento semirigidi.La fabbricazione dell’elmo conico ritro-vato nell’Adige a Oppeano Veronese52

(al Museo Archeologico di Firenze, diconcezione primitiva anche se risalenteormai al VI-V sec. a. C.) rivela una tecni-ca molto elementare, ovvero quella diripiegare uno o due fogli metallici a for-mare un cono, del quale alcuni ribattinifissano le estremità sovrapposte mentre

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un bottone chiude il foro sull’apice. Conla stessa tecnica era realizzato l’elmodegli ultimi quattro fanti della paratasulla situla bolognese della Certosa53.L’elmo conico che ne risulta –già diffusopresso gli Assiri- con la sua punta acutaha una forma “molto adatta per deviarei colpi delle lame, facendole scivolarelungo la superficie conica; vedremoriapparire più volte questa forma nelprimo Medioevo54”. Volendo realizzarecon una tecnica simile un copricapoimpiegando del materiale più economi-co, elastico ed adattabile alle fattezze delcapo come sono il cuoio o la pelle, siottiene di fatto, da un cono deformato,un semplice pileo dalla calotta arroton-data e dall’estremità apicale sopraeleva-ta. La lavorazione di un copricapo di talgenere è estremamente semplice, comechi scrive ha constatato tentando in pro-prio una sommaria elaborazione di unpileo da un foglio di pellame morbido,eseguito con poco lavoro e con l’impie-go di soli ribattini. In tale occasione si èosservato che proprio l’uso (e talvoltaanche la disposizione funzionale) deirivetti, che nel pellame ha un fine prati-co di fissaggio, richiama l’ornato a bor-chiette degli esemplari bronzei, dove talisbalzi sono del tutto defunzionalizzati55.La facilità di elaborazione con pellamefa intuire come, a differenza degli esem-plari metallici, i copricapi deperibili fos-sero di fatto realizzabili a cura di arti-giani anche non specializzati o addirit-tura autocostruibili, giacché la tecnicache prevede l’impiego di cuoio (con

bagnatura, schiacciatura e martellatura)era di fatto alla portata di tutti. E’comunque probabile che, per la realiz-zazione degli elmi, si impiegasse ilcosiddetto “cuoio cotto”, ovvero delcuoio che, sottoposto ad un particolareprocedimento di indurimento del qualesi parlerà meglio relativamente agliscudi, acquisiva robustezza e resistenzameccanica maggiori che al naturale, egrazie alle quali diveniva particolar-mente adatto alla realizzazione di armidifensive56.In Etruria un ritrovamento da Veruc-chio effettuato nel 1972 apre uno squar-cio di luce sui copricapi deperibili villa-noviani; infatti la tomba 85 della localenecropoli sotto la Rocca ed il suo conte-nuto vennero rinvenuti in ottimo statodi conservazione, tale da consentireanche il mantenimento di materialinormalmente deperibili. Questa sepol-tura a pozzo, risalente attorno al terzoquarto del VII sec. a. C. ed attribuibilead un individuo di alto rango, contene-va ornamenti, un trono ligneo con pog-giapiedi, tavoli a tre gambe con resti dicibo, un coltello ed altri oggetti. Inoltre

“con evidente allusione all’alto grado ricopertoin vita dal defunto ed alla sua dignità (…) erapoi contenuto il singolare copricapo contestodi fibre vegetali rivestite di borchiette enee nelcampo libero da dischi maggiori e minoriarmonicamente applicati sui lati e dal discoapicato ricoprente la sommità della calotta; lasua tipologia richiama quella dei copricapi dicuoio, di più sobria decorazione, restituiti datombe liburniche di Kompolje, e può avvici-narsi alla classe degli elmi a calotta di lamina di

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Gli elmi

In alto, l'elmo in rame da Oppeano veronese,decorato con incisioni e ricavato da un fogliodi metallo piegato a cono - Firenze, MuseoArcheologico Nazionale. In basso, una rico-struzione in pellame di un simile copricapo apileo - Collezione privata dell'Autore

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bronzo sbalzata, restituiti dall’Etruria meridio-nale (Tarquinia) e dalla regione ispana (Cuevade Vinromà)57”.

Di fatto, si tratta di un copricapo chenella forma replica quella degli elmi adapice tarquiniesi; la calotta è però rea-lizzata in vimini intrecciato -dall’apice almargine inferiore- attorno a dei cerchidi diverso diametro. Su questa “base”leggera ma resistente sono stati applica-ti alcuni grandi umboni a disco conves-so in bronzo, tra i quali sono a loro voltainseriti due umboni più piccoli, uno piùin alto ed uno più in basso; a completa-re il rivestimento della parte libera visono innumerevoli sferette ben com-messe e, in alto, un apice bronzeo a bot-tone privo di foro passante58. Pur risa-lente ad un periodo piuttosto tardo,questo copricapo è a tutti i diritti uncampione unico dell’aspetto degli elmicaduchi villanoviani di uso comune59, eva rigettata l’ipotesi che sia “un elmo daparata in fibre vegetali”60. Il villanovia-no verucchiese61 si connota infatti, puraccettando alcune tipologie di prodottiorientalizzanti, per la sua conservativaadesione a formule tradizionali dellafacies; dunque tale copricapo non vainteso come un particolare prodottolocale, ma invece come un campione,fortunatamente conservatosi, di unatipologia di oggetti diffusi largamente,nelle versioni senza falere, nell’interaarea villanoviana.La sua presenza e le sue particolari rifi-niture ci consentono a posteriori di leg-

gere con chiarezza sia l’iconografia chealcuni ritrovamenti. Difatti il copricapodi Verucchio è quanto sembra essererappresentato sul capo di alcuni guer-rieri sbalzati sulla notoria situla dellaCertosa (pur risalente alla metà del VIsec. a. C.), in particolare al capo di queicinque soldati con lungo scudo ovale elunga lancia con sauroter, che seguono idue cavalieri62.Costoro vestono infatti un elmo simile aduna cuffia appuntita sulla cui circonfe-renza stanno tre elementi discoidali con-vessi -rispettivamente uno sulla fronte,

uno alla tempia, uno alla nuca- ai qualisembra aggiungersene un altro che,posto sulla guancia, potrebbe essere nontanto una semplificazione dell’incisoreintesa a rappresentare la gota, quantopiuttosto una ulteriore borchia con uso diparaguancia applicata sul soggolo del-l’elmo. Questo elmo di fanteria, per ilDucati, che scriveva nel 1923,

“ha il confronto, sinora unico, con un elmo, usci-to da un tumulo di Santa Margherita in Carin-zia di intreccio ligneo a forma di callotta con seidischi bronzei simili a falere ed in alto un setti-mo disco finiente a punta. Si aggiunga che lo

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L'elmo a calotta in vimini con elementimetallici in bronzo dalla Tomba 85 dellaNecropoli Sotto la Rocca di VerucchioVerucchio, Museo Archeologico

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Szombathy è incline a vedere tale forma di elmoespressa in modo assai schematico, anche pres-so il secondo guerriero del frammento di situladi S. Marein. Si risale con questo elmo ad età dipoco anteriore o di poco posteriore al 500 a. C.;tale età è indicata dal materiale archeologico diSanta Margherita da fibule di tardo tipo villano-viano. Mancano per questo elmo, che forseaveva la callotta non solo di legno, ma anche dicuoio, analogie, per quanto io sappia, con l’E-truria; ma come indizio, tenue assai, verso l’o-riente ci possono servire l’avvicinamento propo-sto dallo Helbig delle sue grosse borchie ai fàla-ra dell’elmo di Aiace Telamonio in un passodella Iliade (XVI, v. 105)63”.

In effetti, come si è già accenato, l’Iliadeoffre interessanti riferimenti per talielmi a falere; in particolare si può dire

che l’elmo di Verucchio sia esattamentequello che viene definito “tetrafàleros” daOmero (Iliade V, 743; XI, 41), ovvero unelmo protetto da quattro ampie faleremetalliche disposte regolarmente lungola sua circonferenza64. Inoltre, dellapresenza di elmi in vimini nel mondoomerico, offre qualche indizio un epite-to impiegato dal poeta per caratterizza-re il copricapo dei guerrieri, ovvero“aulòpis”, cioè “dall’aspetto di canna”(Iliade V, 182), che ben si attaglia ad unasorta di “cesto” in vimini. Elmi ancoradi questo tipo erano portati, ormai nelV sec. a.C., dalla fanteria leggera deiFrigi, armata di sola lancia, all’internodell’armata persiana65.

Sull’ampiezza della diffusione di taletipo di copricapo sia nel Mediterraneoorientale che in Mitteleuropa66 (una cuf-fia di vimini o di pelle difesa da dischimetallici) va ricordata la categoria dielmi a calotta con tre falere “tipo Lubia-na”, diffusi in Slovenia durante la fasepiù antica della Civiltà di Hallstatt, e dicui ci riproduce l’aspetto un bronzettoda Vace (Slovenia)67.Confronti archeolo-gici nell’area italica a sud-est delle Alpisono attualmente presenti, e risalgonoalla prima metà del VII sec. a. C.68

Se il copricapo verucchiese, ancoraignoto al tempo in cui il Ducati scriveva,ha oggi riempito il vuoto di attestazionimateriali dall’Etruria, considerando che

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Gli elmi

A sinistra, un guerriero dellafanteria leggera frigiadell'Asia minore -V sec.a.C.-,armato di lancia, scudo econ un elmo di vimini a falere; questo corpo facevaparte dell'esercito persianodi Serse. A destra, alcunefalere in bronzo da una delletombe villanovianedi Bologna -Bologna, MuseoCivico Archeologico

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delle borchie (ed un eventuale apice inbronzo fuso) sono quanto può conser-varsi di un tale oggetto, è possibile ipo-tizzare dei casi in cui, nelle sepolture vil-lanoviane, l’elmo completo c’era ma,scomparsa la calotta deperibile, ne sonostati rinvenuti solo gli umboni senzaassociazione. Alcune sepolture bologne-si, ad esempio, contengono dei dischibronzei con chiodini passanti (San Vita-le 776, Benacci-Caprara 39 e 255) rite-nuti falere della bardatura equina, inquanto associati in genere a morsi dicavallo o a stimoli e ad armi, dei qualiperò, non avendo dati esatti sulla dispo-sizione al rinvenimento, non è possibilecon certezza ipotizzare una applicazionea finimenti da cavallo o ad un elmodeperibile. In tal senso si è espressaanche G. Bergonzi, che proprio in ciòche per lei costituisce una difficoltà –ladatazione della tomba di S. Vitale allaprima metà dell’VIII sec. a. C.- eviden-zia invece l’esattezza dell’antichità inEtruria padana dell’uso di elmi deperi-bili con falere metalliche69. Similmente,nella tomba X dell’Olmo Bello di Bisen-zio, i cui materiali sono oggi a Villa Giu-lia, insieme ad un grande scudo di lami-na bronzea, del terzo quarto dell’VIIIsec. a.C., sono presenti due umboni con-vessi in ferro con attaccaglia interna, cherecano all’interno anche delle traccefibrose, e che potrebbero essere statianch’essi parte di un elmo deperibile afalere. Non diverse sono le tre falerebronzee della Collezione Ceccatelli alMuseo Archeologico Nazionale di Arezzo.

La possibilità di applicare sugli elmi deirinforzi a borchia è probabilmente daconsiderare, assieme alla riproduzionedi ribattini, all’origine degli ornati asbalzo sui vari esemplari in laminabronzea di epoca villanoviana, e forseanche della conformazione di certi elmietruschi più tardi, in cui alle forme loca-li si trovano aggiunte delle applicazionidiscoidali convesse70.Completata l’analisi tipologica deglielmi della prima età del ferro presentinell’Italia centrale villanoviana, resta daconsiderarne il valore di documentostorico e socioculturale. Per lo Henckenl’armamento difensivo presente inEuropa alla fine del II millennio a. C.era complessivamente ispirato a model-li micenei:

“l’armamento difensivo dell’età del bronzoegea deve qui essere tenuto di conto, ed in veri-tà l’influenza dell’età egea del bronzo su quelladel resto d’Europa sta diventando chiara inmodo crescente. Le genti europee dell’età delbronzo non abbandonarono in nessun modo leloro proprie culture altamente peculiari, maselezionarono piuttosto alcune forme egee (dielmi) per imitazione, anche se sempre inter-pretandole in propri termini. Circa dal XIII alXII sec. a.C., i capi dell’Europa iniziarono a farimpiego di corazze bronzee, schinieri ed elmicon paralleli nel mondo egeo. Forse questi capierano tentati di imitare i guerrieri micenei71”.

Basandoci sui dati della ricerca delloHecken il mondo miceneo appare ineffetti come un polo culturale ed ideolo-gico72 a cui quasi tutta l’Europa guardaattorno al XIII sec. a. C., quando la civil-

tà micenea è compiutamente matura edi suoi contatti fuori dall’Egeo si sono fattimolteplici. Le aree coinvolte per primein questa influenza sembrano esserestate non tanto quelle litoranee delMediterraneo, quanto quelle dell’Europacontinentale, attraverso le quali, da sud-est a nord-ovest, i tipi di alcuni elmi sem-brano aver avuto diffusione. Tuttavia, aduna attenta analisi, come ha notato loSnodgrass73, e come emerge dall’analisidel Taylour74, le armi difensive in metal-lo, in età micenea, non erano moltoabbondanti, a tutto favore di quelle inmateriale deperibile, e quanto si leggein Omero va collocato nel mondo dell’-VIII sec. a. C., pur con reminiscenze deisecoli precedenti.In particolare, gli elmi micenei erano divari tipi, tra i quali quello in cuoio ezanne di cinghiale, quello con ampiocimiero, piuma e due corna, e quellosolcato e crestato75; di questi, purchécaratteristici, nessuno sembra introdot-to pedissequamente in Europa e nellanostra penisola. Nonostante la cospicuadocumentazione relativa a ritrovamentidi vasellame miceneo sul suolo italico,non sembra che l’influenza egea sulletipologie di elmo nell’Italia centrale siastata determinante. L’evoluzione nel-l’armamento si avverte invece, princi-palmente, dal X sec. a. C. con l’età delferro; gli elmi -e numerose decorazionipresenti su essi come su molti oggetti inbronzo sbalzato- sembrano in particola-re trovare come modelli non tanto deiprototipi ellenici, quanto piuttosto delle

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La lancia, la spada, il cavallo

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creazioni mitteleuropee, dalle qualisono desunti anche alcuni elementi che-defunzionalizzati e ritenuti solo deco-rativi- vengono ripetuti come “sequenzatipologica irreversibile”.Si è già osservato, ad esempio, come ilunghi rivetti degli elmi crestati francesie tedeschi siano funzionali all’assem-blaggio (e forse atti, per le estremitàappuntite, ad infliggere testate agliavversari nel corpo a corpo), mentrenegli elmi crestati villanoviani tali ele-menti siano sempre defunzionalizzatied ornamentali. Sulla probabile discen-denza dai primi degli elmi crestati villa-noviani si sono pronunciati vari studi76.Comunque, per quanto concerne glielmi a calotta con pileo, è molto proba-bile, come si è visto, che tali copricapidiscendessero in Etruria da sempliciberretti o cappelli, realizzati per la guer-ra in materiale semirigido come il cuoioo il vimini al fine di offrire una maggio-re protezione rispetto ad un normalecopricapo, ma comunque sufficiente adassorbire la maggior parte dei colpi diarmi poco pesanti, quali erano quelledella prima età del ferro. Lo stessoHencken aveva ipotizzato una ideazio-ne spontanea nelle varie aree d’Europaproprio per gli elmi a calotta, presentianche nel mondo egeo ma di tipo ovun-que così semplice “che non si rendenecessario insistere su alcun collega-mento con l’esterno77”. Dunque il modello sociale mitteleuropeo(ideologico, ma anche artistico, metallo-tecnico e militare) parrebbe comunque

aver avuto una sensibile influenza sulmondo centroitalico della fine dell’etàdel bronzo e della prima età del ferro. Inaltri termini l’evoluzione tipologica dellearmi italiche -e degli elmi etrusco-villa-noviani in particolare- sembra indicareche i contatti diretti con la civiltà ellenicanon avevano portato pronte evoluzioninella società dell’età del bronzo, specienel campo dell’organizzazione politico-militare. Le stesse strutturazioni abitati-va, sociale ed ideologica sembrano avercolto solo echi molto parziali del modusvivendi dei visitatori egei giunti per mare.Più consona all’ideologia ed alla tradizio-ne dei popoli italici sembra invece esserestata la mediazione culturale di modellisociali evoluti -sia per i materiali che perle idee- effettuata dai popoli mitteleuro-pei, influenzati originariamente dalmondo miceneo attraverso l’interno bal-canico, i quali avrebbero “offerto” aipopoli dell’Italia centrale tirrenica -che si

affacciavano ad un’età del ferro gravidadi novità- delle concezioni che, intornoalle armi ed agli armati, erano sufficien-temente innovative senza per questostravolgere di colpo le preesistenti basisocio-culturali continuative dell’età delbronzo. Di fatto, come si osserverà nel-l’indagare la società di età protostorica,l’area centroitalica mostra il profondoradicamento di un’organizzazione dellasocietà senza gravi squilibri tra i membri;i “capi” mirano ad apparire, ancora nellaprima età del ferro, come in quella delbronzo finale, dei primi inter pares (comedimostrano le tipologie delle tombe). Laconcezione più piramidale intrinseca allasocietà ellenica stentò dunque ad attec-chire, forse per resistenze strettamenteideologiche (di fatto documentate aposteriori dalla lunga sopravvivenzadella cultura villanoviana nella Toscanasettentrionale e nell’Emilia) e forseanche per l’assenza di alcuni presupposti

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Gli elmi

Due versioni in ceramica di elmi crestati da Veio, destinate a coperchio di vasi cinerari; quella asinistra dalla Tomba AA 19A dei Quattro Fontanili, e quella a destra dalla Tomba AA 19B

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(economici, di popolazione, geografici).E’ importante ricordare comunque che, sele tipologie degli elmi villanoviani docu-mentano, per quelli crestati, una sensibileinfluenza da parte di forme mitteleuro-pee, i manufatti dell’Etruria ebbero a lorovolta una larga diffusione anche fuoridella loro terra di produzione. In partico-lare è stato notato come siano stati proprioi materiali legati all’ideologia guerrieravillanoviana ad ottenere il più largo con-senso in Italia settentrionale, nelle areealpine e transalpine. Tralasciando qui ladiffusione delle spade ad antenne e deimorsi di cavallo, si ricordano ancora elmicrestati di Hallstatt e dell’Ucraina occi-dentale come testimoni di una fortuna siamerceologica che ideologica, e forseanche documento dell’attività di gruppi diguerrieri in altre terre, quali “maestri d’ar-mi”78. Anche se quest’ultima ipotesi è didifficile dimostrazione, è innegabile che“manufatti come le spade ad antenne o glielmi crestati o pileati ammettono rappor-ti con l’area carpato-danubiana79”.In chiusura, è forse il caso di analizzarela particolarità villanoviana della collo-cazione funeraria degli elmi. E’ statoinfatti osservato80 che gli elmi protosto-rici ritrovati in Europa provengonoessenzialmente da tre tipi di giaciture:ad est di una linea che unisce il Mar Bal-tico con l’Adriatico si tratta prevalente-mente di deposizioni in ripostigli; adovest di questa linea -ed a nord di quel-la che unisce l’Istria al golfo ligure- glielmi provengono invece in gran parteda fiumi, dove dovevano essere gettati

per fini sacrali. Si tratta di un uso ritua-le esteso a vari tipi di armi, come anchepugnali e spade, che nel nord-est dell’I-talia inizia nell’età del bronzo anticoespandendosi nel bronzo medio. Iprimi elmi nei fiumi sono comunquedelle semplici calotte emisferiche inbronzo; il più antico –da Brancere, Cre-mona- data all’età del bronzo recente ene precede uno simile del bronzo finaleda Iseo, Brescia81. A sud dell’asse Istria- Liguria gli elmi -veri o in replicheanche fittili- vengono introdotti nel cor-redo funerario ad accompagnare ilmorto nel suo viaggio; tutti i reperti consufficiente documentazione di quest’a-rea indagati dallo Hencken -esclusoquello dal Tanaro presso Asti- “sonostati rinvenuti in sepolture, e talvoltacoprivano l’urna contenente le ceneridel guerriero82”.Attorno a tale uso funerario lo studiosoosserva che

“le copie fittili di elmi crestati sono frequentinelle sepolture villanoviane, ma sono in generedi esecuzione sommaria (...) La loro distribuzio-ne spaziale, come quella delle rappresentazionidi elmi crestati, si allarga di qualcosa al di fuoridell’area dove sono stati rinvenuti esemplaribronzei. Ciò ci avverte che la distribuzione dielmi bronzei localizzati, principalmente datombe, potrebbe essere più la distribuzione diun sistema di sepoltura che un’indicazione del-l’area in cui gli elmi erano di fatto usati83”.

Riguardo Veio, è stato osservato che nelIX sec. a.C. la deposizione di elmi fittili–prima di tipo pileato, poi sostituiti daquelli crestati- non avviene mai in asso-

ciazione con altre armi: sono note solodue combinazioni con un puntale dilancia e una con uno scudo ovale minia-turistico in bronzo. Si tratta di un usopresente anche nel Latium,

“dove le armi sono oggetti di corredo sottopo-sti ad un forte condizionamento rituale, e pre-senti quindi esclusivamente in forma miniatu-rizzata o simbolica (…) Nella prima metà dell’-VIII sec. come del resto nella limitrofa arealaziale, fanno la loro comparsa le armi reali84”.

Il valore simbolico dell’elmo riprodottoin materiale fittile e posto a coperchionelle sepolture è fortemente sottolinea-to dai dati relativi alla necropoli dellaseconda metà del IX sec. a.C. di Ponte-cagnano con tombe a ricettacolo, desti-nata a individui eminenti. Qui infatti

“in tutte le tombe con oggetti tipicamentemaschili, il coperchio dell’ossuario ha laforma di un elmo fittile, mentre nelle altrearee funerarie, questo si alterna con lo sco-

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La lancia, la spada, il cavallo

Un corredo villanoviano fornito di coperchioa forma di elmo crestato - Firenze, MuseoArcheologico Nazionale

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dellone. (…) Questo oggetto polisemico noncopre lo stesso campo semantico delle armi,e si trova sovente dissociato da queste. Adesempio, proprio in quest’area le tombe conarmi sono molto poco numerose. Questaconsiderazione, unita al carattere selettivodel suo impiego, induce a supporre che l’el-mo fosse riservato solo a una parte di queimaschi adulti ai quali competeva la qualificadi guerriero, e probabilmente ai seniores. Aquesti infatti ancora si addice la dignità diguerriero, ma più ancora compete quella disaggio, e garante della continuità del gruppodi parentela85”.

Peraltro, dall’uso funerario dell’elmo inmateriale fittile e da alcune altre osser-vazioni precedentemente emerse, sirileva la forza della tradizione presentein Etruria dell’effigiare il morto antro-pomorfizzando il cinerario, ed in parti-colare si nota la protostoricità di taleuso, che informa l’abitudine di coprireappunto il cinerario di alcuni personag-gi maschili con un elmo (vero o falso) aricreare in modo ideale la fisicità scom-parsa con l’incinerazione. Anche alcuni esemplari di elmi in bron-zo, come quelli crestati con calottarotonda, venivano appositamente creatia fini funebri; essi erano talvolta

“più piccoli della maggior parte degli altricosicché in essi vi era poco posto per lanecessaria imbottitura, e di fatto nessuno hafori sull’orlo (...) Almeno due da Veio eranoimpossibili da portare come elmi. Tuttiquelli documentati vengono da tombe, e ilcarattere di tutto il gruppo suggerisce che lamaggior parte di essi, come le repliche fitti-li di elmi, erano simbolici ed erano destina-ti solo ad uso funerario86”.

Si ricorda, per meglio affermare la por-tata dell’intento antropomorfico nell’al-lestimento del cinerario nella sepoltura,che nella tomba tarquiniese n. 1 di Pog-gio dell’Impiccato, il cinerario biconicomonoansato era coperto dal bell’elmocrestato oggi al Museo di Firenze, marecava anche “intorno al collo” una col-lana di anellini bronzei con pendaglio,lunga 38,5 cm87. Al corredo si assom-mavano una spada con fodero di tipo“Pontecagnano”, ornamenti personali,vasellame, dell’aes rude ed un guscio diCharonia Nodifera, grosso gasteropodemediterraneo, troncato all’apice al finedi usarlo come strumento, più probabil-mente come segnale di guerra.Era stato ritenuto da alcuni88 che l’ap-plicazione di elmi bronzei a coperturadell’ossuario fosse “caratteristica quasiesclusiva dell’Etruria meridionale”,fatto questo messo in discussione davari ritrovamenti come quelli di Veruc-chio in Romagna, dove si conosconoelmi sia fittili (sep. 52) sia metallici a cre-sta con falsi rivetti non tubolari ma agiorno89. Inoltre, già secondo i datidello Hencken, pur succinti riguardol’Italia, l’uso della deposizione di elminella tomba non è attestato solo in Etru-ria, ma anche ad est dell’Appennino,come a Novilara ed a Fermo nelle Mar-che, a suggerire appunto una koinè pro-tostorica che informa non solo l’Etruria.Come si è venuto rilevando, gli elmi sim-bolici in impasto ceramico datano in varicasi –lo abbiamo appena visto per Veio ePontecagnano- già al IX sec. a.C:, come

alcuni esemplari di Tarquinia; in alcunicentri etruschi la deposizione di veri elmimetallici nelle tombe risale ancora piùindietro, ovvero sin dal passaggio tra X eIX sec. a. C., dandoci uno dei termini“alti” per considerare l’antichità dell’usodi “umanizzazione” del vaso per le cene-ri, le cui implicazioni ideologiche e reli-giose furono molteplici.Alle riflessioni sul significato sociale ditali deposizioni, vanno aggiunte quellesimbologiche collegabili con una teoriadel Minto90; aldilà della condivisionecompleta della teoria stessa, emergequale tendenza oggettiva il fatto che allearmi difensive si potesse accompagnareun ruolo di magica protezione del pro-prietario (sia in vita che post mortem).Se, quale emblema di attività guerrescae quale oggetto magico, erano sufficien-ti, per la sepoltura, le repliche fittili dielmi, va osservato che gli elmi reali -deperibili o metallici- non sempre veni-vano collocati nella tomba. Come èstato ipotizzato, gli esemplari metallici,di maggior valore, potevano essere usatidagli eredi del defunto, fatto questo cheha interessanti implicazioni sia sulpiano del costume degli antichi, siasugli attuali parametri di datazione deicorredi funebri.Riguardo tale ipotesi è stato ritenuto

“possibile che si usasse mettere l’elmo vero(nella tomba) allorché il guerriero defunto nonaveva figli o discendenti. Qualora invece neavesse è probabile, vista la preziosità di questioggetti, che gli originali passassero all’erede eche quindi si apponessero solo delle riprodu-

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Gli elmi

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Note

1 Hugh Hencken, The earliest european hel-mets, Cambridge, 1971.2 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 7. Per la sua rilevanza, a differenza diquanto ho normalmente fatto con le citazio-ni, in questo caso ho tradotto il passo.3 Ribadite anche in Ivo Fossati, Gli esercitietruschi, Milano, 1987, pag. 19.4 Similare osservazione è stata fatta dal Fos-sati per gli scudi in lamina di bronzo, in let-teratura definiti talvolta, sbrigativamente,tutti da parata (o tutti da combattimento).Egli nota infatti che “se (...) accettassimo l’i-potesi che questi scudi (bronzei) fossero soloimitazioni rituali di veri scudi, impiegate inparate o cerimonie, verrebbe spontaneochiedersi dove sono finiti i «veri» scudi bron-zei da guerra, consequenzialmente più spes-si e quindi meglio conservabili nel tempo.

Né possiamo del resto sostenere che gliscudi bronzei avessero una pura funzionecerimoniale o funeraria, e che perciò non neesistessero per l’uso effettivo in guerra, datoche le raffiugurazioni dimostrano il contra-rio. Quando si parla di armi nel mondoantico, specie se così diffuse e documentate,non si può che pensare ad un loro utilizzopratico, e semmai solo occasionalmente esimbolicamente ad un susseguente impiegorituale”. Da Fossati, cit., pagg. 32-33.5 Per una carta della distribuzione, sebbenedatata, si veda Hugh Hencken, Archaeologicalevidence for the origin of the Etruscans, in“CIBA Foundation Symposium on MedicalBiology and Etruscan origins”, London,1959, pag. 34, fig. 2.6 Moreno Sagramora, Le armi dei Veneti Primi,Venezia, 1992, pag. 107.7 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 7.8 John Warry, Warfare in the Classical World,

Londra, 1980, pagg. 15-16.9 Vedi in Augusto Botto Micca, Omero medico,Viterbo, 1930, pagg. 38 e 39.10 Vedi Boris Piotrovskij, Urartu, in “MondoArcheologico” n. 22, dicembre 1977, pag.23; oggi il pezzo è conservato all’Hermitagedi S. Pietroburgo. E’ degno di interessequanto il materiale di Urartu dell’VIII sec. a.C. -vasi a stivale, morsi di cavallo, lebèti- siavicino a quello dell’orientalizzante etrusco.11 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pagg. 135-139.12 Per una carta della distribuzione, sebbenedatata, si veda Hencken, Archaeological evi-dence for..., cit., pag. 34, fig. 4; più recentequella in Luciana Aigner Foresti, Relazioniprotostoriche tra Italia ed Europa centrale, in“Gli Etruschi e l’Europa”, Milano, 1995,pag. 161.13 Vedi Maria Chiara Bettini, scheda 251 in“Gli Etruschi e l’Europa”, cit., pag. 250; eRaffaele De Marinis, Gli Etruschi a nord del

zioni. Non è infatti inverosimile supporre l’u-sanza di tramandare le armi di padre in figlio,non unica nel suo genere, quale vincolo sim-bolico di legame fra diverse generazioni di unastessa famiglia o comunità91”.

In questo senso depongono, come si èvisto, anche le tombe “privilegiate” diPontecagnano, nelle quali risultano invari modi sottolineati i valori della fami-glia e dei legami di parentela, e doveappunto tutti i maschi seniores risultanoportatori di elmo in vita, ma sepolti con

una replica fittile di esso, lasciandointendere che, quali titolari di una ere-ditarietà familiare, avevano lasciato illoro elmo d’uso al diretto discendente92.Simile ereditarietà delle armi è notaanche nella Grecia delle formazionioplitiche:

“there is no reason to doubt that when theinfantry veteran had died or (more rarely) rea-ched the retirement age of sixty-two, thepanoply was handed down, father to son. Per-haps in certain instances a son might have pro-

blems fitting into his ancestral breastplate, hel-met and greaves (but) there is reason to belie-ve that many young Greek hoplites could fitinto their father’s arms, just as medievalknights did later on. Small adjustments in hel-met lining, the shield strap, and spear lenghtsurely were not difficult to make. (...) Imaginesome innate flexibility designed into thepanoply despite its metallic construction: overthe potential forty-year tenure of some hopli-tes, many would need to adjust their armor totheir changing girth. (…) In actuality a hopli-te’s son, not the father himself in his forties, fif-ties, and sixties, might better match the soldie-r’s own lost youthful physique93”.

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Po, in “Archeologia Viva”, anno V, n. 12,dicembre 1986, pag. 30.14 Sagramora, Le armi dei Veneti Primi, cit.pag. 109.15 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 78; più recentemente M.C Bettini,Relazioni protostoriche, scheda 251, cit.16 Per un disegno “esploso” delle compo-nenti dell’elmo crestato si veda GiuseppeCapretti, Il mondo tecnologico e militare villano-viano, in “Mondo Archeologico” n. 47, ago-sto 1990, pag. 25 fig. 6.17 Hencken, Archaeological evidence for..., cit.,pag. 35.18 Vedi Luigi Malnati, Valerio Manfredi, GliEtruschi in Val Padana, Milano, 1991, pag. 89e pag. 106.19 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 97 e segg.20 Aigner Foresti, Relazioni protostoriche traItalia ed Europa centrale, cit., pag. 158 e segg.21 R. De Marinis, Gli Etruschi a nord del Po,cit., pag. 30.22 Vedi Aigner Foresti, Relazioni protostorichetra Italia e Europa centrale, cit., pag. 158.23 Mauro Cristofani, Gli Etruschi del mare,Milano, 1983, pagg. 29-30.24 Christiane Saulnier, L’armée et la guerredans le monde etrusco-romain, Parigi 1980,pagg. 26-27.25 Gilda Bartoloni, Alessandra Berardinetti,Mario Cygielman, Anna De Santis, LucianaDrago, Lucia Pagnini, Veio e Vetulonia nellaprima età del ferro: affinità e differenze nello svi-luppo di due comunità dell’Etruria villanoviana,in “The Iron age in Europe”, vol. 12, Collo-quia of the XIII International Congress ofPrehistoric and Protohistoric Sciences, Forlì,1996, pag. 69.26 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 67.27 Armi e armature dell’impero romano, a cura di

Lamberto Antonelli, Roma, 1990, pag. 118.28 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 111 e segg., e Fossati, cit., pag. 11.29 Bartoloni, Berardinetti, Cygielman, DeSantis, Drago, Pagnini, Veio e Vetulonia, cit.,pag. 69.30 Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 63.31 Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 40.32 Victor Davis Hanson, L’arte occidentale dellaguerra, Milano, 1990, pag. 82.33 Saulnier, cit., pag. 19 ed Hencken, The ear-liest european helmets, cit., pag. 58.34 Vedi Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 40.35 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 85 e fig. 58.36 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 85.37 Vedi in John Warry, Warfare in the classicalworld, cit., pag. 44.38 Con Saulnier, cit.39 Su tale area e sui suoi reperti si veda ilcatalogo Principi guerrieri - la necropoli etruscadi Casale Marittimo, a cura di Anna MariaEsposito, Milano, 2001.40 Si veda lo “scavo in laboratorio” delletombe di Casale Marittimo, già citate.41 Saulnier, cit., pagg. 27-28.42 Silvana Tovoli, in “Il Museo civico archeo-logico di Bologna”, Bologna, 1982, pag. 223.43 Gilda Bartoloni, La cultura villanoviana,Roma, 1989, pagg. 195-196.44 Saulnier, cit., pag. 28.45 Armi e armature dell’impero romano, cit., pag.116.46 Pietro Janni, Il mondo di Omero, Bari 1975,pag. 159.47 Vedi Botto Micca, Omero Medico, cit., pag.40.48 Vedi Botto Micca, Omero Medico, cit., pagg.41-42.49 Saulnier, cit., pag. 28, ed anche Capretti,Il mondo tecnologico e militare villanoviano, cit.,

pag. 24.50 Arnold M. Snodgrass, Armi ed armature deiGreci, Roma, 1991, pag. 21.51 Lord William Taylour, I Micenei, Firenze,1987, pag. 168.52 Vedi Jytte Lavrsen, Weapons in Water – AEuropean Sacrificial Rite in Italy, in “AnalectaRomana Instituti Danici”, XI, 1982, pag. 14;vedi anche Sagramora, Le armi dei VenetiPrimi, cit., pag. 106.53 Vedi Pericle Ducati, La Situla della Certosa,Roma, 1923, e riedizione Roma, 1970, pag. 27.54 Giuseppe De Florentiis, Storia delle ArmiBianche, Milano,1974, pag. 61.55 Inoltre, con pellame morbido, si ottienesull’apice una zona appuntita ma vuota, chepertanto tende naturalmente ad appiattirsi,e che ricorda embrionalmente le creste piat-te degli elmi bronzei.56 Letterio Musciarelli, Dizionario delle armi,Milano 1968-1970, s. v.; per i processi diindurimento del cuoio vedi nel capitolosugli scudi.57 Gino Vinicio Gentili, L’età del ferro a Veruc-chio: cronologia degli scavi e scoperte ed evoluzio-ne della letteratura archeologica, in “Studi edocumenti di archeologia”, II, Bologna,1986, pag. 27 e tav. 10b; e Gino Vinicio Gen-tili, Il Campo del Tesoro - Podere Lavatoio, in“La formazione della città in Emilia Roma-gna”, Bologna, 1987, vol. II, pag. 232 esegg.58 Per una foto eloquente dell’elmo di Veruc-chio si veda in AA.VV., Gli Etruschi, Milano,1998, pag. 1159 Si ricorda che il villanoviano verucchiese,ben distinto da quello bolognese, perdurasino allo scorcio del VI sec. a. C.60 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in ValPadana, cit., pag. 105.61 Del quale è stata ribadita l’originalità inGentili, L’Età del Ferro a Verucchio, cit., pagg.

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1-41, ed i legami formali, più chiari con l’E-truria interna e tiberina che con l’area emi-liana.62 In ciò sono sostenuto dall’articolo di Gio-vanna Bergonzi, Etruria – Piceno – CaputAdriae: guerra e aristocrazia nell’Età del Ferro, in“La civiltà picena nelle Marche, Studi inonore di Giovanni Annibaldi”, Ripatranso-ne, 1992, pag. 76.63 Pericle Ducati, La situla della Certosa, cit.,pag. 28.64 Vedi Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 41.65 Vedi Warry, Warfare in the classical world,cit., pag 38.66 Per l’ascendenza centroeuropea si vedaMalnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Padana,cit., pag. 105.67 Vedi AA.VV., Gli Etruschi e l’Europa, Mila-no, 1992, pag. 253, scheda 273.68 Vedi Bergonzi, cit., pag. 76 e nota 69.69 Vedi Bergonzi, cit., nota 69. 70 Si pensi ad esempio all’elmo al MuseoStibbert di Firenze n. inv. 387371 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 8. La traduzione è mia.72 Giacché le armi non sono solo oggettid’arte e di tecnologia, ma anche e soprattut-to simboli di potere e di una organizzazionesociale; inoltre con il loro valore testimonia-no di una situazione economica in corso.73 Vedi Snodgrass, Armi e armature dei Greci,cit., pag. 21.74 Vedi Taylour, I Micenei, cit., pagg. 167-

168.75 Vedi Taylour, I Micenei, cit., pag. 168 e fig.130.76 Ad esempio Ellen MacNamara, The Etru-scans, London, 1990, pag. 10.77 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 8.78 In tal senso Aigner Foresti, Relazioni proto-storiche tra Italia e Europa centrale, cit., pag.168.79 Giovannangelo Camporeale, Miniere emetalli alle origini dell’Etruria storica: la fase“villanoviana”, in “Gli Etruschi e l’Europa”,cit., pag. 38.80 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 7.81 Vedi Lavrsen, Weapons in water, cit., pag 8e pag. 12.82 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 78.83 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 10.84 Bartoloni, Berardinetti, Cygielman, DeSantis, Drago, Pagnini, Veio e Vetulonia nellaprima età del ferro, cit., pag. 69.85 Bruno D’Agostino, Serenella De Natale,L’Età del Ferro in Campania, in “The colloquiaof the XIII International…”, cit., pag. 111.86 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pag. 10.87 Mario Iozzo, in “Civiltà degli Etruschi”,Milano, 1985, pagg. 57-59.88 Mario Iozzo, in “Civiltà degli Etruschi”,

cit., pag. 59.89 Gino Vinicio Gentili, L’Età del Ferro a Veruc-chio, cit., pagg. 1-41.90 Antonio Minto, I clipei etruschi e i problemisulle origini dell’imago clipeata, in S.E. XXI,1950-51, pag. 25 e segg., dove, pur in modonon del tutto condivisibile, si vuole ricono-scere in varie rappresentazioni -tumuli, apicidi elmo, ecc.- l’effigie schematizzata di unoscudo o di un umbone, il cui valore sarebbestato magico-apotropaico, in quanto l’armadifensiva avrebbe portato ad una magicaprotezione.91 Fossati, Gli eserciti etruschi, cit., pag. 20.92 Vedi D’Agostino, De Natale, L’età del ferroin Campania, cit., pag. 111. A conferma delvalore di onoranza agli avi insito nelmostrarsi in armi da parte dei discendenti,fra i tanti passi letterari si ricorda Eneide, V,550, dove conviene che Ascanio “ducat avoturmas et sese ostendat in armis”, all’interno delLusus Troiae, gioco di grande antichità in ter-ritorio etrusco-italico e probabile parte del-l’addestramento equestre sin dalla prima etàdel ferro. Del senso di perpetuazione dellastirpe insito in tali manifestazioni in armi ciragguaglia ancora Virgilio, in Eneide, V, 575-576, dove “excipiunt plausu pavidos gaudent-que tuentes Dardanidae veterumque adgnoscuntora parentum”.93 Victor Davis Hanson, The Other Greeks,New York, 1995, pag. 299.

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Tra le altre armi difensive in uso all’ini-zio dell’età del ferro in area etrusco-ita-lica si annovera lo scudo, presente nel-l’Etruria villanoviana all’interno di alcu-ne sepolture dell’VIII secolo in versionimetalliche, ma in genere piuttosto raronelle deposizioni e comunque assentenelle tombe più antiche. L’ovvietàintrinseca dell’”oggetto difensivo-scudo” come filiazione indispensabiledall’”oggetto offensivo-arma” implicache gli scudi non debbano aver fatto laloro comparsa solo nell’età del ferro,difatti si ritiene che dei primi esemplariminiaturistici in bronzo provenganodalla tomba laziale XXI di Pratica diMare, risalente all’età del bronzo finale.Si tratta di

“quattro placchette di lamina di bronzo aforma di disco concavo, decorate a sbalzo condoppia fila concentrica di puntolini; due plac-chette conservano sovrapplicata una linguettaanch’essa decorata a puntolini sbalzati; ognilinguetta collegava due dischi1”.

Il piccolissimo diametro dei pezzi (trai 5,4 ed i 6 cm) si associa alla presen-za di due probabili schinieri miniatu-ristici di circa cm 5x2, assieme ad unaspada, un coltello ed una lanciaanch’essi in miniatura. Questo parti-colare corredo, del X sec. a. C., sem-bra forse ipotizzare l’impiego di unafiguretta deperibile vestita dellapanoplia, secondo un uso che potreb-be legarsi alle statuette funerarie pla-stiche di area laziale, e che può cro-nologicamente prefigurare quellodella ricreazione di una forma uma-

noide in tombe di incinerati, cui si ègià fatto riferimento parlando deglielmi villanoviani. E’ inoltre singolarela “composizione” dei dischetti, inte-sa a rappresentare forse degli scudibilobati2.Gli scudi miniaturistici di Pratica diMare – Lavinium trovano qualcheriscontro in un reperto, la cui data-zione è discussa, facente parte delmateriale da Brolio – Via del Porto,oggi nell’Esposizione Archeologica diCastiglion Fiorentino3. Si tratta diuno scudo circolare frammentario, inlamina bronzea, del diametro di 54cm, debolmente convesso, decoratolungo il bordo e vicino al centro dacerchi di piccole borchie sbalzate; l’a-rea centrale –ribassata anziché pro-minente a umbone- è rinforzata daalcuni grossi chiodi a testa conica. Ilbordo dello scudo non reca nessunfilo bronzeo di rinforzo, nonostantela sottigliezza della lamina, e per la

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Gli scudi

Scudo miniaturistico bilobato dalla tombalaziale XXI di Pratica di Mare

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parte conservata non si notano traccené di maniglie o imbracciature, nécentrali né sul bordo. Per il diametroristretto e per l’assenza di qualsiasitraccia di attacco di bracciale (chevista l’estensione della parte conser-vata avrebbe invece dovuto apparire),lo scudo è senz’altro da ritenersipreoplitico, e quindi da impugnare;l’assenza del tipico fitto ornato orien-talizzante può rinviare da un lato aicitati scudi miniaturistici di Lavinium(e quindi ad un’alta antichità4), e dal-l’altra a protezioni corporee diffusein area etrusca ed italica (si pensi aikardiophylakes ed ai dischi-corazza conbordi rivettati).La scarsa diffusione iniziale degliscudi –e di loro copie miniaturistiche-nelle tombe villanoviane e laziali piùantiche è stata associata alla fase incui, ideologicamente la deposizionedi armi nei corredi “sembra rispec-chiare direttamente la funzione ed ilruolo degli uomini che all’internodella comunità sono in grado di por-tare e usare le armi5”, mentre inseguito dall’avanzato VIII secolo, ladiffusione aumenterà allorquando talideposizioni indicheranno più generi-camente prestigio e rango sociale. La destinazione dell’arma all’usoconcreto di combattimento può indi-care che nel IX sec. a. C., come pergli elmi, anche lo scudo non venissedeposto nei corredi funebri per veni-re ereditato dal diretto discendente,che di quelle armi necessitava per un

uso pratico senza sottrarle alla circo-lazione, eventualmente sostituendolenella sepoltura con copie miniaturi-stiche.La rarità degli scudi, sia nell’età delbronzo finale che nella prima età delferro, spinge a considerare inoltre -come si è già fatto per gli elmi- chene dovessero esistere numerosi esem-plari in materiale deperibile, deiquali non ci sono giunti resti. Di taleopinione è anche la Bartoloni6 cherileva come

“l’ipotesi che precedentemente fossero inmateriale deperibile è preferibile a quella cheli considera pertinenti all’ideologia funeraria,ipotesi secondo la quale gli scudi erano effetti-vamente di bronzo, ma non si usava deporlinelle tombe”.

Già il Minto7 aveva ipotizzato che alcu-ne pietre discoidali poste a chiudere letombe a pozzetto vetuloniesi di Poggioalla Guardia rappresentassero unoscudo, dal valore magico di difesa.La tomba 2019 di Veio8 ha restituitouna presa pertinente ad uno scudo,ma, tra i numerosi reperti metallici,manca lo scudo stesso, a riprova chel’arma difensiva poteva essere per lopiù deperibile; peraltro, come è statonotato,

“l’esistenza di armi da difesa, anche in mate-riale deperibile, e quindi a noi non pervenuto,come il cuoio, nel più antico periodo villano-viano può essere provata dagli elmi di impastoceretano rifacentesi a un modello reale incuoio e non di metallo9”.

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La lancia, la spada, il cavallo

Due immagini dello scudo in bronzo proveniente da Brolio Via del Porto, dalladatazione discussa - Castiglion Fiorentino,Esposizione Archeologica

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Osservando ad esempio lo scudobronzeo villanoviano dalla tomba2079 di Veio10 che accompagnavauna punta di lancia, un coltello, cera-miche ed ornamenti personali, siosserva che esso era essenzialmentecomposto da un umbone centrale atre gradini, circolare, e da un discometallico di circa 72 cm di diametrocerchiato di ferro al margine esterno.L’umbone era fissato al centro delloscudo in corrispondenza con unaimpugnatura interna, costituita da unpezzo in piombo ricoperto di bronzo,fissata con sei chiodi bronzei. L’orna-to, a linee e punti, disegnava deigrandi triangoli campiti di triangolipiù piccoli.Proprio questo tipo di decorazionericorda, seppur sommariamente,quella presente su rappresentazioni discudi ritratte sulle due facce di unelmo fittile ad apice da Città della

Pieve11 o da Vetulonia. Su questoreperto infatti sono raffigurati unoscudo ovale ed uno scudo rotondo. Ilprimo -che ricorda da vicino esempla-ri romani e gallici più tardi12- ha unabarra centrale cui si innestano delleplacchette diagonali su quattro setto-ri, che sembrano essere un commessoligneo, alle quali fa da rinforzo unacornice esterna collegata alla barracentrale. Lo scudo rotondo è privo dibarra e di umbone, ma sembraanch’esso formato da placchette dia-gonali in quattro settori.Analizzando la raffigurazione delloscudo ovale, va ricordato che da Vetu-lonia provengono delle lastre in pie-tra, destinate a coprire delle sepoltu-re villanoviane a pozzetto, in formaanch’esse di scudo ovale; questireperti raffigurano appunto unoscudo oblungo di assicelle “con ungrosso umbone affusolato che corre

in senso longitudinale nel centrodello scudo stesso13”.Studi recenti hanno evidenziato14

come gli scudi più antichi attestati nel-l’Etruria villanoviana siano vere raritànelle sepolture del IX sec. a.C.; tuttaviagli esempi più antichi sono riproduzio-ni miniaturistiche di forma ovale, inbronzo. Uno viene dalla tomba 9, eduno dalla tomba 8, della Polledrara diBisenzio, e un altro dalla tomba OP5dei Quattro Fontanili a Veio15. Essirecano, come l’effigie sull’elmo, unumbone circolare centrale, una barraverticale e dei rivetti lungo il bordo.“Da questi dati sembrerebbe potersiricavare che nel IX secolo in Etruriaerano utilizzati preferibilmente scudiovali, mentre nel Lazio già era in uso ilclipeo16”. In Etruria altri scudi ovali,seppur di epoca più tarda, sono ripro-dotti sulla situla bolognese della Certo-sa; qui ognuno di essi è “provvisto diuna orlatura e di un umbone circolarecon rientranza a mezzaluna, in cui è unbottoncino17”. Anche presso i Sardi (siveda il bronzetto di guerriero da Vulci)ed i Veneti (si veda il bronzetto da Estedi guerriero con elmo crestato e lancia,nonché vari reperti dalla regione18)risultano diffusi gli scudi ovali oltre cherotondi. In tutto simile a questi ogget-ti etruschi era lo scutum ligneo latino,che farà più tardi la sua comparsa aRoma:

“Polybius describes the shield as being curved,0,66 m wide, 1,1 m long or more and as «thick as

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Gli scudi

Sotto, la riproduzione schematica dell'elmofittile ad apice -da Città delle Pieve o da Vetulonia- con i dettagli dei due scudi ovale ecircolare raffigurati su di esso, corredati didettagli che ne indicano gli elementi costruttivi. A destra, disegno di una pietrascolpita da Vetulonia, destinata alla coperturadi una tomba a pozzetto e riproducente unoscudo ovale con barra centrale

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a palm». Archaeology bears this out, but additio-nally shows that the thickness of individualshields might vary between 12,5 – 19 mm. Hecontinues «… of a double thickness (sometimesmore) of planks glued together (…) a binding ofiron which protects it from cutting strokes (and)an iron boss, which deflects the more destructiveblows». Its construction thus resembled modernplywood. It also had a leather cover19 ”.

Tale tipologia di scudo, vicino a quel-lo ovale villanoviano, trova nella pre-senza della barra verticale sulla pia-stra lignea, un rinforzo “che dovevaevitare lo spaccamento a metà delloscudo in caso di colpo violento daarma o da cozzo”20.Per capire meglio tale struttura dota-ta di barra centrale e di umbone, e lasua funzionalità per uno scudo è suf-ficiente osservare delle difese ancorarecentemente in uso presso popolicon società semplici: gli scudi ovalidel Sudan orientale21 hanno unastruttura assai simile, costituita dauna cerchiatura in legno tenuta inposizione ed in tensione da una barralignea verticale. Su tale armatura èposta in opera una robusta pelle dianimale che, al centro dell’ovale, inconcomitanza della metà lunghezzadella barra verticale, è sospinta versol’esterno da un umbone conico.Lo scudo rotondo è anch’esso attesta-to in Etruria, attraverso le sue versio-ni con rivestimento metallico, dallaseconda metà dell’VIII sec.a.C.;

“l’uso coevo dei due tipi di scudo è documen-tato anche dalle figure plastiche che ornano il

carrello bronzeo su ruote dalla tomba II dellaNecropoli dell’Olmo Bello di Bisenzio (terzoquarto dell’VIII sec.a.C.): il guerriero adulto hauno scudo rotondo, il fanciullo uno scudo ovale(…) tali evidenze potrebbero suggerire, alme-no in alcune comunità dell’Etruria interna(Bisenzio, Veio), una distinzione dell’uso deidue tipi di scudo in base alla classe di età22”.

La raffigurazione di scudo rotondosull’elmo fittile da Città della Pieve oVetulonia sopra ricordato, pur nonmostrando una forte barra, né unumbone, né una cerchiatura esterna,pare strutturalmente assimilabile almodello ovale rappresentato sullostesso reperto, in quanto formatoanch’esso da assicelle diagonali suquattro settori commessi ad angoloretto. Lo schema geometrico delcommesso, presumibilmente ligneocome nei citati esemplari ovali, fa inpratica unire le assicelle diagonali diciascuno dei quattro quadranti conquelle dei quadranti limitrofi a for-mare dei triangoli aperti verso ilbordo dello scudo. Il tipo di orditoligneo ritorna peraltro nella decora-zione di vari reperti vetuloniesi, costi-tuiti da clipei in pietra atti a ricoprirele tombe a pozzetto; tali esemplaricitati dalla Talocchini23 sembranotutti raffigurare scudi con una cer-chiatura al margine (singola o tripli-ce), un umbone centrale a tre cerchi edelle ripartizioni in settori campiteda una più o meno complessa orditu-ra di sottile commesso presumibil-mente ligneo. In un caso, ad esem-

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La lancia, la spada, il cavallo

In alto, disegno di uno scutum romano conindicazione dei tre strati di compensato di assilignee rivestite di cuoio; in basso, riproduzione della stele dalla Tomba 62 delsepolcreto Benacci-Caprara di Bologna

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pio, il clipeo è formato da spicchi tra-pezoidali riempiti da listelli disposticon ordine diversificato; del tuttosimili sono i due scudi effigiati sullastele bolognese Benacci-Caprara,relativa alla tomba 62 del sepolcreto,risalente alla seconda metà VIII -prima metà del VII sec. a. C. Un altrolastrone vetuloniese in pietra recainvece un’accurata rotella in cui quat-tro barre a croce dividono lo scudo inquattro settori identici, dove sottililistelle corrono parallele, inclinatetutte di 45°.Si conosce inoltre un esemplare dilastrone dove lo scudo raffigurato èformato da una serie di “spicchi” trian-golari radiali. Tale schema a triangoliradiali ricorda un reperto da Veruc-chio, ritrovato nella tomba 85 sotto laRocca Malatestiana. Qui infatti erastato deposto un grande dolio con un“coperchio ligneo impiallicciato dalunghe ed esili stecche triangolari dis-poste a ruota24”, risalente al terzoquarto del VII sec.a. C.Si può dunque arguire dalla concomi-tanza tipologica di questi reperti -purnon strettamente coevi- che nellaprima età del ferro, anticipando latecnica romana della costruzionedello scutum, alcuni scudi erano rea-lizzati in legno, con un disco di basesul quale potevano venire applicate arinforzo altre assicelle -diagonali perquadrante-. Di tale tipo di difesa esi-stevano anche versioni ovali, ellissoi-dali e bombate25, e non sempre dove-

va essere presente una base di ununico pezzo ligneo, giacché (comeindica la membratura degli scudiovali effigiati sui reperti di Vetulonia)erano sufficienti una barra centrale,un umbone ed una cerchiatura inlegno a rendere comunque robustoma più leggero lo scudo formatodalle sole assicelle in commesso. La tecnica desumibile dall’iconogra-fia villanoviana e dai reperti etruschi,oltre che dalle più tarde testimonian-ze di Polibio sullo scutum, trova con-forto nei metodi conservatisi nelMedioevo per la realizzazione della“rotella”, uno scudo rotondo oppureellittico, quasi sempre leggermenteconvesso, che nelle sue versioni inlegno era strutturato in più strati diliste compensati tra loro, con una“bordura” di contorno26.L’esistenza nell’Etruria villanovianaanche di scudi formati da una sem-plice targa lignea a disco d’un solpezzo è documentata da un altroimportante reperto verucchiese, rin-venuto nella tomba B della stessanecropoli sotto la Rocca Malatestiana;qui infatti il dolio della sepoltura eracoperto da un disco ligneo di circamezzo metro di diametro (già ipoteti-camente identificato in uno scudo27)sul quale era presente una decorazio-ne a lamine metalliche applicate raf-figurante, al centro di un cerchiocampito a zig-zag, due o forse quattrosettori con leoni, ocherelle e guerrie-ri con elmo, lancia e scudo28. Pur

trattandosi di un reperto di influssoorientalizzante, è evidente l’arcaicitàdella realizzazione tecnica in unambiente, qual è quello verucchiese,dove la facies culturale villanovianaperdura fino al VI sec. a.C. A taleclasse di scudi, di concezione moltoelementare, appartenevano ancoragli scudi dei Germani e dei Danesi; siricordano due esemplari lignei –seb-bene a forma subrettangolare, conumbone centrale- eseguiti in un solopezzo e risalenti attorno al 100 a.C.,tornati alla luce nella palude diHjortspring nel distretto di Sonder-borg in Danimarca29. Scudi di mas-sello ligneo erano realizzati ancoradai Longobardi, nei secoli VI e VIId.C.; questi erano costituiti -come unmillennio e mezzo prima- da undisco di 60-70 cm di diametro inlegno ricoperto di cuoio, con un rin-forzo lungo il bordo30. Il recupero dialcuni elementi normalmente depe-ribili di alcuni scudi longobardi haconsentito di ricostruirne le fasi direalizzazione:

“dapprima avveniva il taglio del disco di legnoda una pianta di diametro adeguato: in questocaso un pioppo. Il taglio avveniva per segagio-ne o spacco. Lo spessore della tavola, dedottodalla lunghezza dei chiodi, era di circa 1 cm.Veniva poi praticato il foro centrale, corrispon-dente all’umbone. A parte veniva preparata l’a-nima lignea della maniglia, che veniva poiricoperta di cuoio. Una volta applicata la partemetallica, veniva poi fissata al disco mediantechiodi ribattuti anteriormente. Infine lo scudo

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Gli scudi

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veniva ricoperto anteriormente e posterior-mente con del cuoio e vi veniva poi applicatol’umbone e le eventuali decorazioni31”.

Può essere interessante rilevare comegli scudi lignei, usati anche dagli Elvezi,risultassero particolarmente danneggia-bili dal lancio di giavellotti: alla batta-

glia di Bibracte infatti col getto dei pilaromani accadde che più scudi di legno,ravvicinati, furono attraversati da unsolo colpo di pilo, riunendoli comeinchiodati l’uno sull’altro. Su molti,comunque, le armi da getto rimaseroinfisse; di conseguenza, se la narrazione

di Cesare è veritiera, con gli scudi bloc-cati ed appesantiti dai giavellotti moltiElvezi, “dopo aver scosso a lungo ilbraccio, preferirono abbandonare loscudo e combattere a corpo scoperto32”L’osservazione del commesso ripro-dotto in alcune effigi villanoviane discudi può far ritenere che questopossa essere stato talvolta la schema-tizzazione di un vimini intrecciato.Tale materiale risulta largamenteimpiegato tra i popoli primitivi delpassato ed attuali per le armi difensi-ve, nonché chiaramente documenta-to nell’Etruria villanoviana dal citatoelmo verucchiese, ed usato anche daivelites romani, che chiamavano parinaun piccolo scudo rotondo di viminiricoperto di cuoio33. Lo scudo divimini era presente anche nell’”eser-cito di popolo” di Trasibulo che rove-sciò i Trenta Tiranni ad Atene34, cosìcome presso i reparti degli “Immor-tali” persiani, che nel V sec. a.C. face-vano uso di un “hide-covered wickershield of traditional shape (the ger-ron)35”, ed anche presso gli Sciti nelIV sec. a.C. dove “ordinary warriorsseem to have used light shields ofwoven osiers –e.g. the example onthe famous Solokha comb-36“. Non solo di legno o di vimini, comun-que, potevano essere gli scudi deperi-bili di età villanoviana; Saulnier,osservando la forma dello scudo por-tato in spalla dal cavaliere dell’askosBenacci, osserva che esso è un rettan-golo arrotondato (similmente a quan-

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La lancia, la spada, il cavallo

Particolare dell'askos Benacci, dove si osserva lo scudo rotondo sulle spalle del guerriero a cavalloraffigurato sul vaso - Bologna, Museo Civico Archeologico

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Gli scudi

In alto, tre particolari di uno scudo conico in cuoio dall'Abissinia -gascià- dove si evidenzia l'aspetto metallico della superficie e la notevole convessitàdell'arma difensiva; in basso, altri dettagli di un ulteriore esemplare di gascià, dove è possibile osservare la tipica decorazione geometrica impressa ela maniglia centrale - Collezione privata dell'Autore

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to si osserva su alcuni degli armatidella recenziore situla della Certosa)dai bordi rilevati, il che fa pensare “aun matière assez souple, comme lecuir37”. Pur non condividendo l’iden-tificazione di quello scudo, per questoparticolare, con uno scudo in cuoio38,è comunque da ritenere effettiva l’esi-stenza di scudi in cuoio o pellame nelmondo villanoviano. La stessa Iliade -a cui la cultura etrusca guarderà nel-l’età del ferro come ad una fonte dimodelli di ogni tipo per la classe ari-stocratica- ricorda che lo scudo diAiace (VII, 219-220; XI, 485) erafoderato per rinforzo con sette stratidi pelle bovina sovrapposti. Sui mate-riali impiegati per la costruzionedegli scudi, e sull’utilizzo di pelle ecuoio, Omero nell’Iliade ci offre ineffetti numerose indicazioni:

“lo scudo era formato o di pelle di bue(donde il nome di «boèie» o di «sàkos») rin-forzata da metallo oppure di piastre metalli-che. (La placca circolare nel mezzo) talvoltaera rimpiazzata da dischi di pelle di bue (IV,447; V, 452; VII, 238; XII, 105; XIII, 163;XIV, 492; XIV, 268-272; XV, 360) cucitiinsieme (…) Le pelli variavano di numero:quattro ne aveva la scudo di Teucro (XV,479) e quello di Ulisse (Odissea, XXII, 122);sette quello di Aiace (VII, 248) (…) Circa learmi di difesa, si può dire che se lo scudo ingenere ributtava le armi, quando lo colpiva-no presso l’ombellico (cioè l’umbone), silasciava invece attraversare con relativa faci-lità quando l’arma giungeva in altri luoghi(dove) restavano indifesi e poco guerniti ivari strati di pelli, da cui era formato loscudo stesso39”.

Anche per gli scudi, come si è accen-nato per gli elmi deperibili, potevaessere impiegato il “cuoio cotto”,oppure del cuoio comunque induritocon particolari trattamenti, comemeglio si osserverà oltre.Il metodo di costruzione impiegatoper scudi in cuoio ad unico stratopoteva essere all’incirca quello usatoancora in epoche recenti nell’Abissiniaper la fabbricazione del gascià, unoscudo rotondo in robusta pelle diippopotamo che

“ha forma di segmento di sfera rialzato eingrossato all’orlo, molto sporgente al centrodove forma una specie di borchia. Sul dietro,nell’incavo, ha una grossa maniglia disposta asemicerchio alla cui estremità ci sono due laccidi cuoio. Si porta infilando il braccio sinistronella maniglia e la mano in uno dei due lacci,serve da difesa contro i colpi di spada, lancia etutte le armi da getto40”.

Osservato che la forma di alcuni scudibronzei villanoviani41, nonostante l’usodella lamina, è abbastanza convessa efornita di un umbone centrale a somi-glianza del gascià, è da ipotizzare cheanche per vari esemplari villanovianiin cuoio, come in Abissinia, la fabbri-cazione degli scudi fosse curata da con-ciatori che agivano in questo modo:

“la pelle fresca viene tagliata secondo il model-lo, appoggiata al centro di un palo piantato interra e tesa per mezzo di pioli posti sul bordo.Si ottiene così la tipica forma conica. Quandoil pelo è caduto e la pelle è ben secca si spalmaper parecchi giorni di olio, che serve a farne

gonfiare il cuoio, quindi la si batte per render-la consistente42”.

Si ricava di fatto, in questo modo,una sporgenza media di circa 13 cmsu un diametro dello scudo di 50 cm,ma che può giungere a sporgenze di18 cm su un diametro di 44; il pesomedio è di 2,5/3 kg43.La forma debolmente conica delloscudo villanoviano (in pelle o rive-stito di metallo) aveva principal-mente la funzione di aumentarnela resistenza alla perforazione dacolpi di punta -grazie all’effettodell’aumento di spessore da attra-versare combinato con la deflessio-ne causata dalla superficie inclina-ta- facilitata dall’umbone centrale.L’umbone era presente, come si ègià accennato, anche negli scudiomerici, dove era denominatoomphalòs, e sembra essere stato unaapplicazione in cuoio o metallo checorrispondeva, all’esterno, ad unrinforzo interno di protezione44.Tale elemento riportato, peraltro,continuò ad essere inserito negliscudi in materiale deperibile anchenel Medioevo e nel Rinascimento,quando si ebbero umboni anchesulle “rotelle veneziane alla turche-sca”, fatte di giunco45. L’umbone centrale, oltre che come rin-forzo, poteva avere un utilizzo praticocome bozza da urto, secondo un usonoto, ancora in epoca tarda, presso iBatavi dell’esercito romano e ricordato

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La lancia, la spada, il cavallo

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da Tacito (Agricola, XXXVI, XXXVII)che cita la tecnica di “ferire con l’urtodel rialzo centrale dello scudo”.Della certezza di tale uso nelle tecni-che di duello della prima età del ferroè pegno, ad esempio, uno degli scudiormai del primo quarto del VII sec.a.C. da Palestrina, reperito nellatomba Castellani della Necropoli diColombella ed oggi al Museo di VillaGiulia, il quale reca al centro una pia-stra circolare, fermata da quattroribattini allo scudo, al cui centro sieleva uno spuntone aguzzo con due“ricci” laterali, probabilmente destina-ti a rappresentare in forma stilizzataun germoglio di loto.

“Va infatti ricordato che gli umboni, oltre a ser-vire da paracolpi, atti a deviare o respingere laminaccia e quindi a proteggere la mano chereggeva lo scudo, potevano anche servire, allor-ché dotati di puntali o sporgenze metalliche,quali armi da offesa suppletiva durante uncorpo a corpo. Molti studiosi hanno affermatoche gli scudi circolari bronzei fossero, in realtà,di puro uso rituale (ma) (...) sarebbe stato (...)superfluo fissare puntali da offesa sugli umbonidi scudi funerari: un esempio palese è lo scudoconservato al Museo di Villa Giulia a Roma46”.

Anche il pellame, come il metallo,consentiva l’esecuzione di ornati arilievo o applicati, secondo quanto siè visto sugli esemplari metallici elignei; infatti anche tra i gascià abissi-ni “gli scudi dei dignitari sono abbel-liti da lamelle argentate e impressio-ni ornamentali, che vengono esegui-te, quando la pelle è fresca, a colpi di

martello47”. Non a caso, anche nel-l’ornato degli scudi abissini in pella-me si ritrovano di norma gruppi dilinee concentriche alternate a fasce ditriangoli pendenti o di rombi, reper-torio diffusissimo anche sugli scudirotondi villanoviani di lamina bron-zea sbalzata, ovvero gli ornati chemeglio il supporto e l’uso di semplicipunzoni consentivano di realizzare, eche probabilmente erano riprodottisugli scudi metallici dell’VIII secoload imitazione delle decorazioni “dimoda” sui precedenti scudi deperibi-li in cuoio del IX sec. a.C.I materiali sin qui indicati -legno,vimini, cuoio, lamina bronzea- nonerano inoltre usati solo separatamen-te, ma potevano essere impiegati incombinazione tra loro, ottenendodelle soluzioni di migliore durevolez-za e di più accentuata resistenza bali-stica. Lo scutum romano, come si èaccennato,

“si componeva di una struttura lignea, o piùraramente di vimini, rivestita poi con pellegrezza o con cuoio (...) per gli scudi opliticigreci e per quelli etruschi (...) era uso fissare laparte metallica degli scudi su di un’anima oimbottitura di legno e cuoio duro48”.

In effetti, la creazione di scudi inmateriali compositi era estremamen-te diffusa nell’antichità; già ai tempibiblici di Davide

“molti scudi conosciuti, risalenti a questoperiodo, erano fatti di legno, rivestiti di cuoio,e contenevano la quantità minima di metallo

per svolgere la funzione prevista. Questo era ilcaso degli scudi egiziani, e nel rilievo di Lakishgli scudi degli attaccanti sembrano essere fattidi strisce di legno laminato, rivestito dicuoio49”.

Anche nell’Iliade si parla di scudi inpelle di bovino con rinforzi di metalloo di piastre metalliche, oppure fatti dimetalli diversi ed elementi di pelle; tal-volta “sulle due facce dello scudoerano applicate delle lame di rame,ordinariamente tenute da una monta-tura in legno e metallo50”. Pelle e vimi-ni non erano componenti solo delloscudo leggero romano detto parma, maanche di quelli dei Aduatuci coi quali siscontrò Cesare presso l’attuale Namur,e che facevano uso di “scudi fatti dicorteccia o di vimini o rivestiti allameglio di pelli51”.Le precedenti osservazioni sull’effica-ce impiego degli scudi in cuoio, basa-te sull’indagine di reperti antichi edetnici odierni, trovano una importan-te conferma nei risultati di studi diarcheologia sperimentale.Con l’osservazione che nella tarda etàdel bronzo -sia sul continente euro-peo che nelle isole britanniche-, forseper la presenza di attriti diffusi tragruppi umani in una fase di crisi,compaiono più numerosi quantitatividi armi, l’attenzione di alcuni studio-si inglesi si è focalizzata sugli scudi,che in quei territori “all’incirca versoil 900 a. C. (...) compaiono (...) inlamine bronzee, in legno e incuoio52”. Le condizioni climatiche

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Gli scudi

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britanniche hanno consentito il ritro-vamento di un esemplare in cuoiofortunosamente conservatosi e

“rinvenuto a Clonbrin, nella contea di Long-ford, Irlanda. Questo scudo, trovato nel 1908durante l’estrazione della torba, aveva un dia-metro di 50 cm e uno spessore di 5-6 mm; avevaun’impugnatura allacciata sulla parte posterioreed era senz’altro completo, non esistendo traccedi attacchi o supporti in legno o in metallo. Loscudo aveva una protuberanza centrale e trecostole concentriche, le due più esterne dellequali presentavano un dentello a forma di «V»;tra le costole erano anche molti gruppi di picco-le borchie. In base alla decorazione fu datatoall’ottavo secolo a. C. circa53”.

Partendo dal fatto che tradizional-mente si riteneva, seguendo un passodi Polibio, che

“scudi in pelle di bue (...) non potevano essereutilizzati nel corpo a corpo, poiché erano fles-sibili anziché solidi, e quando il cuoio si restrin-geva e imputridiva per la pioggia diventavano,da poco pratici che erano, inservibili54”,

vennero effettuati degli esperimentipratici di ricostruzione e sperimenta-zione al fine di assodare secondoquali metodi gli scudi di cuoio dell’e-tà del bronzo finale venivano prodot-ti ed impiegati.

In un clima secco infatti -come per l’A-bissinia dei gascià- non sono stretta-mente necessari vari accorgimentidestinati sia a contenere la putrefazio-ne della pelle che a limitare la flessibi-lità; invece in climi temperati o umidisi rende necessaria una concia inizialeed un trattamento seguente per con-servare ed irrigidire il cuoio55. La con-cia sperimentale venne effettuata -dopo aver constatato da analisi che ilcuoio antico era stato conciato consostanze vegetali- impiegando pellameda porzioni di spalla di grossi animalidomestici. Tali pelli furono lavorate e

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La lancia, la spada, il cavallo

Riproduzione ricostruttiva di un grande scudo del VII sec.a.C. dall'elegante ornato figurato e geometrico, realizzata sulla base dei reperti rinvenutinella tomba principesca della necropoli di La Pedata a Chianciano - Chianciano Terme, Museo Civico Archeologico delle Acque

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trattate con sostanze -quali la quercia,il castagno, la corteccia di pino e quel-la di quercia-

“dopo essere state «ingrassate», impregnando-ne la superficie con olio, per mantenerne laflessibilità. E’ probabile che i processi di con-ciatura dell’età del bronzo fossero meno con-centrati di quelli odierni, e probabilmente unaconciatura molto leggera poteva bastare perimpedire la putrefazione56”.

Se la concia del cuoio risultò per glisperimentatori ricostruibile conbuona probabilità, ben più complessafu l’indagine riguardo la modellazio-ne ed il fissaggio in forma delloscudo come manufatto, specie percontrastare l’effetto dell’umidità. Perla costruzione, basandosi su repertidell’età del bronzo, venne fabbricatauna forma di legno in negativo,

“per ottenere una superficie piatta su cui eranosagomate una depressione centrale (per la pro-tuberanza) e scanalature concentriche (per lecostole). Il cuoio è stato poi immerso in acquafredda per due ore e raschiato con una steccadi legno; ciò ha permesso di rimuovere la mag-gior parte del materiale da concia che potevarestare nella grana del cuoio in eccesso: la suapresenza impedisce la completa flessibilità delcuoio mentre se ne modella la forma, causan-do poi l’affiorare di screpolature, dette tecnica-mente «falle». Dopo essere stato asciugato perquattro ore, il cuoio è stato sistemato sullaforma e spinto dentro la depressione centrale edentro le scanalature con una serie di punzonidi legno con estremità arrotondate; si tratta diun’operazione estremamente semplice fintan-to che il cuoio viene tenuto fermo nella conca-

vità centrale per mezzo di pesi, affinché le sca-nalature si foderino spingendo e pressando ilcuoio dentro di esse mediante punzoni. Questaoperazione non ha richiesto più di tre minuti. Dopo aver sistemato delle assicelle di legnopesante sopra lo scudo ancora in forma, pertenerlo fermo, esso venne lasciato seccare aduna temperatura tra i 10 e i 15°C. Durantequesta fase il cuoio aveva la tendenza a restrin-gersi e doveva essere risospinto nelle scanala-ture ogni quattro ore per tre giorni, dopo diche fu rimosso e posto a seccare sulla facciaanteriore per una settimana. Il restringimentototale fu solo del 3%: lo scudo rimase abba-stanza duro ma ancora leggermente flessibile.L’impugnatura, formata da un pezzo termi-nante a linguetta, piegato all’interno e allaccia-to, fu collegato da un lato all’altro dell’umbonecentrale con cinghie in cuoio57”.

Lo scudo così ottenuto, tuttavia, risul-tava nel nord Europa esposto all’azio-ne dell’umidità, che era in grado direnderlo piuttosto molle. Pur tenutoconto ai fini della nostra ricerca chenell’area latina (e per similitudine inquella etrusco-villanoviana) la stagio-ne delle guerre si apriva il 14 marzoper chiudersi il 19 ottobre, ovverocoincideva con la stagione più miteed asciutta, certo anche per gli scudiin cuoio villanoviani si pose comun-que il problema della solidità, del-l’impermeabilità e dell’elasticità. Peravvicinarsi alla soluzione con tecni-che antiche i ricercatori britannicipassarono dunque ad effettuare altriesperimenti, ricorrendo sia alla cerache al calore per ottenere un risulta-to finale di indurimento stabile delloscudo.

“Il metodo principale consisteva nel riscaldar-lo servendosi di acqua e cera; sembra probabi-le che in antichità sia stata usata cera d’api perimpregnarlo, anche se non possediamo testi-monianze sicure, così che la prima fase dell’e-sperimento consistette nel valutare se la paraf-fina potesse sostituire la cera vergine, menodisponibile. Si immersero piccoli pezzi di cuoionella cera vergine o nella paraffina e il loroaspetto finale non differiva. Si immerse poiuno scudo in paraffina calda a 71°C, finchésmise di emettere bollicine, dopo quattrominuti; venne quindi estratto, in condizione diestrema morbidezza, e asciugato e seccatonaturalmente. Il risultato fu uno scudo di estre-ma lucentezza, di colore bruno, quasi comple-tamente privo di flessibilità e impermeabileall’acqua58”.

A questa tecnica si ispira sostanzial-mente quella del “cuoio cotto”, larga-mente diffuso tra XIII e XV secolod.C. in Italia ed in Europa. Infatti

“il cuoio, rammollito nella cera, cucito in piùstrati, messo in forma e cotto (al sole, al calore,nella sabbia arroventata) indurisce moltissimo;è quindi assai utile per difese leggere e solide,e si può rinforzare, decorare, dipingere, acqui-sendo così anche qualità decorative. Materialeforma funzione e aspetto si sposano perfetta-mente, e tenuto conto anche del clima caldo, lascelta è ancora più comprensibile59”.

L’altro metodo di indurimento speri-mentato dai ricercatori britannici nelriprodurre lo scudo di Clonbrin,peraltro anche più semplice ed eco-nomico, era quello del calore, edebbe anch’esso buoni risultati:

“l’altro metodo utilizzato per indurire gli scudifu per mezzo del calore. Si collaudarono quat-

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Gli scudi

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tro scudi, uno immergendolo in un bagno diacqua calda (80°C) per 30 secondi: ne risultòuno scudo rigido, ma pur sempre leggermenteflessibile, e resistente a diverse immersioni inacqua. Prove ripetute usando questo metododimostrarono che un controllo della tempera-tura dell’acqua e del tempo era decisivo per l’e-sito del metodo stesso. Si riscaldò un altro scudoin un forno a 70-80°C per due minuti: inco-minciò a restringersi e si ebbe un prodotto fina-le abbastanza soddisfacente anche se un po’irregolare. Su un terzo scudo si versò acquacalda su entrambe le facce, sia su quella ante-riore, sia su quella posteriore: l’acqua era vicinaalla bollitura e fu necessario farla scorrere con-tinuamente sopra e sotto lo scudo onde evitarerestringimenti. Ne risultò uno scudo rigido cheresisteva al sole, ma non a ripetute immersioniin acqua. Si trattò un quarto scudo in manieradifferente: si immerse in acqua calda a 80°C perun minuto e un quarto un pezzo di cuoio calco-lando bene il tempo, poiché un ritardo nell’in-

serimento del cuoio nella forma causava unrestringimento drastico e irrimediabile e variedeformazioni. Questo metodo parve molto dif-ficile da controllare ed è improbabile che essosia stato usato in epoca preistorica; tutti gli altridavano risultati soddisfacenti e, data l’assenzadi tracce di cera sullo scudo di Clonbrin, l’indu-rimento con l’acqua calda sembrò il metodoprobabilmente più antico60”.

Operazioni di “ingrassaggio” perio-dico a protezionedegli scudi di cuoioemergono dalla lettura della Bibbia,dove vi è

“l’insolito commento nel lamento funebre diDavide per Saul sullo «scudo, non unto di olio(2, Samuele 1, 21)» L’unzione con olio servivaprobabilmente a preservare il legno ed il cuoiodagli agenti esterni. Il legno e il cuoio secchi sisarebbero facilmente spaccati se colpiti61”,

ed il riferimento al “non unto” lasciaintendere che, se quello scudo nuovoavesse potuto essere usato, avrebbericevuto periodici trattamenti consostanze grasse. E’ ovvio che, nellaprima età del ferro in Italia, ancorain assenza della coltivazione dell’oli-vo, è impensabile che gli scudi venis-sero trattati come cuoio cotto in olioo anche ingrassati con olio d’oliva;molto più probabile è il ricorso a cerao grassi animali, o vegetali ma dialtra origine.Il gascià abissino viene anch’esso for-temente trattato con sostanze grasseall’esterno, conferendogli un aspettolucido e levigato come di metallobrunito, a differenza dell’interno cheresta scabro e grezzo, e dove più facil-

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La lancia, la spada, il cavallo

Tre particolari di due diversi scudi abissini in cuoio -gascià- dove si evidenzia la robusta maniglia-bracciale centrale ed il laccio per il trasportoCollezione privata dell'Autore

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mente –in assenza del periodico“ingrassaggio” dell’esterno- si svilup-pano muffe e parassiti.I ricercatori britannici dello scudo diClonbrin, compiuta la sperimentazio-ne sulle tecniche costruttive, proce-dettero anche ad una indagine sul-l’affidabilità difensiva e sulle capacitàdi resistenza balistica degli scudi inpelle realizzati; una lancia con punta-le in bronzo

“perforò a mala pena il materiale; lo scudoresistette a 15 colpi della spada vibrata conforza. L’unico danno fu una serie di tagli leg-geri sulla superficie esterna del cuoio. La flessi-bilità dello scudo assorbiva e deviava i colpi. Sene concluse che gli scudi in cuoio dovevanoprobabilmente essere stati utilizzati realmentecome protezioni, se erano così ricercati nellatarda età del bronzo62”.

In effetti anche il gascià abissino incuoio risulta del tutto impenetrabile acolpi di spada o di lancia per la intrin-seca robustezza, accompagnata ancheda una interessante elasticità, che simantiene anche dopo la permanenza,per circa un secolo, nella penisola ita-liana, ad un clima più temperato ed inassenza di manutenzione.Diversamente il gerron dei Persiani, invimini coperto di pelle, “while offeringadequate protection against arrowsand the like, it would non stop a deter-mined spear thrust63”, ma comunquegli scudi in vimini erano sufficiente-mente resistenti ed elastici da proteg-gere da un colpo di spada, specie seportato di filo.

Come si è osservato, all’interno loscudo abissino in pelle aveva (come gliesemplari villanoviani bronzei) unamaniglia centrale e dei lacci; grazie aquesti elementi interni esso venivaportato dal guerriero, durante lemarce, dietro le spalle, ovvero comemostra di fare il cavaliere bolognesedell’askos Benacci, evidentemente nonintento al combattimento ma in marciaper il fronte, mentre in Abissinia, comenella Grecia arcaica, questo trasportoera a cura di un servo, a causa del pesodi almeno 2,5-3 kg.Contrariamente a quanto alcuni recen-ti studi asseriscono64, i fori dispostilungo i bordi degli scudi circolari -come nelle copie miniaturistiche diOsteria dell’Osa- non ritengo chevadano necessariamente messi in rela-zione con tale sistema di trasporto suldorso; gli scudi in cuoio abissini recanotutti vari fori lungo la circonferenza–circa una decina- che costituiscono ciòche resta del sistema di fissaggio delpellame durante la modellazione delloscudo. Tali fori restano in sostanza tuttiinutilizzati, tranne al massimo duecoppie che vengono effettivamenteusate per l’inserimento di lacci da tra-sporto e sospensione, ma senza toglie-re che l’origine dei fori sia dovuta alsistema di concia e conformazione delpellame.Nell’Italia centrale tirrenica dellaprima età del ferro, accanto agli scudiin materiale deperibile, sul cui aspet-to si è cercato sin qui di raccogliere il

maggior numero possibile di dati eipotesi convincenti, esistevanocomunque dei più tardi esemplari inlamina bronzea, cui si è già fattocenno. Di questi ultimi, per quantoriguarda la fase villanoviana e quellaorientalizzante, sino a dieci anni fane erano noti circa un centinaio diesemplari, dei quali 50 provenientidall’Etruria, 26 dal Latium Vetus (1 daRoma, 11 da Palestrina, 4 da Casteldi Decima, 8 dalla Laurentina, 2 daSatricum), 5 da Cuma, 4 dal Piceno, 4da Verucchio65. E’ importante osser-vare che gli scudi di lamina metallica,che come vedremo si diffondonosulla base di mode estere, sono tutta-via strutturati per il metodo di impu-gnatura, come gli scudi più tradizio-nali, ovvero hanno solo una manigliacentrale, e non dispongono della“coppia” di bracciale e maniglia. Ciòindica una adozione di mode decora-tive straniere ma, sostanzialmente, ilmantenimento delle tecniche di com-battimento tradizionali.Verificando i reperti dall’area etrusco-villanoviana, vediamo che si tratta diesemplari (sull’esempio dei repertiveienti e tarquiniesi rispettivamentedalla tomba di Veio AA1 dei QuattroFontanili66, dalla tomba di Veio 1036di Casal del Fosso67, e dalla tomba delGuerriero di Tarquinia68) caratteriz-zati dalla forma circolare, da unamodesta convessità, da una sorta divero o apparente umbone centrale, eda una fitta decorazione ad anelli

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Gli scudi

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concentrici di cerchielli, borchie, falsirivetti, ai quali negli esemplari veien-ti si associano alcune immagini zoo-morfe (ocherelle, cavalli).

“Nonostante alcune opinioni contrarie la laminadi bronzo doveva rivestire un nucleo costitutoprobabilmente da cuoio o fibre vegetali (G.V.Gentili parla di tracce ancora visibili di cuoio pergli esemplari di Verucchio), come è testimoniatoda numerosi confronti a livello etnografico. (...) Ilbordo è rinforzato da un filo metallico in bronzoo ferro, talvolta mancante, (e presenta) pendaglicomunemente attestati all’interno (...). Il diame-tro varia da un minimo di cm 50-60 ad un massi-mo di cm 90-100. La decorazione a motivi esclu-sivamente geometrici degli esemplari più antichiè arricchita presto con la prima fase dell’orienta-lizzante da rappresentazioni schematiche di ani-mali ed anche umane, con fiori di loto ed il carat-teristico motivo a falsa treccia lungo il bordo ester-no. (...) In base ai luoghi di ritrovamento sonostati proposti come centri di produzione Tarqui-nia, Cerveteri, l’area Veiente e quella Falisca. E’molto probabile però che gli scudi siano stati pro-dotti anche fuori dall’area etrusca in particolarenel Lazio. (...) Non è escluso che essi siano statiprodotti anche in area Cumana, dove lo scarsonumero è senz’altro attribuibile al caso69”.

In tutti i casi si osserva la presenza diuna consistente maniglia centrale conattacchi a “T” fissata all’umbone con

chiodi passanti, le cui teste sporgonosulla faccia anteriore degli scudi70,mentre in un caso –peraltro piuttostocomune- della fine dell’VIII sec. a. C.(dai Quattro Fontanili71), l’internoreca anche quattro ganci a croce,circa a metà del raggio, da ciascunodei quali pende un grosso anellomobile, il cui uso poteva ben esserequello di sostenere le estremità didue cinghie passanti per il trasporto,secondo il sistema intuito per il cava-liere dell’askos Benacci. Alcuni studio-si, osservando che gli anelli internipossono essere, nei vari esemplarireperiti, da 4 a 6, ritengono che lacinghia o la corda per il trasporto chepassava attraverso di essi fosse chiusaanularmente72. L’esemplare dallatomba tarquiniese del Guerriero,risalente ormai attorno al 700 a. C. oa dopo, reca anch’esso all’internootto piccoli pendenti, appesi a grup-pi di due, che lo Hencken73 haappunto ritenuto connessi a cinghieper il trasporto sulle spalle prima odopo il combattimento. La loro capa-cità di risuonare al movimento ne hafatto comunque ipotizzare un secon-do fine, quello appunto del “suonodei bronzi”, che è attestato in Eschilo(Sette contro Tebe, 585-586) riguardo loscudo di Tideo, ma che in questoesemplare –il cui interno risulta inorigine foderato di cuoio- era impra-ticabile. Di consistente interesse ècomunque la documentazione sull’u-so “musicale” degli scudi raccolta

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La lancia, la spada, il cavallo

Dall'alto, disco di vimini di salice intrecciatocon la tecnica tradizionale dei cestai-Collezione privata dell'Autore-; sotto, particolare che evidenzia l'innesto sovrappostodell'intelaiatura al centro del disco, e, in basso,particolare con simili gruppi di linee al centrodella ricostruzione dello scudo orientalizzanteda La Pedata - Chianciano Terme, Museo Civico Archeologico delle Acque

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dalla Bartoloni e dalla De Santis rela-tivamente a cerimonie funebri, e dicui parleremo ancora oltre, relativa-mente agli ancilia romani in altrecerimonie religiose. Osservando delvasellame ellenico infatti le due stu-diose hanno rilevato come

“nella ceramica geometrica greca appare inpiù casi in scene di prothesis la raffigurazione discudi (per lo più del Dipylon ma anche roton-di) su trapezai con figurine umane in evidenteatteggiamento di suonatori. L’ipotesi di un usomusicale per gli scudi ci viene da un sonaglio(phormiskos) da Sala Consilina dove è raffigura-ta un’analoga scena in ambito italico74”.

Lo scudo tarquiniese sopra citato peri pendagli interni, reca anche un ulte-riore interessante particolare, ovveroil tipo di decorazione nelle due fascepiù vicine all’umbone centrale, chesembra quasi imitare un intreccio divegetali, dando così corpo alla giàricordata ipotesi dell’esistenza origi-naria (ed alla fine dell’VIII sec. a. C.tutt’altro che dimenticata o tramon-tata) di scudi di vimini75.Il ribadire che lo scudo dalla tombatarquiniese del Guerriero era fodera-to di cuoio76, come è stato giusta-mente osservato77, ci consente di fargiustizia di una lunga quanto erroneatradizione, secondo la quale tutti gliscudi in lamina bronzea sarebberostati -come gli elmi- solo oggetti “daparata” e non da combattimento: lapresenza di supporti/rivestimenti incuoio (o in altro materiale deperibile)

evidenzia come oltre alla laminametallica vi fossero talvolta -anche senon sempre- pure altri strati destina-ti all’assorbimento dei colpi, docu-mentandone l’uso reale. Ancora recentemente si tende ageneralizzare basandosi sul fatto che,in alcuni ritrovamenti, “la delicatezzadella lamina di bronzo fittamentedecorata a sbalzo ne fa indubbiamen-te degli oggetti da parata, usati forseanche come elementi decorativi,come testimonia l’uso di appenderlialle pareti delle tombe78”. Se tale usoornamentale può essere accolto pergli esemplari più tardi dell’orientaliz-zante, defunzionalizzati se deposti intombe femminili (come ad esempiola tomba 70 della Laurentina e latomba 17 di Pitino S. Severino Mar-che), ciò non può comunque valereper tutti gli esemplari, specie perquelli il cui contesto di ritrovamentoin tombe, nelle fasi più antiche, èindubbiamente guerriero.

“In Etruria durante l’antica età del ferro i per-sonaggi eminenti sono in genere connotati, alivello funerario, da un armamento compren-dente armi da offesa e spesso anche da difesache sembrerebbe effettivamente usato o usabi-le. (Solo) all’epoca del passaggio all’orientaliz-zante gli elementi di questo corredo in partenon sono più funzionali, il che sembrerebbeindicare che assumono il carattere di oggetti daparata. Ciò vale in particolare per gli elmi e gliscudi decorati di lamina bronzea deposti nelletombe orientalizzanti soprattutto nell’Etruriameridionale. (Vari autori) ritengono che gliscudi orientalizzanti venissero effettivamente

usati. A questo proposito va naturalmentetenuto presente che in Etruria meridionale ecentro-settentrionale si verificano evoluzionisociali in parte differenti, che certo si riflettonoanche sulle usanze relative alla deposizione diarmi nelle tombe (...) mentre in Etruria setten-trionale la struttura delle combinazioni di armisembrerebbe rispecchiare usanze effettive, inEtruria meridionale le armi sono rare, in alcu-ne necropoli addirittura assenti79”.

Inoltre, a sostegno dell’uso reale dialmeno una parte degli scudi rico-perti di lamina bronzea, riesce diffici-le pensare che i più ricchi tra i guer-rieri sfoggiassero delle armi costose ebelle (quelle in lamina di bronzo susupporti di cuoio) soltanto domi e nonbellique, cioè solo nelle feste di villag-gio durante la pace e non davanti ainemici durante gli scontri. In questasingolare ottica infatti la ricchezzadell’armamento sarebbe stata solodestinata a legittimare una gerarchiasocio-economica all’interno del grup-po di appartenenza; di questo presti-gio personale nessuna valenza sareb-be però stata riflessa all’esterno delgruppo, se la schiera della collettivitàvillanoviana non avesse portato chearmi da offesa, o avesse vestito esclu-sivamente delle modeste armi difen-sive in materiali deperibili prive dirivestimenti metallici.In realtà l’esibizione di simboli di ric-chezza doveva avere in origine ancheun valore collettivo tribale, qualeostentazione anche al nemico di unbenessere che attraversava il villaggio

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Gli scudi

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indicandone l’importanza; gli stessiancilia romani, i 12 scudi bronzeiderivati da un modello “caduto dalcielo” e conservati dal collegio deiSalii, erano scudi metallici di partico-lare pregio sentiti come un bene dellacollettività, quali tesoro collettivo80 divalore religioso81. Anchw l’ipotesi di un uso esclusiva-mente funerario di tutti gli scudi inlamina bronzea è stata comunquecontestata da più parti82. La funzio-nalità delle armi difensive con laminadi bronzo e supporto in cuoio, o inaltro deperibile, è inoltre confortata,come si è accennato per gli elmi, dalmodesto peso complessivo delle armida offesa, che avevano di conseguen-za una relativa capacità di penetra-zione. Anche per questi scudi in lami-na metallica su base deperibile, comeper quelli lignei, vale l’osservazionedello Hanson per i più tardi scudioplitici in legno:

“queste difese, sebbene non assicurassero unaprotezione totale da tutti i colpi, erano suffi-cienti (...) per sostenere gran parte dei colpi dilancia e di spada, posto che si trattasse di fen-denti e di affondi da una breve distanza, chenon consentiva di imprimere loro moltaforza83”.

Per tali scudi rivestiti di metallo“modern simulations and calculationof the effectiveness of ancient battlegear suggest that rarely could thespear –or even arrows- do muchserious damage to the Greek hoplite

shield or breastplate84”. Su di essi “lalamina non accresceva molto la pro-tezione e neppure il peso dello scudo,ma evidentemente conferiva a chi loportava un’apparenza di ferociaquando riluceva, abbagliando o addi-rittura spaventando l’avversario85”.D’altro canto non va dimenticato, alcontrario, che tutti gli scudi in laminabronzea sicuramente privi di altrisupporti (condizione in alcuni casievidente dal trattamento della facciainterna, o da particolari applicazioni)e quelli più tardi, posti in tombe fem-minili o in più repliche ad abbellire latomba, erano armi da parata poichébalisticamente incapaci di resisteread urti di spade e lance. Ciò è statocomprovato dagli esperimenti delColes che, oltre ad indagare gli scudiin cuoio, intraprese anche

“la fabbricazione di scudi in metallo: si fece-ro due riproduzioni di scudi, basate sull’esa-me di molti scudi in bronzo dell’età delbronzo europea. Si eseguirono le riprodu-zioni usando una lamina di rame, poiché lalamina in bronzo non era ottenibile in quel-l’epoca. Lo spessore del metallo (3 mm) eracomparabile a quello degli esemplari anti-chi e, nel forgiare la borchia centrale e lecostole, la durezza del metallo si avvicinò aquella degli oggetti autentici (durezza dellascala Vickers: copia 88-92, originale 93).Durante il processo di forgiatura non sidovette temprare il metallo. L’impugnaturavenne ribattuta sopra uno degli scudi, e siinserì un filo in bronzo all’interno del bordosovrapposto dello scudo (a somiglianza diuno o due esempi antichi, anche se non

della maggioranza di questi), per aumentar-ne la solidità. (...) Una punta in bronzo sulancia perforò lo scudo in metallo e, alprimo scontro, una spada dell’età del bron-zo tagliò quasi a metà lo scudo; solo il rin-forzo in bronzo tenne unite le due parti86”.

E’ dunque interessante rilevare che,negli esemplari di scudi in laminabronzea villanoviani ed orientaliz-zanti, è presente l’accorgimentodella cerchiatura di rinforzo in filodi ferro o di bronzo87 -ad esempionello scudo dalla tomba 2079 diVeio-, la quale assicurava il rivesti-mento metallico ad un supporto sot-tostante e comunque indispensabile.Dunque tale cerchiatura, piuttostoche ad impedire la deformazionedella sottile lamina rotonda (o inaggiunta a ciò88), aveva un fine fun-zionale di irrobustimento delloscudo composto di metallo e dimateriali deperibili. Peraltro dellecerchiature (kykloi) di sostegno edornamento sono presenti anchesugli scudi omerici dell’Iliade; qui ilbordo di metallo, che cerchiava lacirconferenza dello scudo, era detto“àntyx” (Iliade VI, 18; XVIII, 480 e508; XX, 275)89.Gli scudi villanoviani sin qui descrittirisultano per la massima parte diforma ovale-ellittica o perfettamenterotonda, e di dimensioni piuttostocontenute. Tra i popoli del mondoantico tali caratteristiche di forma emisura non furono diffuse ovunque, e

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La lancia, la spada, il cavallo

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costituiscono una caratteristica indi-cativa del tipo di combattimento cuil’arma difensiva era destinata. Emer-ge, a questo punto, la necessità di stabi-lire l’antichità dell’introduzione dellediverse forme sin qui attestate.Secondo alcuni studi sembrerebbe, daidati archeologici, che nel IX sec. a.C. inEtruria fossero preferibilmente usati gliscudi ovali, mentre nel Lazio era già dif-fuso lo scudo rotondo, il quale comun-que nella seconda metà dell’VIII sec.a.C. -sulla spinta dei modelli di scudiorientali rotondi coperti di laminametallica- si diffonderà largamente intutta l’Italia antica90.Se si può condividere la teoria sull’o-rigine assira degli scudi rotondi rico-perti di lamina bronzea ornamenta-le91, ciò non comporta che lo scudorotondo tout court sia stato introdottosolo in tale secolo e basandosi sumodelli del Mediterraneo orientale.Come si è già visto infatti scudi roton-di deperibili, in tutto e per tutto simi-li a quelli presumibilmente impiegatinell’Etruria villanoviana, erano pre-senti nell’Europa continentale dell’e-tà del bronzo. Peraltro, gli scudirotondi deperibili in cuoio, sulla basedei dati sopra indicati e di confrontietnografici, sembrano essere stati dicirca 50 cm di diametro, se non meno(in Etruria si veda l’iconografia dellesculture dai reperti dall’Olmo Bellodi Bisenzio), e piuttosto convessi,mentre gli scudi coperti da fogliametallica risultano ben più grandi

(dai 50 cm minimi al massimo di 100cm) e quasi perfettamente piatti. E’dunque possibile che solo per il tipoornato in bronzo “il modello di talescudo sia stato mediato in ambienteitalico proprio dai Greci di Eubea acui dovevano essere noti i contempo-ranei scudi assiri dallo loro frequen-tazione dell’emporio di Al Mina sullecoste della Siria92”.Se l’uso di scudi ellittici nei periodipiù antichi dell’Etruria villanovianafosse dimostrato compiutamente, ciòcomporterebbe valutazioni piuttostorilevanti sul tipo di combattimento inuso nel periodo formativo dei centripreurbani della prima età del ferro.Infatti abbiamo visto dalla documen-tazione iconografica e storica comegli scudi ovali fossero composti da uncommesso di legno con una barra edun umbone centrali ancora lignei, ilche implica un peso sicuramente sen-sibile, specie se l’ovale era di dimen-sioni abbastanza ampie come nelbronzetto di Este. Un guerriero dalcorpo “coperto” da uno scudo ovalepiuttosto pesante comporta scontri adistanza –similmente a quelli nell’I-liade di reminiscenza micenea- ed ingenerale una guerra poco fulminea,diversamente da quanto sembra inve-ce avvenire nella fase protovillanovia-na, quando il tipo di scontri, come leconsiderazioni sulle armi da offesanon in asta e sulla cavalleria, sembra-no deporre a favore di una “accelera-zione” del combattimento, e di una

celebrazione del guerriero agile eleggero, in una scherma che sembraperfetta per un combattente dotatodi lancia e/o spada leggera, elmo dimateriale composito per lo più depe-ribile e scudo rotondo con impugna-tura a maniglia centrale, anch’essocomposito. Questo quadro di predilezione, nel-l’Etruria villanoviana, per forme discontro agile e per un armamentoleggero, secondo alcuni studi93 sem-brerebbe accentuarsi alla metà dell’-VIII sec. a.C., quando si passerebbedall’uso dello scudo ovale, per lo piùligneo, a quello rotondo, anche incuoio e in vimini. Tuttavia il quadrodella realtà insediativa dell’Etruria,come si vedrà meglio oltre, pare evol-versi oltre un secolo prima di quest’e-poca: ritengo dunque probabile chelo scudo rotondo, nelle sue versionideperibili, abbia fatto la sua compar-sa in Etruria ben prima della metàdell’VIII sec. a.C., e che esso, larga-mente impiegato, sia stato una dellecomponenti dell’espansione militareetrusca, pur considerando di grandeinfluenza anche altre peculiarità delcombattere –come l’impiego dellacavalleria–.Attorno alla metà dell’VIII sec.a.C.,sulla scorta di mode del Mediterra-neo orientale e di alcuni esempi por-tati in Italia dai Greci delle neonatecolonie magnogreche, si diffuse inItalia centrale lo scudo a rivestimentometallico. Non va sottovalutata l’in-

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Gli scudi

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fluenza culturale ed ideologica deimodelli proposti dall’Iliade, operaconvertita da orale in scritta proprioin questo momento, e che deve avereaccompagnato la presenza ellenica inItalia, propagandando valori dinobiltà aristocratica. La presenza nelpoema di armi difensive metallichequali pegno di aretè –con tutti i frain-tendimenti e le inesattezze che l’ar-cheologia greca ha messo in luce-deve avere fortemente suggestionatogli Etruschi dell’VIII secolo, i qualiconoscevano proprio allora una evo-luzione economica e socioculturalesenza precedenti nella penisola. Pro-prio tra l’ultimo quarto dell’VIII ed ilprimo quarto del VII sec. a.C. in Gre-cia si diffondono scudi dotati di brac-ciale e maniglia, dall’uso dei qualisarà resa possibile la nascita dellafalange oplitica: nell’Etruria coevanon sono noti esemplari di tal fatta,segno questo che l’adozione degliscudi a rivestimento metallico deco-rato attenesse più alla sfera degli sta-tus symbol che all’evoluzione tecnolo-gica. Nell’Etruria villanoviana edorientalizzante il modo di battersi edi sorreggere lo scudo non muta ma,se mai, muta ciò che si vuol segnalareportando uno scudo in bronzo che siispira a modelli orientali e all’epicaomerica (nella quale gli scudi sonooggetto di ampie digressioni descrit-tive, quali mirabilia).Quanto alle fogge, l’osservazione cheBartoloni e De Santis94 espongono sul

documentato impiego contemporaneodi scudi ellittici e rotondi nell’Etruriavillanoviana, e l’ipotesi che essi –sullabase del carrello della tomba visenti-na II dell’Olmo Bello, e della tombaOP5 dei Quattro Fontanili a Veio- fos-sero destinati a classi di età diverse,può indurre a ipotizzare che, in Etru-ria, l’uso dello scudo ovale fosse, inalcune zone, destinato ai più giovani,mentre ai seniores venisse riservatol’uso degli scudi rotondi, il cui pesoridotto consente una scherma piùesperta, e dei quali la fortuna sia incombattimento che ideologica –comeattestano gli esemplari più recenticoperti di lamina bronzea- sarebbestata comunque soverchiante.Riguardo l’importanza e la preceden-te fortuna degli scudi rotondi nell’o-riente del Mediterraneo, è stato rile-vato che

“perhaps the most important item of defen-sive armor that comes into use at the end ofthe thirteenth century is the round shield,with its conical surface running back fromthe hoss to the rim. Held with a center-grip,this symmetrical shield («balanced all-around» is a common Homeric epiteth forthe aspis) made up for its relatively small sizeby a superior design (...) the round shield,on the other hand, was certainly meant fora hand-to-hand fighter. For him, agility andmobility counted for much, and he sacrifi-ced the security of a full-body shield inorder to be fast on his feet and to have freeuse of his offensive arm. The round shieldsvaried in size from less than two to morethan three feet in diameter, but even the lar-

gest did not cover a man below midtigh. Butbecause it was perfectly balanced, the roundshield was unusually manouvrable. Thatquality, together with its uniformly slopingsurfaces, gave the warrior good protectionat the spot that needed it95”.

Peraltro anche le milizie citate nellaBibbia facevano uso del “piccolo«scudo rotondo» portato dagli uominiarmati di lancia. Lo scudo piccolo per-metteva movimenti rapidi e veloci sulcampo di battaglia e serviva a una pro-tezione minima del guerriero96”. Ineffetti, rispetto ad altri scudi attestatinell’antichità, come vedremo, lo scudorotondo offriva una maggiore libertàper i movimenti del braccio destroarmato di spada (o di lancia), ed anchel’enorme vantaggio di essere benbilanciato sulla mano sinistra, con laquale lo si poteva manovrare agilmen-te per la difesa del proprio corpo, oanche per incalzare, spingere od offen-dere l’avversario, con una schermafatta di movimento ed agilità che altriscudi più ampi, pesanti, avvolgenti oasimmetrici non consentivano. Sullabase delle impugnature degli scudimetallici si ritiene che non fosse anco-ra in uso, nell’Etruria villanoviana, ilparticolare binomio di imbracciaturaed impugnatura, che appare in Greciatra il 725 ed il 675 a.C97.

“Gli storici attribuiscono grande importan-za all’imbracciatura e all’impugnatura parti-colari dello scudo, il porpax e l’antilabe, cheper la prima volta distribuivano il peso

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La lancia, la spada, il cavallo

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lungo tutto il braccio sinistro invece di con-centrarlo solo sulla mano e sul polso98”.

Si tratta di una innovazione rivoluzio-naria che portò in prospettiva all’in-troduzione della tattica oplitica:

“social historians concentrate on the pecu-liar shape, the great size, and the conside-rable weight of the three-foot, double-gripped, concave shield. In their eyes, thisnew hoplite protective device is tanta-mount to one of the great revolutionarybreakthroughs in Greek history. Is is aninnovation quite capable of tactical deter-minism in its own right:«The change wasrelatively sudden due in primis to the wide-spread adoption of what became regardedas the hoplite accourterment par exellen-ce, the shield with porpax (arm-band) andantilabe (hand-grip)». Its adoption, alongwith other items of the hoplite panoply,around 700 B.C. could only have signaledan abrupt transformation in Greekinfantry fighting itself, since such equip-ment could be used only in massed forma-tion: any solo fighter with heavy bronzebody armor and clumsy shield would be alumbering, easy target99”.

Uno scudo così concepito, appare inEtruria ben più tardi, comunqueancor prima della falange oplitica:

“in Etruria (...) la falange oplitica fu adotta-ta durante il VI secolo, e gli Etruschi inse-gnarono ai Romani a combattere con scudidi bronzo (Diod. Sic. 23,2); ma per varieragioni la comparsa dell’equipaggiamentooplitico greco può essere ragionevolmenteassegnata ad un periodo ben anteriore al600 (...) la serie di scudi etruschi pre-opliti-ci con una sola maniglia (trovati in tombe

della fase villanoviana avanzata) è caratteri-stica dell’orientalizzante antico, e non puòessere quindi facilmente estesa oltre la metàdel VII secolo100” .

Se gli scudi rotondi in materialedeperibile non differivano per il loroimpiego tattico da quelli metallici,vista la loro uguale strutturazione,essi vanno dunque pensati comerotelle da impugnare nella mano sini-stra, coi quali i guerrieri villanovianinon effettuavano una costante pres-sione corporea contro lo scudo degliavversari, ma piuttosto si schermiva-no ed offendevano, con molta piùlibertà di movimento di quella cheavrà l’oplita arcaico, a svantaggioperò dello sforzo del polso e dellamano. Un piccolo scudo leggero,contrariamente a quanto può appari-re, permetteva ad un abile combat-tente di difendersi anche dall’esserebersagliato da giavellotti. Tacitoricorda come i Britanni, nell’83 d. C.,nel primo scontro da lontano, “concalma e insieme con perizia deviava-no le nostre armi da getto (...) o leevitavano con i loro piccoli scudi dicuoio”101. L’oplita, con uno scudo dicirca otto chilogrammi sull’avambrac-cio e, in parte, sulla punta della spal-la, sconterà invece, a vantaggio diuna difesa corporea maggiore, unforte dispendio di energia, quantifi-cato in alcuni recenti esperimenti dicorsa in armi, nel 28% oltre il norma-le102. Agli stessi Greci antichi era noto

che “i grandi scudi rendono la fante-ria lenta nel movimento” (Diod. Sic.,15, 44).E’ di notevole importanza osservareche in Grecia la panoplia –e gli scudiin particolare- aveva attraversato con-sistenti trasformazioni dopo il XIVsec. a.C. Infatti

“nel Tardo Elladico III, cioè dal XIV secoloin poi, l’armatura micenea subisce una tra-sformazione radicale. (...) Il grande scudoche proteggeva tutto il corpo e che avevaavuto un ruolo così importante nei combat-timenti singoli e nella caccia, viene ora rim-piazzato dal piccolo scudo rotondo che siadattava ai combattimenti in gruppo. Ma loscudo a forma di otto sopravvisse come sim-bolo sacro. Sul Vaso dei Guerrieri (TE IIIC)si vedono due tipi di scudi rotondi, ma visono dei dubbi sulla loro interpretazione.Uno scudo rotondo, che ricorda il tipo usatodai Popoli del Mare, è dipinto su un fram-mento di ceramica TE IIIB. Questo tipoaveva una maniglia e non una correggia perappenderlo alla spalla, ed in questo si diffe-renzia dallo scudo ad otto che si portavaappeso a tracolla. Come si vede sul Vaso deiGuerrieri lo scudo era portato sul bracciosinistro103”.

Va qui registrata anche l’ipotesi che loscudo rotondo, secondo alcuni stu-diosi, sarebbe stato introdotto nelMediterraneo orientale da guerrieriprofessionisti di ipotetica origineoccidentale, quali gli Shardana accoltinelle milizie dell’area palestinese edegizia, ma che secondo altre teorieseguirono un percorso inverso, daoriente ad occidente104:

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Gli scudi

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“there is reason to believe that the roundshield was introduced to the eastern Mediter-ranean by barbarian skirmisher from thewest. Its ultimate provenance is unknown.Altough round shields were common in tem-perate Europe after 1000, Harding foundthat only one has been assigned (...) a dateearlier than the twelfth century. Altough (...)Shardana runners were using the round shieldon Near Eastern battlefields in the early thir-teenth century, it evidently remained a spe-ciality of the barbarian skirmisher for anothersixty or seventy years105”.

La documentazione sin qui ricordataha quindi rilevato nell’Etruria villano-viana l’uso di scudi ovali e di scudirotondi, più o meno convessi ed indiversi materiali. Tornando però suicitati ancilia romani, si ha modo diosservare che esistevano anche altrefogge di scudo nell’Italia centrale tir-renica, il che riporta alla cronologia diintroduzione ed uso dei diversi tipi,ed inoltre apre ai nostri occhi un inte-ressante aspetto di connessione delloscudo alla sfera magico-religiosa.Lo scudo originario degli ancilia, ilcosiddetto pignus imperii, secondo laleggenda era caduto dal cielo nellemani del re Numa Pompilio (regnan-te tra il 717 ed il 673 a. C.) duranteuna perniciosa epidemia, che pocodopo l’episodio cessò. Si trattava diuno scudo bronzeo di forma alquantoinsolita, ovvero ovale ma con largheincavature lungo i lati lunghi, che ilre -il più religioso dei sette romani-considerò pegno divino della gran-dezza futura dell’Urbe e, per impe-

dirne il furto, ne fece fare undicirepliche fedeli al fabbro MamurioVeturio. Per conservare questo sacrotesoro costituì il collegio dei sacerdo-ti Salii, la cui sede fu fissata nellaCuria Saliorum sul Palatino, ricettoanche per l’effigie di Marte armato dilancia e per il lituo di Romolo. Purnon possedendo più gli ancilia, comenotò molti anni fa il Bloch106,

“le descrizioni degli scrittori classici, unita-mente a affreschi, gemme, monete e basso-rilievi raffiguranti sia le cerimonie del tra-sporto degli ancili ad opera dei Salii, sial’arma isolata, ne mostrano esattamente laforma: era un grosso scudo ovale con unalarga incavatura su ambo i lati lunghi. I solioggetti comparabili in territorio italico, chenoi conosciamo, sono piccole placche inbronzo, rozzamente ovali, con incavature sullati corti: scudi votivi o, in qualche caso,destinati alla danza. Questi oggetti interes-santi vengono dal Piceno, dall’ager capenus,e da Bolsena, e risalgono tutti alla prima etàdel ferro; più esattamente, al 700 circa a. C.La loro esistenza in territorio italico ci dicemolte cose e ci autorizza (...) a ricostruire lavia percorsa da quest’arma non comuneprima di arrivare nel Lazio e infine aRoma”.

Tale percorso era stato così ricostrui-to dal Bloch:

“l’origine prima di questa forma di scudo siritrova nelle civiltà cretese e micenea, chelasciarono varie riproduzioni di caratteristi-ci scudi grossi, detti scudi «a forma di otto».Da questi si sviluppò lo scudo dalle profon-de incavature che si ritrova in Grecia nelperiodo geometrico; un tipo d’arma ritratto

sui vasi del Dipylon e usato come oggettovotivo, che ricorre in varie regioni elleniche,ad Olimpia e nel tempio di Atena a Tegea,e che servì di modello agli scudi incavati diproduzione italica. Senza dubbio la formaattraversò l’Adriatico dopo di essere passataper l’Illiria. Ora, il Piceno era legato all’agercapenus da molteplici influenze, cosicché daquest’ultimo certi orientamenti potevanosenza difficoltà raggiungere il Lazio. Diver-si adattamenti del prototipo comune spiega-no le diversità di posizione delle incavature,mentre dalla singolarità della forma si capi-sce perché le città latine lo considerasserosacro e munito di un’impronta divina. Fra ipopoli primitivi non era cosa insolita con-fondere l’esotico col sacro: di qui la leggen-da romana dell’ancile caduto dal cielo. Ladata dei reperti archeologici di alcune partid’Italia coincide con quella attribuita daglistorici romani a questo episodio mitico econferma che l’ancile comparve a Romaintorno al 700 a. C.107”.

Verificando oggi l’ipotesi del Bloched osservando gli scudi micenei, sirileva che le forme di questi eranovarie, ovvero originariamente ad “8”nonché a rettangolo convesso -diver-si dagli ancilia-, e solo più tardi anchecircolari o circolari con intaglio luna-to. Gli esemplari a “8” e rettangolariin particolare non erano da impu-gnare, poiché avevano troppo ampieproporzioni, come si evince dalla let-tura di vari passi omerici, e dovevanocoprire il guerriero dai piedi sino alcollo; essi erano infatti definiti daOmero “termiòessai”, cioè “che copretutta la persona”, ed “amfìbrotai pode-nekài”, “che difende giungendo fino

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La lancia, la spada, il cavallo

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ai piedi” (Iliade II, 839; XI, 32; XV,646; XVI, 803; XX, 281). Per le loroproporzioni è stato escluso che, perentrambi i tipi, si utilizzassero mate-riali più pesanti che il solo cuoio108.Comunque il loro peso, che restavaconsiderevole, li faceva portare appe-si al collo con una larga cinghia dettatelamòn, mentre la mano sinistra liorientava con una maniglia internadurante il combattimento109. Su que-sto particolare sistema di sospensionela lettura dell’Iliade è illuminante: daessa appare chiaro come

“questo scudo di grandi dimensioni eraappeso intorno al capo ed alla nuca permezzo di un balteo (telamòn) in modo daricoprire la spalla sinistra (XI, 527; II, 388;V, 196, XIV, 404; XVIII, 480); questo soste-gno era di cuoio ed era applicato alla super-ficie interna dello scudo vicino all’orlo,mentre per dirigerlo serviva una maniglia(pòrpax) fissata nell’interno della cavità delloscudo e tenuta dalla mano sinistra. Nell’in-terno vi era inoltre una larga traversa(kanòn) fissata sul cavo dello scudo da unorlo all’altro, sotto la quale si faceva passarela parte superiore del braccio, mentre lamano afferrava una delle maniglie di cuoioo di tessuto, che correvano tutt’attorno allacavità dello scudo. Queste numerose mani-glie offrivano il vantaggio che se lo scudofosse stato rotto in un punto vicino ad unadelle medesime oppure una di esse si fossestrappata, il combattente non aveva che dafar girare alquanto il braccio ed afferrarcolla mano un’altra maniglia110”.

Gli scudi micenei rettangolari (omeglio semicilindrici, giacché i lati sipiegavano verso il retro), appaiono

simili ad alcuni tipi indonesiani inlegno, ricavati da tronchi d’albero epesanti al punto di venire frequente-mente posati verticalmente a terra;tale uso non appare del tutto in con-trasto con l’aggettivazione omericache li accompagna, ovvero “simili atorri”, come è detto quello di Aiace(Iliade VII, 219). In questo tipo didifesa, sebbene

“such a shield protected a man from theneck to shins, the absence of arm indenta-tion must have severely restricted his wiel-ding of an offensive weapon (...) All theseLate Bronze Age shields, if held frontallyand at the proper height, would have cove-red most of a footsoldier’s body, far more infact that did a round shield (...) the size anddesign of these (…) shields are quite under-standable if they were intended for defenseprimarily against missiles, and only occasio-nally against hand-to-hand weapons111”.

Questi infatti si prestavano ad un tipodi scontro molto meno agile di quel-lo villanoviano e protolatino, ovverotra fanterie ben più pesanti di quelleleggere dell’area italica.Lo scudo ad “8” in cuoio, fortementeconvesso di profilo, era costruito conuna pelle bovina tagliata in forma piùo meno ovale, la quale veniva distesasu una lunga asse verticale legger-mente arcuata; un’asse convessa piùcorta, posta trasversalmente, effettua-va un’azione traente verso l’internosulla pelle, là dove ne raggiungeva imargini112. Tale intelaiatura traente, che grazie

alla coazione rendeva lo scudo elasti-co, è riconoscibile anche nella ripro-duzione aurea miniaturistica dallatomba a tholos presso il Palazzo diNestore a Pilo. In vari casi “the shieldis made of several layers of thoughe-ned bull’s hide glued and stitched toa wicker core. The rim, as describedby Homer, is of leather113”. Questeinformazioni sono confermate da unaplacchetta in avorio con guerriero daDelo, dove si vede l’interno delloscudo tratteggiato a riprodurre l’in-treccio di vimini114. E’ interessanteosservare che con lo stesso sistemadegli strati di pellame si costruivaancora, recentemente, l’adarga, unoscudo berbero a forma di due lobiallungati affrontati fatto di più stratidi pelle d’antilope115.Questa tipologia di scudo -e più tardiquella pur diversa detta “del Dipy-lon” diffusa nella seconda metà dell’-VIII sec. a. C.- avrà in Grecia, comeappare pure per gli ancilia romani,un carattere anche sacro116. Talescudo ad “8”, come è stato notato,“enveloped the warrior on three sidesfrom the neck to ankles, while provi-ding some freedom of movement forthe arms at the indentations117”. In altritermini lo scudo ad “8” sarebbe statoun grande scudo ovale “modificato”con due incavi laterali, destinati amigliorare la libertà di movimentodelle braccia -specie la destra-. Ineffetti i dati presenti nell’Iliade con-fermano tale capacità protettiva:

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Gli scudi

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“Omero infatti nelle ferite, di cui specifica illato, descrive come colpito il solo omerodestro e mai parla del sinistro. Il perché diquesta unicità si viene a conoscere pensandoall’armatura stessa dei guerrieri, i quali,portando lo scudo sul braccio sinistro, resta-vano completamente difesi da questo lato,solo potendo essere offesi dal destro. Seinfatti si osserva attentamente nelle descri-zioni delle ferite in Omero, si vede che sol-tanto eccezionalmente si hanno ferite sullato sinistro, come quella di Timbreo pressoil capezzolo (XI, 320-321), o perché nelmomento del colpo il ferito si presentava inuna speciale posizione o perché lo scudonon aveva opposto resistenza all’arma vul-nerabile e questa passandogli attraversoaveva potuto liberamente colpire il lato sini-stro118”.

Nella penisola italiana tuttavia laconsiderevole ampiezza degli scudiomerici ad “8” o semicilindrici nonavrà fortuna e non sarà ripresa, pre-sumibilmente per il tipo di tattica dicombattimento in ambiente italico,dove gli esemplari e le raffigurazioniindicano per gli scudi proporzionitalora discrete ma non eccessive. Trai casi di scudo più ampio vi è il giàcitato bronzetto di guerriero da Estedella metà dell’VIII sec. a.C.119 cheriproduce un fante con elmo crestatoil quale, oltre alla lancia nella destra,brandisce con la sinistra un grandescudo ovale, o a rettangolo arroton-dato, con un umbone centrale. Leproporzioni dello scudo sono consi-derevoli, tali da coprire il guerrierodal ginocchio sino al collo120. Ad essosi aggiunge il bronzetto di produzio-

ne sarda proveniente dalla necropolivulcente di Cavalupo, del IX sec.a.C., dove il guerriero (o sacerdote?)porta sulla spalla sinistra un altoscudo di cuoio, pressoché semicilin-drico121.Non sono noti dunque in Etruria –néin altre aree italiche- ampi scudi ad“8” secondo la tipologia micenea;anche se il Colonna ed altri122 riten-gono di riconoscere nei reperti citatiin apertura di capitolo, da Pratica diMare, i più antichi esempi di scudolaziale proprio in foggia di scudi bilo-bati, ovvero ispirati da quelli “ad 8”,ritengo che tale identificazioneincontri alcune difficoltà. Nellatomba 21 infatti era deposto un arti-colato corredo miniaturizzato diarmi, probabilmente destinato avestire un fantoccio, come nellatomba 142 di Osteria dell’Osa; ma setutta la panoplia è accurata nelnumero di oggetti destinati alla vesti-zione, le due coppie di dischi rotondiuniti da una linguetta produrrebberodue scudi bilobati (peraltro una cop-pia di scudi bilobati miniaturisticisarebbe presente anche nella piùrecente tomba 1036 di Casal delFosso a Veio), che è ben difficile far“indossare” contemporaneamente aduna statuetta di guerriero. Inoltre, èstato sottolineato come le armiminiaturistiche nelle tombe laziali“siano riproduzioni fedeli ed accura-te di oggetti reali, in tutti i loro parti-colari funzionali ed eseguite espressa-

mente per essere deposte nellatomba123”: l’accuratezza della ripro-duzione di uno scudo bilobato attra-verso l’unione di due dischi piatti conuna linguetta al centro sarebbe, alcontrario, molto grossolana, ed anzicontraria alla funzionalità delloscudo bilobato “ad 8”, che è sostan-zialmente uno scudo ovale allungatocon una strozzatura centrale, peraltrodi facile riproduzione nella laminabronzea senza ricorrere all’accoppia-mento di due dischi. Una riproduzio-ne tanto maldestra potrebbe essereammessa solo ove il bronzista nonavesse mai visto uno scudo bilobato, elo riproducesse senza disporre di unmodello, ovvero se operasse in unambiente dove gli scudi bilobati fos-sero di fatto assenti. Una più consi-stente difficoltà è data, inoltre, dalfatto che lo scudo “ad 8” era tramon-tato in Ellade già da vari secoli quan-do, nel X sec. a.C., venne effettuata lasepoltura di Pratica di Mare; sebbeneesso fosse ancora noto ad Omero nel-l’VIII secolo, esso risulta ormai dasecoli desueto124.La presenza di scudi nella formadegli ancilia in area italica va necessa-riamente separata dall’utilizzo degliscudi “ad 8”: questi ultimi infattiscompaiono dall’iconografia grecagià nel Tardo Elladico III, con la lorotecnica di costruzione in materialiesclusivamente deperibili, con la lorotraversa centrale ed il tèlamon. Gliancilia fanno invece la loro comparsa

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in contemporanea con gli scudi elle-nici detti “del Dipylon”, del tuttoidentici a essi nella forma, e cheabbiamo già indicato essere compar-si alla metà dell’VIII sec.a.C.125, informa di scudo ellittico o rotondo (siveda un bronzetto da Karditsa delVII secolo126) con due marcatissimiintagli laterali. La singolarità di que-sto scudo greco, notata dallo Snod-grass ed avvertita dai Greci stessi, èla stessa che colpì Numa Pompiliotra la fine dell’’VIII e gli inizi del VIIsec. a.C., ovvero in contemporaneità

con l’adozione ellenica; se l’ancilefosse stato comune nel Lazio di quelperiodo dopo una introduzione nelX secolo, non sarebbe stato necessa-rio “celarlo” con apposite replichealla cupidigia. La particolarità del-l’ancile –e la sua distanza dal tipo“ad 8”- è rimarcata anche dal fattoche il “pignus imperii” era in bronzo,materiale mai usato per lo scudomiceneo.Queste puntualizzazioni ci consento-no di ribadire senza dubbio la cesu-ra tipologica, tecnologica e cronolo-

gica tra gli scudi “ad 8” micenei e gliancilia romani; lo Snodgrass ha rite-nuto che anche in Grecia, ove inepoca geometrica si fosse creato loscudo “del Dipylon” ispirandosi aquello miceneo, ciò sarebbe comun-que stato “una reminiscenza distor-ta”, e che a questo scudo, come quel-lo “ad 8”, sarebbe stato dato, oltre alvalore d’uso, un forte contenuto sim-bolico, sia poetico-celebrativo chesacrale127.Dunque, cercando di tracciare una sto-ria dell’impiego dello scudo, nell’Italiacentrale risultano presenti, probabil-mente già all’inizio dell’età del ferro,scudi sia ovali che rotondi a manigliacentrale; per i primi era impiegato piùspesso il legno, commesso in strisce osovrapposto in compensato –e talorad’un sol pezzo-, mentre per i secondi,oltre allo stesso legname, era larga-mente impiegato il cuoio, il vimini, lapelle. Le tecniche di costruzione,comunque, dovevano sfruttare soventela composizione di materie diverse,con un utilizzo minimo del metallo. E’possibile che in alcune zone dell’Etru-ria meridionale l’impiego dello scudoovale fosse più antico di quello delloscudo rotondo, che appare invece benpresente nel Latium; è altresì possibileche le due forme potessero essereimpiegate da armati di fasce d’etàdiverse, ripartizione che peraltrovedremo attestata anche per quantoriguarda le armi da offesa. L’impiegodello scudo rotondo in materiale leg-

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Gli scudi

Particolare di un vaso attico a figure nere con un guerriero che imbraccia uno scudo del tipocosiddetto "del Dipylon" - Firenze, Museo Archeologico Nazionale

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gero da parte della cavalleria villano-viana, che cavalcava a pelo, è provatodalla scultura dell’askos Benacci diBologna, ed è confermato da varieosservazioni sulla cavalleria romanapiù tarda, giacché

“the use of lightweight shields must havegreatly aided the trooper in giving a polis-hed performance (...) and the extra weightalso tended to unbalance me in suddenturns execure in gallop. (...) A great percen-tage of falls are caused by the torso beco-ming unbalanced, the rider scrabbling tostay on the horse’s back and failing becauseof the combination of gravity and the hor-se’s movements. It is therefore easy tounderstand how much more secure and alsohow much easier it was for an unencumbe-red trooper, kitted out with lightweightshield and cloth tunic, to give a smooth per-formance128”.

Non si può escludere la presenza diparticolari scudi “a doppio disco”, giàdal X sec. a.C., la cui connessione congli scudi micenei “ad 8” è da dimo-strare, e che potrebbero invece essereelaborazioni locali. Nello stessoperiodo, peraltro, in Sardegna sononoti, da bronzetti, esemplari di scudia lobi, e singolari coppie di scudirotondi forse uniti da una barra(impiegati tuttavia da “eroi quattroc-chi”129) ai quali si affiancano comun-que nell’isola i ben più comuni scudirotondi, realizzati in vimini o com-messo ligneo con umbone centra-le131, assieme ad occasionali scudisemicilindrici in cuoio, al cui interno

veniva talvolta celato uno stiletto. E’degno di nota come lo scudo caratte-rizzasse in Sardegna eroi e guerrierisempre e solo in associazione alla spadae ad una sorta di elmo o copricapo,mentre esso –anche per ovvi motivi diingombro- non è mai portato dagliarcieri131.Con la metà dell’VIII sec. a.C., attra-verso le colonie greche sul Tirreno, sidiffondono nella penisola alcunenuove tipologie di scudo, con rivesti-mento metallico: la prima di esse è loscudo circolare coperto di laminabronzea decorata –ancora a manigliacentrale, preoplitico- di ispirazioneassira, dall’elevato valore intrinseco esimbolico rispetto alle precedentiversioni deperibili, dalle qualicomunque in Etruria (dove ebbe lamaggiore fortuna e vari centri pro-duttivi) mostra inizialmente alcunereminiscenze. Un secondo tipo fu loscudo detto “del Dipylon”, di elevatovalore simbolico, forse ispirato dallaletteratura omerica e dai suoi frain-tendimenti132, che ebbe in Lazio–come a Roma- una notevole fortuna,specie per il suo connesso valoresacro, forse anch’esso mutuato daimodelli greci. Anche il tipo del Dipy-lon –in Italia noto come ancile- intro-duceva l’uso del bronzo negli scudi enelle difese corporee, e la sua formafu ripresa da vari popoli italici perrealizzare delle piastre pettoralimetalliche –o kardiophylakes- che,come vedremo più oltre, ebbero

ampia fortuna per lo più a sud-estdell’Etruria. La questione dell’antichità e della dif-fusione dei vari tipi di scudo in areaitalica, in relazione al Mediterraneoorientale, non è cosa meramenteaccademica; se l’ipotesi già riferita,che individua il luogo d’origine delloscudo rotondo nel Mediterraneonord-occidentale, fosse dimostrata133,si potrebbe ritenere che già nel XIIsec. a. C. o prima si fosse tecnicamen-te e culturalmente contrapposto un“Occidente” dedito ad una guerracon truppe leggere, abili nella scher-ma di lancia e di spada, oltre che nelmaneggio difensivo dello scudorotondo, ad un “Oriente” interessatopiuttosto allo scontro di carri e di fan-terie pesantemente difese, con tatti-che intese ad un ingaggio a distan-za134. La differenza dei metodi dischieramento connessi alle tattichecorrisponderebbe anche a differenzenumeriche degli armati -che fannol’efficacia di certi modus operandi- ilche quindi indicherebbe, tra le con-cause di tali contrapposizioni nellatecnica militare, anche la diversastrutturazione demografica, sociocul-turale ed urbanistica, oltre che di con-formazione del suolo135. In più, riconoscendo una contrappo-sizione di tecniche militari tra Occi-dente ed Oriente, emergerebbe chela presenza di prospectors ellenici inItalia ed in Etruria per l’acquisizionedi metalli grezzi e materie prime

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potrebbe non aver conseguito ovun-que dei risultati di penetrazione par-ticolarmente efficace e stabile, proprioanche per motivi di tattica militare136. Ilsuccesso di tale resistenza autoctonagià nell’età del bronzo, facendo dellearmi micenee e dell’esercito palazialeun modello organizzativo poco inte-ressante in area italica, avrebbe resoinvece le armi e le tattiche degli indi-geni dell’Italia centro-meridionale edinsulare un modello da imitare. E’stato d’altronde rilevato come varimutamenti abbiano segnato il mondoellenico nel corso del XIII secolo,manifestandosi pienamente proprioal passaggio da questo secolo alseguente, e in special modo come, traessi, vi sia una trasformazione dellearmi impiegate, e l’abbandono diquelle tradizionali –congiuntamenteal modo di combattere connesso- coninfluenze della bronzistica europea eitalica:

“un altro tipo di spada che trova confrontinell’Europa centrale e in Italia è quello alingua di presa lunata, per il quale si è alungo discusso se dovesse ritenersi di origi-ne egea o centroeuropea. Le nuove armiimplicano una profonda trasformazione nelmodo di combattere. I lunghi spadoni dapunta usati nel periodo miceneo, uniti aigrandi scudi che proteggevano gran partedella persona, erano adatti al duello cavalle-resco, che solo nel corpo a corpo finale pre-vedeva l’impiego del pugnale. La nuovaspada da punta e da taglio, a lama più largae più resistente, implica invece un combatti-mento rapido, che non consente più l’uso

del grande scudo poco maneggevole. Ora sipreferisce uno scudo più piccolo, che copresoltanto il petto, simile agli scudi europeidel tipo Herzsprung137”.

Dunque non è fore casuale se saràsolo nella seconda metà dell’VIII sec.a. C. che in area italica, per alcunedifese personali -ancilia, piastre edischi pettorali- si guarderà per ispi-razione alla Grecia, sull’onda degliscudi del Dipylon. La dimostrataincapacità tattica dell’Oriente a con-frontarsi con truppe agili e veloci,abili anche in colpi di mano come suterreni accidentati, avrebbe potutodeterminare una esposizione delleterre del Mediterraneo orientale allescorrerie di occidentali imbarcati,quali furono precocemente ritenutigli stessi Etruschi138.L’armamento complessivo del fantevillanoviano sembra infatti rifuggirenel complesso da scudi grandi epesanti, ed appare inteso ad un com-battimento agile, nel quale la pre-stanza fisica, l’uomo, conta più del-l’arma139; il guerriero non è chiuso inuna corazza metallica, pesante e rigi-da, come quella micenea di Dendra,ma è solo un uomo armato con unoscudo alla mano ed alcuni elementidi difesa localizzata sul corpo. Peraltro, l’adozione di uno scudo leg-gero assolve alla necessità di unoscontro dove sono impiegate spadecorte ed appuntite, come quelle itali-che, che di fatto sono dei pugnali

allungati. La mano sinistra nuda,infatti, costituisce nel combattimentoal coltello un bersaglio privilegiato edè facile perdere le dita se la si tiene inavanti140:: di qui la necessità di unaprotezione leggera e manovrabile.Inoltre uno scudo, oltre alla difesa daicolpi, consente anche di nasconderela propria spada corta, tenuta puntatain avanti dietro di esso, in modo dapoter colpire con maggiore sorpre-sa141. La leggerezza complessiva dellapanoplia difensiva –ampiamente inmateriali deperibili leggeri e combi-nati tra loro- e delle armi offensive,piuttosto che dovuta a fatti climatici oa limitazioni dovute alla scarsità dimetalli come qualcuno ha ipotizza-to142, è da ritenere un elemento ideo-logico i cui riflessi si riscontrano sianella tattica che nel concetto di aretè.Infatti il mite clima mediterraneo -pur nell’estate usata per le campagnemilitari- e la documentata ideazionedi elementi deperibili da corazzatura(oltre all’abbondanza di giacimentimetalliferi in Etruria) consentivanotecnicamente la creazione e l’uso didifese individuali anche ben più con-sistenti di quelle attestate.Le osservazioni sugli ancilia e sul lorovalore sacrale, come la constatazionedella frequente deposizione di scudi-nelle tombe, aprono anche a varieconsiderazioni sul coinvolgimentodello scudo in attività religiose nell’a-rea italica. Tale arma sembra infattiaver posseduto, a quanto documenta-

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no le fonti latine, un notevole valoremagico che rendeva l’ancile protago-nista dei riti di apertura e di chiusuradella stagione adatta alla guerra,giacché (come si considererà oltre)non tutti i mesi erano ritenuti validiper le attività militari.

“Ogni anno i Salii eseguivano riti consisten-ti in danze armate, che celebravano l’inizioe la fine della stagione di guerra. In marzo,provvedevano a «mettere in movimento gliancili», secondo la frase sacra: ancilia movere;cioè percorrevano la città danzando ferman-dosi in diverse stazioni in cui, guidati da unmaestro (magister), da un primo-ballerino(praesul) e da un cantore (vates), saltellavanoa un ritmo ternario percotendo gli anciliacon una lancia corta e intonando preghiered’invocazione a vari dèi; quindi, il 14 marzo,prendevano parte alle corse di cavalli notecome equirria e il 19 procedevano alla puri-ficazione delle armi. A questi riti celebrantil’apertura della stagione di guerra ne corri-spondevano di simili in ottobre per cele-brarne la fine, dopo di che gli ancilia eranoriposti nel sacrarium (ancilia condere).La danza armata con gli ancilia non erapeculiare di Roma; Alba, Lavinio, Tuscolo,Tivoli, Anagni avevano da tempi remoti leloro comunità di Salii. Nel suo Commentarioall’Eneide (VII, 285) Servio sostiene addirit-tura che gli abitanti di Tivoli e Tuscoloconoscessero i Salii prima ancora dei Roma-ni. D’altra parte, lo scudo ovale con incava-ture laterali non era un’arma sacra solo perRoma. Juno Sospita di Lanuvio, una deadella guerra, brandiva una lancia nelladestra e con la sinistra teneva un ancile143”.

Dunque lo scudo, già in età moltoantiche, aveva nel Latium un ruolo daprotagonista in riti collettivi dove la

sua esibizione insieme alla lancia,durante delle danze corali, celebravail valore guerriero e lo rafforzava invista di scontri. Tale uso non eraignoto nell’area etrusca villanoviana,come dimostra la scena plastica sulcoperchio e sulla spalla del cinerariodell’Olmo Bello di Bisenzio doveuomini nudi, con scudo e lancia, dan-zano attorno ad un animale sacro, ecome confermano a posteriori le piùrecenti immagini di cosiddetti pirri-chisti in armi nelle tombe etruscheaffrescate. Queste stesse fonti ci sug-geriscono anche l’ipotesi che gli scudi,almeno nella loro versione metallica–ovvero posteriormente alla metà del-l’VIII sec. a.C.- venissero usati come“strumento” per delle percussioni rit-miche che accompagnavano i riti reli-giosi e funebri. Tale attività è attestatanella Grecia geometrica, come si èvisto, da pitture su vasellame, dove gliscudi rotondi o “del Dipylon” vengonopercossi durante l’esposizione funebre(pròthesis); simili pitture geometriche–su un sonaglio- sono presenti in areaitalica a Sala Consilina144 in consonan-za con i passi letterari sui Salii romanipressoché coevi. Le danze di armatiebbero peraltro – come si vedrà piùoltre- una lunga tradizione in Etruria,attraverso un percorso ideologico cheda rito comunitario di attivazione psi-cologica a base di forti segnali sonori eritmici, andrà ad assumere le caratte-ristiche di uno spettacolo cerimonialeconnesso all’iniziazione maschile all’u-

so delle armi. Col VI e V secolo a.C.infatti, in Etruria, la danza in armi –ela percussione degli scudi con le lancedurante essa- conservando aspetticoreografici arcaici e valori ritualiguerrieri, diverrà una delle rappre-sentazioni spettacolari tenute durantele feste e le gare funebri145.Lo scudo quindi si pone, sino dalla suaorigine ed anche nell’Etruria villano-viana, come oggetto protagonista diquel complesso di eventi profani esacri che costituivano la guerra e lapreparazione ad essa all’inizio dell’etàdel ferro; la sua sacralità appare peral-tro anche nel mondo funerario, dove èprotagonista con l’elmo in sempre piùfrequenti deposizioni dall’VIII sec.a.C. Se infatti l’elmo, fittile o metalli-co, copre la bocca dell’urna cineraria,lo scudo -o la sua rappresentazione-copre sovente la bocca della cista o delpozzetto di sepoltura146.E’ di grande rilievo il profondo valoreescatologico dell’umanizzazione delcinerario, secondo il quale il vaso coni resti cremati del defunto va a restitui-re -in vario modo ma talvolta con veree proprie effigi quali i più tardi cano-pi chiusini- una “fisicità” perduta alcorpo arso: l’elmo a coperchio rendequindi umanoide il vaso, suggerendouna testa che sormonta il corpo-reci-piente. Nella tomba 85 di Verucchio(come è stato verificato anche in variesepolture a canopo nell’agro chiusino)sull’ossuario, pur coperto da una cio-tola, erano presenti

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“avanzi di un tessuto, tra le cui pieghe eranoinvolti i bottoncini di ambra, le tre fibulette apiccola sanguisuga e i resti delle tre a dragomaggiori e la più preziosa fibula ad arco ser-peggiante a rivestimento di segmenti anelli-formi di ambra e illeggiadrita da due serie didischetti”. (...) (Dunque) “il tessuto, evidente-mente la tunica in lino, che lo fasciava, veni-va simbolicamente a personificarlo”;

ma va ricordato che proprio sullabocca del dolio che conteneva questocinerario panneggiato era stato postoil coperchio ligneo che, probabilmen-te uno scudo, era “impiallicciato dalunghe ed esili stecche triangolaridisposte a ruota147”.Nella stessa località, nella necropolidi Le Pegge del villanoviano medio,la tomba n. 16 aveva il dolio copertoda uno scudo in lamina di bronzo,decorato a falsi rivetti e cerchielli;anche il già citato disco ligneo dallatomba B della necropoli verucchiesesotto la Rocca venne rinvenuto acoprire la bocca del dolio contenenteil cinerario148. Ancora, in molti casi di sepolture diincinerati

“a Vetulonia, per coperchio dei pozzetti vil-lanoviani, si son trovate lastre di pietra aforma di scudo. Questo rito funebre di rico-prire i pozzetti con scudi simbolici è caratte-ristico soprattutto a Vetulonia (...) Oltre agliscudi rotondi, per copertura dei pozzetti sitrovano qualche volta degli scudi simbolici aforma di cono. Questi coni di Sassofortino,da prima appena convessi da una parte e dipiccole proporzioni, poi di forma conica,accuratamente squadrati col compasso e

raggiungenti in alcune tombe a circolo pro-porzioni colossali, non solo si trovano comecoperchi di pozzetti di tipo villanoviano, maanche, e in gran numero, nel periodoseguente, in tombe a circolo di indubbiocarattere etrusco149”.

Oltre agli esempi citati di Verucchioin Romagna, anche l’area bolognesetestimonia di un simile uso: nellatomba Benacci 490 uno dei tre ossua-ri, originariamente dipinto, eracoperto da un disco convesso a scudo,in impasto. Questo reperto, databiletra la fine dell’VIII e gli inizi del VIIsec. a. C., è associato a altri cineraridi poco più recenti ed a oggetti di usomuliebre, i quali tuttavia non bastanoad indicare che si tratti di una sepol-tura femminile tout-court; potrebbeanzi trattarsi di una tomba a deposi-zioni multiple raggruppatesi attornoad una più antica, maschile.Altri due coperchi a scudo, decorati acerchi di stampiglie attorno ad unumbone centrale, provengono dalletombe bolognesi dell’Arsenale Milita-re n. 34 e 29, appartenenti al villano-viano maturo (VII sec. a. C.), a testi-monianza di un perdurare dell’usan-za di impiegare un coperchio-scudo.Peraltro l’uso di scudi simbolici sulletombe a pozzetto è attestato anche aChiusi, Orvieto, Tarquinia e Populo-nia150. Presenti spesso, durante l’VIIIed il VII sec. a.C., in coppie o in piùesemplari, gli scudi in terracottaappaiono in genere in tombe maschi-li con armi da offesa e carro e, secon-

do una teoria, venivano deposti inpiù repliche a ricordo di una “scorta”o “plotone d’accompagnamento” diguerrieri difesi appunto da scudi dicui avrebbe goduto il defunto invita151. Inoltre la riproduzione di scudi interracotta per uso funerario risultadiffusa non solo nell’Etruria villano-viana (come per gli elmi) ma anche inarea laziale e falisca (come anche inGrecia, dove talvolta questa classe direperti compare in luoghi di culto).Sulla base di tali oggetti il Minto152

ritenne che le rappresentazioni di cli-pei apparissero sull’apice degli elmipileati, su lastroni e su pietre conichea costituire una difesa apotropaica153,della quale non sarebbero che unosviluppo i colossali tumuli in terradelle tombe a camera orientalizzantied arcaiche, ideali “gigantografie”delle sepolture villanoviane a pozzet-to, e quindi sormontate da grandiosi“scudi” di terra. Secondo i rituali funerari villanovianipiù antichi, simbolicamente lo scudo,anche dopo la morte, poteva dunqueproteggere il corpo del defunto (sim-boleggiato dal cinerario) come l’elmone proteggeva la testa (collocato allasommità del cinerario umanizzato),estrinsecando una funzione magicache le armi sembrano avere svolto giàdurante la vita del proprietario.Alcuni confronti etnografici ci indica-no la diffusione, presso le società pri-mitive, dell’attribuzione di poteri

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Gli scudi

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La lancia, la spada, il cavallo

magici agli scudi in connessione almondo dei morti: presso gli Asmatdella Nuova Guinea

“prima di fabbricare il proprio scudo(ligneo) ogni guerriero sceglie l’antenato alquale lo vuole dedicare, poi si accinge all’o-pera. (...) Quando tutti gli scudi erano ter-minati (con una figura intagliata sull’ester-no) avveniva la cerimonia di “imposizionedel nome”. Gli Asmat si raccoglievano nelyeu (la Casa degli Uomini) e ciascuno, pre-sentando il proprio scudo, dichiarava l’ante-nato al quale esso era dedicato. Al terminedella cerimonia, grazie ai riti compiuti, gliscudi erano ritenuti «abitati» dagli antenati,sacri, e andavano trattati con molte precau-zioni. Prima e dopo l’uso essi restavano inpermanenza nel yeu. A volte, quando sitemeva che la Casa degli Uomini potesseessere colpita da influssi malefici, si ponevauno scudo all’ingresso del yeu affinché l’an-tenato che lo abitava proteggesse la Grandecapanna154”.

Del valore religioso e simbolico degliscudi anche nell’Italia centrale anticaè prova il fatto

“non (...) raro che tre scudi coprano l’interocorpo del defunto: scudi, sempre in numerodi tre, saranno tra i segni di prestigio deicorredi cosiddetti «principeschi» maschili (eeccezionalmente anche femminili) delperiodo orientalizzante, non più deposti sulcorpo però, ma addossati alle pareti della

tomba a fossa (...) L’importanza che le tra learmi assume lo scudo come indubbio sim-bolo di dignità può essere provata anche dalrinvenimento nell’abitato di Verucchio delladeposizione, considerata come offerta ritua-le, di tre scudi attribuiti a produzione tar-quiniese. Elmi e soprattutto scudi di bronzosono stati inoltre rinvenuti tra gli ex-votodei santuari panellenici di Delfi e Olimpia(...) rinvenimenti il cui significato è (...) perlo più come bottino di guerra dei Greci, manon si può del tutto escludere che si tratti diofferte da parte di Etruschi155”.

La deposizione di scudi bronzeianche in sepolture femminili è ineffetti documentata, seppure in varicasi piuttosto tardi, anche nelle Mar-che e nel Lazio, come ad esempionella ricca tomba 70 dell’Acqua Ace-tosa Laurentina156. Qui, come èovvio, lo scudo era in una versionesolo ornamentale (più che “da para-ta”), destinata a decorare la paretedella tomba forse secondo l’uso colquale gli scudi –a quanto attestanovarie tombe etrusche arcaiche acamera, sebbene più recenti- ornava-no le pareti della casa. Dunque l’in-tento sarebbe stato riprodurre unaricca casa abbellita da scudi decoratia sbalzo, tipici dell’abitazione di unafamiglia nobile: “di qui la loro pre-

senza in tombe femminili (…) sebbe-ne non sia da escludere anche unaparticolare valenza ideologica dalmomento che simili scudi sono usaticome coperchio del cinerario in duesepolture femminili a Cuma dellafine dell’VIII sec. a.C.157”.E’ di grande interesse infine osserva-re la presenza di scudi in laminametallica in contesti votivi; sono notiin Etruria, per ora, due soli ritrova-menti, molto lontani nello spazio–Verucchio e Tarquinia158- ma moltosimili per contesto. Si tratta infatti discudi deposti in fosse votive pressodelle aree sacre, fatto che ci rinviaall’uso già osservato degli scudi in ritie feste religiose, e che non solo con-ferma le fonti letterarie latine, ma viaggiunge interessanti dettagli. AVerucchio infatti si ebbe il ritrova-mento

“riferibile all’inizio del VII secolo, dall’areadell’abitato (…) di tre scudi in lamina dibronzo, decorati a sbalzo con motivi geome-trici, trovati ripiegati insieme all’interno diuna fossa, che è necessario ritenere votiva,specialmente dopo che uno scudo analogo èstato rinvenuto, insieme a strumenti simbo-lici come un lituo e un’ascia, in un’area sacradella Tarquinia della prima età orientaliz-zante159”.

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Note

1 Paolo Sommella, Pratica di Mare-Lavi-nium, in “Civiltà del Lazio primitivo”,Roma, 1976, pag. 295, tav. LXXV, 19.2 Giovanni Colonna, Gli scudi bilobati nel-l’Italia centrale e l’ancile dei Salii, Miscella-nea etrusca e italica, in “Archeologia Classi-ca” XLIII, pag. 55 e segg.3 Debbo la segnalazione di questo ogget-to a Margherita Gilda Scalpellini, curatri-ce della bella Esposizione Archeologicacastiglionese; a lei ed a Piero Fusi, dell’I-stituzione Culturale ed Educativa Casti-glionese, vanno i miei ringraziamentinon solo per questa segnalazione, maanche per la cordialità e l’ospitalità dimo-strata. 4 Se lo scudo di Brolio – Via del Portofosse coevo di quelli di Lavinium ciòcomporterebbe una importante revisionedella cronologia della stipe di Brolio, cuiil ritrovamento di via del Porto è statoricondotto; peraltro la deposizione votivadi armi in acque interne è effettivamentegià attestat, in zona, per l’età del bronzorecente: si ricorda che dal letto dellaChiana, nella vicina località Ponte di Fras-sineto, proviene la spada bronzea eponi-ma della classe, citata nel capitolo sullespade.5 Gilda Bartoloni, Anna De Santis, Ladeposizione di scudi nelle tombe di VIII e VIIsecolo a.C. nell’Italia centrale tirrenica, in“Preistoria e protostoria in Etruria” Mila-no, 1995, vol. 1, pag. 279.6 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit.,pag. 195.7 Minto, I clipei etruschi ed i problemi..., cit.,pag. 25 e segg.8 Z15A dai Quattro Fontanili, in “Not.

Sc.” 1096, pag. 171 e segg.9 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit.,pagg. 195-196.10 LL12-13 dai Quattro Fontanili, in“Not. Sc.” 1963, pagg. 241-248; ed inSaulnier, cit., pag. 28.11 Vedi Bartoloni, De Santis, La deposizio-ne di scudi, cit., pag. 278.12 Saulnier, cit., pag. 28.13 A. Talocchini, Le armi di Vetulonia ePopulonia, in “S.E.” XVI, 1942, pag. 31 esegg.14 Vedi Bartoloni, De Santis, La deposizio-ne di scudi, cit., pag. 277 e segg.15 Anche in Bartoloni, Berardinetti,Cygielman, De Santis, Drago, Pagnini,cit., pag. 69.16 Bartoloni, De Santis, La deposizione discudi, cit., pag. 277.17 Ducati, La Situla della Certosa, cit., pag. 28.18 Vedi Sagramora, Le armi dei Veneti Primi,cit., pag. 117 e segg., e pag. 171 e segg.19 Warry, Warfare in the classical world, cit.,pag. 135.20 Fossati, cit., pag. 30.21 Sala 3 del Museo Nazionale di Antro-pologia ed Etnologia di Firenze.22 Bartoloni, De Santis, La depozsizione discudi, cit., pag. 278.23 Talocchini, cit., tav. VI m 31a, b; 32.24 Gentili, Il Campo del Tesoro..., cit., pag.233.25 Fossati, cit., pag. 30.26 Vedi, a cura di Lionello G. Boccia, Armidifensive dal Medioevo all’Età Moderna,Dizionari terminologici n.2, Firenze,1982, pag. 40.27 Gentili, Il Campo del Tesoro..., cit., pag.229 n. 39.28 Gentili, L’età del ferro a Verucchio..., cit.,pag. 24 e tavv. 6a, 6b.29 Oggi al Museo Nazionale di Copenha-

gen; vedi Rolf Hachmann, I Germani,Ginevra, 1975, tavola 12.30 Marco Balbi, L’esercito longobardo 568-774, Milano 1991, pag. 38.31 Balbi, cit., pag. 42. Lignei erano inoltrevari scudi oplitici secondo Hanson, L’arteoccidentale della guerra, cit., pag. 75, ilquale osserva che “non conosciamo conesattezza lo spessore e il tipo di legnousato (...) il peso è stato però valutato incirca otto chilogrammi”.32 Giuseppe Moscardelli, Cesare dice – Unalettura del Bellum Gallicum, Roma, 1996,pag. 49.33 Vedi De Florentiis, cit., pag. 67.34 Sen. Hell. II, 4, 25; Tuc. IV, 91; vediHanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 68-69.35 Warry, Warfare in the Classical world, cit.,pag. 38.36 E. V. Cernenko, The Scithians 700-300BC, London, 1983, pag. 8.37 Saulnier, cit., pag. 28..8 Giacché le misure ed il materiale usatonella scultura sembrano indicare piutto-sto una semplice deformazione involon-taria ad opera del figulo.39 Botto Micca, Omero medico, cit., pagg.45-46, 62-63.40 Vedi materiale didattico esposto alMuseo di Antropologia ed Etnologia diFirenze, Sala 1, Vetrina Abissinia.41 Veio, Quattro Fontanili, tomba AA1;Veio, Casal del Fosso, tomba 1036; in AA.VV., Dizionari terminologici, materiali dell’e-tà del bronzo finale e della prima età del ferro,Firenze 1980, tav. CXXI nn. 3 e 4.42 Vedi materiale didattico esposto alMuseo di Antropologia ed Etnologia diFirenze, Sala 1, Vetrina Abissinia.43 Per le misurazioni, le decorazioni, ilpeso ed altri dettagli chi scrive si è valso

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di tre esemplari nella sua collezione pri-vata, risalenti tra la fine dell’Ottocento ela prima metà del Novecento, e di tipidiversi: uno ha lamelle ornamentali inargento e fodera interna in pelle rossa;uno è privo di applicazioni metalliche madi ampio diametro, uno è privo di lamel-le e di piccolo diametro. In tutti e tre icasi il pelame è molto scuro e resistente.44 Vedi Botto Micca, Omero medico, cit.,pag. 46 e pagg. 62-63. 45 Vedi a cura di Boccia, Armi difensive dalMedioevo…, cit., pag. 39.46 Fossati, cit., pagg. 30-32.47 Vedi materiale didattico esposto alMuseo di Antropologia ed Etnologia diFirenze, Sala 1, Vetrina Abissinia.48 Fossati, cit., pagg. 30-32.49 T. R. Hobbs, L’arte della guerra nella Bib-bia, Alessandria, 1997, pag. 108.50 Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 46.51 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 142.52 John Coles, Archeologia sperimentale,Milano, 1981, pag. 141.53 Coles, cit., pag. 142.54 W. Ridgeway, The Early Age of Greece,C.U.P., Cambridge, 1901, pagg. 468-469.55 Riguardo il cuoio, sarà bene ricordarecome “la cute o pelle degli animali ècostituita da tre strati: lo strato esterno oepidermide, lo strato mediano o corium,lo strato interno di carne o tessuto adipo-so; il cuoio viene ottenuto dallo stratocentrale, dopo la rimozione degli stratiinterno ed esterno, mediante ammollo,frizione, macerazione e raschiatura. Lavera pelle così ottenuta consiste essenzial-mente in collageno proteico, composto difibrille, fibre e fasci fibrosi, tutti tenutiinsieme da una struttura connettiva; que-sta combinazione dà alla pelle le suecaratteristiche di forza e flessibilità”. Da

Coles, cit., pag. 142.56 Coles, cit., pag. 143.l57 Coles, cit., pagg. 143-144.58 Coles, cit., pag. 144.59 Lionello G. Boccia, Hic iacet miles, in“Guerre e assoldati in Toscana 1260-1364” Firenze, 1983, pag. 89.60 Coles, cit., pagg.144-145.61 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia,cit., pag. 108.62 Coles, cit., pag. 145.63 Warry, Warfare in the classical world, cit.,pag. 38.64 Bartoloni, De Santis, cit., pagg. 278-279.65 Vedi Alessandro Bedini, Abitato protosto-rico in località Acqua Acetosa Laurentina, in“Archeologia a Roma – la materia e la tec-niva nell’arte antica”, Roma, 1990, pag.64.66 In “Not. Sc.” 1970, pag. 178 e segg.,fig. 76.67 In Muller-Karpe, Beitrage zur Chronolo-gie der Urnenfederzeit nordlich und sudlichdel Alpen, Berlino, 1959, tav. 38.68 Hugh Hencken, Tarquinia, Villanovansand Early Etruscans, I, London, 1968, fig.406.69 Bedini, Abitato protostorico in localitàAcqua Acetosa Laurentina, cit., pag. 64.70 Fossati, cit., pag. 30.71 Saulnier, cit., pag. 30.72 Fossati, cit., pag. 30; illustrazione apag. 33.73 Hencken, Tarquinia, Villanovans..., cit.74 Vedi Bartoloni, e Santis, La deposizionedi scudi nelle tombe, cit., pag. 280.75 Per verificare la somiglianza di certiornati con lo schema di intreccio deivegetali ho fatto ricorso ad un disco divimini, dal diametro di circa 40 cm, appo-sitamente realizzato per me dal sig.

Arnaldo Bernardini, che ringrazio quiper la sua collaborazione, assieme allasig.ra Loretta Pampaloni, che si è fattacarico di commissionare tale lavoro, e chemi ha in molti altri modi aiutato nelle miericerche.76 Saulnier, cit., pag. 51.77 Saulnier, cit., pag. 30.78 Bedini, Abitato protostorico in localitàAcqua Acetosa Laurentina, cit., pag. 64.79 Bergonzi, Etruria-Piceno-Caput Adriae:guerra e aristocrazia nell’età del Ferro, cit.,pag. 60 e nota 3.80 Secondo l’uso protostorico dei riposti-gli di bronzi.81 Ad un valore di simbolo di valentia agliocchi del nemico, e non solo di benessereeconomico connaturato alle armi difensi-ve, fanno riferimento Snodgrass, in Armi earmature dei Greci, cit., e Robert Drews, Theend of the bronze age, changes in warfare andthe Catastrophe c.a 1200 b. C., Princeton,1993,, parlando dell’elmo miceneo rivesti-to di zanne di cinghiale; il primo rilevacome esso “costituiva inoltre un segnodistintivo di prodezza nella caccia: occor-reva infatti uccidere ben trenta o quarantacinghiali per procurarsi il numero dizanne necessario a fabbricare un elmo”(Snodgrass, Armi e armature dei Greci, cit.,pag . 21). Il secondo fa eco osservando chei portatori di tale elmo “are obviously war-riors of high status (the tusks of more thanseventy boars were required to make a sin-gle helmet)” (Drews, cit., pag. 140).82 Fossati, cit., pag. 32.83 Hanson. L’arte occidentale della guerra,cit., pag. 81.84 Hanson, The other Greeks, cit., pag. 300.85 Hanson. L’arte occidentale della guerra,cit., pag. 76.86 Coles, cit., pag. 145.

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La lancia, la spada, il cavallo

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87 Vedi Bedini, Abitato protostorico in locali-tà Acqua Acetosa Laurentina, cit., pag. 64.88 Vedi Capretti, Il mondo tecnologico e mili-tare villanoviano, cit., pag. 28.89 Vedi Botto Micca, Omero medico, cit.pag. 46.90 Vedi Bartoloni, De Santis, La deposizio-ne di scudi nelle tombe, cit., pag. 277.91 Vedi Bartoloni, De Santis, , La deposizio-ne di scudi nelle tombe, cit., pag. 277; Bedi-ni, Abitato protostorico in località Acqua Ace-tosa Laurentina, cit., pag. 64.92 Vedi Bedini, Abitato protostorico in locali-tà Acqua Acetosa Laurentina, cit., pag. 64.93 Vedi Bartoloni, De Santis, , La deposizio-ne di scudi nelle tombe, cit., pag. 277.94 Vedi Bartoloni, De Santis, , La deposizio-ne di scudi nelle tombe, cit., pag. 277.95 Drews, cit., pagg. 177-178.96 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia,cit., pag. 71.97 Vedi Hanson, The other Greeks, cit., pag. 224.98 Hanson. L’arte occidentale della guerra,cit., pag. 76.99 Hanson, The other Greeks, cit., pag. 228.100 David Ridgeway, L’alba della MagnaGrecia, Milano, 1992, pag. 167.101 Agricola, XXXVI.102 W. Donlan, J. Thompson, The Chargeat Marathon, in “Classical Journal” n. 71,1976, pag. 341.103 Taylour, I micenei, cit, pag. 166-167.104 Si veda per la seconda ipotesi MariaCristina Guidotti, Franca Pecchioli Daddi,Giacomo Cavillier, Edda Bresciani, SilvioCurto, Qadesh 1275 a.C. – Fu vera gloria?,in “Archeologia Viva” n. 95, settembre-ottobre 2002, pag. 44.105 Drews, cit., pag. 179.106 Raymond Bloch, Le origini di Roma,Milano, 1977, pag. 141 e segg.107 Bloch, Le origini..., cit, pag. 142. Tale

ipotesi di diffusione in Italia dello scudoa “8” e dei suoi derivati -kardiophylakes edischi-corazza- non è condivisa dalColonna. Vedi Giovanni Colonna, Su unaclasse di dischi-corazza centro-italici, in“Aspetti e problemi dell’Etruria interna”,Firenze, 1979, pag. 193 e segg.108 Taylour, I micenei, cit, pag. 166.109 Pietro Janni, Il mondo di Omero, Bari,1975, pagg. 156-159.; Konstantinos P.Kontorlis, Mycenean civilisation, Atene,1974, pagg. 25-26; A. M. Snodgrass, Learmi e le armature dei Greci, cit., pagg. 22-23.110 Botto Micca, Omero medico, cit. pag. 45.111 Drews, cit., pag. 178. Ai grandi scudicilindrici dei poemi omerici, dunqueassenti in Etruria anche per il tipo di tat-tica militare che presuppongono, vannoinvece strutturalmente avvicinati quegliscudi in uso presso alcuni popoli primiti-vi attuali, come ad esempio presso gli abi-tanti delle Isole Engano (nella Malesia, allargo di Sumatra) dove erano in uso gran-di scudi curvi, ricavati da una sezione ditronco d’albero. Tali armi difensive aveva-no una base dritta ed un margine supe-riore arcuato -ornato da intagli- con uningombro frontale di circa 60-70 cm edun’altezza di 160-170 cm; dopo averlopiantato a terra, i combattenti vi sinascondevano dietro, armati di lance elunghi coltelli ad un tagliente. E’ interes-sante osservare che, per la statura deipopoli delle Engano, uno scudo di taliproporzioni, pur molto pesante, era difatto più che sufficiente a coprire intera-mente la sagoma di un uomo. Per tali datisi vedano i materiali al Museo Nazionaledi Antropologia ed Etnologia di Firenze,sala 22, e si confrontino con Snodgrass,Le armi e le armature dei Greci, cit., pagg.

22-23. Il fatto che un tale, pesante scudosia associato ad altre armi da difesa edoffesa che non sembrano suggerire la pre-dilezione per truppe “pesanti” e lente, cimostra quanto in realtà, in assenza ditanti reperti deperibili, le nostre azioniricostruttive siano ipotetiche e fragili.112 Snodgrass, Le armi e le armature deiGreci, cit., pag. 22.113 Warry, Warfare in the classical world, cit.,pag. 13, con bella tavola in sezione.114 Vedi Taylour, I Micenei, cit., pag. 165ill. 127.115 Vedi Boccia, Armi difensive dal Medioe-vo…, cit., pag. 40.116 Snodgrass, Le armi e le armature deiGreci, cit., pag. 55.117 Drews, cit., pag. 178.118 Botto Micca, Omero medico, cit., pagg.129-130.119 Vedi M. Tombolini, in Prima Italia,Roma, 1981, pag.35.122 Hencken, The earliest European helmets,cit., pag. 113, fig. 83.121 Vedi AA.VV., Il Museo Nazionale Etruscodi Villa Giulia, Roma, 1980, pagg. 32-33.122 Giovanni Colonna, Gli scudi bilobati del-l’Italia centrale e l’ancile dei Salii, in“Miscellanea Etrusca ed Italica in onoredi Massimo Pallottino”, Arch. Class.XLIII, pag. 55 e segg.; Bartoloni, De San-tis, La deposizione di scudi nelle tombe, cit.,pag. 277.123 Bartoloni, De Santis, La deposizione discudi nelle tombe, cit., pag. 278. 124 Taylour parla di probabile impiego solonei secoli XVI e XV in Grecia, e che ledescrizioni dell’Iliade sono “vaghe e confu-se”: vedi Taylour, I Micenei, cit. pag. 166.125 Vedi Snodgrass, Armi e armature deiGreci, cit., pag.55.126 In Snodgrass, Armi e armature dei Greci,

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Gli scudi

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La lancia, la spada, il cavallo

cit., fig. 16.127 Vedi Snodgrass, Armi e armature deiGreci, cit., pag. 55.128 Ann Hyland, Training the RomanCavalry, from Arrian’s Ars Tactica, London,1993, pag. 94; si vedano anche le pagine144 e 145.129 Vedi l’Eroe Lilliu da Teti, loc. Albini, alMuseo di Cagliari.130 Vedi AA.VV., L’art des Peuples Italiques,Genève, 1993, pag. 388.131 I quali ricorrevano invece alla piastrapettorale. Tronchetti, L’iconografia del pote-re nella Sardegna arcaica, cit., pag. 208 e214.132 Non così improbabili, dal momentoche spesso è difficile distinguere nell’Ilia-de le descrizioni di scudi “ad 8”, “a torre”,e rotondi per materiali impiegati, per usoe per ornato: da ultimo lo stesso BottoMicca, più volte citato, incorre in questoerrore, e il non distinguere uno scudo constrozzature da uno rotondo porta a imma-ginare scudi del genere di quello “delDipylon”.133 Tale ipotesi non può essere smentitadal solo fatto che non si hanno in occi-dente reperti conservati precedenti il1000, giacché è stato rilevato e dimostratoche esistevano anche tra IX e VI sec. a. C.moltissimi scudi in materiali deperibili.134 Drews, cit., pag. 104 e segg.135 Tuttavia, visto quanto si è osservatonella precedente nota 109 sulla tatticastatica dei popoli delle isole Engano chehanno comunque armi offensive leggeree gruppi sociali ristretti, tale ipotesi sullacontrapposizione tra Occidente edOriente antico necessita di molto lavoroper essere suffragata. Inoltre la concomi-tanza, nelle fasi tardo elladiche, delle pre-

senze micenee in Italia e nel Mediterra-neo occidentale, ed insieme dell’arrivonel Mediterraneo orientale di “popoli delMare” quali Shardana, Shekelesh, Tursha(dalle iscrizioni di Karnak per il faraoneMerneptah), portatori in quelle terre diun armamento ed una tattica che risulta-rono vincenti, potrebbe spiegare come lafortuna delle armi micenee sul suolo itali-co sia stata molto esigua, e più che altrolimitata a simbolo o pegno.136 Vedi in Cristofani, Gli Etruschi del mare,cit., pag. 12; e Drews, cit., pag. 218.137 Bruno D’Agostino, Dal Submiceneo allacultura geometrica: problemi e centri di svi-luppo, in “Storia e civiltà dei Greci - Ori-gini e sviluppo della città - il Medioevogreco”, Milano, 1993, pag. 151.138 Si veda il capitolo sulle navi da guer-ra; per epoche precedenti si veda Drews,cit., pag. 218.139 Vedi F. E. Adcock, The Greek and Mace-donian art of War, Berkeley-Los Angeles1957, pag. 29.140 “Don’t hang your free hand out tryingto grab your opponent’s knife hand.Against a skilled opponent that extendedhand becomes a target and you can lose afew fingers that way”. Vito Quattrocchi,The sicilian blade – The art of Sicilian Stilet-to Fighting, El Dorado, 1993, pag. 50.141 Vito Quattrocchi, The sicilian blade, cit.,pag. 51 e tavole esplicative pag. 52.142 Vedi Jacques Harmand, L’arte dellaguerra nel mondo antico, Perugina, 1981,pag. 86.143 Bloch, Le origini..., cit., pagg. 140-141.144 Bartoloni, De Santis, La deposizione discudi nelle tombe, cit., pag. 280. 145 Maurizio Martinelli, Psicologia e conflit-ti: viaggio alle origini nell’Italia protostorica,

in corso di stampa.146 Minto, I clipei etruschi ed i problemi...,cit.147 Gentili, in Il Campo del Tesoro..., cit.,pag. 233.148 Gentili, L’età del ferro a Verucchio..., cit.,pagg. 22 e 24. Alla funzione del centrovillanoviano di Verucchio quale “testa diponte” dell’Etruria verso l’area medio-adriatica e umbra, usando la costa e ledirettrici fluviali, è ritenuta dovuta la pre-senza di questo coperchio “con scene dicaccia cui partecipano guerrieri armati dilancia e scudo, che ricordano lo scudodella tomba 3 di Fabriano, nelle Marche.Vedi Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in ValPadana, cit., pag. 104.149 Talocchini, cit., pagg. 31-32.150 Talocchini, cit., pag. 31.151 Vedi Bartoloni, De Santis, La deposizio-ne di scudi nelle tombe, cit., pag. 280-281, 152 Minto, I clipei etruschi ed i problemi...,cit., pagg. 25-58.153 Saulnier, cit., pag. 28.154 Paolo Grossi, Asmat, uccidere per essere -miti e riti dei cacciatori di teste della NuovaGuinea, Milano, 1987, pagg. 95 e 97.155 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit.,pagg. 196-197.156 Alessandro Bedini, L’insediamento dellaLaurentina – Acqua Acetosa, in “Roma 1000anni di civiltà”, Roma, 1992, pag. 86.157 Bedini, Abitato protostorico in localitàAcqua Acetosa, cit., pag. 64.158 Su Tarquinia si veda Maria BonghiJovino, Cristina Chiaromonte Treré, Tar-quinia, Testimonianze archeologiche e rico-struzione storica. Scavi sistematici dall’abitato.Campagne 1982-1988, Roma, 1992.159 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in ValPadana, cit., pag. 53.

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Per la difesa del corpo del combat-tente nell’area etrusco-laziale e nell’I-talia centrale della prima età delferro erano in uso, oltre allo scudo,anche altri elementi metallici, peral-tro poco diffusi e concettualmentesimili al “disco-corazza” di altre zonedell’Italia centro-meridionale, tra iquali la piastra pettorale o kardiophy-lax. Si tratta di una piastra bronzea ingenere rettangolare o subrettangola-re, a margini simmetricamente curvi,destinata a proteggere, come indica ilnome ellenico, l’area cardiaca; essacostituisce un’innovazione1 che appa-re in area etrusco-villanoviana tra il760 ed il 720 a. C., all’incirca in con-temporaneità con gli scudi in laminabronzea. Lo studio del De Marinis2 ha distintola classe essenzialmente in due tipi:quello “A” con larghezza massima oltrei 27 cm, di forma base ellittica, latiuguali a coppie opposte -sia concavi

che convessi-, privo di decorazioni; equello “B” con una larghezza al disotto dei 25 cm, di forma base qua-drangolare, lati ancora uguali a cop-pie ma con abbinamenti di lati rettili-nei/concavi o rettilinei/convessi, super-

ficie decorata a sbalzo o bulino.Entrambi i tipi potevano avere fori peril fissaggio a vesti, corsetti o cinghie3.I non numerosi esemplari provengo-no principalmente dall’Etruria meri-dionale e dal Latium; il pettorale tar-

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Corazzature e schinieri

Due esempi di piastre pettorali del tipo "A" del De Marinis, rispettivamente -a sinistra- di provenienza ignota, oggi disperso, e -a destra- dalla tomba 25 di Bolsena La Capriola - Roma,Museo di Villa Giulia

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quiniese dalla tomba M 9 dei Monte-rozzi4, di tipo “B”, è costituito da unrettangolo di circa 18x16 cm con duelati convessi, lungo ciascuno dei qualisi trovano tre fori destinati a fissarload un supporto; la decorazione consi-ste in puntolini e cerchielli. Ancorada Tarquinia proviene il pettoraledella tomba del Guerriero ai Monte-rozzi, di tipo “A”5, risalente attorno al700 a. C.; questo pettorale rettango-lare, con due lati concavi e due con-vessi, misura ben 27x30 cm ed èdecorato da una placca d’oro o dielettro. Fu rinvenuto ancora sul pettodel guerriero inumato, sotto lo scudo,e reca cinque fori su ciascuno dei laticonvessi, anche in questo caso per ilfissaggio ad un supporto.

Due esemplari romani (dalla necro-poli dell’Esquilino, tombe LXXXVI6

eXIV7) sono assai simili tra loro ericordano da vicino, per l’ornato, ilpettorale più antico dai Monterozzi,cui si avvicinano anche per le misure,attorno ai 12x16 cm; i lati sono peròtutti convessi. Il reperto della tombaXIV ha vari fori passanti sul margine,lungo tutto il perimetro, mentrequello dalla tomba LXXXVI ne hasolo tre sui lati brevi.Misure simili (cm 16,8 x 14,5/12,1)presenta anche il kardiophylax reperi-to nella Tomba del Guerriero diPrato Rosello, ad Artimino. La plac-ca, coi lati brevi rettilinei e quelli lun-ghi concavi, reca lungo ognuno deilati corti tre fori. Affine per alcuni

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La lancia, la spada, il cavallo

Due esempi di piastre pettorali del tipo "B" del De Marinis, rispettivamente -a sinistra- dalla tombaXIV di Via Lanza a Roma, e -a destra- dalla tomba LXXXVI della stessa necropoli -Roma, Antiquarium Comunale.

Nelle foto, la tomba U1 delle Ripaie a Volterra,ed un particolare della piastra pettorale dallatomba - Volterra, Museo Guarnacci

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aspetti ad un esemplare veiente (daiQuattro Fontanili) ed a quello volter-rano dalla Tomba V1 delle Ripaie(fine dell’VIII sec. a.C.), la piastra diPrato Rosello è oggi il pezzo più set-tentrionale nell’Etruria propria ditale categoria di armi difensive8.Peraltro da Verucchio provengonovari probabili frammenti di piastra edun pettorale rotondo era nella tomba899.I pettorali veienti si differenziano daquelli sinora descritti per essere costi-tuiti da due lamine uguali, accoppiategrazie a chiodini dalla testa appiatti-ta; quello dalla tomba Z 15A deiQuattro Fontanili10, di cm 16,5x20,ha due lati concavi e due convessi,con un sottile ornato geometricolungo il bordo, mentre quello dallatomba Z 1alfa della stessa necropoli,di cm 14,3x12,5, ha tre lati concavied uno retto. Semplicemente rettan-golare è la doppia lamina dallatomba 78 di Poggio dell’Impiccato diTarquinia; la faccia anteriore -decora-ta da tre sbalzi con cerchi concentricie da doppia puntinatura lungo ilmargine- e quella posteriore sonounite grazie al ripiegamento deibordi. Cinque fori per ciascun latolungo offrivano la possibilità di fis-saggio ad un supporto deperibile11.La conformazione degli esemplariveienti, formati da due lamine, siavvicina a quella di due pettorali delVII-VI sec. a. C. da Lavello in Luca-nia, ciascuno dei quali appunto a

doppio strato ed unito da tre rivetti;negli esemplari lucani

“la diretta sovrapposizione delle due laminemetalliche fa escludere la presenza interme-dia di un’imbottitura di materia organica.Nonostante la leggera differenza di dimen-sioni12, non è improbabile che questi dueoggetti fossero in realtà applicati ad ununico elemento difensivo (forse una casac-ca?) e servissero a proteggere il cuore daentrambi i lati del torace”13.

Anche se la scultura detta “Guerrierodi Capestrano” documenta l’uso itali-co di sospendere il pettorale a dellecinghie passanti per il petto, comesembra accogliere la Bartoloni ancheper l’Etruria meridionale14, sia per il

tipo a doppia lamina (con esemplaridotati di ribattini ma privi di fori diaggancio) sia per quello a lamina sin-gola si ipotizza che tale tipo di ogget-ti potesse essere anche “cucito su unacasacca di cuoio15”. Secondo alcuni, infatti, la piastra pet-torale veniva collocata su un corsettoo su una casacca, in cuoio o in stoffa,“facendo attenzione che le due con-cavità maggiori fossero rivolte unaverso l’alto e una verso il basso,lasciando così liberi i movimenti delcollo e della vita16”. In realtà talericostruzione è da rifiutare, vista lacollocazione dei fori sui lati convessio diritti delle piastre, e di conseguen-za il posizionamento di queste –chetalvolta potevano essere appese ad unbalteo- doveva essere coi lati concaviverso le braccia, per lasciare liberi imovimenti dei muscoli del pettoassieme a quelli delle braccia stesse.Un ultimo esemplare di piastra pet-torale, ancora della prima età delferro, è quello proveniente da Bolse-na La Capriola17, dove la tomba 25ha restituito un particolare pettoraledalla forma a disco con due incavisemicircolari assiali; inizialmentequesto oggetto fu confuso con unoscudo di piccole dimensioni18 manon sfuggì come la foggia del reper-to si accosti sommariamente a quelladegli scudi “del Dipylon”, ed in parti-colare al pur più recente scudo ritrat-to su una delle note lamine peruginedestinate al rivestimento di un carro.

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Corazzature e schinieri

Ricostruzione delle difese indossate dal guerriero di Capestrano

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I suoi margini arrotondati superioreed inferiore recano rispettivamente15 fori per il fissaggio ad un suppor-to, ritenuto una cinghia o balteo.Oltre al balteo singolo, comunque,era possibile il fissaggio “ad un paiodi bretelle di cuoio passanti sullespalle e fissate sul davanti e sul retroad una cinghia19”.Va evidenziato, a questo punto, che ilkardiophylax, inteso come placca pro-tettiva in senso lato, non risulta esse-re stato un oggetto esclusivo dell’areaetrusca villanoviana, ma come si èosservato compare anche nelle zoneitaliche, come nel Lazio, nelle Mar-che, in Lucania, nell’Abruzzo ed invarie altre zone, quali la Sardegna.Nell’area italica centro-meridionalesono diffusi, in luogo delle piastrepettorali, degli oggetti quali i dischi-corazza, connessi per l’uso con i kar-diophylakes e come essi segno di eleva-to prestigio del portatore. Gli esem-plari noti nell’area abruzzese, oltreun centinaio per un periodo chescende al di sotto della prima età delferro, si caratterizzano per la presen-za su di essi, come sugli scudi lamina-ti villanoviani e orientalizzanti, diuna pregevole decorazione geometri-ca20. Tali oggetti -la cui classe è atte-stata peraltro sino in Umbria e nel-l’Etruria come in varie altre zone ita-liane21- erano fissati con chiodi pas-santi ad un balteo che poggiava sullaspalla destra del guerriero proteg-gendo, in coppia, uno il petto ed uno

il dorso, come attestano le sculturedel Guerriero di Capestrano, già cita-ta, e del Guerriero di Guardiagrele22.Il Guerriero di Capestrano portavadei baltei diversi sulle spalle, di cuiquello della spalla destra si combina-va con un altro balteo destinato asostenere, tra petto e ventre, la cortaspada23. In Abruzzo sono inoltre atte-stati vari dischi-corazza più tardi,dove la parte del balteo a ridosso deldisco (o tutto il balteo) è in metallo,con una cerniera di giunzione ed ungancio di chiusura24.Un bell’esempio di 22 cm di diame-tro reca una stella centrale su umbo-ne, cerchi di puntini e 5 pannelliquadrati con croci uncinate, oltre atre chiodi distanziati su un lato e dueravvicinati, sul lato opposto, per lasospensione25. L’esemplare al MuseoStibbert di Firenze, dal diametro dicirca 25 cm, è decorato da cerchi con-centrici e puntinature, simili all’orna-to degli scudi in lamina bronzea diarea etrusca; su un lato reca tre grup-pi di due fori, probabilmente per unattacco di sospensione multiplo elargo, mentre al lato opposto si trovauna sola coppia di fori26.Il disco-corazza italico poteva averetalora dei rientri lungo il margine,affini a quelli del pettorale da Bolse-na ed a quelli degli scudi “del Dipy-lon”; in questi casi esso dunque “potrebbe (...) imitare uno scudo a rientran-ze laterali, tipo Dipylon, così come i dischi-corazza a decorazione geometrica, costante-

mente privi di rientranze, imitano probabil-mente gli scudi rotondi villanoviani. Questerudimentali difese sono concepite comedegli scudi applicati direttamente al toracee tenuti a posto dal balteo27”.

Ad un esame più attento dell’interaclasse, lo stesso Colonna ha rilevatocome la genesi dei dischi-corazzaveda probabilmente come capostipitile piastre pettorali o kardiophylakesquadrangolari villanoviane, i cui lati,forse con l’influenza degli ancilia, sifanno progressivamente arrotondatie rientranti28:

“Il progressivo allargamento del pettorale,che assume una forma sempre più arroton-data, con parallelo restringimento dellerientranze laterali, si attiva a mio avvisosotto la suggestione dei dischi circolari adecorazione geometrica, imitati dagli scudivillanoviani29”.

I dischi-corazza etruschi ed italicipresentavano inoltre, come talunepiastre pettorali, dei ribattini passan-ti, atti nel loro caso a fermare un rin-forzo a nastro anulare sul retro. L’e-semplare singolo dalla tomba 25 diBolsena La Capriola consente, graziead una fascetta posteriore di rinforzo,di ricostruire la larghezza del balteo,che era di 14 cm. E’ stato ipotizzato30

che in quel caso ed in qualche altro ilbalteo fosse protetto da rivetti (a Bol-sena in numero di 49), a formare una“cintura chiodata” di sostegno allapiastra ed insieme di protezioneanch’essa per il guerriero. La fortuna

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delle piastre appese a cinghie incuoio perdurerà in ambiente italico alungo, sino a giungere all’armamentodella classe di gladiatori romani defi-niti provocatores31. Questi, in partico-lare, continuavano a portare una pia-stra fissata, attraverso due fessure, aduna fascia di cuoio trasversale al cen-tro del petto, alle cui estremità latera-li erano fissate due bretelle in cuoiopassanti per le spalle, fissate in vitaad una cintura32.Presso altre popolazioni italiche,come i Sardi, erano diffuse delle pro-tezioni per il busto quali corazze incuoio e placche pettorali; dall’icono-grafia dei bronzetti nuragici si ricavache la corazza era un corsetto senzamaniche, o a maniche molto corte,lungo fino al basso ventre. Talvolta inassociazione era prevista la piastrapettorale, la cui forma è assimilabile–probabilmente in modo non casua-le- a quella diffusa nell’Etruria villa-noviana, ovvero rettangolare a latidritti e concavi a coppie. E’ degno dinota il fatto che statisticamente, neibronzetti di armati, almeno una com-ponente dell’”armatura” da indossa-re era sempre presente, con una fre-quenza pari solo a quelladell’elmo/copricapo. Fissata allacasacca al centro del petto, la piastraera sempre utilizzata dagli arcieri,che non potendo impugnare lo scudoricorrevano unicamente alle difeseindossate per la loro protezione33.Diversamente che in Sardegna, la

complessiva rarità dei ritrovamenti dipettorali metallici in Etruria fa di essidegli oggetti non diffusi a tappeto, esi può supporre che “i villanoviani siservissero anche di protezioni dicuoio o di tessuto imbottito”34. D’al-tra parte già in ambiente miceneo,durante l’età delle tombe a fossa, latomba V di Micene aveva restituito unframmento di lino composto da ben14 strati sovrapposti di tela, a forma-re un saldo corsetto; dopo il periodopalaziale e le sue armature in laminabronzea si tornò in Ellade, dalla finedel XIII sec. a. C., all’uso di corsetti -presumibilmente in cuoio con orli inlamina bronzea- dall’aspetto semiri-gido, rinforzati da dischetti di bronzoapplicati, come se ne vedono sul Vasodei Guerrieri da Micene35. Corsetti inpelle sono ipotizzati anche per i capimilitari delle città della Ionia duran-te il Medioevo ellenico36 e peraltrogli ausiliari hittiti sul rilievo di Luxordella battaglia di Qadesh vestono unabito protettivo “possibly (...) made ofleather rather than of linen, butobviously they were not covered withmetal scales”37.L’impiego di un materiale apparente-mente poco robusto, come il lino,non deve stupirci, giacché esso risul-ta usato per tuta l’antichità, ed anchenel Medioevo. Nell’Iliade Aiace Oileo–capo di arcieri e frombolieri- portaproprio questo genere di corazzadetta linothòrex (Iliade II, 529), tipicadegli armati alla leggera; si tratta di

un elemento che è stato definito“tipicamente miceneo ed orientale,se viene ancora in Omero attribuitoad eroi Troiani -Iliade II, 830-38”.Alceo, nel frammento Z 34, elenca lecomponenti dell’armatura, e tra essericorda “i corsaletti di lino nuovo”(thòrrakes te nèo lìno)39.La stessa linothòtex era vestita ancoraattorno al V sec. a.C. dalla maggiorparte degli opliti greci, che trovavanopiù leggero –e ben più economico-questo corsetto “made up of nume-rous layers of linen or stiff shirt (…)This wrapped around the body andwas laced together on the left-handside, where the join was protected bythe shield40”.Ugualmente, ma nel Basso Medioevoe nel Rinascimento,

“a partire dai primi anni del Trecento si puòriscontrare una tendenza ad organizzare gliinsiemi protettivi secondo criteri diversi (...)ed in Toscana (c’è) un certo gusto mediter-raneo per i materiali leggeri (...) un discor-so a parte è poi costituito dall’uso di telegessate e cuoio cotto rilevati e dipinti, usoperpetuantesi in Toscana per tutto il XIV eXV secolo41”.

L’elenco dei cosiddetti “vestimentiguerreschi” medievali e rinascimen-tali in tessuto è piuttosto ampio, matra essi vale la pena di ricordarealmeno la “veste a costure”: si tratta-va di una “antica sorta di veste lungadal collo sino allo stinco, senza mani-che, talora aperta dinanzi e dietroper cavalcare, in più strati di cano-

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vaccio o tela forte, sovente imbottita,costurata. Si poteva portare sotto l’u-sbergo o da sola42”. Ancora nel 1713,elencando le componenti dell’arma-tura dei partecipanti al Gioco delPonte di Pisa, si ricordava che sotto ilcorsaletto metallico “costumavasiportare un giubbone di cuojo, o ditela imbottito di crine cotto, che daalcuni ancora di presente si prati-ca43”. Anche sulla scorta dei confronti conle altre realtà mediterranee antichecitate, dunque, la probabile presenzain Etruria ed in area italica di corset-ti di cuoio o di tela –rinforzata a stra-ti o gessata- per supporto alle piastrepettorali, muove anche a considerarel’ipotesi di un uso di tali corsetti prividi lamina pettorale44. Già nel 1923 ilDucati aveva riconosciuto, indosso aiguerrieri della Situla bolognese dellaCertosa, “un abito che giunge sinoalle ginocchia, frangiato e privo dimaniche; al di sopra è una specie dicorazza (di cuoio?) a strisce orizzon-tali, che presso i cavalieri pervienesino alla cintura, mentre presso iquattro ultimi pedoni ricopre leanche45”.Anche la particolare panoplia del-l’uomo sepolto della tomba del Guer-riero di Tarquinia, dotato di unaguardia metallica per la spalla destra,induce a pensare che tali corsetti, perfacilitare i movimenti, non interessas-sero l’esterno della spalla ma solo iltorso con una foggia “a canottiera”,

come accadrà in seguito per le coraz-ze vere e proprie in metallo, e comesi è visto accadere nelle casacchemedievali in Italia.Lo spallaccio della tomba tarquiniese,di cui si ignora l’esatta posizione almomento del ritrovamento all’internodi una sepoltura a fossa di un inumato,costituisce tipologicamente un unicumin Etruria, anche se, dalla Tomba orien-talizzante della Montagnola di QuintoFiorentino, proviene un presunto spal-laccio in ferro. Il reperto tarquiniese erauno “spallaccio in bronzo, foderato ditessuto, d’una larghezza di 47 cm”46.Questo spallaccio, salvo che negli scaviottocenteschi (o ancor prima) fossestato asportato un pezzo gemello, eraunico nella tomba, fatto da cui lo Helbigdedusse che il guerriero, essendo difesoa sinistra dallo scudo foderato di cuoioe dal pettorale fissato su un corsetto, loportava sulla spalla destra, ovvero sullato meno protetto dalle altre armidifensive, secondo un’ipotesi ripresa dalFossati che definisce tale genere di spal-lacci

“atti a difendere la spalla destra non coper-ta dallo scudo, come testimonia l’esemplare(...) e di cui abbiamo corrispondenza neimodelli micenei di Dendra. Nel suo internodi conservano ancora tracce di imbottitura,a conferma del fatto che tutte queste partiprotettive dovevano essere foderate, ondeevitare fastidi o lesioni a chi le portava”47.

Similmente, nella tomba di QuintoFiorentino fu rinvenuto, spaiato,

“l’antecedente precoce d’una corazza inferro costituita da stecche unite da giunzio-ni sempre in ferro: il particolare delle stec-che o verghe si ritrova nel Marte di Todi (…)Si tratta di uno degli spallacci (lungh. cm9,4), secondo le conclusioni di M. Leoni del-l’Istituto dei Metalli Leggeri di Novara (…)vi erano attaccati resti di stoffa, forse dilino48”.

La mancanza di diffusione e di fortu-na di questi elementi può forse attri-buirsi, come in varie occasioni si èvenuto rilevando, alla tradizionalepreferenza per un armamento legge-ro e flessibile, secondo un concettoche essenzialmente attraverserà l’in-tera storia oplologica etrusca49; nondeve comunque sfuggire il diffonder-si, specie con l’VIII sec. a. C., di varielementi difensivi e dell’impiego delbronzo e del ferro nelle protezioni,che “appesantiscono” progressiva-mente il guerriero villanoviano, adocumento di un primo trasformarsidelle tattiche di ingaggio e scontro.Il combattente di Tarquinia dotato dispallaccio, inoltre, potrebbe esserestato, per la presenza di due morsi edi alcune falere, un cavaliere piutto-sto che un fante, armato di una lanciadi grosse proporzioni (ipotizzabili dauna punta di ben 52 cm di lunghezza,quanti ne misura anche il tallone), diun breve pugnale e di due asce. Se lasua appartenenza ad un corpo eque-stre fosse dimostrata, si avrebbe unachiara attestazione della preferenza,ancora tra l’età villanoviana e quella

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orientalizzante, per una cavalleriache non assumeva mai l’aspetto di unreparto “blindato” -anche dove ilcombattente avesse indossato tutta lapossibile panoplia difensiva, compre-so un elmo deperibile qui non atte-stato, se non forse per le falere,- mapiuttosto ben difeso. Anche il guerrie-ro di Prato Rosello possedeva -oltrealla piastra pettorale già ricordata- unaspada corta con fodero ed una lanciadi considerevoli proporzioni, la cuipunta foliata raggiungeva quasi i 70cm, priva di tallone. Tuttavia –tranneun unico oggetto bronzeo molto dub-bio- non sono presenti nella sepolturaoggetti connessi all’uso del cavallo50.

Del tutto eccezionale è il ritrovamen-to di una vera e propria corazza inlamina di bronzo, rinvenuta a Narceed oggi conservata presso il Museodell’Università di Philadelphia. Talecorazza, definita “a poncho”, erainfatti una lastra protettiva antero-posteriore chiusa sulle spalle e con unforo per la testa. Se attorno al collol’ornato geometrico descriveva unasorta di “collier” di linee, punti etriangoli pendenti, sulla piastra ladecorazione seguiva il bordo esternocon fasce concentriche di linee epunti. La concezione di tale protezio-ne può ben essere nata in un mate-riale come il cuoio, col quale è facilerealizzare un corsetto ancora più ana-tomico e ben fermabile lungo i latidel torso; la decorazione dimostrainvece la fortissima suggestione degliscudi geometrici tarquiniesi in lami-na, indicando filiazione ed ambitocronologico. E’ stato detto che “ilfamoso «poncho» metallico ritrovatoa Narce rappresenta (...) una eccezio-ne nel campo delle protezioni di que-sto periodo, e precorre le corazze «atorace» di epoca successiva”51; tutta-via, pur essendo un unicum, su talereperto e rari altri dall’Italia poggiauna teoria avanzata dallo Snodgrassrelativamente alla presenza, nellaGrecia dell’VIII sec. a. C., di corazzein lamina di bronzo a foggia di brevecorsetto; secondo questo studiosoinfatti i corsetti ellenici avrebberopotuto avere per prototipi degli esem-

plari visti in area italica durante leprime azioni coloniali, a loro voltadiscendenti da tipi relativi alla civiltàdel Campi d’Urne mitteleuropea.Scrive lo Snodgrass:

“Nella Grecia settentrionale (...) il Medioevoellenico sfocia ad un certo punto in unalunga ed apparentemente prospera fase diprogresso culturale, incentrata lungo ilmedio e superiore corso del Danubio: laciviltà dei Campi d’Urne, caratterizzata dauna versatile industria del bronzo. I popolidei Campi d’Urne, e i loro predecessori,avevano avuto contatti prolungati con iMicenei (...) non è escluso che il corsetto inlamiera di bronzo facesse anch’esso parte diquesti scambi, perché diversi siti dell’Euro-pa centrale, della Francia e dell’Italia,hanno restituito corazze di bronzo. (...)Tutte queste scoperte, però, come quella diArgo, si riferiscono a corazze semplici (...)Questa circostanza e la situazione storicadella Grecia dell’VIII secolo avallano l’ipo-tesi secondo la quale il corsetto di Argo (...)era modellato sul tipo europeo, che i Greciavevano certamente incontrato nel corsodelle imprese coloniali in Italia (corsettieuropei sono stati rinvenuti a Napoli e inEtruria)52”.

La limitatezza dei dati attualmentedisponibili sulle corazze etrusche ditale epoca (un solo esemplare!) nonconsente di avallare l’ipotesi delloSnodgrass, senza contare che il cor-setto bronzeo di Argo data alla finedell’VIII sec. a. C., ovvero ad unmomento molto vicino al “poncho”di Narce e tale da mettere in dubbiola filiazione tipologica. L’influenzadegli scudi metallici decorati sul cor-

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Disegno della corazza-pettorale da Narce,in lamina di bronzo decorata a sbalzoPhiladelphia, University Museum

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saletto di Narce indica inoltre unaposteriorità rispetto ad essi, cheabbiamo visto venire introdotti inEtruria verso la metà dell’VIII sec.a.C. sullo spunto di pezzi assiriimportati in Italia attraverso la colo-nia greca di Cuma. L’uso di elementidi difesa in metallo, inoltre (ancilia,scudi rotondi in lamina, dischi-coraz-za) è già stato dimostrato come nonrisalga prima della metà dell’VIII sec.a.C., e come trovi regolarmente deimodelli ellenici, introdotti da com-mercianti del Mediterraneo orienta-le. E’ piuttosto da valutare con inte-resse il fatto che, se l’uso di corazzemetalliche nella prima metà dell’VIIIsecolo non era diffuso né in Etruriané in Ellade, doveva esistere un terzopolo culturale dove tale utilizzo erainvece ben presente, e da dove esso siespanse con fortuna. Il Canciani, perquesta classe di protezioni metallicheelleniche, ed in particolare per lacorazza di Argos –la prima dalla finedell’età micenea- trova “riscontrinella sviluppata tecnica di lavorazio-ne del bronzo laminato dell’Europacentrale53”. E’ quindi possibile chetale polo sia stato realmente la civiltàdei Campi d’Urne, come suggeriscelo Snodgrass, ma la diffusione deicorsetti metallici sarebbe stata piutto-sto contemporanea sia verso l’Elladeche verso l’Etruria, terre dove era inprecedenza diffusa (IX sec. a. C.) unatecnica di battaglia con armamentodifensivo estremamente leggero. L’in-

fluenza degli scudi di origine orienta-le sull’ornato adottato in Etruria sem-bra tuttavia indicare, per la sola deco-razione, una diversa fonte di ispira-zione pur contemporanea.Alla teoria dello Snodgrass si aggiun-ge una alternativa linea evolutivadella corazza, accennata da R. Drews,secondo il quale le corazze difensiveprendono piede in Oriente qualedifesa principale per i carristi dellatarda età del bronzo, a protezionedalle frecce degli arcieri nemici54. Atali pesanti corazze (assenti in Etruriaproprio perché legate ad un tipo diguerra non praticata e non praticabi-le anche per motivi geomorfologici)nel Mediterraneo orientale farebberoseguito, dal 1200 a. C. circa, modellidi corsetto protettivo appositi per lafanteria, prima raramente attestati55.Da tali corazze per la fanteria, conmodifiche ed evoluzioni legate alprogresso tecnologico delle armi -inferro- e delle tattiche, discenderebbe-ro dunque, per lo studioso america-no, anche le corazze più recenti,come quelle greche dell’VIII secolo,con influssi mitteleuropei.La predilezione nell’Etruria villano-viana per le corazze leggere -in mate-riali non metallici e compositi-, assie-me ad una panoplia difensiva edoffensiva poco pesante, ha ragioninon solo di tradizione ed economiche,ma anche tattiche e pratiche: la coraz-za omerica non sembra aver costituitouna gran difesa, se permetteva “ad

una lancia di perforarla e di attraver-sare il corpo del colpito in modo chela punta fuoriusciva dalla parte oppo-sta come risulta dai 2/3 delle ferite neldorso56”. Migliore protezione offrivala più tarda corazza oplitica, che pote-va assorbire ripetuti colpi:

“modern simulations and calculation of theeffectiveness of ancient battle gear suggestthat rarely could the spear -or even arrows-do much serious damage to the Greek (...)breastplate. The breastplate’s and helmet’squarter- to half-inch bronze protective covervirtually ensured that all weapons were tur-ned aside form the flesh57”.

Una panoplia del tipo oplitico, però,

“pesante, scomoda e calda in modo insop-portabile, era particolarmente inadattaall’estate mediterranea; limitava i movimen-ti più semplici e rendeva sicuramente peno-sa la vita agli uomini che dovevano indos-sarla. I calcoli moderni a proposito dell’e-quipaggiamento oplite stimano di solito unpeso che varia tra i venticinque e i trenta-cinque chilogrammi per la panoplia compo-sta da gambali, scudo, corazza, elmo, lanciae spada: un fardello incredibile per il fantedell’antichità, il quale con ogni probabilitànon pesava più di settanta chili58”.

In effetti, con indosso una difesa di circala metà del proprio peso corporeo,anche un oplita –che nella vita quoti-diana era comunque, per lo più, unrobusto agricoltore- diveniva esausto inmeno di un’ora59. Oltre al peso, infatti,anche il calore costituisce uno dei gravihandicap di una pesante corazza metal-lica, specie nell’estate mediterranea:

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La lancia, la spada, il cavallo

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“un problema (...) serio era la mancanza diventilazione (...) D’estate la traspirazioneinzuppava gli abiti che l’oplite portava sottola corazza: il bronzo rilucente che potevaabbagliare il nemico sul campo di battagliaagiva anche come una sorta di collettoresolare che rendeva rovente la superficie. Ilcuoio, il feltro o la tela di lino indossati sottol’elmo, i gambali e la corazza, per attutire laviolenza dei colpi e offrire un minimo diprotezione dalla temperatura e dallo sfrega-mento del bronzo sulla pelle, potevano per-fino accrescere il disagio generale; il sudoreche colava sul petto e sulla schiena inzuppa-va in fretta queste vesti. Si legge infatti spes-so di opliti giunti sull’orlo del collasso a

causa della disidratazione o presi dal delirioa seguito di un colpo di calore: un fenome-no indubbiamente probabile per i soldati incorazza di un paese nel quale primavera eestate sono tanto calde60”.

E’ inoltre proficuo ricordare che lapanoplia completa in metallo dell’o-plita, pur in un’epoca più tarda in cuiil bronzo ed il ferro erano moltomeno costosi che nella prima età delferro, “probably cost 100 drachmas,about the price of an agriculturalslave61”, e che si deve arrivare al V

sec. a.C. perché tale costo sia sosteni-bile, in quanto “most farmers wouldinvest an equal or greater amount ina slave attendant or an ox. The wageof a day laborer in the fourth centurywas at most around one drachma aday, suggesting that infantry arma-ment then was worth about threemonths «salary» of the poorest62”.Sull’impiego delle corazze protettive,e sulla loro maggiore o minore “blin-datura”, è stata osservata da vari stu-diosi una ciclica oscillazione neltempo, con continue alternanze63.“Pesante-ben protetto-scomodo-lento-vulnerabile a truppe leggere”è infatti il contrario di “leggero-malprotetto-agile-veloce-sfuggente alletruppe pesanti”; entrambe le combi-nazioni offrono comunque vantaggie svantaggi, e ciascuna delle dueconfigurazioni ha con l’altra sia dif-ficoltà che superiorità. Nella tradi-zione militare romana, ad esempio,

“l’evoluzione della corazza dal V al IIsecolo a. C. mostra una specie di ciclo percui quella pesante di metallo è sostituitadalla più leggera di cuoio che permettemaggiore libertà di movimenti, e quindiquella di cuoio viene a sua volta soppian-tata da quella di bronzo. Ma poi si passadi nuovo al cuoio e quindi al ferro aseconda delle esigenze, delle tattiche delmomento. Si pensi alla pesante corazzamedievale, abbandonata definitivamentenel periodo successivo, con l’affermarsidelle armi da fuoco. E si pensi alle ultimeguerre mondiali in cui nell’equipaggia-mento individuale del soldato non è pre-

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Corazzature e schinieri

L'armatura oplitica etrusca dell'inizio del IV sec.a.C., esemplificata in questo gruppo di guerrierisul manico di una cista bronzea dalla necropoli della Colombella di Praeneste - Roma, Museo diVilla Giulia

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vista alcuna protezione, mentre di recentesono stati adottati vari tipi di corpettiantiproiettile64”.

Dunque la corazzatura leggera, eprobabilmente tutta deperibile in ori-gine, delle truppe dell’Etruria e del-l’Italia centrale protostorica apparecome uno strumento pratico, ilmiglior compromesso possibile tranecessità di protezione, leggerezza evestibilità nel contesto delle tattichein uso. Il suo impiego era d’altrondeun retaggio all’interno della tradizio-ne di scontrarsi con altri gruppiarmati alla leggera in agguati ecomunque non schierati in formazio-ne chiusa e complessa, anche in con-seguenza al tipo di organizzazionesociale ed alla ristrettezza numericadelle comunità nell’età del bronzo,oltre che al tipo di conformazionedell’ambiente come teatro bellico edalla disponibilità di metalli e di risor-se economiche. E’ quindi degno dinota il comparire e diffondersi, dallametà circa dell’VIII sec. a. C., di varielementi di corazzatura in laminabronzea (scudi, piastre, corazze) adincrementare la difesa corporea delsingolo combattente e ad “appesanti-re” la panoplia difensiva. Anche seavviene per influsso di modelli stra-nieri, ciò è un chiaro indizio del dif-fondersi di tipi di scontro armato più“campali” e “pesanti” rispetto alleorigini, nella cui linea andranno adinserirsi le evoluzioni tecnologiche di

prima età orientalizzante, ma cheancora mirano a proteggere il corpodel singolo e non il complesso di unaschiera organizzata (come farannopiù tardi gli scudi oplitici), rispettan-do un bisogno di agilità che rinviafondamentalmente a guerrieri-duel-lanti.Gli schinieri, protezioni destinate allegambe ed in particolare allo stinco,sono elementi che, a differenza dikardiophylakes, scudi in lamina e coraz-ze metalliche, sono attestati in Italiain esemplari metallici già dall’età delbronzo recente e finale, come aSomma Lombardo – Malpensa (risa-lenti al XII sec.a.C., oggi al MuseoCivico di Varese65), a Pergine, (oggi alMuseo di Trento) ed a Desmontà -Sabbionara (oggi al Museo di Verona)risalenti in entrambi i casi attorno all’-XI-X sec. a.C., a Canosa (del X sec.a.C., oggi al Museo ArcheologicoNazionale di Napoli66), ed a Pratica diMare67. Quest’ultimo ritrovamentodel X sec. a. C., già citato riguardo gliscudi, si rivela particolarmenteimportante per la sua precocità nell’I-talia centrale tirrenica e per la com-presenza, all’interno di un corredominiaturistico, di altre armi a rappre-sentazione di una intera panopliacomprensiva di un precoce scudometallico. In particolare i due schinie-ri da Pratica di Mare - Lavinium sonoellittici, molto allungati, con una pie-gatura sull’asse longitudinale che èsottolineata da una puntinatura, la

quale prosegue lungo tutto il perime-tro dell’oggetto. Quattro fori simme-trici in prossimità dei margini sugge-riscono che attraverso di essi passasse-ro dei legacci destinati al fissaggio.I pezzi da Desmontà recano anch’esiuna puntinatura sull’asse verticalecentrale, oltre a protomi stilizzate diuccelli a puntinato e quattro occhielliricavati dal filo che ne rinforza il mar-gine. Quelli da Pergine, ornati damotivi geometrici e rilievi a borchia,hanno anch’essi una linea assiale ver-ticale, e richiamano alcuni schinieriframmentari reperiti nell’area danu-biana e carpatica68 (in Croazia, Mora-via, Baden-Wurtemberg) anche se tipipiù corti e tozzi –“tipo Rinyaszentki-raly”- provengono da molte localitàcroate, dall’Ungheria, dall’Austria edanche dalla Francia.La scansione dell’ornato, compresa lapiegatura centrale, ritorna negliesemplari da Canosa, nonché negliesemplari dalla tomba 180 di Ponte-cagnano69. Questi, decorati da bor-chie a sbalzo circondate da puntini eda onde puntinate, oltre che da trecoste in rilievo sulla piegatura longi-tudinale, recano lungo il bordo tubo-lare quattro affibbiagli in filo bron-zeo, disposti simmetricamente come ifori delle miniature lanuvine, desti-nati ad alloggiare due cinghie oriz-zontali passanti. Peraltro, anche neglischinieri di Somma Lombardo il filobronzeo di rinforzo al bordo formavacinque asole per lato, destinate ai

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La lancia, la spada, il cavallo

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legacci. Un esemplare di facies villa-noviana, spaiato, proviene da Veio70;il suo ornato ricorda quelli giàdescritti, con puntinati, cerchi con-centrici e teste stilizzate d’uccello.Gli schinieri sono un genere di prote-zione che ha attestazioni anche inambiente ellenico arcaico, oltre chetardomiceneo, pur con soluzioni talo-ra diverse, e sono un elemento difen-sivo che avrà nell’area etrusca unacontinuità pur senza incontrare unadiffusione capillare presso tutti i com-

battenti, almeno in versioni bronzee.Il seguirne l’evoluzione tratteggiataancora dal Drews rende probabil-mente conto della loro genesi e delloro apparire in area etrusco-lazialesino dal X secolo. Secondo le sueconsiderazioni infatti

“metal greaves came suddenly into vogueca. 1200 (...) this innovation was mostly limi-ted to the Greek world, perhaps because allthrough the Late Bronze Age men in Gree-ce protected their lower legs with leather«spats» when at work (so, for example, old

Laertes wears knemides as he digs around hisfruit trees at Odissey 24. 228-229) or at war(in the Pylos «Battle Scene» fresco, thePylian warriors are naked above the waistbut wear leather spats)71”.

Dai più antichi e semplici “gambali”di cuoio o di feltro, come quelli cheappaiono nel Vaso greco dei Guerrie-ri del Tardo Elladico IIIC72, sarebbe-ro dunque discesi gli esemplarimetallici rinvenuti in area ellenica erisalenti a dopo il 1200 a. C.73;

“nor do they seem to have been worn intemperate Europe before they appear inGreece. Harding notes that the earliestgreaves thus far found in Italy belong to thetenth century, while those from centralEurope and the Balkans «appear to start atthe same time as the late Mycenean exam-ples». After the middle of the twelfth cen-tury, greaves disappear from the archeologi-cal record in Greece and do not reappearuntil the end of the eight century (...) canmost easily be explained as a result of the(...) scarcity of bronze (...) more understan-dable if, in an age when bronze was verydear, the bronze greave was regarded as notvery «cost-effective»74”.

Gli schinieri o knemides, nel mondomiceneo, sono noti sia come “para-stinchi” o “gambali” di cuoio o distoffa, per uso civile e militare, sia inversioni metalliche –quelli ornati dacavigliere di rame sono citati in IliadeIII, 331; XI, 18; XVI, 132; XVIII,459; XIX, 370; Efesto stesso (IliadeXVIII, 613) ne ha modellati un paionello stagno-; essi avevano imbottitu-

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Corazzature e schinieri

Schinieri dell'età del bronzo finale, da Canosa -a sinistra- e da Masetti di Pergine in Valsugana-a destra-

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re interne e legacci con fermaglianche in metalli preziosi. All’incircanello stesso periodo anche i guerrierisardi indossavano schinieri, dei qualinon è ben chiaro il materiale dallarappresentazione nei bronzetti, maper la similitudine, in alcuni casi, delsistema di raffigurarne la rifinituradella superficie (uguale a quella dellecasacche protettive) si può pensareche alcuni tipi fossero in cuoio otela75.Nel combattimento antico l’uso deglischinieri intendeva evidentementeoffrire una qualche protezione aduna zona difficile, quella degli artiinferiori, nell’area lasciata scopertadallo scudo, ovvero in quello spazioche presso le truppe elleniche si eratentato inizialmente di proteggerecon il grande scudo rettangolare con-vesso di cui si è parlato, e con quelload “8”, a scapito tuttavia della mobi-lità in combattimento. Nell’ambienteitalico evidentemente, sin dalle epo-che protostoriche, si preferisce deli-beratamente una difesa più leggera elocalizzata per motivi senza dubbio ditecnica di combattimento (giacché larealizzazione di grandi scudi in cuoioo legno non era certo né impossibilené troppo costosa in relazione allesoluzioni metalliche pur più ridotte).Anche nella Grecia arcaica degli eser-citi oplitici

“non era possibile proteggere in modo ade-guato la parte inferiore delle gambe spo-

stando lo scudo verso il basso, e perciò pol-paccio e stinco, vulnerabili, erano protetti(...) con i gambali, sottili lamine di bronzoche partivano dalla rotula e arrivavano allacaviglia (...) I vantaggi dei gambali erano dioffrire ai soldati di fanteria una certa prote-zione dai proiettili (...) Com’è ovvio, i gam-bali fornivano anche (...) una certa difesacontro i colpi di spada e lancia sferrati inbasso (...) ma per ironia erano forse il pezzoche creava i maggiori inconvenienti: al paridegli scomodissimi gambali dei fanti dellaprima guerra mondiale, provocavano irrita-zioni quando costoro correvano o semplice-mente camminavano, e peggio ancora (...)non restavano facilmente al loro posto sullagamba senza l’aiuto di stringhe, e perciò ifori nel bronzo servivano forse sia per l’im-bottitura interna, sia per i lacci di cuoio o dimetallo76”.

In effetti già per Alceo gli schinierierano “erkos iskyro bèllos”, “difesa dallafreccia penetrante” (frammento Z34)77, ed i confortevoli schinieri prividi lacci e protettivi per polpaccio eginocchio, apparsi agli inizi del VIIsec. a.C. in Grecia, erano per Eschilo“protezione contro lancia e sasso”(Sept. 676), ovvero contro i colpi rav-vicinati e quelli da proietti lanciati dalontano.La stessa necessità di proteggere gliarti inferiori ci informa di probabilitecniche di offesa78, volte a ferire legambe degli avversari proprio perlimitarne la mobilità, perduta laquale il soldato diventava facile predadell’avversario, specie se ormai inginocchio, posizione che storicamen-te informerà in Etruria l’iconografia

del soccombente nei duelli. Anche inGrecia infatti una tattica di scontro

“era sferrare un colpo alle gambe sopra igambali, dove una ferita profonda potevaarrestare (...) rapidamente l’oplite (...) Invari passi della letteratura greca leggiamo disoldati vittime di ferite al ginocchio o allacoscia, a conferma del fatto che quella partenon difesa del corpo era uno dei bersaglipreferiti dei primi colpi sottomano79”.

Da una sperimentazione realizzata dachi scrive effettuando prove di gettodi lancia alla distanza di circa 5 metriverso una sagoma umana –i cui risul-tati completi saranno esposti nel pros-simo capitolo- è emerso che 6 colpi su24 (il 25%) andavano nell’area dellegambe, ovvero al di sotto dei 75 cmda terra. In particolare, dei 6 colpi, 4erano nella fascia della coscia (45-75cm da terra, parzialmente parabilicon lo scudo) e 2 allo stinco (da 0 a 45cm). Inoltre, su 6 colpi, 5 (tutti quellialla coscia ed uno allo stinco) eranostati portati con lancio da “sottoma-no”, mentre solo 1 era frutto di unlancio da “sopramano”.Peraltro da tali sperimentazioni,anche relativamente alla potenza conla quale i colpi -pur portati da unindividuo non addestrato- raggiun-gevano il bersaglio, emerge che laforma stessa degli schinieri ha unpreciso significato. La modesta lar-ghezza dello stinco infatti ne fa unbersaglio difficile da colpire piena-mente centrale, mentre una ferita di

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Corazzature e schinieri

striscio, al muscolo, pur dolorosa nonè sempre in grado di immobilizzaredel tutto un guerriero. Al contrario,un colpo potente al centro dello stin-co può creare una ferita molto piùgrave o addirittura spezzare l’osso.Alla necessità di proteggere meglio ilcentro della gamba, congiunta conl’impossibilità di arrestare completa-mente il colpo, risponde la formadegli schinieri della fine dell’età delbronzo e di quella del ferro, ovverocon una piega assiale centrale, chetende a deflettere il colpo di lanciapiù che a pararlo.Preme qui rilevare come, da alcunistudi tecnici e da esperimenti effet-

tuati già un ventennio fa, risulti cheuno schiniere spesso fino a tre milli-metri, in bronzo, può essere comple-tamente attraversato da un colpo dispada da fendente80. Di conseguen-za, è probabile che gli esemplari rin-venuti, solitamente molto sottili, pre-vedessero sempre un consistente rin-forzo in cuoio all’interno, in modo daaumentare la resistenza balistica allapenetrazione.Dunque forma della parte metallicae supporto offerto dalla parte depe-ribile avevano negli schinieri il chia-ro scopo combinato di deflettere dalcentro dello stinco la massima poten-za d’impatto del colpo di una lancia

scagliata, in una zona dove gli artiinferiori non potevano essere difesidalla pur elevata manovrabilità delleggero scudo rotondo. Forse pro-prio alla frequenza dei colpi agli artiinferiori può essere dovuto l’interes-se per gli ancilia, nella seconda metàdell’VIII secolo, di più ampie pro-porzioni.I ritrovamenti sembrano inoltre nonevidenziare per l’area etrusca –esmentire per la Sardegna- l’impiegodegli schinieri, già all’inizio dell’etàdel ferro, da parte della cavalleria, laquale peraltro si trovava ad operarecon gli stinchi esposti pericolosamen-te ai colpi della fanteria nemica.

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Note

1 Saulnier, cit., pag. 39.2 Giuliano De Marinis, Pettorali metallici ascopo difensivo nel villanoviano recente, in“Atti e Memorie dell’Accademia LaColombaria” XLI, 1976.3 Sui pettorali si veda anche Capretti, Ilmondo tecnologico e militare, cit., pagg. 25-26.4 In Hencken, Tarquinia. Villanovans andearly Etruscans, Cambridge 1968, pag.198, ed in G. De Marinis, Pettorali metalli-ci..., cit., tipo B n. 7.5 In G. De Marinis, Pettorali metallici..., cit.,tipo A n.1.6 In G. De Marinis, Pettorali metallici..., cit.,tipo B n.2.7 In G. De Marinis, Pettorali metallici..., cit.,tipo B n.1, ed Eugenio La Rocca, Il sepol-creto dell’Esquilino, in “Civiltà del Lazioprimitivo”, Roma, 1976, pag. 153 n.3.8 Vedi, a cura di Gabriella Poggesi, Artimi-no: il Guerriero di Prato Rosello, Firenze,1999, pag. 71.9 Vedi Malnati, Manfredi, Gli Etruschi inVal Padana, cit., pag. 107.10 In “Not. Sc.” 1965, pagg. 171-182; G.De Marinis, Pettorali metallici..., cit., tipo Bn.4.11 In Hencken, Tarquinia. Villanovans andearly Etruscans, cit., pag. 156 fig. 143;Gilda Bartoloni, in “Archeologia classica”n.23, 1971, pagg. 254-256; Bartoloni, Lacultura villanoviana, cit., pag. 160 fig.6.13.12 Cm 14,7x9,5 e 16,2x9,5.13 Angelo Bottini, Coppia di kardiophylakesin lamina di bronzo, in “Armi - gli strumen-ti della guerra in Lucania”, Bari 1994,pag. 46.

14 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit.,pag. 196.15 La Rocca, cit., pag. 135.16 Capretti, Il mondo tecnologico e militare,cit., pag. 25.17 In G. De Marinis, Pettorali metallici...,cit., tipo A n.2; Raymond Bloch, Rechér-ches archéologiques en territoire volsinien,Parigi, 1972, pag. 117 e segg.18 Vedi Raymond Bloch, From the Villano-van civilisation to that of the Etruscans, in“Ciba Foundation Symposium on MedicalBiology and Etruscan origins”, London,1959, pagg. 51-5219 Capretti, Il mondo tecnologico e militare,cit., pagg. 25-26.20 Si veda al riguardo Raffaella Papi,Dischi-corazza abruzzesi a decorazione geome-trica nei musei italiani, Roma, 1990, e lasua recensione di Stefano Bruni in “Ras-segna di Archeologia” n. 11, 1993, pagg.358-365 con ampia bibliografia; M.Micozzi, Dischi bronzei nel Museo Nazionalede L’Aquila, in “Prospettiva” n. 49, 1987,pag. 47 e segg.21 Si veda Giovanni Colonna, Su una clas-se di dischi-corazza centro-italici, in “Aspettie problemi dell’Etruria interna”, Firenze,1979, pag. 193 e segg.22 Si veda Colonna, Su una classe didischi..., cit., pag. 193 e tav. XLIV, b-c.23 Vedi, a cura di Valerio Cianfarani, Anti-che civiltà d’Abruzzo, Roma, 1969, pag. 17e segg.24 Vedi Cianfarani, cit. tavv. I-XIV.25 In Ellen Macnamara, The Etruscans,London, 1990, pag. 28 fig. 28. Di notevo-le importanza documentaria è anche lapiastra bronzea, sebbene ormai tardoorientalizzante, rinvenuta a Rio Carpenadi Forlì, inizialmente confusa con unumbone di scudo. Anche lungo tutto l’ar-

co adriatico occidentale i guerrieri indos-savano piastre difensive; le diversitàcaratteristiche per area hanno indotto ariconoscere nel manufatto di Rio Carpe-na –ornato da figure affrontate di dueguerrieri in marcia con elmo, scudo edoppia lancia- un prodotto ideato da unartigiano felsineo “ma forma e tipologiasenz’altro anetrusche dovute al tipo dicommittenza” (Malnati, Manfredi, GliEtruschi in Val Padana, cit., pag. 108). Ipopoli di quell’area e che indossavanoquell’equipaggiamento sono stati ricono-sciuti negli Umbri, confermando “le noti-zie delle fonti (specialmente Strabone V,4, 2) secondo cui l’espansione umbra edetrusca oltre Appennino erano avvenutecirca nello stesso periodo. L’ipotesi riceveulteriore conferma dal confronto con untipo di affibbiaglio di Castrocaro a grandianelli riuniti in quadrato. Esso è associatoa Novilara con un altro pettorale e hariscontri per la tecnica costruttiva con gliaffibbiagli ad anelli affrontati all’alberodella vita delle necropoli Arnoaldi eMelenzani (di Boogna). Avremmo anchequi un artigianato bolognese esecutore diun tipo di manufatto che ritroviamo asso-ciato per aspetto e funzioni a un ambien-te adriatico sempre riconducibile a quellach si può ormai identificare con la pre-senza umbra” (Manfredi, Malnati, GliEtruschi in Val Padana, cit., pagg. 108-109).26 Il pezzo ha n. di catalogo 3901; si vedain Alfredo Lensi, Il Museo Stibbert, Firenze,1918, pag. 656.27 Colonna, Su una classe di dischi..., cit.,pag. 199.28 A dimostrazione di ciò si adducono imateriali indicati dal Colonna nel post-scriptum al brano citato, pagg. 200-202.

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29 Colonna, Su una classe di dischi..., cit.,pag. 202.30 Colonna, Su una classe di dischi..., cit.,pag. 198 nota 17.31 Fossati, cit., pag. 29.32 Vedi Capretti, Il mondo tecnologico e mili-tare, cit., pag. 26.33 Vedi Tronchetti, L’iconografia del potere,cit., pag. 208 e pag. 214.34 Saulnier, cit., pag. 39.35 Si veda Snodgrass, Armi ed armature deiGreci, cit., pagg. 21 e 31.36 Drews, cit., pag. 170.37 Drews, cit., pag. 175.38 Alfonso Mele, Elementi formativi degliethne greci ed assetti politico-sociali, in “Sto-ria e civiltà dei Greci”, cit., pag. 29.39 Vedi François Lissarrague, L’autre guer-rier – Archers, peltastes, cavaliers dans l’image-rie attique, Paris-Rome, 1990, pagg. 40-41.40 Warry, Warfare in the classical world, cit.,pag. 35.41 Mario Scalini, Le armi: produzione , frui-zione, simbolo nella Toscana medievale, in“Guerre e assoldati in Toscana 1260-1364”, Firenze, 1982, pag. 73.42 Vedi a cura di Boccia, Armi difensive dalMedioevo all’Età Moderna, cit., pag. 41.43 Camillo Ranier Borghi, L’oplomachiapisana ovvero la Battaglia del Ponte di Pisa,Lucca, 1713, pag. 93.44 Uso pur forse non molto diffuso, vistal’assenza nelle coeve rappresentazioni diguerrieri villanoviani.45 Ducati, La Situla della Certosa, cit., pagg54-55.46 Saulnier, cit., pag. 51.47 Fossati, cit., pag. 29.48 Giacomo Caputo, Cultura orientalizzantedella vallata dell’Arno, in “Aspetti e proble-mi dell’Etruria interna”, Firenze, 1974,pag. 35.

49 E che segue un intendimento presenteanche in area egea a partire dalle fasimicenee post palaziali, quando cioè siabbandonano le corazze pesanti, comequella di Dendra, ad indizio di una diver-sa concezione delle operazioni militari,prediligendo corsetti rigidi ma nonmetallici e leggeri; si veda A. M. Snod-grass, Armi ed armature dei Greci, cit., pagg.35-36.50 Vedi Poggesi, Artimino: Il Guerriero diPrato Rosello, cit., pag. 56 e 71 e segg.51 Fossati, cit., pag. 29.52 Snodgrass, Armi ed armature dei Greci,cit., pag. 50.53 Fulvio Canciani, La crisi della culturageometrica, in “Storia e civiltà dei Greci”,cit., pag. 318.54 “In the Near East and the Aegean cors-lets are attested from the very beginningof the Late Bronze Age (scales found inthe Shaft Graves at Mycenae may havecome from a corslet), the time at whichchariot warfare began. The <<chariottablets>> from Knossos itemite the dis-tribution of a pair of knee-lenght corsletsto each chariot crew (...) Nuzi tabletsmake frequent reference to corslets. Thetypical Nuzi charioteer’s corslet, or sariam(a Hurrian word, borrowed by Hittite,Akkadian, and Northwest Semitic spea-kers), was a long, cumbersome, andexpansive affair. Its basis was a leather(usually goatskin) tunic, partially sleevedand reaching down to the knees or tomidcalf. Approximately five hundredlarge copper scales were sewn to the torsoand skirt of the sariam, and another seve-ral hundred small scales were sewn to thearms. The head and neck of the chariotcrewman was protected by a gurpisu, a lea-ther helmet covered with long strips of

bronze or copper (...) The several Nuzicorslets that can be reconstructed are esti-mated to have weighted between thirty-seven and fifty-eight pounds”. Da Drews,cit., pag. 110-111. Anche la nota corazza ellenica di Dendra,del tardo XV sec. a. C., è dal Drews riferi-ta “to a chariot crewman”, giacché “enca-ses the body from the neck almost to theknees, and the gridle of bronze aroundthe thighs must have prevented the wea-rer non only from running but from evenwalking at a normal pace. It must there-fore have been worn by a man who inbattle would be required to step onlyoccasionally”. Drews, cit., pag. 175.Queste pesanti corazze “have been meantfor protection against enemy missiles (ina contest of thrusting spears or rapiersthe long corslets would have offered littleprotection and would have greatly impe-ded the wearer’s movement”. Drews, cit.,pag. 124.55 “The Medinet Habu relief of the seabattle in 1179 shows that not only the Phi-listine and Shekelesh aggressors but alsothe Egyptian defenders were protectedwith a waist-lenght corslet and leatherskirts. The corslets were apparentlystrenghtened with strips of metal sewn tothe leather. In the Aegean, too, corsletsfor infantrymen appear only at the end ofthe IIIB or beginning of the IIIC period.The Mycenean infantrymen depicted onthe Warrior Vase and Warrior Stele wearcorslets”. Da Drews, cit., pagg. 175-176.56 Botto Micca, Omero medico, cit. pag. 63.57 Hanson, The other Greeks, cit., pag. 300.58 Hanson, L’arte occidentale della guerra,cit., pag. 66.59 Hanson, The other Greeks, cit., pagg.244-245.

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Corazzature e schinieri

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La lancia, la spada, il cavallo

60 Hanson, L’arte occidentale della guerra,cit., pag. 90.61 Hanson, The other Greeks, cit., pag. 245.62 Hanson, The other Greeks, cit., pag. 296.63 Si veda ad esempio Hanson, L’arte occi-dentale della guerra, cit., pag. 67 e segg.64 Armi ed armature dell’impero romano, cit.,pag. 111.65 Si veda la scheda 261 in Antiche gentid’Italia, Roma, 1994, pag. 209.66 Vedi Ettore de Juliis, Le genti adriatiche,in “Antiche genti d’Italia”, cit., pag. 42.67 Si veda AA. VV., Dizionari terminologici,materiali dell’età del bronzo finale e dellaprima età del ferro, Firenze, 1980, pag. 107,tav. CXXII.

68 Per entrambi i pezzi si veda Sagramora,Le armi dei Veneti Primi, cit., pagg. 136-138.69 In B. D’Agostino, Nuovi apporti delladocumentazione archeologica nell’Agro Picen-tino, in “S. E.” XXXIII, 1965, pag. 671 esegg., tav. 86.70 Tomba 2026, si veda in Saulnier, cit.,pag. 32.71 Drews, cit., pag. 176.72 Vedi Taylour, I Micenei, cit., pag. 168.73 Da Cipro due coppie, una coppia daKallithea in Acaia, un paio dalle pendicisud dell’Acropoli di Atene.74 Drews, cit., pagg. 176-177.75 Vedi Tronchetti, L’iconografia del potere,

cit., pag. 208.76 Hanson, L’arte occidentale della guerra,cit., pagg. 86-87.77 Vedi Lissarrague, L’autre guerrier, cit.,pag. 41.78 Note peraltro anche nel Giapponeantico come “attacco agli angoli”; si vedanel seicentesco Libro dei Cinque Anelli diMiyamoto Musashi, nell’edizione di Mila-no, 1996, pag. 65.79 Hanson, L’arte occidentale della guerra,cit., pagg. 178-179.80 H. W. Catling, Beinschienen, in “Krieg-swesen vol. 1, Schutzwaffen und Wehr-banten”, Gottingen, 1977, pagg. 156-157.

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La lancia, ovviamente, non compare conla fine dell’età del bronzo in Italia cen-trale, ma anzi è una delle armi di piùremota origine. Essa era tra le armiimpiegate già nel paleolitico, e recentistudi hanno potuto dimostrare come giànel paleolitico superiore siano presentinumerose applicazioni tecnologiche sutali armi. La Knecht, in particolare, ha

“analizzato in dettaglio quattro tipi distinti dipunte di lancia risalenti a un periodo compre-so tra 40000 e 22000 anni fa, nella speranza diriscoprire alcuni dei procedimenti impiegatidai nostri antenati per realizzarle. Applicandoqueste stesse tecniche, ho approntato in labo-ratorio punte (di pietra, corno, osso o avorio)identiche a quelle che si rinvengono nei sitiarcheologici, dopodiché le ho, per così dire,sperimentate sul campo. Grazie a questi espe-rimenti mi sono resa conto di quali conoscenzespecializzate dovessero avere i cacciatori prei-storici riguardo (..) anche alle proprietà mecca-niche delle loro armi1”.

Già dunque in quelle fasi le punte di lan-cia erano lavorate in vari modi per otte-

nerne la massima efficacia, ed i sistemi diinnesto erano diversi; nell’Aurignazianole punte ossee più antiche erano a losan-ga con base suddivisa, poi vennero intro-dotte punte sempre a losanga, ma piùspesse e con base arrotondata; infineentrarono in uso punte fusiformi a baserastremata. Solo nel seguente periodoGravettiano compare la punta in ossocon base tagliata in diagonale. Studiatetutte per perforare la pelle degli animali,penetrare in muscoli ed organi e portareuna ferita possibilmente mortale, eranorealizzate in più fogge per migliorare imetodi di fissaggio all’asta di legno, cheera di conseguenza preparata diversa-mente, e per permetterne la riparazioneed il reimpiego. Le sperimentazionidella Knecht hanno dimostrato che tal-volta le punte venivano danneggiate, mache punte di osso o di corno, lanciate conl’aiuto del propulsore, riuscivano spessoad attraversare senza rovinarsi vertebre,costole e persino femori.

Nell’Italia centrale peraltro, già durantel’età del rame, alle lance si affiancaronoanche altre armi in asta, ovvero le ala-barde, delle quali sono note alcunepunte a foggia di pugnale piatto, di untipo piuttosto raro (noto a Buccino ed aMonte Bradoni), e delle quali la formapiù probabile era la lama triangolaresenza codolo. La loro presenza ècomunque indiscussa:

“i segni d’immanicazione obliqua presenti sualcuni pugnali Rinaldone devono significareche erano utilizzati come alabarde. Inoltre, unasingola alabarda con foro di immanicazione, inrame, proviene dal Monte Amiata nella Tosca-na centrale (ora all’Ashmolean Museum diOxford). Barfield ha perciò suggerito che l’ala-barda possa essere stata inventata dai metallur-ghi rinaldoniani, copiando le asce da combatti-mento presenti nelle sepolture. Se è vero,avremmo un’ulteriore dimostrazione dell’origi-ne locale della metallurgia italiana del rame2”.

Presenti anche nelle incisioni rupestricamune della Valcamonica in undici

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Le lance ed i giavellotti

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immagini (nove nell’unica composizio-ne di Montecchio), e in due raffigura-zioni sulle stele valtellinesi, le alabardedell’area alpina hanno una lama foliatache sembra discendere da esemplari inpietra, per arrivare all’età del bronzoiniziale e medio, con lame larghe e spal-late vicine ad esemplari centroeuropei edell’Europa occidentale3. Dalla mediaetà del bronzo, tuttavia, queste armiscompaiono in Italia a favore della lan-cia; se il motivo di ciò non è noto, puòessere interessante ricordare che, nelLibro dei Cinque anelli sulle arti mar-ziali nel Giappone del Seicento, si leggeche l’alabarda sembra essere inferiorealla lancia sul campo di battaglia. “Lalancia è l’avanguardia, l’alabarda è laretroguardia. Dato lo stesso grado diaddestramento, chi ha la lancia è un po’più forte4”. Dalla metà del II millennioa.C., comunque, il binomio spada piùlancia in bronzo si afferma nell’Italiacentrale, lasciando alle spalle il combat-timento italico dei periodi precedenti,di arcieri alla distanza che si avvicinava-no fino al corpo a corpo con asce epugnali5. E’ dunque dopo un lungo percorso evo-lutivo che la lancia viene ad essere senzadubbio l’arma offensiva più diffusa nel-l’Italia centrale tirrenica della prima etàdel ferro; la sua presenza è consistentenelle tombe maschili da un certomomento in poi, in cui viene accoltol’uso di sottrarla all’impiego per unirlaalle deposizioni, ed in tali sepolture essaè da interpretare quale signum principe

di cittadinanza piena e di maturità. E’forse il caso di ricordare come nell’eposomerico, peraltro, aikmetés o “portatoredi aikmé-lancia” fosse il sinonimo di“guerriero”6. La grandissima quantità di reperti dis-ponibili in Etruria si associa di fatto aduna estesa varietà di forme base e didettagli-varianti, che solo in parte èstata indagata.D’altronde vari studiosi di armi antichehanno messo in guardia sulla difficoltàdi creare tipologie per le lance, la cuivarietà si lega molto agli influssi esternie alla spiccata artigianalità di tale classed’arma.

“The typological classification of this kind ofmaterial is fraught with problems. Any simpli-stic assumption that there may be «kinds»,rather than simply groups of objects whichshare common characteristics, proves quiteunrealistic in this instance. Unlike the jewelle-r’s castings, each forging is an act of productionessentially unique. (...) Like the axe, the spear-head is an utilitarian form; it alters little, andthen due to an occasional shift in functionrather than to rapid change in fashion. Andthis (...) renders any relative chronology basedon formal development extremely difficult7”.

Tra le punte rinvenute in area villano-viana si riconosce comunque8 un primogruppo di punte di lancia dove la lamaha una forma “a foglia di lauro”: realiz-zate sia in bronzo che in ferro, la puntaè aguzza, mentre la lama, dopo essersiallargata, si restringe con una curvadolce per ricollegarsi alla base col can-none cavo. Molto simili sono le punte

dove il filo, anziché allargarsi con unacurva convessa, presenta una curvaappena concava. Le punte “a foglia diolivo” sono più strette, ed ancora conmargine della lama ad andamento cur-vilineo; quelle “triangolari” hanno inve-ce la lama rettilinea dalla punta sino allapiega angolare che si raccorda poi conla base. Altre rare punte hanno la lamaondulata, ovvero dal filo sinuoso, al fineforse di aggravare la ferita penetrandopiù a fondo grazie alla ridotta resisten-za di una parte del filo, nonché diaumentare l’emorragia una volta ritrat-te. Tale conformazione, evidentementeutile nell’uso da punta, sarebbe invece,secondo alcuni, dannosa per l’uso dagetto, giacché tenderebbe a sbilanciarela traiettoria durante il volo; ciò dimo-strerebbe dunque che queste cuspidierano usate per lance da corpo a corpoe non per giavellotti da lancio.Di fatto esistono anche moltissime altrevarianti più o meno occasionali relativa-mente alla forma della lama; inoltre lastessa sezione della punta -con nervatu-ra arrotondata o con costolatura spigo-losa- crea ulteriori variabili, come ancheil rapporto di lunghezza tra lama edimmanicatura, la presenza o meno delringrosso presso il foro di arresto, ladiversa sezione dell’immanicatura (acannone, a margini sovrapposti, a mar-gini accostati, a sezione ortogonale).Costante comunque, nell’immanicatu-ra, è la presenza di almeno un foro peril fermo, presso il quale talvolta venivaposta una spirale di bronzo a rinforzare

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La lancia, la spada, il cavallo

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il fissaggio dell’asta lignea, specialmen-te negli esemplari con l’immanicaturapiramidata9. Tale spirale di filo non èun uso caratteristico limitato all’Etruriavillanoviana, ma appare, ad esempio,anche nelle ben più tarde lance longo-barde dette “ad alette”, della secondametà del VII - prima metà dell’VIII sec.d. C.:

“in questo tipo di lance la copertura metallicadell’asta in legno scendeva molto in basso edera rinforzata con dei giri di filo di ferro. Que-sta corazzatura della lancia fa pensare chevenisse usata come arma per duellare, perparare i colpi del nemico a mo’ di spada10”.

La lancia sepolta col guerriero di PratoRosello ad Artimino, a cavallo tra VIII eVII sec. a.C. nella tomba a pozzo deltumulo B, invece che di vari giri di filobronzeo, disponeva di una lamina diferro avvolta attorno al legno là dovel’asta si univa alla punta. Questa inca-miciatura protettiva –realizzata in unmetallo più robusto del bronzo- testi-monia l’intendimento e la necessità dioffrire protezione all’asta nella partedove l’avversario, in combattimento,era evidentemente addestrato a portarefendenti per la fratturazione del legnodell’arma. E’ interessante osservare chequesto elemento protettivo innovativoconservava comunque l’aspetto dei piùtradizionali “giri di filo di bronzo”: lasua superficie era infatti incisa in mododa sembrare una spirale di filo avvol-to11.Ancora in filo metallico, talvolta, erarealizzata una impugnatura, atta nonsolo a rendere meno sfuggente l’asta,ma anche -come il filo presso la cuspi-de- ad equilibrare perfettamente l’ar-ma12.Le numerose varianti accennate per lepunte hanno determinato l’ideazione divarie tipologie, tra cui quella realizzatada A. Talocchini13, dove si osserva chemolti tipi, specialmente quelli didimensioni più piccole, prendono origi-ne da analoghe versioni dell’età delbronzo finale, con un estendersi dellevarianti a lama più grande ed allungatache avranno particolare fortuna nellerealizzazioni in ferro. Numericamente

tuttavia i reperti villanoviani in bronzo,almeno in due località-campione comeVetulonia e Populonia, sono molto piùcopiosi di quelli in ferro, mentre nell’o-rientalizzante il rapporto si rovescerà,con una riduzione delle varianti ed unafortuna limitata ad alcune di esse. L’e-stesa presenza di punte di lancia inbronzo ancora durante l’età del ferro èun fatto che peraltro avviene anche nel“Medioevo ellenico”, determinato dallanon urgenza, per tale tipo di arma, disostituirne il materiale di fabbricazio-ne14. E’ infatti evidente che, in una tipo-logia a lama ristretta, la parte più svi-luppata, ovvero il cannone, è più chesufficiente, anche in bronzo, ad aprireuna ferita piccola e profonda; viceversa,per i tipi a lama espansa (la cui schermadoveva prevedere anche colpi di filo,come con le spade) la robustezza dellaparte più sottile, la lama, poteva essereconseguita essenzialmente con il ricorsoa materiali innovativi e più saldi come ilferro.Di fatto, durante la facies villanoviana, fuprevalente la tendenza conservativalegata alla già citata funzione di oggettod’uso, ed appare prevalente una scher-ma di lancia basata su attacchi di punta,contrastati da parate di scudo e da con-trattacchi che, con armi offensive cortee sufficientemente pesanti, potevanopuntare alla rottura dell’asta. Nell’o-rientalizzante invece l’impiego di armioffensive in ferro non assolveva dappri-ma ad un mero fine di prestigio edostentazione, ma rispondeva probabil-

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Le lance ed i giavellotti

Alcuni esempi di punte di lancia in bronzodella prima età del ferro, diverse perampiezza, foggia della lama e sezione

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mente alla necessità funzionale di unamaggiore penetrazione balistica nellearmi difensive che, impugnate o vestite,contemplavano ormai non solo mate-riali deperibili, ma ricorrevano ampia-mente al bronzo. In più l’ampliarsi dellelame foliate nell’orientalizzante rispon-deva a necessità tattiche e ad una ten-denza tecnologica connessa al facilitarsidell’approvvigionamento di metalli,osservata anche più tardi, ad esempionel mondo sassone, dove le punte dilancia da misure di 10-20 cm arrivano a30-50 cm con l’espandersi della produ-zione metallurgica15. Le punte piùrobuste allungate, e con cannoni rinfor-zati da accorgimenti sia del fonditoreche dell’armaiolo rifinitore, fanno pen-sare ad una scherma diversa: non sicombatte più solo con la punta, ma sidanno anche colpi di filo, si tentanoparate e ci si batte ad una distanza leg-germente maggiore, dal momento chela crescita delle misure e del peso dellapunta in metallo –dotata anche di cami-ciature protettive- comporta, per bilan-

ciare il peso, un allungamento comples-sivo dell’asta. Anche nell’armamentosassone infatti “the strong, lenghty blades which predominatein late Anglo-Saxon times, their sockets oftenreinforced by bolstering or lugs and once morecommonly welded, seem to imply a mode ofuse no longer designed to receive the greatestimpact at the tip, but one in which lateral andparrying blows are at least equally impor-tant16”.

L’arma in asta, tuttavia, anche nell’Etru-ria orientalizzante non diverrà mai, dalancia, un’alabarda, e non compariran-no mai tipi completamente privi dicostolatura centrale, a differenza deitipi medievali a sezione ellittica, piatti, oa sezione “corrugata” per un irrobusti-mento in economia di materia prima edun uso marcatamente di filo17.L’estremità posteriore della lancia villa-noviana era talora protetta da uno spi-culum o saurotèr, detto in italiano calzuo-lo o puntale, di forma conica allungata,presso la cui imboccatura si trovavanoin alcuni casi delle costolature anche

ornate ed il foro per il fermo; tale puntaposteriore era talvolta acuminata e tal-volta arrotondata.La sua destinazione primaria, con ogniprobabilità, fu quella di contrappesoche bilanciasse posteriormente il carico

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La lancia, la spada, il cavallo

In basso, punte e talloni di lancia in bronzo, da Poggio alla Guardia a Vetulonia - Vetulonia, Museo Civico Archeologico "I. Falchi";in alto, due esempi di tallone

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sulla punta dell’asta, come nel caso del-l’ourìakos omerico. L’uso per ferita deipuntali acuminati inseriti all’estremitàposteriore delle lance è forse accennatogià nell’Iliade e nell’Odissea dall’epitetoamphìgyos (Iliade XIII, 147; XV, 278,586, 637, 712; XVI, 26;XVIII, 371;Odissea XVI, 474; XXIV, 527), chepotrebbe significare “a due punte”, senon va tradotto “a due taglienti”18. Essoè comunque documentato nella seriorefalange oplitica, allo scopo di renderel’intera lancia -o un suo troncone- un’ar-ma comunque efficace19:

“gran parte delle lance, oltre alla punta (...)avevano anche alla base un puntale in bronzoacuminato, che trasformava quest’arma inuno strumento ingegnoso dotato di unapunta letale a entrambe le estremità. Il van-taggio del puntale acuminato non consistevasolo nel contrappeso alla punta (...) e neppu-re nella protezione che forniva all’estremitàinferiore della lancia quando veniva piantatanel terreno (...) il puntale acuminato tornavautile (...) quando la pugna diventava unamischia inestricabile (...) la lancia poteva ucci-dere su due fronti, permettendo a chi la bran-diva di colpire all’indietro qualora, appunto,sopraggiungesse un nemico di fianco o allespalle (...) (inoltre si poteva colpire) dall’altoverso il basso, conficcando il puntale e il suocorto manico quadrato in un nemico che gia-ceva a terra. Non era un fatto raro, comedimostrano chiaramente i buchi quadrati tro-vati nei resti dell’antica corazza portata allaluce a Olimpia20”.

Tuttavia il puntale aguzzo aveva conogni probabilità un altro, più importan-te impiego:

“la tendenza della lancia a fracassarsi all’im-patto era evidentemente cosa nota, né può stu-pire dato il diametro relativamente ridotto del-l’asta. Inoltre (...) (i guerrieri erano atti) a col-pire o a troncare le lance dei nemici con leproprie corte spade (...) Ma doveva essereabbastanza frequente che la lancia non fosseimmediatamente gettata via quando la punta sispezzava o l’asta era spaccata o troncata da uncolpo di spada: quel che restava della lancia,con il puntale acuminato, poteva essere usatonel combattimento ravvicinato. Lo storicogreco di Roma Polibio lo spiega chiaramente: ilproblema delle lance romane, racconta, erache «mancando del puntale inferiore, poteva-no essere usate per il primo colpo di punta, poisi rompevano ed erano del tutto inservibili»(6.25.9)21”.

Non solo l’urto con gli scudi nemici, lesollecitazioni ed i colpi di spada o diascia erano in grado di spezzare lelance; anche il ferimento dell’avversarioe l’infissione della cuspide di bronzopoteva danneggiare irreparabilmentel’arma, rendendo il guerriero vincentein quel duello, ma disarmato per glialtri avversari incombenti. Nella piùtarda battaglia oplitica, ad esempio,

“se il colpo di lancia era abbastanza violento daaprirsi un varco nella corazza (...) senza rom-persi, nulla garantiva che l’oplite potesseestrarla tutta d’un pezzo. Epaminonda (...) fuucciso da un colpo di lancia che penetrò attra-verso la corazza; l’asta si era rotta all’impatto eaveva lasciato la punta conficcata profonda-mente nel torace22”.

L’asta lignea, ben inserita all’internodelle parti metalliche della lancia e adesse arrestata con chiodini di fermo, di

norma è deperita nel corso dei secoli; ilMinto poté comunque rilevare che inalcune tombe a fossa da sepolcreti villa-noviani populoniesi (San Cerbone, LeGranate), “data la perfetta giacitura inallineamento della punta e del puntale,è stato possibile determinare la lun-ghezza dell’asta lignea, che è risultata inmedia di m 1,2023”.Dunque le lance complete (osservatoche le punte misuravano nelle versionipiù piccole circa 20 cm e in quelle piùgrandi circa 30 cm, e che il calzuolo eradi 10-20 cm) erano di circa cm 150-170,ovvero “sorpassavano di poco l’altezzadi un uomo24”. A conferma di tale datosi hanno le considerazioni della Barto-loni25 che, rilevata la presenza nellesepolture dell’Etruria meridionale villa-noviana di lance di circa 2 metri, nenota la posizione “per lo più con lapunta in basso in posizione di lancio”. Aqueste misure si riconducono anchequelle ipotizzate dal Capretti, per ilquale la lunghezza delle lance “variavada 145 a 185 centimetri26”.E’ degno di nota che nel X sec. a. C., inarea egea, le lance possedevano dinorma punte più lunghe che nell’Italiacentrale coeva, e l’intera arma era soli-tamente più imponente, secondo unuso peraltro tradizionale in quei territo-ri. Un tomba macedone di quel secoloha restituito una punta in ferro di 28cm, un calzuolo di 6 cm ed uno spaziotra i due reperti di cm 188, a rivelareuna lancia che, da integra, misuravacirca 222 cm27. Tali misure concordano

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Le lance ed i giavellotti

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all’incirca con quelle ipotizzate per lelance omeriche di 6 o più piedi (180-210 cm); ben più perplessi lasciano lemisure delle lance di Ettore –11 cubiti(Iliade V, 319)-, di quelle quasi doppiedegli Achei schierati a difesa delle navi(Iliade XV, 387) e di quella di Aiace Tela-monio, di ben 22 cubiti (Iliade XV, 677).Resta il fatto che, nel mondo omerico ein particolare nell’Iliade, la lunghezzadella lancia era un pregio ed una carat-teristica indiscussa dell’arma, “per gliepiteti di pelòrion, «gigantesco» (V, 594),di màkron «grande» (VIII, 424; V, 45;XIII, 168; XVII, 296), di dòlikon «lungo»(IV, 538; VII, 155 ecc.) ed infine di doli-kòskion cioè «proiettante lunga ombra»(III, 319)28”. Si può ritenere che tali più consistentiarmi potessero essere manovrate conl’uso di entrambe le mani; R. Drews hainfatti rilevato come “«spear» (...) repre-sents a weapon wielded with one hand,and «lance» represents a weapon solarge that in was normally thrust withboth hands29”.Di una presenza di tali lunghe lancenell’Etruria villanoviana, a parte varieampie cuspidi piuttosto tarde o orienta-lizzanti, non vi sono tracce precise. Trale attestazioni ormai orientalizzantimerita di essere ricordato ancora l’e-semplare di Prato Rosello di Artimino,in ferro, risalente verso la fine dell’VIIIsec. a.C.: questo, per la parte conserva-ta, tocca i 70 cm di lunghezza, ed unalarghezza massima di 9. Di forma folia-ta molto allungata e rastremata sul

davanti, questa lancia ha una forte ner-vatura centrale ed il cannone circolare èlungo un terzo della misura complessi-va30.Per migliorare l’innesto dell’asta con leparti metalliche, il legno veniva accura-tamente intagliato per occupare glispazi cavi nella punta e nel calzuolo,come dimostra il ritrovamento nellanecropoli di Podere del Lago dell’Acce-sa31 dell’anima lignea all’interno di uncalzuolo di lancia, databile alla secondametà dell’VIII sec. a. C. Sono da rite-nersi invece del tutto erronee le rico-struzioni secondo le quali il lavoro diinnesto delle parti lignee in quellemetalliche e di infissione dei chiodid’arresto era completata, a chiusura, col“mettere l’arma a bagno per favorire ilrigonfiamento del legno fino ad aderireperfettamente32”. Se con tale tecnica, almomento della bagnatura, il legno gon-fiando poteva effettivamente calzaremeglio di prima bloccandosi sul metal-lo, al momento dell’asciugatura il“gioco” tra le due parti sarebbe aumen-tato di molto, rendendo l’innesto mal-fermo e l’arma inservibile33.Le analisi condotte già oltre un cin-quantennio fa34 su reperti dell’Italiacentrale tirrenica avevano evidenziatol’uso per le aste di legni comuni nellavegetazione laziale e toscana, con unapredilezione per varietà caratterizzateda robustezza ed elasticità necessarieall’uso. Le analisi effettuate ormai molto tempoaddietro su reperti di Vetulonia, “mostly

in the form of points or cusps of lances,studied in transverse and, where possi-ble, in tangential and radial section,were found to belong to the genera Acer,Viburnus, Crateagus and Pinus and tospecies common in Tuscany35”. Le fontiletterarie ci hanno inoltre conservato lamemoria di una essenza lignea utilizza-ta dai sacerdoti Fetiales romani (e nonsolo romani), cui spettava il lancio dell’-hasta in fines come dichiarazione ufficia-le di guerra. Questa “lancia magica” erafatta di corniolo, essenza che si caratte-rizza per l’estrema durezza e che pro-prio per questo fu usata anche dagliopliti greci36. Recentemente, all’interno della lanciadi Prato Rosello, è stato possibile

“identificare (...) il frassino (Fraxinus excelsior L.)come specie legnosa costituente. Il legno difrassino, che possiede tessitura media o grosso-lana e fibratura dritta è particolarmente indi-cato per questo tipo di utilizzo, data la sua otti-ma resistenza meccanica, soprattutto rispettoalle sollecitazioni dinamiche. Lo sfruttamentodi questo legname per la produzione di armi inasta è testimoniata anche in epoca romana(Plinio XVI, 43) motivo per il quale il frassinoè stato a lungo coltivato, insieme al faggio. Lascelta per la realizzazione della lancia di ferrodel tumulo B è stata perciò operata in base allecaratteristiche tecnologiche di questo legno enon tanto, vista la locazione, secondo conside-razioni di tipo rituale37”.

Anche dalle indagini sui reperti dellanecropoli di VIII-VII sec. a.C. di CasaleMarittimo si sono ricavate informazionisui legni adottati per le armi:

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La lancia, la spada, il cavallo

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“ Il bosso (Buxus semper virens L.) costituisce l’a-sta di una lancia in ferro: è un arbusto o albe-rello dal legno compatto, tessitura finissima efibratura spesso irregolare: eccellente per lalavorazione di piccoli oggetti al tornio, il suoutilizzo, nel caso in esame, sembra essere det-tato da motivi puramente celebrativi. (...)Manici di asce e aste di lance in ferro sono difaggio (Fagus Sylvatica L.) e corniolo (Cornusmas L.). (...) Il faggio ha una fibratura per lo piùdritta, tessitura fine e regolare, è un legno com-patto, ma di facile lavorazione, è adatto a lavo-ri al tornio ed utilizzato anche in epoca roma-na per la realizzazione di aste di lance per cuivenivano coltivati faggeti (e frassineti) da cuiricavare, dagli alberi più dritti, il legname mili-tare. In questo impiego andò a rimpiazzare ilcorniolo, che era ricercato fin dal Neolitico,nell’età del bronzo per manufatti quali appun-to le impugnature e le aste, oggetti che neces-sitano di grande robustezza38”.

Il frassino era impiegato anche per leaste delle armi omeriche: “Il legno ingenere era il frassino, da cui deriva ilnome di «melìe» e l’epiteto di «meìlinon»(Iliade XVI, 143; IXI, 390; XX, 277;XXI, 162; XXII, 133; 328; OdisseaXXII, 259, 276 ecc.)39”.Il peso della lancia villanoviana si dove-va aggirare attorno al chilo, poco menodella robusta lancia omerica, di circa 2kg40, e della versione greca per gli opliti

“che, lunga circa due metri - due metri e mezzo,veniva maneggiata con la sola mano destra; erafatta di corniolo o anche di frassino, ma avevaun diametro soltanto di due-tre centimetri, eperciò pesava non più di uno o due chili41”.

Il materiale iconografico testimonia chela lancia era impugnata, nel combatti-mento, prevalentemente sopramano,

ovvero serrandola nella destra tenutasopra la spalla con la punta rivolta dallato del dito mignolo, in modo da sfrut-tare per l’affondo la spinta congiuntadella spalla e del tricipite; durante lefasi di avvicinamento al teatro dei com-battimenti invece doveva essere soste-nuta o presso la maniglia dello scudo,nella sinistra, o nella destra rilasciatalungo il fianco, con la punta in avantirivolta in basso (sottomano), o ancora apunta in alto, sulla spalla destra.Chi scrive ha verificato sperimental-mente quali caratteristiche potesseavere lo scontro ravvicinato tra dueguerrieri armati di lancia, impugnatasopramano, e di scudo, come dall’ico-nografia accadeva in epoca villanovianaed orientalizzante. Utilizzando aste dicirca m 1,80-2,00 di lunghezza (sullascorta dei ritrovamenti archeologici) edue scudi del diametro di circa cm 45con maniglia centrale, due persone distatura tra i cm 170 e 180 si trovano ad

affrontarsi, per necessità di allungo edifesa, ad una distanza di circa cm 120,misurati da petto a petto, e comunquevariabile spesso per crescita. La posizio-ne naturale, per duellanti destri, è conla gamba sinistra avanzata ed a 60/80cm di distanza dalla destra arretrata, colpeso bilanciato su entrambi i piedi inmodo da poter facilmente spostarsi siaper schivare che per affondare colpi. Aldi sotto di un metro la distanza di com-battimento risulta troppo corta, e non èpossibile più traguardare la punta dellalancia addosso all’avversario per cui o cisi allontana o si finisce in un corpo acorpo usando un’altra arma da offesa.Viceversa, ad oltre cm 150 di distanza,potando colpi di punta da sopramanonon si riesce ad offendere senza chel’angolo formato dall’avambraccio conl’asta della lancia si allontani fortemen-te dai 90 gradi, orientandosi verso i 45gradi, ovvero fino al punto in cui non siriesce più a fornire spinta di spalla e tri-

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Le lance ed i giavellotti

Due momenti della simulazione di scontro per la valutazione delle distanze di combattimento

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cipite alla lancia; il colpo non è più ret-tilineo, ma si fa curvo nell’ultima partedel movimento, e quindi diviene debo-le ed inefficace.La scherma complessiva è un ondeggia-re del busto e delle spalle, con movi-menti laterali ed avanzamenti; l’atten-zione è tutta sugli spostamenti dellapunta avversaria e dello scudo avversa-rio, dal quale peraltro la propria puntadi lancia, in fase di guardia, dista semprepochi centimetri. L’istinto di coprirsi iltorace nella posizione di guardia-base fasì che la parte più facilmente esposta alleferite sia la coscia. Infatti se si tenta ilcolpo al busto dell’avversario ma si restaostacolati dal sollevamento dello scudodi questi, una blanda quanto spontaneatendenza a sollevare a propria volta loscudo lascia la coscia sinistra alla mercédell’avversario. L’affondo da sopramanoè inoltre sempre piuttosto veloce, e laparata con lo scudo è più facile in via dis-suasiva, per anticipo; è cioè molto effica-ce –e proficuo per copertura- seguiresempre con lo scudo la direzione che vaprendendo la punta dell’avversario, vici-nissima, evitando così l’affondo. Laparata ottenuta con lo scatto della sini-stra ad affondo partito è difficile anchecon uno scudo leggerissimo a causadella rapidità dei colpi di lancia, e que-sto offre un’utile indicazione sulla prefe-renza per difese in materiali molto leg-geri come il vimini.L’area raggiungibile dalla distanza dicm 120 è praticamente tutto il corpo, etutta la gamba sinistra avanzata, piede

compreso; la fascia dove il colpo sopra-mano è più rettilineo, e quindi affonda-to meglio, va dal capo al basso ventrecompreso.Con un aumentato dispendio di ener-gie, un atteggiamento meno prudente econ maggior movimento, la schermapuò farsi ancor più veloce e animata,con ampi e veloci movimenti sullegambe e con un uso aggressivo anchedello scudo, ad urtare la punta dellalancia dell’avversario, al fine di disto-glierne la capacità offensiva e permette-re il proprio affondo. La parata con lo scudo è senz’altro pre-feribile se ha per esito l’evitamento asinistra, ovvero se la lancia dell’avversa-rio viene fatta scivolare sull’esternodello scudo stesso, mandandola a per-dersi oltre il proprio fianco sinistro. Sipuò allora portare un colpo all’avversa-rio sbilanciato in avanti e comunqueprivo momentaneamente di capacitàoffensiva. Se peraltro anche l’avversarioreagisce con la stessa tecnica di evita-mento a sinistra (lo scambio avviene inun secondo), i due contendenti finisco-no col trovarsi a mezzo metro o meno,petto contro petto. A questa distanza,con le lance costrette all’esterno dallapressione degli scudi, il guerriero arma-to di pugnale o di spada corta, lascian-do cadere la lancia ed estraendo l’armasecondaria con un gesto molto repenti-no, ma restando molto attento a mante-nere una pressione del corpo control’avversario attraverso lo scudo e spin-gendo questi indietro a retrocedere,

può tentare il colpo risolutore. Puòinfatti cercare di colpire, alla brevissimadistanza, passando attorno allo scudodell’avversario, il quale, se costretto aretrocedere ed ancora con la lanciaimbrigliata lungo lo scudo dell’opposi-tore, non può colpire, e dispone dipoche possibilità di parare rapidi colpidi spada da così vicino. Se entrambi i contendenti, invece, sonoarmati di sola lancia, dalla posizione distallo essi possono portare dei colpi alcorpo dell’avversario con le ginocchia,tentando di atterrarlo e poi di trafig-gerlo al suolo.Nella schema elementare di questogenere di combattimento, comunque,l’evitamento della lancia avversaria condeviazione a sinistra è sempre vincente:con esso si può trovare spazio per por-tare un colpo di risposta, oppure si puòassalire fisicamente l’avversario (se siaha vantaggio di posizione, di baricentroin avanti o di peso corporeo) cercandodi farlo cadere all’indietro, anche conl’aiuto dei piedi. Una volta a terra, doveper lo più si atterra sul fianco destro, equindi con la lancia bloccata al suolo, siè comunque privi di capacità di bran-deggio dell’arma in asta, e di fatto iner-mi, se non per la difesa dello scudonella sinistra sollevata. In una tale posi-zione la disponibilità di una spada, spe-cie se non fissata sul fianco destro ma asinistra o sul petto, poteva essere dinotevole utilità, permettendo -lasciatala lancia- di cercare di mostrarsi ancoracapaci di offendere, rallentando l’attac-

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La lancia, la spada, il cavallo

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co risolutore e, magari, consentendo dirialzarsi se agili, cosa che invece la lan-cia avrebbe intralciato.Di fatto, nella palese difficoltà di sor-prendersi a distanza tanto ravvicinatacon un colpo inatteso della punta dilancia, la risoluzione dello scontro dove-va spesso basarsi sulla capacità di eserci-tare una spinta sul corpo dell’avversarioper atterralo e lì finirlo, in una schermamolto povera ed in uno scontro marca-tamente fisico. Forse la tecnica di scon-tro oplitico più recente trasse, proprioda questa precedente prassi di spintacorporea nei duelli, l’uso della pressio-ne fisica scudo contro scudo, corpo con-tro corpo, con l’amplificazione dellapotenza erogata grazie alla sommatoriadelle forze su file.Non è secondario rilevare che, in unoscontro con la lancia sopramano, comesi ritiene in uso nella prima età delferro, si ha la sensazione che sia impos-sibile uscire entrambi illesi dal confron-to, con quanto ne consegue sul pianopsicologico. “Offensive weaponry –thespear mostly- required little expertise(«there was litte chance», Xenophon’sCyrus dryly remarked, «of missing ablow»” -Cyr, 2.1.16-18-)42”. Anche condue aste spuntate ed arrotondate all’a-pice due contendenti sufficientementeaggressivi si possono produrre ecchimo-si e ferite superficiali; nella confusionedella lotta la punta metallica ed il filotagliente potevano ferire anche con urticasuali. La distanza, inoltre, era talmen-te breve da mettere in contatto i due

corpi, e far avvertire fisicità, forza, odoreed emozione dell’avversario.Se nessuno dei due contendenti tentavadi interrompere lo scontro sganciando-si, è da pensare che al massimo entroqualche minuto, se non in una mancia-ta di secondi, qualcuno doveva necessa-riamente incorrere in un errore, espo-nendosi così ad una ferita o alla morte.I movimenti che gli eroi effettuano nel-l’Iliade, uscendo da gruppi per andare aduello per poi ritirarsi al loro interno sein difficoltà o per venire da queste soc-corsi se feriti, o per facilitare lo sgancia-mento, offrono una possibile indicazio-ne delle tattiche in uso anche nell’Italiacentrale della prima età del ferro, inte-se a scontrarsi ma a limitare il numerodelle perdite. In caso di mischia gene-rale, senza file raggruppate e stanti,presso le quali ritirarsi, le perdite daentrambe le parti dovevano esserepesantissime, in quanto in ogni duellouno dei contendenti era destinato arestare invalidato o ucciso.E’ molto probabile l’ipotesi che le schie-re si corressero incontro, ma che cercas-sero comunque di mantenersi abbastan-za distinte, formando una sorta di “cor-done”, in modo da non venire presi sin-golarmente alle spalle, e di non restaretroppo esposti da isolati, disarmati oferiti. Forse i guerrieri di ciascun grup-po si tenevano a breve distanza o a con-tatto, muovendosi “in sciame” e seguen-do l’avanzata dei più arditi, che delreparto erano la punta, in una disposi-zione vagamente a semicerchio in avan-

ti. Ove respinti, coloro che avevano piùavanzato venivano appoggiati dai vicini,che peraltro ne impedivano l’aggressio-ne alle spalle o sul fianco, mentre tra idue gruppi dovevano avvenire scambidi lance e/o giavellotti: anche nell’Iliadesi verificano casi in cui si getta la lanciain direzione di un nemico, ma se neprende un altro vicino. Ettore ad esem-pio scaglia la lancia contro Aiace, mafallisce il colpo ed invece di lui “colpìnella testa sopra l’orecchio coll’acutalancia Licofrone, mentre stava vicino adAiace” (Iliade XV, 433-435).Ogni combattente dunque cercava pro-babilmente di avanzare minacciandocon la lancia, se la controparte cedeva,seguito dai compagni, oppure ripiegavaottenendo protezione dal proprio grup-po se era ferito, se aveva rotto l’arma inasta, o se aveva perso lo scudo.Forse come in Grecia al momento del-l’assalto alla lancia tra truppe appiedatei guerrieri

“cominciavano a coprire di corsa gli ultimiduecento metri, abbassavano la lancia e la por-tavano al fianco tenendola sottomano (...) Col-pendo in corsa con la lancia tenuta a quelmodo si sfruttavano al massimo lo slancio e laforza, e naturalmente risultava più facile man-tenere sia la velocità sia l’equilibrio43”. (...) (ilguerriero) “toglieva la lancia dalla spalla e lateneva sottomano, sia per rendere più agevoligli ultimi passi della carica, sia per poter por-tare il colpo di lancia all’inguine o sotto loscudo (...) Tuttavia, dopo che i due schiera-menti si erano scontrati, c’erano maggiori pro-babilità di trovare uno spiraglio tenendo la lan-cia sopramano (...) (portando) il colpo dall’alto

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Le lance ed i giavellotti

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in basso al collo, alle braccia e alle spalle. Poi-ché a quel punto non era più possibile sfrutta-re lo slancio, se si teneva il braccio alzato inquesta seconda posizione si era in grado diimprimere al colpo energia sufficiente peruccidere o per ferire seriamente il nemico44”.

Ai lancieri si opponevano comunque,con buone possibilità di danneggiarnele aste, i guerrieri armati di spade e diasce; questi ultimi tuttavia erano espostial maggiore allungo dei lancieri, e alladistanza erano praticamente indifesi.Alcune sepolture villanoviane hannoreso più cuspidi di lancia (o più puntali)a documento della deposizione di lancein numero maggiore all’unità. Questaosservazione ci introduce ad una com-plessa discussione inerente da un lato ilvalore simbolico della lancia -cheriprenderemo-; dall’altro ci porta avalutare l’uso e la fattiva tipologia di gia-vellotti da lancio, utili in più esemplari,inducendoci ad esaminare le classi dicuspidi e “puntali”, nonché le proble-matiche di impiego delle armi d’asta dapunta e da getto.Il valore simbolico di alcune lance,come pegno di maturità o di valoreguerriero secondo usi italici e romani(ovvero quale “decorazione” o frutto dispoglie) potrebbe infatti offrire unaspiegazione alle deposizioni multiple diesse nel significato di “pluridecorato” e“valoroso” dello scomparso.Tuttavia la presenza, su alcune effigi, diarmati con più “lance”, secondo un usoperaltro attestato presso altre civiltàcoeve del Mediterraneo, induce a pen-

sare che anche in guerra, almeno nel-l’avvicinamento al teatro di scontro,alcuni soldati portassero più di unaarma d’asta con loro. Quale fosse l’usopratico di tali armi, e se in battagliavenissero portate tutte contemporanea-mente, è una questione di considerevo-le peso sul piano della ricostruzione tat-tica. Se si trattasse di più lance da usoesclusivo di punta, andrebbe ipotizzatauna particolare tecnica di scontro(oppure, vista l’assenza di immagini di

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La lancia, la spada, il cavallo

Un particolare del vaso a diaframma dalla tomba 23 dello Stradello della Certosa di Bologna -Bologna, Museo Civico Archeologico, e disegno che schematizza il guerriero con due lance stampigliato sul vaso

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lance impugnate alcune nella sinistraed una nella destra in scene di combat-timento, addirittura l’esistenza di un“campo”, un luogo intermedio tra lesedi abitative ed il teatro di guerra, dovevenissero conservate le armi da puntasupplementari, “di riserva”, per i guer-rieri). Se si trattasse invece di giavellottida lunga distanza si dovrebbe conside-rare la consistenza, l’organizzazione el’effetto degli utilizzatori delle armi dagetto negli eserciti del tempo, implican-do nella tattica militare villanoviana unprimo ingaggio tra schiere opposte giàa varie decine di metri; di notevole pesosarebbe il poter stabilire se i guerrieriportavano con sé sia lance che giavellot-ti, ovvero entrambi i tipi d’arma.La presenza di più lance nelle sepolturenon è diffusa sino dall’inizio dell’età delferro in Italia centrale; le deposizioni piùantiche hanno una sola lancia o giavel-lotto, mentre è solo più tardi che fanno laloro comparsa le deposizioni multiple:“la presenza di due o tre lance è attestata, apartire dell’VIII secolo avanzato, generalmen-te in corredi caratterizzati dalla presenza delloscudo e del carro, come si evince dall’analisidella necropoli veiente di Quattro Fontanili. E’nota anche da raffigurazioni sia greche chelocali, come l’olla dipinta della tomba di Boc-choris di Tarquinia, e soprattutto dalla nostrafonte principale per l’età geometrica, cioèOmero, che a proposito di Eumeo descrive unapanoplia: «Io vado cercando per te uno scudo,due picche, un elmo di bronzo», descrizioneche trova conforto anche nella varie rappre-sentazioni della donazione di armi ad Achille,tema preferito dei rilievi delle casse dei carri daparata etruschi45”.

E’ possibile, in accordo con quanto rile-va lo Snodgrass per il Medioevo elleni-co46, che anche nell’Etruria villanovianale lance venissero usate indifferentementeper il getto e per l’uso di punta. Infattianche nella Grecia omerica, a partiredal 900 a. C., si rinvengono nelle tombepiù lance, sul cui significato l’autore,anziché verso il pegno di benessere -puripotizzato-, propende piuttosto verso latestimonianza di una diversa tatticad’ingaggio, “per cui la lancia veniva sca-gliata come fosse un giavellotto, e se neportava più d’una47”. A prova di ciòperò egli adduce solo la presenza diimmagini dipinte, con caduti isolati tra-fitti da lance, ed i passi omerici che cita-no eroi armati di “un paio di doùrata ”,più probabilmente giavellotti.Sembrerebbe comunque possibile che ilguerriero, dopo aver scagliato alcunedelle sue armi alla breve distanza tenes-se l’ultima per l’uso di punta e di botta(quale lancia). A simili considerazioni, ead alcune perplessità, giunge anche ilDrews osservando che

“Homeric warriors occasionally carry two dou-rata, throwing one and thrusting the other, butwhether that practice obtained in the realworld we do not know. (...) One would supposethat a warrior who wished to throw a missile atan opponent, before having to engage himwith a thrusting spear, would bring to the batt-le two quite different weapons48”.

In effetti, presso gli antichi ed anchepresso vari popoli primitivi di età con-temporanea, la lancia è usata anche per

il getto a breve distanza, col quale sipossono ottenere risultati contro bersa-gli non protetti, sorpresi o dotati di dife-se insufficienti contro un colpo potente.Il lancio infatti

“requires a strong arm but a light touch. Thegrip therefore should be firm but not tight. Asthe spear is raised to shoulder level, the wrist isbent so that the hand is palm up and the spearis parallel to the ground. The shaft of the spearruns across the heel of the hand and betweenthe thumb and the first finger. All your fingersrest on top of the shaft while the thumb runsalong the lenght of the shaft. The spear shouldbe gripped at the balance point or slightly for-ward. The throwing motion demands the coor-dination of the entire body and will requirepractice. For a right-handed person, the thro-wing motion begins with the right foot a stepahead of the left. The spear is gripped asdescribed above and held parallel to theground with the hand slightly ahead of theright shoulder. From this starting position, theleft foot moves forward while the right hand isdrawn back as it would be when throwing afootball. The spear remains level or the pointslightly elevated. As the left foot is toughingdown a step ahead of the right foot, the righthip and shoulder begin to rotate to the left. Atthis point the arm, hand, and spear are drivenforward. Although this throwing motion is bro-ken down here into steps, always rememberthat this is to be a smooth, fluid, and well timedmotion. The accuracy of your throw willdepend to a great extent on your release andfollow through. The spear should feel as if it isrolling from your fingertips as it leaves yourhand. This will ensure a light touch and willimpart a spin which will help to keep the spearfrom wobbling in flight. The wrist should snapforward and the arm and shoulder should befully extended in a straight line toward yourtarget. Your left foot will now be your forward

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Le lance ed i giavellotti

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foot and you should finish in a deep forwardstance. Proper release and follow through willgive you the needed control over your thro-wing spear and will serve to guide it to its mark.As you will find, the spear is easy to throw. Prac-tice is the key to polishing your tecnique andimproving your strenght and accuracy49”.

Alcune immagini nella ceramografiagreca -sebbene dunque riferibili ad unmomento più tardo e ad un’altra cultu-ra- pongono l’ipotesi dell’esistenza dialtre forme di impugnatura, di schermae di getto. Su una nota coppa a figurenere della metà del VI sec. a. C.50 chiscrive ha notato un guerriero in elmocorinzio e scudo tipo Dipylon che impu-gna nella destra un’arma d’asta dallalunga cuspide con lama foliata. All’astadi quella che sembra a tutti gli effetti unalancia -visto anche il resto della panopliae l’impugnatura sottomano- è legato unlaccio o ankyle nel quale, come nell’a-mentum romano da giavellotti, il guerrie-ro ha infilato alcune dita. L’impiego del-l’ankyle o amentum non è estraneo all’Ita-lia della prima età del ferro, infatti

“ai lati del Guerriero (di Capestrano) salgonodue pilastrini che recano a rilievo la rappresen-tazione di altrettante lance: particolare interes-sante è che entrambe hanno le aste munite diun gancio in cui s’è riconosciuto quel fermo perla correggia di cuoio –i romani la chiameranno«amentum»- usata a rafforzare il lancio del gia-vellotto. Le due armi del Guerriero saranno,pertanto, da ritenere da getto, simili alla roma-na «solis», anch’essa munita di un gancio51”.

L’ipotesi che l’arma ritratta nella coppagreca a figure nere sia stata un giavellot-

to -sulla base dell’ankyle, come ha ritenu-to il Warry52- è peraltro frustrata dall’ac-curatezza della raffigurazione dellamano destra e delle dita, per cui l’armaè sostenuta sottomano (ovvero punta inavanti verso il pollice, lungo il fianco)con pollice, indice e medio chiusi, men-

tre anulare e mignolo sono dentro il lac-cio, ben distesi, ad effettuare una trazio-ne sull’ankyle destinata a migliorare laspinta. Da una tale posizione, così benritratta, è assolutamente impossibile scaglia-re l’arma sopramano, da sopra la spallacome vuole la tecnica ginnica e la tradi-

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La lancia, la spada, il cavallo

Particolare di coppa a figure nere della metà del VI sec.a.C., con guerriero che impugnasottomano una lancia con ankyle

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zione per il giavellotto, ed è ancheimpensabile che il guerriero si potesseaiutare ad una elaborata manovra dimodifica di impugnatura (da una presainutile) con la sinistra, che è gravata dalpesante scudo e ad esso bloccata dalbracciale e dall’impugnatura.Per una completa conoscenza delle pos-sibili impugnature ed impieghi dellalancia con amentum nel mondo anticonel suo complesso sono state dunquevalutate sperimentalmente due ipotesi,ovvero che tale arma venisse impiegata,così come la vediamo sorretta, qualelancia, da punta, solo sottomano edaumentandone l’efficacia di affondograzie all’ankyle, oppure che venisse sca-gliata, come un giavellotto, ma con unaparticolare tecnica da sottomano, pro-babilmente con una traiettoria bassa etesa destinata ad una gittata brevissima.La prima si è rivelata da subito infon-data, in quanto impraticabile e svantag-giosa per la debolezza dell’impugnatu-ra nell’uso di punta a mo’ di picca.Sono stati dunque sperimentati dei tiridi lancia alla breve distanza, ponendo aconfronto l’efficacia, la precisione e lapotenza del tiro sopramano senza amen-tum con quello sottomano, con amentum.Per gli esperimenti di tiro si è usato,quale bersaglio, un pannello di truciola-to dello spessore di 8 mm e delle misuredi cm 100x180, sul quale è stata dise-gnata una sagoma umana alta cm 173.Una prima sessione di tiro è stata fattacon un’asta lignea di sezione ellissoida-le, di circa 3 cm di diametro, lunga 196

cm, e dal peso di 410 grammi, priva dipunta metallica e dall’estremità piatta.Il legno di abete, nuovo e leggero mapoco resistente alle forzature laterali,dopo 6 tiri sopramano da una distanzadi circa 5 metri (dei quali alcuni sonoriusciti a penetrare il bersaglio per lospessore), si è fratturato diagonalmentedurante un tiro giunto sulla sagomanon perpendicolarmente ma con incli-nazione.La seconda sessione di tiro è stata fattacon un’asta di sezione ellissoidale dal

diametro di cm 3,5 circa e di 147 cm dilunghezza, dal peso più rilevante, dicirca 600 grammi. Di fibra sottile e com-patta, quest’asta era costituita da legna-me molto vecchio, e recava anche alcu-ne fessurazioni longitudinali, ma laforte stagionatura l’aveva resa moltorobusta. Con questa, ancora senzapunta metallica, e dall’estremità arro-tondata, si sono effettuati dei tiri sopra-mano, poi sottomano con l’aiuto dell’a-mentum, sempre alla distanza di 5 metridal bersaglio.

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Le lance ed i giavellotti

Due vedute del bersaglio a sagoma umana impiegato in sessioni diverse per prove sperimentali ditiro con lance utilizzate sottomano e sopramano

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Il posizionamento dell’amentum harichiesto alcuni accomodamenti; inizial-mente infatti esso era stato fissato all’a-sta al baricentro di essa stessa, facendosporgere il laccio dove introdurre le ditaverso il davanti dell’asta, per una lun-ghezza di 12 cm. Con tale disposizione,tuttavia, la punta dell’arma si abbassavapuntando verso terra. Per ottenere deibuoni colpi sottomano con l’impiegodell’amentum si è dovuta arretrare lalegatura di questo all’asta in modo chel’estremità del suo cappio libero, tenutoin trazione verso l’avanti per il lancio,con le dita inserite, corrispondesse albaricentro dell’asta. Per portare i colpi siè eseguito un passo, partendo da 6metri e facendo partire l’arma da 5metri dalla sagoma, tenendo inseriti nellaccio, in posizione sottomano, l’anulareed il mignolo. La mano destra reggedunque l’asta con indice e medio davan-ti al baricentro, pollice ad anello, edanulare e mignolo entro l’amentum benteso. Al lancio, il braccio ruota avantisalendo, e le dita nell’amentum fanno dapropulsore, aumentando la forza delcolpo.Una volta affinata la tecnica di tiro conle diverse impugnature, (sopramano,sottomano, sottomano con amentum) lamaggior parte di colpi, pur senza puntaall’asta smussata, sono riusciti a perfora-re gli 8 mm di truciolato, e penetrandoin più casi per oltre 15 cm oltre la super-ficie. Su 24 colpi solo 7 non hannoavuto effetto perforante, e si è trattatoper lo più di tiri in cui, a causa di una

imperfetta impugnatura dell’amentum,l’asta non è giunta perpendicolare albersaglio. Comunque, i 7 tiri che nonhanno perforato il bersaglio sono statitutti portati sottomano. Su 17 tiri da sot-tomano con l’amentum, 10 hanno perfo-rato il bersaglio; su 7 colpi sopramanotutti hanno conseguito lo stesso risulta-to. E’ molto interessante osservare cheusando la stessa asta per sferrare uncolpo a due mani da sottomano con lamassima forza applicabile (ovvero conun colpo da picca) non si è riusciti adottenere la perforazione del pannellobersaglio. Sullo stesso pannello, per unaverifica del potere di penetrazione dialtre armi, ed un confronto del poteredi arresto tra le armi da pugno, in astae da getto, si è tentata la perforazionecon un’arma da pugno a daga, in ferro(lunghezza 20 cm, spessore 4 mm, lar-ghezza massima 40 mm). Si sono otte-nute, su 5 tentativi, due incisioni mini-me, una larga 2 cm, una di 3 cm, ed unadi 4 cm, ovvero quanto la lama stessa.Appare chiaro che il potere di penetra-zione di una lancia scagliata, anchesenza punta metallica e non aguzza, ènotevole rispetto al peso ed alla mode-sta velocità del proietto.Valutando le zone di arrivo dei colpi sulbersaglio –come si vede in illustrazione-si è provveduto a dividere l’altezza dellasagoma in cinque fasce: cm 0-45, dalpiede al ginocchio; cm 45-75, dal ginoc-chio alla coscia; cm 75-110 dall’inguineal limite inferiore della cassa toracica,oltre all’avambraccio con mano tenen-

do le braccia semiflesse; cm 110-145,torace, petto e spalle, oltre al bracciosemiflesso; cm 145-173, testa.Pur tenuto conto che su 24 tiri solo 19sono effettivamente caduti entro lasagoma umana, si sono calcolati, peruna statistica sull’altezza di impatto,tutti i tiri effettuati. Due soli sono all’altezza della testa (deiquali uno entro la sagoma), entrambiscagliati sopramano. Nella fascia checomprende busto, addome e bracciasono pervenuti 16 colpi, tutti entro lasagoma. Di questi, 11 erano al corpo e5 alle braccia e alle mani; in particolare7 nella fascia toracica (di cui 3 scagliatisopramano e 4 sottomano con amentum)ed uno solo, effettuato con amentum,nell’avambraccio. Quattro colpi eranoarrivati nella fascia del ventre (tre dasopramano ed uno solo dal basso, conamentum); quattro erano alla mano sini-stra, portati da sopramano. Se gli artisuperiori avevano subito 5 colpi, quelliinferiori ne avevano subiti 6, dei qualiperò solo 2 entro la sagoma; tra i quat-tro all’altezza della coscia –tutti dasopramano- erano compresi i due colpia bersaglio, mentre quelli agli stinchierano 2 –uno sopramano, uno sottoma-no con amentum- ma entrambi esternialla sagoma.Nel complesso emerge che la “rosata”di tiro si concentra tra le clavicole, inalto, e l’inguine in basso, ovvero nel“bersaglio grosso”. In quest’area, non-ostante il getto da sottomano, si con-centrano anche quasi tutti i colpi sca-

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La lancia, la spada, il cavallo

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gliati con la particolare tecnica con l’a-mentum dedotta dal vaso greco arcaico(e comunque, nonostante la presenzadell’amentum, non attestata in Etruriané in epoca villanoviana né dopo, allostato attuale). Se l’altezza delle cosce èfacilmente raggiunta, lo sono meno glistinchi e la testa, dove la ridotta ampiez-za del bersaglio (con la mobilità delguerriero) rendeva il tiro difficile; il lan-

cio da sopramano mostra di raggiunge-re con facilità tutte le zone corporee del-l’avversario. Vale la pena di notare chetutti i colpi, meno i due agli stinchi(ovvero: circa il 92%) avrebbero potutoessere parati con l’impiego di unoscudo del diametro minimo di 45 cm.A questi dati frutto di una autonomasperimentazione, si possono utilmenteaggiungere e confrontare quelli che è

possibile trarre dalla lettura dei poemiomerici. Lo studio del Botto Micca hapazientemente ricavato dati sulle feriteriportate dai guerrieri nell’Iliade, ed haricavato che, per le ferite leggere, 19volte queste sono state provocate da unalancia, 6 da freccia, 4 da un sasso, e tretra cadute, urti e corpi contundenti. Perle ferite gravi con esito letale la lanciarisulta impiegata in 91 casi, 23 la spada,

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Le lance ed i giavellotti

cm 173

lancio sottomano con amentum

2

3

7

4

1

Legenda

Totali

Totale: 24

lancio sopramano

area di dispersione colpi sottomano con amentum

area di dispersione colpi sopramano

0

5

1

0

10-45 cm

45-75 cm

75-110 cm

110-145 cm

145-173 cm

Distanza: 5 m

Risultati delle prove di tiro di lance utilizzatesottomano e sopramano

Legenda delle aree colpibili con lancia a 5 m

area di arrivo colpi sottomano con amentum(in chiaro la zona più colpita)

area di arrivo colpi sopramano(in chiaro la zona più colpita)

Applicazione esemplificativa delle aree di arrivo dei colpidella sperimentazione di tiro su una sagoma di guerriero

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10 la freccia, e solo 4 il sasso. Esami-nando le zone raggiunte dai colpi mor-tali con la lancia, risulta che la “casisti-ca” omerica individua 18 tiri letali altorace, 28 alla testa, 25 all’addome, 4all’omero destro, 3 all’omero in genere,uno che colpisce al contempo omero emano, uno all’anca, uno alla gamba, 6passanti al dorso-torace, 3 al dorso.

“Come si vede la lancia è l’arma più letale, fattoquesto comprensibile pensando alla tattica, allearmi difensive dei guerrieri ed alla costituzionedell’arma stessa. La tattica infatti preferiva lalancia (...) aveva il grande vantaggio del mag-giore peso e quindi della maggior penetrabili-tà attraverso le armi difensive (...) era scagliatapiù da vicino e la sua massa le permetteva diperforare lo scudo o l’elmo o la corazza. (...) Lalancia (…) (come risulta dai poemi omerici)perforava con abbastanza facilità lo scudo esovente anche la corazza retrostante e così pureattraversava il casco penetrando nel cervello.Questa forza di penetrazione è dimostrataanche dal fatto che tutte le volte, in cui la lan-cia colpiva una parte scoperta, la attraversavacompletamente53”.

Ovviamente non è il caso di riportaretutti i passi omerici in cui la lancia èimpiegata per ferire l’avversario; puòessere interessante accennare solo all’at-testazione esplicita di colpi portatisopramano (Iliade XI, 420-421) da Ulis-se che “per primo coll’acuta lancia assal-tandolo ferì dall’alto in giù nell’omerol’egregio Deiopito”, e che gli elmi nonsembrano aver resistito granché ai colpidi lancia se Aiace Telamonio (XVIII,293-300) uccise Ippotoo colpendolo “davicino attraverso l’elmo dalle guance di

bronzo; intorno alla punta della lancia sispezzò l’elmo coperto da folta criniera dicavallo, l’elmo colpito dalla grande lan-cia robusta, ed il cervello sanguinolentousciva dalla ferita lungo il cannone”. Il già rilevato potere di penetrazionedella lancia emerge anche là dove AiaceTelamonio uccide Simoesio (IV, 480-483): ”Egli infatti lo colpì per primo,mentre giungeva (cioè d’incontro), nelpetto presso il capezzolo destro; e la lan-cia di bronzo uscì di dietro attraverso laspalla”; similmente anche Idomeneouccise Alcatoo colpendolo “con la lancianel mezzo del petto e gli squarciò lacorazza di bronzo, che prima gli tenevalontano dal corpo la morte. Allorarisuonò scoppiando forata dall’asta.Questi cadendo diede rumore e la lan-cia era piantata nel cuore, che palpitan-do agitava l’estremità inferiore dell’ar-ma” (VIII, 438-444). Anche i colpi dilancia al ventre erano mortali pur attra-verso le protezioni; Idomeneo ucciseEvomao che “colpì nel mezzo del ven-tre, ruppe la cavità della corazza ed ilbronzo si conficcò attraverso gli intesti-ni” (XIII, 506-508). Nemmeno gli scudiresistono all’urto: Adamante scaglia lalancia contro Merione, colpendone loscudo che si rompe nel mezzo (XIII,563-567); Alcimedonte “vibrò la lanciadalla lunga ombra, e colpì nello scudoeguale d’ogni parte (rotondo) di Areto;quello non fermò l’asta, ma interna-mente passò il bronzo ed attraverso lacintura penetrò nella parte inferiore delventre” (XX, 516-520).

Anche in tutt’altro luogo e tempo –adesempio presso i Maori- le lance sca-gliate penetravano scudi e difese con laloro forza; in Australia gli studi deglietnologi della fine dell’Ottocentohanno registrato alcuni combattimentisemiritualizzati dove

“la lotta procedeva in modo irregolare, ma disolito si cominciava con armi da lancio, poi icontendenti si avvicinavano tra loro per duel-lare con la spada. A volte però l’intera contesasi svolgeva a distanza: venivano lanciati boo-merang, mazze e giavellotti. Quei selvaggisono molto abili nel parare (...ma) invece i gia-vellotti trapassano uno scudo con facilità e avolte giungono a ferire chi lo porta, il qualeviene allora considerato fuori combattimento(...) Durante il borbobi -duello- seguente, unuomo fu trapassato da un giavellotto54”.

Secondo alcune ipotesi, in area etruscaed italica nella prima età del ferro lalancia, che pure abbiamo visto averediffusione notevole e che da vari dati eanche dalle tavole iguvine -comevedremo più ampiamente nel capitolosulle tattiche- risulta essere stataappannaggio di ampia parte dei giova-ni55, non sarebbe stata impiegata cheda una cerchia di guerrieri negli eser-citi. Sulla lancia scrive infatti il Fossati:“i guerrieri villanoviani fecero largouso di quest’arma da urto, che tuttaviaera prerogativa dei combattenti piùpesantemente armati, e quindi delleclassi più elevate56”.I fatti e le statistiche -assieme ai quanti-tativi di cuspidi dalle deposizioni e dairipostigli ed alle loro associazioni di

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La lancia, la spada, il cavallo

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contesto- smentiscono nettamente taleipotesi assieme alle fonti letterarie edepigrafiche; la notazione sulla precocedistinzione di ruoli militari diversi inconnessione con lo status economico edil potenziale di acquisto d’armi è datenere in considerazione, ma in un con-testo opposto, ovvero in cui la lancia èl’arma leggera ed economica di “base”.La diffusione della lancia è infatti bendimostrata in varie necropoli villanovia-ne ed anche nelle varie zone della benindagata necropoli Lippi di Verucchiodi VIII-VII sec. a.C., dove le tombemaschili presentano varie associazionidi armi, più o meno complesse, tra cuilancia, asce, ed altri elementi offensivi edifensivi; tuttavia “l’elemento fisso ècostituito dalla lancia57”. D’altronde,nell’ipotesi di un pur embrionale schie-ramento, la lancia si pone come armaparticolarmente valida per un repartocollettivo, come testimonierà il piùtardo schieramento oplitico58.Nell’analisi delle armi in asta presentinell’Etruria villanoviana e nell’Italiadella prima età del ferro, debbono esse-re tenuti in debito conto anche i giavel-lotti, sebbene si sia già parlato, per lelance, del probabile uso anche di esseper il getto a breve distanza. Volendodistinguere il giavellotto dalla lancia varicordato che esso

“a differenza della lancia è un’arma da getto; ementre lo scopo offensivo della lancia provvistadi lame più o meno espanse, è di aprire unaferita larga e lacerante, quello del giavellotto èdi fare una ferita piccola ma profonda. E’ dun-

que il giavellotto un’arma penetrante e quindila principale, direi quasi essenziale sua qualità,deve essere quella appunto di penetrare pro-fondamente. E’ necessario quindi che sia prov-visto d’una punta molto aguzza e di spigoliacuti59”.

Nei fatti, non è semplice rintracciaresenza dubbi i giavellotti tra i reperti rin-venuti; sono di fatto attestati esemplarivillanoviani di “puntali” apparentemen-te da tallone molto allungati ed aguzzi(tra gli esemplari da Vetulonia e Popu-lonia ve ne sono di lunghi fino a 32 cm)la cui destinazione d’uso, secondo alcu-ni autori, potrebbe ipoteticamente esse-re stata quella di cuspidi di giavellotti60

(senza lama); peraltro la presenza di“puntali” rinvenuti senza la cuspidefoliata indica obbligatoriamente che esi-stevano armi d’asta atte a ferire senzalama (sia che per ferire si usasse il “pun-tale” aguzzo, sia che si utilizzasse invecel’altra estremità lignea aguzza). Di taleavviso pare anche il Fossati, per il qualenei giavellotti di facies villanoviana

“le forme prevalenti delle cuspidi bronzee, lun-ghe dai 18 ai 30 centimetri, erano a conoallungato, oppure a piramide allungata conalette. E’ però difficile a volte poter distingue-re un calzuolo di lancia da una cuspide a conoallungato di giavellotto61”.

Diversamente, gli estensori del diziona-rio terminologico dei reperti dellaprima età del ferro, secondo i dettamidell’Istituto Centrale per il Catalogo e laDocumentazione, hanno identificato lepunte di giavellotto in cuspidi foliate di

più piccole dimensioni delle lance, dun-que secondo un parametro del tuttodiverso da quelli or ora ricordati. Nell’i-conografia villanoviana è effettivamenteattestato un guerriero, rappresentato suuna stampiglia della ceramica bologne-se (risalente alla facies villanoviana loca-le coeva all’Orientalizzante tosco-lazia-le), che reca due brevi armi astate conpiccola cuspide foliata, ma se queste fos-sero da getto o da botta è ignoto. Secon-do questa seconda ipotesi la punta delgiavellotto sarebbe stata

“formata dalle stesse parti costitutive dellapunta di lancia. Se ne differenzia per le dimen-sioni minori e quindi la funzione esclusiva diarma da lancio. L’individuazione di un’armacome lancia o come giavellotto deve avvenirein base allo studio non solo tipologico, maanche statistico delle dimensioni delle armi diqueste classi in un determinato complesso62”.

I parametri di distinzione risultano dis-cussi anche nello studio del Drews sullafine dell’età del bronzo nel Mediterra-neo orientale, dove dei giavellotti si esa-minano aspetti e misure per più pagi-ne63 concludendo che essi, armi impor-tanti e quasi di ruolo-chiave nel tra-monto militare delle civiltà del bron-zo64, vadano riconosciuti nelle punteellittiche di circa 11 cm (o meno) di lun-ghezza, e che, se hanno un attacco acannone, è la sottigliezza del canaleinterno ad indicarci l’uso di tali punteper giavellotti piuttosto che per lance.Per questo studioso, in Italia i più anti-chi esemplari risalirebbero al terzoquarto del II millennio a. C. e, in asso-

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Le lance ed i giavellotti

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ciazione coi dati dal mondo miceneo,indicherebbero -per il Drews- una pro-venienza del tipo con innesto a canno-ne dall’area balcanica65.La scarsa univocità dei parametri didistinzione tra lance e giavellotti repe-riti in Etruria ed altrove nel mondoantico sembra per certi versi farecomunque eco alla pari scarsità di datidistintivi tra le due armi presente nelleopere omeriche. Qui infatti le lance -indicate come ègkos o dòru- sono con-traddistinte da aggettivi piuttosto gene-rici: al primo termine si associano indi-cazioni come “dalla lunga ombra”,“lungo”, “aguzzo”, “pesante”, “gran-de”, “poderoso”, “forte”; al secondoinvece “aguzzo” e “guarnito di bronzo”.Si è ritenuto, vista l’insistenza associataal primo termine su indizi di pesantez-za, che ègkos fosse la lancia e dòru il gia-vellotto, ipotesi a cui porta sostegno lanotizia che coloro che combattevanocon due armi da asta portavano delledoùrata, dunque dei giavellotti, mentremai si legge di più ègkoi66. Restacomunque probabile che presso moltipopoli antichi, come presso gli Sciti,“shorter spears, about 1,7- 1,8 metreslong, were used both for throwing andfor thrusting (…) thrown by a trainedhand, such spears could kill or woundat ranges up to 30 metres67”.L’uso di armi da getto consente tattica-mente di tentare di evitare il corpo acorpo, e può inferire al nemico un talnumero di perdite da spingere alla riti-rata, o quanto meno può instillare il

timore nelle file avversarie68. Abbiamogià visto, parlando degli scudi, comequeste difese potessero essere reseinservibili dai giavellotti come accaddeagli Elvezi che si scontrarono con letruppe di Cesare. Similmente, anchenegli scontri tra formazioni opliticheelleniche e manipoli romani con pila,“these could penetrate armour orweight down a shield as the neck of apilum would bend under the impact69”.Tuttavia, sotto la caduta dei giavellotti,l’armamento leggero dei guerrieri dellaprotostoria italica si mostrava estrema-mente utile per potersi muovere agil-mente e sfuggire ai dardi. Similmente,in alcuni scontri tra i Dugum Dani del-l’Irian, in Nuova Guinea,

“frecce e zagaglie volano per l’aria, ma vengo-no abilmente schivate (…) Poiché tutti si sfor-zano di evitare frecce e lance e di coprire i com-pagni che abbiano già lanciato le zagaglie, icombattenti sono in perenne movimento evengono sostituiti continuamente da altri, inmodo da potersi riprendere70”.

Pur non disponendo di giavellotti inte-gri o di cui sia certa lunghezza e diame-tro, è da presumere che il peso dell’ar-ma si aggirasse intorno al chilo o meno(misura presente nel pilum romano piùtardo, e grosso modo conservata anchenel pur più lungo giavellotto sportivoodierno di 800 grammi), sufficiente adare il necessario impatto in ricadutasenza rendere il lancio affannoso persforzo e breve per gittata. Secondo ilFossati nella fase villanoviana

“i giavellotti erano (...) armi prettamente dalancio, lunghe in media dagli 85 ai 95 centi-metri. Ogni guerriero ne portava fino a tre, avolte più, e poteva scagliarli a 40-50 metri didistanza, se debitamente addestrato; la gittataera inferiore se il tiro avveniva da cavallo”71.

Indicazioni molto simili sulla lunghezzadei giavellotti –“92 cm circa”- vengonoanche dal Capretti72. La distanza di lan-cio per essi, come per i pila dei Romani,poteva essere quella di circa 35 metri73.La tecnica di lancio del giavellotto dove-va essere all’incirca quella impiegatanegli usi ginnici etruschi più tardi, e varistudiosi sono concordi nell’accomunar-la a quella attualmente impiegata nel-l’uso sportivo:

“il lanciatore agisce in questo modo: scatta inavanti e corre veloce verso il nemico, tenendol’attrezzo orizzontale, più o meno all’altezzadella propria testa, quindi si arresta brusca-mente, bilanciandosi sulla gamba destra men-tre la sinistra è tesa in avanti e infine, col mas-simo di contrazione muscolare, effettua il tirola cui forza propulsiva è accresciuta dallo slan-cio della corsa (...) Ma c’è un altro tipo di tiroche, diversamente da quello in linea retta, ese-gue una parabola in alto per poi ridiscendere.In tal caso il lancio avviene non tenendo ilpilum orizzontale sulla testa, ma tenendolo inposizione semiverticale”74.

La presenza del laccio steso lungo l’astao avvolto attorno ad essa (ankyle o amen-tum) più tardi in uso in Grecia, Etruria eRoma per dare una maggior spintaall’attrezzo ed un moto rotatorio stabiliz-zante, come si è detto non è riodo atte-stata in Italia per la primissima età del

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ferro, seppure sia da alcuni ipotizzata75,e risulti già pienamente presente in areedel Mediterraneo orientale76. Questoparticolare “propulsore” era impiegatoanche nei giavellotti dei peltasti traci delV sec. a.C., che dietro il loro scudo leg-gero di vimini coperto di pelle di caprao pecora –rotondo o con un intagliolunato- ne portavano più esemplari.

“Although they are conventionally illustratedwith only two, it is clear from accounts of batt-les in various ancient texts that more were car-ried, the number depending on their lenghtwhich varied between 3.5 ft (1,1m) and 5 ft (1,6m) (...) The missile is gripped lightly with thethird and fourth fingers while the second andfirst are inserted into the loop of the thong thatis bound round the shaft. The thong addsgreater leverage to the delivery, significantlyimproving the mechanical efficiency of thethrow. The twist imparted also greatly aids theaccuracy of the missile77”.

Il lancio di giavellotti, comunque, pote-va essere reso difficile da vari problemi,

tra i quali la configurazione del suolo;ancora alla fine del V sec. a. C., nellabattaglia del Pireo (Sen., Hell., II, 4, 11-20) Trasibulo era conscio che ai guer-rieri costretti ad avanzare in salita è par-ticolarmente difficile scagliare il giavel-lotto, mentre sono avvantaggiati contale arma coloro che sono in posizionedominante.In caso di guerriglia e di agguati, inol-tre, i guerrieri giunti in appostamentofurtivo a pochi metri dall’obiettivo, nonpossono rischiare di rendersi visibili conuna corsa finale o con un vistoso movi-mento di arretramento del braccioprima del lancio. La necessità di colpireprima che il bersaglio di un agguatonoti qualunque movimento ha suggeri-to la tecnica -ancora in uso presso alcu-ni popoli e negli addestramenti militaridi sopravvivenza- di arretrare moltolentamente il braccio senza oltrepassarela spalla, giacché superarla costringe-rebbe a girare il corpo. Come propul-

sione di un tale lancio viene utilizzata laresistenza della spalla stessa, assiemealla spinta del braccio, le cui forze con-giunte vengono istantaneamente libera-te all’unisono, seguendo il movimentofino alla fine. Sarà comunque il caso diricordare, come si è già osservato consi-derando il getto della lancia con amen-tum da sottomano, che potevano ancheesistere in passato altre tecniche inseguito scomparse.Il fatto che tutte le punte ipotizzabilicome idonee ad un giavellotto rinvenu-te nel IX-VIII sec. a. C. non abbianoalcun elemento conformato ad arpionedimostrerebbe, secondo alcuni, che “awarrior with only two or three javelinswould perhaps have retrieved each ofthem several times during a skirmish”essendo “designed for easy rectrac-tion78”.E’ inoltre importante rilevare che,accanto al giavellotto lungo come unalancia (sul tipo del pilum romano) esiste-

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Sequenza di lancio di un giavellotto con ankyle o amentum da parte di un peltasta

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va nell’antichità79 senza però attestazio-ni nell’Etruria villanoviana un altro tipodi “giavellotto”, sul genere di quellonoto a Roma come iaculum, ovvero undardo lungo poco più di un metro (duecubiti per Polibio) e sottile come undito, tanto che due potevano esserefacilmente stretti nel pugno chiuso. Peralcuni studiosi, pur in assenza di provecerte, erano già presenti in area villano-viana tali

“piccoli giavellotti o dardi a mano, calcolabiliin una sessantina di centimetri di lunghezza,tipici soprattutto della cavalleria leggera inquanto atti ad essere portati e scagliati con piùfacilità da un combattente montato; questidovevano essere quasi esclusivamentelignei80”.

Usato inoltre dai velites romani in epo-che più tarde, il getto di tale piccolodardo poteva aprire gli scontri tra grup-pi ancora a considerevole distanza; lo sipoteva scagliare senza arrestare la corsaverso i nemici, e non impediva al guer-riero di sostenere uno scudo. Arma effi-cace contro grossi bersagli poco protet-ti81, poteva comunque dare ottimi risul-tati anche contro bersagli isolati seimpiegata da abili tiratori, come i Galli,e da tutti coloro che vi si fossero lunga-mente allenati, specie per usi di cac-cia82.La lancia ed il giavellotto non furonoarmi destinate esclusivamente alla fan-teria, ma nell’antichità vennero impie-gate ampiamente -specie i giavellotti-anche dalla cavalleria. Le associazioni

presenti nelle sepolture dall’VIII secolocontemplano la compresenza di armioffensive, difensive e di morsi di cavallo,ma l’impiego contemporaneo di questapanoplia non è esplicito e l’iconografiavillanoviana, in realtà, non offre alcundettaglio riguardo le armi offensive deicavalieri. D’altronde il guerriero a caval-lo -quello dell’askos Benacci ha chiara-mente elmo e scudo- al termine del suospostamento o della sua carica nonpoteva non entrare in combattimento, equindi doveva con ogni probabilità con-dividere l’uso delle armi da offesa con ilresto dei guerrieri.La complessità dell’addestramentoequestre, con la cavalcata a pelo e senzastaffe, doveva essere ancora maggioreper l’apprendimento dell’uso di armi;ciononostante varie cavallerie del passa-to facevano uso di armi da getto, e“Xenophon raccommends that therider remains upright in order that hemay throw his javelin more vigorously.In the previous phrase he also raccom-mends gripping with the thighs, but inhis day the horned saddle that aidedseat security (di epoca romana) had notbeen developed83” .In effetti anche presso la cavalleriaromana, pur ben più tarda, l’addestra-mento previsto da Arriano nella sua ArsTactica è principalmente relativo a trearmi in asta,

“the short-shafted lightweight javelin, the hea-vier, longer spear, and the lance. All three nee-ded similar basic tecniques, which appliedequally whether the man was in the cavalry or

infantry. Naturally if he was a trooper certainadaptations were necessary when firing a mis-sile weapon from horseback. (...) A number offacts relating to the weapon itself would needto be taken into account. The lightweight jave-lin used in exercises 36-9 of the Tactica wouldonly be accurate over a short distance, butcould carry further provided it was not adver-sely affected by winds. The heavier weaponswould have had a shorter range, but have beenmore accurate. (...) However, as a general rulethe lighter weapon, such as that used in therapid-fire javelin exercises, would have kept itsnose up longer, and have gone further beforereaching its zenith and starting on its down-ward flight. The noses of the longer, heavier,shafted and headed weapons such as the spearand lance would have been on an upwards tra-jectory for a shorter time, coming down soonerand more rapidly. The heavier weapons wouldhave been easier than the lightweight javelin,and provided the aim was good the impactwould have been more certain, and more deva-stating, because of its weight. (...) Javelins withdeficiencies in manifacture tend to fall short,curve off target, rotate of the centre of the tar-get, and prevent consistency of impact84”.

Se stare in groppa al cavallo senza sellae staffe era complesso, ancor più dove-va esserlo restarci effettuando i movi-menti necessari per scagliare i giavellot-ti, che la cavalleria romana più tardaportava in una sorta di ampia faretra(appesa all destra del cavallo, dietro lacoscia destra del cavaliere) ma che, inassenza di sella, fu senz’altro assente inEtruria in ogni tempo:

“A good body position had to be mantained -torso erect, chest tall and proud, head level andeyes following the left side. If the head, andhence the eyes, was tilted back the throw could

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have been too high. The upper-body positionwould have been as advised by Xenophon, andcorroborated by John Trower: «Throw forwardthe left shoulder, draw back the right shoulder,rise from the tighs and let the javelin go withthe point slightly raised». If the left shoulderhad not been thrown forward sufficiently, dueto the impediment of the shield, the release ofthe weapon would have come too soon, accu-racy would have been lost, and less power putbehind the cast. The line of the left shoulderand arm is important because it is used to sightalong, and should be in line with the target.Even with a shield this would still apply. Natu-rally during this phase the bridle rein would bevery slack as the left arm was advanced for-ward. As the right shoulder was drawn back (...)the trooper would have needed to be carefulnot to have twisted from the hips, and havekept his lower legs from giving unwarrantedaids, or his horse could have veered off course.Ideally the grip on weapon shaft should havebeen approximately one-third down the shaftfrom the head with the lightweight weapon.With the more solid spear and the lance thegrip would have been further from the head,but not quite as much s halfway along thelenght. The angle of release would have variedaccording to the weight and lenght of the wea-pon. For the lightweight javelin the anglewould have been elevated to a point betweenchin and nose, and for the heavier, longer wea-pon to a point just above the eyes and belowthe hairline. The arm should have been drawnback as far as possible before release, and theweapon held with the shaft resting in the palm,the fingers closed around the shaft, the handturned in for a good elbow and shoulder posi-tion, and the thumb placed down the lenght ofthe shaft. The fingers should have held theshaft firmly, but at the same time should havebeen relaxed. (...) A good position was moreimportant with the heavier weapon. Casts

made with full body power behind them putless stress on the elbow and shoulder jointsthan casts made mainly with the force of thearm, as would have been more likely with thelightweight javelins85”.

Il getto di armi d’asta da cavallo aggiun-geva, com’è ovvio, ulteriore energiacinetica al colpo, rendendolo molto piùpenetrante;

“The heavier weapon was capable of transmit-ting a greater poundage not only because of itsextra size and weight but also because of thegreater thrust needed to launch it. Far more ofthe trooper’s body weight would have been uti-lized to impel it onwards, and this would havebeen greatly assisted by the energy released bythe speed and weight of the horse. The greaterthe horse’s momentum the more power couldhave been put behind the cast. A mistimedblow (in esercitazione) on the head of either manor horse could have caused either a veryserious injury, or even death. (...) The speed ofa foot javelineer prior to the throw was veryimportant. The speed of the horse definitelylent power to the cast. As it leaves the hand thespeed of a modern man’s javelin weighting 800grams is between 27 and 30 meters a second. Aspeed of 33 metres per second is exceptional.Loss of force occurs in flight. As it reaches itshighest point, before starting on its downwardflight, it is travelling at approximately 9.81metres per second86”.

Non è noto, come si è detto, se i cava-lieri della prima età del ferro ricorresse-ro già al combattimento da cavallo conl’uso di giavellotti, con una preparazio-ne per certi versi simile a quella sopradescritta per la più tarda cavalleria

romana; se ciò fosse accaduto, comun-que, la loro tattica di gruppo non pote-va che essere elementare, ovvero

“the typical hit-and-run tactics of light-horseskirmishers who zoned in from a distance witha hail of missiles, and left the scene, still incommand of their situation, loosing an«almost» partian shot as they wheeled away tothe right, ready to re-group and come in againon the straight. (...) a devastating hail of jave-lins delivered by a whole unit of javelineers onthe attack, yet still at a distance that kept themclear of anything except similar weapons.Again adapted from a foot unit, and no doubtassisted into the Roman cavalry ranks by bor-rowings from previous enemies skilled in firingjavelins, the alae sought to turn the weapon totheir own use87”.

Questa tecnica semplice, e simile a quel-le presenti nelle fanterie leggere anchenella prima età del ferro, dette luogo aduno degli esercizi che Arriano, nella suaopera Ars Tactica relativa all’addestra-mento della cavalleria romana, descrivetra quelli ancora praticati ai suoi tempi-il testo è del 136 d.C.- col nome di petri-nos, ed in particolare da parte delsecondo reparto nel primo movimento:“These attacks from Team B wouldhave appeared as isolated sting-and-runattacks, the favoured type of light-hor-semen assault so well documented frommany of the battles fought betweenRome and her eastern enemies, espe-cially the Parthians88”.

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Note

1 Heidi Knecht, Tecnologie della caccia nelPaleolitico superiore, in “Le Scienze”, n. 313,settembre 1994, pag. 72.2 Graeme Barker, Ambiente e società nella Prei-storia dell’Italia centrale, Roma, 1984, pag. 89.3 Si veda in Emmanuel Anati, Arte preistoricain Valtellina, Sondrio, 1967, pagg. 91 e segg.4 Musashi, Il Libro dei Cinque anelli, cit., pag31.5 Vedi Vincenzo D’Ercole, La guerra nella pro-tostoria dell’Italia centrale, in “Papers from theEAA Third Annual Meeting at Ravenna1997”, Oxford, 1997.6 Si veda in Drews, cit., pag. 191.7 M.J. Swanton, A corpus of pagan Anglo-saxonspear-types, Oxford, 1974, pagg. 3-4.8 Seguendo Saulnier, cit., pag. 32.9 Antonio Minto, Populonia, Firenze, 1943,pag. 65.10 Marco Balbi, L’esercito longobardo, Milano,1991, pag. 46.11 Vedi Roberto Pecchioli, Analisi radiografi-che, in “Artimino: il Guerriero di PratoRosello”, cit., pag. 101.12 Fossati, cit., pag. 15.13 Talocchini, cit., pag. 9 e segg.14 Si veda Snodgrass, Armi e armature deiGreci, cit., pag. 45.15 Swanton, cit., pag. 8.16 Swanton, cit., pag 4.17 Si veda, per una comprensione del tipo alama “corrugata”, in Swanton, cit., pag. 20.18 Vedi Botto Micca, Omero medico, cit., pagg.47-48.19 Si veda anche Fossati, cit., pagg. 15-16.20 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 96-97.21 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 96. Sulla frattura delle lance nell’urto

col nemico, si veda ancora Hanson, L’arteoccidentale della guerra, cit., pagg. 98-99.22 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 99.23 Minto, Populonia, cit., pag. 6524 Talocchini, cit., pag. 11.25 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit., pag.196.26 Capretti, Il mondo tecnologico e militare, cit.,pag. 23.27 Si veda Snodgrass, Armi e armature deiGreci, cit., pag. 46.28 Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 48.29 Drews, cit., pag. 191.30 Poggesi, Il Guerriero di Prato Rosello, cit.,pag. 73.31 Stefano Giuntoli, La necropoli di Podere delLago, in “Museo Archeologico - MassaMarittima”, Firenze, 1993, pag. 120.32 Fossati, cit., pag. 16.33 Ringrazio per questa notazione la consu-lenza di Renato Martinelli, la cui esperienzadi falegnameria mi è stata utile anche nelcorso degli studi sulla realizzazione di scudiin commesso ligneo.34 Ugo Fasolo, in “S. E.” IX, 1935, pag. 267;S.E. XII, 1938, pag. 237; S.E. XIV, 1940,pag. 305; S.E. XV, 1941, pag. 267; S.E.XVIII, 1944, pag. 239.35 Aldo Neppi Mòdona, The scientists’ contri-butions to Etruscology, in “Ciba FoundationSymposium”, cit., pagg. 68-69 e fig. 6.36 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 95.37 Gianna Giachi, Marta Mariotti Lippi, Iresti organici del tumulo B, in “Artimino: ilGuerriero di Prato Rosello, cit., pagg. 77-78. 38 A cura di Anna Maria Esposito, Principiguerrieri - la necropoli etrusca di Casale Maritti-mo, Milano, 2001, pagg. 95-96.39 Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 47. 40 Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 48 e

61. 41 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 95.42 Hanson, The Oher Greeks, cit., pag. 245.43 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 178.44 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 95.45 Bartoloni, De Santis, La deposizione di scudinelle tombe, cit., pag. 279.46 Snodgrass, Armi e armature dei Greci, cit.,pag. 46 e segg.47 Snodgrass, Armi e armature dei Greci, cit.,pag. 46.48 Drews, cit., pagg 191-192.49 James W. Madden, The art of throwing wea-pons, Boulder, 1991, pagg. 24-27.50 Illustrata in Warry, Warfare in the ClassicalWorld, cit., pag. 13 ed in sovraccoperta.51 A cura di Valerio Cianfarani, Antiche civiltàd’Abruzzo, Roma, 1969, pag. 19.52 Warry, cit., pag. 13, didascalia.53 Botto Micca, Omero Medico, cit., pagg. 61-62.54 Da C. Lumholtz, Among Cannibals. Anaccount of Four Years’ Travels in Australia and ofCamp Life with the Aborigines of Queensland,London, 1890, pagg. 123-127, come ripor-tato in Irenaus Eibl-Eibesfeldt, Etologia dellaguerra, Torino, 1990, pag. 180. 55 Forse dell’intera parte considerata “inizia-ta” all’uso delle armi.56 Fossati, cit., pag. 15.57 Angiola Boiardi, Patrizia Von Eles, Lanecropoli Lippi di Verucchio. Ipotesi preliminariper una analisi delle strutture sociali, in“Archeologia dell’Emilia Romagna”, 1997,I/1, pag. 34 nota 36.58 Si veda in tal senso Hanson, The OtherGreeks, cit., pag. 246.59 A. Talocchini, cit., pag. 42.60 Si veda anche Minto, Populonia, cit., pagg.

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65-66.61 Fossati, cit., pag. 16.62 Dizionari Terminologici - Materiali dell’Età delBronzo Finale e della Prima Età del Ferro, cit.,pag. 22.63 Drews, cit., pagg. 185-187.64 Drews, cit., pag. 187.65 Drews, cit., pag. 186.66 Si veda Pietro Janni, Il mondo di Omero,Bari, 1975, pagg. 153-156.67 E.V. Cernenko The Scithians, London,1983, pag. 17.68 Gaston Bouthoul, Le guerre, Milano, 1982,pag. 169.69 Warry, Warfare in the classical world, cit.,pag. 126.70 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pag. 182.71 Fossati, cit., pag. 16. Di tutt’altro tenore èla ricostruzione del pilum seriore contenutain Antonelli, Armi e armature dell’impero roma-no, cit., pag. 60, secondo la quale “il pilum -la cui lunghezza e peso varia moltissimoattraverso i secoli- è in genere di due tipi:l’uno pesante 2,600 kg e il secondo 1,850

kg, lunghi rispettivamente tra i 2,10 metri eil metro e mezzo, con l’asta che va dai 40mm ai 10 mm circa di diametro. E’ formatoda un fusto di legno (hastile) in cui è innesta-ta una punta di ferro per metà a sezionequadrata e per l’altra metà cilindrica”. Ditale tipologia di giavellotti non vi è traccianella fase villanoviana, ed è pensabile chetali armi dalla particolare punta siano esclu-sivamente creazioni più tarde: pertantoanche i relativi dati sulla gittata, per cui ilpilum “può raggiungere una distanza tra i 25e i 40 metri, con una portata media di 30metri”, sono inservibili per la prima età delferro.72 Capretti, Il mondo tecnologico e militare, cit.,pag. 23.73 Warry, Warfare in the classical world, cit.,pag. 136.74 Armi e armature dell’impero romano, cit., pag.63.75 Fossati, cit., pag. 16.76 Drews, cit., pag. 185.77 Warry, Warfare in classical world, cit. pag.50-51.

78 Drews, cit., pag. 189.79 E che per il Drews fu molto diffuso tra letruppe che riuscirono tra XIII e XII sec. a.C. a scardinare l’uso dell’età del bronzo didominare le battaglie, nel Mediterraneoorientale, con i carri.80 Fossati, cit., pag. 16.81 Come i carri da guerra ed i cavalli negliscontri orientali del XIII secolo, vedi inDrews, cit., pag. 182.82 Drews, cit., pag. 181.83 Hyland, Training the Roman cavalry, cit.,pag. 119.84 Hyland, Training the Roman cavalry, cit.,pag. 171-172.85 Hyland, Training the Roman cavalry, cit.,pag. 172-173.86 Hyland, Training the Roman cavalry, cit.,pag. 137 e pag. 173.87 Hyland, Training the Roman cavalry, cit.,pag. 151 e pag. 144.88 Hyland, Training the Roman cavalry, cit.,pag. 121.

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La spada, arma atta al combattimentocorpo a corpo per ferire di punta o difilo con la sua lama simmetrica, è atte-stata nella prima età del ferro centroita-liana in continuità con la documenta-zione già ben cospicua dell’età del bron-zo. Difatti, nell’intero arco dell’età delbronzo, sono documentate numerosissi-me tipologie d’arma1 a loro volta diver-sificate per aspetto della sezione dellalama. Volendo solo sfiorare la comples-sissima materia2, preme osservare che,al di là dei “tipi” caratteristici di aree, lefogge sono essenzialmente, dal bronzomedio in poi, “a base semplice” (ovverocon lama che termina alla spalla dove sitrovano dei fori per rivettare l’immani-catura), “a codolo” e “a lingua dapresa”.Tra la media età del bronzo ed il bron-zo finale in Italia si assiste ad una seriedi mutamenti, che vedono nelle fasi piùrecenti il prevalere delle spade a linguada presa con la scomparsa di quelle a

base semplice ed a codolo, ed il diversi-ficarsi delle sezioni delle lame, che spes-so oltre alla costolatura centrale aggiun-gono varie nervature a rilievo e incise(in primis per l’aumento della robustez-za e, secondariamente, per la facilitazio-ne dell’uscita di sangue dalle feriteinferte di punta) assenti durante l’etàdel bronzo medio3. Questo accorgimen-to, secondo il quale forza e rigidità pos-sono essere ottenute scannellendo ilmetallo senza aggiunte di peso, fuperaltro reintrodotto spesso nellametallotecnica a fini militari, nellearmature del XV secolo dette “massimi-liane”, ed è ancora largamente impie-gato per irrobustire ogni sorta di manu-fatti metallici4. Quindi, “nei secoli finalidel secondo millennio a. C.” vengonodiffondendosi “lunghe spade atte a tra-figgere e colpire violentemente5”. L’in-troduzione ed il largo diffondersi6 dellespade a fili paralleli, più lunghe diquanto fossero i tradizionali “pugnali”

dell’area italica, e con un allargamentoverso i 2/3 della lunghezza per ottenerela massima robustezza della lama, ècomunque risalente già all’età del bron-zo medio, ed è stato posto da alcuni inrelazione con il diffondersi dell’uso delcavallo anche per fini bellici7. Questespade sarebbero state introdotte in que-sto momento proprio perché erano learmi da fendente usate dai guerrieri acavallo, ed adatte al nuovo metodo dicombattimento8.I tipi dell’età del bronzo finale prevedo-no dunque, su aree piuttosto vaste dellapenisola sia centrali che meridionali,delle spade con immanicatura “a linguada presa”. Si tratta di un tipo in cui lalama più o meno lunga si congiungeall’impugnatura senza soluzione di con-tinuità; la spalla convessa della lama siunisce alla lingua da presa con marginirilevati e andamento più o meno curvosino a concludersi in un allargamento, oin una linguetta per il fissaggio di un

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Le spade ed i pugnali

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pomolo deperibile. Lungo la curvadella spalla della lama, così come al cen-tro dell’impugnatura, il bronzo eraattraversato da vari fori passanti coiquali, grazie a ribattini, veniva fissato ilmanico deperibile formato da dueguancette distinte prolungantisi sinoalla spalla, dove formavano un arco.Tale tipo di spada, nota anche come“Naue Type II”, ebbe probabilmenteorigine

“in the area from the eastern Alps to the Car-pathians: in Austria and Hungary specimenbelonging to the subtype known as SprockhoffIa have been found dating at least as early as1450 (...) Today it is generally agreed that theNaue Type II sword had been in use in centraland northern Europe well before it appearedin the eastern Mediterranean. In northeastItaly too, as Stefan Foltuny pointed out, it isquite well represented at an early date9”.

La fortuna di tali spade nel Mediterra-neo orientale e nel mondo miceneodalla fine del XIII sec. a. C. in poi haportato a definire le spade Naue Type IIcome “tipicamente micenee”, masecondo vari studi

“of course the Myceneans were relatively late inadopting it, and it is much better attested tothe north and west. Over 100 bronze swords ofthis type are known from Italy (the majorityfrom the Po valley), and over 130 from Yugos-lavia (...) Since most of the Naue Type II swordsfrom the Aegean were found in «Greek» tombsit is likely that «Greeks» had acquired them.That the swords were made in Greece is lesslikely, and at any rate they owed too much tonon-Greek swordsmiths. Harding has pointedout the stricking similarities between the ear-liest Aegean swords of this type and those fromnorthern Italy, and he concluded that «Italyseems to have played an important part in theproduction and diffusion of the Greek wea-pons»10”.

Anche altri studiosi, pur non condivi-dendo l’assenza di produzione di taliarmi in Grecia, hanno notato come laproduzione bronzistica presente in Gre-cia, a Creta ed a Cipro nel XIII secolotrovi consistenti confronti nei Balcani,

nell’Europa centrale e nella penisolaitaliana, e come vi

“spicca la spada a lingua di presa desinente acoda di rondine, del tipo che abitualmente sidenomina «Naue II»; questo tipo, rappresenta-to da esemplari di fabbricazione locale, fa la suacomparsa nella seconda metà del XIII secolo.Affine per forma alla spada è il pugnale detto«di Peschiera-Psychro», caratteristico in Europanell’età del bronzo recente, e documentato inGrecia soprattutto a Creta. Un altro tipo dispada che trova confronti nell’Europa centralee in Italia è quello a lingua di presa lunata, peril quale si è a lungo discusso se dovesse ritener-si di origine egea o centroeuropea. Le nuovearmi implicano una profonda trasformazionenel modo di combattere. I lunghi spadoni dapunta usati nel periodo miceneo, uniti ai gran-di scudi che proteggevano gran parte della per-sona, erano adatti al duello cavalleresco, chesolo nel corpo a corpo finale prevedeva l’im-piego del pugnale. La nuova spada da punta eda taglio, a lama più larga e più resistente,implica invece un combattimento rapido, chenon consente più l’uso del grande scudo pocomaneggevole. Ora si preferisce uno scudo piùpiccolo, che copre soltanto il petto, simile agliscudi europei del tipo Herzsprung11”.

Preme qui ricordare che tutte le spadeNaue Type II

“like all northern swords, these were not forgedin smithies (forging was an eastern Mediterra-nean art) but cast in foundries, a tecnique thatencouraged proliferation: with a mold doingmost of his work for him, a founder was able toproduce a finished sword in a relatively shorttime12”.

Di fatto la spada “a lingua da presa ita-lica” della prima età del ferro, pur più

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La lancia, la spada, il cavallo

Esempi di spade a lingua da presa, età delbronzo finale

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breve degli esemplari dell’età del bron-zo (nella maggior parte dei casi 70 cmdal pomello alla punta13) discende,come si è detto, dalle spade dette anche“Griffzungenschwert”, la cui area di ori-gine fu probabilmente l’Europa centra-le, ovvero la piana ungherese14. Non èdunque da ritenersi valida la teoria chevede la regione d’origine delle spadedell’Italia villanoviana nel bacino orien-tale dell’Egeo, basata sul fatto che “evenin the early Villanovan period appearedT-hilted swords of bronze or iron thatrecall Greece15”, e secondo la quale“probabilmente vennero introdotte inItalia, e quindi anche nell’area villano-viana, dai mercanti greci delle coloniedel meridione della penisola16”. Diver-sa cosa è il contributo dell’Egeo orienta-le, con le sue varianti ed elaborazioni, alconformarsi e svilupparsi delle spade“italiche” nella loro evoluzione.Per la sua funzionalità la spada a linguada presa fu dunque riprodotta in mol-tissime aree e, conclusasi l’età del bron-zo, sopravvisse in realizzazioni in ferro;da sempre, peraltro, la debolezza dellespade con immanicatura a codolo avevaspinto i bronzisti ad ideare immanicatu-re che fossero anche impugnature17.All’età del bronzo finale in area italicarisalgono anche delle lunghe spade amanico pieno scompartito da tre listelli,dove l’impugnatura e l’immanicaturamassicce erano riccamente ornate; laprima, destinata ad essere contenutadalla mano, era cilindrica o biconica erecava tre linee a rilievo che, circondan-

dola, la ripartivano in fasce; l’immani-catura, solidale con la prima e di rac-cordo alla lama, aveva una forma a ferrodi cavallo sopra la base della lama stes-sa, con due ribattini alle estremità intesiad assicurare il fissaggio. La diffusionedei tipi a lingua da presa o a manicopieno nel bronzo finale non comportòla scomparsa, nell’Italia centrale, deitipi a codolo ed a base semplice:entrambi i tipi sono attestati ad esempioa Mezzano, nella valle del Fiora, duran-te il bronzo recente. Qui infatti sono tor-nate alla luce una spada del tipo “Arco”con codolo e lama espansa verso la

punta, ed una del tipo“Canegrate”, a basesemplice e fili paralle-li. Solitamente diffusein area settentrionale,queste spade mostra-no misure molto con-tenute (meno di 40cm di lunghezza) ed ilbronzo non presentaalcun processo diincrudimento18.Attorno alle spade èbene osservare nonsolo che certi tipiebbero una lunga for-tuna, ma anche chealcuni esemplari posso-no aver avuto una vitapiuttosto lunga primadi venire deposti insepolture o in riposti-gli. La spada populo-

niese dalla tomba n.7 del Piano delleGranate19 sembra infatti un tipo a lin-gua da presa dell’età del bronzo finale,e potrebbe essere non tanto una tardareplica, ma un manufatto di lungo uti-lizzo. Un altro caso simile è attestato aTarquinia, dove la tomba 75 di PoggioSelciatello conteneva una spada di tipo“Pontecagnano”, la cui lingua da presarisulta restaurata in antico,

“quindi con molta probabilità lungamenteusata prima della deposizione (...) (Ciò fa) rite-nere probabile già in questa fase iniziale dellacultura villanoviana l’uso di queste armi, arric-chite nell’impugnatura da guarnizioni in osso aTarquinia, in avorio a Pontecagnano, oggetti diindubbio prestigio20”.

D’altra parte il tentativo di di far “vive-re” più a lungo possibile le armi da guer-ra è stato osservato essere alla base dialcuni interventi di riciclaggio compiutigià nell’età del bronzo, durante la quale“resta (...) la sensazione che in molti casii pugnali venissero ricavati dal riciclag-gio di lame di spade frammentarie21”.Tecnicamente parlando, i tipi di spadapresenti già all’interno dell’età delbronzo sin qui osservati sono essenzial-mente riconducibili a due generi diver-si per funzionalità: quello da punta equello da taglio. Studi tecnici hanno sta-bilito per classi che le

“stabbing weapons shorter than fourteeninches (35 cm) are knives and daggers. A«sword» between fourteen and twenty incheslong (30 to 50 cm) is more correctly called adirk, a «short sword» falls between twenty and

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Le spade ed i pugnali

Esempio di spadaa manico pienocon tre listelli

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twenty-eight inches (50 to 70 cm), and a longsword has a lenght of at least twenty-eightinches. Although in a punch a dirk or even adagger would be used with a slashing (cutting)motion, these weapons were of course desi-gned primarily for thrusting. Proper swordscould be serviceable for either function, andthe shape of the blade is the best indication ofhow one was in fact used. Blades that taperedcontinuously from hilt to tip were generallymeant to be thrust. Contrarily, a blade whoseedges ran roughly parallel -and that was atleast an inch (26 mm) wide- for most of itslenght was undoubtedly designed to keep frombending even when brought down in a hardslash22”

I parametri d’uso, le caratteristiche diequilibratura, di capacità balistica e dipotere d’arresto erano di fatto conside-revolmente diversi per armi ideate perl’attacco di punta e per quelle nate perun uso di taglio o promiscuo:

“in swords whose primary design was for thru-sting, the center of gravity was just below thehilt. On the Naue Type II the center of gravitywas much further down the blade (this wasespecially so for the leaf-shaped blade). In athrusting sword that would have been a seriousdrawback, but it added greatly to the force andvelocity of a slashing sword. With such a slas-hing sword a warrior could cut off an opponen-t’s head, leg or arm, or cut him in two: so Dio-medes (Iliad 5.144) severs Hyperyon’s shoulderfrom his neck and back. The Naue Type IIcould also, of course, be used with a thrust, anda warrior who had already severed an oppo-nent’s limb with a slash would thereupon pro-ceed to run him through with a thrust23”.

La scherma di filo appare già ben preva-lente nell’Iliade, dove dell’ampio uso di

taglio fanno fede decapitazioni e ferite alcollo; le spade citate in questo poema, adifferenza che nell’Odissea, sono sempree solo in bronzo. Gli epiteti preferiti sono“a due taglienti” (amphèkes) (Iliade X,256; XXI, 118; Odissea XVI, 80; XXI,341; XXII, 80) nonché “lunga” (mègas) e“dal lungo taglio” (tanyèkes) (Iliade I, 194;V, 146; XV, 712; XVI, 115; XXII, 307; edanche Iliade VII, 77; XIV, 385; Odissea IV,257; XXII, 443): col filo, come si è visto,Euripilo stacca una mano ad Ipsenore (V,80-82) e Diomede decapita Iperione (V,146), ma è di punta che Toante uccidePiritoo (IV, 531)24.

“L’antica preferenza per le spade da taglioinvece delle spade penetranti è nata probabil-mente da un desiderio di efficienza. Più comu-ne, e più efficace come arma penetrante, era ilgiavellotto e/o la lancia. Le possibilità di utiliz-zare la spada per tagliare e squarciare eranoprobabilmente molte di più rispetto alle possi-bilità di penetrare e colpire un organo vitale. Inogni caso, un taglio su un braccio, una spalla,sul collo o su una gamba, con la lama che poiviene tirata attraverso la ferita per renderla piùprofonda, era più facile da infliggere, e rende-va impotente qualsiasi vittima. (...) Anche all’e-poca della stesura dell’Iliade, la spada è vistaprevalentemente come un’arma da taglio (...)La spada, però, rimane un’arma generalmenteusata come secondaria, «di riserva», nello stes-so modo in cui la baionetta sarà usata nelleguerre successive25”.

Tuttavia la spada prevalentemente dapunta conserva alcuni evidenti vantaggitecnici, offensivi e di impiego, analizza-ti con acume già alla fine del secoloscorso:

“Yet there is no question of superiority betweenthe thrust and the cut. (...) who delivers point,has an advantage in time and distance overwho uses edge. Indeed, the man who first«gave point» made a discovery which morethan doubled the capability of his weapon.Vegetius tells us that the Roman victories wereowing to the use of the point rather than thecut: «When cutting, the right arm and flank areexposed, whereas during the thrust the body isguarded, and the adversary is wounded beforehe perceives it». Even now (1884) it is remar-ked in hospitals that punctured wounds in thethorax or abdomen generally kill, while theseverest incisions often heal. (...) On the otherhand, the peoples of southern latitudes (...) areactive and agile races of light build and com-paratively small muscular power. Consequentlythey have generally preferred (...) the pointedweapon, whose deadly thrust can be deliveredwithout requiring strenght and weight. For theinverse reason the sons of the north wouldchose (...) the long, straight, ponderous, two-edged blade which suited their superior statu-re and power of momentum26”.

L’utilizzo in Italia di armi diverse daquelle diffuse in precedenza, con l’etàdel bronzo finale, e lo sforzo tecnologi-co che sta dietro questa evoluzione nonsono che la “punta d’iceberg” di unaben più rilevante trasformazione socio-culturale che attraversò la penisola:

“la produzione metallurgica offre un metro dicarattere tecnologico atto a definire certe ten-denze generalizzate, destinate da qui in avanti adistinguere l’evoluzione culturale dell’Italia cen-tromeridionale da quella settentrionale: diver-genza di portata storica immensa, di cui è possi-bile riconoscere i primi segni nella costante pre-ferenza dimostrata nell’Italia settentrionale perla lunga spada da cavalleria tipicamente euro-

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pea, mentre nell’Italia centrale e meridionale siafferma la daga corta più adatta al combatti-mento corpo a corpo. Tecniche militari diffe-renti costituiscono notoriamente un chiaro sin-tomo di profonde differenze sociali nelle areeconsiderate: e l’evoluzione della struttura socia-le, una volta affermatasi, è forse meno facilmen-te reversibile che non una pura evoluzione tec-nologica. Per quanto si tratti di un’interpretazio-ne male accetta (...) si deve ammettere (...) chefra il XIII e gli inizi del XII secolo si assiste inPuglia al nascere di almeno quattro comunità dicarattere urbano, che queste città «sorsero comerisultato diretto di traffici con il mondo egeo», eche esse «non sarebbero potute sorgere senzaquesti traffici». Nel nord non c’è segno alcuno diuna simile evoluzione stimolata dall’esterno (...)e si è tentati di postulare un rapporto, benchéremoto fra queste esperienze così fondamental-mente divergenti nell’età del bronzo recente e idifferenti ritmi e modi del successivo sviluppoprotourbano e urbano nelle due aree. Quel cheappare indiscutibile è che, nel vuoto creato dallascomparsa dell’effettivo interessamento mice-neo, la penisola appare nel suo insieme orienta-ta culturalmente più verso l’Europa centrale cheverso il Mediterraneo27”.

E’ da tutti questi tipi di armi dell’età delbronzo sin qui venuti descrivendo, dapunta e da filo, che discendono -perretaggi ed evoluzioni- i vari modelli inuso nella prima età del ferro nell’Italiacentrale tirrenica, ovvero le spade “alingua da presa italica”, le spade a lin-gua da presa “occidentale”, quelle “apomo globulare” e quelle “ad antenne”.Il primo tipo ricalca fedelmente quellianaloghi dell’età del bronzo, con lametendenti al triangolare provviste di varienervature parallele ai due fili. Per l’acu-tezza delle punte, la brevità delle armi

ed il loro modesto peso, è ipotizzabileche la loro azione fosse marcatamentepiù risolutrice per colpi di punta che difilo, giacché l’alta penetrazione frontalenon ha paragone con quella laterale,cui manca la necessaria forza di impattoche determina il potere di arresto.Delle spade italiche sono state classifica-te varie tipologie; il cosiddetto “tipoPontecagnano”, prevalentemente diffu-so in centri etruschi, come Tarquinia, ecampani, reca sulla lama triangolare alezione lenticolare, con leggera costola,dei fasci di sottili linee parallele ai mar-gini dei fili. “L’ambito cronologico didiffusione del tipo risulta piuttostoampio, tra il IX sec. a.C. e la primametà dell’VIII28”. Spade a lingua da presa italica del tipodiffuso a Tarquinia sono state comun-que rinvenute, in deposizioni rituali neifiumi, anche nel nord Italia: una vienedal letto del Sile a Casier, ed una dall’A-stico a Preara (Vicenza)29.Osservando le spade a lingua da presadell’età del ferro si osserva che le carat-teristiche di variante presenti in esserispetto a quelle dell’età del bronzosono principalmente nella forma dell’e-stremità superiore della lingua da presa,che si espande a formare una mezzalu-na in cui si inseriva il pomo deperibilein due valve; inoltre il numero di foriper i ribattini è decisamente inferiorenegli esemplari villanoviani, attestando-si di norma tra i quattro ed i sei.L’evoluzione nella forma del pomo,dalla base espansa e concava e dalla

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Le spade ed i pugnali

Spada italica con fodero decorato, dalla tomba495 della necropoli di Pontecagnano

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consistente volumetria secondo i rariesemplari rinvenuti con parti più omeno estese dell’impugnatura30, sem-bra di fatto rispondere ad una necessitàdi più sicura detenzione dell’arma.Infatti, presumendo che un pur mode-sto pomo sia più che sufficiente alla solaestrazione dal fodero, è in corso dicombattimento che si hanno delleimportanti occasioni di sollecitazionenell’urto e nella ritrazione della spada.In caso di affondo di punta portato suscudi in legno, pelle o vimini, o con suc-cesso alla cassa toracica, la ritrazionedell’arma è importante per non indu-giare sul colpo e favorire il pronto recu-pero dell’arma o, in caso di ferita arre-cata, per causare l’immediata emorra-gia (che determina l’arresto dell’avver-sario e che era favorita dalla presenzadelle depressioni cave sulla lunghezzadella spada, chiamate appunto anche“blood-channels”31); il possibile contrastotra le costole poteva determinare un dif-ficile disimpegno della lama, al quale ilpomo offriva invece una facilitazione.Anche la scherma del combattimentocon lo stiletto, tradizionale nell’Italiameridionale, incontra queste difficoltà:

“Unless you are very fast with your recovery, hischest cavity will close around the blade makingextracting it very difficult. If this becomes thecase, a push kick to the stomach area will haveto be executed in order to extract your bladefrom his chest32”.

Una sollecitazione forte avviene anchenell’incrocio battente delle armi, ovvero

quando le spade di due contendenti siurtano con forza in un affondo conte-nuto da una parata. Tale manovra, perla scarsa robustezza del metallo,andrebbe evitata con spade bronzee;tuttavia non si può escludere che i guer-rieri armati di spade più lunghe epesanti tentassero già nella prima etàdel ferro di disarmare gli avversari conspade corte, sottraendosi alle loro “pun-tate” aiutandosi con lo scudo, e poi rea-gendo con un forte colpo di spada sul-l’arma dell’oppositore. In tale manovrainfatti la potenza del colpo dell’attac-cante, specie se portato di fendente, è ingrado di muovere la leggera spadacorta dalla mano di chi para, che correil rischio di vedersela volar via di manoper restare inerme. Una lingua di presaa “T” o addirittura a mezzaluna con unampio pomo ferma invece l’arma allabase della mano con un forte aggancio.Lo stesso pomo peraltro consente a chiporti un fendente di impugnare più fer-mamente la spada acquistando unamaggiore velocità (ovvero energia cine-tica) al colpo, tentando di compensarela leggerezza strutturale dell’arma.Il tipo di immanicatura della spada “ita-lica”, con pomo e guancette in materia-le sovente deperibile (ma anche prezio-so, come si vedrà nella spada più tardadella tomba Bernardini prenestina,della prima metà del VII sec. a. C.) evi-denzia una predilezione per delle guan-cette che non siano metalliche, ma inun materiale organico che risulti menosdrucciolevole con l’essudazione della

mano. Il fissaggio di tutta la parte depe-ribile a quella metallica sembra esserestato, dall’età del ferro in poi, semprepiù sicuro anche con un minor numerodi ribattini: le spade a lingua da presadell’età del bronzo recavano infatti unalto numero di grossi fori per chiodipassanti, quasi che in origine si temessel’allentarsi delle guancette. L’intento diaccertarsi del fissaggio dell’immanicatu-ra pareva essere prioritario sulla possi-bile debilitazione della parte metallica,che essendo percorsa da grossi foriaveva una intrinseca fragilità, specie allaspalla della lama ed a metà dell’impu-gnatura, recuperando solidità solo gra-zie alla sezione ad “H” della lingua dapresa33.Nelle spade italiche dell’età del ferro leguancette, oltre che dai ribattini e dacollanti –questi ultimi forse più diffusi edefficaci in quest’epoca-, erano trattenutein posto anche da fili metallici, come siosserva ad esempio nella spada dallatomba 495 di Sant’Antonio a Ponteca-gnano, o in esemplari dell’area vetulo-niese, nonché nella già citata spada dallatomba Bernardini prenestina.Le spade italiche a lingua da presa sonoattestate sia in bronzo che in ferro,materiale quest’ultimo che andrà pro-gressivamente prendendo il sopravven-to per la sua maggiore resistenza, specieappunto nel confronto diretto con armibronzee. In realtà, comunque, la sostituzione delbronzo con il ferro non dovette esserefulminea, a causa dei limiti iniziali della

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tecnologia del ferro, che ai suoi iniziproduceva un metallo di scarsissimaqualità e resistenza, addirittura secondoalcuni meno resistente del bronzo, cheper le spade conosceva ormai processidi irrobustimento. In effetti, comemeglio vedremo nelle pagine seguentinell’osservare le tecnologie della metal-lotecnica per la lavorazione delle spade,non sempre ed ovunque, nella storia, ilbronzo ha soppiantato il ferro; in Giap-pone, ad esempio, il ferro appare dal300 a.C., ed il bronzo solo 200 annidopo: curiosamente là il bronzo sosti-tuisce per lungo tempo il ferro, e nellespade esso ha un uso quasi esclusivo. E’solo dal IV sec d.C., in quel paese, che sidiffondono in gran quantità le spade inferro, seppure i processi di produzionedell’acciaio, di stratificazione delle lamee di tempra del tagliente fossero proba-bilmente note già a cavallo dell’era diCristo34.D’altronde, specie in area italica, leprime produzioni di ferro ottenute conriscaldamento e martellamento delgrezzo, se non contenevano tracce piut-tosto ricche di nickel, risultavano piutto-sto malleabili e le armi perdevano rapi-damente il filo; il martellamento a fred-do non restituiva il taglio al manufatto,a differenza di quanto accade col bron-zo. Fu solo quando vennero individuatele tecniche di incrudimento -martella-mento a caldo ed immersione nell’ac-qua- che il ferro divenne, da concorren-te del bronzo, un materiale ad esso net-tamente superiore35.

La lunghezza complessiva delle spadeitaliche a lingua da presa, dalla puntaalla lingua da presa inclusa, è di normaattorno ai 40 cm ed anche meno36, finoad un massimo attorno ai 6037, il che nefa di fatto dei lunghi pugnali o dellecorte daghe da combattimento ravvici-natissimo, da vero corpo a corpo, adevidenziare come tatticamente l’even-tualità di scontri di tale tipo fosse con-templata in modo non massificato, giac-ché i rinvenimenti di spade sono relati-vamente poco numerosi nella prima etàdel ferro, e probabilmente relativi soload alcuni seniores emergenti, comemeglio vedremo oltre38. Questo datosulla scarsa diffusione, va ricordato, nonvale solo per l’Etruria villanoviana, maanche per il Meridione e l’Italia ingenere; infatti “le spade sono elementipoco frequenti nei corredi degli armatidelle necropoli calabresi, come nel restodella penisola, già a cominciare dallafase iniziale della prima età del ferro e ilfenomeno si fa più evidente nella fasesuccessiva39”.Delle differenze di utilizzo di spadecorte e spade lunghe sono pieni imanuali di scherma dal Medioevo adoggi40; senza indugiare nelle copioseindicazioni tecniche, è forse il caso diricordare soltanto come la spada cortaavvantaggiava negli spazi ristretti, equella lunga fosse però preferibile inquelli più ampi; l’arma corta inoltreconsentiva a combattenti anche menorobusti di “entrare” tra i colpi degliavversari armati di spade più lunghe.

Tuttavia scuole di pensiero, di combatti-mento e, in ultima analisi, di ideologiaculturale diverse si sono sempre alter-nate ed opposte; anche in Giappone, suquesto stesso tema, i manuali d’armeseicenteschi evidenziavano che

“gli uomini fisicamente potenti possonomaneggiare agevolmente anche una grandespada lunga, per cui non vi è ragione per unapredilezione irragionevole a favore di unaspada più corta. Il motivo è che anche lance ealabarde vengono utilizzate per sfruttarne lalunghezza. L’idea di usare una spada più cortaper sfondare, penetrare e vincere l’avversarionell’intervallo fra un colpo e l’altro della suaspada è distorta e pertanto sbagliata. (...) E secerchi di usare un’arma corta per penetrarenella difesa del nemico e avere la meglio, que-sto non servirà a niente se ti trovi in mezzo anumerosi avversari. Anche se pensi che ciò cheguadagni con un’arma più corta è la capacitàdi sfondare una folla, balzare liberamente egirare attorno, in ogni caso ti trovi in un atteg-giamento difensivo di scherma e sei pertantoin uno stato d’animo distratto41”.

Sullo stesso tema appariva di segnoopposto l’opinione di un manuale fran-cese di scherma del Settecento, dove sileggeva che

“c’est un erreur de croire qu’il y ait de l’avanta-ge à se servir d’une longue épée, plusque si unadversaire déterminé & adroit gagne le fer, enserrant la mesure, il seroit très-difficile avecune longue épée de débarraser sa pointe sansracourcir le bras; & dans ce tems-là celui quiauroit une épée coute auroit l’avantage & seroiten état d’en profiter42”.

Quali che siano i vantaggi e gli svantag-gi dell’uso di armi da taglio e punta

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Le spade ed i pugnali

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corte, resta il fatto che l’impiego dispade o pugnali da uso di punta richie-de, in chi li utilizza contro un avversario,una consistente aggressività ed unaddestramento preciso43.Le spade a lingua da presa italiche,come era già stato notato decenni orso-no, “mentre hanno larga diffusione nel-l’Italia centrale e meridionale, scarseg-giano in quella settentrionale44”. Diffu-se invece in un’area centro-occidentaledell’Italia sono le spade a fili parallelidette appunto “a lingua da presa occi-dentale”: si tratta di esemplari in cui lalingua ha ampi trafori, come anche labase della lama poco sotto la quale sitrovano due ampi incavi più o meno

profondi45. Questo tipo di spada, dettoanche “di Sa Idda” dalla località sardadove ne vennero rinvenuti esemplari inun ripostiglio, è attestato anche in Etru-ria, come ad esempio a Populonia, doveuna spada frammentaria fu ritrovata inun ripostiglio alla Falda della Guardiolaassieme ad alcune asce, una fibula eduna navicella di bronzo, in un corredodatabile alla seconda metà dell’VIIIsec.a.C.46 rinviando evidentemente aduna importazione dalla Sardegna o allapresenza di personaggi dediti alle armiprovenienti dall’isola. Nei bronzettinuragici, peraltro, anche se è difficilericonoscere il tipo di spada raffigurato,si osserva che l’arma da taglio è piutto-sto lunga, ed a fili paralleli, comeappunto il tipo “Sa Idda”; quest’arma -mai al fianco di arcieri- compare spes-sissimo in concomitanza con lo scudo el’elmo-copricapo, e talora anche conaltre difese come il corsaletto di cuoio ela piastra pettorale47.Le spade “occidentali”, pur ricordandoper i loro trafori gli esemplari dell’etàdel bronzo, se ne distaccano per la sin-golare “strozzatura” della lama alla suabase e per l’espansione sopra di essa. Sela “strozzatura” ricorda accorgimentipresenti negli spadoni a due mani delCinquecento, dove la strozzatura senzatagliente consente di avanzare l’impu-gnatura della destra oltre la guardiadirettamente sulla lama, a rendere ilcolpo più potente di filo, viceversa leespansioni tra la strozzatura e l’impu-gnatura sembrano formare una sorta di

guardia ad alette che assolve il compitodi guardamano. Tale struttura avrebbeconsentito di incrociare l’arma conun’altra filo contro filo e di poter scor-rere il tagliente dell’avversario sinoall’impugnatura senza pericoli per ledita (a patto di impugnarla con una solamano), contrariamente a quanto avvie-ne a chi non dispone di una guardia.Ancora caratterizzate dalla presa ricava-ta dall’estremità posteriore della fusionedella lama, in un unico pezzo sagomato,sono delle particolari spade rinvenutein Calabria. Si tratta di spade molto lun-ghe e sottili in ferro, con lingua da presache termina a coda di rondine, di cui unesemplare è tornato alla luce a TorreMordillo, un’altura che domina la pianadi Sibari nella Calabria ionica.Questo esemplare aveva lama a scanala-ture longitudinali parallele, a gruppi ditre per ogni filo, una spalla ad arcomolto sfuggente, ed impugnatura ovoi-dale appiattita, con sezione ad “H”; l’e-stremità posteriore si apriva in due lar-ghe espansioni divergenti. Due altripezzi simili vengono dalla tomba 102 diS. Maria d’Anglona e dalla tomba 6 diCraco: questi recavano una lama largaappena 3-4 cm circa, con costolaturacentrale, ed una lunghezza complessivadi oltre 90 cm. Queste armi lunghe esottili sono state confrontate

“con le quattro spade lunghe in ferro dallatomba 6 a incinerazione della Porta Ovest diEretria e le (si) ritiene opera di artigiani localiispiratisi a modelli greci, anche notando lecaratteristiche italiche del fodero in bronzo

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La lancia, la spada, il cavallo

Disegno di spada a lingua da presa occidentale,da Monte Sa Idda, e spada dello stesso tiporinvenuta a Populonia - Firenze, MuseoArcheologico Nazionale

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della spada di S. Maria d’Anglona. Si è propo-sta per la spada da Torre Mordillo la stessainterpretazione, mettendo in evidenza l’affinitàancora più specifica dell’immanicatura di que-sta con le spade della tomba 6 di Eretria; unalibera interpretazione quindi del modellogreco, eseguita in Italia meridionale secondo ilgusto locale, in un ambito più diverso rispetto aquello delle spade lucane (..) Sembra (…) dipoter affermare che l’evidenza fornita da ogget-ti non importati, ma fabbricati localmente sumodelli greci in almeno due distinte officinedell’Italia meridionale, quali le spade di cui si èparlato, fornisce un ulteriore chiave di letturadei rapporti con il mondo greco, in particolareeuboico, prima della colonizzazione48”.

Un altro tipo di spada della prima etàdel ferro diffuso in Italia è quello detto“a pomo globulare” (per Saulnier “abottone”), dove la base della lama ècoperta da un elemento arcuato e dovel’impugnatura era attraversata da uncodolo che, all’estremità, recava un ele-mento a bottone convesso sotto il qualeera in origine fermato appunto unpomo globulare talora deperibile. Inalcuni esemplari il manico non èpieno49 ma deperibile50; preme comun-que notare che laddove l’immanicaturaè metallica si possono riscontrare (comein un esemplare da una tomba di Este)i tre listelli delle omonime spade dell’e-tà del bronzo finale, ad individuareun’ascendenza tipologica nei periodipiù antichi.Infine, le spade “ad antenne” -tra le piùdiffuse nell’Etruria villanoviana assiemea quelle “italiche”- sono armi a filiparalleli dall’impugnatura di vario tipo

-a triplice listello, a forte espansione ametà altezza, globulare, biconica, tradue o più listelli- ma dal peculiarepomo, formato da un’asta trasversale lecui appendici si attorcigliano a formaredelle volute. L’immanicatura può esseresia con le comuni spalle arrotondate, siacon espansioni a descrivere una guardiaad alette.Tecnicamente le spade ad antenne,anche nella loro variante detta “tipoTarquinia” sempre realizzate in bronzo,recano vari richiami occasionali per leloro varianti, ma il loro elemento pecu-liare -il manico metallico con il pomo a

volute- si collegacomunque alle spadedal manico pieno a trelistelli dell’età delbronzo finale, cosìcome al tipo di spadead antenne che ebbenell’epoca della civiltàdi Hallstatt una vastadiffusione in Europache va dall’area alpina(Conase, Bex, Grand-son-Corelettes, Bings,Zurigo) sino all’areadanese ed alle isole sulBaltico, con propaggi-ni in Europa orientale(Nieczajna) ed inCroazia51. L’area diorigine di tale diffu-sione è comunquel’Europa centrale52 eprecisamente la zona

carpato-danubiana, la stessa dove risul-tano diffusi anche dei tipi di elmi cre-stati e pileati53. Vari sottotipi di spadead antenne diffusi a nord delle Alpisono stati rinvenuti anche in varie zonedell’Italia protostorica; armi del tipo“Zurigo” sono presenti in Veneto, edanche in varie località sarde (Ploaghe-Nuraghe Attentu, Sa Sedda, Sos Caros),a testimonianza del fervore di scambitra l’isola e l’Etruria villanoviana già nelIX sec. a.C54. Anche il tipo di spada adantenne detto “tipo Fermo” ha unalarga diffusione su tutta la fascia adriati-ca nel corso del IX-VIII sec.a.C., com-parendo nelle civiltà di Este e Golasec-ca, come anche a Vomano presso Tera-mo; si tratta di un tipo intermedio tra il“tipo Tarquinia” e le spade centroeuro-pee. Un esemplare da Concordia, oggial Museo di Portogruaro, reca tre moda-nature nell’impugnatura, e la sua lamafu spezzata ritualmente55. Anche piùtardi, durante il villanoviano III a Bolo-gna, nella tomba 776 di San Vitale erastata deposta una spada ad antennespezzata ritualmente; si trattava di unesemplare tipo “Weltenburg” realizzatoforse in Europa centrale56. D’altronde avari studiosi non è sfuggito come già dal950 a.C. circa, presso la civiltà di Hall-statt trovassero larga diffusione dellelunghe spade, documento del diffon-dersi di compagini di aggressivi spadac-cini che si affidavano ad una schermanuova, sostenuta da un taglio affilato eda una lunga punta57. E’ però il caso diricordare che, in direzione opposta alle

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Le spade ed i pugnali

Esempio di spadaa pomo globulare

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importazioni di origine mitteleuropea,le spade ad antenne in bronzo di pro-duzione villanoviana vennero commer-cializzate anche nell’Europa continenta-le, risultando presenti ad esempio aLione in Francia, a Steyr in Austria, aSeddin nella bassa valle dell’Elba58.La presenza su un areale molto vasto dispade ad antenne prodotte in Europacentrale, e quella anch’essa estesa dispade simili prodotte in Etruria,anch’esse oggetto di una fortuna com-

merciale notevole, ha dato luogo ainterpretazioni molto diverse neltempo, connesse a classi di reperti dallaanaloga diffusione; recentemente sul“problema della vasta diffusione dellespade ad antenne del tipo Tarquiniacon le sue varianti, reperti databili tra ilIX e l’VIII secolo a.C., la cui diffusionesi allunga fino ai territori qui considera-ti (Germania settentrionale e Polonia)”è stato scritto:

“non si può negare lo stretto rapporto tipolo-gico esistente fra gli uni e gli altri esemplari delgruppo. Ma rimane da chiarire in che modo eattraverso quali e quante officine questo tipo dispade, prodotto con esigue varianti e in ultimaistanza risalente a prototipi centro-europei,abbia potuto diffondersi su un’area tanto vasta.Comunque anche in questo caso si dovrebbeescludere una diffusione lineare, irradiantesida un unico centro per il tramite di un com-mercio a lunga distanza59”.

In effetti dall’analisi dei reperti emergeche la diffusione dei manufatti metallicietrusco-villanoviani, specie delle armi edegli oggetti connessi all’ideologiaguerriera, fu accompagnata dalla crea-zione di imitazioni nei luoghi interessa-ti dai flussi di esportazione con variantilocali, come dimostrano le spade adantenne dell’Alta Austria e del Brande-burgo60; in connessione con ciò è statoritenuto che guerrieri, ed anche artigia-ni, “si diffusero da Bologna verso le areetransalpine passando dall’area veneta edalla valle dell’Adige, come indicanonel primo caso la spada ad antenne diEste61”. A questo ritrovamento atestino

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La lancia, la spada, il cavallo

Disegno di spada ad antenne ed esemplare frammentario dello stesso tipo rinvenutonel ripostiglio di San Francesco a Bologna - Bologna, Museo Civico Archeologico

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vanno aggiunte le spade ad antenne daGombito e dalla Val di Non che sonostate ritenute, pur molto simili ad esem-plari tarquiniesi, dei prodotti di officinelocali ispirate a manufatti villanoviani62.Se la lunghezza delle spade ad antennenon supera di norma i 60 cm, va comun-que rilevato che in media le lame sonopiù lunghe di quelle delle spade italiche,ed il loro profilo non è triangolare marettangolare a fili paralleli, con un’areaappuntita all’estremità63. Diffuse a Veioe Tarquinia, le spade ad antenne com-paiono anche nell’area bolognese (ripo-stiglio di San Francesco, nella variante atre listelli; tomba n. 39 Benacci-Caprara,con guardia ad alette).Il loro peso, come confermano anchealcune ricostruzioni in bronzo, era infe-riore a 1,5-1,6 kg circa per spade tra i 63ed i 68 cm di lunghezza complessiva64.L’impiego di spade lunghe e da fenden-te da parte della fanteria, oltre agliaspetti già indicati nel confronto con lespade corte, comportava varie caratteri-stiche nel modo di combattere deglispadaccini che le prediligevano; adesempio, il movimento ampio chenecessariamente andava effettuato perdare forza al colpo di filo, specie se por-tato dall’alto, poteva esporre il fiancodestro del guerriero all’offesa dellelance avversarie. Ancora nel Settecento,la lunga spada degli Spagnoli era adat-ta a disarmare, con un potente colpo,avversari con spade simili; essa era inve-ce impotente contro spade corte65.Tale spada, col suo peso, imponeva

inoltre di imparare non solo ad assesta-re il colpo di filo con vigore, ma anche amancarlo senza per questo sbilanciarsi eperdere l’appoggio; la spada lunga epesante risulta inoltre piuttosto lenta eprevedibile per chi attacca di punta, mail colpo che essa è in grado di assestarerichiede di essere parato con una difesaadeguata, quale un robusto scudo66.Inoltre l’uso di spade un po’ più lungheper la fanteria, oltre che per la possibi-lità di colpi di filo carichi di elevataenergia cinetica, poteva essere stimolatoanche dalla opportunità di impiegarleper deviare le armi da getto sullo stiledel pilum o dello iaculum. I Britanni chefronteggiarono Agricola nell’83 d. C.usavano proprio così le loro “lunghespade”, grazie alla loro “calma e peri-zia”. Tuttavia va ricordato che tali armi,in caso di mischie serratissime e furi-bonde, erano meno maneggevoli dispade corte e da punta come quelle ita-liche, giacché “non permettevano diincrociare le armi e di combattere inuno spazio ristretto67”.I quesiti che alcuni studiosi abbiamo vistoessersi posti sui motivi della fortuna diquesto tipo di spade possono trovare unarisposta nell’osservazione che la spadapiù lunga è tradizionalmente preferitadalla cavalleria, giacché “long swordswould naturally allow a greater tacticalflexibility in the use of mounted menagainst both infantry and cavalry68”.Gli studi sull’introduzione del cavallo inItalia, relativamente alla diffusione delsuo uso non solo come traino, ma anche

come cavalcatura per uso militare -come meglio vedremo nel capitolo a ciòdedicato- dimostrano che l’impiegodelle cavalcature in guerra dovette avve-nire a partire dalla media età del bron-zo, verso la metà del secondo millennioa.C., nel momento in cui peraltro com-paiono nella produzione metallurgicaitalica proprio le prime spade lunghe,adatte ai fendenti, che sin dall’iniziodovettero essere le armi preferite daiguerrieri a cavallo69.Le spade lunghe, in effetti, erano predi-lette anche dalla più tarda cavalleriaromana -che utilizzò la spatha sviluppa-ta dalla spada celtica proprio per questoimpiego70- sebbene queste offrissero ilmassimo risultato in connubio con lasella, che invece era ignota sia nell’Etru-ria villanoviana che più tardi. Infatti perimpiegare una spada da fendente colmassimo della potenza e dei risultati, ènecessaria una collocazione sicura ingroppa, in modo da potersi sporgere,portare un colpo ampio verso destra, ocolpire a sinistra al di là del collo delcavallo, o poter parare verso l’alto uncolpo portato da un fante da sopra latesta; per questi risultati era senz’altronecessario, in assenza di sella e staffe,un addestramento accurato ed una con-siderevole abilità71. Ancora nel Sette-cento si consigliava il mezzo spadone, alama dritta e relativamente lungo epesante, per le truppe di cavalleria checaricavano all’arma bianca72

E’ stato osservato come le misure dellespade italiche a lingua da presa e dei

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Le spade ed i pugnali

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pugnali, affini come concezione, sianoandate col tempo aumentando: “possia-mo supporre quindi che vi fu una lentaevoluzione di queste due armi, tenden-ti col tempo ad allungarsi per reggere ilconfronto con le spade ad antenne, didimensioni maggiori73”.Le spade sin qui individuate per laprima età del ferro nell’area cetroitalica,e in particolare nell’Etruria villanovia-na, pur nella notevole varietà dei tipierano tutte sostanzialmente di profilosimmetrico, sia che i fili fossero conver-genti -nelle spade a lingua da presa“tipo Pontecagnano”- sia che essi fosse-ro paralleli -nelle spade ad antenne“tipo Tarquinia”-. Sono tuttavia docu-mentate anche spade asimmetriche,ovvero con caratteristiche che, in modoappena accennato o più marcato, leavvicinano alle sciabole. Molto strettamente legata alle spade adantenne è la spada in bronzo dallatomba 39 della necropoli Benacci-Caprara di Bologna, risalente al localeVillanoviano III (VIII sec. a.C.); questa,fratturata intenzionalmente per ladeposizione funebre, sembra recare nelframmento distale una forma asimme-trica della punta, curvata da un lato, asuggerire un uso prevalentemente ditaglio74. Ormai orientalizzanti sonoinvece le spade in ferro a lama ricurvadella Tomba B portata in luce nel 1971a Verucchio, reperti che sembrano indi-care, assieme ad altri nello stesso conte-sto, forti contatti con l’area medio adria-tica ed umbra75. D’altronde spade falca-

te in tutto simili alla più tarda machairagreca ed etrusca erano diffuse già nell’-VIII-VII sec. a.C. presso i Bessarabi, maper avere, di questa spada, delle attesta-zioni certe in Etruria si dovranno atten-dere i bronzetti di guerriero con talearma e perizoma, diffusi attorno al 600a.C., come quello al Rijkmuseum diLeida e proveniente da Montalcino.L’interesse verso le armi curve è legatotecnicamente al tipo di ferita che essesono in grado di aprire: infatti, rispettoalle spade dritte ed a fili paralleli, oltreall’incremento di potere di taglio neicolpi di filo (connesso alla collocazionedel centro di percussione)76, le sciabolerecano forti vantaggi anche nei colpi dipunta. Con essi infatti aprono un tagliolargo all’incirca quanto la larghezzadella lama sommata alla distanza di cur-vatura della punta rispetto al dorsospada, che in una sciabola significa untaglio di circa due volte la larghezza del-l’arma; le scimitarre a curvatura moltomarcata possono arrivare a tagli larghisino a 5 o 6 volte la larghezza dellalama. Ovviamente più la lama è curva epiù il taglio inferto di punta si allarga,altrettanto cresce la resistenza incontra-ta, riducendo la profondità di penetra-zione; le ferite sono quindi più largheed invalidanti per emorragia, ma menomortali sul colpo, mentre spade dritteusate di punta possono uccidere con ununico affondo purché portato in zonevitali77.Quanto alla tecnologia della realizza-zione delle spade in bronzo, è già stato

rilevato come la tecnica tradizionaleper esse fosse stata quella della fusione-di ascendenza tipicamente mitteleu-ropea; anche per le spade villanoviane“la fabbricazione avveniva per fusionedel metallo in appositi stampi con suc-cessivi rinforzi sulla lama, lavorati amartello78”.Anche i pugnali in bronzo “erano otte-nuti per fusione in appositi stampi,mentre quelli di ferro erano prodottitramite battitura a martello di barre dimetallo79”.E’ necessario, a questo punto, aprireuna digressione sulle tecnologie deimetalli nella lavorazione delle spade,partendo dai metodi di lavoro presentigià nell’età del bronzo.E’ stato acquisito che già nell’età delbronzo finale si impiegavano stampi difusione multipli, dai quali si ottenevanoin un unico getto più spade; la forma inpietra da Piverone, ad esempio -oggi alMuseo di Ivrea- era stata ideata percreare tre spade di uguale tipo, ma didiversa lunghezza. Studi tecnologicihanno dimostrato che per tale stampo èdimostrabile l’esecuzione di un preri-scaldamento di esso, mediante unafusione di prova80.La tecnologia del bronzo, nell’età cheda esso prende il nome, fu in realtàmolto povera ed empirica per la mag-gior parte delle fasi di tale età; le anali-si dei manufatti metallici hanno rivelatoche i metallurgi sovente non avevanoraggiunto una vera maturità tecnologi-ca, come attestano le alte percentuali di

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La lancia, la spada, il cavallo

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arsenico e/o antimonio in asce dell’etàdel bronzo antico e medio, e la grandevarietà di percentuali riscontrate nellalega stagno-rame81.Ancora, durante la facies culturaleappenninica, è stato notato che

“la diversità delle leghe e le percentuali varia-bili dei componenti (...) mostrano che la tecni-ca metallurgica (...) non era caratterizzata dauna tradizione artigianale unificante, con pro-cedura e conoscenze tecniche standardizzate,anche se standardizzate erano le forme. Il verobronzo di stagno non entrò in uso normale chealla fine dell’età del bronzo. (...) Oltre alla scar-sa consistenza tecnologica, l’altro aspettoimportante della metallurgia dell’età del bron-zo appenninica è la sua grande rarità. (...) Si hal’impressione che in Italia centrale la tecnolo-gia di uso giornaliero nel secondo millenniofosse ancora, quasi per tutti, quella basata sulletradizionali risorse della società neolitica, comela pietra, la selce, il legno, le pelli e così via82”.

Diversamente, il bronzo binario dell’etàdel bronzo finale, migliore di quelloprecedentemente in uso, contenevamediamente il 10% di stagno, ovverouna percentuale tuttora impiegata perrealizzazioni che debbano mostrarecaratteristiche elevate; su reperti daCarignano (Torino) e Peschiera delGarda (Verona) di quest’epoca le oscilla-zioni di composizione sono state defini-te “molto limitate”, come le percentualidi impurità in particolare quelle dipiombo che derivavano dalla contami-nazione dei minerali83. Cionondimeno,ancora nell’età del bronzo recente, lespade già citate da Mezzano, nella Valledel Fiora, mostrano alle analisi metallo-

grafiche, come si è già osservato, diessere entrambe prive di qualsiasi pro-cesso di rilavorazione per incrudire lalama; l’esemplare tipo “Canegrate”risulta addirittura un pezzo “grezzo difusione” senza alcuna lavorazione dirifinitura84.Il cosiddetto “incrudimento” non èaltro che un trattamento termico diricristallizzazione del metallo, che siottiene a freddo deformando il grezzoper laminazione o battitura. Martellan-do la lama di una spada, i grani delmetallo che la formano subiscono degliscorrimenti reciproci, deformandosi edarricchendo la struttura cristallina contensioni e difetti reticolari, e l’energiaerogata in martellatura si converte inparte in calore dissipato, in parte restaimprigionata nei reticoli cristallinideformati; con l’aumento della defor-mazione aumentano anche le caratteri-stiche meccaniche e la durezza delmanufatto, che perde però plasticità.Se si riscalda il materiale incrudito sifanno aumentare energia e mobilitàdegli atomi che formano il reticolo cri-stallino già modificato, finché non siottiene il riordino del reticolo stesso,con l’eliminazione di tensioni e difetti, apartire da determinati punti, dettinuclei di ricristallizzazione. Se il proces-so si estende all’intero oggetto, essoviene definito “ricotto”, e recuperaparte della plasticità perduta a sfavoredelle doti meccaniche85.Il bronzo affiancò il ferro per un perio-do non brevissimo, durante il quale la

tecnologia del nuovo metallo sperimen-tava soluzioni migliorative che lo stessobronzo aveva da poco visto impiegate;in ferro dolce infatti le armi, special-mente le spade, non erano di elevataqualità meccanica. Il martellamento afreddo del bronzo per rifare il filo, ovve-ro l’incrudimento localizzato, era statointrodotto tardivamente, ed esso nonrendeva nel ferro quanto nell’altrometallo, giacché abbisognava invece delpiù evoluto processo di incrudimento ericottura -tra l’altro da effettuare diffu-samente sul manufatto e con grandedispendio di energia e calore, pena lasola “recovery” parziale del metallo86.Per assistere, tra le armi, alla larga diffu-sione del ferro in Etruria si deve atten-dere l’VIII secolo; a Veio l’uso su vastascala di questo metallo avviene nellafase IIA (800-760 a.C.), dopo l’aumentodi scambi col mondo delle colonieeuboiche, e per passare all’impiego nonsolo in coltelli e lance, ma anche inspade, si deve attendere la fase IIB(760-720 a.C.); è stato ipotizzato che iGreci d’occidente -che a Pithekoussailavoravano il ferro elbano- abbiano for-nito alle popolazioni italiche il loroknow-how tecnologico per la siderurgia,come è stato proposto che anche la cre-scita della tecnologia del bronzo nell’-VIII secolo sia legata a stimoli fenici. Gliscavi archeologici hanno dimostratoche gli euboici di Pithekoussai dispone-vano di un complesso industriale metal-lurgico nella zona di Mazzola, attivo trala metà dell’VIII e gli inizi del VII

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Le spade ed i pugnali

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sec.a.C., contemporaneo alla vicinaacropoli di Monte di Vico, dove è statoritrovato del minerale di ferro, costitui-to da ematite pura, originario dellazona a monte di Rio Marina nell’Elba87.Per poter lavorare con buon livello tec-nologico il ferro era infatti necessariodisporre di forni fusori a carbone checonsentissero di raggiungere tempera-ture di circa 1200-1300 gradi centigra-di, alle quali il minerale di ferro, senzafondere, diventa comunque pastoso epuò essere estratto, pur piuttosto impu-ro e con la perdita di enormi quantità discarti. Per fare ciò era necessario un purprimitivo forno metallurgico, che reca-va in alto una camera di carico e di com-bustione, ed una cavità sottostante alfuoco, nella quale si raccoglieva lamassa allo stato pastoso che formava ilmetallo, dopo il processo di riduzionedel minerale da ossido, solfuro o carbo-nato grazie al contatto col carbone adalta temperatura. La camera superioreinfatti -alta e ristretta per concentrare ilcalore- era formata da un vano di pietreaccostate, lutate negli interstizi o rivesti-te di argilla refrattaria; il carico venivaeffettuato dall’alto con minerale e car-bone di legna parzialmente combusta,intervallati. Questo antenato del forno amanica, dei moderni cubilotti ed alti-forni, e noto per secoli come “bassoforno catalano”, disponeva di una pursommaria ventilazione forzata, attraver-so la quale da soffietti e mantici dotati ditubi in cotto si ossigenava la combustio-ne per mantenere alte le temperature.

“Il forno per la primitiva siderurgia si sviluppa,dunque, verso l’alto formando un pozzetto,con fondo emisferico, che misura 30 o 40 cen-timetri di diametro e poco più di altezza (...) Aoperazione ultimata il forno veniva demolito ese ne traeva una massa metallica pastosa, una«metallina» ricca di ossido e di scorie che veni-vano espulse meccanicamente con la martella-tura e successivi riscaldi, mantenendo ad altatemperatura il metallo via via che si andavapurificando. Le masse lavorate non superava-no i 10-20 chilogrammi al massimo. (...) Furo-no conosciuti gli effetti della tempera, e ancheil modo di regolarli con la ricottura (...) Questomateriale era ciò che oggi chiamiamo acciaiodolcissimo, lega a basso tenore di carbonio (da0,20 a 0,25%), di notevole purezza derivantedal metodo di lavorazione; e, talvolta, ferroquasi puro (...) Nell’antichità classica il ferro fuperciò lavorato esclusivamente per forgiatura,e così fino dopo il Rinascimento: perché non sipoteva raggiungere la temperatura (circa 1600gradi centigradi) a cui il ferro si carbura, dopodi che la lega ferro-carbonio, che prende ilnome di ghisa, diviene fusibile a soli 1200gradi centigradi88”.

Analizzando le procedure antiche sulpiano più tecnico e chimico,

“during this time-period it was impossible toreach iron’s melting point (1,520 C with thetypes of furnaces then available. The solutionwas achieved by the using the direct methodwhich, through the reduction of the oxides(between 800-1,150 C), made it possible tomelt inclusions, such as siliceous gangue, andobtain a spongy bloom of a compound of ironoxides and slag. (...) However, the conditions ofreduction resulting from the lower temperatu-re and the CO/CO2 ratio, implied that therewas still a large quantity of iron (FeO) withinthe slag (...) The chemical principle of reduc-tion is based on the reducting reaction at high

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La lancia, la spada, il cavallo

In alto, stampo in pietra dell'età del bronzorecente, a una valva, per la fusione di falcetti,da Toscanella Imolese - Bologna, MuseoCivico Archeologico; in basso, forno perminerali ferrosi con sezione dell'interno

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temperature of the carbon oxide (CO) on theiron oxide. The combustion of charcoal, aidedby the action of air draft, produces carbon dio-xide (CO2) which produces carbon oxide at atemperature of more than 1000 C, thanks tothe great quantity of charchoal. (...) The redu-cing action of oxygen on the iron sesquioxidebegins at a temperature of approximately 200C and almost produces iron monoxide which isalways reduced by carbon oxide at a tempera-ture of approximately 850 C89”.

Il ferro dei forni villanoviani era dun-que ricco di impurità e scorie, che si cer-cava di eliminare con la fucinatura, laquale tuttavia, assieme ai riscaldamenti,sottraeva anche gran parte del carboniocontenuto nel massello; il ferro dolcericavato, se era facilmente saldabile conla battitura di elementi l’uno sull’altroportati tra i 900 ed i 1200 gradi (“bolli-tura”), prendeva però pochissima tem-pera. Quanto alla durezza, la strutturadel ferro antico non era omogenea

come in quello attuale, ma era formatacome si è accennato da moltissimemicelle che la ripetuta martellaturaintrecciava tra loro unendole, con unaumento di durezza e resistenza, specieper armi difensive. La crescita tecnolo-gica consentì poi di condurre la fucina-tura disperdendo meno possibile il car-bonio necessario per la tempera, e diregolare quest’ultima grazie alla ricottu-ra e al raffreddamento90. Ancora nelSettecento i manuali di scherma ripor-tavano come nella scelta della spada sidovesse fare attenzione ai difetti di lavo-razione: “Il faut faire attention en choi-sissant une lame, qu’il n’y ait aucunepaille. Les pailles rassemblent à despetites taches noires & sont cruses. Lesunes se trouvent en travers de la lame &d’autres en long. Les premieres fontcasser les lames le plus aisément91”.La tempera consisteva, secondo il meto-

do che impiegava-no ancora pochidecenni fa i coltel-linai, nell’ “opera-zione più delicatae difficile perchéera quella che ren-deva inalterabilela lama. Con letenaglie si mette-va una lama sulcarbone incande-scente finché nonaveva acquistato ilcolore rosso vivo,quindi la si butta-

va nell’olio. Per renderla dura ma nellostesso tempo elastica si procedeva ad unulteriore riscaldamento fino a portarlaal colore dell’oro o della viola mammo-la92”. Analizzando tale operazione sulpiano tecnico, la tempera e la carbura-zione prendono le mosse dal fatto che

“by reheating and hammering wrought iron ata high temperature and keeping its surface inclose contact with charcoal and/or with anothermaterial able to liberate carbon when heatedand through slow cooling, it is possible to com-bine iron and carbon, giving the real structureof steel to iron. At this stage, the structure ofthe metal can be composed of the followingthree elements: 1) Ferrite (a solid solution ofcarbon inside the iron) which at ambient tem-perature is not more than 0.02% rich in car-bon. Moreover, it is somewhat fragile and, incontrast, relatively soft (90 Brinnell). (...) 2)Cementite (Fe3C), remarkable for its high levelof hardness (840 Brinnell) and, consequently,for its fragility. (...) 3) Pearlite, a lamellar com-pound of the previous two with a carbon con-tent of 0.8% and a hardness of 200 Brinnell.(...) The carburizing substances used duringboth Antiquity and the Middle Ages weregenerally ground solid materials with whichthe surface to be carburized was covered andthe heated. These materials were organic, suchas leather, bones (often calcinated), and wastematerial from the working of horns, mixedwith metallic or alkaline carbonates, and, ofcourse, charcoal. (...)By re-heating the metal, however, it is possibleto change its quality. As a matter of fact, aftercarburization, at ambient temperature the iro-n’s structure is still not very homogeneous inregard to the carbon distribution. But when themetal is re-heated at a high temperature, whilethe iron is still solid, a moment occurs duringwhich the carbon dissolves entirely into iron.

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Le spade ed i pugnali

Alcune scorie di fusione del ferro dal golfo di Baratti a Populonia, sullequali si riconoscono ancora le tracce dell'ebollizione del metallo-a sinistra- e del suo percolamento da liquefatto -a destra-

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This alloy is named Austenite. When slowcooling occurs, the Austenite decomposes andFerrite, Cementite and Pearlite take their basicposition in the iron structure once more. Incontrast, if a quick and immediate coolingoccurs, there is insufficient time for the Auste-nite to be dissolved, and in this way the ironsaturation of carbon (0.8% eutectoide) is man-tained. The resulting structure is Martensite.This kind of worked metal is very hard (710Brinnell). (...) The aim of this whole process isthe attempt to fix the various properties pos-sessed by steel at different temperatures in thecold structure of iron. At this stage, steel is veryhard but not still brittle: by subjecting thequenched metal to consequent heat treatment(between 220 and 400 C°), that is tempering, it is

possible to reduce hardness while retainingstrenght. This very operation is controlled bywatching the steel’s surface colour during there-heating and cooling until the requiredcolour appears (for swords it is purple at 270-290 C°)93”

La diversa durezza ed elasticità del ferrovariamente trattato fu peraltro ben pre-sto impiegata anche per realizzare lamecomposte di più strati di diversa origi-ne, uniti “a pacchetto” grazie alla ripe-tuta martellatura a caldo. Come in alcu-ni più tardi esempi di spade longobar-de, ad esempio, era possibile creare unaspada unendo delle parti laterali ester-ne molto robuste -che costituivano ilfilo- ad una parte centrale più morbidaed elastica -l’anima della lama-; di fattoanche l’”anima” era formata da piùstrati di metallo dal diverso tenore dicarbonio uniti per martellatura, mentreil “filo” era leggermente carburato. Alleanalisi di durezza è emerso che spade inferro così realizzate raggiungevanosempre nella zona del filo almeno i 400Vickers, con frequenti punte di 800,mentre al codolo la parte interna rag-giungeva valori tra 120 e 290 Vickers94.Tali tecniche, che in Giappone raggiun-sero livelli di accuratezza con la forgia-tura per stratificazione, con continueripiegature e martellature delle diversecomponenti fino a raggiungere oltre32.000 strati95, erano note, sebbene informe più semplici, anche in Etruria,dove sono state riconosciute in unaspada da Populonia, la quale presentavala lama costituita da lamine sovrapposte

ed alternate di ferro più dolce e ferropiù carbonioso, riunite in un “pacchet-to” dal metallurgo che le aveva poi piùvolte scaldate al calor bianco e fucinate,ripiegando più volte il pacchetto su sestesso96.Nell’Etruria villanoviana le spade, checome abbiamo visto presentavano innu-merevoli varianti attorno ad una rosatipologica già abbastanza vasta, erano dinorma corredate di fodero, come avve-niva già dall’età del bronzo. Questierano usualmente realizzati in bronzo, oin legno rivestito di lamina bronzea, o inlegno, cuoio e filo metallico, sia che laspada fosse in bronzo o in ferro. Infattila guaina vera e propria, quella interna,veniva fabbricata con legno o cuoio, e sudi essa venivano talora applicate duevalve metalliche -delle quali l’anterioreabbracciava i bordi della posteriore- ouna sola valva metallica -unita su unodei tagli o al centro del rovescio-97. Laparte inferiore del rivestimento in lami-na si inseriva all’interno di un cospicuopuntale in bronzo fuso conformato conlistelli e disco o sfera all’estremità, pernon correre il rischio di ferirsi con l’api-ce del fodero. La parte superiore delfodero, presso l’imboccatura, era soven-te decorata o guarnita con applicazionidi osso o di avorio; l’esemplare dallanecropoli vulcente dell’Osteria ha inve-ce all’imboccatura un elemento in bron-zo fuso di considerevole interesse, giac-ché reca non solo una parte semicircola-re destinata ad innestarsi nell’arco del-l’immanicatura della spada, ma anche

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La lancia, la spada, il cavallo

Puntale di fodero di spada italica da Poggioalla Guardia a Vetulonia - Vetulonia, MuseoCivico Archeologico "I. Falchi"

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due figurine a tutto tondo che rappre-sentano un uomo ed una donna, nudi.Anche la spada che accompagnava ilguerriero di Prato Rosello ad Artiminoera completa di fodero; l’arma, di pocopiù di 30 cm, fornita di lama a codolocon impugnatura d’osso tra due dischi,era ancora contenuta nel fodero com-posto da guancette di legno rivestite diferro ed esternamente ricoperte da duelamine bronzee sovrapposte lungo ibordi. Sulla superficie posteriore è stataindividuata una decorazione incisa, aspina, in parte coperta dalle placche delgancio di sospensione98.E’ stato notato che per le spade a linguada presa

“i foderi, sempre a forma triangolare allunga-ta, erano prevalentemente di bronzo (...) menofrequentemente troviamo foderi di legno, condue assicelle unite da filo metallico e rivestitedi cuoio, col solo terminale in bronzo. Questotipo di fodero era invece più comune nellespade ad antenne99”.

La predilezione del legno nei foderidelle spade lunghe di più tipica con-cezione mitteleuropea -quali quellead antenne- ebbe una interessantecontinuità, giacché continuò a com-parire ancora, ad esempio, per la spa-tha longobarda del VI-VIII sec. d. C.Pur con le dovute cautele, è interes-sante confrontare con le conoscenzeattorno ai foderi villanoviani le noti-

zie tecniche sui foderi longobardi: iltipo più diffuso di questi

“era di cuoio e/o legno, con rinforzi ai lati e inpunta di metallo. L’interno era probabilmentefoderato con pelo animale o capelli, imbevutid’olio per evitare che la lama arrugginisse (...)Ad esempio (del) fodero della spada rinvenutanella t. 1 di Trezzo d’Adda (...) grazie alla for-tunata presenza di resti organici, è stato possi-bile ricostruire anche la struttura: esso eracostituito da un corpo in legno, formato daassicelle di ontano, e rivestito in cuoio100”.

Se il citato fodero vulcente dalla necro-poli dell’Osteria è ricoperto da sottilistriature longitudinali nel bronzo comeun esemplare da Narce, altri foderi pre-sentano interessanti e complesse deco-razioni geometriche, secondo il gustodecorativo dell’epoca diffuso non soloin Etruria; in alcune occasioni si hannoanche scene figurate, come sul foderoda uno dei circoli interrotti di Poggioalla Guardia di Vetulonia, dove si rico-nosce un quadrupede dal muso allun-gato e corna ramificate trattenuto conuna corda da un uomo con una lancia,seguito a sua volta da un piccolo qua-drupede101. A questa scena di caccia alcervo col cane, sullo stesso fodero, siaggiunge la rappresentazione di unaforma geometrica complessa, che nonavrebbe molto senso se una simile noncomparisse anche su un altro pregevo-lissimo fodero rinvenuto nella tomba495 di Pontecagnano. Come ho giàavuto modo di osservare102, questaimmagine sembra raffigurare la piantadi un edificio dall’uso incerto, giacché

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Le spade ed i pugnali

Fodero in bronzo di spada italica, dalla necropoli dell'Osteria di Vulci, e particolare delle due figu-re nude all'imboccatura di esso - Roma, Museo di Villa Giulia

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accoglie all’interno dei quadrupedi, mala cui conformazione tripartita, con piùaccessi sul davanti tra delle ante, ricordaquella che sarà la forma canonica deitempli etruschi, ancora ben di là davenire in età villanoviana, ma forse pre-corsa da quella di altre strutture d’uso.Se l’edificio sul fodero di Pontecagnanonon offre altro indizio di utilizzo che lapresenza di quadrupedi all’internodella struttura, quello vetuloniese, chesembra invece far riferimento ad unascena di cattura di un cervide, è pur-troppo privato della parte di figurazio-ne che collegava la scena con la pianta,dove forse potevano trovarsi figure attea completare e chiarire il rapporto tra lacaccia e l’edificio103.In migliore stato di conservazione èinvece un fodero bronzeo conservato alMuseo di Parma, la cui provenienza èsconosciuta ma che presenta strettesimilitudini col fodero da Pontecagna-no; entro tre pannelli dalla sagomamolto simile a quelli sul fodero campa-no, sono riprodotte nell’ordine unascena di caccia al cinghiale con la lanciae con l’aiuto di un cane, dei cervi e adun quadrupede, fino alla punta delfodero dove è incisa una breve spadaitalica104. E’ stato notato che scene figu-rative simili compaiono anche su alcunirasoi villanoviani coevi, e la finezzadegli interventi decorativi ha fatto pen-sare “al probabile arrivo in Etruria dimaestri qualificati da regioni in cui lametallotecnica era un’arte affermata dalungo tempo. Da uno sguardo anche

rapido ai corredi villanoviani si puòtrarre qualche orientamento (...) sia l’a-rea carpato-danubiana sia la Sardegnasono regioni minerarie, in cui era ancheaffermata l’industria metallotecnica105”.Anche altri studi hanno messo in risaltola qualità tecnica delle incisioni suifoderi di spada metallici e l’alto gradocompositivo delle scene narrative, attri-buendo questi prodotti a degli “specia-listi ambulanti che in occasione di mer-cati e fiere introducevano in aree nuovei tipi prodotti in ambienti assai lonta-ni106”.Oltre alle spade, gli armati della primaetà del ferro utilizzavano, talora, deipugnali; si tratta di armi la cui origine èpiù antica di quella delle stesse spade, eche descrive in area italica una lungaparabola sino dall’eneolitico. Come èstato rilevato per l’Italia settentrionale,gli esemplari di tipo remedelliano, del-l’eneolitico e della prima età del bron-zo, hanno una grossa lama triangolarecon spalla ad angoli acuti ed un pomolunato, che rivelerebbero un’originecaucasica o dal Caspio107. Altri esem-plari simili, a lama sub-triangolare,sono caratteristici della prima età delbronzo, sia nelle facies di Montemeranoe di Polada in Italia, che in quella diAunjetitz in Europa centrale. Attornoalla metà del II millennio a.C. risalgonoinvece dei pugnali dove la spalla dellalama presenta delle sporgenze, dette “acorna”, che trovano riscontri in brevispade del mondo tardo minoico ed intipi che continuano ad esistere fino al

tardo miceneo III A-B. Dopo la mediaetà del bronzo le lame divengono piùstrette, acquisendo una incurvaturaverso la punta ed abbandonando i filiconvergenti perfettamente dritti, conuna forma “a foglia” che persisterà sinoall’età del ferro108.I pugnali villanoviani erano talvoltaampi quanto una spada coeva, ed infat-ti sono stati classificati come pugnalidegli esemplari tra i 25 ed i 41 cm dilunghezza, con lama in bronzo o inferro. Come per le spade, i pugnali inbronzo erano ottenuti dalla fusione instampi e poi ritoccati, mentre quelli inferro erano ricavati dalla martellaturadi barre grezze, giacché la tecnologiavillanoviana non permetteva fusioni dimanufatti complessi in ferro109.Le tipologie dei pugnali villanoviani, asuo tempo indagate per Vetulonia ePopulonia, sembrano potersi ricondur-re essenzialmente a tre tipi, distinti performa di immanicatura: un primo tipoin bronzo, di chiara ascendenza preisto-rica, ha infatti una lama a base semplicee larga, dove alcuni ribattini consentiva-no il fissaggio ad un manico deperibile.Si tratta di armi piccole e triangolari,che potrebbero essere state usate comecoltelli, la cui tipologia ascende amodelli della civiltà appenninica. Il secondo tipo, anch’esso a lama trian-golare ma più allungata ed in ferro,aveva un’immanicatura a codolo più omeno robusto, inserita in una impugna-tura in bronzo cavo, in osso o in legno;alcune impugnature deperibili parzial-

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La lancia, la spada, il cavallo

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mente conservate attestano che al cen-tro esse formavano una sorta di ringros-so (come quello presente anche nellespade italiche) e che erano legate allabase con vari ribattini. I foderi deipugnali in ferro di questo tipo erano inlegno o in ferro come la lama, e proba-bilmente connessi con cinghie di cuoioo tessuto, di cui un esemplare di Poggioalla Guardia a Vetulonia reca le traccemineralizzate110.Un ulteriore tipo, tutto in bronzo, avevalama triangolare allungata, similmentealle spade, con una forte costola media-na ed una impugnatura piena, fusaassieme alla lama stessa. Un bell’esem-plare da Poggio Baroncio di Vetuloniaha manico a sezione romboidale condue anelli di ringrosso a metà, e termi-na con un pomo a mandorla. La deco-razione geometrica della lama ritornaanche sul fodero, pure in bronzo, dallasezione molto schiacciata.Può essere interessante segnalare che,ancora molti secoli più tardi, l’arma-mento più diffuso nell’Italia del Sette-cento prevedeva l’impiego di una spadae di un pugnale, destinato questo allamano sinistra come accadeva già nelMedioevo e nel Rinascimento. Questatradizione italiana (“l’exercise de l’épéeavec le poignard n’est d’usage qu’en Ita-lie111”) portava a parare più spesso icolpi dell’avversario con il pugnale checon la spada, in assenza di scudo; è pos-sibile che anche nell’antichità il pugna-le potesse assolvere allo stesso compito,e la diffusione dello scudo con l’età del

ferro procede di pari passo ad unregresso nella diffusione dei pugnali,armi invece molto più diffuse nell’etàdel bronzo. E’ comunque vero cheanche l’adozione della spada ha unaespansione nell’età del ferro, specie inversioni corte, che evidentementeavrebbero costituito un “doppione” delpugnale.Nell’Etruria villanoviana, specialmentein quella costiera, sono inoltre attestatianche alcuni esemplari di pugnali sardi,dalla caratteristica forma ad elsa gam-mata; si trattava nei fatti di un manufat-to in bronzo, ricavato da una unicafusione, dalla breve punta a quadrello,con una traversa a guardamano che suun lato si piegava verso il retro. L’impu-gnatura si concludeva in una barra tra-sversale al posto del pomo. Quest’armaera portata appesa al largo balteo chemolti guerrieri sardi appoggiavanosulla spalla destra e passante sul fiancosinistro; il pugnale era inserito al centrodel petto, con la punta verso il basso el’elsa gammata verso il fianco sinistro, inmodo da estrarlo con la destra perun’impugnatura “sopramano” e con ledita protette dalla gamma dell’elsa.Esso era probabilmente destinato allostesso uso dello “sfondagiaco” medieva-le, del quale ricorda la lama robusta ecorta, appuntita e poco espansa, in con-nessione al largo impiego sull’isola dicorsaletti protettivi di cuoio.A questa arma è stato attribuito ancheun significato sociale, e non solo milita-re; infatti negli studi statistici sui bron-

zetti nuragici a figura maschile è risulta-to che essa è assente nelle rappresenta-zioni di eroi, presente solo col 10% diarcieri ed arcieri oranti, e col 27% diguerrieri e guerrieri oranti. E’ presentecomunque sul 42% del totale dei bron-zetti a figura umana, giacché il pugnaleè costantemente raffigurato con glioranti e coi capitribù, privi di qualsiasialtra arma e contraddistinti dal vestireuna stola o un manto, e dal bastone. Sultotale delle raffigurazioni di personaggicol pugnaletto, il 63% sono appuntooranti e capitribù -categorie di raffigu-razioni cronologicamente più tardedelle altre-, mentre il 37% sono guerrie-ri di vario tipo. Per questo

“risulta evidente che la sua funzione (o almenoil suo valore significante nella raffigurazione)non è quella di un’arma. La sua massiccia e pre-dominante presenza su figure che non si con-traddistinguono come «armati» ed inversamen-te la sua poca rilevanza sugli «armati», nonchéla totale assenza negli «Eroi», ce ne rendonosicuri. Notiamo anche che il pugnaletto è mag-giormente (93%) caratterizzante le figure congestualità di orante, e che si ritrova pure sull’in-dividuo defunto tenuto in grembo da una divi-nità femminile. Esso, in conclusione, indicaqualche cosa che è comune sia agli oranti che aicapitribù che, più parzialmente, ai guerrieri edagli arcieri. L’esclusività del pugnaletto comeelemento significante degli oranti e la sua fortepregnanza sui capitribù vuole, con ogni verosi-miglianza, asserire una loro condizione comu-ne, al di là delle evidenti differenziazioni datedagli altri attributi di questi ultimi: l’ampiomanto che avvolge il corpo ed il lungo bastone.Già altrove ho proposto che il pugnaletto sia unindice di appartenenza al corpo sociale della

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Le spade ed i pugnali

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«tribù»; tale ipotesi ha avuto una sostanzialeaccettazione e mi sento di poterla confermarerafforzata, sulla base dell’analisi condotta sopra.I gruppi di oranti e capitribù ci segnalano ades-so una società che non si qualifica più come ari-stocratica (...) e potremmo definirla, invece,timocratica. I dedicanti-offerenti si qualificanonon più (o almeno non soltanto) attraverso l’o-stentazione delle armi, bensì come appartenen-ti al corpo sociale (pugnaletto)112”.

Il pugnale, dunque, sarebbe divenuto inSardegna, da semplice arma secondariaper il corpo a corpo contro altri guer-rieri protetti da corsaletti di cuoio, unsimbolo di appartenenza al corpo socia-le ripartito per tribù, con un interessan-te parallelismo con l’impiego della lan-cia e della spada in ambiente etrusco-villanoviano ed italico che, già accenna-to, vedremo meglio più oltre, e con affi-nità simbologiche con quanto si riscon-tra in Etruria attorno alla scure proprionello stesso volgere cronologico, chevede compiersi la conversione dellearmi funzionali dell’VIII secolo in sim-boli già nel VII sec. a.C.I guerrieri dell’Italia centrale, comearma d’appoggio, non portavano soloveri e propri pugnali; a Verucchio, adesempio, nella tomba 85 è attestato nelcorredo, con morsi di cavallo ed il cita-to elmo di vimini a falere, anche un col-tello in ferro con fodero di legno; anchenell’Iliade fanno sporadicamente la lorocomparsa dei coltelli, come quello(màchaira) che Agamennone usa per fininon militari, ma che “portava sempresospeso presso la grande guaina dellaspada” (Iliade III, 271; XIX, 252).

Spade e pugnali, coi loro foderi, veniva-no portati impiegando vari sistemi;secondo alcuni i grossi affibbiagli inbronzo di facies villanoviana facevanoparte di

“cinturoni da vita atti a reggere le armi dafianco di cui stiamo parlando. Asce, pugnali espade potevano essere infatti direttamenteinfilate nel cinturone, o agganciate ad esso.Le spade tuttavia erano spesso portate appe-se a cinghie in cuoio poste a tracolla. Gli stes-si cinturoni potevano essere di cuoio sempli-ce, oppure di cuoio ricoperto in bronzo a sca-glie lavorate. Nei casi più vistosi al cinturonevenivano aggiunti vari pendagli metallici fusi,come quelli ritrovati nella necropoli delleGranate a Populonia o quelli visibili al MuseoGuarnacci di Volterra, ma di cui abbiamonumerosi altri esempi. Va inoltre ricordatoancora una volta che questi cinturoni sonoriconducibili sempre a guerrieri facoltosi,mentre la massa portava probabilmente cin-ture in cuoio semplice o di stoffa annodata(...) Vale infine la pena di annotare che ilguerriero infilava o agganciava il propriopugnale alla sinistra del cinturone, cioè nellato protetto dallo scudo. La spada venivainvece portata alla destra, forse più scomodada estrarre in caso di bisogno, ma ben visibileall’avversario, quasi a volergli dimostrare ilproprio rango ed addestramento militari equindi ad intimorirlo. Una ragione più prati-ca la possiamo però ipotizzare pensando aquanto fastidio avrebbe dato la spada appesasul fianco sinistro, allorché ogni movimentoin marcia o battaglia del pesante scudo avesseprovocato un urto contro il fodero dell’arma,a sua volta battente sulla gamba del guerrie-ro. Inoltre lo stesso braccio reggente lo scudoe le relative impugnature interne avrebberofacilmente incontrato l’elsa della spada, conulteriori incomodi113”.

In effetti vari storici hanno notato ilvalore di dissuasione delle spade indos-sate in punti vistosi a fini intimidatori, ecome diversi popoli primitivi ricorresse-ro all’esibizione delle armi; in particola-re “le armi che sono letali solo a brevedistanza non impongono per questo acoloro che le brandiscono la necessitàdello scontro ravvicinato114”.A favore della possibilità che le spadevenissero portate appese ad un cinturo-ne in vita, e che la loro collocazionefosse preferibilmente il fianco destro c’èla spada già ricordata da Prato Rosello;essa aveva infatti sul retro del fodero“due spesse lamine quadrangolari par-zialmente conservate, identificabilicome le estremità del gancio entro ilquale doveva scorrere la cinghia, asostegno dell’arma115”. La lamina supe-riore, se la sua collocazione e forma nonè stata fortemente modificata dall’ossi-dazione e dal tempo, non appare per-fettamente ortogonale al fodero ed allaspada, ma un po’ obliqua; se su di essadoveva poggiare il margine superioredel cinturone -alto circa 4 cm-, ne con-segue che tutto il fodero e l’arma al suointerno avrebbero avuto una lieve incli-nazione laterale. Constatato che taleinclinazione non avrebbe avuto alcunsenso una volta che l’arma fosse stataportata al fianco sinistro, giacché l’im-pugnatura si sarebbe presentata orien-tata verso sinistra e non verso la manodestra, non resta che pensare che laspada venisse portata sul fianco destro,e piuttosto arretrata, all’incirca come i

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La lancia, la spada, il cavallo

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moderni foderi di pistola inclinati perfavorire l’estrazione rapida. L’impugna-tura doveva comunque sporgere peruna dozzina di centimetri sopra la cin-ghia, ovvero sopra la vita del guerriero,in una collocazione piuttosto alta.Una simile inclinazione dell’arma sinota in un’altra corta spada in bronzodella metà dell’VIII sec.a.C. provenientedalla tomba IX a incinerazione dellanecropoli della Fornace a Verucchio,oggi al Museo Archeologico di Arezzo; sitratta di una spada a manico pieno dettaappunto “tipo Verucchio”, il cui foderodecorato a fasce di puntini e borchiettesbalzate –secondo un ornato tipico del-l’Italia centrale- presenta ai lati duerobusti ganci di fermo, aperti verso l’al-to, ed ha una imboccatura chiaramenteasimmetrica proprio per assicurare l’in-clinazione dell’arma verso il davanti, secollocata –come appare l’unica possibileopzione- sul fianco destro116.A questa documentazione sulla predile-zione per il porto della spada sul fiancodestro, ed in posizione arretrata, si con-trappongono alcune osservazioni giàrilevate parlando dei kardiophylakes e deidischi-corazza, secondo le quali il balteocollegato a questi reperti poggiava sem-pre sulla spalla destra, per finire sul fian-co sinistro, come accadeva anche aiguerrieri sardi che, al balteo, appende-vano il loro pugnale. La presenza di unbalteo di grosse proporzioni su tale fian-co rende difficile immaginare che,dovendo cingere una spada, la siappendesse al fianco destro.

In effetti anche nell’Iliade la spada vieneportata principalmente infilata col suofodero ad una sorta di taschino sfonda-to (aortèr) collocato sul fianco sinistro,all’altezza dell’anca, con l’aiuto di unbalteo di sospensione (telamòn) chepassa sulla spalla destra (Iliade VII,304)117.Similmente il Guerriero di Capestranoportava sulla spalla destra un balteodove stava sospesa la breve spada, cheperò non era posta lungo il fianco, masul petto, con l’impugnatura all’altezzadell’ascella destra e con la punta delfodero sopra l’attacco della coscia sini-stra. D’altronde, nello stesso Abruzzocoevo, sono comunque note moltespade da Alfedena con fodero in ferropresso la cui imboccatura c’era unafascetta di ferro per appendere l’armaalla cintura posta invece in vita, anchecon l’aiuto di una catenella di ferro;anche a Campovalano la guaina dellespade “è essenzialmente composta dadue lamine sovrapposte a forma ditriangolo isoscele, della stessa altezzama di base diversa. La lamina maggioreche presso la base si chiude lateralmen-te in una fascetta ripiega i suoi lati nellaminore, formando in tal guisa la guai-na. Nella fascetta che sembra giungeresolamente a metà guaina, è assicuratamediante uno o due anelli la catena perfermare l’arma alla cintura118”. E’ probabile dunque che esistesseromodi diversi di portare la spada, sia pertradizione locale che per scelta perso-nale connessa con il tipo e la lunghezza

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Le spade ed i pugnali

Spada dalla tomba IX della necropoli dellaFornace a Verucchio, con fodero asimmetricodotato di ganci

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La lancia, la spada, il cavallo

della spada, o con accorgimenti di pre-ferenza e praticità; anche nel corsodegli esperimenti realizzati da chi scri-ve, ad esempio, riguardo lo scontro conlancia e scudo-rotella a mano, si è avutomodo di constatare che, ove atterratoda una ferita alle gambe o da un forteurto, un armato tende a portare il fian-co destro al suolo, difendendosi con lasinistra che brandisce lo scudo. Daterra, infatti, la lancia non può esseremanovrata, e di fatto un guerrierocostretto a terra e che tenti di difender-si con lo scudo nella mano sinistra hatutto il fianco destro immobilizzato alsuolo. Da questa posizione una spadaappesa su tale fianco sarebbe statamolto difficile da estrarre, anche daseduti a terra, in quanto costretta tra ilcorpo ed il suolo. Diversa è l’estraibilitàda sinistra, lato dal quale, specie a scudoalzato, il corpo è meno impedito, macome si è visto la spada a sinistra pote-va ingombrare in combattimento loscudo e la gamba sinistra.In conclusione di questo capitolo sullaspade, è necessario ricordare come taliarmi avessero anche un forte valoresimbolico, diverso da quello di altrearmi, testimoniato nell’Italia settentrio-nale ed in altre zone europee dalla sot-trazione di esse all’uso per venire depo-ste in fiumi ed in laghi a scopi religiosi(a vantaggio di divinità o di defunti)119.

Tale uso è ritenuto originario dell’Euro-pa centrale, giacché molti ritrovamentisono riferibili alla Cultura dei Campid’Urne, ed “it may be reasonably presu-med that they spread from there intonorth-western Italy, perhaps with theCanegrate group120”.In effetti la deposizione di armi inacque interne sembra iniziare nell’Italianord-orientale nell’età del bronzo anti-co; è col bronzo medio che compaiononelle deposizioni le prime spade “typo-logically early, and probably the oldestswords from rivers come from the samearea as the Early Bronze Age finds, i. e.from the Sile and the nearby Piave.They are swords of the Sauerbrunntype, originating in the eastern regionof Central Europe and north-easternItaly. They date from the 16th-15th cen-tury B.C.121”L’Italia centrale viene interessata da que-sto rituale solo piuttosto tardi, in quantole prime attestazioni sono della fine delbronzo medio, o del primo bronzorecente, e sono tutte dall’area del LagoTrasimeno; ad esse poi si assommanoalcuni esempi dal letto del Fucino, pres-so L’Aquila, ed infine si hanno ancheritrovamenti, in queste stesse località, dispade del bronzo finale. Al bronzo fina-le data anche una spada dal letto dellaChiana rinvenuta al Ponte di Frassineto,presso Arezzo. Nella prima età del ferro

si hanno le ultime attestazioni che, seinteressano l’Italia settentrionale (Casal-grasso di Cuneo, Sirio di Treviso, Prearadi Vicenza, Casier, Sernio di Sondrio),hanno restituito per lo più spade adantenne del tipo “Tarquinia”. E’ statonotato come ci sia una connessione cro-nologica di tale usanza con il diffonder-si delle sepolture a cremazione, ma “isworth noting that the river finds neverattain the general distribution in Italywhich the cremation rite reaches in theFinal Bronze Age. The sword from theChiana may indicate an incipient spreadof the river deposits southwards, but thepractice is not apparently accepted inCentral Italy122”.Sul significato di tale rituale sono statefatte molte congetture, tutte ovviamen-te basate sul significato di rinunciaintrinseco al gettare in un fiume -ovve-ro dove nessuno avrebbe mai potutorecuperarlo- un oggetto prezioso comeuna spada metallica; una tra le più pro-babili ipotesi -senza escludere che neisecoli il significato possa essere variato-è che si trattasse di sacrifici di rinuncia:“particularly in the case of personalsacrifice, but even in the votive offeringof a weapon belonging to a fallen adver-sary, there is an element of renuncia-tion: the victor renounces the right totake possession of what he might havekept for himself123”.

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Le spade ed i pugnali

Note

1 Si veda V. Bianco Peroni, Le spade nell’I-talia continentale, in “PrahistorischeBronzefunde” IV, Munchen, 1970. 2 Sulla quale si veda anche Snodgrass,Armi e armature dei Greci, cit.3 Si veda Gian Luigi Carancini, La metal-lurgia e gli altri rami dell’artigianato - L’Ita-lia centro-meridionale, in “Atti del congres-so L’Età del bronzo in Italia nei secoli dalXVI al XIV a. C. Rassegna di Archeolo-gia” n. 10, 1991-1992, pag. 235 e segg.4 Vedi De Florentiis, cit., pag. 84. “Thefunction of the cannelure is to obviateover flexibility; it also takes from theweight and adds to the strenght. By chan-nelling either side of a thin or «whippy»blade it becomes stiffer, because any forceapplied to bend such a blade sidewaysmeets with the greatest amount of resi-stance that form can supply. Mechanicallyspeaking, it is to crush an arch inwardsupon its crown, and the deeper the archthe greater the resistance. Hence the nar-row groove is preferable to a broaderchannel of the same depth”. Da RichardF. Burton, The Book of the sword, pubblica-to originariamente a Londra nel 1884, eriedito a Toronto, 1987, pag. 132.5 Timothy W. Potter, Storia del paesaggio nel-l’Etruria meridionale, Roma, 1985, pag. 60.6 Renato Peroni, Bilancio conclusivo, in“Atti del congresso L’Età del bronzo inItalia nei secoli dal XVI al XIV a.C., Ras-segna di Archeologia” n. 10, 1991-1992,pag. 621.7 Vedi Vincenzo D’Ercole, La guerra nellaprotostoria dell’Italia centrale, in “Papersfrom the Third EAA meeting in Raven-na”, Oxford, 1997.

8 Vedi Peroni, Bilancio conclusivo, cit., pag.621-622, e A. De Santis, R. Merlo, J. DeGrossi Mazzorin, Fidene. Una casa dell’eàdel ferro, Milano, 1998, pag. 44.9 Drews, cit., pagg 194-195.10 Drews, cit. pagg. 203-205.11 Bruno D’Agostino, Dal Submiceneo allacultura geometrica: problemi e centri di svi-luppo, in “Storia e civiltà dei Greci - Ori-gini e sviluppo della città. Il medioevogreco”, cit., pag. 151.12 Drews, cit., pag. 195. Tali spade, secon-do alcuni studi, dovettero la loro fortunanel Mediterraneo orientale, forse, alla dif-fusione che ne fecero i mercenari Shardananei reparti di appoggio ai carri dell’eserci-to egiziano, impiegandone varianti piùcorte o più lunghe. Per le armi degli Shar-dana si veda Drews, cit., pagg. 198-199.13 Si veda Drews, cit., pag. 193.14 Snodgrass, Armi e armature dei Greci, cit.,pag. 34.15 Hencken, Archaeological evidence for theorigin..., cit., pag. 37. 16 Fossati, cit., pag. 12.17 I lunghi rapier minoici e protomiceneiavevano infatti nel codolo il loro puntodebole: “un forte colpo inferto sul tagliodella spada poteva, se non fratturare lalama, spezzare l’esile codolo e staccare cosìla lama dall’impugnatura. Spesso si sonorinvenute spade che avevano perso ilcodolo durante l’uso (...) A fianco di questirapier giganti (...) si rinvennero (...) esem-plari di un nuovo tipo di spada (...) tra inumerosi vantaggi che essa presentavarispetto al primo tipo, determinante saràl’ingrossamento del codolo a formare unavera e propria impugnatura, con unacostolatura lungo ciascun lato”. Da Snod-grass, Armi e armature dei Greci, cit., pag. 18.18 Vedi Enrico Pellegrini, Alcune considera-

zioni sulla produzione metallurgica nella Valledel Fiora dall’Eneolitico alla prima Età delFerro, in “Preistoria e Protostoria in Etru-ria. Atti del Secondo incontro di studi”,vol. 2, Milano, 1995, pagg. 8-9.19 Talocchini, cit., pag. 17, tipo A 1.20 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit.,pag. 135.21 Carancini, La metallurgia e gli altri ramidell’artigianato, cit., pag. 244.22 Drews, cit., pag. 193.23 Drews, cit., pag. 194.24 Vedi meglio in Botto Micca, Omeromedico, cit., pagg. 49 e 62.25 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia,cit., pag. 92.26 Richard F. Burton, The Book of the sword,cit., pagg. 127-128.27 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit.,pagg. 19-20.28 Giuliano De Marinis, in Prima Italia,Roma, 1981, pag. 55.29 Vedi Lavrsen, Weapons in water, cit.,pag. 14.30 Si ricorda che ad esempio la spada ita-lica dalla tomba 78 di Poggio dell’Impic-cato a Tarquinia reca ancora il perno chesosteneva il pomo, la cui lunghezza sug-gerisce un elemento deperibile similenella forte volumetria a quello dellaspada nella tomba Bernardini di Praene-ste.31 Si veda Drews, cit., pag. 194.32 Quattrocchi, The Sicilian Blade, cit.,pag. 21.33 D’altronde tale tipologia di immanica-tura “a lingua da presa” era enormemen-te più stabile di quella dei rapiers dell’etàdel bronzo del Mediterraneo orientale,con base semplice o codolo. Già la linguada presa a molti fori e con guancette diavorio, d’osso o di legno fermate con

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rivetti assicurava dunque nel tardo bron-zo una salda immanicatura: “with such ahilt the warrior could be confident thathis blade would not bend from the tang,nor his hilt-pieces loosen, no matter howjarring a slash he struck”. Da Drews, cit.pag. 194.34 Da Peter Bleed, Token Kenkyu Kai, 1979,riportato in AA. VV., Token - Arte dellaSpada e Spada d’Arte, Firenze, 1997, pagg.14-15.35 Vedi John Keegan, La grande storia dellaguerra, Milano, 1994, pag. 241.36 Si veda Capretti, Il mondo tecnologico emilitare, cit., pag. 23.37 Saulnier, cit., pag. 33.

39 Vittoria Buffa, Il “Gruppo della Sibariti-de” nella prima età del ferro: nuovi dati daTorre Mordillo, in “Preistoria e protostoriain Etruria, vol. 1”, cit., pag. 339.40 Senza alcuna pretesa di completezza,ovviamente, si ricordano alcune riedizio-ni interessanti di opere del passato, edalcune nuove opere di interesse: HansTalhofer, Medieval combat - A Fitteenth-Cen-tury Illustrated Manual of Swordfighting andClose-Quarter Combat, translated and edi-ted by Mark Rector, London, 2000; Fiorede’Liberi, Flos Duellatorum - in armis, sinearmis, equester et pedester, a cura di Giovan-ni Rapisardi, Padova, 1998; Filippo Vadi,L’Arte cavalleresca del combattimento, a curadi Marco Rubboli e Luca Cesari, Rimini2001; Alfred Hutton, Old Sword Play - Tec-niques of the great masters, Mineola, 2001;John Clements, Medieval Swordmanship -Illustrated Methods and Tecniques, Boulder,1998; John Clements, Renaissance Sword-manship - The Illustreted Use of Rapiers andCut-and-Thrust Swords, Boulder, 1997.41 Musashi, Il Libro dei Cinque anelli, cit.,

pag. 74.42 Quaderni di Grafica ed Anastatica del 700,Firenze, 1989, pag. 1.43 Ciò perché tale tecnica sembra andarecontro una sorta di inibizione istintiva atale forme di attacco: studi sul comporta-mento di minaccia con oggetti, da partedei primati -e dell’uomo- hanno messo inluce che, nel “dar di punta con un movi-mento portato dal basso verso l’alto”, “ilpollice punta in avanti. Osservato finorasolo come comportamento esplorativo,ma non in un contesto agonistico. Kort-landt osserva che nell’uomo vi sono fortiinibizioni a eseguire questo movimentonel combattimento contro i propri simili;tali inibizioni debbono essere superatenell’addestramento militare e nel ju-jitsutramite esercitazioni con pugnali digomma e manichini impagliati”. Da Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., pag.83. Diversamente risulta molto più istinti-vo il colpo di spada “di filo”, affine al“colpire con un randello”: “Il randello siabbatte sul nemico con un movimentodall’alto verso il basso (...). La potenza delcolpo (la velocità è di 80 o 90 chilometriall’ora con bastone di circa due metri dilunghezza) è cospicua. Bene sviluppatotra gli scimpanzé della savana; rudimen-tale tra quelli del bosco. I bambini di unanno colpiscono in questo modo, pergioco, altri esseri umani, esibendo la «fac-cia giocosa»”. Da Eibl-Eibesfeldt, Etologiadella guerra, cit., pag. 83.44 Talo pag. 19.45 Dizionari terminologici, cit., pag. 22.46 Si veda in Gli Etruschi e l’Europa, Mila-no, 1992, pag. 114 scheda 25.47 Tronchetti, L’iconografia del potere, cit.,pag. 208.48 Vittoria Buffa, Il “Gruppo della Sibariti-

de, cit., pagg. 339-341.49 Dizionari terminologici, cit., pag. 22.50 Saulnier, cit., pag. 33.51 Friedrich-Wilhelm von Hase, I rapportitransalpini, in “Gli Etruschi e l’Europa”,cit., pag. 193.52 Vedi Capretti, Il mondo tecnologico e mili-tare, cit., pag. 22.53 Vedi Camporeale, Miniere e metalli alleorigini dell’Etruria storica, cit., pag. 38.54 Vedi in “Gli Etruschi e l’Europa”, cit.,pag. 117, scheda 39.55 Si veda in P. Croce Da Villa, M. Tombo-lani, Antichi bronzi di Concordia, Portogrua-ro, 1994, pag. 22-23; ringrazio la dott.ssaDa Villa del Museo Archeologico Nazio-nale di Portogruaro per avermi fornitotale bibliografia.56 Si veda Malnati, Manfredi, Gli Etruschiin Val Padana, cit., pag. 37.57 Si veda Keegan, La grande storia dellaguerra, cit., pag. 241.58 Aigner Foresti, Relazioni protostoriche traItalia ed Europa centrale, in “Gli Etruschi el’Europa”, pag. 158 e segg.59 Von Hase, I rapporti transalpini, cit.,pag. 191.60 Si veda Luciana Aigner Foresti, Relazio-ni protostoriche tra Italia ed Europa centrale,in “Gli Etruschi e l’Europa”, cit., pag.158.61 Aigner Foresti, Relazioni protostoriche traItalia ed Europa centrale, cit., pag. 158.62 Si veda Raffaele De Marinis, GliEtruschi a nord del Po, in “ArcheologiaViva” anno V, n. 12, dicembre 1986,pag. 27. 63 Sarà il caso di ricordare che la lunga esottile spada delle più antiche fasi mice-nee e ancora minoiche misurava attornoai 95 cm di lunghezza esclusa l’impugna-tura: questo rapier comunque fu ben pre-

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La lancia, la spada, il cavallo

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sto affiancato e poi sostituito da modellipiù corti e con più salda immanicatura,finché nel XIII-XII sec. a. C. le spademicenee sono “più corte, robuste, benfatte, dotate di sistemi di impugnaturaresistenti e di lame appiattite con margi-ni rettilinei (...) nessuna di esse supera isessanta centimetri di lunghezza”. DaSnodgrass, Armi e armature dei Greci. cit.,pag. 34.64 Va ricordato che, a parità di dimensio-ni, spade analoghe in acciaio presentanoun peso inferiore. I dati sul peso dellerepliche attuali sono tratti dal catalogodell’armeria Del Tin Armi antiche, di Ful-vio Del Tin a Maniago, che qui ringrazioper la sua cortesia, alla quale peraltro sidevono anche altre informazioni impie-gate nel presente lavoro; i pesi si basanosu due tipi di spada dell’età del bronzonon esattamente del tipo ad antenne -len. 210A e 215° del catalogo Del Tin- masimilari per foggia e misure. 65 “Ils s’en servert souvent pour faire sor-tir l’épée de la main de leur adversaire,en la liant fourtement, sur-tout lors-qu’olsont à combattre une longue épée; ce quileur seroit très-difficile vis-à-vis d’uneépée courte”. Da Quaderni di Grafica edAnastatica del 700, cit., pag. 14.66 Vedi Quaderni di Grafica ed Anastatica del700, cit., pagg. 4 e 15.67 Tacito, Agricola, XXXVI.68 Cernenko, The Scithians, cit., pag. 17.69 AA.VV. Fidene, cit., pag. 44. E’ smentitodunque quanto riferito in passato da R.De Marinis, Gli Etruschi a nord del Po, cit.,pag. 30, secondo il quale riguardo l’uso dicavalcatura da guerra “in Italia le testi-monianza più antiche risalgono al IXsec.a.C. e si intensificano nella primametà dell’VIII, mentre nel resto d’Europa

i primi indizi dell’uso della cavalcaturaappaiono nel corso dell’VIII sec.a.C. E’tuttavia importante sottolineare che ladiffusione dell’equitazione in Italia e anord delle Alpi è avvenuta secondo vie emodalità differenti, come è testimoniatodai diversi tipi di morso che ci sono per-venuti”.70 Si veda Hyland, Training the RomanCavalry, cit., pag. 80.71 Si veda Hyland, Training the RomanCavalry, cit., pagg. 46 e 157.72 Si veda Quaderni di Grafica ed Anastaticadel 700, cit., pag. 15.73 Fossati, cit., pag. 15.74 Il corredo della tomba è presente in, acura di Cristiano Morigi Govi e DanieleVitali, Il Museo Archeologico di Bologna,Bologna, 1982, pag. 234; su questa spadasi veda anche Cipriani, Il mondo tecnologi-co e militare, cit., pag. 23.75 Vedi Malnati, Manfredi, Gli Etruschi inVal Padana, cit., pag. 104.76 Su tali aspetti tecnici si veda in Burton,The Book of the Sword, cit., pagg. 129-130e figg. 114-117.77 Anche per questi aspetti tecnici si vedain Burton, The Book of the Sword, cit., pag.133 e figg. 119-121.78 Fossati, cit., pag. 12.79 Fossati, cit., pag. 15.80 Augusto Doro, Una forma da fusione ditre spade in bronzo nel Museo del Canavese inIvrea, in “Cultura Subalpina”, 1980.81 Vedi Graeme Barker, Ambiente e societànella Preistoria dell’Italia centrale, Roma,1984, pag. 105.82 Barker, Ambiente e società nella Preistoriadell’Italia centrale, cit., pag. 106.83 Si veda Massimo Leoni, Elementi dimetallurgia applicata al restauro delle opered’arte - Corrosione e conservazione dei manu-

fatti metallici, Firenze, 1984, pag. 91 esegg.84 Pellegrini, Alcune considerazioni sulla pro-duzione metallurgica, cit., pagg. 8-9.85 Sull’incrudimento e la ricottura si vedaLeoni, Elementi di metallurgia applicata alrestauro delle opere d’arte, cit., pagg. 37-39.86 Sulla recovery si veda Leoni, Elementi dimetallurgia applicata al restauro delle opered’arte, cit., pagg. 38-39.87 Si veda Ridgway, L’alba della Magna Gre-cia, cit., pagg. 154-159, 105-106, 116.55 De Florentiis, Storia delle armi bianche,cit., pagg. 42-43.56 Vasco La Salvia, Archaeometallurgy ofLombard swords - From artifacts to a history ofcraftsmanship, Firenze, 1998, pag. 34.90 Si veda De Florentiis, Storia delle armibianche, cit., pagg. 191-197.91 Quaderni di Grafica ed Anastatica del 700,cit., pag. 1. 92 Giuseppina Carla Romby, in Per fare uncoltello - Gli strumenti per la fabbricazione delcoltello artigianale a Scarperia, Firenze,1996, pag. 693 La Salvia, Archaeometallurgy of Lombardswords, cit., pagg. 37, 38, 39, 40.94 La Salvia, Archaeometallurgy of Lombardswords, cit., pagg. 63-65.95 Si veda Token - Arte della spada, cit.,pagg. 21-22.96 De Florentiis, Storia delle armi bianche,cit., pag. 203.97 Dizionari terminologici, cit., pag. 22;Talocchini, cit., pag. 19.98 Si veda Poggesi, Artimino: il Guerriero diPrato Rosello, cit., pagg. 74-76.99 Fossati, cit., pag. 12; simili dati sonoanche in Capretti, Il mondo tecnologico emilitare, cit., pag. 23.100 Balbi, L’esercito longobardo, cit., pag. 32.101 Talocchini, cit., pag. 20, fig. 1 n.2.

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Le spade ed i pugnali

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102 Maurizio Martinelli, Gli Etruschi -Magia e religione, Firenze, 1992, pagg.143-145.Ho già avuto modo di rilevare in quellasede come il fodero della tomba 495 diSant’Antonio di Pontecagnano, dellaprima età del ferro, presenti una partico-lare decorazione ripetuta in quattroesempi con varianti. Si tratterebbe diquattro piante di edifici, di cui il primo haaccesso tripartito sulla fronte, il secondo

bipartito ed il terzo ed il quarto ad unicofornice; in ogni caso all’apertura frontalesembrano sommarsene due laterali, a faredell’area anteriore della struttura unasorta di “veranda”, “colonnato” o comun-que un’area aperta sia davanti che sui lati.Nello studio del 1992, essenzialmentevolto alla ricerca dei prodromi dell’archi-tettura templare, avevo così descritto laraffigurazione ad accesso tripartito:“sono raffigurati, stilizzati nel canonicogeometrismo del tempo, quattro singola-ri recinti allineati, all’interno di tre deiquali si trovano dei quadrupedi. Ognirecinto, considerando il disegno un mistodi vedute in pianta (della struttura) e difianco (degli animali), doveva essere tri-partito, con un vano centrale più vasto edue più stretti ai lati, addossati alla pare-te di fondo, mentre sul davanti dellastruttura si avevano più aperture tra pare-ti, pilastri o colonne. Si tratta senza dub-bio della più antica raffigurazione etruscadi una struttura architettonica pianta tri-partita, caratterizzata tra l’altro da unasingolare divisione degli spazi che benricorda delle molto più tarda tra cella edalae templari” (pagg. 143-145).Questo tipo di ornato non è un unicum,ma torna in altri esempi, come sul citatofodero proveniente da uno dei circoliinterrotti di Poggio alla Guardia di Vetu-

lonia: anche qui si riconosce un quadru-pede dal muso allungato e corna ramifi-cate; esso è trattenuto grazie ad unacorda da un uomo armato di lancia, pres-so il quale si trova un piccolo quadrupede(un cane da caccia?). Si veda Talocchini,cit., pag. 20, fig. 1 n.2. Lo stesso foderopresenta inoltre anche una sommariapianta di edificio che, purtroppo, è oggiscollegata alla scena precedente a causadi una frattura nel reperto; la pianta chesi ricava è, schematizzando, quella di unedificio con portale centrale aperto su uncorridoio ai cui lati si trovano due vani; infondo al corridoio una ulteriore stanzatrasversale completa l’edificio (vedi sche-ma B).La stessa Talocchini, alla tavola III, illu-strava col n.14 un ulteriore fodero fram-mentario ancora da un circolo interrottodi Poggio alla Guardia; su di esso si rico-nosce una complessa immagine che, nonvolendola ritenere una grottesca quantoimprobabile sagoma antropomorfa,potrebbe essere una ulteriore pianta. Inquesto caso l’edificio sarebbe stato ancorapiù complesso, ovvero sarebbe constato diuna struttura uguale a quella appenadescritta, preceduta da un prolungamen-to nel corridoio con altri due vani latera-li allungati (vedi schema C).Va ricordato che almeno la raffigurazione

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La lancia, la spada, il cavallo

L

Tomba del IIMelone del Sodo

A

B

CD

Sorgenti della Nova

E

Tarquinia

F

Tarquinia

G

San Giovenale

I

Tomba dellaCapanna

H

Tomba dellaMontagnola

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sul fodero della tomba 495 da Ponteca-gnano non è un mero motivo geometricoastratto, in quanto cinge al suo internodegli animali e reca, in due dei quattrodisegni, una sorta di “zig-zag” sul fondodel vano centrale, ad indicare un detta-glio strutturale che, per l’incisore, era tec-nicamente importante, e forse connessocon la presenza di animali.Queste possibili piante di strutture -nonfosse altro perché di nessuna altra strut-tura abbiamo piante- non possiamo checonfrontarle con quelle delle più antichecapanne di abitazione; gli esempi a pian-ta articolata illustrati dalla Catacchio -Nuccia Negroni Catacchio, L’abitato delBronzo Finale di Sorgenti della Nova (VT):possibilità di confronti con i modelli abitatividei centri villanoviani, in “Atti Secondocongresso internazionale etrusco” Roma,1989, pagg. 279-280 figg. 3, 4, 5- indica-no come le palificazioni interne dellecapanne ellittiche suggeriscano divisoriinterni a creare più vani.A Sorgenti della Nova -settori II/IV,capanna nord-ovest- si distingue un murodi fondo con ingresso a sinistra e unadoppia fila di pali nel vano principale; aSan Giovenale le capanne del bronzofinale avevano una sorta di “vestibolo”presso l’ingresso, seguito da due fileparallele di tre pali, alle quali potevanotrovarsi fissati dei divisori in materialeleggero, provvisorio o comunque deperi-bile. Anche alcune capanne del Calvariodi Monterozzi a Tarquinia presentano fileparallele di pali interni, un divisorio sulfondo e, in alcuni casi, accessi non solofrontali ma anche laterali.Geometrizzando su schemi angolari lepiante ipotizzabili dai resti di capannescavati si ottengono moduli abbastanza

vicini a quelli presenti sui foderi esamina-ti (vedi schemi D, E, F, G).Ulteriori stimolanti confronti si possonoindividuare nelle piante di alcune tombea tholos, ormai del VII sec. a. C., e anchenelle piante di strutture di Acquarossa -Carl Eric Ostemberg, Case etrusche diAcquarossa, Roma, 1975, pag. 243-, purben più recenti.Schematizzando ed adattando ad unageometrizzazione angolare la tomba dellaMontagnola di Quinto Fiorentino otte-niamo infatti uno schema (schema H) acorridoio assiale, due vani laterali e vanopiù ampio di fondo, simile allo schemadel fodero vetuloniese con scena di cac-cia, peraltro non molto dissimile dalloschema ricavabile dalla tomba ceretanadella Capanna (schema I). Alla struttura sul secondo fodero vetulo-niese si avvicina invece lo schema (sche-ma L) della tomba nel II Melone del Sododi Cortona, con un vestibolo, due ridottecamere ad ogni lato del corridoio assialee vano di fondo, mentre lo stato origina-rio della tomba A di Camucia, pur suschema bipartito e non tripartito, ricordail fodero di Pontecagnano a vani paralle-li, al quale peraltro somigliano, in modoancor più stringente, le ben più recentipiante delle tombe della Cornice e deiCapitelli di Caere, e quella della casa Anella zona B di Acquarossa, oltre -come èstato notato sin da principio- ai templitripartiti dell’arcaismo.Tali osservazioni non intendono asserire edimostrare che sui vari foderi citati -e suvari altri reperti italici della prima età delferro- si debbano riconoscere sistematica-mente delle piante di edifici abitativi. Tut-tavia, là dove degli schemi geometriciangolari si vincolano organicamente a raf-

figurazioni di scene di vita, con uomini edanimali, gli schemi geometrici presentipossono ipoteticamente ben costituire unaprecoce rappresentazione di strutturearchitettoniche. L’uso di tali strutture nonè definibile alla luce di poche e troppovaghe immagini, ma senza dubbio in qual-che caso dovette essere o quello di stalle, oquello di abitazioni, o ancora quello diaree cerimoniali: la scena da Pontecagna-no propende, di fatto, per la stalla o ilrecinto cerimoniale, in quanto accogliedei cervidi che, se vivi, non avrebberosenso in una casa. Peraltro, in Maremma,ancora oggi esistono vasti ripari perbestiame dalla simile pianta, ovvero for-mati da un grande capanno con la partefrontale aperta a portico sia sul davantiche sui lati. Si veda ad esempio la capan-na di pastore presente a Grosseto nel 1970e la cui fotografia è pubblicata in AA. VV.,Cultura contadina in Toscana - Il lavoro del-l’uomo, Firenze, 1982, pag. 410.La prima scena da Vetulonia potrebbeanche prevedere -secondo un’iconografiache perdurerà nelle tombe tarquiniesi piùantiche- il ritorno dalla caccia in direzio-ne di casa, sebbene non escluda le altredue ipotesi.103 Certamente la presenza di un ornatosimile su reperti provenienti da localitàcosì lontane è indizio di un valore nonsecondario di quanto in esse raffigurato,e che il soggetto era non solo connessocon l’ideologia dei personaggi emergentidella società della prima età del ferro, mache era ben riconoscibile e ben diffuso,pur con minime varianti, su un’area cul-turale italica assai vasta, comprensivaanche del territorio vulcente da dove pro-viene una “daga in ferro con fodero inbronzo (...) nel meandro, vi sono figurine

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Le spade ed i pugnali

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La lancia, la spada, il cavallo

schematizzate di quadrupedi simili aquelli di Vetulonia”. Da Talocchini, cit.,pag. 20 nota 46. Va osservato che ancheun altro frammento di fodero in bronzo,ritenuto di pugnale e trovato in un poz-zetto di Poggio alla Guardia, reca unadecorazione simile, dove però la “pianta”della struttura è ancora diversa, e nonsembrano apparire animali né uomini; siveda Talocchini, cit., pag. 22 tav. III, n.14.Inoltre armi con foderi ornati da similidisegni compaiono anche in area italica,ad esempio si ricorda quello del pugnalerinvenuto nella tomba 65 di Chiaromon-te-Serrone in area lucana -si veda in“Armi - Gli strumenti della guerra inLucania”, Bari, 1994, pag. 31 n.1- dovel’ornato, pur assumendo aspetti quasi deltutto astratti come nei coevi foderi locali,sembra descrivere una qualche strutturalabirintica. Altre ipotetiche rappresenta-zioni di figure umane e di edifici sonopresenti secondo la Bartoloni su unatazza d’impasto del IX sec. a. C. da Tar-quinia -vedi Bartoloni, La cultura villano-

viana, cit., pag. 68-69-, mentre la scena dicaccia e l’ascia riprodotte sul rasoio bron-zeo dalla tomba bolognese Benacci-Caprara n. 16 sarebbero anch’esse tra leprime celebrazioni figurate di attività ari-stocratiche -vedi Bartoloni, La cultura vil-lanoviana, cit., pag. 147-148-.104 Si veda Giovannangelo Camporeale,Le prime scene narrative nell’arte etrusca, in“Mondo archeologico” n. 41, gennaio1980, pagg. 20-21.105 Camporeale, Miniere e metalli alle origi-ni dell’Etruria storica, cit., pagg. 38-39.106 Capretti, Il mondo tecnologico e militare,cit., pag. 23.107 Si veda Anati, Arte preistorica in Valtelli-na, cit., pag. 82.108 Si veda Anati, Arte preistorica in Valtelli-na, cit., pagg. 69-84.109 Cipriani, Il mondo tecnologico e militare,cit., pag. 23.110 Talocchini, cit., pag. 23.111 Quaderni di Grafica ed Anastatica del700, cit., pag. 13.112 Tronchetti, L’iconografia del potere nella

Sardegna arcaica, cit., pag. 218.113 Fossati, cit., pag. 15.114 Keegan, La grande storia della guerra,cit., pag. 104.115 Poggesi, Artimino: il Guerriero di PratoRosello, cit., pag. 74.116 Per questa spada e per il suo fodero siveda Maria Chiara Bettini, in Professionerestauro – Esperienze di restauro archeologicoin territorio aretino, Cortona, 1997, pagg.19-21. Ringrazio Paolo Giulierini delComune di Cortona per l’aiuto nel repe-rire il volume.117 Si veda Botto Micca, Omero medico, cit.,pag. 49.118 Cianfarani, Antiche civiltà d’Abruzzo,cit., pag. 49.119 Si veda D’Ercole, La guerra nella proto-storia dell’Italia centrale, cit.120 Lavrsen, Weapons in water, cit., pag. 11.121 Lavrsen, Weapons in water, cit., pag. 8.122 Lavrsen, Weapons in water, cit., pag. 15.123 Lavrsen, Weapons in water, cit., pag. 18.

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L’ascia fu un attrezzo ed un’arma, la cuicopiosa presenza già durante tutto l’ar-co dell’età del bronzo ne ha fatto unvero e proprio “fossile guida” per ilperiodo preistorico e protostorico. Lesue caratteristiche di attrezzo completoper ogni uso di carpenteria ne hannoinfatti determinato sin da tempi remotiun largo impiego.Sarebbe dunque discutibile il cimentar-si con l’analisi delle asce dell’età delferro senza tenere conto delle evoluzio-ni di questo genere di oggetti nei perio-di precedenti, peraltro minuziosamenteindagati da più autori. Le asce erano costituite, al passaggio tral’età del bronzo antico e quello medio,da un elemento rettangolare o subtra-pezoidale in cui una estremità (la piùstretta) era il tallone e la più larga il filo,sovente allargato rispetto a quanto usci-va dalla fusione tramite martellatura. Imargini del pezzo erano rialzati, a for-mare una sezione ad “H”, in modo che

in una immanicatura lignea dotata diun gomito retto o acuto naturale, dota-ta di uno spacco in cima, la parte metal-lica potesse trovare facile alloggio, con ilfermo assicurato a mezzo di una ribatti-tura e di legacci. Le alette o flange subi-rono infatti una progressiva crescita, inquanto la loro martellatura assicurava lastabilità dell’innesto, allargandone l’am-piezza; “il vantaggio delle flange erache non potevano sfuggire lateralmentedal manico fissatovi. Ma con l’uso pro-lungato il manico si fendeva sempre piùogni colpo fino ad andare fuori uso. Perevitare ciò, fu aggiunto a metà dellalama un orlo che riceveva l’urto delcolpo1”. L’efficacia e la potenza dell’ascia eradovuta alla caratteristica di questo tipod’attrezzo ed arma, che unisce l’effettodella massa a quello del cuneo2; infattiil primo principio fisico combinandosicol secondo assicura una notevole forzadi penetrazione, specie laddove il

tagliente è breve, incidendo facilmenteil legname o, in combattimento, pene-trando elmi e scudi, fratturando ossa earticolazioni, ma rimanendo, per oppo-sizione, una modestissima arma da con-tatto per la brevità del filo3. I tipi più arcaizzanti delle fasi protoap-penniniche avevano appunto un’imma-nicatura lunga e stretta, con lunghimargini rialzati condotti sino in prossi-mità del filo tagliente, e all’interno diquesti tipi esistevano numerose varianti;più recenti sono invece delle asce conmargini molto rilevati -tali da apparirequasi come alette estese- ed asce dove imargini rilevati sono limitati alla partedell’immanicatura e la lama è distinta.Queste ultime mostrano lame talvoltaampiamente arrotondate e dette “a fla-bello”, talaltra con margini concavi etaglio arcuato. Tipi simili, ma con alcu-ne varianti -come le lunghe asce-mar-tello- sono attestati anche nell’Italia set-tentrionale4.

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Le asce

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Con l’età del bronzo finale prendonocampo le asce “ad alette”, “ad occhio” e“piatte”.Il primo tipo ha lama a taglio trasversa-le ed immanicatura formata da appen-dici sopraelevate ad alette collegate daun tratto centrale piatto, la cui partesuperiore può prolungarsi in un tallonedistinto o meno. Il tallone è distintoquando una risega, una strozzatura ouno spigolo lo separa dal resto dell’im-manicatura; esso termina nella parteopposta alla lama con un incavo arcuatoo ad occhiello. Talvolta tra lama edimmanicatura compare un setto di divi-sione formato da un gradino, e l’area digiunzione tra le due parti ha una spallapiù o meno marcata. Le asce ad aletteprive di tallone con setto di divisionesono diffuse nell’Italia peninsulare, e tal-volta recano dei fori passanti nel trattocentrale dell’immanicatura; quelle privesia di tallone che di setto di divisionesono diffuse invece quasi solo nell’areatranspadana, ed hanno talora unocchiello laterale presso una delle alette.Le asce ad alette estese, presenti come siè visto già dal bronzo recente, si caratte-rizavano appunto per il notevole svilup-po in lunghezza delle alette.Le asce ad occhio, corrispondenti alleattuali scuri ed accette, hanno un’imma-nicatura o testa con foro trasversaledetto appunto occhio a sezione ovale, incui si inseriva il manico ligneo. Se neconoscono varianti a lama fortementericurva, a lama stretta molto allungata, alama simmetrica molto spessa, con tal-

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La lancia, la spada, il cavallo

Esempi di asce ad alette dell’età del bronzo finale

Esempi di asce ad occhio dell’età del bronzo finale

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lone crestato o martellato, con testaornata da nervature a rilievo; altrevarianti hanno una testa dalla sezioneesterna pentagonale distinta con ungradino dalla lama. Le asce piatte dell’età del bronzo finale,legate a tipi delle età precedenti, sonodiffuse prevalentemente nell’Italia meri-dionale e insulare; in particolare quelle aspuntoni laterali (presenti in Sicilia, Sar-degna e nel Mediterraneo occidentale)hanno un tallone trapezoidale sviluppa-to con, all’attacco della lama, dueappendici esterne ad aculeo. Quellepiatte a lama espansa, simili nella foggiaad una paletta, hanno invece un codolostretto e distinto che in parte si aggiuntaalla lama con uno scalino, ed una lamache si distingue con una larga spalla.Tutte queste tipologie presenti nell’etàdel bronzo indicano come le asce fos-sero uno degli attrezzi metallici “prin-cipe” del tempo; a riprova di ciò siricorda che nei ripostigli di bronzisono in genere le asce a presenziare inforti quantità, secondo un parametroancora presente all’inizio dell’età delferro. Il ripostiglio di San Francesco aBologna, infatti, è un esempio delladiffusione di tali oggetti, all’interno diquello che “costituisce il più granderipostiglio della prima età del ferro ita-liana5”. Si tratta infatti del contenutodi un grande dolio fittile, alto cm 125e largo 95, sepolto al centro di unacapanna dal diametro di m 4,20, inmodo che l’orlo del recipiente sporges-se fuori terra di circa 30 cm. Nel vaso

vennero ritrovati ben 14.838 oggettibronzei e tre soli in ferro;

“gli oggetti maggiormente rappresentati sonole asce (4.073) (...) Il ripostiglio di S. Francescoè costituito da oggetti non solo di produzionebolognese, alcuni dei quali risalgono alla finedell’età del bronzo. Si deve quindi pensare adun lungo periodo di accumulazione che si con-clude alla fine dell’VIII secolo o all’inizio delVII sec. a. C.6”.

E’ interessante notare come le caratteri-stiche delle asce presenti nella secondametà del II millennio a.C. in Egitto fos-sero profondamente diverse da quelleeuropee; le diffusissime asce cosiddette“ad epsilon” erano di fatto una mezza-luna tagliente in bronzo inserita in unafenditura alla sommità di una breve astadritta. Poco sporgenti e poco pesanti,avevano un filo molto lungo, e questacaratteristica unita alle precedenti edalla linearità del manico con una soloaccennata curvatura finale verso il retrole rendeva molto meno penetranti degliesemplari in uso a nord del Mediterra-neo, e destinate a fendenti circolari piùche a colpi di botta7. Più affini ai tipi ita-lici erano invece le asce omeriche (bou-plex, axìne), che alcuni guerrieri, comePisandro, portavano all’interno delloscudo (Iliade XIII, 611). E’ proprioOmero -confermato da recenti indaginimetallografiche- ad informarci che itaglienti delle asce venivano tempratigià ai suoi tempi, nonostante la scarsaconoscenza dei trattamenti di induri-mento che impediva di trattare armipiù esposte agli effetti collaterali della

tempra, ovvero le spade. Giacché latempra può rendere più duro ma anchepiù fragile il metallo, si applicava taletrattamento (detto anche rinvenimen-to) alle asce poiché, per la loro formamassiccia, il pericolo di rottura per urtoera con esse molto limitato8.Dunque, col passaggio tra età del bron-zo ed età del ferro, le asce mantennerouna elevata diffusione, certo connessaad un uso promiscuo come arma daguerra ma anche come attrezzo da lavo-ro; l’impiego “civile” peraltro spiega ladurevolezza dei tipi, stabili proprio inquanto oggetti d’uso9. Nell’età del ferroi tipi, fortemente influenzati da quelli

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Le asce

Esempi di asce egizie a filo curvo o "ad epsi-lon" del II millennio a.C. - Firenze, MuseoArcheologico Nazionale

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precedenti, saranno essenzialmenteancora quelli “ad alette”, “ad occhio” ed“a cannone”. Tra le asce ad alette scom-parirà il tallone -forse anche grazie aduna migliore tecnologia di rifinitura- madiventerà sempre più evidente il setto didivisione tra immanicatura e lama, cheassumerà l’aspetto di una costa ben rile-vata prolungantesi fino a formare (conl’allargarsi della lama ed il rimpicciolirsidell’immanicatura) una spalla semprepiù chiara e larga. Così, anche se per-marranno degli esemplari di asce stret-te, senza setto di divisione e talora forni-te di un occhiello laterale10, nella zonapadana di facies villanoviana e nel terri-torio vetuloniese si diffonderanno deitipi con piccola immanicatura ad alette -attraversata talora da un foro- ed unalarga lama trapezoidale distinta, dal filo

sovente arcuato; tali asce comparirannofrequentemente in sepolture della metàdell’VIII sec. a. C., presentando talorauna scarsa robustezza meccanica associa-ta a fitte ornamentazioni geometrichesulla lama e anche sulle alette.Si ricordano quali esempi le tre asce dallatomba Benacci 855 di Bologna, quelle datombe a pozzetto di Poggio alla Guardiadi Vetulonia11, e quella dalla tomba I acircolo di Podere del Lago presso l’Acce-sa di Massa Marittima12.L’ornato delle asce ad alette è sostan-zialmente costituito da due tipi decora-tivi: un primo reca cerchielli su fasceparallele al filo, e zig-zag o meandri,l’altro reca invece gruppi di linee paral-lele in orizzontale ed a formare sullalama una croce di Sant’Andrea.Alcuni autori hanno ritenuto che le asce

sottili ed ornate potessero essere armisoltanto simboliche, alle quali venivatalora imposto l’uso della frammenta-zione intenzionale “per motivi ritualitesi a sottolineare l’appartenenza del-l’oggetto al defunto e renderne impos-sibile un riutilizzo13”.L’aumento della parte ornamentale sulleasce e la decrescita dell’immanicatura adalette sembrano in effetti indicare unemergente valore anche ideale dell’og-getto, ed in taluni casi un suo probabileuso solo come simbolo -forse guerriero,di dignità o proprietà fondiaria-; tuttaviasolo l’impiego effettivo quale attrezzo dalavoro per il legname giustifica i grandiquantitativi di asce presenti nei ripostigli,uso che comunque non necessita diornato, ma richiede piuttosto una robu-stezza particolare della giunzione tra

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La lancia, la spada, il cavallo

Esempi di asce ad alette della prima età del ferro

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parte metallica e lignea. Del crescentevalore simbolico -sempre meno connessocon una reale funzionalità come arma-danno prova alcune asce di età orienta-lizzante provenienti dalla necropoli diCasale Marittimo14. Qui sono tornate inluce, tra le altre, due tombe maschiliaffiancate, la H1 e la H2; nella prima, colcorredo, era presente un gruppo di treasce in bronzo, adagiate sul petto deldefunto, eccezionalmente del tutto iden-tiche tra loro e, dai risultati delle indagi-ni metallografiche, frutto di una unicafusione in un unico getto. L’ascia al cen-tro del gruppo aveva un lungo manicod’acero, ricurvo ad “S”, della lunghezzadi circa 70 cm; la testa in bronzo dell’a-scia era fermata su due prolungamentidel pezzo d’acero forati e dotati di fermilignei, e con legacci. Il lungo manico eraricoperto di lamina bronzea sbalzata conpunzoni e avvolta a spirale, ed era orna-to sul retro, dal lato opposto al tagliente,da anatrelle bronzee fuse, infisse nellegno, in numero di 45, su file ravvicina-te, di cui una parte rivolte verso il bassoed una parte rivolte verso l’alto. A metàcirca del manico vi era vi era una zonalibera, ovvero l’area di impugnatura persostenere l’arma. L’arma è stata anchericostruita ex novo in acero, con lamasimile, ed è stata collaudata: risulta avereuna notevole forza d’impatto, 4 o 5 voltemaggiore che se il manico fosse dritto, edal lancio tende a colpire sempre di lama.Le asce laterali avevano invece un mani-co di lunghezza dimezzata; tutte e treerano forate poco sotto il punto di inne-

sto delle lame, ed il foro consentiva ilpassaggio di un anello bronzeo che strin-geva le tre armi e fungeva da manigliaper il trasporto. I fori per l’anello, com-promettendo la robustezza dell’immani-catura, escludevano decisamente la pos-sibilità di un uso pratico delle armi, chedunque, unite “a pacchetto”, costituiva-no esclusivamente un’insegna di potere,formata da armi da parata arricchite dielementi decorativi, dato questo che hafatto pensare ad un prodromo del fasciodei littori. Anche l’adiacente tomba H2conteneva, con una lancia ed un coltello,una coppia di asce dal manico privo diornamentazione. Non lontano, la tomba A di CasaleMarittimo -all’interno di un ricchissimocorredo comprendente tra l’altro uncalesse, un elmo, una daga, un coltello edue lance di ferro- ha restituito un altrogruppo di asce, di cui due in bronzo -una con manico rivestito di lamina sbal-zata e con una fila di anatrelle bronzeesul dorso, l’altra forse provvista di unmanico solo ligneo, andato perduto- eduna in ferro. In realtà queste asce con anatrelle appli-cate sul manico non sono un unicum inItalia centrale; in particolare se ne ricor-da una miniaturistica, con una sola ana-trella sul manico, oggi al Museo di VillaGiulia a Roma, proveniente dalla necro-poli di Montarano presso Falerii, nellazona NNE, e precisamente dalla tomba15 (XXVI) a fossa con loculo, bisoma,della metà dell’VIII sec.a.C.Le asce della tomba A di Casale Maritti-

mo hanno indotto a pensare che le armibronzee, in via di superamento nell’usopratico da parte delle più resistenti armiin ferro, andassero assumendo un valo-re sempre più simbolico e di rappresen-tanza; il “fascio” di asce della tomba H1,privo di uso pratico,

“consente di formulare una ipotesi conclusivasul loro significato: la documentazione archeo-logica etrusca sembra attestare che i nuovi modidi combattere dell’età orientalizzante, pur pre-vedendo ancora l’uso dell’ascia, ora di solito inferro, relegano le asce di bronzo entro un’area diimpiego prevalentemente simbolica, che qualifi-ca i portatori come titolari di un rango partico-larmente elevato nell’ambito politico-militare.Da questo punto di vista è d’obbligo il richiamoal noto passo di Dionigi di Alicarnasso, nel qualeTarquinio Prisco (alla fine del VII sec. a.C.!) rice-ve da ciascuno dei rappresentanti delle cittàetrusche da lui sconfitte un’ascia. Nella tradizio-ne «etrusca» raccolta dallo storico il conferimen-to di un’ascia ad un capo militare significavaun’alleanza o un rapporto di soggezione15”.

Le asce ad occhio della prima età delferro, sostanzialmente vicine a quelledell’età del bronzo finale (e già esistentinel bronzo antico), vedono esempi conocchio circolare, ed altri con occhioovale; le asce ad occhio con risega tratesta e lama (ovvero dove la testa è piùstretta della lama con una distinta rise-ga) sono da considerare piuttosto attrez-zi da lavoro che armi, in quanto da essediscendono i cosiddetti “manaioli”,delle accette ancora oggi usate in Tosca-na per la potatura degli olivi e per laslupatura, ovvero la rimozione dall’oli-vo del legname malato16.

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Le asce

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Le asce a cannone differiscono profon-damente da quelle sinora descritte per laloro struttura: si tratta infatti di armidotate di una immanicatura tubolare -asezione quadrata o subquadrangolare- incui si inseriva il manico ligneo piegatonaturalmente in un angolo acuto o retto.Per assicurare meglio la parte metallica aquella lignea erano presenti degliocchielli laterali, oppure delle punte odelle appendici, dove fissare dei legaccidi unione. La lama poteva essere distintadal cannone con una spalla simile a quel-la delle asce ad alette, oppure non distin-ta, e poteva avere il filo lunato o quasidritto; l’imboccatura del cannone potevaessere caratterizzata da delle costolatureo da una rigonfiatura, ma poteva ancheessere liscia come l’intero oggetto.L’ornato delle asce a cannone interessadi norma il solo cannone, dove si hanno

costolature, spinapesce, linee diagonaliintersecanti, riquadri17.Sulle tecniche di montaggio delle ascevillanoviane e della prima età del ferroitalica, cui peraltro si è già fatto cenno,vi è un’ampia documentazione: il tipoad alette

“veniva immanicato grazie (al) terminale(opposto alla lama) a margini rialzati. Entro talimargini si infilava la protuberanza di un gros-so ramo che fungeva da manico, e che venivascelto e lavorato con grande cura a tal fine.Una volta inserita la suddetta protuberanzalignea fra i margini metallici rialzati, questiultimi erano battuti a martello fino ad aderireil più possibile al legno contenuto. Si passavapoi attorno un cordone, a volte anche di filometallico, che, debitamente stretto, contribuivaa fissare il tutto18”.

L’andamento dei legacci che con piùgiri serravano sulle alette per bloccare

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La lancia, la spada, il cavallo

Sopra, alcuni esempi di asce a cannone della prima età del ferro; in alto, riproduzione di un'ascia ad alette con immanicatura ricostruita -Sant'Agata diMugello, Centro di Documentazione Archeologica; a destra, ascia in bronzo la cui forma complessa simula dei legacci o tiranti - Firenze, MuseoArcheologico Nazionale

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l’immanicatura e che probabilmentetiravano l’ascia metallica per il setto didivisione verso il manico ligneo, confermature incrociate, è riprodotto spe-cularmente sull’ornato di varie asce vil-lanoviane (da Volterra, Bologna, Tar-quinia ecc.) che reca appunto delle lineeparallele ed una croce di Sant’Andrea.D’altronde, fuori d’Italia, alcuni casi incui precocemente si tendeva a riprodur-re nel metallo le parti deperibili dell’in-nesto e dei legacci di fissaggio risalgonoanche al bronzo antico, come l’ascia daPrettmin nel Kolberg19.L’immanicatura delle asce a cannoneera invece più resistente perché “cinge-va completamente il legno, sopportan-do meglio le sollecitazioni e diminuen-do il rischio che per effetto dei colpi l’a-scia si staccasse dal suo manico20”.Per i vari tipi di ascia, specie nelle fasipiù tarde del villanoviano, è certo che ilegacci di fermo che assicuravano ilmetallo all’immanicatura lignea avesse-ro un andamento particolare. Le ascepiù recenti, quali quelle da Chiusi-Pog-gio Sala e da Città di Castello, presenta-no infatti una testa che simula, tutto nelbronzo, l’ascia ad alette, il segmento ter-minale del manico e due “tiranti” colle-gati da un lato all’immanicatura e dal-l’altro ad occhielli o sporgenze nel settodi divisione tra lama e tallone, partiqueste documentate in asce villanovia-ne. Dal momento che tali “tiranti” adandamento diagonale non avrebberoavuto efficacia se i legacci avessero potu-to scorrere, sotto la trazione, verso il tal-

lone, è ipotizzabile che all’estremitàsuperiore dell’immanicatura fosseropresenti o dei ringrossi di fermo sullegno stesso, o dei riporti di ringrosso incorda o filo omogenei ai legacci. L’utili-tà di tali elementi è evidente, ed indicai limiti dell’ascia in uso ed in combatti-mento: ogni colpo portato, descrivendouna traiettoria curva quale quella delbraccio, sollecitava lateralmente la con-giunzione tra lama metallica ed imma-nicatura lignea, portando ad un fre-quente allentamento dell’unione, cherendeva il guerriero talvolta disarmato.Curiosamente l’adozione delle asce adocchio indenni da questo problema -edattestate dall’età del bronzo- non fu maiampia, e le asce tradizionali ad aletteebbero sempre la massima diffusione;anche nel resto d’Europa accade la stes-sa cosa, sebbene già nella primissimaetà del bronzo fossero diffusi, tra i varitipi di ascia talvolta realizzati ancora insolo rame, dei tipi ad occhio, comedimostrano vari esemplari soprattuttoaustriaci ed uno stampo da Salisbur-go21. Di conseguenza la larghissima dif-fusione dei tipi ad alette dovette rispon-dere non ad una mancanza di alternati-ve tecniche, ma ad una vera preferenzafunzionale. Forse a tale evento contribuìil fatto che l’immanicatura a gomitodelle asce ad alette ed a cannone estrin-seca una forza d’urto notevole, maggio-re di quella dei manici dritti delle ascead occhio.Le testimonianze sull’aspetto dell’imma-nicatura delle asce villanoviane ed orien-

talizzanti ad alette sono piuttosto concor-di, ed i manici sono documentati in duesole sostanziali varianti. La prima è atte-stata ad esempio nella raffigurazione sulrasoio dalla tomba 16 Benacci-Capraradi Bologna (VIII sec.a.C.) e negli esem-plari di ascia da Casale Marittimo; si trat-ta di un manico di circa 70 cm di lun-ghezza, dall’andamento ad “S”, sul qualeil punto di presa era all’incirca alla mas-sima estroflessione verso l’avanti dell’a-sta. Grazie ad un elemento di raccordo,come si è visto, la parte metallica era fis-sata non lontano dall’estremità superioredel manico, e la curvatura consentiva diaumentare la potenza del colpo. L’altravariante, riscontrabile nell’ascia bronzeada Poggio Sala al Museo di Chiusi, inquella dalla tomba 89 di Verucchio e nel-l’iconografia della Situla della Certosa,reca un manico all’incirca della stessalunghezza, ma perfettamente diritto, tal-volta ringrossato all’estremità superiore.Una diramazione naturale del legno -oun raccordo- assicuravano la partemetallica all’asta, con una angolaturaverso il basso più o meno marcata desti-nata anch’essa a rinforzare l’effetto dibotta.Anche le asce a cannone ricorrevano adimmanicature simili; per la valutazionedell’efficacia di tali caratteristiche chiscrive ha provveduto anche ad alcunesperimentazioni, effettuate con unareplica di ascia a cannone in ferro rica-vata da un attrezzo ottocentesco oppor-tunamente modificato, ed immanicatautilizzando un ramo con una curvatura

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Le asce

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naturale per l’innesto, dalla lunghezzadi circa 50 cm. Al confronto praticonella capacità di fratturare un ramo, l’a-scia a cannone ha mostrato una buonaefficacia, leggermente superiore a quel-la di una moderna ascia ad occhio inferro dal manico di 40 cm; in particola-re la combinazione di lunghezza, peso ecurvatura rendeva meno sensibile lareazione elastica di “rimbalzo” cheritornava dal bersaglio, e più facile eprofonda la penetrazione. Tuttavia l’in-nesto del cannone (effettuato conmodellazione, battitura del legno asecco entro la cavità metallica ed arrestograzie ad un chiodo passante), mostra-va un certo gioco dopo alcuni urti, a dif-ferenza dell’ascia ad occhio; è possibileche, oltre al ricorso ai legacci, fosse dif-fuso l’impiego di collanti molto solidi oresinosi, coi quali unire le parti lignea emetallica, ed al contempo riempire leinevitabili lacune all’innesto.Sulla qualità del legno impiegato per leimmanicature, disponiamo solo dei datirelativi alle asce di Casale Marittimo,risultate in due casi -coperti di lamina dibronzo- in acero (Acer campestre), edanche in faggio (Fagus sylvatica L.) e cor-niolo (Cornus mas L.). L’acero, legno ditessitura fine o media, fibratura varia adensità elevata, ha valide caratteristichemeccaniche; il faggio, a fibra dritta, tes-situra fine e regolare, è piuttosto com-patto e preferito, come si è già visto, perle aste di lance, per le quali era tradi-zionalmente impiegato anche il cornio-lo, di grande robustezza22.

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La lancia, la spada, il cavallo

Alcune immagini della sperimentazione comparativa di un'ascia a cannone in ferro -ricavata da unattrezzo ottocentesco modificato- e di un'ascia ad occhio moderna

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Oltre che per un colpo di botta, l’asciapoteva anche essera scagliata verso ilnemico (come in Eneide VII, 741), conuna tecnica che tutt’oggi privilegia ilcontrollo sulla forza e che prevede larotazione in aria dell’arma. Per un lan-ciatore destro, come nel lancio deltomahawk d’America, è necessarioporsi a circa 6 metri dal bersaglio

“with your right foot a step ahead of your leftfoot. The tomahawk should be held either infront of you or at your right side. The throwingmotion begins with the tomahawk being drawnback behind your right shoulder as your leftfoot moves toward a deep front stance. As yourleft foot is setting down firmly in front of you,the forward action of the tomahawk begins.You should have the feeling that the wholeright side of your body, your shoulder, andyour right arm are pulling the tomahawk for-ward and toward the target. Knowing the exactmoment at which to release the tomahawk willbe instinctive and will improve with practice. Itis important that the tomahawk slips easilyfrom your hand and that your arm followsthrough in a direct line toward your mark.Good release and follow-through will improveyour accuracy and help to eliminate any wob-bling or erratic flight of the tomahawk. (...)Once you have mastered the basic throw, orsingle rotation, you may wish to increase yourdistance from the target. The throwing motionremains the same, but the tomahawk will needto make two or more rotations to cover theadded distance. Generally you should allowanother 12-15 feet for each additional turn ofthe tomahawk23”.

Riguardo l’impiego dell’ascia, è interes-sante rilevare come in varie raffigura-zioni di alta antichità (ad esempio le

stele della Valtellina o quelle lunigiane-si) essa appare in combinazione con ilpugnale; non si può escludere che già inqueste epoche –come accadrà ancoranel Settecento italiano- il pugnale ser-visse da difesa della mano sinistra, inassenza di scudi nelle figurazioni, o daarma secondaria. La comparsa degliscudi, in un momento più tardo, assol-verebbe allora ad una funzione evoluti-va “specializzata” delle difese dellamano sinistra, conseguita grazie all’ado-zione di clipei da pugno leggeri, inmateriali dapprima deperibili. La mag-giore economicità degli scudi di vimini,legno o cuoio rispetto al pugnale metal-lico avrebbe fatto, secondo questa ipote-si, la fortuna del nuovo elemento pro-tettivo, con la massima resa al costo piùbasso, trasformando, al contempo, letecniche di scontro che, dalla disponibi-lità di due armi comunque offensive,sarebbero andate a prediligere la com-binazione di un’arma offensiva ed unadifensiva.Non si hanno attestazioni dell’uso del-l’ascia da parte della cavalleria villano-viana, a differenza di quanto accadevanel Medioevo e nel Rinascimento con lescuri d’arme24, mentre quasi tutta ladocumentazione sembra indicare, comeaccadeva ancora sulla Situla della Cer-tosa, che i guerrieri armati d’ascia faces-sero parte della fanteria. Il diffondersi di nuovi metodi tattici e didiverse forme di schieramento nell’etàorientalizzante ridimensionò comun-que la presenza dell’ascia tra gli armati,

il cui colpo portato da sopra la spallaesponeva il fianco destro indifeso allelance degli avversari. E’ documentatadall’Orientalizzante la presenza dellavariante bipenne, obbligatoriamente adocchio e generalmente a due mani.Alcuni studiosi ritengono che anche leasce in uso già in epoca villanoviana,precorrendo gli esemplari orientaliz-zanti, avessero un’immanicatura ligneaparticolarmente lunga appositamente

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Le asce

Ascia in ferro da Poggio Sala dal lungo manicometallico solidale con la testa, e particolare diquest'ultima - Chiusi, Museo ArcheologicoNazionale

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proprio per renderle adatte ad unimpiego a due mani. L’ascia sarebbedunque divenuta, dopo l’età del bronzo,un’arma antiquata fino a

“risultare sempre più inefficiente contro nemi-ci vieppiù pesantemente armati e protetti,tanto da sopravvivere solo per breve tempo nelmondo etrusco. Si sviluppò allora l’uso dell’a-scia a due mani, documentata sia in epoca vil-lanoviana che etrusca. Di dimensioni notevol-mente maggiori, essa impediva al combattentel’uso dello scudo, che doveva perciò essere por-tato a tracolla sulle spalle, come ci testimoniacon efficacia il candelabro dal Circolo del Tri-tone di Vetulonia. Il brandeggio dell’ascia adue mani non era certo agevole e richiedevaforza e precisione, ma offriva il vantaggio dipoter abbattere un avversario anche se si colpi-vano lo scudo o parti protettive del corpo, infe-redogli ferite mortali o stordendolo con un solcolpo. Si potevano inoltre spaccare spade olance del nemico, costringendolo a combatterein inferiorità25”.

La diffusione dei diversi tipi di ascedurante la facies villanoviana sembra inmolti casi concomitante, come nel ripo-stiglio di San Francesco a Bologna, dovevi erano asce ad alette con e senza settodi divisione tra lama e immanicatura,con spalla e senza, con filo dritto o semi-circolare; ve ne erano anche a cannonecon occhielli laterali e senza, con canno-ne decorato o liscio, con imboccatura delcannone a costolature, rigonfia o liscia,con spalla e senza, con setto di divisionee senza, con lama stretta e lunga o largae corta, dal filo dritto o arrotondato.Altrettanto succede, a grande distanza,nel ripostiglio di bronzi di Ardea, nel

Latium, risalente tra II e III quarto del-l’VIII sec. a. C.; qui come a Bologna laparte del leone nel deposito la fanno leasce (206 su 293 pezzi) di cui la maggiorparte “in buono stato, oppure legger-mente danneggiate ma riparabili. Alcu-ni pezzi sono del tutto fuori uso, condanni che in qualche caso sembranoprovocati intenzionalmente; in pochicasi ne resta solo una metà (...) non cisono pezzi nuovi26”. Il ripostiglio, purritenuto “molto omogeneo” tipologica-mente, contiene di fatto

“tranne pochi pezzi, le asce ad alette (che)appartengono a un’unica serie (...) le asce acannone appartengono a pochi tipi piuttostosemplici, mentre le poche scuri a occhio man-cano per lo più di caratteristiche tipologichespecifiche (...) Molti dei tipi presenti ad Ardeahanno un’ampia area di distribuzione, in con-testi riferibili ad un momento avanzato dellaprima fase dell’età del ferro italiana. Asce adalette e a cannone identiche a quelle di Ardeasi trovano fra i tipi più comuni a Bologna (...) ecompaiono in numerosi ripostigli e tombe inEtruria (...) Lazio, Campania, Marche, Sicilia.Le scuri a occhio si collegano a quelle di alcuniripostigli pugliesi27”.

Si tratta quindi, per tutte le diverse tipo-logie di asce, di una diffusione benmeno distinta di quanto alcuni autoriindicano28.Secondo alcune teorie l’impiego dell’a-scia in guerra indicherebbe la presenzanelle file dell’esercito della prima etàdel ferro di personaggi poco abbienti eprivi di altre armi: “le classi minoridovevano (...) armare i loro guerrieri

con giavellotti (e) ascia (molto menocostosa della spada che all’epoca eraassai preziosa)29”.In effetti l’abbondanza di asce nei ripo-stigli della prima età del ferro, con un’e-secuzione di norma in bronzo, e le evi-denti tracce di usura nonché di raffilosu vari pezzi inseriti nei grossi imma-gazzinamenti, sembrano ribadire per leasce il già osservato utilizzo prioritarioquale attrezzo di lavoro piuttosto checome arma da guerra, specie per i pezzimeno decorati. Si nota infatti che ireperti rinvenuti in ripostigli (come adesempio a Bologna, Populonia, Ardea)sono oggetti di uso lavorativo, spessoprivi di ornato sulla lama ed in generealquanto massicci. Ciò farebbe dunquedi essi dei materiali in uso a vasti stratidella popolazione, e quindi armi “difortuna” alla portata anche dei menoabbienti, come avveniva con gli attrezziagricoli ancora nel Medioevo. Tuttavia i reperti dalle tombe (ad esem-pio Vetulonia-Poggio alla Guardia;Accesa-Podere del Lago; Veio-QuattroFontanili; Bologna-Benacci, più tardi daCasale Marittimo) sono al contrario fit-tamente decorati, di dimensioni mag-giori e di spessore non sempre consi-stente, e quindi idonei ad un ruolo sim-bolico e di prestigio, ma non lavorativo.Sembra dunque di cogliere una dicoto-mia in formazione tra asce da lavoro edasce militari o simboliche; tra le secon-de quelle in bronzo, tecnologicamentesuperate, acquisiscono un significatoideologico non ben completamente

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La lancia, la spada, il cavallo

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Le asce

chiarito nelle sue sfaccettature, ma, stra-namente, del tutto in contrapposizionecon l’idea di “attrezzo povero” o di“arma delle classi inferiori”, tanto dacomparire, ad esempio, nel citato, ric-chissimo corredo della tomba del Guer-riero di Tarquinia, assieme ad una pia-stra pettorale, uno scudo, uno spallacciobronzeo, una grossa lancia ed unpugnale. Di simile valore sono, come siè visto, anche i gruppi di asce dallanecropoli orientalizzante di CasaleMarittimo. D’altronde connessioni dell’ascia almondo della simbologia, presentianche in varie civiltà antiche, sono statenotate in Italia sino dall’età del bron-zo30, ed il ritrovamento a Tarquinia, inun’area sacra delle prime fasi orientaliz-zanti, di una deposizione votiva forma-ta da un’ascia accompagnata ad unoscudo di lamina bronzea e ad un lituo,indica riferimenti sia al mondo civileche a quello religioso31. Il valore simbo-

lico dell’ascia sarà destinato in seguitoad avere grande sviluppo all’internodella civiltà etrusca, con una fortuna,dell’associazione di essa al ruolo di sim-bolo di potere, che durerà nei millenni.Tale arma fu infatti impiegata a Romaper comminare la decapitazione ai tra-ditori (“securi percusssio”), e tale ius sem-bra risalire alle più antiche fasi di for-mazione degli organismi pubblici, perscomparire già dal 509. a.C.:

“Lo strumento con cui originariamente il rexgiustiziava i traditori era la scure, e non a caso:sui «fasci littori» (…) la scure (securis), rappre-sentata con la lama orientata all’esterno, eraaffiancata da alcune verghe di olmo o di betul-la (…) E la securis e le virgae, tenute insiemenelle insegne da una cinghia di colore rosso,rappresentavano il potere magistratuale. Lastoria della scure come strumento dell’esecu-zione capitale è quindi storia del potere regale:il suo atto di nascita non è anteriore alla civitas,e la sua fine (…) coincide con quella delle isti-tuzioni regie. Anche se l’utilizzazione dellascure come arma di morte si perde nella notte

dei tempi, fu solo con la città, infatti, che essadivenne simbolo e strumento del potere, e piùprecisamente dell’imperium, ovverosia del pote-re militare del rex (…) Secondo quanto riporta-no le fonti, l’ultima esecuzione con la scureebbe luogo nel 50932”.

Il confronto con un popolo sudafricanopuò offrire ulteriori spunti di riflessionesui valori simbolici dell'ascia nei popoliprimitivi: infatti presso gli Shona, nell'a-rea dello Zimbabwe e del Botswana, èdiffusa un'ascia originariamente daguerra, detta localmente gano, che dallafine dell'Ottocento è divenuta essenzial-mente un simbolo dello spirito dettomhondoro, il cui compito principale è laprotezione del capo tribale -al qualeappartiene- e della sua famiglia; tuttaviaanche gli sciamani sono ammessi a por-tarla. Più in generale, l'ascia gano rap-presenta tuttavia la legittimazione allaproprietà della terra, e dunque l'indi-pendenza di colui che la porta e del suopopolo.

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Note

1 De Florentiis, Storia delle armi bianche, cit.,pagg. 51-53.2 Si veda De Florentiis, Storia delle armi bian-che, cit., pagg. 8-9.3 Si veda Hobbs, L’arte della guerra nella Bib-bia, cit., pag. 93.4 Si veda Anati, Arte preistorica in Valtellina,cit., pagg. 85-90.5 Silvana Tovoli, Ripostiglio di San Francesco,in “Il Museo civico archeologico di Bolo-gna”, Bologna, 1982, pag. 259.6 Tovoli, Ripostiglio, cit., pag. 259.7 Si vedano le asce al Museo ArcheologicoNazionale di Firenze, inv. 6971, 6983, 6982,nel catalogo a cura di Maria Cristina Gui-dotti, La Battaglia di Qadesh, Firenze, 2002.Sulle asce egizie si veda anche Hobbs, L’artedella guerra nella Bibbia, cit., pag. 93.8 Si veda in Leoni, Elementi di metallurgia, cit.,pag. 39.9 Sulla stabilità delle tipologie di armi siricorda quanto rilevato da M.J. Swanton:“Like the axe, the spearhead is an utilitarianform; it alters little, and then due to an occa-sional shift in function rather than to rapidchange in fashion”. Swanton, A corpus ofPagan Anglo-Saxon spear-types, cit., pag. 3.10 Secondo il Dizionario terminologico cita-to presenti “quasi esclusivamente nell’areatranspadana, ma attestate anche a Populo-nia nel ripostiglio di Falda della Guardiola”.Per il ripostiglio si veda Talocchini, cit., pag.

28, tav. IV n.21 b.11 In Talocchini, cit., pag. 26 e segg., tav. IVn. 22, 23, 24.12 Lucia Pagnini, Necropoli intorno al Lago del-l’Accesa, in “Museo archeologico MassaMarittima”, Firenze, 1993, pag. 46.13 Silvana Tovoli, Bologna villanoviana, in “IlMuseo civico archeologico di Bologna”,Bologna, 1982, pag. 232.14 A Casal Marittimo, nel territorio volterra-no, è stata posta in luce una necropoli orien-talizzante con tombe sia ad inumazione chead incinerazione. Una parte dello scavo èstato condotto su uno “strappo” al Gabinet-to di Restauro della Soprintendenza Archeo-logica per la Toscana, dove chi scrive hapotuto osservare il materiale espostomomentaneamente e raccogliere informa-zioni dagli operatori del Gabinetto, ai qualiva la mia gratitudine. Il materiale è stato inseguito oggetto della mostra “Principi guer-rieri” il cui catalogo, in bibliografia, contie-ne esaurienti informazioni sul sito e suireperti ritrovati, e quindi si rimanda alla sualettura per una conoscenza approfondita deirisultati dell’indagine.15 Esposito, Principi guerrieri, cit., pag. 61.16 AA. VV., L’olivo in Toscana nella storia e nelpaesaggio agrario, Firenze, 1994, pag. 28.17 Smentendo Saulnier che nella sua operacitata -dopo aver ridotto peraltro i tipi diascia dell’età del ferro ai soli generi ad alet-te ed a cannone- ritiene che nelle asce a can-none “la decorazione è praticamente inesi-stente” -pag. 33-.

18 Fossati, cit., pag. 8. Dal Fossati, come giàindicato per le lance, si dissente per l’ado-zione dell’uso di bagnare il legname a lavo-ro finito.19 Si veda Anati, Arte preistorica in Valtellina,cit., pag. 87 e fig. 46.20 Fossati, cit., pagg. 8-11.21 Si veda Anati, Arte preistorica in Valtellina,cit., pagg. 87-88.22 Si veda in Principi guerrieri, cit., pagg. 95-97.23 Madden, The art of throwing weapons, cit.,pagg. 53-56.24 Si veda in AA.VV., Armi e armature delMuseo Nazionale di Ravenna, Ravenna, 1996,pag. 12.25 Fossati, cit., pagg. 11-12.26 Anna Maria Bietti Sestieri, Ardea, il riposti-glio di bronzi, in “Civiltà del Lazio primitivo”,cit., pagg. 312-313.27 Bietti Sestieri, Ardea, cit., pag. 313.28 Ad esempio Saulnier, cit., che a pag. 33ritiene il tipo ad alette “un tipo diffuso inEtruria, in Emilia ed in Veneto”, ed il tipo acannone “più frequente in Italia meridiona-le”.29 Fossati, cit., pag. 6.30 Si veda in Anati, Arte preistorica in Valtellina,cit., pag. 89 e 95.31 Si veda in Bonghi Jovino, ChiaramonteTreré, Tarquinia, cit.,32 Eva Cantarella, I supplizi capitali in Greciae a Roma, Milano, 1991, pagg. 154-157.

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In questa progressiva analisi sulle arminell’Italia centrale tirrenica della primaetà del ferro vanno presi in considera-zione anche gli archi e le frecce, sul cuiuso nell’Etruria villanoviana come armida guerra non vi sono comunque provecerte.Noto dalla preistoria, l’arco ligneo fusovente utilizzato nel mondo anticocome arma da caccia, ma il suo impiegoin azioni belliche è noto nell’iconografiadi epoche precedenti il XII sec. a. C.,nei reparti -su carri ed appiedati- delMediterraneo orientale1, e nell’epocaomerica. Come fu notato già varidecenni fa, archi e frecce sono piuttostorari nell’Europa settentrionale, centraleed occidentale, fatto che non può attri-buirsi solo alla deperibilità del legno deireperti ed alla facile corrosione dellepiccole punte metalliche, a confermache, di norma, esse non costituivanoparte fondamentale dell’attrezzaturadei guerrieri o dei cacciatori.

I rari esemplari di punte di freccia rin-venuti nell’Etruria della prima età delferro sono essenzialmente punte piattecon peduncolo, ricavate da una laminadi bronzo, oppure fuse, a cannone o apeduncolo.Il primo tipo ha una punta priva dicostolatura, e la lama può essere a trian-golo isoscele con base dritta2 o a coda dirondine3. Il peduncolo -appuntito oquadrangolare- era innestato in un inta-glio verticale praticato sulla testa dell’a-sta lignea.Il tipo fuso poteva invece avere l’aspettodi una stretta foglia di olivo con nerva-tura centrale -occasionalmente biforcu-ta verso il codolo- con una robustaimmanicatura quadrangolare termi-nante a peduncolo. Questo genere dipunta di freccia4 sostanzialmente richia-ma le punte di freccia in selce di usopreistorico e protostorico, note peraltroanche in contesti villanoviani5 o piùrecenti.

Ovviamente anche le punte metallichepiatte ricordano da vicino quelle litiche,ma la loro forma più geometrica risen-te delle possibilità tecniche offerte dalmateriale, che consente la creazione dialette, le quali non possono essereritratte dalle carni dopo il lancio deldardo senza lacerare ulteriormente laferita già inferta.Il tipo fuso con cannone è quello cherisulta, rispetto ai precedenti, il più evo-luto ed il più influenzato dalla disponi-bilità del metallo quale materiale. Lapunta infatti, dotata di alette a coda dirondine6 o foggiata a foglia di lauro7, èpercorsa sino alla punta da un cannonecavo, conico o piramidato, secondol’uso delle punte di lancia. Una varian-te non rara delle frecce a cannone com-porta la presenza, proprio sul lato delcannone stesso, di una piccola appendi-ce laterale aguzza e volta indietro, che èstato ipotizzato avere fini simili a quellidelle punte ad alette: difatti l’appendice

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Archi, frecce, frombole

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-a Populonia presente in frecce a fogliadi lauro- dopo essere penetrata attra-verso l’apertura causata dalle lame, siancorava nelle carni ed impediva lafacile fuoriuscita del dardo con punta abase ovale, che anzi diventava un vero eproprio arpione.All’orientalizzante datano delle rarissi-me punte di freccia in ferro, rinvenutenel Tumulo dei Carri di Populonia; sitratta di punte coniche o ad alette appe-na accennate, lunghe 6 cm e dal diame-tro di 8 mm, probabilmente di elevatopotere di penetrazione.Pur nella scarsità di dati iconografici(ed in parte, appunto, ab silentio) è daritenere, come si accennava, che l’arconon avesse gran peso nella guerradurante la facies villanoviana; poco pre-sente nelle sepolture maschili, e quindinon caratterizzante delle funzioni mili-tari, è invece presente come arma dacaccia a selvaggina anche di grosse pro-porzioni8. L’arco era invece presente da tempimolto remoti nel Mediterraneo orien-tale, dove era diffuso sia nella variantesemplice che in quella composita,ovvero realizzata con un assemblaggiodi materiali diversi, della quale verre-mo parlando più oltre. All’interno delmodo di combattere di quelle regioni,ovvero con formazioni chiuse e schie-rate in campo aperto, l’arco svolgevaun ruolo molto importante, pari aquello dell’artiglieria e del fuocopesante nella guerra moderna. Infattigli arcieri in linea concentravano i loro

colpi di disturbo sulle linee del nemicoprima ancora che con questo si fossearrivati a contatto fisico, ed anzi l’a-vanzata del nemico facilitava la preci-sione del tiro. I reparti di arcieri inol-tre erano in grado, per la leggerezzadel loro armamento, di appostarsi inpunti particolarmente adatti e riparatidal controtiro avversario, e di fuggirevia al primo avvicinarsi della fanterianemica intenzionata a impedirne l’a-zione, come accadde più tardi alla fan-teria pesante di Senofonte (Anabasi,III, 3). La cadenza di tiro era inoltreuna delle arti in cui gli arcieri medio-rientali più si addestravano, e lo stessoTutmosi III sosteneva di aver uccisocon l’arco ben sette leoni “nel giro diun momento”, così come AmenhotepIII ricordava di essersi addestratotirando ben quattro frecce ad altrettan-ti lingotti di rame nel tempo che il suocarro da guerra avanzava velocemente,peraltro perforando completamente ilbersaglio. Anche Assiri e Filistei feceroricorso all’arco nelle battaglie incampo aperto e negli assedi, e nell’An-tico Testamento vari episodi parlano diarcieri e di ferite da freccia, dimostran-do -assieme alle numerose punte rin-venute ed alla copiosa iconografia- chel’arco era in Oriente un’arma bellicamolto comune.L’arco era presente anche nel mondoomerico, ed oltre che nel celebre episo-dio conclusivo dell’Odissea, esso è nomi-nato più volte anche nell’Iliade. Tuttavianelle opere omeriche

“nessuno dei maggiori eroi lo usa, almeno incombattimento; è molto significativo che Ulis-se, andando in guerra, avesse lasciato a casa ilsuo famoso arco. Arcieri sono prevelentementei Troiani e i loro alleati (...) in qualche misura iltipo dell’orientale infido e sleale (...) Non sipuò dire, in conclusione, che l’arco sia banditodel tutto dal codice d’onore dell’eroe omerico(...) arcieri sono personaggi di secondo pianoma non spregevoli, come Filottete, Teucro eMerione. E’ tuttavia evidente che il suo posto èsubordinato: esso è l’arma di chi non sa affron-tare il nemico da pari a pari, come i Grecidovettero considerarlo fino all’inzio dell’etàstorica9”.

Diomede, di fatto, grida a Paride (Ilia-de XI, 386-387): ”Se ti trovassi in duel-lo faccia a faccia con le armi, l’arco e lemolte frecce non ti darebbero aiuto”, ela scarsa stima per chi colpisce da lon-tano tenendosi al coperto è ribaditaanche in Iliade VIII, 266 e segg; IX, 319e segg.; XXI, 481 e segg.: tale opinionedell’arco nel mondo greco ebbe vitalunghissima, come attestano vari passiletterari, in quanto tale arma consenti-va di uccidere senza esporsi ed era dun-que ritenuta appannaggio di chi non siispirava ai valori dell’aretè guerriera,come degli strati sociali più bassi10. Uninteressante studio su arcieri e peltastinell’iconografia attica, dal significativotitolo di “L’autre guerrier”, ci segnalacome

“ce que la nature des documents figurés suggè-re est en effect précisé par bon nombre des tex-tes qui, sur des registres différents, permettentde saisir les rapports d’opposition ou de com-plémentarité qu’entretiennent ces diverses caté-

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gories de guerriers. S’agissant d’un contextehéroique, l’épopée et la tragédie nous en four-nissent plusieurs exemples tout à fait significa-tifs. Le plus clair est probablement le débat,quasi théorique, sur la valeur de l’arc qui dansl’Héraklès d’Euripide oppose Amphytryon etLykos. Ce dernier dénigrant les exploits d’Héra-klès s’exclame en effet: «Mais lui s’acquit, alorsqu’il n’était rien, une apparence de bravouredans ses combats contre les betes et fut incapa-ble de toute autre prouesse. Il n’a jamais tenu unbouclier à son bras gauche ni affronté une lance;portant l’arc, l’arme la plus lache, il était tou-jours pret à la fuite. Pour un guerrier, l’épreuvede la bravoure n’est pas le tir de l’arc; elle consi-ste à rester à son poste, et à voir, sans baisser nidétourner le regard, accourir devant soi tout unchamp de lances dressées, toujours ferme à sonrang». (...) Paris, pour etre pleinement un guer-rier héroique, doit emprunter la cuirasse de sonfrére Lycaon. Ainsi, l’archer doit devenir guer-rier cuirassé au moment du duel, sommet de l’a-rìsteia d’un héros. Le texte homérique accumuleles détails qui soulignent la beauté de Paris etson caractère féminin. (...) Plutarque rapporteles derniers mots, véritablement héroique, d’unde ces hoplites par exellence que sont les Lacé-démoniens, l’anecdote est révélatrice: «Un autretouché par une flèche et perdant la vie dit: je neme tourmente pas parce que je vais mourir, maisparce que c’est de la main d’un archer femelle etsans avoir rien accompli». On retrouve ici lesvaleurs épiques du duel entre héros, de l’arìsteia,opposées à la lacheté de l’archer qualifié duterme qui désigne péjorativement l’hommeeffeminé: gynnis11”.

Sulla limitata presenza dell’arco nellaguerra antica occidentale può gettareluce anche l’affermazione di Strabone(X, 448) che sostiene di aver veduto,ancora nel I sec. d. C., un’iscrizione suuna colonna che proibiva l’uso di qual-

siasi tipo di “proiettile” nella guerradella piana lelantica, avvenuta nell’VIIIsec. a. C.Le citazioni omeriche fanno talora rife-rimento, oltre all’arco semplice, ancheal tipo dell’arco composito (più potentedell’arco semplice) definito (in opposi-zione a quello semplice definito euthyto-nos, ovvero “diritto”), “palìntonos”, ovve-ro “ritorto”, che sfrutta il principio dellacoazione, determinato del ritorno ela-stico che l’arco contempla già per la suaconformazione in costruzione12. L’arco semplice era costruito, sino dallapreistoria, impiegando legno di tasso,olmo e -più raramente- pino13; il tasso(Taxus baccata) -impiegato ancora nelMedioevo per i long bows inglesi e anzicoltivato appositamente per gli archi sindal mandato di un capitolare di Carlo-magno- è un sempreverde della fami-glia delle conifere, caratterizzato dallacrescita di soli pochissimi centimetril’anno. E’ proprio per questo che il suolegno ha una elevata coesione e com-pattezza, in particolare quello italiano,ormai introvabile14.In Egitto gli archi conservati erano inolmo, in acacia ed in bagolaro (Celtisaustralis), un ulmaceo quest’ultimo,chiamato anche “loto libico”, caratteri-stico dell’Europa meridionale e dell’A-frica settentrionale. Si tratta di legnicaratterizzati da fibre lunghe e flessibili,ma relativamente elastiche, di cui siusava un’asta della lunghezza di circacm 160-17015.A differenza dell’arco semplice, costitui-

to da un’asta lignea armata da unacorda, l’arco composito era di diversaforma: le sue estremità, se disarmato, sirivolgevano verso l’avanti, a dimostrarecome esso fosse appunto “ritorto” edunque più potente, con “double or tri-ple the range of a self bow16”. Talecaratteristica lo rendeva estremamentecostoso poiché realizzato con più pezziassemblati in materiali diversi: “thelayering and the lamination of wood,horn, and sinew was done at long inter-vals, and a properly aged bow wouldleave a bowyer’s shop five or ten years

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Archi, frecce, frombole

Ricostruzione di archi medievali, a sinistrauno semplice in legno ed a destra uno composito;Firenze, Museo Archeologico Nazionale

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after he had brought in the raw mate-rials from which it was made17”. Più det-tagliatamente, questo tipo di arco

“era costituito da una sottile striscia di legno -oda un laminato composto di più strisce- a cuivenivano incollate sul lato esterno («dorso»)fasci di tendini animali elastici e sul lato inter-no («ventre») lamine di corno animale, com-pressibile (...) La colla, fatta di tendini e pelled’animale bolliti fino a scioglierli, mescolati inminor proporzione con lische e squame dipesce in poltiglia, poteva impiegare «più di unanno per seccare e doveva essere applicata incondizioni accuratamente controllate di tem-peratura e umidità (...)». Il primo arco compo-sto era fatto di cinque parti di legno, sempliceo laminato: un’impugnatura centrale, due flet-tenti e due estremità. Questo «scheletro» dilegno, dopo essere stato incollato, veniva incur-

vato con il vapore nel senso opposto a quelloche avrebbe assunto quando sarebbe stato teso,e sul «ventre» venivano incollate alcune laminedi corno trattate a vapore. Quindi veniva pie-gato fino a farne un cerchio completo, semprein senso contrario alla sua forma in tensione, esul «dorso» venivano incollati alcuni tendini.Quindi veniva lasciato asciugare e solo quandotutti gli elementi erano indissolubilmente unitiveniva slegato e per la prima volta vi veniva fis-sata la corda18”.

Nonostante questa laboriosità di realiz-zazione l’arco composito era molto deli-cato, e temeva l’umidità19. Quello egizioera formato di legno, tendine e cornoincollati assieme, a formare un arco dicirca 4 piedi (120 cm); quello omerico -detto anche tòxon o bìos- era talvolta

fatto da due corna di antilope o di capraselvatica. Pare infatti che la capra selva-tica, razza originaria di Creta, fosse cac-ciata proprio per le sue grandi cornadestinate alla costruzione di archi20. Inparticolare si narra che quello di Pan-daro fosse, per ciascun corno, lungo 16palmi, ovvero circa 130 cm. La partecentrale di unione, dove avveniva l’im-pugnatura e detta pèkys (Iliade XI, 375;XIII, 583), aveva un elemento di giun-zione in metallo, detto koròne come leguarniture metalliche alle estremità,dove si armava la corda di tendine dibue, definita neurè.Della grande forza necessaria a tender-lo, anche aiutandosi ungendo di grassol’arma o riscaldandola, è testimonianzanotoria l’episodio della sfida tra Ulisseed i Proci; viceversa le frecce eranomolto leggere, lunghe circa due piedi, edefinite con vari termini (ìos, oistòs, tòzov,tòxeuma, in Iliade IV, 125; V, 99; XI, 507,583). All’asta (dònax, Iliade XI, 584) erafissata la cocca pennuta (pterotài glyfìdes,Iliade IV, 122) e la punta -akìs- anche inferro -detta allora sìderon- dotata diuncini (ògkoi, ogkìnoi, Iliade IV, 151; V,293) o di arresti multipli (triglòkis òistos,Iliade XI, 507). La corda entrava nell’in-taglio o glyfìs (Iliade IV, 122)21. No-nostante questa apparente abbondanzadi informazioni, determinati dettaglitecnici sull’arco sembrano comunqueignorati da Omero, vissuto in un’epocain cui nella Grecia continentale le puntedi freccia ritrovate sono rarissime22.Anche presso gli Sciti era largamente

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La lancia, la spada, il cavallo

Ricostruzione di un arco composito medievale, con la corda disarmata - Firenze, MuseoArcheologico Nazionale; nel disegno lo stesso arco disarmato -a destra-, armato -al centro- e allamassima trazione -a sinistra-

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diffuso l’arco composito, sebbene di pro-porzioni probabilmente minori -circa 80cm di lunghezza23-; esso consisteva

“of a wooden core on to which is bound sinew(front side) and horn (back). The elasticity ofthe sinew means that when the bow is drawn itstretches and is put under tension. By contrastthe strips of horn are compressed. Both sub-stances therefore react to propel the arrow. Thebow is fitted with horn endpieces into whichthe nocks for the string are carved24”.

Nell’Etruria villanoviana l’arco sempliceè attestato ad esempio nell’incisione sulrasoio dalla tomba 16 Benacci-Capraradi Bologna, dell’VIII sec. a. C. e giàricordata25; tuttavia è ancora una inci-sione su un rasoio che attesta, nello stes-so periodo, la presenza anche dell’arcocomposito: si tratta di un reperto prove-niente da Vetulonia, oggi al Museo diGrosseto. Su di esso è riprodotto un cac-ciatore che sta tendendo l’arco ed incoc-cando la freccia, nell’intenzione di col-pire uno dei quattro cervi che fuggonodinanzi a lui. La sua arma, propriocome ricordano le fonti letterarieriguardo l’arco composito scita, ha laforma di un sigma, e ciò comprova lapresenza nella prima età del ferro itali-ca di tale tipologia d’arma, seppureimpiegata nelle immagini villanovianesempre per la caccia.Diversamente nella Sardegna nuragicasono numerosi i bronzetti di arcieri, edè probabile che l’arma avesse qui ancheun impiego bellico; lo lascerebbe pensa-re il fatto che con l’arco veniva indossa-

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Archi, frecce, frombole

In alto, rasoio villanoviano con arciere a caccia armato di arco semplice, dalla tomba 16 dellanecropoli Benacci-Caprara di Bologna - Bologna, Museo Civico Archeologico; in basso, altrorasoio villanoviano con un cacciatore armato di arco composito - Grosseto, Museo Archeologicodella Maremma

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to anche l’elmo-copricapo e una difesacorporea, come il corsaletto e/o la pia-stra pettorale, unitamente talvolta alpugnaletto, ed in rari casi alla spada,portata sul dorso tranne che in un caso.Mai lo scudo, per ovvi motivi, ingom-brava gli arcieri sardi26. I tipi di arcoerano rappresentati entrambi, con archicompositi (es.: arciere Lilliu n. 259 daTeti, al Museo di Cagliari) e con archisemplici sia molto lunghi -quasi comeun uomo, ad esempio nel caso dell’ar-ciere Lilliu n. 19 -sia molto corti, comenella statua di arciere da Cabras, in loca-lità Monte Prama.Nei suoi vari tipi l’arco antico aveva unagittata utile estremamente varia, sullecui valutazioni ha creato ulteriore con-fusione la presenza dei due tipi -sempli-ce e composito- dal potenziale moltodiverso; essa è stata calcolata in 50-60metri dal Drews27, ma, secondo le ricer-che di Pope28, poteva invece andare trai 100 ed i 200 metri. L’antico libro giap-ponese dei Cinque Anelli ne sconsiglial’impiego se il nemico è a più di 40metri29. Stime diversificate per tipohanno calcolato il raggio di quello sem-plice in 80-100 metri, e quello del com-posito in 250-30030, confermate sostan-zialmente da altri studi che osservanocome la freccia del secondo fosse piùleggera -circa 30 grammi- consentendouna buona precisione sino a 300 metri,pur raggiungendo distanze ben mag-giori in tiro libero31. Anche il Delbruck-alla prima edizione del suo volumesulla guerra antica nel 1900- si era

posto il problema della reale distanzacoperta dalle frecce; ricordando comeStanley sostenesse di aver tirato ad oltre200 metri con un arco africano, e dicome invece il Reichard in gara con unarciere Watusso avesse raggiunto pocopiù di 160 passi (120 metri), ovveroquanto gli arcieri del Camerun (150-180 passi), il Delbruck notò come gliarchi asiatici (presumibilmente compo-siti e non semplici come quelli africani)avessero una gittata maggiore, comericordava anche un passo di Strabone suun tiro a parabola eccezionale di Mitri-date effettuato ad Efeso, con gittata dioltre uno stadio32. Un antico epigramma greco rinvenutosu un sepolcro di Olbin sul Mar Nero,alla foce del Dniepr-Bug, ovvero inun’area a forte diffusione di archi com-positi di tipo scita, ricorda come Anas-sagora figlio di Dimagora avesse sca-gliato una freccia a 282 klaster o orgyiai(oltre 521 metri). La conclusione è checomunque un tiro abbastanza teso enon a parabola ricadente non dovevasuperare di molto i 200-240 passi33. Lo studio sugli archi e le frecce delPope, tutt’oggi insuperato nonostantedati ad ottant’anni fa, ci consente diacquisire dati tecnici e tecnologici dinotevole importanza per la conoscenzadi queste armi, sebbene come si è dettoesse non risultino diffuse tra le file dicombattenti dell’Italia centrale proto-storica34.La sperimentazione fatta da questo stu-dioso con tredici tipi diversi di archi

(provenienti da raccolte etnologiche enon di ricostruzione da reperti archeo-logici) dette i risultati riportati nellatabella nella pagina a fronte.La potenza che gli archi potevano ero-gare era infatti molto rilevante: l’arcocomposito sprigionava 150 libbre dienergia e certamente perforava unacorazza ad un centinaio di metri35, secome si è già detto Tutmosi III edAmenhotep III si vantavano di averperforato un lingotto di rame da partea parte con le loro frecce. Alcuni ritro-vamenti archeologici nel territorio degliSciti hanno reso scheletri con punte difreccia conficcate per due o tre centime-tri non solo in parti piene del cranio,ma anche in vertebre, a ribadire quantoriporta l’iconografia coeva, dove com-paiono spesso guerrieri dai corsalettiperforati da frecce36. Anche l’arco sem-plice, nelle sue varianti lunghe più accu-rate, erogava una potenza micidiale; gliarchi di olmo di m 1,80, ancora nel1182, avevano perforato con le lorofrecce di un metro le porte di Albergo-venny, composte da solida quercia spes-sa 10 cm, spuntando coi loro ferri all’in-terno. Nello stesso assedio una frecciache colpì un cavaliere ne sfondò la cottadi maglia metallica, trafiggendone lacoscia e anche l’interno della cotta, perattraversare da parte a parte anche illegno della sella e penetrare a fondo nelfianco del cavallo37. In moderne sperimentazioni su tipi diarchi tradizionali, volte a parametrare lecapacità balistiche delle frecce,

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La lancia, la spada, il cavallo

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“si è arrivati a una velocità media di 36 m persecondo, pari a 130 km/h. Prove precedenti inInghilterra avevano fatto concludere che unafreccia in pino, munita di una punta in acciaioe lanciata da un arco di 29,5 kg di forza-peso a7 m, trapassava 140 strati imbottiti di bersaglioper arma da fuoco, contro i 35 strati attraver-sati da una pallottola di fucile calibro 1438”.

Altri esperimenti del Pope

“comprendevano punte smussate in legno ometallo, punte coniche in metallo, punte inossidiana, lame in acciaio e punteruoli, e puntecoi barbigli. Queste vennero lanciate unifor-memente contro assi di legno di pino frescodello spessore di 22 mm e contro sagome dianimali consistenti in involucri aperti ai lati,riempiti con fegati animali e rivestiti di pelle dicervo. Le punte di freccia smussate venivanorespinte dal corpo cedevole, ma riuscivano apenetrare quello di animali piccoli, le cui ossapotevano opporre resistenza e quindi spezzar-si. La punta in ossidiana trafisse la sagoma, emolte delle punte di freccia in metallo più

pesante penetrarono altrettanto bene nellasagoma o la trapassarono completamente.Nessuna, comunque, è apparsa così efficacecome l’ossidiana, il cui bordo ondulato tagliavameglio di qualsiasi bordo liscio in metallo39”.

Quest’ultima osservazione giustificaforse la prolungata adozione, anche inItalia centrale, di punte in pietra, checome si è visto appaiono talvolta, pursporadicamente, in contesti dell’età delferro avanzata. Quanto agli effetti dellefrecce ed al confronto tra la potenzad’urto di esse, rispetto a quella di pal-lottole moderne, fu notato che

“la lacerazione dei tessuti provocata da unapallottola è assai più ampia di quella di unafreccia, ma il taglio più netto di una freccia pro-voca una perdita di sangue più rapida e puòprovocare la morte più rapidamente. Il taglionetto permette inoltre a un animale ferito lie-vemente di riprendersi più rapidamente40”.

La presenza di un tiro di sbarramento adistanza da parte degli arcieri aveva uneffetto importante sulle tattiche di avvi-cinamento delle schiere negli esercitiantichi; infatti, una volta trovatesi incampo scoperto, le formazioni suffi-cientemente compatte erano costrettead effettuare l’ultima parte dell’avanza-ta a passo di carica, per coprire almenoi 100-150 passi finali nel minor tempopossibile, riducendo il tempo di esposi-zione ai dardi. Anche Clearco a Cunaxadiede appunto l’ordine di coprire l’ulti-ma parte di avanzata in corsa per nonessere bersaglio dei proietti (Polieno, II,2, 3); evidentemente “the running pacehad the double purpose of strenghthe-ning the weight of the impact, bothphysically and from the morale point ofview, and of outrunning the rain ofarrows41”. In effetti l’arco consentiva untiro preciso a distanze ragguardevol-mente superiori a quelle massime dilance e giavellotti, con una minoredipendenza dalla forza del braccio delguerriero rispetto alla spada o alla lan-cia; la possibilità di tirare dal coperto ospostandosi individuava altri vantaggi,che però erano ampiamente legati altipo di schieramento adottato, come alterreno. Infatti “in un’epoca di esercitidi massa, con truppe anonime raggrup-pate in reggimenti per concentrare laforza di uccisione, l’arco si dimostròun’arma efficace e spesso mortale42”;tuttavia, in aree dove il terreno era pocopianeggiante -si pensi alla Grecia edancor più all’area italica- e di conse-

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Archi, frecce, frombole

Tipo Materiale Lungh. cm Apertura cm Forza peso kg Gittata m

Apache hickory 104 56 12,7 110Cheyenne frassino 114 51 30,5 150Cheyenne frassino 61 36,5Tartaro composito 188 71 13,7 91Tartaro composito 91 102Tartaro composito 188 74 45 82Tartaro composito 91 100Polinesiano legno duro 200 71 22 149Turco composito 122 74 38,5 229,

243,257

Inglese tasso 200 71 24,7 169Inglese tasso 91 32,7 107,

194Inglese tasso 183 91 28,1 208Inglese tasso 173 71 31,7 224

(Da Coles, Archeologia sperimentale, cit., pag. 121.)

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guenza i reparti, poco numerosi, nonerano largamente schierati, l’impiego ditale arma usata per la caccia ebbe unascarsa fortuna. Utile nell’agguato, l’arcoconsentiva di abbattere un cervo all’in-terno di un branco di quattro o cinquecapi, come dimostrano le scene incisesui rasoi villanoviani; similmente, in unagguato tra guerrieri in terreno mossoo boscoso, probabilmente con l’arco erapossibile sorprenderne alcuni ma,immediatamente dopo, la fuga o la cari-ca dei sopravvissuti richiedeva altrearmi ed altre abilità di combattimento,ovvero quelle dell’aretè celebrata in Gre-cia da Omero, e palesemente diffusaanche nell’Etruria villanoviana, fattoquesto che spiega la scarsa diffusionedell’arco nelle sepolture entro panoplieguerresche.E’ interessante notare, seppur breve-mente, che l’uso dell’arco richiede alle-namento per conseguire la precisione,ma anche per la potenza muscolare, eduna relativa attenzione a proteggersiparti esposte, che oggi determina l’im-piego di parabraccio -già noto nellapreistoria- paraseno e guantini43. Una riflessione a parte va riservata adaltre armi da lancio, ovvero alle from-bole, anche se di esse l’utilizzo bellico inarea villanoviana non è attualmentesostenuto da alcuna prova. Queste armi, la cui portata media èstata stimata da alcuni in circa 100 m44

e da altri in oltre 300 m45 (sebbene atale distanza massima la precisione e laforza di penetrazione fossero modeste),

proprio per la loro totale deperibilitànon sono in alcun modo testimoniatetra i materiali protostorici rinvenuti, eneanche attestate iconograficamente.Assenti, per l’inizio dell’età del ferro,sono anche i proiettili appositamentemanufatti, noti invece per l’età arcaicaed ellenistica in Etruria.La conformazione delle frombole, man-tenutasi elementare anche in epochepiù recenti, è facilmente ricostruibile;esse infatti non erano nulla più che unacorreggia di cuoio, tessuto o altro mate-riale che, più sottile alle estremità, pre-sentava al centro una modellazione con-cava dove veniva alloggiato il proiettileda lancio -una pietra, un peso fusiformedi terracotta o di metallo-. La tecnica dilancio prevedeva di far roteare la from-bola tenendola per le estremità e, unavolta raggiunta la massima velocità, dilasciarne uno degli estremi, mentre l’al-tro era fissato alla mano o al polso, con-sentendo che la forza centrifuga liberas-se il proietto. Quest’ultimo era, secondoi tipi e le epoche, di 30-40 grammi46, odi 25-30 grammi47.Anche in questo caso chi scrive ha effet-tuato una sperimentazione diretta che,dopo vari tentativi di messa a punto, haprevisto una sessione di 30 tiri. E’ emer-so che l’arma deve essere costituitanecessariamente da una stretta correg-gia, o da una stoffa ritorta, o da unacorda singola, di almeno 1 metro di lun-ghezza complessiva, dotata al centro diun alloggio -riportato o ricavato nellastriscia stessa- dove collocare i proietti.

L’utilizzo di una larga fusciacca di tela anastro è assolutamente impraticabile, inquanto nel lancio essa tende ad arroto-larsi, impedendo il rilascio al tiro. L’ar-ma impiegata con migliori risultati erauna elementare striscia di stoffa di cm110, bloccata con nodi a formare duecordoni ed un alloggio allungato al cen-tro. Per l’impugnatura è risultato effica-ce l’avvolgimento dell’estremità poste-riore all’indice destro, ed il bloccaggiodell’anteriore tra pollice ed indice. Latecnica di tiro non richiede, contraria-mente a quanto sembrerebbe, la neces-sità di molteplici giri (roteando l’armaverticalmente, dal fianco destro) sino adottenere una elevata velocità; è suffi-ciente anche un solo giro in senso ora-rio, col seguente rilascio delle puntaanteriore dell’arma appena si applicanuovamente una trazione verso l’avantialto, e la funda è ancora indietro. Ilproietto parte così verso l’alto avanti,con una parabola curva a ricadere; peresso è stata sperimentata una gamma divari pesi, tra i quali i più idonei si sonodimostrati quelli di forma arrotondata o“ad oliva” rispetto ad oggetti spigolosi.Se con un proietto di 30 gr il tiro si atte-

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La lancia, la spada, il cavallo

Alcune immagini delle prove sperimentalidell'utilizzo della frombola; in alto, da sinistra,caricamento della ghianda missile, oscillazione

perpendicolare al terreno della frombola,slancio per il getto; in basso, da sinistra,oscillazione della frombola e lancio del

proietto; a destra, caricamento per laroteazione parallela al terreno

della frombola e lancio

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sta mediamente su una gittata di 40-50metri, i risultati più interessanti si rica-vano con proietti ovali in piombo dalpeso di 50 e 70 gr, con una gittatamedia di 60 metri, ma con punte mas-sime di 90-100 metri48. Sulla presenza di queste armi nell’Etru-ria villanoviana sono attualmente possi-bili solo delle illazioni, peraltro di segnocontrario tra loro. Infatti tecnicamenteesse dovevano essere certamente cono-sciute, vista la tecnologia elementarealla loro base, la loro diffusione nelmondo antico sino da epoche remote,l’economicità e la facilità di maneggio.Quest’arma, usata ancora oggi in variezone del mondo dai pastori per lancia-re una pietra alle pecore sbandate dalgregge, era largamente diffusa nelMediterraneo orientale antico, anche inepoca veterotestamentaria49, e sembra

attestata nell’Iliade (XIII, 599, XIII,716) dove si fa riferimento ad una sortadi correggia di lana intrecciata (sphendò-ne) atta al combattimento da lontanodei Locri, ma che potrebbe essere ancheidentificata con una particolare cordada arco. Di certo la nomina Archiloco inuno dei suoi frammenti.Tra le truppe di Roma l’adozione dellafionda è attestata dalle fonti letterariesolo nell’esercito serviano, dove la quin-ta classis “fundas lapidesque missiles hi secumgerebant” (Livio I, 43). La segnalazioneche l’uso era limitato a coloro che eranoai limiti inferiori della disponibilità eco-nomica del census sufficiente a militarenell’esercito fa presumere comunqueche l’impiego anche di tale arma fossepoco onorevole ed ammesso solo in sededi riforma “democratica”. In effetti l’i-deologia guerriera dell’aretè nella prima

età del ferro non attribuisce valore che aiguerrieri armati di lancia o di spada,mentre la funda sembra più un attrezzoda caccia “povera” e quotidiana per ilsostentamento50, nonché un attrezzo inuso presso i ragazzi ed i pastori. Nondi-meno va osservato che vari eroi omericisi scagliano grosse pietre durante le bat-taglie -pur a mano e senza fionde- e, inben quattro casi, con esiti mortali, inquanto il tiro raggiunge la testa siacoperta dall’elmo che non. E’ inoltre dif-ficile pensare che l’adozione ufficializza-ta nell’esercito serviano della funda nonfacesse seguito ad un precedente impie-go, magari non costante, di quest’arma“povera” in campo militare, che comel’arco era comunque tatticamente pocoadatta a tiri isolati, e più efficace in salvedi molti tiratori contro reparti in forma-zione su campo aperto51.

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Note

1 Drews, cit., pag. 104 e segg.2 A Populonia, si veda Talocchini, cit., pag. 24tipo A.3 A Bologna, ripostiglio di San Francesco; aVeio-Quattro Fontanili, tomba Va.4 Attestato da un esemplare da una tomba a poz-zetto del Poggio alla Guardia a Vetulonia; si vedaTalocchini, cit., pag. 25 tipo B.5 Poggio alla Guardia, Vetulonia, in Talocchini,cit., tav. V, 27 ab.6 Nel ripostiglio di San Francesco a Bologna.7 A Populonia.8 Nell’iconografia incisa sul rasoio dalla tomba16 Benacci-Caprara di Bologna, dell’VIII sec. a.C., dove si riconosce un arciere che raggiunge alcollo un cervo con una freccia.9 Pietro Janni, Il mondo di Omero, cit., pag. 16210 Su tale argomento si veda Hanson, L’arte occi-dentale della guerra, cit., pagg. 25-26.11 Lissarrague, L’autre guerrier, cit., pagg. 16-19.12 Si veda Franco Laner, Stati di coazione nellestrutture lignee, in “Il restauro del legno”, vol. I,Firenze, 1989, pag. 145 e segg. 13 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 96.14 Si veda De Florentiis, Storia delle armi bian-che, cit., pag. 134.15 Si veda De Florentiis, Storia delle armi bian-che, cit., pag. 64.16 Drews, cit., pag. 110.17 Drews, cit., pag. 110.18 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,pagg. 166-167.19 Perciò era inadatto a lunghe permanenze suimbarcazioni, come rileva Drews, cit., pag. 224;forse anche per questo il bell’arco di Ulisse nonera nella piana di Troia ma era rimasto nel palaz-zo di Itaca.

20 Si veda John Chadwick, La vita nella Greciamicenea, in “Le Scienze” n. 53, gennaio 1973,pagg. 52-53.21 Per tutte queste osservazioni ed altre, si vedaBotto Micca, Omero medico, cit., pagg. 50-52.22 Si vedano Snodgrass, Armi e armature deiGreci, cit., pag. 47 e segg.; Drews, cit., pag. 124e segg.23 Si veda Cernenko, The Scithians, cit., pag. 11.24 Warry, Warfare in the Classical world, cit.,pag. 42.25 Un disegno è in Camporeale, Le prime scenenarrative nell’arte etrusca, cit., pag. 21 ill. 8.26 Si veda per queste associazioni in Tronchetti,L’iconografia del potere nella Sardegna arcaica,cit., pagg. 208, 214-215.27 Drews, cit., pag. 105.28 S. T. Pope, A study on bows and arrows, in“Univ. Calif. Publ. Amer. Arch. and Ethnol.”,1918, n. 13, pagg. 329-414.29 Vedi in Musashi, Il Libro dei Cinque Anelli,cit., pag. 31.30 Vedi in Hobbs, L’arte della guerra nella Bib-bia, cit., pag. 97.31 Vedi in Keegan, La grande storia della guer-ra, cit., pag. 167.32 Si veda in Delbruck, Warfare in antiquity, cit.,pagg. 89-90.33 Si veda in Delbruck, Warfare in antiquity, cit.,pag. 90, ed in Cernenko, The Scithians, cit., pag.12. 34 Va premesso, per una conoscenza dell’arma,che “l’arciere medio può tendere un arco per nonpiù di 73 cm, misura corrispondente all’incircaalla distanza del braccio sinistro teso dal bracciodestro piegato: la maggior parte degli archi india-ni su cui si effettuarono gli esperimenti prevede-va un’apertura media di 65 cm”. Da Coles,Archeologia sperimentale, cit., pag. 120.Le tecniche di lancio prevedono due metodi,ovvero quello sioux e quello inglese: ”in quelloindiano tutte le dita e il pollice sono sulla corda,

e la colla della freccia è tenuta dal pollice e dal-l’indice, mentre nel metodo inglese indice,medio e anulare tendono la corda e la freccia ètenuta tra indice e medio, senza utilizzare il pol-lice”. Da Coles, Archeologia sperimentale, cit.,pag. 120.Gli archi sperimentati, pur essendo di interesseetnologico e non archeologico, erano tecnica-mente affini a tipi antichi, ed erano realizzati inmateriali molto vari: ”comprendevano quelloapache in hickory, quello cheyenne in frassino,quello in legnoferro africano, gli archi composititartari e turchi (corno, metallo, legno e tendine),i lunghi archi inglesi in tasso. Esperimenti sulegno di tasso hanno mostrato che il legno agrana fine rossastro era più resistente dell’albur-no biancastro: quest’ultimo peraltro era estrema-mente elastico e poteva essere piegato in duesenza rompersi. Si sono provate corde d’arco infibra di lino, in fibra di seta, in budello di gatto ein fibra di cotone fino al punto di rottura, e le piùresistenti risultarono le fibre in lino irlandese di60 fili, con un diametro di 3 mm”. Da Coles,Archeologia sperimentale, cit., pag. 120.35 Si veda in Keegan, La grande storia dellaguerra, cit., pag. 167.36 Si veda in Cernenko, The Scithians, cit., pag.12.37 Si veda in De Florentiis, Storia delle armibianche, cit., pag. 132.38 Da Coles, Archeologia sperimentale, cit., pag.122.39 Da Coles, Archeologia sperimentale, cit., pag.122.40 Da Coles, Archeologia sperimentale, cit., pag.123.41 Delbruck, Warfare in antiquity, cit., pag. 79.42 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 100.43 Il tiro, oltre a poter comportare occasionaliecchimosi alla superficie volare dell’avambrac-cio a causa della corda, può provocare, per la sol-

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lecitazione del cingolo scapoloomerale suentrambe le spalle, la cosiddetta “sindrome daconflitto acromion-omerale”, che compareattualmente nel 26% degli arcieri sportivi e cheprovoca fastidio e dolore reversibili con riposo,nonché evitabili con una corretta tecnica. Ancheil gomito, se sovraccaricato, può venire interes-sato da patologie, come l’epicondilo medialedove si inseriscono i muscoli flessori delle dita,con occasionali dolori e parestesie, che possonoessere eliminate con un miglioramento del gestoatletico ed un controllo dell’attrezzatura. Nelcomplesso, comunque, la scorretta esecuzionedel tiro è dovuta, nel 95% dei casi, alla mancan-za di adeguato allenamento per la forza e la resi-stenza necessarie; in tale caso l’arciere cerca dicompensare con l’innalzamento della spalla, maciò comporta la diminuzione dell’allungo, l’in-stabilità durante la mira, una necessità di mag-

gior sforzo e l’abbassamento della traiettoriadelle frecce. D’altronde la forza necessaria permettere in tensione l’arco è in media il 42% circadella massima forza isometrica nei maschi, e adessa tende ad assommarsi il fenomeno dell’affa-ticamento progressivo; anche le piccole oscilla-zioni del corpo nel tiro hanno effetti sulla rosataa bersaglio, che migliora con la diminuzione del-l’area di spostamento del baricentro. Per questeosservazioni sulle caratteristiche mediche, bio-meccaniche e fisiologiche del tiro con l’arco siveda Annalisa Voltolini, Arco e frecce - Tiro conl’arco, in “Sport e medicina” n. 4, luglio-agosto1998, pagg. 33-36, e Alberto Scarchilli, PierluigiBruni, Come dei Robin Hood, in “Sport e medi-cina” n. 4, luglio-agosto 1998, pagg. 37-39.44 Si veda Coles, Archeologia sperimentale, cit.,pag. 125, e Warry, Warfare in the classical world,cit., pag. 42.

45 Fossati, cit., pag 18.46 Si veda De Florentiis, Storia delle armi bian-che, cit., pag. 56.47 Si veda Warry, Warfare in the classical world,cit., pag. 42.48 Si ringrazia Matteo Cecchi per la collabora-zione offerta nelle prove di tiro, nell’osservazio-ne della tecnica e nelle misurazioni delle gittate.49 Si veda in Hobbs, L’arte della guerra nellaBibbia, cit., pag. 100 e segg.50 Si veda l’immagine di individuo con frombo-la abbigliato con una semplice tunichetta inorna-ta, come quella dei pescatori e dei servi, nell’af-fresco della tomba arcaica tarquiniese della Cac-cia e della Pesca.51 Si ricordi che comunque l’arco non comparetra le armi adottate nell’esercito serviano.

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In uno studio apparso nel 1984 duericercatori hanno ipotizzato che dei par-ticolari oggetti diffusi tra il IX secolo e lafine dell’VIII sec. a. C. in area laziale efalisco-capenate, in Etruria e nell’Italiacentromeridionale, attestati esclusiva-mente in tombe femminili, non fosseroornamenti ma armi da getto1.Si tratta dei cosiddetti “anelli da sospen-sione”, che sono stati rinvenuti in sepol-ture a fossa, ancora inseriti nell’ardiglio-ne di fibule, sistemati sugli abiti all’al-tezza delle spalle, del petto o del ventre,talora anche in gruppi di dimensionidecrescenti, e normalmente ritenutiornamenti. La presenza in sepolturefemminili particolarmente ricche hafatto ritenere che fossero appannaggiodi donne di rango elevato.Ad una serie di analisi tecnologiche echimiche è emerso che i dischi anulari,pur di diverso diametro, hanno in gene-re una fascia larga tra i 17 ed i 19 mm,la cui sezione più frequente

“è rappresentata da due triangoli isosceliaccoppiati per la base; il triangolo che forma ilmargine esterno ha una altezza spesso quasidoppia di quello interno. Un secondo tipo disezione assai diffuso è un parallelogrammaappiattito (...) Un terzo tipo di sezione è carat-teristico dei dischi anulari più appiattiti (inrealtà più perfezionati) ed è definibile come unvero e proprio profilo alare portante aerodina-mico (profilo che si ottiene sezionando ortogo-nalmente un’ala di aeroplano o di aliante); lasezione è praticamente riconducibile a untriangolo scaleno estremamente appiattito,con lati appena leggermente curvi2”.

Il peso medio “per esemplari di diame-tro esterno compreso tra 200 e 90 mm(...) oscilla tra 210 e 45 grammi”; la suaconsistenza è dovuta ad una costanteelevata presenza, nelle lega bronzea, dipiombo (dal 15 al 25%):

“è logico supporre che tale caratterizzazionedovesse rispondere, oltre alla migliore fusibili-tà della lega, alle particolari esigenze di un’ar-ma da getto di ridotte dimensioni e peso, chedoveva associare al modesto volume il massimo

peso specifico, per conservare a distanze utiliuna sufficiente energia balistica offensiva3”.

Il metallo, inoltre, risulta ottenuto perfusione e poi martellato sui marginiesterni; questo incrudimento meccani-co per battitura, come si è visto parlan-do delle spade, è l’unico, su metalli dut-tili non ferrosi, che consenta l’aumentodi resistenza meccanica. Infine il filoesterno dei dischi anulari risulta leviga-to per abrasione e affilato a tagliente,con l’uso di coti in pietra inclinate di 10-20 gradi rispetto al bordo; il margineinterno risulta invece solo grossolana-mente limato. Con un filo taglientecome quello di una spada i dischi pote-vano rappresentare

“una speciale categoria di armi bianche dagetto (almeno per gli esemplari di maggioridimensioni), di specifico impiego femminile(...) Il disco anulare tagliente, opportuna-mente profilato, se maneggiato con destrez-za, era uno strumento d’offesa particolar-

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Delle ipotetiche armi femminili:gli anelli da getto

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mente efficace alle medie distanze, capacedi provocare ferite mortali da percussione etaglio, penetrando in profondità come unalama di spada con energia concentrata in unsolo punto, con effetti devastanti sui tessuti esulle strutture ossee4”.

Un’arma di simile tipo trova riscontronel cosiddetto chakram indiano del Pun-jab –e noto anche come quoit-, usato daiSikh che ne portavano “gruppi di sei-otto, con un diametro variabile a scalarein media tra 230-220 e 120-100 milli-metri, infilati su una specie di lungobastone di forma leggermente conicarivestito di stoffa. Talora si portavanoanche infilati sul braccio o su di un par-ticolare turbante conico5”. Anche inquel caso si trattava di un disco anulare“made of beautiful thin steel, someti-mes inlaid with gold (…) accordino totheir own account to be sure of theirman at 80 paces6”.I metodi di lancio del chakram -e dun-que per ipotesi anche dei “dischi dagetto” del IX-VIII sec. a. C.- erano due:

“Il primo consisteva nel far ruotare veloce-mente il disco su un dito, incrementando lavelocità di rotazione fino a quando l’arma,uscendo verso l’alto, poteva assumere unatraiettoria rettilinea opportunemente indiriz-zata verso il bersaglio. Il secondo metodo, cheforse era anche quello di più facile esecuzione,consisteva nell’imprimere una rotazione aldisco, tenendolo stretto tra due o tre dita, almomento del lancio in direzione del bersaglio.Da quanto ci è noto sembra che un abile lan-ciatore Sikh potesse colpire un uomo in puntivitali a oltre 50-60 metri di distanza7”.

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La lancia, la spada, il cavallo

A sinistra, ricostruzione dell'abbigliamento della donna nella tomba 11 della necropoli di LaRustica -fase laziale III, seconda metà VIII sec.a.C.-; a destra, ricostruzione della donna dellacoeva tomba 83 della stessa necropoli. Entrambe recavano quale ornamento degli anelli di bronzo

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Delle ipotetiche armi femminili: gli anelli da getto

Di fatto, la suggestiva ipotesi presentavari punti deboli, ed in particolare nonè chiaro perché un’arma così utile fosserelegata alle sole donne, giacché sareb-be stata certo funzionale anche in com-

battimenti di guerrieri, presso i qualituttavia non compaiono mai né questené altre armi basate concettualmentesullo stesso principio dell’arma rotanteda getto.

Inoltre, anche se l’affilatura del margineesterno appare effettivamente inutileper un ornamento, non va dimenticatoche alcuni anelli recano imprigionatisulla fascia altri anellini che ne impedi-scono senz’altro il lancio; l’impiego inipotesi alternativa (suggerita nello stes-so articolo8) come raschiatoi per pelli,pur spiegando meglio la gammadimensionale dei reperti, non sembraattagliarsi molto al ruolo di status-symbolper donne di elevato rango sociale, perle quali sembra in quest’epoca più pre-stigioso il ruolo di filatrice/tessitrice, edin particolare quello di addetta altelaio9.L’uso degli anelli da sospensione comearmi è dunque ancora tutta da compro-vare ed assodare, ma comunque un’ipo-tesi di tale genere è di importante sti-molo alla continua analisi attorno alreale uso degli oggetti dell’antichità, iquali spesso -privi di un’articolata conte-stualizzazione d’uso e di una sperimen-tazione- possono venire identificati erro-neamente per similitudini solo esteriori.

Riproduzione delle due facce di un anello da getto indiano -chakram o quoit- e tecnica per il suolancio. Da Lord Egerton of Tatton, Indian and oriental arms and armour, London, 1896

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La lancia, la spada, il cavallo

Note

1 Rita Cosentino, Guido Devoto, I “dischi dagetto”, armi femminili dell’antico Lazio, in “LeScienze”, maggio 1984, n. 189, pagg. 34-41.2 Da Cosentino-Devoto, cit., pag. 36.3 Da Cosentino-Devoto, cit., pag. 37.4 Da Cosentino-Devoto, cit., pag. 37.5 Da Cosentino-Devoto, cit., pag. 39.6 Lord Egerton of Tatton, Indian and OrientalArms and Armour, London, 1896, riedito aMineola, New York, 2002, pag. 128.

7 Da Cosentino-Devoto, cit., pag. 39.8 Cosentino-Devoto, cit., pag. 40.9 Le raffigurazioni dell’Etruria padana su pen-denti metallici femminili e su altri oggetti, confrequenti riferimenti e dettagliate scene di tessi-tura da parte di donne, sono state accuratamenteindagate sia archeologicamente che ideologica-mente. Peraltro, il prestigio dell’esperta tessitri-ce a telaio entro comunità ristrette è perduratonelle campagne toscane fino al XX secolo; lastessa nonna paterna di chi scrive, LeonildaBarneschi nei Martinelli, era nota nel suo paesedi origine, Frassineto di Arezzo, per essere una

delle donne sposate più capaci della piccolacomunità contadina, nella prima metà delNovecento, nell’uso e nell’”armatura” del telaiocasalingo, col quale ogni famiglia autoproduce-va pezze di stoffa destinata alla biancheria ed aicorredi delle spose. Tale prestigio, basato suesperienza e manualità, faceva dell’esperta tes-sitrice un personaggio invitato ad impostare deilavori particolarmente complessi presso le variefamiglie, ed anche la “fornitrice” di pezze tessu-te alla famiglia nobile del posto, in questo casoi Conti di Frassineto.

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La cavalleria fu un reparto che, all’in-terno dell’Italia centrale protostorica edin particolare della cultura villanoviana,venne ad emergere in quanto élite, comedimostrano vari reperti e numerosefonti iconografiche.Per comprendere appieno l’importanzadi questo fenomeno è necessario com-piere un passo indietro nel tempo, allaricerca dell’addomesticazione del caval-lo nell’ambiente italico e del primo uti-lizzo quale cavalcatura.In area italica il cavallo è stato lunga-mente oggetto di caccia a fini alimenta-ri sino dal Paleolitico, come dimostranocampioni faunistici nell’area dell’Ap-pennino relativi al cavallo delle steppe,o Equus asinus hydruntinus; nel Paleoliti-co superiore tale caccia era molto diffu-sa, come attesta l’ingente quantità diresti di cervi e di cavalli a Grotta Polesi-ni, o a Grotta Maritza, e appare eviden-te che gli spostamenti della popolazio-ne umana seguivano quelli stagionali

delle mandrie di quadrupedi selvatici1.Il cavallo, come è stato recentementeribadito2, fu adibito per la prima voltaall’uso di cavalcatura attorno al 4000 a.C. in seno alla cultura di Sredni Stog inUcraina; l’analisi della dentatura inalcuni resti del cranio di equini rinve-nuti in siti di tale facies ha infatti mostra-to la presenza di usura da morso e lospostamento della dentatura dovutoappunto all’imbrigliatura della bocca.In questa epoca -quando ancora nonera stata introdotta la ruota- alcunicavalli di 7-8 anni portavano dunquemorsi in cordame, completati da reggi-morso in corno, assurgendo ad un uti-lizzo diverso da quello alimentare,peraltro attestato nella stessa area enello stesso periodo. Solo gli esemplari“da sella” erano oggetto in Ucraina diuno speciale rito, nel quale, dopo esse-re stati uccisi, il cranio ancora connessoquanto meno con gli arti anteriori, lacolonna vertebrale e la pelle veniva

deposto in luoghi sacri, assieme a cani,figurine di cinghiali e di uomini, oltre almorso3.Il consolidarsi dell’allevamento equinoin Europa orientale e la diffusione versooccidente, forse compresa l’Italia, è attri-buita ai gruppi del Campaniforme, cheadibirono il cavallo ad usi di lavoro e difonte alimentare. Probabilmente esso erastato introdotto nell’Europa continentaledall’Ucraina attraverso la zona mitteleu-ropea4 e da qui era giunto nella partecontinentale dell’Italia. In Italia centraleil cavallo domestico fa la sua comparsagià durante l’Eneolitico a Maccarese,presso Fiumicino, dove un esemplarevenne sepolto nell’abitato in un appositopozzetto verso il 2400-2300 a.C. Nell’e-neolitico maturo (2000 a.C. circa) ilcavallo è attestato alla Querciola di SestoFiorentino5 dove sono state rinvenuteossa equine di due animali di oltre 15anni, quindi lungamente impiegati per illavoro. E’ molto importante notare che i

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I cavalli in guerra

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due cavalli di Sesto non erano della stes-sa stazza dei cavalli presenti nell’età delbronzo in Italia, ma di taglia medio pic-cola -inferiore a quella diffusa in seguito-e di forme gracili, ben diverse da quelletozze e robuste attestate nel bronzo6. Il cavallo venne poi a diffondersi duran-te l’età del bronzo antico prevalente-mente nell’Italia settentrionale7; la dif-

fusione si sarebbe verificata forse graziead un apporto etnico dalla regionedanubiana costituito da individui che,già presenti a Canar (Rovigo) nel bron-zo antico, avrebbero poi partecipato allacolonizzazione della pianura padana,poco abitata, caratterizzandosi forse

proprio come latori del cavallo dasella8. Testimonianze di alta antichità diossa di equini addomesticati provengo-no dagli insediamenti di Barche di Sol-ferino (Mantova) e Sonnenburg (Bolza-no), risalenti al bronzo antico9.E’ degno di rilievo che, alla luce deiritrovamenti sestesi, sia smentita la piùvolte asserita assenza del cavallo dome-stico durante il bronzo antico nell’Italiacentro-meridionale. Esso risulta invecegià presente nella fase iniziale del bron-zo medio nella terramara di Tabina diMagreta (Modena), ed adibito a mezzodi trasporto, forse anche a cavalcatura,in varie terramare dell’età del bronzomedio, dove risultano presenti deimorsi in osso. Infatti

“le testimonianze di oggetti in corno ed ossosono molto abbondanti nell’area terramarico-la. La loro frequenza e la molteplicità tipologi-ca che comprende utensili, armi, ornamenti,morsi equini ecc. fa ritenere che questa produ-zione rivestisse un ruolo particolare nell’ambi-to dell’attività artigianale delle terramare10”.

La consistenza numerica dei reperti è dav-vero considerevole nel Parmense (27pezzi) e nel Modenese (17), mentre unsolo montante proviene dal Reggiano, eduno proviene anche da Sant’Agata Bolo-gnese, in località Montirone (dello stessotipo di Montale e Castione)11, con unaconcentrazione spaziale di interesse:“l’importanza di questi ultimi pare ancheconfermata dal numero di siti in cui sonopresenti: 7 fra Parma e Piacenza, 1 reggia-no e 2 modenesi12”. Dunque “l’economia

primaria delle Terramare risulta basatasull’allevamento (...) in misura minore deicavalli, usati probabilmente come animalida trasporto e da guerra13”.Nel bronzo medio il cavallo apparedunque presente, per crescere ancoraquantitativamente nel bronzo recente efinale. A Monte Rovello, ad esempio,resti di cavalli sono attestati in tutti idiversi livelli del sito, con esemplari dichiara derivazione dalle forme domesti-che europee, ancora di età adulta omolto matura come sembra adeguatoad animali adibiti al lavoro14.Nell’Italia centro-meridionale a sud del-l’Appennino risalgono al bronzo medio iresti osteologici di un cavallo e di un altroequide dall’area circostante il tumulo diVicarello presso il Lago di Bracciano15,come risalgono al protoappenninico identi di cavalli molto vecchi che sono statirinvenuti alle Paludi di Celano (Aquila) ea Tufariello di Buccino (Salerno). Tra ivari insediamenti appenninici che hannoreso ossa equine si ricordano Monte diSanta Croce (Ancona), e Tufarelle suiMonti della Tolfa. Più incerta è la data-zione al bronzo medio iniziale delle ossada Luni sul Mignone16, come quella albronzo recente o finale dei resti di 4esemplari da Scarceta (Viterbo), non lon-tano da Sorgenti della Nova dove sonoattestati l’Equus caballus e l’Equus asinus17.L’ampliamento della presenza delcavallo nel bronzo medio e le trasfor-mazioni sociali in tale periodo nonsono sfuggite agli studiosi, che hannorilevato come sia

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La lancia, la spada, il cavallo

Coppia di cavalli riprodotti nella partesuperiore di un alare in terracotta dall'abitatovillanoviano di Bologna - Bologna, MuseoCivico Archeologico

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“di estrema importanza per comprendere lasocietà di questo periodo (...la) diffusione delcavallo (... insieme a) intensificazione dell’occu-pazione e dello sfruttamento del territorio,aumento demografico, scelta preferenziale diposizioni di valore strategico per l’impiantodegli insediamenti, progressiva affermazionedi assetti politico-territoriali stabili ed organiz-zati, diffusione dell’uso di fortificazioni artifi-ciali, evoluzione delle tattiche belliche con lageneralizzazione della spada (...) e l’uso verosi-milmente bellico del cavallo, attenuazione diforme «statiche» di tesaurizzazione dei beni(...), inizio di rapporti di scambi organizzatianche a lunga distanza, notevole articolazionedelle pratiche socio-rituali (...), tombe costruitemonumentali e tombe ipogee (spesso con cor-redi d’armi e di ornamenti) probabilmenteriservate solo a un segmento della popolazio-ne, diffusione d’altro lato anche di sepolcreti acarattere «egualitario» con fitto addensamentodi incinerazioni o inumazioni18”.

Più recentemente, è stato notato che ilcavallo, già usato per il tiro in Italia, vieneadibito dal bronzo medio all’impiegobellico, e che la contemporanea diffusio-ne delle spade lunghe non appare casua-le, ma collegata a creare un binomio i cuieffetti sono “un fatto dirompente19”;anche altri studi hanno ribadito che

“solo a partire dalla media età del bronzo,verso la metà del secondo millennio a.C., èdocumentata una presenza diffusa dell’anima-le, testimoniata non solo dall’aumento di ossaequine negli insediamenti ma anche indiretta-mente dai numerosi montanti di morso incorno di cervo e dalle prime ruote di carro. Inquesto momento compaiono inoltre nella pro-duzione metallurgica italiana le prime spadelunghe da fendente, probabilmente l’armausata da guerrieri a cavallo20”.

L’Equus caballus Linnaeus di questaepoca risulta di statura media o medio-piccola, con una taglia inferiore allevarietà orientali; esso mostra zoccolimolto larghi e, negli esemplari dell’Ita-lia settentrionale e centrale adriatica,risulta essere stato utilizzato in età adul-ta o addirittura in vecchiaia, il che fapresumere un uso da lavoro.

“Il primo equus caballus somigliava esterior-mente all’equus przewalskii ancora esistente eall’equus gmelini, il tarpan che sopravvisse nellasteppa fino al secolo scorso; a loro volta, tuttiquesti somigliavano agli asini, agli emioni eagli onagri quanto a colore, dimensioni eforma. Oggi l’analisi genetica ci dice che l’equuscaballus, con 64 cromosomi, è un animalediverso dal cavallo di Przewalskij che ne ha 66,dell’asino che ne ha 62 e degli emioni che nehanno 56; (...) il caballus in particolare, con lesue gambe corte, il collo largo, il pancione, ilmuso convesso e la criniera rigida, dovevaessere difficilmente distinguibile dal tarpan21”.

In effetti gli studi anatomici sui resti deicavalli della media e tarda età del bronzohanno dato, seppure nell’incompletezzadei resti, delle misure stimate, al garrese,molto basse; si parla di “animali alti tra i115 e i 153 cm nella terramara del bron-zo medio e recente di Gorzano (MO),140 cm c.a nell’abitato della media etàdel bronzo di Poggio Rusco (MN), 132cm in quello del bronzo recente di Caval-zara (VR), 120 cm in quello del bronzorecente e finale di Colle dei Cappuccini(AN) e rispettivamente di cm 125 e cm130 in quelli coevi delle Paludi di Celanoe di Appiano (BZ) 22”.

Il dato si mantiene anche per le fasi piùtarde del bronzo recente e finale, quan-do l’altezza al garrese degli esemplari vada cm 113, per l’esemplare da Cortinedi Fabriano, ai cm 134 da Moscosi diCingoli23.E’ comunque con l’età del ferro che sihanno le più larghe attestazioni dell’usodel cavallo come animale da sella; ades-so per certo “il cavallo viene usato daivillanoviani anche come una cavalcatu-ra e si sviluppa l’arte equestre24”. Diquesto ben più largo uso dà una con-vincente conferma la consistente pre-senza nell’VIII sec. a. C., nelle sepolturemaschili, dei morsi in bronzo, adessoindizio di uno status particolare delcavaliere; gli studi sulla necropoli Lippidi Verucchio, ad esempio, attestano cheall’inzio dell’VIII sec. a.C. “un terzodegli uomini, quello con combinazionidi armi più complesse, ha nel suo cor-redo elementi di bardatura equina; nelmomento di passaggio tra l’VIII ed ilVII secolo metà degli uomini ha barda-ture, lo stesso avviene nel VII secolopieno, quando inoltre nelle tombemaschili fornite di panoplie complessesi ritrovano, oltre alle bardature ancheparti di carri25”.Tale “riproposta” del cavallo -e delcarro da combattimento- sembra secon-do alcuni autori da collegarsi ad un

“costume riflesso anche nei poemi omerici (...)diffuso in gran parte del Mediterraneo, più omeno contemporaneamente (dopo il 750 a.C.) (...) Il tipo del carro da combattimentoviene generalmente considerato derivato da

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modelli orientali, così come un gran numerodei finimenti equini, tra cui alcuni morsi piùtardi26”.

In effetti, i tipi di finimento italici del-l’età del bronzo, in corno, sembranoavere strette connessioni con gli esem-plari dell’Europa centrale, dalla qualesarebbe stata introdotta l’addomestica-zione degli animali, mentre i morsibronzei dell’età del ferro sembranoricollegabili a tradizioni del Mediterra-neo orientale; è dunque

“importante sottolineare che la diffusione del-l’equitazione in Italia e a nord delle Alpi è avve-nuta secondo vie e modalità differenti, come ètestimoniato dai diversi tipi di morso che cisono pervenuti. Nella civiltà villanoviana imorsi in bronzo derivano da prototipi del Vici-no Oriente. Si tratta di un tipo in cui il canno-ne è infilato in un foro praticato nel mezzo delsostegno laterale e si appoggia, per così dire, alsostegno stesso. Nell’Europa centro-settentrio-nale, invece, i morsi derivano da tipi originaridelle steppe nord-pontiche, in cui il cannone silega ad un anello fissato al sostegno laterale, alquale risulta in qualche modo appeso. Ladiversità strutturale rimanda probabilmente apratiche equestri differenti27”.

Sebbene sia nota la presenza di morsiparticolari detti “con tiranti a scudetto”che si vennero diffondendo nel CentroEuropa ed in Etruria nel corso dell’VIIIe del VII sec.a.C. dalla zona del MarNero e dal Caucaso, ad opera di gentitracio-cimmerie28, tale fenomeno appa-re leggermente più tardo del principaleincremento dell’uso della cavalleria nel-l’Etruria villanoviana; invece i contatti

tecnici e di arte ippica tra Italia e Medi-terraneo orientale sembrano essereconfermati dall’analisi di alcuni tipi dimorso equino a filetto ritorto ed incer-nierato al centro, originari dell’Urartu,alcuni esemplari dei quali sono stati rin-venuti in Armenia ed oggi sono conser-vati al Museo di Erevan, i quali datanoal periodo tra l’810 ed 781 a.C. Inoltreè noto che con l’VIII sec.a.C. gli Assiriintrodussero l’allevamento selettivo,grazie al quale fu possibile ottenerecavalli più robusti, sui quali la posizionedi monta non era più sul posteriore -postura che limita la padronanza, spe-cie a pelo- ma in posizione avanzata,verso le spalle della cavalcatura29.Anche in connessione con tali dati loStary30 ha ipotizzato che non solo imodelli di carro e i finimenti, ma anchei cavalli fossero importati dal Mediter-raneo orientale. Tuttavia, come si è visto, i cavalli tradi-zionalmente impiegati nell’area centroi-talica erano di piccola taglia e pesanti,forse autoctoni31; l’iconografia presentein epoca villanoviana attesta una chiarapredilezione per la guerra dei cavallimaschi, in assonanza con quanto eraampiamente diffuso nell’antichità,ricorrendo solo occasionalmente acavalli castrati, il cui uso

“apply to later armies after the medieval era,but not to the Roman or pre-medieval civilisa-tions, with the exception of some nomadic peo-ples. These is both literary and archaeologicalevidence for the use of entires. Varro says «Nordoes the man who wants you turn out horses

for carrying proceed in the same way as he whowants them for military service. For just as weneed them high spirited for camps so we pre-fer to have them quiet on the road. Castrationeffects this». Virgil also refers to stallions whendiscussing the cavalry and racehorses. Thearchaeological evidence is merely a matter ofexamining many of the cavalry tombstoneswhere many of the horses are clearly shown asentires32”.

Negli scavi dell’abitato di Poggio Cre-toncini a Tarquinia sono state rinvenutemolte ossa animali databili tra la metàdel IX e la metà dell’VIII sec.a.C., tra lequali erano presenti scarsi resti di equi-ni. Le ossa di un arto sinistro erano tut-tavia ancora in connessione anatomica,ed hanno consentito di ipotizzare un’al-tezza al garrese di circa 132 cm, sostan-zialmente quella della media dei cavallida altri insediamenti e sepolture dell’e-tà del ferro, ovvero cm 13333, sensibil-mente inferiore a quella del cavalloodierno, che supera ampiamente i 150cm. Anche ritrovamenti più recentiindicano in Etruria il permanere del-l’impiego di cavalli di taglia piccola, altial garrese tra 125 e 130 cm; la misurapiù piccola è comunque quella delcavallo di Casale Superiore (Colli delTronto) di soli 107 cm, la più alta quel-la da Moie di Pollenza, con 133,6 cm34.I due animali sepolti con la biga diCastro, presso Viterbo, avevano un’al-tezza sotto la media -cm 123/125- eforme snelle, seppure non gracili; laloro età era di circa 5 o 6 anni; anche sei dati attuali non sono sufficienti a dareconferme per la prima età del ferro, i

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resti equini dell’Etruria del VI-V sec. a.C. -sostenuti dall’iconografia- risultanoeffettivamente riconducibili ad unarazza da corsa, orientale, assieme aduna razza locale, da tiro, entrambe ditaglia piccola. D’altro canto anche tragli Altai -che abitavano le montagnedove nasce l’Ob, nella zona dove laaddomesticazione del cavallo avevaavuto origine- nel VI sec.a.C. l’alleva-mento faceva capo a quattro razze dicavalli: la più alta e snella era la più pre-giata, e sostanzialmente equivale ancoraagli attuali cavalli tartari; le altre razzeerano tutte più piccole e tarchiate, sultipo dell’attuale cavallo mongolo35. Se, come si è osservato per i tipi dimorso e di finimenti, si distinguono duearee di diversa cultura dell’impiego delcavallo, “dominanti” in fasi sequenziali -l’Europa continentale e l’Italia setten-trionale da un lato ed il Mediterraneoorientale dall’altro-, è probabile che learee di origine di alcune delle razzeallevate, ed un qualche flusso di capi,facessero capo alla stessa area dell’Asiacentrale. In effetti, nonostante la già rilevata pre-coce introduzione del cavallo domesticoin Europa ed in Italia, è innegabile chel’area del Mediterraneo orientale avevaprontamente conosciuto una diffusionedel cavallo al tiro di carri da guerra.Senza voler ripercorrere qui la storiadell’equitazione nell’area mediorientaleed egizia -sulla quale molto è stato scrit-to, come nel classico di Azzaroli36-basterà ricordare che sino dal III mil-

lennio i Sumeri avevano fatto ricorsoagli onagri quali tiro per pesanti carri aquattro ruote piene, impiegati in com-battimento; gli stessi Sumeri comun-que, alla metà di quel millennio, cono-scevano l’uso del cavallo in combatti-mento, come attestano i passi delleimprese di Gilgamesh dove si parla dicavalieri montati su “stalloni magnificiin battaglia37”. Usato per rapidi tra-sporti di persone e dai re agli inizi delsecondo millennio a. C., il cavallodivenne stabilmente dal XVII sec. a. C.l’animale addetto al tiro di quei velocicarri che costituirono la spina dorsaledegli eserciti dell’Asia minore sino all’E-gitto38.In quest’area tuttavia l’impiego deicavalli come cavalcatura, sebbene atte-stata anche su rilievi babilonesi, nonottenne ampio riscontro per lungotempo, forse anche per le difficoltà ini-ziali incontrate con tipi ben poco stabilidi assetto -a quanto attestano dei basso-rilievi- ovvero a pelo sull’estremo poste-riore equino, sorretti in precario equili-brio ad una fascia attorno all’addomedel cavallo ed alla coda; ancora nel XIVsecolo cavalieri ittiti sono raffigurati ingroppa senz’armi39. Lo sviluppo direparti specifici di cavalleria è attribuitoagli Assiri del tempo di Tukulti NinurtaII (890-884 a.C.), quando fu miglioratal’arte dell’equitazione “per usare inmodo più efficace le armi in dotazione(l’arco e la lancia) e, di conseguenza, persfruttare appieno il vantaggio sui car-riaggi, considerando la maggiore adat-

tabilità ai diversi tipi di terreno e ilrisparmio di energie quanto a uomini ecavalli. Con la riduzione della manovra-bilità e del potenziale di disturbo (deicarri), dovuta alla crescente importanzadella cavalleria, si accentuò la necessitàdi proteggersi40”. E’ poco dopo questoperiodo che, come si è visto, alcunetipologie di morso diffusesi anche inItalia ed in Europa sembrano rivelareascendenze orientali; di fatto, risultacomunque smentita41 la teoria per laquale il cavallo, “addomesticato nellesteppe del Ponto attorno al 3000”, sisarebbe diffuso con l’arte del cavalcare“nel vicino Oriente nel corso del secon-do millennio e raggiunge il Mediterra-neo orientale nell’Elladico medio,intorno al 1500. Questa novità non puòdiffondersi nelle regioni occidentali (delMediterraneo fino al Levante spagnolo)che in epoca alquanto più tarda, e cioèintorno alla fase terminale dell’età delbronzo42”. E’ possibile, piuttosto, chelungo tale percorso si sia diffuso l’im-piego dei reparti montati su carri, edella cavalleria per uso di controllo edinterdizione a lungo raggio; nelle areemicenee il carro ebbe una discreta for-tuna -prevalentemente come simbolo distatus- nonostante che le asperità delterreno ne riducessero le possibilità diimpiego, confinandole a zone pianeg-gianti o al trasporto celere su percorsistradali. Il cavallo impiegato in Elladeera anch’esso “molto piccolo e nonabbastanza robusto per essere unabuona cavalcatura43”, fatto che per

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molti secoli, sino a dopo l’arcaismo, fecedella Grecia una terra di fanterie e nondi cavallerie. Anche in Italia l’impiego del carro e delcavallo fu condizionato dalla conforma-zione del terreno e dalla disponibilità disistemi viari -come attesta la fortuna delcarro solo con l’orientalizzante-; nell’a-rea italica il cavallo, comunque, rispettoad altri animali d’allevamento

“era in realtà molto meno diffuso numerica-mente (...) come d’altronde è avvenuto nellecampagne sino a poco tempo fa. Il cavalloinfatti necessita di maggiori cure e presentauna resistenza ridotta agli sforzi più pesanti,restando invece l’animale più veloce nel tra-sporto di un uomo sul dorso e più facilmentemanovrabile. Non a caso i morsi di cavallo diepoca villanoviana vanno a caratterizzare letombe degli aristocratici, indicando possibilitàeconomiche tali da consentire il mantenimen-to di un animale inadatto peraltro al trasportodi pesanti fardelli e di carri da carico44”.

Il cavallo è infatti sempre stato un benedi particolare valore, tra tutti gli anima-li domestici di grossa taglia, ed in parti-colare lo è quello “da sella” per la guer-ra, che presumibilmente sin dall’anti-chità doveva sottostare ad un addestra-mento di ben altro contenuto rispetto aquello dell’animale da lavoro e da caval-catura non bellica. Anche nella pur ele-mentare società dei Galli, secondoCesare, i cavalli locali -piccoli e di aspet-to poco elegante- venivano addestraticon quotidiano esercizio ad una resi-stenza straordinaria.

La cavalleria romana, ai tempi di Arria-no, cercava di addestrare le cavalcaturea numerose abilità, come addirittura lareazione agli squilli di tromba; ancoraoggi “i cavalli di reggimento (...) perquanto riguarda le faccende di casermasono perfettamente edotti di quantodebbono fare. Riconoscono tutti isegnali di tromba e si agitano incompo-stamente a quello della biada; com-prendono ormai gli ordini di evoluzionie di manovra ed agiscono in conse-guenza anche se i cavalieri non li guida-no45”. In effetti “for maximum a war-horse had to be able to stop, start, pivot,wheel fast, jump into a gallop, raise hisforehand to assist his rider in strikingdown. All these moves are instituted bypropulsion from the hindquarters anddictated by leg and hand commandfrom the rider46”. Una delle manovreaddestrative previste da Arriano, svoltain mezzo a grida, strepiti e risuonared’armi e di scudi, prevedeva proprio dieccitare i cavalli facendoli correre incon-tro tra loro, stimolando nei maschi l’ag-gressività, e cercando di convogliarla inun utile stimolo piuttosto che in perico-lo per il controllo del cavaliere47. D’al-tronde i movimenti improvvisi -comeanche i suoni- spaventano i cavalli48,che registrano ogni azione ai loro latigrazie alla visione laterale, compresequelle da parte dell’equipaggiamento edelle armi del cavaliere, alle quali deb-bono dunque adattarsi. Per ottenerequesto genere di risultato Virgilio, nelleGeorgiche (III, 211-213), suggerisce di

iniziare con puledri di tre anni; Seno-fonte suggeriva di ricompensare ilcavallo quando obbedisce, e di punirloin caso contrario, progredendo da sem-plici esercizi sino ad una preparazioneche prevedesse, per il cavallo da guerra,il salto di fossati e di muretti, salire escendere alture, scendere un dirupo,muoversi agilmente sul terreno piùaccidentato, superando comunque ogniatteggiamento pauroso, che potevaindurre tutto un reparto -come unamandria- ad una improvvisa ed ingiu-stificata rotta. Le andature del cavallo sono inoltrediverse -passo e galoppo- per le quali,seppure istintive, è necessario dell’ad-destramento: al passo il centro di gravi-tà si sposta continuamente, e deve esse-re costantemente seguito dal cavaliere,che può così raggiungere all’incirca 100metri al minuto, e guadare sino a circam 1,30. Al galoppo, col quale è impor-tante che il cavaliere segua il moto dellala bocca del cavallo, si raggiungono 400o 500 metri al minuto, e una velocitàmassima di circa 60 km/h per 3/4 minu-ti. Il trotto non è un’andatura naturaledel cavallo, che deve dunque essereoggetto di esercizio, e che porta a circa200 metri al minuto ma per periodipiuttosto brevi49. Ancor più accurati eduri erano gli specifici e complessi eser-cizi presenti nell’Ars Tactica di Arriano,che prevedevano esercitazioni di grup-po e complicati movimenti corali, comevere “esercitazioni a fuoco”. Al complesso addestramento dell’ani-

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male, con tutte le implicazioni anche ditempo ed economiche che esso com-portava, andava aggiunto il valore dellungo addestramento necessario ancheal cavaliere per montare -a pelo, comeera uso all’epoca- e combattere affiatan-dosi con la cavalcatura50.Per avere un’idea del valore economicodei cavalli da guerra nell’antichità -ilche ne spiega l’elitarietà d’uso- si devericordare come

“Solomon is said (1 King 10.29) to have paid150 shekels of silver for each of his chariot hor-ses, and 600 shekels for each chariot. That wasa considerable outlay, since it was also said (2Samuel 24.24) that for fifty shekels of silverDavid bought a team of oxen and a threshingfloor, and since Exodus 21.32 fixed liabilitydamages for the death of a slave at thirty she-kels of silver”51.

Ancora nel XIII sec. d.C. il cavallo daguerra costava il doppio o il triplo di unanimale comune52; tale costo, in granparte, era dettato dalle “spese d’eserci-zio”, ovvero da quanto consumavano glianimali stessi; per l’Oriente antico“Stuart Piggott has estimated that eightto ten acres (ovvero dai 3,2 ai 4 ettari) ofgood grain land have been required tofeed one team of chariot horses (cioè duecavalli)”53. Tale quantitativo va comun-que considerato fissato per eccesso, e diun buon pascolo in un territorio qualequello della Toscana può bastarne moltomeno; va comunque ricordato che perottenere una buona resa fisica da uncavallo è di gran lunga preferibile cibar-

lo con erba secca, e non lasciare che sinutra da solo di erba verde, che vieneinvece riservata al solo periodo primave-rile quale ricostituente. Più bisognosi disostanze proteiche dei bovini, i cavalliancora agli inizi del Novecento eranonutriti di tre foraggi non molto grossola-ni, ovvero l’avena o biada per un quanti-tativo dei 3 ai 7 kg quotidiani -a secondadel lavoro cui erano sottoposti-, il fienoper 3-6 kg al giorno, e la paglia, per 1,5-2 kg. L’avena poteva essere sostituita daaltri cereali (frumento, segale, orzo) o da

semi di leguminose (fave, veccie, piselli);questa categoria di alimenti era conside-rata particolarmente importante incavalli da corsa o da tiro leggero ma rapi-do, perché più digeribile e portatrice dienergia pronta e duratura54. Attualmen-te si preferiscono combinazioni diver-se55, che raggiungono complessivamen-te i 12 kg circa giornalieri; al cibo vannoaggiunti 3-4 litri d’acqua fresca correnteper ogni chilo di materia secca ingerita,e comunque a volontà ma prima deipasti e non dopo sforzi56. Anche ricor-rendo al pascolo libero estivo, preferibi-le per i puledri, è comunque importan-te ricordare che gli equini non pascola-no dove il terreno è segnato da feci pre-cedentemente espulse da altri equini,mentre non sono disturbati da feci bovi-ne, fatto per il quale si usa ruotare i duegeneri di animali sugli stessi pascoli, alfine di contenere l’estensione dei terreninecessari all’allevamento e di renderlisempre impiegabili per entrambi57.Tutta questa complessità alimentare,comprensiva di una dieta secca inverna-le bilanciata e accuratamente preventi-vata, offre un chiaro indizio del perchél’impiego del cavallo fosse limitato agliemergenti nella società della prima etàdel ferro.L’ampiezza del terreno da “dedicare”alla cavalcatura -come pascolo o comesorgente di biada, o di paglia e di fieno-spiega dunque perché i cavalieri si con-notassero anche come proprietari ter-rieri; tra VIII e VI sec.a.C. anche nellaGrecia della polis in formazione

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Gamba del tripode dal Circolo di Bes aVetulonia, con una figura di cavaliere conelmo - Firenze, Museo Archeologico Nazionale

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“la terra rimase l’elemento fondamentale dell’e-conomia arcaica anche in quelle poleis che ebbe-ro abbastanza presto elementi di sviluppo diver-so, artigianale e mercantile; ed una nobiltà (...), iBacchiadi di Corinto, furono anch’essi rappre-sentati sui vasi soprattutto come «cavalieri» (...)Molte furono le società «cavalleresche», dove l’al-levamento di cavalli implicò vaste proprietà fon-diarie e dove ordinamenti iniziatico-militari pre-valsero, fino a perpetuare in taluni casi aspettispecializzati, eredità delle aristocrazie omeriche,come l’uso residuo del carro. (...) Alcune di que-ste classi dirigenti, come in Eubea, le vedremopoi implicate nelle prime attività coloniali58”.

Oltre alla quantità considerevole di ter-reno necessario per l’alimentazione e

l’addestramento -i recinti di epocaromana per una dozzina di cavalieri,come quello individuato a Lunt pressoCoventry, erano di oltre 1000 mq59-,l’allevamento, presumibilmente fattosiselettivo come nel Mediterraneo orien-tale, doveva quotidianamente scontrar-si con le numerose patologie del caval-lo, prevalentemente agli arti ma nume-rose anche all’apparato digerente, aquello respiratorio e alla pelle; copiosis-simi inoltre i difetti, i problemi e lemalattie del piede equino60.L’introduzione del cavallo da sella costi-tuisce un evento di enorme portata sulle

culture umane; studi in questo senso61

hanno verificato come (sia nelle civiltàdell’età del rame come in quelle proto-storiche e nell’America settentrionaletra ‘600 e ‘700)

“l’acquisizione dei cavalli rivoluzionò presso-ché tutti gli aspetti della vita (...) Un cavalierepuò muoversi da due a tre volte più veloce-mente e coprire in un giorno una distanza dadue a tre volte superiore rispetto a un indivi-duo a piedi. Questo fatto rendeva improvvisa-mente raggiungibili risorse, alleati, nemici emercati che prima erano troppo distanti (...) Ivillaggi di agricoltori sedentari i cui insedia-menti (...) erano centri di popolamento e diproduttività economica divennero vulnerabili aincursioni fulminee di nemici a cavallo cheerano pressoché al sicuro da inseguimenti eazioni punitive (...) Le azioni belliche aumenta-rono di intensità e assunsero una maggioreimportanza sociale, sia perché i cavalli diven-nero simbolo di ricchezza di cui era facileappropriarsi, sia perché il possesso di cavalca-ture spinse a ridefinire i confini fra tribù cheerano stati stabiliti in base a distanze percorri-bili a piedi. I sistemi di commercio e scambio sifecero più complessi ed estesi ed interessaronoun volume di beni (cavalli inclusi) maggiore diquanto fosse possibile in precedenza62”.

Un evento come l’aumento di orna-menti ed utensili nelle sepolture dellaprima età del ferro italica sembra cosìconnettersi anche alle nuove possibilitàdi arricchimento dei centri attraversoraid di cavalieri e più estese comunica-zioni. La evidente insicurezza dei centriminori alla mercé di rapide incursionidovette inoltre spingere varie tribù araggrupparsi, creando concentrazionidi popolazioni non solo sostenute dal-

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La lancia, la spada, il cavallo

Olla falisca frammentaria, con inciso uno stallone maschio ed un puledro tra le sue zampe, a sim-boleggiare come il proprietario del vaso appartenesse alla fascia sociale emergente degli hippobo-tai o allevatori di cavalli - Firenze, Museo Regionale Casa Siviero

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l’incremento delle vie commerciali, maanche rassicurate militarmente dallemaggiori possibilità difensive. Lo sche-ma approntato da Anthony, Telegin eBrown63 evidenzia che l’impiego dicavalli per il trasporto di persone, percavalcatura da caccia ed anche da guer-ra porta all’aumento delle risorse di sus-sistenza ed alla loro maggiore sicurezza,il che comporta effetti sull’aumento delgruppo sociale e sulle differenziazionisociali. Il territorio sfruttabile e control-labile aumenta infatti di circa sei volte,secondo il loro studio, con la creazionedi conflitti per la terra e le risorse, in cuii guerrieri a cavallo sono avvantaggiati;

da qui scaturiscono differenze sociali edi prestigio militare, connesse anche colfatto che i beni ottenuti si fanno più varied abbondanti nei centri in crescita.I dati offerti da questa ricerca trovanoconferme in vari studi, come quello delKeegan che segnala come nella mano-vra durante lo scontro la cavalleria sisposta “a gran velocità - almeno cinquevolte superiore a quella degli uomini apiedi64”, e come quello del Vitali per ilquale “i tempi di marcia di un esercitoantico (...) oscillavano sui 20 chilometrial dì per le fanterie, con 5 o 6 giornatedi marcia e una di riposo, e di 35 chilo-metri per la cavalleria in ricognizione

senza impegni di copertura65”; ancorpiù dettagliatamente il Regolamento diServizio in Guerra dell’Esercito Italiano,nel 1896, specificava che

“per le truppe a piedi la velocità normale è di80 metri al minuto, cioè tale che per ogni ora dimarcia si possono percorrere 4 chilometri in 50minuti e fare una breve fermata negli altri 10.In circostante speciali, truppe allenate possonoper brevi marce spingere la velocità fino a 5 chi-lometri e ½ l’ora se di fanteria in linea, e fino a7 se di bersaglieri. La cavalleria che marcia iso-lata alterna il passo e il trotto (della velocitàrispettiva di 100 e 200 metri il minuto). Alter-nando 10 minuti di passo con 10 di trotto, per-corre 8 chilometri in 55 minuti e le restano dis-ponibili per fermate tante volte 5 minuti quan-te sono le ore di marcia. Non è però necessarioche le riprese di passo e di trotto siano sempredi 10 minuti, potendosi abbreviare le primefino a 5 minuti e prolungare le seconde fino amezz’ora, quando i cavalli vi siano stati gra-dualmente allenati. (...) Piccole colonne di fan-teria allenata possono compiere per più giorniconsecutivi marce di 25 a 30 chilometri; la mar-cia ordinaria per colonne di cavalleria, di arti-glieri o di carreggio è di 30 a 35 chilometri66”.

Pur avendo ben presente che l’uso delcavallo come animale da sella in areaitalica risale, come si è visto, almeno agliinizi dell’età del bronzo, vi sono tuttavianella prima età del ferro particolarisegni storici che segnalano come l’im-piego del cavallo abbia costituito, forsein modo innovativo, non solo un ele-mento di distinzione sociale, ma ancheun mezzo di arricchimento con la guer-ra. La Bartoloni ha rilevato come “inambiente villanoviano (...) la deposizio-ne dei morsi equini nelle tombe sembra

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I cavalli in guerra

Effetti dell'utilizzo del cavallo (elaborazione da D. Anthony, D. Y. Telegin, D. Brown)

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cominciare già a partire dalla fine delIX secolo, sia pure di rado, e si diffondesoprattutto nel corso dell’VIII sec. a.C.67”. Tuttavia alcuni studi specifici sullasocietà e l’esercito hanno evidenziatocome, sebbene vi siano in ogni fase delvillanoviano alcune sepolture con pano-plie più ricche, quelle più eccellenti diTarquinia e Veio datino al VillanovianoIIB, ovvero appena prima dello svilup-po della cultura orientalizzante. Talemomento, che sembra segnalare l’arric-chimento di alcuni personaggi attivi nelcampo militare, è anche quello del dif-fondersi dell’uso di seppellire i morsi dicavallo. Questi, da studi del passato suaree circoscritte ma comunque ancoradi interessante campione,

“sono stati restituiti da 14 tombe di Veio e 5 diTarquinia. Rispettivamente, 11 e 3 accompagna-vano delle armi. Alcuni di essi figurano ancheassieme ad un armamento abbondante (...) G.Mansuelli osserva una evoluzione analoga perl’Emilia dove la differenziazione dei corredi, cheappare dal Villanoviano II, rivela l’innalzarsi dellivello di vita di certi elementi della popolazione;questo arricchimento corrisponde anche làall’apparire dei morsi di cavallo (...) la società vil-lanoviana ai suoi inizi sembra relativamente uni-forme sul piano economico (...) Poco prima del-l’apparire della cultura orientalizzante certi indi-vidui beneficiano di un arricchimento materializ-zato nell’uso di oggetti in bronzo (urna cineraria,scudo, piastra pettorale) e dal possesso di cavalli(...) G. Mansuelli ritiene che (...) l’alterazione diquesta società si sia verificata nel momento del-l’aumento di ricchezza che segna la fine del Villa-noviano II. Così il possesso di cavalli sarebbe laprova della stabilizzazione di una vera aristocraziadedita all’allevamento equino68”.

Di notevole interesse in tal senso sono,come documenti sull’Italia centroset-tentrionale, le osservazioni sulle necro-poli villanoviane di Verucchio69, le duefigurine fittili di cavalli rinvenute nellatomba 3 del Podere Fallona di Savigna-no sul Panaro (Modena) risalenti all’-VIII sec. a. C.70, ed altrettanto lo è

“l’ansa plastica dell’askòs a forma di bovide rin-venuto nella tomba Benacci 525 (di Bologna,che) rappresenta appunto uno di questi equitesche dominavano la società felsinea dell’VIII sec.a.C. (...) L’aristocrazia felsinea si caratterizza nelcostume funerario (...) per la sottolineatura neicorredi maschili (...) del possesso del cavallo odel carro, evidenziato non solo dalla presenzadi morsi equini, ma anche dalla rappresenta-zione frequente di cavallini plastici sui vasi«gemini» (e negli alari) e da alcuni casi di sep-pellimento rituale del cavallo nelle necropoli(Benacci, Benacci-Caprara, San Vitale, piazzadella Mercanzia e, successivamente al periodoqui trattato, Malvasia Tortorelli, Arnoaldi eArsenale Militare) (Anche più tardi) il possessodel bestiame era del resto, nelle società pro-tourbane, un segno importante della ricchezzadi un individuo e di una famiglia. Il possessodel cavallo e il suo impiego bellico, evidenziato,oltre che dalla presenza di morsi, dalla rappre-sentazione del carro da guerra (...) continua acontraddistinguere i ceti aristocratici71”.

Anche nell’area norditalica interessatadalla Cultura di Golasecca l’introduzio-ne di morsi equini nei corredi funebri,come nella tomba della Vigna di Mezzopresso Rondineto, indica la rottura conuna tradizione di “situazione social-mente indifferenziata o poco articolata(...) verso la differenziazione socio-eco-nomica72”.

La possibilità di utilizzare il cavallo, frut-to come si è visto di una disponibilitàeconomica intrinseca anche all’adde-stramento ed al mantenimento, davaadito ad una serie di fruttuose attività,come razzie per fare preda e raccoglie-re grano -Usipeti e Tancteri, avversari diCesare sulla Mosa, si mantenevanoancora con razzie di cavalleria a vastoraggio73-, a seguito delle quali la caval-catura rendeva più veloce la fuga. Ineffetti il cavallo offriva maggiori possibi-lità di fuga anche in caso di sconfitta incombattimento, abbinando dunque unamaggiore capacità offensiva, di rapiditàe di profondità di spostamento, con unincremento delle possibilità di sopravvi-venza nella rotta -ancora Cesare, aBibracte, avviò lo scontro “omnium exconspectu remotis equis (...) ut spem fugaetolleret74” -.Forti di queste possibilità

“audacia, prestanza fisica e disponibilità diarmi efficaci -tra le quali i cavalli- posero dun-que alcuni personaggi nella condizioni di esse-re, in epoca villanoviana, i tutori del villaggiotribale nell’interesse comune (e forse, al con-tempo, i fruitori di alcuni proventi delle batta-glie, quali le spoglie, nell’interesse stavolta per-sonale). Si può presumere che coloro i quali sifacevano carico della pericolosa tutela delleterre (...) fossero di ciò ricompensati con unruolo di primo piano nell’organizzazione di vil-laggio, punto d’origine di quella auctoritas (...)che -carica di valore politico e sacrale- diverràil privilegio duraturo dell’aristocrazia nellaciviltà etrusca75”.

Dunque l’allevamento del cavallo dasella e la sua connessione all’uso milita-

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re vanno considerati elementi moltorilevanti all’interno dello sviluppo dellasocietà nella prima età del ferro, con unpeso non secondario rispetto ai contatticon civiltà esterne ed allo sfruttamentodei minerali ferrosi, concause anch’essidella svolta culturale avvenuta nel corsodell’VIII secolo. Infatti

“razzie e raid di cavalleria da parte dei centriemergenti furono determinanti, in un momen-to di spostamento dei gruppi umani versonuove sedi, nel cancellare i centri più piccoli,meno difesi per posizione e numero di abitan-ti. Proprio la minaccia delle improvvise incur-sioni sembra essere stata alla base della sceltadi siti con ampia visuale su un circondariomolto vasto, giacché la celerità di movimentodei cavalieri rendeva necessario un consistentepreavviso nell’avvistamento per mobilitare idifensori. Anche la ricerca di soluzioni sineci-stiche tra gruppi umani diversi dovette assol-vere, tra l’altro, alla formazione di una comu-nità allargata numericamente, la cui consisten-za poteva scoraggiare le scorrerie di repartipoco numerosi di cavalleria. Ai cavalieri erastato peraltro demandato, con ogni probabili-tà, anche il compito di sorveglianza dei territo-ri soggetti alla comunità tribale, che grazie aicavalli erano più facilmente raggiungibili: incaso di indebita occupazione o sfruttamento ireparti di sorveglianza a cavallo potevanointervenire immediatamente in armi76”.

“All’interno della società la cavalleria, formatada detentori di elevato status sociale, acquisiscedi fatto il ruolo distintivo di prima defensio deiconfini e del territorio, in un circolo virtuosonel quale le preziose cavalcature consentono diacquisire, in raid e razzie, ulteriori beni di pro-prietà. Questi vengono resi ereditari anche conla promozione di forme organizzative quali letribù, che nella Roma delle origini fornivano

appunto i reparti di cavalleria e si caratterizza-vano per il nomen di origine gentilizia, a diffe-renza delle tradizionali curie destinate a forni-re i fanti e dal nome legato al territorio, inquanto cellule paganiche77”.

In effetti la realtà della Roma delle ori-gini, conservataci dalle fonti letterarie,ci permette di fare luce su aspetti del-l’organizzazione sociale, economica emilitare indissolubilmente legate traloro all’inizio dell’età del ferro; la fante-ria romana era reclutata secondo curiae,ovvero per cellule territoriali che com-ponevano l’insediamento. Ad ogninucleo zonale, probabilmente frutto diimmigrazioni e/o di sinecismo, ove essosi fosse federato col resto degli abitanti,ed avesse raggiunto un’estensione eduna dignità tale da potersi definire“curia”, poteva venire richiesto di con-tribuire alla sicurezza mettendo a dispo-sizione un certo numero di fanti pro-porzionato agli appartenenti alla curia:si trattava sostanzialmente di un seg-mento di villaggio che dava contributoalla sua stessa difesa.La cavalleria invece era reclutata pertribù, ovvero per nucleo gentilizio -costituito da un raggruppamentosuperfamiliare-; la differenza è che nontutti i nuclei superfamiliari anchenumericamente consistenti avevano irequisiti per diventare una tribù. In altritermini, non tutti i gruppi di famiglieallevavano, addestravano, manteneva-no ed acquistavano cavalli, giacché nontutti i clan superfamiliari erano deten-tori nel necessario benessere economi-

co. Tuttavia l’organismo sociale dove ilbenessere era individuabile, circoscrivi-bile e stabilizzabile in quanto perpetua-to con l’ereditarietà, era, appunto, solola “superfamiglia”. La curia zonale nonaveva nessun vincolo col benessere, edal suo interno il benessere poteva conti-nuamente andare e venire con trasferi-menti spaziali -e nuziali-; la tribù invece-sede dell’ereditarietà- mostrava unamaggiore possibilità di stabilizzare ilbenessere nel tempo. Il fatto che lamessa a disposizione di cavalli e cavalie-ri venisse richiesta solo ai benestanti afavore della collettività, faceva probabil-mente di questa corvée un tributo (e “tri-buto” viene proprio da tribus, indicandocioè ciò che viene da un gruppo gentili-zio). Allevare, addestrare ed addestrarsifornendo la cavalleria alla comunitàdoveva essere come una sorta di tassa

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I cavalli in guerra

Il tipico guerriero a cavallo di epocavillanoviana è effigiato nell'askos Benacci dallatomba 525 del sepolcreto omonimo - Bologna,Museo Civico Archeologico

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sul surplus, mentre la base obbligatoriadel contributo militare era l’adesionetradizionale alla fanteria per curiae. Pergli stessi motivi di “esazione” di un con-tributo militare, ancora ai tempi diCesare, la cavalleria sarà fornita dalleprovince romane allo stato78, proprio inquanto concepita come tributo onerosoalla collettività fattasi stato. Pure nell’età comunale italiana, moltisecoli dopo, e specificamente nellaToscana del Duecento,

“la guerra (...) finiva col pesare sulle spalle deicittadini sotto le forme dei servitia debita o dellecorvées: «cavallate» per chi poteva permettersidi tenere cavallo e armamento in efficienza procommuni, e servizio di scorta per gli altri. L’ar-caica distinzione dei cittadini in milites e peditessi perpetuava riflettendosi dall’organizzazionemilitare sulle strutture politiche79”.

“La cavalleria (...) era formata da elementi pro-fessionisti forestieri e dai cittadini soggettiall’imposta di cavallata, aventi cioè l’obbligo difornire al Comune, da soli o in gruppo con ipropri consorti, uno o più cavalli al servizio delpotentis et victoriosi exercitus. Insieme al cavallo ifiorentini soggetti alla cavallata erano tenuti afornire un armato a cavallo a loro scelta, equi-paggiato secondo le prescrizioni emanate dalComune. (...) La cavalleria che emerge da que-sta analisi appare come un insieme relativa-mente omogeneo in cui il privilegio di com-battere a cavallo era originato dalla disponibi-lità economica piuttosto che da fattori di ordi-ne sociale o di classe80”.

Del vincolo della cavalleria ai gruppifamiliari privati, con il celebre episodiolatino dei Fabii e del loro interventoquale “esercito privato”, ci parlano

anche gli usi dei Galli, presso i qualisecondo Cesare “i cavalieri, quando sipresenta una qualunque occasione diguerra, accorrono tutti al conflitto; equanto uno è più potente e per paren-tele e per sostanze tanto maggiornumero di gente stipendiata e di clientiha al suo seguito. Qualità e quantità delseguito: in ciò l’unica forma di prestigioe di potenza che riconoscano81”.Solo disponendo di ricchezze, comeabbiamo già visto, era possibile dispor-re dell’attrezzatura e dei beni necessariper i cavalli, arma importante per ilcontrollo del territorio e delle sue zonepiù distanti; la possibilità di salvaguar-dare queste zone marginali del territo-rio soggetto alla collettività, e la proba-bile presenza sul posto di piccoli centridi controllo, dovette creare un vincoloforte tra determinate ricche tribù cheagivano come cavalleria e specifichezone di confine, che in prospettivasarebbero con ogni probabilità diventa-te potentati specifici di singoli casati ari-stocratici nel periodo orientalizzante.L’azione di questi gruppi ricorda forte-mente quella dei perìpoloi nella Greciadelle polis, talora raffigurati sulla cera-mica attica:

“ces défilés de cavaliers non hoplitiques se pla-cent ainsi dans un espace ambigu, entre chasseet guerre; les groupes ainsi formés paraissentproches de patrouilles et l’on serait tenté de lesrapprocher de ce qui parait etre leur équiva-lent institutionnel, les perìpoloi chargés depatrouiller aux frontières et de surveiller leslimites du territoire82”.

Preme qui osservare come l’organizza-zione militare villanoviana non ebbe,riguardo la cavalleria -e anche sotto varialtri aspetti- granché da invidiare almondo ellenico, condividendo inveceuno sviluppo simile con altri popoli del-l’Europa continentale e mediterranea83.La cavalleria greca -nonostante l’intro-duzione del cavalcare nell’Elladicomedio84, ed a parte una prima isolataraffigurazione cretese dell’XI-X sec. a.C.85- non ha attestazioni consistentiprima della fine dell’VIII sec. a. C., el’arte del cavalcare ha diffusione solocon l’età geometrica86; riguardo i mice-nei “è escluso che essi abbiano maicavalcato in battaglia87” ed è solo attor-no al 700 a. C. che in Ellade la cavalle-ria assume, in guerra, un ruolo consi-stente. Cionondimeno, i membri dell’a-ristocrazia euboica, che dettero vita allacolonia di Pithecussa, erano celebrati daStrabone (X, 1.8) come Hippobotai,ovvero come una élite di allevatori dicavalli88; anche Aristotele riguardo gliaristocratici greci delle epoche attornoall’800 a.C. “associated them with horserearing, not intensive agricultural prac-tice ( e.g., the Hippobotai -horse bree-ders- at Chalcis and the Hippotrophoi -horse rearers- at Colophon)89”.Scendendo ad indagare i resti materialirimessi in luce, per valutare il peso e l’e-voluzione della cavalleria nella culturavillanoviana, troviamo che, per inevita-bili effetti del tempo e delle giaciture,sono sopravvissuti ad oggi solo i morsiequini, assieme ad alcune figurazioni ed

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La lancia, la spada, il cavallo

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oggetti miniaturistici, mentre sonopersi i finimenti deperibili. I morsi veni-vano deposti dapprima solo in tombemaschili, ma poi90 compaiono indiffe-rentemente in tombe maschili e femmi-nili in quanto segno di prestigio91, conuno spostamento del loro significato atestimoniare -come in epoca tardome-dievale- “una cavalleria sempre menoimpegnata nella vera guerra, e semprepiù distinta quindi dall’uso «ludico-sportivo» di armi che avevano un corri-spettivo sempre meno diretto sui campidi battaglia93”. Gli esemplari collocatiper tomba sono sovente anche in nume-ro superiore all’unità. L’assenza di staf-fe93 e di selle94 limita i finimenti conelementi metallici alle sole imbrigliatu-re ed ai loro elementi decorativi.In equitazione, i mezzi che vengonoapplicati alla bocca del cavallo percomunicargli l’azione di guida delleredini sono chiamati complessivamente“imboccatura”; dei vari tipi oggi noti diquesta, la più semplice è il “filetto”. Essosi compone del filetto metallico a can-none, che va nella bocca dell’animale;dei montanti metallici, allacciati al filet-to e al sopracapo; il sopracapo ed il sot-togola in cuoio; il frontale collegato alsopracapo, la capezzina che gira attor-no al muso e le due redini affibbiateall’anello del filetto. Questa configura-zione è il mezzo di guida più tolleratodal cavallo, e si adatta anche a cavalieripoco esperti che usino cavalli giovani:anche chi tende a starvi “appeso” permantenersi in equilibrio non danneggia

la bocca del cavallo, che mantienecomunque una buona sensibilità aicomandi dalle redini. Il cannone metal-lico nella bocca è in genere piuttostogrosso; tanto più è sottile, tanto più èdolorosa per l’animale l’azione dellebarre; il cannone può inoltre esserecomposto di due pezzi snodati al centroo di un unico pezzo (”cannone rigido”),usato quest’ultimo nei cavalli sensibili osofferenti, perché la sua azione è piùdolce di quello snodato95.La cosiddetta “briglia” si compone inve-ce del “filetto” sopra descritto e delmorso rigido -che agisce sulla lingua esulla bocca dall’alto al basso- e del bar-bazzale, una catenella che serra l’inci-sione del mento rafforzando l’azionedel morso. Essa è adatta a cavalli e cava-lieri che abbiano già esperienza con il“filetto”.

Il morso di età villanoviana, nella suaparte metallica, è costituito da un filettoa cannone, snodato o no, in cui sonoinfilati due montanti di varie forme. Leestremità del cannone o filetto tengonodei tiranti ad anello o a barrette per leredini e per il fermo alla testa del caval-lo, e da alcuni tipi risulterebbe attestatol’uso del filetto semplice e del filetto conmorso, sebbene della barra metallicadel morso non si abbiano tracce conser-vate. Il tipo più semplice, come unesempio da Vulci, non è altro che un’a-sta cilindrica -il cannone- con due anel-li per le redini alle estremità, senzaguardie laterali conservate; altri tipiconsimili avevano il cannone semplice asezione quadrangolare e ritorto adelica. Altri morsi invece avevano unfiletto snodato, con due elementi conca-tenati e mobili, la cui sezione poteva

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I cavalli in guerra

Esempi di alcuni morsi da cavallo della prima età del ferro; da destra, a filetto semplice, snodato,snodato e ritorto, con montanti

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essere circolare, quadrangolare ritorta oa punte ottuse, per una più marcataseverità. Difatti il cavallo dovrebbeidealmente portare il morso nella zonapiù delicata della bocca corrispondenteallo spazio detto barra tra gli incisivi edi premolari, a contatto con la lingua e legengive. Di fatto però, se il morso nonè piazzato perfettamente, il cavalloriesce a spostarlo al fine di ribellarglisi,ritraendolo con la lingua fino ad appog-giarlo o afferrarlo coi premolari, questoa costo di comprimere con esso le guan-ce, giacché gli angoli della bocca dell’a-nimale sono in posizione anteriorerispetto ai premolari.Il morso con snodo centrale e filettoritorto agiva dunque sulle guance e sulleparti delicate della bocca del cavallo,moltiplicando il senso di fastidio provo-cato con l’azione sulle redini grazie allasuperficie irregolare del filetto ed all’ef-fetto “a schiaccianoci” del cannone che,snodato al centro, veniva tirato ai lati96.Anche Senofonte fa riferimento a questogenere di imboccatura severa:

“the bits Xenophon was referring to were join-ted snaffles with mouthpiece additions that tomodern eyes would appear severe, even sava-ge, despite the fact that he considered one«smooth» and the other «rough». The addi-tions to the mouthpiece he described wereintended to keep the horse’s mouth open so hedid non grasp the bit itself (...) The Romanshad a wide choice of bits available to them,most of which, including the snaffles, were veryharsh. Some had tremendous punitive action(...) Handled roughly some of these bits could

have pounched through the sensitive bonyarch of the palate if activated by a sudden hard«snatch» movement97”.

Come si è già indicato, i morsi a filettovillanoviani rivelano di richiamarsi atipologie del Vicino Oriente, giacché “sitratta di un tipo in cui il cannone è infi-lato in un foro praticato nel mezzo delsostegno laterale e si appoggia, per cosìdire, al sostegno stesso. Nell’Europacentro-settentrionale, invece, i morsiderivano da tipi originari delle steppenord-pontiche, in cui il cannone si legaad un anello fissato al sostegno laterale,al quale risulta in qualche modo appe-so98”. Osservando poi nel tempo i sin-goli tipi di morso ed i materiali usati, sinota che “i morsi di bronzo con filettisnodabili, prima senza e poi con mon-tanti, sono i primi ad apparire in ordinecronologico, seguiti nell’ultimo trenten-nio dell’VIII sec. a. C. da morsi di ferrocon filetti snodabili con montanti, ingenere associati nelle tombe ai carri”99.Complessivamente comunque, in rela-zione alle tipologie “meccaniche”, lavasta diffusione geografica e “la con-temporaneità di questi tipi dimostracome il loro impiego sottostesse a modidiversi di cavalcare e si adattasse allediverse indoli equine100”.La deperibilità delle parti in cuoio ciimpedisce di individuare con sicurezzaquali e quanti fossero i finimenti noti inepoca villanoviana, che comunque colmorso a filetto non potevano prescinde-re da testiera, frontale e montanti, uniti

alle redini. Talvolta tuttavia i finimentivenivano abbelliti con applicazionimetalliche o con falere di lamina bron-zea sbalzata, che compaiono sovente intombe di guerrieri -quando non si trat-ti di falere da applicare ad un elmo o aduna difesa corporea deperibile in cuoio-.Un esempio di notevole interesse per laricostruzione dell’imboccatura attornoalla testa del cavallo ci viene dal corredodel Circolo degli Acquastrini di Vetulo-nia, pur risalente al primo-secondoquarto del VII sec.a.C.; questa tomba hainfatti restituito molti oggetti in bronzoritenuti ornamenti dei finimenti di duecoppie di cavalli, il cui impiego con uncarro è da dimostrare, in assenza diqualsiasi segno di veicolo. Se una primacoppia di morsi, più semplici, trovaampi confronti in Etruria, l’altra, conmontanti a cavallino, sembra molto piùsimile a bardature centroeuropee, spe-cie per la presenza con essa di 248 bor-chiette passanti bilobate, delle quali 30con un’anatrella soprafusa; ad esse siassommavano 4 borchie a forma dimaschera di cavallo, e 10 borchie coni-che con quattro protuberanze a doppiavoluta. Oggi al Museo ArcheologicoNazionale di Firenze, questa coppia diimboccature trova un confronto quasispeculare in una simile coppia al BritishMuseum di Londra della fine VIII sec.a.C. - prima metà del VII101, da unalocalità ignota d’Etruria. Quest’ultimatestiera è stata ricostruita, ipotizzandoche le borchiette passanti, intevallate daesemplari con anatrella, rivestissero

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completamente sopracapo, frontale ecapezzina, lasciando libero il sottogola,con l’impiego delle borchie conichequali raccordi tra le diverse componen-ti. Il fatto che, a differenza dei morsi vil-lanoviani, i montanti non fossero foratiorizzontalmente per il filetto, ma verti-calmente, e che i tiranti laterali finisseroa scudetto, ha suggerito stringenti con-fronti centroeuropei. Infatti

“i morsi con tiranti a scudetto hanno originenelle steppe del nord del Mar Nero e del Cau-caso. La diffusione verso occidente di questicome di altri elementi, dalla forma caratteristi-ca, della bardatura equina è stata ricondottaall’espansione di genti tracio-cimmerie verifi-catasi nel corso dell’VIII secolo a.C. Si trattavadi popolazioni seminomadi e guerriere parti-

colarmente legate all’uso del cavallo (...) Unaanalisi dei finimenti da cui siamo partiti(morsi, borchiette, borchie coniche) ne rileva laspiccata originalità: i morsi (...) presentanotiranti laterali di tipo centro-europeo ma mon-tanti di chiara foggia tardo-villanoviana; le bor-chiette a doppia capocchia trovano confrontoin area danubiana ma parte di quelle presentauna figura ornitomorfa soprafusa (...) Un gustosimile si trova nell’area centro-tirrenica, doveanatrelle sono ampiamente adoperate, in etàorientalizzante, quale elemento decorativo sualcuni oggetti legati all’uso del cavallo (...) I rin-venimenti di area “italica” (...) interessano uncerto numero di siti e una zona che compren-de buona parte dell’Italia settentrionale e dellafascia centrale tirrenica. (...) La consistenza diquesti elementi di bardatura equina, di ascen-denza centro-europea e a volte con precisi con-fronti in area alpino-orientale (Frog, Stillfried),è un importante indizio di collegamenti non

sporadici con tali aree (...) poiché si tratta dibeni di lusso, non è da escludere che qualcunosia da interpretare come dono: in tale eventua-lità è da pensare che non venissero donati i solielementi della bardatura, ma un cavallo com-pletamente equipaggiato102”.

Le redini, pur non conservate, eranol’ovvio complemento dell’imboccatura;contrariamente ad una opinione diffu-sa, secondo la quale il cavaliere combat-teva lasciandole e dirigendo il cavallocon l’azione dell’interno delle cosce,studi recenti dissentono, ritenendo checomunque, in combattimento, le redinifossero tenute con la sinistra:

“it is possible to hold rein and shield in onehand and to manipulate both end even retainsome degree of subtlety on the reins, thoughthis is diminished to a great extent naturallysome rough hand movements were to beexpected, but when a horse is wound up andvery excited, or conversely frightened, bit pres-sures are not so readily registered as beingimperative rider commands (...) In the hiatusof battle a similar harsh usage may not haveelicited a response as the horse’s mind wouldhave been taken up with other actions. Hencethe need for the potential severity of bits -something that would register if the horse fai-led to respond to normal pressures103”.

Normalmente le redini dovevano essertenute nelle due mani, se libere, aduna distanza di 25-30 cm, facendolepassare attraverso il palmo della manoverticale, e bloccate tra pollice ed indi-ce; dovendo usare solo la sinistra, unaredine veniva posata sull’altra accop-piandole.

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I cavalli in guerra

Morso di cavallo in bronzo, decorato con cavallini plastici, dalla necropoli del Lago dell'AccesaMassa Marittima, Museo Civico Archeologico

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Oltre alle imbrigliature, nel Bolognese,è diffuso anche -nelle tombe maschili-un oggetto ritenuto uno stimolo perpungolare il cavallo. Assenti per certofurono ferri da zoccolo, staffe e speroni,limitando così di molto le possibilitàtecniche di utilizzo del cavallo. La sella,che avrebbe fortemente ridotto le possi-bilità di venire sbalzati di groppa da uncolpo di lancia, non era nota, e compa-rirà solo in epoca romana con foggeperaltro ben diverse da quella odierna,come assente pare anche l’adozionedella coperta a protezione del dorso delcavallo104. A causa di queste carenze èprobabile che i colpi di spada e di lanciada cavallo non fossero portati con forza,e che forse la cavalleria tendesse asmontare per lo scontro, come facevaquella gallica.Va a questo punto ricordato che l’arteequestre assurse precocemente a fun-zioni sportive e cerimoniali, in un qua-dro all’interno del quale il cavallo avevavalenze magico-rituali. Pur in assenza diarticolate informazioni al riguardo peril mondo villanoviano, disponiamo didati relativi ad alcuni antichi ritualiromani che, come vedremo nei capitoliseguenti, collegavano il cavallo allosport, alla guerra ed al potere politico.Le immagini di cavaliere in armi riferi-bili all’epoca villanoviana non sonomolto numerose, ma alcuni bronzi vetu-loniesi vengono a confermare l’iconaprincipe del cavaliere villanoviano,ovvero l’askos Benacci da Bologna. Ineffetti il cavaliere non mostra sostanzia-

li differenze di armamento rispetto alfante, giacché indossa un elmo crestatoe porta sulle spalle uno scudo circolare(forse in legno o forse in cuoio); le armioffensive utilizzate non sembranomostrare predilezioni particolari dellacavalleria di quest’epoca. L’impiegodella lancia da cavallo per un uso dicarica, del quale si è già fatto cenno nelcapitolo sulle armi in asta, è attestatonell’Ars Tactica di Arriano, come quellodel giavellotto, di cui sono dettagliata-mente descritti impieghi ed addestra-mento singolo e collettivo105, ma è diffi-cile stabilire da che epoca tali tattichefossero in uso, ed appare evidente lafacilità di caduta durante tali operazioniin assenza di sella. L’impiego della spada lunga per lacavalleria è stato ipotizzato sino dall’etàdel bronzo medio, sia per l’ovvia neces-sità di allungo per colpire senza discen-dere dalla cavalcatura, sia per la intrin-seca flessibilità tattica della spada lungaper il combattimento, da cavallo, controfanti o cavalieri106. Anche la cavalleriatardoromana impiegava la spatha deri-vata da prototipi celtici, ideata apposita-mente come arma di taglio per l’impie-go da cavallo, ma adattabile anche acolpi di punta107. Anche per quest’armacomunque la forza dei colpi era forte-mente inficiata dalla debolezza postura-le in assenza di sella; nelle tecniche dicombattimento

“the oblique sword action carried out as a troo-per rode alongside can only feasibly be either

as an attacking or a defensive set of strokesagainst an opponent. Either way it would havebeen attack, parry, riposte, parry and counter-attack, until one or the other was successful. Inbattle this would meant either despatching theopponent, disabling him, or causing him toflee108”.

La cavalleria comunque dovette averesino dalla sua origine una configura-zione in reparto collettivo “di massa”,anche perché il cavallo è un animaleper natura gregario109; l’efficaciadella cavalleria è stata sempre attri-buita alla sua capacità di mantenersiraccolta110, anche se non schierata ocomunque in disposizioni molto sem-plici, ottenendo così una notevoleforza d’urto ed un effetto moraleimportante, contro il quale in ognitempo si è cercato di opporre la capa-cità di resistere di reparti appiedatichiusi in formazione, o l’impiego diarmi particolarmente efficaci adistanza111. La carica di un reparto acavallo ha peraltro sempre indotto neicavalieri una forte esaltazione emoti-va, che dall’età del ferro si è mante-nuta intatta fino al XX secolo112.La consistenza numerica della cavalle-ria della prima età del ferro dovevaessere modesta sia in percentualerispetto all’intero esercito della comuni-tà, sia in valori assoluti; i dati relativi alletruppe messe in campo, tra il 1580 ed il1795, con la definizione di “reggimentinazionali” nell’esercito sabaudo sonoilluminanti, come si riscontra nellatabella della pagina seguente:

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Senza dubbio uno dei principali incari-chi della cavalleria della prima età delferro, visto il più ampio raggio d’azionee la maggiore rapidità di spostamentorispetto alla fanteria, doveva esserequello di pattuglia e controllo sia adistanza che in avanscoperta; ancoraalla fine dell’Ottocento i manuali milita-ri riportavano che

“nell’adempimento del suo compito, la cavalle-ria trova di solito un primo ostacolo nella pre-

senza della cavalleria nemica. L’avanscopertaquindi conduce generalmente ad uno scontrotra le due cavallerie. Quella delle due cheriuscirà a sbaragliare l’avversario, sarà meglioin grado di adempire il proprio mandato. Eper ciò importa che il comandante del corpo inavanscoperta si tenga sempre in grado di attac-care con vantaggio la cavalleria nemica, cioètenga raggruppata e sotto mano la massimaquantità delle sue forze. (...) La cavalleria inavanscoperta deve aver libertà d’azione113”.

Se la cavalleria etrusca di età classica èstata ripartita in “cavalleria da combat-timento a distanza”, “cavalleria da com-battimento ravvicinato” e “fanteriamontata o cavalleria a terra114”, ciò nonimplica che le diverse funzioni sianostate tutte contemporanee come origi-ne, e che funzioni diverse non potesse-ro, inizialmente, essere svolte dagli stes-si cavalieri. Come aveva notato Cesarenel 55 a.C. per la cavalleria di Ariovistosul Reno, montata a pelo come quellaprotostorica, “nella battaglie equestri gliSvevi spesso saltano giù da cavallo ecombattono a piedi: i cavalli sonoammaestrati a restare nello stesso postodove i cavalieri li lasciano, sì che al biso-gno, questi possano rapidamente ritro-varli115” . Come quella sveva, anche lacavalleria villanoviana, rispetto alle piùtarde cavallerie pesanti, era leggera;secondo Arriano (Ars Tactica, 4, 2-9)

“the unarmoured cavalry are a contrast tothese (la cavalleria pesante). They comprise

on the one hand spear-bearers, pike-bearersand lancers and on the other skirmishers(akrobolistai, actually mounted-bowmen orjavelin-throwers). The spear-bearers arethose who approach the enemy ranks andfight them off with spears or charge anddrive them back with pikes like the Alans andthe Sarmatians, and the skirmishers arethose who discharge weapons from a distan-ce, like the Armenians and those of the Par-thians who do not carry pikes. Of the formercategory some also carry shields and are cal-led shield-bearers, while others are withoutthese and simply fight with spears and pikes;these latter are called (specifically) spear-bea-rers or pike-bearers and in some cases xysto-phoroi (literally xyston-bearres, a xyston beinganother sort of lance). The name of skirmis-hers is given to those who do not come toclose quarters (...) Those who skirmish withthrowing-spears are called Tarentines (...) Ofthe Tarentines some skirmish only from a dis-tance, keeping far off, or riding round theenemy in a circle, and those are the Tarenti-nes proper. But others first discharge theirweapons and then join battle with the enemy,either retaining one of their spears or using asword (a spatha, a flat-bladed sword), andthese are called light troops. Of the Romancavalry some carry pikes and charge in themanner of the Alans and Sarmatians andothers have lances. They wear a large flatsword suspended from the shoulders andthey carry broad oval shields, an iron helmet,an interlocked corslet and small greaves.They carry lances both to hurl from afar,whenever that is necessary, and to fight offthe enemy at close range, and if they have toengage in close combat they fight with theirswords. They carry also small axes with spikesin a circle all round116”.

I cavalli in guerra

Anno Fanteria Cavalleria1580 1315 2311603 1764 4451614 3600 12501630 13100 41001645 9200 31741660 4805 6101675 5575 5291690 7250 14201705 11636 35871710 15611 37531716 8720 18031720 21188 24121727 19884 35821733 21923 47291738 10710 35141745 17800 44261752 11778 31641760 27993 32031765 26789 31181770 27825 31441775 31194 35211780 31510 33561787 30740 39791795 25558 3163

(Da Sabina Loriga, Soldati, Venezia, 1992, pag. 5)

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Note

1 Si veda Barker, Ambiente e società nella preisto-ria dell’Italia centrale, cit., pagg. 115-118.2 David Anthony, Dimitri Y. Telegin, DorcasBrown, La domesticazione del cavallo da sella, in“Le Scienze”, n. 282, febbraio 1992, pagg. 48-55.3 Sull’addomesticazione del cavallo si ricordaanche Sandor Bokonyi, Pferdedomestikation,Haustierhaltung und Ernahrung, Budapest, 1993;e a cura di Peter Anreiter, Laszlo Bartosiewicz,Erzsenet Jerem e Wolfgang Meid, Man ad the ani-mal world, Budapest, 1997.4 Si ricorda la testiera in corno di cervo lavoratodell’età del bronzo antico dal villaggio di Fuzesa-bony in Ungheria; in T. G. E. Powell, Dai primiagricoltori ai Celti, in “L’alba della civiltà”, Colo-nia, 1961, pag. 355 fig. 14.5 Lucia Sarti, Petrosa - un insediamento dell’etàdel bronzo a Sesto Fiorentino, Montelupo Fioren-tino, 1994, pag. 37.6 Si veda in Fabio Martini, Gabriella Poggesi,Lucia Sarti, Lunga memoria della piana - L’areafiorentina dalla preistoria alla romanizzazione,Firenze, 1999, pag. 48.7 Lucia Caloi, Maria Rita Palombo, ClaudioRomei, La fauna e l’allevamento, in “Etruria meri-dionale - conoscenza, conservazione, fruizione”,atti del convegno, Roma, 1988, pag. 52; AlfredoRiedel, Ambiente, insediamento, economia - L’Ita-lia settentrionale - Le faune, atti del convegno“L’età del Bronzo in Italia nei secoli dal XVI alXIV a. C. - Rassegna di Archeologia” n. 10, 1991-1992, pag. 175; e in Martini, Poggesi, Sarti, Lungamemoria della piana, cit., pag. 48.8 P. Bellintani, N. Martinelli, L. Salzani, La palafit-ta di Canar di S. Pietro Polesine, in “L’antica etàdel bronzo in Italia”, atti del convegno, Firenze,1996, pag. 281 e segg.9 Si veda in Jacopo De Grossi Mazzorin, Il caval-lo domestico in Italia peninsulare e l’inizio della

sua diffusione, in “L’Età del Bronzo in Italia neisecoli dal XVI al XIV a.C. - Rassegna di Archeo-logia” n. 10, 1991-1992, pag. 760.10 AA. VV., Ambiti culturali e fasi cronologichedelle Terramare emiliane in base alla revisione deivecchi complessi e ai nuovi dati di scavo, atti delconvegno “L’età del Bronzo in Italia nei secoli dalXVI al XIVa. C. - Rassegna di Archeologia” n. 10,1991-1992, pag. 360.11 Vedi in Il museo civico archeologico di Bologna,cit., pagg. 94-95.12 AA. VV., Ambiti culturali e fasi cronologichedelle Terramare emiliane, cit., pagg. 367-368.13 Andrea Cardarelli, Le Terramare dell’età delbronzo: l’economia e la società, in “Modena dalleorigini all’anno Mille”, Modena, 1989, pag. 16.14 Caloi, Palombo, Romei, cit., pag. 52 e segg.15 Si veda Maria Antonietta Fugazzola Delpino, Leacque interne: appunti di archeologia preistorica,in “Etruria meridionale - conoscenza, conservazio-ne, fruizione”, Roma, 1988, pag. 25.16 Si veda per questi siti in De Grossi Mazzorin, Ilcavallo domestico in Italia peninsulare e l’iniziodella sua diffusione, cit., pag. 760.17 Si veda in Nuccia Negroni Catacchio, Sorgentidella Nova, Roma, 1981, pagg. 139-140.18 Renato Peroni, Bilancio conclusivo, in “L’Etàdel Bronzo in Italia nei secoli dal XVI al XIV a.C.- Rassegna di Archeologia” n. 10, 1991-1992, pag.621-622.19 D’Ercole, La guerra nella protostoria dell’Italiacentrale, cit.20 AA.VV. Fidene, cit., pag. 44.21 Keegan, La grande storia della guerra, cit., pag. 161.22 Si veda in De Grossi Mazzorin, Il cavallo dome-stico in Italia peninsulare e l’inizio della sua diffu-sione, cit., pag. 760.23 Si veda in Barbara Wilkens, Gli equini dellatomba 3 di Sirolo “I Pini”, in “Carri da guerra eprincipi etruschi”, Roma, 1997, pag. 257.24 Caloi, Palombo, Romei, cit., pag. 54.25 Boiardi, Von Eles, La necropoli Lippi di Veruc-

chio - Ipotesi preliminari per una analisi dellestrutture sociali, cit., pagg. 35-36.26 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit., pagg.194-195.27 R. De Marinis, Gli Etruschi a nord del Po, cit.,pag. 30.28 Si veda Alberto Dei, Alcuni finimenti equini dalcircole vetuloniese degli Acquastrini: osservazionie problemi, in “Rassegna di Archeologia” n. 13,1996, pagg. 203-204.29 Vedi in Keegan, La grande storia della guerra,cit., pag. 181.30 P. F. Stary, Zur Bedentung und Funktion zweira-driger Wagen wahrend der Eisenzeit in Mittelita-lien, in “Hamburger Beitrage zur Archaologie” n.7, 1980, pag. 7 e segg.31 Vedi in AA.VV., Toscana terra di cavalli, Firen-ze, 1998, pag. 3.32 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pag. 28.33 Si veda in De Grossi Mazzorin, Ricerchezooaarcheologiche in alcuni insediamenti proto-storici dell’Etruria meridionale, in “Preistoria eProtostoria in Etruria”, vol 2, cit., pag. 19.34 Si veda in, a cura di Adriana Emiliozzi, Carri daguerra e principi etruschi, cit., pagg. 70, 205, 257.35 Si veda Jacopo Simonetta, Il cavallo nella storiadell’Asia antica, in “Mondo archeologico” n. 37,settembre 1979, pag. 18.36 Augusto Azzaroli, Il cavallo nella storia antica,Milano, 1975; molto generali ma di indubbio inte-resse le pagine in Keegan, La grande storia dellaguerra, cit., come in Giorgio Vitali, Cavalli e cava-lieri, Milano, 1998; recentemente di validità tecni-ca il catalogo La battaglia di Qadesh, cit. 37 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pag. 108.38 Drews, cit., pagg. 105-106.39 Vedi Simonetta, Il cavallo nella storia dell’Asiaantica, cit., pagg. 15-17.40 Emiliozzi, Carri da guerra e principi etruschi,cit., pag. 7.41 Anche in base ad alcune constatazioni riguardol’armamento e le caratteristiche tecniche dei cava-

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La lancia, la spada, il cavallo

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lieri dell’Europa occidentale.42 A. Beltran, L’arte rupestre del Levante spagno-lo, Milano, 1980, pagg. 44-45.43 Chadwick, La vita nella Grecia micenea, cit.,pag. 53.44 Maurizio Martinelli, I mezzi di trasporto, in “GliEtruschi - mille anni di civiltà”, Firenze, 1985, pag.577; cfr. con Paul Vigneron, Il cavallo nell’anti-chità, Milano, 1987, pag. 190 e segg. nonché dif-fusamente, e con Fossati, cit., pag. 8.45 Enrico Canti, Andare a cavallo, Milano, 1968,pag. 36.46 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pag. 129.47 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pag. 139.48 Sulle caratteristiche dei cavalli, oltre al citatoCanti, Andare a cavallo, si legga di StephenBudiansky, The nature of horses - Exploring equi-ne evolution, New York, 1997.49 Si veda Canti, Andare a cavallo, cit., pagg. 73-78.50 Si veda Vigneron, cit., pag. 280 e segg. Il valoreeconomico del cavallo andava a sostenere ed inte-grare il suo valore di “aiutante” e di “simbolo dipotenza”, sino a farne ideologicamente e psicologi-camente un ”inseparabile compagno d’armi”. L’ad-destramento cui esso doveva essere sottoposto eraanch’esso foriero di importanti riflessi ideologici epsicologici: “l’uomo che è stato in grado di doma-re il cavallo (...) ha sviluppato uno straordinario rap-porto di unione col cavallo: fa in pratica corpo unicocon esso. E’proprio dall’uomo che il cavallo riceveora dei comandi. Il tutto ridotto all’interno di unospazio ridotto alla superficie comune di contatto trail corpo dell’uomo e quello dell’animale. Il cavalie-re è così in grado di trasmettere con immediatezzal’ordine impartito dai suoi superiori al cavallo, cheassurge al ruolo di servitore privilegiato. I cavallidei Mongoli reggevano bene la loro terribile disci-plina, anche perché i cavalieri venivano abituati, sindall’infanzia, a stare insieme ai loro animali”. DaBarrois, cit., pag. 35.51 Drews, cit., pag. 110.52 Si veda Ugo Barlozzetti, L’arte della guerra nel-

l’età della Francigena, Firenze, 1998, pag. 48.53 Drews, cit., pag. 111-112.54 Si veda in Guglielmo Ghinetti, L’alimentazionedel bestiame rurale, Milano, s. i. d., pagg. 112-118.55 Oggi si somministrano 3-4 kg di avena (intera,tritata o bollita) integrata da orzo cotto e crusca; ilfieno tritato -di trifoglio, lupinella o di prato- vienesomministrato in 6-8 kg, e non deve avere meno disei mesi; esso serve principalmente per dare volu-me al cibo.56 Si veda in Giorgio Kara, Come andare a caval-lo, Verona, 1993, pagg. 67-68.57 Tale testimonianza è stata ottenuta da un’intervi-sta di chi scrive ai butteri facenti parte del persona-le dell’Azienda Agricola di Alberese della RegioneToscana.58 Ettore Lepore, Città-stato e movimenti colonia-li: struttura economica e dinamica sociale, in “Sto-ria e civiltà dei Greci”, cit., pag. 208. Anche perAristotele l’allevamento del cavallo era uno statussymbol: “of fifth-century Athens, Anthony Andre-wes observes: «The noticeable social gulf here wasrather between the middle class and the really rich,roughly the division between hoplites and thecavalry» -a sentiment anticipated by Aristotle in hisPolitics (4.1289b35-40), who remarked that «it isnot an easy thing to raise horses unless one is rich».(...) Horses -ponies or nags is a more appropriatedescription, given their small size- required toomuch upkeep for all but the richest. The ancroach-ment of farms made the grazing space around mostGreek poleis precious”. Hanson, The other Greeks,cit., pag. 236 e pag. 249.59 Si veda Hyland, Training the Roman Cavalry,cit., pag. 25.60 Si veda in Giuseppe Borrelli, Veterinaria agri-cola, Catania, 1929; in questo vecchio manualepratico per allevatori, gli elementi di podologia delcavallo sui difetti, l’igiene, le malattie del piede delcavallo occupano, da sole, ben dieci pagine. 61 Anthony, Telegin, Brown, cit., pagg. 52-54.62 Anthony, Telegin, Brown, cit., pagg. 52-54. Atali

osservazioni fa eco il Bouthoul -cit., pag. 161-osservando come anche nel ‘500 pochi armati“difesi da armature (...) e provvisti di qualche caval-lo che consentiva una rapidità di movimento moltosuperiore, poterono conquistare immensi imperi”.63 Anthony, Telegin, Brown, cit., pag. 52.64 Keegan, La grande storia della guerra, cit., pag.216.65 Giorgio Vitali, Cavalli e cavalieri, Milano, 1998,pag. 34.66 Ministero della Guerra, Regolamento di Servizioin Guerra, parte I - Servizio delle Truppe, Roma,1896, pagg. 70-71.67 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit., pag. 194Per la Bartoloni tuttavia, “mentre il rinvenimentodei soli morsi equini in corredi tombali è stato col-legato con carri da trasporto (...) e quindi non inte-ressante direttamente la «cavalleria» e l’armamen-to del guerriero (...) la presenza dell’intero equi-paggiamento dovrebbe testimoniare invece il ruolodel guerriero ed il suo carro da combattimento”.Bartoloni, La cultura villanoviana, cit., pag. 194..68 Saulnier, cit., pag. 40 e nota 84; la traduzione èmia. Sull’emergere della cavalleria a Bolognadagli inizi dell’VIII sec.a.C. si veda anche Cristia-na Morigi Govi, Silvana Tovoli, Anna Dore, Ilsepolcreto villanoviano Benacci (Bologna): strut-tura e organizzazione interna. Note preliminari, in“The colloquia of the XIII International congressof prehistoric and protostoric sciences”, cit., pag.35 e segg.69 Si veda Angela Boiardi, Patrizia Von Eles,Verucchio, la comunità villanoviana: proposte perun’analisi, in “The colloquia of the XIII Interna-tional congress of prehistoric and protostoricsciences”, cit., pag. 45 e segg.70 In “Modena dalle origini all’anno Mille”, cit.,pag. 96.71 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi inVal Padana,cit., pag. 35 e pag. 110. Sull’espansione dell’utiliz-zo del cavallo nella Bologna della metà e della finedell’VIII sec. a.C. si veda anche Emiliozzi, Carri

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I cavalli in guerra

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da guerra e prncipi etruschi, cit., pag. 33.72 Raffaele De Marinis, Comprensori protourbanie articolazione sociale nella Cultura di Golasecca,in “The colloquia of the XIII International con-gress of prehistoric and protostoric sciences”, cit.,pag. 26.73 Si veda Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 186.74 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 48.75 Maurizio Martinelli, Note sul controllo del terri-torio nell’Etruria villanoviana, in “L’Universo”,anno LXXVI, n. 5 , settembre-ottobre 1996, pag.690. 76 Maurizio Martinelli, La percezione dello spazionell’Etruria protostorica e storica, in “L’Univer-so” anno LXXVIII, n. 3, maggio-giugno 1998,pag. 394.77 Martinelli, Guerra e controllo del territorio inEtruria tra Età del Bronzo ed Età del Ferro, in“Papers from the EAA Third Annual Meeting atRavenna 1997”, cit., pag. 52.78 Si veda Moscardelli, Cesare dice, cit., pagg. 33-34.79 Franco Cardini, La guerra nella Toscana basso-medievale, in “Guerre e assoldati in Toscana 1260-1364”, Firenze, 1982, pag. 29.80 Marco Giuliani, L’organizzazione militare aFirenze fra XIII e XIV secolo, in “Guerre e assol-dati in Toscana 1260-1364”, Firenze, 1982, pagg.39-40.81 Si veda Moscardelli, Cesare dice, cit., pagg. 319.82 Lissarrague, L’autre guerrier, cit., pag. 203.83 Si pensi al cavaliere con elmo crestato ritratto neidipinti rupestri di El Cingle de la Mola Remigia nelLevante spagnolo, datato all’età del bronzo - 800 a.C.; per esso si veda Beltran, cit., pagg. 42, 45 ed 84.84 Attorno al 1500 a. C., vedi Beltran, cit., pag. 44.85 Con un uomo armato a cavallo.86 Si veda R. De Marinis, Gli Etruschi a nord delPo, cit., pag. 30.87 Snodgrass, Armi e armature dei Greci, cit., pag.56.88 Si veda Ridgway, L’alba della Magna Grecia,cit., pag. 113.

89 Hanson, The other Greeks, cit., pag. 29.90 Ad esempio nel Villanoviano II di Bologna.91 Silvana Tovoli, Sepolcreto Benacci-Caprara, in“Il Museo Civico Archeologico di Bologna”, cit.,pag. 233; anche Bartoloni, La cultura villanovia-na, cit., pagg. 148-149.92 Franco Cardini, Cavalleria e vita cavalleresca,in “Guerra e guerrieri nella Toscana del Rinasci-mento”, Firenze, 1990, pag. 50.93 Per l’intera antichità.94 Per questa epoca, e comunque per l’intera civil-tà etrusca che non fece impiego che di semplicicoperte.95 Per queste ed altre note sull’imboccatura si veda-no Canti, Andare a cavallo, cit., pag. 68 e segg., eKara, Come andare a cavallo, cit., pag. 13 e segg.96 Per altri dettagli sull’uso del morso a filetto edegli altri finimenti della testa si veda Paul Vigne-ron, Il cavallo nell’antichità, Milano 1987, pag. 70e segg.97 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pagg.52-54.98 R. De Marinis, Gli Etruschi a nord del Po, cit.,pag. 30.99 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit., pag. 194.100 Maurizio Martinelli, Le armi e la guerra, in“Gli Etruschi - mille anni di civiltà”, Firenze, 1985,pag. 211.101 Si veda in MacNamara, The Etruscans, cit.,pag. 27 e fig. 26.102 Alberto Dei, Alcuni finimenti equini dal circolovetuloniese degli Acquastrini: osservazioni e pro-blemi, in “Rassegna di Archeologia” n. 13, 1996,pagg. 203-216.103 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pag.53.104 Sulla sella romana si veda Hyland, Training theRoman cavalry, cit., pag. 45 e segg.105 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pagg.40, 45, 137-38, 143-144, 151, 171-173.106 Si veda in Cernenko, The Scythians, cit., pag.17.

107 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pag. 80.108 Hyland, Training the Roman cavalry, cit., pag.157.109 Si veda Alexander Stahlberg, Bounden Duty,London, 1990, pag. 72.110 Si veda in Ministero della Guerra, Regolamen-to di servizo in Guerra, cit., pagg. 54-55.111 Si veda Keegan, La grande storia della guerra,cit., pag. 335.112 L’ultima carica in guerra si ebbe ad Isbuschen-skij, nel 1942, della quale i pochi sopravvissuti rac-contano che “in quel momento (...) non c’eratempo di pensare a nulla, sentii il cuore che midiede uno scossone al petto, mi strinsi al mio caval-lo Palù, sicuro di avere la sua protezione, e cosìpartii alla carica. Sentii il cavallo vibrare, tendersiin avanti con un poderoso slancio, conscio chequalcosa di meraviglioso stava per compiersi. Lavecchia cavalleria in quel momento tornava unacatapulta che piomba sul nemico, con una forzasovrumana inarrestabile. Sentivo il respiro affan-noso degli altri cavalieri che a testa bassa avanza-vano alle mie spalle, ero sopraffatto dall’impetofurioso dei cavalli che si scaraventavano sul nemi-co. I cavalli, di solito così sensibili, così ombrosi,così facili ad impressionarsi per un nonnulla, inquel momento avanzavano con un galoppo terribi-le, ad occhi dilatati dell’esaltazione della carica”.Testimonianza del colonnello Massimo Gottariportata in Vitali, Cavalli e cavalieri, cit., pag. 159.113 Ministero della Guerra, Regolamento di servizoin Guerra, cit., pag. 54.114 Si veda Jean René Jannot, Apropos des cavaliersEtrusques, in “Atti del Secondo Congresso Interna-zionale Etrusco”, Roma, 1989, pag. 1549 e segg.115 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 179.116Arriano, Ars Tactica 4. 2-9, nella traduzione tec-nica da Hyland, Training the Roman cavalry, cit.,pag. 70. Sulle armi impiegate dalla cavalleria sivedano anche le pagine 80-87, con la traduzionecommentata dei termini di Arriano sulle armiimpiegate dalla cavalleria romana.

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La lancia, la spada, il cavallo

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L’uso bellico del carro assunse probabil-mente già durante la facies villanovianaun peso non indifferente, andando acostituire un elemento ideologicamentee socialmente rilevante, e tale da essererimarcato anche nei corredi funebri, daiquali proviene principalmente la docu-mentazione a nostra disposizione.Il carro, volendo indagarne le remoteorigini, era già attestato in Italia moltisecoli prima dell’età del ferro, ma il suoprimo uso bellico permane per moltiversi cronologicamente incerto; motiviornamentali geometrici definiti “acarro” sono documentati nell’età delbronzo antico -sullo schema della biga adue ruote1-, ma sulle rocce della Valca-monica carri a quattro ruote sono ritrat-ti già nell’Eneolitico con un tiro di unacoppia di bovini, per ritornare nell’etàdel bronzo con tiro equino2. Su questicarri a quattro ruote dal passo moltolungo -progenitori di quelli ancoraimpiegati in Val Camonica e destinati al

trasporto di legname o pietre- esistonostudi approfonditi, tra i quali quelloestremamente completo di Martine vanBerg-Osterrieth3; lo stesso studio con-tiene anche una sezione sui carri a dueruote, attestati sui rilievi camuni solo aNaquane e Campanine, risalenti rispet-tivamente tra il bronzo medio e recenteil primo, e tra XVI e XIII sec.a.C. ilsecondo. E’ molto interessante osserva-re come il carro di Naquane nelle inci-sioni rupestri avesse caratteristichepeculiari diverse da quelle che più tardiavranno fortuna in Italia sulla base deicarri mediorientali: esso aveva cassastretta ed allungata, con frontale piattoe retro arrotondato, assale in linea conl’anteriore della cassa, ruote grandi aquattro raggi, timone a “Y” innestatosotto la cassa, giogo dritto a teste ingros-sate –tutte caratteristiche che vedremodiscordanti dai carri villanoviani edetruschi-; diversamente quello poco piùrecente di Campanine era triangolare a

retro dritto e sponda anteriore curva,con l’assale in linea col posteriore dellacassa, ruote senza indicazione di raggi,timone dritto unito al davanti dellacassa e giogo attaccato al collo dei caval-li, sporgente sui lati4.Se il carro fu principalmente il fulcrodello sviluppo del commercio, consen-tendo il trasporto di quantità primaimpensabili di materiali e derrate adistanze cospicue, esso fu anche unmezzo bellico o comunque utilizzato inappoggio per l’attività di guerra.E’ già stato accennato come il carro daguerra si fosse diffuso negli eserciti tral’Asia minore e l’Egitto sino dal XVIIsec. a. C.5, ancor prima della cavalleria6.L’abbandono in quelle aree dei pesanticarri a due o quattro ruote piene tiratida asini, emioni o cavalli, introdussecinque caratteristiche che avrebberofatto la fortuna del carro leggero milita-re: l’impiego di ruote a raggi; l’uso solodi cavalli per il tiro, opportunamente

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I carri da guerra

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aggiogati; l’impiego del morso equinoin luogo del precedente anello nasale;la combinazione con l’arco e la scelta diproporzioni adatte al trasporto di duepasseggeri in piedi7. Vari storici hannoin effetti notato come

“il fattore nuovo che intervenne fu la velocitàfornita da una nuova forza motrice, che nelcaso dei piccoli cavalli dell’antichità potevaessere sfruttata solo con una combinazione dileggerezza e resistenza di tipo nuovo. Mutuan-do un concetto dell’ingegneria delle costruzio-ni, il carro con ruote a disco trainato da buoipotrebbe essere considerato una struttura incompressione fatta di legno massiccio, lenta epesante, il cocchio una struttura veloce e leg-gera, con scheletro e cerchioni in legno ricur-vo, dove la tensione è ben distribuita. (...) Dicolpo la velocità del trasporto umano su terrasi moltiplicò almeno per 10, dai 3 chilometriall’ora del trasporto con i buoi ai 30 chilometriall’ora raggiunti facilmente con la ricostruzio-ne moderna di un antico cocchio egizio tiratoda una coppia di ponies e del peso di soli 40chilogrammi, compresi i finimenti8”.

Senza voler ripercorrere in tutti i suoiinnumerevoli aspetti l’introduzione delcarro da guerra nelle milizie dell’Orien-te mediterraneo9, va comunque rilevatoche tale arma ruotata viene diffonden-dosi -in un’area dalle vaste zone pianeg-gianti- come posizione mobile per gliarcieri che, altrimenti, avrebbero solorelativamente “ammorbidito” con leloro salve i compatti schieramenti difanteria. Posto su un carro, armato diarco composito, l’arciere -assieme al car-rista che manovrava per tenersi fuoridal tiro degli avversari- poteva scagliare

i suoi numerosi dardi restando un diffi-cile bersaglio in movimento -mentre isuoi avversari appiedati erano più facilida raggiungere- fino a rompere ed arre-stare le formazioni di fanti.

“L’equipaggio di un carro, un uomo allaguida ed uno all’arco, volteggiando a unadistanza di cento o duecento metri intorno algregge di soldati a piedi non protetti dacorazza, poteva trafiggerne sei in un minuto.Dieci minuti di attività di dieci carri avrebbe-ro provocato cinquecento e più vittime, unpedaggio da battaglia della Somme per i pic-coli eserciti dell’epoca10”.

Arma d’attacco, il carro consentiva difare pressione sulla fanteria nemica e,una volta indebolitala o indottala allaritirata, di attaccare sfondando le lineeavversarie; arma dunque da battagliacampale e non da assedio, non fu deltutto invincibile, giacché l’equipaggioera comunque esposto ad arcieri efrombolieri; il suo handicap maggiorefu comunque il vincolo all’impiego interreni non troppo soffici, né paludosi,o ingombri di pietre, come né collinario boscosi11.Progressivamente gli eserciti dal Medi-terraneo all’India divennero essenzial-mente sorretti da ingentissime quantitàdi carri (centinaia o migliaia), messi inopera grazie ai beni di monarchi e reg-genti; in tale contesto la consistenzanumerica dei reparti su carri non eramolto minore di quella delle fanterie,peraltro non sempre schierate insiemeai carri.

Riguardo l’Egitto, le testimonianze ed ireperti più eloquenti risalgono attornoal XIV secolo a.C., epoca alla qualedatano i carri dalla tomba di Tutanka-mon e quello al Museo di Firenze; sitratta di carri composti quasi totalmen-te di legno piegato a caldo e di elemen-ti in cuoio, dall’assale -o sala- collocatoin posizione molto arretrata per miglio-rare la stabilità, e dalle ruote moltodistanziate per lo stesso motivo. Il pia-nale era a forma di “D”, di circa unmetro di larghezza, cerchiato di legno ecol fondo in fettucce di pelle intrecciateche aumentavano la solidità e l’elastici-tà dell’insieme, conferendo un minimodi “sospensione” sotto i piedi dei duepasseggeri; la cassa era chiusa o aperta,con una semplice balaustra lignea cur-vata, bassa sul davanti e aperta sul retro.Le ruote a raggi -4 o 6- avevano un dia-metro di circa un metro, e per ridurrnele oscillazioni il mozzo era molto espan-so sulla sala, sulla quale ciascuna ruotagirava libera col solo arresto di un accia-rino. Talvolta, per rinsaldare il leggerogavello di due pezzi innestati -privo dicerchione metallico esterno-, si fasciavala ruota di pelle cruda incollata, che nel-l’asciugarsi si ritirava rinserrando elasti-camente la ruota stessa12. Carri similiavevano anche gli Ittiti, che ne feceroabile uso nella battaglia di Qadesh13, edi Cananiti, alcuni dei cui carri del primoquarto del XIV sec.a.C. vennero portatiin Egitto come prede o come doni14. I carri ebbero ancor maggiore impor-tanza nell’esercito assiro tra il IX ed il

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VII sec. a.C., come dimostrano le fre-quenti riproduzioni nei rilievi dei palaz-zi; il pianale, ancora a “D”, aveva unabassa sponda chiusa, e sull’assale arre-trato giravano le ruote a sei raggi, dalmozzo talora rivestito di metallo. Laruota aveva la sua parte più esterna -ilgavello- piuttosto alta, con elementimetallici, ed il timone pare fosse ad “Y”,con due stanghe, una per ciascun latodel carro, che uscivano da sotto la cassaper raccordarsi proseguendo verso ilgiogo. Tale carro era destinato ancora asfondare le linee nemiche, grazie al tirodell’arciere di bordo -accompagnatodall’auriga- che era armato anche diasce e di una lancia, da usare da terra oa carro fermo. Dalla seconda metà dell’-VIII sec.a.C. i carri assiri divennero asponde più alte, rettangolari e più gran-di, per contenere quattro guerrieri, alcui tiro erano impiegati quattro cavalli.Le ruote, più grandi e dotate di chiodisull’esterno, dovevano avere anche uncerchione metallico; il controllo direzio-nale, tuttavia, non doveva essere moltoaccurato, visto l’impiego di morsi equinicon montanti a bacchette. Le trasforma-zioni del carro assiro da guerra, in dire-zione di un appesantimento e di unamaggiore protezione, furono senza dub-bio collegate alla crescita nell’impiegodella cavalleria, che nel vicino Oriente sifa spazio nei combattimenti dal IXsec.a.C. Fortemente connessi ai carriassiri furono anche i veicoli da guerradegli altri regni vicini e coevi, come l’U-rartu e come Cipro, dove nelle sepoltu-

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I carri da guerra

Carro leggero egizioin legno, provenienteda una tomba tebanae risalente al XV-XIVsec.a.C. - Firenze,Museo ArcheologicoNazionale; di essosono degni di nota lapedana ad intreccio,l'innesto del timonecon il resto del telaio,la ruota ed il giogo

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re sono stati ritrovati carri e cavalli sacri-ficati15.Nel mondo ellenico del XVI sec. a. C. ilcarro a due ruote aveva già fatto la suarivoluzionaria comparsa. Pur non sem-brando un veicolo particolarmente fun-zionale -giacché “in Grecia (...) il terre-no è in genere troppo accidentato perconsentirne l’effettivo funzionamento,se non lungo un percorso predisposto,fatto che ne limita gravemente le possi-bilità d’impiego16”- esso ebbe grandefortuna anche per il suo valore di statussymbol. In età palaziale si mossero forsesu carri gli armati di pesanti armaturemetalliche quali quella di Dendra; icarri del tempo avevano una spondasemicircolare sul davanti e sui lati, comequelli dell’epoca tardomicenea che,nelle raffigurazioni, risultano protago-nisti frequenti di processioni. Il carroellenico della tarda età del bronzomostra morfologicamente di dipenderefortemente dai tipi orientali -per leruote a raggi compositi, per la presenza

di tiranti in cuoio al giogo, per i “selli-ni” di aggiogamento e per i tipi dimorso adottati-, ma da quei modellistessi si distacca per vari aspetti, come leruote a quattro soli raggi, la collocazio-ne della sala non esattamente al margi-ne posteriore della cassa, ed in partico-lare per un elaborato tirante ligneo a“L” raccordato a timone e cassa, a for-mare un robusto triangolo di rinforzo.Quest’ultima caratteristica, in particola-re, sembra dettata da necessità di irro-bustimento determinate dalle caratteri-stiche ambientali in cui il carro eraimpiegato, ben diverse dalle pianured’Oriente17. L’impiego dei carri nella Grecia mice-nea dovette comunque essere effettiva-mente bellico, e non solo per il traspor-to di guerrieri verso e dal fronte, comenell’Iliade18. Nell’epoca micenea infattiogni palazzo manteneva infatti a pro-prie spese attrezzature, mastri carrai,pezzi di ricambio, animali da tiro edarmi, ed al contempo era responsabiledella costruzione di strade e di pontiindispensabili -come accadde su piùampia scala nell’impero romano- per itrasporti militari19. Le tavolette rinve-nute negli archivi di Cnosso e di Piloriproducono spesso ideogrammi concarri dettagliatamente raffigurati edelencano le ruote inventariate neimagazzini, descrivendone lo stato diconservazione, indicando così che icarri erano sovente smontati, e che leruote -come vedremo oltre- avevano unelevato valore intrinseco. Questi carri

micenei venivano accumulati in quanti-tà ingiustificabili ove destinati ad un usodi mero veicolo di trasporto truppa, e

“it is not reasonable to suppose that the rulersdid all this merely to ensure that several hun-dred of their infantrymen could ride in com-fort or dignity to the battlefield. (...) they musthave believed, that is, that the kind of chariotwarfare that had once been effective was stilleffective20”.

Un passo dell’Iliade, in effetti, sembraaccennare ad un impiego del carrosimile a quello mediorientale; si trattadel racconto col quale “Nestore descrivela carica di un centinaio di carri avve-nuta al tempo di suo padre; qualcosa disimile ad una carica di cavalleria, anchese in Grecia vi sono pochi luoghi adattiad una manovra di questo genere21”.In Ellade tuttavia -in linea con la scarsi-tà di dati in Medio Oriente tra XII e IXsec.a.C.22.- il carro da guerra scomparetra XII ed VIII sec. a. C., e dunque se neannulla anche la tradizione d’uso tattico:

“although a few wealthy individuals must havecontinued to use chariots for pleasure or presti-ge in the Dark Age, chariots were no longerused in the battlefield. This is indicated notonly by Homer’s ignorance of the subject butalso by the complete lack of archaeological evi-dence for chariots in Greece between thetwelfth century B. C., when they were represen-ted on LH IIIC pots, and the eighth century,when the chariot reappears both on Geometricpottery and in bronze and terracotta figurines(...) the scenes of chariot combat on eighth-cen-tury Geometric kraters in Attica are not reflec-tions of the actual chariot warfare. As Snodgrass

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La lancia, la spada, il cavallo

Corredo funerario da Bisenzio, contenente conl'urna a capanna ed il vasellame anche unmodellino di carro - Firenze, Museo Archeologico Nazionale

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and Greenhalgh argue, the eighth-centuryartist was inspired by saga, by reports of chariotsin use in the Near East, and by surviving Myce-nean representations of chariots23”.

Il tramonto dell’età del bronzo e della“civiltà di palazzo” nel Mediterraneoorientale è stato messo in relazione daR. Drews proprio col contemporaneotramonto dell’uso dei carri da guerra ingran numero: secondo lo studioso i sol-dati mercenari ed immigrati dalla Libia,dalla Palestina –e forse da alcune areeelleniche ed italiane- avrebbero propo-sto alla fine del XIII sec. a. C. un nuovomodo di ingaggiare battaglia, ovveroquello con spadaccini -e lancieri- inordine sparso, che si muovevano scia-mando sul campo di battaglia in mododa raggrupparsi per lanciare nugoli digiavellotti, e da dividersi per sottrarsi aicarri o aggredire con la massima mobi-lità le lente truppe avversarie in repartischierati. Quale che sia il grado di fon-damento di tale ipotesi, resta il fatto chedal 1200 a. C. in poi i carri vedono tra-montare la loro fortuna, sui campi dibattaglia mediorientali, iniziata nelXVII secolo. Si può dunque pensare che il “ritorno”del carro nella Grecia dell’VIII secolo enel mondo omerico -di cui parleremoestesamente più oltre- sia stato fruttodella diffusione di quell’ideologia diaretè e di richiamo ad una tradizionearcaizzante che sta alla base della stessaIliade, dove il carro -fraintendendo latradizione- è impiegato solo per mano-vre individuali e per l’accompagnamen-

to del guerriero al terreno di battaglia.Ovviamente l’importanza che tale armaruotata aveva assunto negli eserciti assi-ri dal IX sec.a.C. e nell’area cipriota nonera sconosciuta né in Grecia né in altrearee del Mediterraneo, e senz’altro con-tribuì al rilancio del carro nell’immagi-nario collettivo. Con ogni probabilità icontatti ellenici con l’area etrusco-villa-noviana proprio in questo periodo el’interesse etrusco per l’epos favorironola diffusione di una ideologia simile, edi conseguenza di un uso tattico simil-mente inteso.Nella cultura villanoviana, la secondametà del IX sec. a. C. è il momentodelle più antiche attestazioni disponibi-li di carri: si tratta in particolare di duemodellini di carro della tomba a poz-zetto 44 di Selciatello di Sopra a Tarqui-nia con tiro di una coppia di cavalli, vei-coli probabilmente di uso bellico perl’associazione nel contesto con un elmofittile pileato24. Sebbene, come si èdetto, l’introduzione del carro a dueruote in ambiente etrusco villanovianosia stata senz’altro stimolata dall’Orien-te mediterraneo25, l’analisi di varireperti, in particolare degli elementiangolari in bronzo destinati al raccordodel telaio, ha recentemente indotto arivalutare anche il peso dell’apportodalla mitteleuropa, per cui è necessario

“riconsiderare tutta la questione anche allaluce del fatto che l’arrivo del carro a due ruotein Europa centrale ed in Italia, sotto l’influssodel Vicino Oriente, aveva seguito due stradedistinte anche dal punto di vista cronologico:

in Europa Centrale, infatti, esso sembra siaarrivato con percorso terrestre già nell’anticaetà dei Campi d’Urne (XIII-XII sec.a.C.) manon vi ebbe una grande rilevanza fino allaseconda età del ferro quando sostituirà il carrocerimoniale a quattro ruote di tradizione loca-le; in area etrusco-tirrenica il carro a due ruotecomparirà invece nelle tombe a partire dall’etàtardo-villanoviana in seguito agli stimoli cultu-rali derivanti dagli scambi commerciali con ilmondo greco-fenicio nel Mediterraneo. Anchese si tratta di sviluppi paralleli ed autonomi,dovevano sicuramente avvenire scambi diinformazioni relativi alla costruzione dei carritra area transalpina ed Italia centrale con unandamento bidirezionale. Infatti, mentre perl’Europa centrale è stata da tempo rilavata l’e-sistenza di influssi tecnologici provenienti dalmondo etrusco-italico nella successiva età hall-stattiana, stranamente ciò non è stato ipotizza-to per l’Italia, sebbene vi siano alcune impor-tanti analogie tra elementi di carro centro-ita-lici e nord-alpini. Si citano ad esempio i termi-nali tubolari ad anello a cannone semplice, chenelle tombe etrusco-italiche sono sempredocumentati in ferro non prima del 730 a.C.,mentre in Svizzera sono attestati in bronzo giànella fase finale dell’età dei Campi d’Urne (HaB3= IX-VIII sec.a.C. circa)26”.

All’elementare modello di carro da Tar-quinia fanno seguito vari ritrovamenti,pur ampiamente lacunosi, di resti diveri currus in tombe ascrivibili alla faciesvillanoviana; essi datano alla secondametà dell’VIII-inizi del VII sec.a.C.27, esono riferibili, nelle tombe maschili, abighe trainate da cavalli per trasportareoccupanti in piedi. I resti di carri dellaprima età del ferro a disposizione, estre-mamente esigui, ci offrono quantomeno un argumentum ab silentio riguardo

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la loro costituzione; è infatti da immagi-nare che essi fossero quasi totalmentelignei, con al massimo qualche rinforzobronzeo per i raccordi angolari. La pre-senza del metallo è viceversa frequentenelle ruote e nei loro annessi, qualimozzi o fermamozzi e cerchioni, poichéle ruote erano esposte a spezzarsi pergli urti -essendo i carri privi di sospen-sioni- ed a distorcersi nel caso di curveabbordate troppo strette. A Bologna, ad esempio, risale ancoraentro l’VIII secolo il corredo dellatomba 39 Benacci-Caprara, che com-prendeva due coppie di morsi di caval-lo, oggetti per la bardatura (falere, anel-li, borchie, strisce di lamina) ed alcunielementi di un carro, tra cui i perni fer-

mamozzo, in associazione con unaspada ad antenne e a delle asce, secon-do un modello quasi perfettamentericalcato, nella prima metà del VII sec.a. C., dalla locale tomba 494 Benacci.La recente, completissima pubblicazio-ne sui carri etruschi curata dalla Emi-liozzi28, offre con ricchezza di dettaglidecrizioni, analisi e ricostruzioni deiveicoli rinvenuti; pur rimandando adessa, è almeno il caso di ricordare i vei-coli più significativi. L’esempio più semplice ed elementare èforse il carro rinvenuto nella Tomba 15di Castel di Decima, nel Latium vetus,del 720-710 a.C.:

“a questo tipo di veicolo si richiedeva il massi-mo della funzionalità, mentre un valore secon-dario doveva assumere il fattore estetico. Essopuò quindi essere preso come esempio per lecomponenti essenziali di un carro leggero, abi-litato all’andatura veloce ed alla tenuta di stra-da. I materiali che ne formavano l’armaturaerano essenzialmente di natura organica,legno e pelle, a meno dei cerchioni in ferro fit-tamente chiodati. Quando sono presenti degliacciarini, come in questo caso, vuol dire che ilunghi mozzi giravano liberi negli assali lubri-ficati e che la ruota era del tipo a raggi: la pre-senza di mozzi rotanti è condizione essenzialeall’andatura veloce del currus (...) Distintiva delcurrus è invece la coppia di terminali metallicitubolari ad anello posta ai lati del parapetto, lacui funzione era quella di far passare le tirelledei cavalli esterni (gli equi funales dei Latini)quando il carro era trainato da tre o quattroanimali. (...) Parlando di ringhiere si deveanche affermare che esse costituiscono la parteessenziale dell’elevato della cassa e che attornopoteva esservi gettata una tesa di cuoio a par-ziale chiusura dell’abitacolo del carro. Nell’e-

semplare della tomba 15 di Castel di Decimasei occhielli in bronzo vennero trovati in posi-zione di crollo dalle ringhiere stesse, dove ungambo li fissava originariamente al legno;attraverso gli occhielli passavano evidentemen-te dei cordini tiranti, che si diramavano a ven-taglio per mantenere in posizione il cuoio giàfissato al telaio della cassa. (...) Un tipo diattrezzatura che distingue il currus in età orien-talizzante è poi la coppia di terminali realizza-ti in bronzo fuso per essere applicati agli ango-li posteriori del telaio. (...) La loro funzione èmolteplice: ammorsavano gli angoli posterioridel telaio, raccordavano l’innesto dei montantiposteriori delle ringhiere, fungevano daaggancio per l’avvolgimento delle tirelle deifinimenti equini ed infine, sporgendo dal pia-nale oltre le ruote, costituivano un fermo aterra per impedire alla cassa di ribaltarsi quan-do il timone -rigido e solidale con essa- venivasollevato in alto durante il rimessaggio del vei-colo o nelle operazioni di aggiogamento deicavalli. Il mancato ritrovamento di terminaliposteriori metallici non implica l’assenza di uncurrus, come insegna il caso vulcente del carrodella necropoli dell’Osteria. (...) Numerosetombe orientalizzanti ed arcaiche con resti dicurrus annoverano fra quelli una piastra chio-data di ferro a forma di “T”, destinata a fissarel’innesto (a coda di rondine?) del timone alcentro dell’asse al di sotto del pianale. (...) Unacostante dei currus etruschi di età orientaliz-zante (...) si individua nel corrimano delle rin-ghiere, sempre funzionale alla presa per chisale sul veicolo, lo occupa e lo manovra. La teladi cuoio, infatti, dotata o meno di decorazioneapplicata, non chiude completamente l’abita-colo della cassa, ma ne risparmia la zona alta,lasciando a giorno la parte intermedia29”.

Pur risalente al 680-670 a .C., il carrodalla necropoli dell’Osteria di Vulci eramolto simile a quello di Castel di Deci-ma per la sostanziale elementarietà

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Ricostruzione della cassa del carro depostonella tomba 15 di Castel di Decima

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della sua composizione: esso avevaruote a 8 raggi del diametro di circa 60cm, con gavello di circa 5 cm di spesso-re, rinforzato sul battistrada da chiodi atesta allungata. Il telaio della cassa eraad “U” stretta e lunga, leggermenteaperto verso il retro, dove era chiuso dauna traversa rettilinea rinforzata ai latida due elementi di raccordo sagomati apunta -probabilmente per l’appoggio aterra del carro staccato- e rivestiti dipelle di cinghiale. Il pianale della cassa,sullo stile dei carri orientali, era fatto diun intreccio di strisce di pelle cruda, esotto di esso correva la sala in posizionemediana, a bilanciare il veicolo in modopeculiare dell’area italica e diverso dal-l’Oriente. Se la parte anteriore più bassadel parapetto era in lamina bronzeasbalzata, la parte più elevata dovevaessere costituita da una balaustra dilegno a “U” capovolta, con un rinforzoa forcella al centro ed un pannello incuoio; sui lati questa struttura si raccor-dava a due più bassi corrimani, mentrele fiancate dovevano essere chiuse dadue terminali laterali in cuoio sormon-tati da maniglioni lignei curvi. Da sottoil pianale, unito alla sala, partiva il timo-ne col giogo.Ancora assimilabile ai precedenti,anche se del VII sec.a.C., è il currus dallaTomba dei Carri di Populonia, dovevenne rinvenuto assieme a frecce, lance,un’ascia, un corno musicale, ed uncalesse. Si trattava di un veicolo conruote ad otto raggi, del diametro di 104cm, con mozzi larghi ben 52 cm, e con

assale di conseguenza molto lungo (cm180). Il gavello era spesso 7,5 cm, conrinforzi di ferro all’unione dei raggi conesso, mentre la cassa a “U” aveva iltelaio del pianale formato non più daun solo pezzo curvo per il davanti ed ilati, ma di tre assi unite con incastri eraccordi, cui si sommavano i terminalisagomati e la tradizionale traversaposteriore. Al di sotto del parapettocurvo per la parte anteriore e laterale edei maniglioni posteriori, la cassa erachiusa sui lati e sul davanti da un para-mento in cuoio abbellito da elementimetallici con agemina di ferro su bron-zo; con abilità il carradore aveva unitobellezza a durevolezza rinforzando leapplicazioni metalliche con delle striscedi metallo interne, di modo che incorsa, anche subendo trazioni e flessio-ni alla cassa in cuoio, il bel rivestimentometallico non subisse lesioni, ma potes-se seguire i movimenti senza danno. Pur ricordandone l’esistenza, i piùrecenti carri da Monteleone di Spoleto,da Roma Vecchia, da Castro e da CastelSan Mariano esulano totalmente daquesta analisi, in quanto presentano unacomponente metallica marcata, specienei rivestimenti ornamentali a sbalzonella cassa, un pianale ad “U” più largoche negli esemplari sopra descritti, contelaio in tre elementi più la traversaposteriore, ed un piano di calpestio nonpiù in corregge di cuoio, ma di assilignee parallele al timone: si tratta ormaidi tipologie fortemente evolute rispettoa quelle della prima età del ferro.

Per poter meglio apprezzare l’accura-tezza e le caratteristiche costruttive deicarri appena descritti, è necessarioricordare alcune caratteristiche dellacarpenteria dei carradori, per i quali,fino agli inizi di questo secolo, era indi-spensabile conoscere

“i requisiti del legname, che non doveva esseredi zone basse e umide, non doveva avere vena-ture o pecche, essere d’una pianta abbattuta aluna calante perché altrimenti era soggettoall’aggressione dei parassiti. (...Il carradore)avvertiva la presenza del tarlo, che però sisarebbe rivelato solo molto dopo, o la lievissimaincaldellatura, vale a dire che il legno aveva sof-ferto, sia pure leggermente sulla pianta d’unainfiltrazione d’acqua da un nodo o una ferita.Anche questo un difetto che si sarebbe rivelato

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I carri da guerra

Ricostruzione della cassa del carro dallanecropoli dell'Osteria di Vulci

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col tempo, magari con gli anni. (...) Parte piùresistente e delicata del complesso, la ruota dilegno, cerchiata di ferro e imperniata col metal-lo, era una delle cose più laboriose e difficili dacostruire: anche per il carradore più esperto eraun momento di preoccupazione quello dellacerchiatura, quando in un attimo si rischiava dicompromettere tutto il lungo lavoro preparato-rio. (...) La ruota era costituita da questi ele-menti: le banche o gavelli erano sezioni curveche componevano il cerchio o la corona dilegno della ruota. Potevano essere di frassinorosso o d’olmo, ma spesso venivano fatte diquercia, essendo le parti che continuamenteentravano e uscivano dall’acqua, con la pioggia,nei guadi, ecc. Dovevano essere tagliate il piùpossibile nel senso della fibra. Normalmente ilnumero delle banche era la metà di quello deiraggi e perciò in una banca erano ospitati dueraggi. Le linguette: erano piccoli legni cheentravano nella commettitura di due banche, inapposite scanalature, per far sì che non si muo-vessero e rimanessero sempre perfettamenteallineate. I raggi: o razze (...) potevano essere diquercia, d’acacia, di frassino rosso. Il legnodoveva essere lavorato ben secco senza imper-fezioni, tagliato secondo la fibra e preso dalceppo, o molto vicino a questo, dove il legno èpiù compatto. Ciascun raggio deve trovarsi diregola sul prolungamento di quello opposto. Ilmozzo: era il ceppo rotondo di legno che rac-coglieva i raggi al centro. Poteva essere d’olmo,meglio d’olmo attortigliato, di quercia o di fag-gio. Si usava lavorare legno non del tutto seccoper evitare inconvenienti nel successivo impa-rentamento tra il legno del mozzo e quello deiraggi. Se il mozzo risultava troppo secco, primadi inserirvi i raggi si poneva per una ventina diminuti in un bagno d’acqua bollente. Potevaavere due cerchiature opposte che lo preserva-vano da spaccature. Le stampe: o mortise eranoi fori nel mozzo in cui entravano i raggi. Nelmozzo potevano essere sfalsate per non inde-

bolire troppo il blocco di legno. La corona: erala cerchiatura di legno formata dalle sezionidelle stampe. Il cerchione: o cerchio era di ferroe costringeva tutta la struttura di legno in unblocco compatto, legandola a forza e correndointorno alla corona30”.

Le varietà di legname impiegate nel-l’antichità sono state identificate in alcu-ni casi, laddove si siano conservate partisufficienti di componenti altrimentideperibili: il carro di Vulci aveva iltelaio, il gavello ed il mozzo d’olmo(Ulmus sp.), mentre le ringhiere eranonate di tasso comune (Taxus baccata L.),ma la forcella di queste, danneggiata,venne rifatta di pero. Uno dei mozzidella biga di Castro risultò di quercia,mentre dei due carri dalla tomba fem-minile di Sirolo, in area picena, quello A-un calesse- aveva struttura e ruote inolmo, quello B aveva i cerchioni in fag-gio31. Peraltro anche i dati nelle opereomeriche indicano che tra i legni prefe-riti per la sala dei carri vi erano il fag-gio, il frassino e l’olmo (Iliade V, 838), eper la ringhiera il flessibile fico (IliadeXI, 37). Nel complesso si nota come levarietà di legname impiegate in età vil-lanoviana ed orientalizzante fossero giàquelle che poi, per tre millenni, i carra-dori avrebbero continuato a preferire. Nella costruzione del carro, la parte piùcomplessa era senz’altro la realizzazionedelle ruote, che sappiamo dall’artigiana-to più recente essere costruite attorno almozzo ancora intero con l’innesto deiraggi, e quindi completate coi gavelli; aquesto punto l’opera di carpenteria

veniva ultimata con la foratura delmozzo con un grosso trapano a mano.Quest’ultima operazione era da eseguirecon la massima precisione, in modo daottenere un foro perfettamente ortogo-nale al piano della ruota; se il foro fosserisultato inclinato la ruota avrebbe infat-ti avuto delle oscillazioni laterali crescen-ti con la velocità. Ancor prima dellacreazione del carro e del suo assale, taledifetto -se minimo- ove notato potevaessere corretto modificando il foro; sepassato inosservato o troppo grave, l’in-tera ruota doveva essere rifatta. Questidettagli tecnici sulla complessità dellacostruzione delle ruote ne spiega l’im-portanza nei magazzini dei palazzimicenei di Cnosso e di Pilo, e del perchéesse venissero periodicamente ispezio-nate ed accuratamente conservate.A dare ancora maggior valore alle ruote,in area italica, c’era l’usanza di apporvidei cerchioni in ferro, i quali caratteriz-zano il lavoro dei carradori dell’Italiacentrale ed “erano assolutamente scono-sciuti a nord delle Alpi prima dell’etàhallstattiana32”, diffondendosi dall’Italiacentrale in area celtica già dall’ultimoquarto dell’VIII sec.a.C.La cerchiatura, come la foratura delmozzo, era un’operazione che mettevaa repentaglio il lavoro sino a quelmomento effettuato; per essa era neces-sario che il lavoro del carpentiere fossestagionato, ma non troppo umido nésecco, e non avesse difetti nascosti;anche la giornata doveva essere serena,non umida né calda. Tuttavia il mon-

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La lancia, la spada, il cavallo

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taggio del cerchione metallico venivaeffettuato ancora, nell’VIII e nel VIIsec.a.C., con metodo a freddo, grazieall’impiego di lunghi chiodi dalla testaallungata rettangolare o romboidale;sono documenti in tal senso, tra gli altri,il carro dalla tomba 15 di Castel di Deci-ma e quello della tomba 94 dell’Esquili-no a Roma (terzo quarto dell’VIII sec. a.C.), dove sono stati ritrovati dei cerchio-ni ed i relativi chiodi in ferro. Coltempo tuttavia l’unione a freddo tralegno e metallo doveva farsi precaria,ed è per questo che più tardi venneideata la cerchiatura a caldo, adottatafino a tempi recenti33.Grazie a tutti questi accorgimenti siriusciva a costruire dei veicoli dalle pre-stazioni abbastanza elevate; i carri rag-giungevano infatti una velocità di 25-30km/h34, facilitata anche dall’esiguità delpeso; gli esemplari egizi risulta che fos-sero addirittura sollevabili da un solouomo, con un peso contenuto al di sottodei 50 kg35. A tale risultato concorrevainoltre, per le bighe, il sistema di fissag-gio delle ruote all’assale, che prevedevala rotazione libera delle ruote stesse sulleestremità della sala, lubrificata da grassoanimale ed avvolta per una notevolelunghezza dal foro del largo mozzo.Diversamente, i calessi -sebbeneanch’essi a due ruote- avevano le ruotefissate all’assale, il quale ruotava entrodue staffe metalliche lubrificate postesotto la cassa; tale complesso aveva uneffetto di “limitatore di velocità”, spe-cialmente nelle curve: infatti nella biga

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I carri da guerra

Ricostruzione del carro deposto nel Circolo del Tridente a Vetulonia - Vetulonia, Museo CivicoArcheologico "I. Falchi"

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le due ruote indipendenti compensava-no il diverso diametro di sterzata assu-mendo velocità differenti, cosa che nonera possibile nel calesse con le ruotesolidali all’asse e quindi vincolate allastessa velocità senza differenziale. La sta-bilità in curva era anche assicurata dallalarghezza della carreggiata, che nei carrietruschi si aggirava di norma tra i 100ed i 120 cm, ma che nei carri egizi, dalleruote più ampie, andava tra 150 e 180cm. Se il baricentro in curva era legatoall’altezza dell’assale da terra e alla lar-ghezza di esso, il bilanciamento dellacassa del veicolo sull’asse era legata allaposizione dell’assale rispetto al pianale eal punto di trazione esercitato dal giogosulla coppia di cavalli. Abbiamo già vistocome i carri asiatici avessero l’assaleposto all’estremità posteriore del piana-le, in modo da far gravare il peso deipasseggeri sul davanti del carro, sultimone e sul giogo appoggiato sullaparte anteriore delle scapole dei cavalli,che tiravano con le spalle; ciò creava unosquilibrio in avanti necessario a mante-nere il veicolo fermo. I carri etruschiavevano invece l’assale al centro del pia-nale allungato, per cui gli occupanti,vista la presenza delle ringhiere, doveva-no bilanciare il veicolo sporgendosi inavanti, o più probabilmente gravavano acavallo dell’assale, stando uno davanti el’altro indietro dentro la stretta cassa,riducendo il peso sulle spalle dei caval-li36. L’agilità del veicolo era comunquefrutto anche della sapienza dell’auriga;Cesare nel 55 a.C. rilevò come tra i Bri-

tanni “i guidatori dei carri, con intensis-simo addestramento quotidiano arriva-no a tanto, che possono padroneggiare idestrieri anche se lanciati su balze a fortependio o in terreni rotti, frenandoli egiostrandoli rapidamente37”. L’uso pratico dei carri in relazione allaguerra pare comunque piuttosto margi-nale in epoca villanoviana, come si èvenuto osservando e sulla scorta diquanto è documentato per età piùrecenti. Diversamente da quanto eraaccaduto nei secoli precedenti nel Medi-terraneo orientale, i carri nella primaetà del ferro e nell’orientalizzante etru-sco non sono usati per azioni tattichecoordinate, ma principalmente per avvi-cinarsi al teatro di scontri. La difficoltàdi movimento dei carri su terreni sasso-si, paludosi e su declivi, tipici del pae-saggio italiano, rinvia peraltro allanecessità di tracciati stradali sui quali farmuovere i veicoli, frutto di lavori dellacollettività organizzata. Strade sono atte-state nel Latium, all’Acqua Acetosa, sinodall’VIII sec.a.C., ma è dalla metà delVII secolo che si conoscono a Romalavori pubblici di sistemazione dellecomunicazioni, come il Ponte Sublicioed i Vici, ed il catastamento dei terreniprivati e pubblici. La prima pavimenta-zione del Foro attribuita dalle fonti lette-rarie ai Tarquini è risultata archeologica-mente un battuto di ghiaia degli ultimidecenni del VII sec. a.C., ed altri per-corsi coevi erano acciottolati, in seguitosostituiti nel VI secolo da compatti bat-tuti di pietrisco e tufo tenero, o addirit-

tura da lastricati di tufo su una larghez-za di circa 2 metri, come quelli fissatidalle leggi delle XII Tavole38. E’ interes-sante notare come i sistemi di “sospen-sione” delle bighe etrusche e laziali delleepoche più antiche prevedano un pian-cito del pianale formato da strisce dicuoio intrecciate, inteso ad assorbire inparte le sollecitazioni trasmesse dal ter-reno al veicolo; più tardi -in contempo-raneità con la diffusione di strade siste-mate- il pianale diviene un assito rigidodi listelli, evidentemente perché non erapiù avvertita la necessità di ammortizza-re al massimo il veicolo.L’uso del carro da guerra in Etruria eradunque, per lo più, per l’avvicinamentodei “capi” al luogo della battaglia, allatesta degli armati appiedati su distanzebrevi o medie39, o al massimo per qual-che puntata di disturbo, secondo unmodello omerico riferibile appunto agliusi dell’VIII secolo:

“i guerrieri omerici (...) usano moltissimo ilcarro, ma solo come rapido mezzo di traspor-to per il campo di battaglia (...): veloci cavalli dirazza e un buon auriga sono cose importantiper un guerriero nobile. Capita naturalmenteche un combattente scagli una lancia da uncarro in corsa, o che venga colpito mentre sitrova su di esso; ma una tecnica del combatti-mento coi carri, come la praticavano moltipopoli orientali, non esiste assolutamente nelmondo omerico40”.

Il carro omerico coevo a quello villano-viano, basandosi sui passi dell’epos, eraanch’esso un leggero veicolo dalle ruotea raggi (knèmai) -i carri degli dèi ne ave-

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vano fino ad otto, Iliade V, 723- fissati almozzo (plèmne) talora fatto di pioppo,secondo il passo in cui si parla (Iliade IV,480-489) di un “pioppo, che sia cresciu-to liscio nella bassura di una grandepalude ed i suoi rami crebbero alla som-mità; ma il fabbricatore di carri lo tagliòcon fulgida ascia, per farne un curvomozzo a splendido carro”; i gavelli (apsìs)avevano rinforzi metallici (si veda in Ilia-de IV, 465; V, 726, 744; XI, 537; XXIII,505). L’assale (àxon) era lungo e ligneo(Iliade V, 838), mentre gli dèi disponeva-no di assali in ferro per Hera (V, 722) edin rame per Poseidone (XIII, 30); la cassa

(dìfros) aveva un pianale (ptèrna) ed unparapetto a giorno (epidifrìas) (Iliade X,475) talvolta di rami commessi (da cui leespressioni dìfros euplekès o eùplektos inIliade XXIII, 335, 436) talvolta di striscedi cuoio o metallo (Iliade V, 727). Nelcaso, la ringhiera lignea era spesso inlegno di fico, elastico e flessibile, ed eradetta àntyx (Iliade V, 728; XI, 535; XX,500; XXI, 37), con due maniglie lateralidette àntyges, come la doppia àntyx delcarro di Hera. La cassa era anche ornatacon oro, argento, stagno, cuoio (Iliade IV,226; V, 239; X, 322, 393, 438, 501; XIII,537; XIV, 431; XXIII, 503; Odissea III,

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I carri da guerra

A sinistra, in alto, lastre fittili dal palazzoprincipesco di Acquarossa; presso Eracle cheaffronta il toro cretese -sopra- ed il leone diNemea -sotto- appaiono dei carri leggeri a dueruote. Sotto, la ricostruzione del carro dallanecropoli al Colle del Capitano di Monteleonedi Spoleto; a destra, la strada etrusca detta"Il Cavone" a Sovana

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492; XV, 145, 190). Il timone (rymòs)univa la cassa al giogo, dove era piùdebole (Iliade VI, 40; XXIV, 272); il giogo(pròte pèza) stava alto sul collo dei cavalli(Iliade XVII, 440; XIX, 405; XXIII, 283)e nell’Iliade vi è la descrizione del mododi legarlo al timone:

“i figli di Priamo preparano il carro, che devecondurre il loro genitore alla tenda di Achille.Dopo aver posato il giogo sul timone alla suaestremità essi l’assoggettano a mezzo di unacaviglia (èstor), disopra mettono un anello (krì-kos) ed in seguito tre volte incrociano la correg-gia (zugòdesmos) che deve legare il giogo attornoall’ombelico (omfalòs) piazzato al centro e cia-scuna volta fanno ripassare i capi della cinghiaal disotto ripiegandoli. Questo ombelico dove-va essere un bottone in rilievo, attorno a cui erapossibile fare un nodo. (...) In un passo omeri-co il giogo forma colle cinghie del pettorale(lèpadna) (V, 730) un collare completo (zeygle).Nell’Iliade, quando il timone si rompe, i duecavalli continuano a correre legati per il giogoed il carro resta immobile (VI, 38; XVI, 703) (...)In Omero ordinariamente l’attacco è a duecavalli; il poeta parla anche di attacco ad unsolo (II, 390; XII, 58; XXII, 22; XXIII, 517) edinfine di un terzo cavallo che correva accantoagli altri (VIII, 87; XVI, 152 e 470; cfr. Odis. IV,59), il quale non era attaccato al carro, ma aglialtri cavalli con delle briglie alla bardatura dellatesta od al giogo. I cavalli così attaccati sonodetti «parèoroi» (VIII, 87; XVI, 152; 470)41”.

Elemento di continuità tecnologica manon d’uso con l’età micenea, il carrogreco della prima età del ferro è docu-mentato dall’iconografia dell’VIII sec.a.C. come tipicamente ad alto parapet-to anteriore aperto, raccordato come inprecedenza con un tirante al terminale

anteriore del timone, e con tiro di quat-tro cavalli, due al giogo e due esterni;diffuso nella Grecia continentale essoappare anche nelle colonie dell’Italiameridionale e nella Sicilia42. La bassa sponda della cassa non proteg-geva granché da occasionali colpi diarmi da getto gli occupanti, che poteva-no restare feriti; lo studio del BottoMicca indica come più frequenti per icarristi le ferite al petto, come quelleinferte da Diomede a Fegeo, al quale “ilTidide scagliò il bronzo, e non invanodalla mano sfuggì la lancia, ma lo colpìnel petto tra le mammelle e lo buttò giùdal carro” (Iliade V, 17-19); Diomede siripeté quando “colpì nel petto presso ilcapezzolo il figlio del magnanimoTebeo, il servo auriga Eniopeo, cheteneva le redini dei cavalli. Cadde que-sto dal carro ed i veloci cavalli retroce-dettero” (Iliade VIII, 119-125). Non conla lancia, sebbene vi siano versi formu-lari nell’episodio, ma con una freccia,Teucro “colpì nel petto presso il capez-zolo Archeptolemo, audace auriga diEttore, mentre stava lanciandosi nelcombattimento; cadde dal carro ed iveloci cavalli retrocedettero” (VIII, 312-315). Ancora Diomede “sbatté in terradal carro Timbreo, colpendolo collalancia presso il capezzolo sinistro” (Ilia-de XI, 320-321); oltre alle ferite allaparte alta del busto, sono comunqueattestate anche ferite all’addome (IliadeXIII, 398; XVI, 463) per via delle spon-de basse; il carro in effetti si spingevamolto a ridosso della mischia, passando

su armi e cadaveri (Iliade XI, 534 e segg;499 e segg; VIII, 179; IX, 505; XII, 110e segg; XVI, 380), ma per lo più servivaa spostarsi sul campo di battaglia, inmodo da scendere e radunare le truppeo combattere, mantenendo il veicolonei paraggi per poter eventualmenteripartire (Iliade III, 29; V, 20; VI, 103;XII, 84; XIV, 428 ecc.)43. La Grecia del-l’Iliade vede nel carro

“soprattutto un veicolo nel quale, a fianco delcocchiere, prende posto un guerriero che vuolessere rapidamente trasportato sul campo dibattaglia. Quando questo combattente incon-tra un avversario degno di lui, mette piede aterra e lotta proprio come un fante. A secondadelle sorti di questo scontro, il guerriero puòrisalire precipitosamente sul carro per fuggireo, se è vittorioso, per volare verso un altronemico. Siccome combatte a piedi, l’uomo delcarro non ha che le normali armi del fante: lapicca e lo scudo. A Pandaro, che si lamenta diessere costretto ad andare in battaglia a piedi,Enea si offre di fargli da cocchiere: « Andiamo,sali sul mio carro, per veder come i cavalli diTroia sanno, quà e là nella pianura, inseguire ilnemico o sfuggirlo. Entrambi ci riporterannoin città e ci salveranno, se Zeus accorda nuova-mente la gloria a Diomede, figlio di Tideo.Andiamo, adesso, prendi la frusta e le redinibrillanti, e io scenderò dal carro per combatte-re; oppure tu accogli l’assalitore e io mi occu-però dei cavalli»44”.

Fu dunque questa la tattica ellenica, cheprobabilmente coincideva con quellaitalica della prima età del ferro:

“in questo tipo di scontro, non si tratta evidente-mente di lanciare il carro nei ranghi nemici.Rimanga quindi in disparte lo scudiero, mentre

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La lancia, la spada, il cavallo

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il guerriero, a piedi, maneggia la lancia. E’ quel-lo che consiglia Nestore: «Dava ordini innanzi-tutto agli scudieri, raccomandando loro di tratte-nere i cavalli, di non spingere in disordine nellamischia: -Che nessuno di voi, confidando nellapropria abilità di scudiero e nel suo maschiocoraggio, si lanci da solo davanti agli altri percombattere i troiani, né torni indietro, perchécosì sareste più facili da spezzare. Che il guerrie-ro che, lasciato il suo carro, ne raggiungerà unonemico, colpisca, con decisione, con la sua lan-cia: è la cosa migliore-». E’ la stessa tecnica di bat-taglia descritta da Esiodo: due carri avversarigaloppano l’uno incontro all’altro. Ma lo scontronon si svolge in carro. «I cavalli dei guerrieri, fac-cia a faccia, emettono acuti nitriti e l’eco, intornoad essi, ne fa udire gli scoppi». I due guerrieri,ciascuno in piedi nel suo carro vicino al cocchie-re, si interpellano e si minacciano. Poi, per bat-tersi, «saltano velocemente al suolo, gli scudieriportano vicinissimo i corsieri dalle belle criniere,mentre sotto i piedi degli eroi che avanzanorisuona la vasta terra». Essendo ferito uno deicontendenti, la lotta termina. Il ferito è rialzato edeposto sul carro che, al galoppo, lo allontanasubito dal campo di battaglia45”.

Del tutto simile era la tattica di impiegodel carro da guerra o essedum che nel 55a.C. Cesare vide impiegare dai Britanni,i cui reparti avevano ancora schiera-menti sommari di tipo protostorico, e dicui parla nel De Bello Gallico IV, 33:

“La tattica del combattimento dei carri è laseguente: da prima scorazzano per ogni dovelanciando armi da getto e scompigliando disolito le file nemiche con lo spavento provoca-to dai cavalli e dal fragore delle ruote e, unavolta penetrati fra i drappelli dei cavalieri, bal-zano dai carri e duellano a piedi. I cocchieriintanto si ritraggono un po’ in disparte dallamischia e sistemano i carri in posizione tale da

permettere ai combattenti, se sono sopraffattida un numero soverchiante di nemici, di ripie-gare rapidamente presso i compagni. Così rag-giungono in combattimento la mobilità dellacavalleria e la fermezza della fanteria46”.

Similmente, anche Diodoro Siculo nel Isec.a.C. rileva che i Galli “nei loro viaggie quando vanno in battaglia usano carritirati da una coppia di cavalli che tra-sportano l’auriga ed il guerriero; e quan-do nei combattimenti si scontrano con lacavalleria avversaria, essi prima scaglianoi loro giavellotti contro il nemico e poiscendono dal carro e si uniscono alla bat-taglia con le loro spade” (V, 29).Se nell’Etruria villanoviana ed orientaliz-zante il carrista appare come un guerrie-ro trasportato su carro, come nell’eposomerico, in ambiente italico ci sono forselabili tracce di un impiego del currusanche quale piattaforma mobile di distur-bo per il tiro di armi da getto, come abbia-mo appena visto fare ai Britanni e Galli,funzione che comunque non eliminava lapreferenza per il combattimento a piedi:

“nel Piceno sono stati visti indizi, peraltro daapprofondire, di un possibile ruolo dei carristicome combattenti sul carro, in base alla presen-za nei corredi tombali di una lancia assai lunga,fasci di giavellotti e calzari chiodati. Nel Lazio ilricordo di un remoto uso bellico del carro è affi-dato alla iconografia della Iuno Sospita diLanuvio, che brandisce lancia e scudo bilobatodall’alto di un carro in corsa (denario di L. Met-tius del 44 a.C.), e a quella della Iuno Curitis diTivoli (Serv., Aen., I, 8 e 17), nonché alla erudi-zione virgiliana, che nell’Eneide fa combattere iRutuli sul carro, a differenza dei Troiani e ingenerale degli eroi omerici47”.

L’analisi dei dati statistici sulla compre-senza di armamento nelle tombe etru-sche ed italiche con veicoli, pubblicati investe di tabella da Emiliozzi e Camerin48,evidenza comunque una scarsa presenzadi armi da getto nelle deposizioni concarri, specie nelle tombe più antiche.Due giavellotti -con due lance- eranopresenti nel Circolo dei Lebèti di Vetulo-nia (710-690 a.C.), tre nella tomba 6367dei Monterozzi di Tarquinia (700-650a.C.), quattro nella tomba XVI di S. Mar-tino di Capena (700-675 a.C.); per trova-re più giavellotti si deve scendere verso lametà del VII sec. a.C. (Tumulo dei Carridi Populonia, tomba 5 di Monte Michelea Veio, tomba Avvolta I dei Monterozzi diTarquinia). Per quanto concerne letombe con carro dell’VIII secolo, lapanoplia prevedeva, tra gli esempiveienti, una spada, un pugnale, duelance, un saurotèr e morsi (tomba EE 10Bdei Quattro Fontanili, 775-750 a.C.); una

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I carri da guerra

Figuranti in costume da guerrieri etruschipresso un carro, durante la sfilata tenutadurante il Primo Congresso InternazionaleEtrusco

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spada, una lancia, 4 saurotèr, un’ascia, unelmo crestato, uno scudo e morsi (tombaAAI dei Quattro Fontanili, 750-725 a.C.),una spada, una lancia, un kardiophylax emorsi (tomba ZI alfa dei Quattro Fonta-nili, 750-725 a.C.); un pugnale, una lan-cia, un elmo crestato, uno scudo e morsi(tomba 871 Casal del Fosso, 730-720a.C.); una lancia, un saurotèr, un’ascia emorsi (tomba infantile HH 6-7 dei Quat-tro Fontanili); una spada, un pugnale,una lancia ed un’ascia (tomba XVIIIdella Vaccareccia, 720-700 a.C.). A questicorredi da Veio, tutto sommato piuttostousuali per un combattente appiedato,fanno eco quelli di Narce (tomba 20 diPizzo Piede, 725-700 a.C., con spada emorsi; tomba 2 di Petrina, 720-700 a.C.,con spada, lancia, saurotèr, scudo e scudod’impasto; tomba 8 di Pizzo Piede, 720-700 a.C., con spada, pugnale, lancia, sau-rotèr, scudo d’impasto e morsi), quelli diPontecagnano (tomba 4461 di Corso Ita-lia, 720-700 a.C., con due lance, un’asciaed un coltellaccio) e quella di RomaEsquilino (tomba 94, 710-700 a.C., conuna lancia, un elmo a calotta, unoscudo). Le tombe laziali mostranocomunque una sovrabbondanza di scudi,forse connessi alla testimonianza di fantial seguito del carro (tomba 21 di Casteldi Decima, 730 a.C., con una spada, unalancia, un kardiophylax, schinieri, morsi,tre scudi ed uno di impasto; tomba 93dell’Acqua Acetosa, 725-700 a.C., conuna spada, delle lance, morsi e duescudi; tomba 15 di Castel di Decima,720-710 a.C., con una spada, 4 lance,

morsi e tre scudi di impasto). Più singo-lari appaiono le deposizioni di Cuma(tomba 104, 700 a.C.) con una spada, 4pugnali, 8 lance, un saurotèr, uno scudo emorsi; e quelle dell’Emilia Romagna connumerose asce (Bologna tomba 39Benacci Caprara, 725-700 a.C., con unaspada, due asce, un elmo e 4 morsi;Bologna tomba 53 Benacci Caprara,725-700 a.C., con due asce e 4 morsi;Verucchio tomba 58 Lippi, 710-700 a.C.,con due lance, tre asce e tre morsi)accompagnate peraltro da deposizionicon soli spada, pugnale, lancia e saurotèr(tomba 494 Benacci di Bologna, 710-690a.C.; tombe 17 e XIXb Lippi a Veruc-chio, 710-690 a.C., tomba IX di Fornacea Verucchio, 710-690 a.C.).Nel complesso dunque non emergono,nella prima età del ferro etrusca e lazia-le, caratterizzazioni particolari dellepanoplie dei carristi, tali da sottolineareun metodo di combattimento totalmen-te diverso da quello dei fanti; è possibi-le che i giavellotti e le asce -rispettiva-mente nell’Etruria meridionale ed inquella padana, dove è stato ipotizzatoche la natura pianeggiante del terrenoavesse favorito nel Villanoviano IV l’uti-lizzo bellico del carro49- venissero occa-sionalmente lanciati dal veicolo, ma ilcombattimento doveva tenersi essen-zialmente a terra.In effetti tutta la documentazione con-corda sul fatto che il carro non era inte-so, nel mondo italico del tempo diOmero, come elemento principe di unarmamento “pesante” per un combatti-

mento campale; ciò, concordando conquanto attesta la più recente iconografiaetrusca orientalizzante -con guerrieri sucarri in parate o in partenze dalla casaverso il fronte- vale a maggior ragioneper l’epoca villanoviana precedente,dove non potevano esservi tecniche diguerra con schieramenti più evoluti diquelli seriori.Con ogni probabilità l’aretè del guerrie-ro della prima età del ferro era propriodimostrata dal suo scendere in campoper lo scontro corpo a corpo, fatto chesarebbe venuto a mancare -ponendo il“carrista” in posizione di sleale vantag-gio- se si fosse combattuto con i carri,contro la fanteria, senza scendere daquesti. Inoltre le tecniche a disposizionee la strutturazione sociopolitica nonprevedevano quelle schiere numerose eben disposte che l’Oriente aveva giàconosciuto, e sulle cui fila lo scompiglioportato dall’urto o dalle rapide incur-sioni dei carri aveva esiti determinanti.L’ingaggio delle fila nemiche d’altrocanto non era necessariamente in batta-glie campali presso ampie distese, il cheimpediva in caso di terreno accidentatoo fortemente irregolare le evoluzionidei mezzi ruotati, come già si era verifi-cato -pur nei tempi di massima auge delcarro da guerra e nei luoghi di sua piùvasta diffusione- nell’Egitto meridiona-le, in certe aree dell’Assiria e nei territo-ri egei vicini ai popoli montanari. Ingenerale infatti, già nel Mediterraneoorientale della tarda età del bronzo, siera creata una forte differenza del modus

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La lancia, la spada, il cavallo

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tenuto negli scontri tra le numerosemilizie dei regni civilizzati -tutte facentiuso di carri- da un lato, e quello impie-gato contro i meno organizzati abitantidell’ampio entroterra dall’altro.

“In order to carry the battle to mountainous orrough terrain, where chariots could not go, a kingnecessarily depended on an infantry (...) In anycase, what evidence we have suggest that prior tothe Catastrophe infantry battles occurred only inplaces that chariots could not go50”.

Quanto meno la presenza stessa dei carripresso il terreno di scontro era però unimportante segno al nemico di valore enobiltà di alcuni dei combattenti. I pro-prietari di carri peraltro avevano il van-taggio, quali passeggeri di un veicolo, dipresentarsi in battaglia ben freschi dienergie e non debilitati da marce di avvi-cinamento in assetto di guerra, fatto que-sto che poteva avere notevoli ripercussio-ni sull’esito dello scontro51. Inoltre ilcarro consentiva, come si è visto, unafuga verso la salvezza in caso di mino-ranza schiacciante, o in caso di ferita.Sebbene siano attestate varie sepolture incui il carro non è chiaramente un attrez-zo militare, specie nell’Italia meridionaledove “non è mai possibile collegare ilcarro direttamente alla sfera della guer-ra52”, esso costituì in Etruria un simbolodella condizione di leader sociopoliticocaratterizzato dalla funzione guerriera.Come già era accaduto presso gli Assiri,il carro costituì nell’Etruria orientalizzan-te, ed anche in seguito presso i potentatiristretti dei principes rurali, un retaggio di

un passato guerriero, e rivelatore dellacondizione di belligerante e di coman-dante militare. La fortuna del carro da guerra pressol’aristocrazia, secondo Stuart Piggott,avrebbe comunque avuto anche motiva-zioni meno tecniche e più edonistiche,che non possiamo escludere; lo storicolo ha affermato “facendo un riferimen-to interessante e assai convincente aquella che sembra essere una psicologiasenza tempo e universale del trasporto -che il veicolo veloce e slanciato conferi-sce a chi lo possiede prestigio sociale esenza dubbio lo rende anche sessual-mente attraente, oltre ai vantaggi mate-riali e alle emozioni fisiche-53”.D’altra parte, sin dal suo comparire, ilcarro era stato un oggetto dal considere-vole costo di esercizio, sia per l’acquistoche per il mantenimento, comprensivo

di quello di una coppia di cavalli daguerra. La Bibbia, come si è visto, ricordacome un carro da guerra, ai tempi diSalomone -nella tarda età del bronzo-costasse quanto le spese di rimborso perl’aver ucciso a qualcuno 20 schiavi, e cia-scun cavallo un quarto del carro. Anche la lenta diffusione di questo vei-colo militare nell’Europa centrale èstata messa in relazione all’elevatoonere economico ed alla necessità diuna strutturazione sociale: ciò spiega

“come, nonostante il carro da guerra a dueruote fosse noto in Europa centrale già nellapiù antica età del Bronzo, dovesse tuttavia pas-sare più di un millennio perché il carro a dueruote si imponesse in Europa centrale anchecome elemento dell’armamento celtico, quindicon un chiaro ritardo rispetto alle confinanticulture mediterranea e vicino-orientale. Non ènecessario rilevare che il costoso addestramen-to ed il dispendioso mantenimento di una cop-

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I carri da guerra

Lastra in terracotta con sfilata di carri a due ruote, dal Foro di Roma - Roma, Antiquarium Forense

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pia di cavalli da tiro per il carro da guerra fos-sero riservati all’aristocrazia. Il guerriero dotatodi carro da guerra presuppone una classe-guidadi un certo spessore numerico ed economica-mente ricca, fatto che si è verificato probabil-mente solo a partire dai Celti storici54”.

Il mantenimento di una coppia di caval-li, costringendo all’uso di un’area dibuon terreno a pascolo, aveva il suopeso in un contesto che alla fine dell’e-tà del bronzo vedeva ancora comunitàcon territori di circa 5 km di diametro55

di cui un terzo a pascolo, e che solo conl’assestamento degli equilibri nellaprima età del ferro era arrivato a preve-dere territori assoggettati estesi fino a1000 kmq, determinatisi proprio nellaseconda metà e specialmente nell’ulti-mo quarto dell’VIII sec.a.C., ovveroproprio nel periodo in cui fanno la lorocomparsa nelle sepolture etrusche icarri da guerra. Come è stato scritto,

“il rapporto del carro con la campagna ha indub-biamente a Roma e in Etruria radici antichissi-me. Lo attestano innanzitutto gli innumerevolipercorsi viarii, con i solchi tracciati dalle ruote deicarri nei banchi di tufo di quelle regioni. Si puòdire che senza il carro veloce a due ruote nonsarebbe stata possibile la formazione, da partedelle grandi agglomerazioni villanoviane, di unagro adeguatamente esteso. Il sinecismo cheaveva dato ad esse origine aveva infatti posto lepremesse per la definizione di territori dai mal-certi confini, che potevano trovarsi anche a circa40 km di distanza dall’abitato. Distanze enormi,che solo l’uso del carro veloce poteva abbreviare,assieme a quello del cavallo56”.

Ancor più che nel Levante dunque“given the extraordinary expense of

maintaining a chariotry (...) charioteersand chariot warriors were thus a privile-ged elite57”. D’altronde, con l’onere eco-nomico, vi era anche la complessità del-l’addestramento, specie con i cavalli gio-vani58, che era estremamente laboriososino dal XIV sec.a.C., quando in area itti-ta fu stilato un manuale per l’addestra-mento dei cavalli in pariglia con passoambio. Per una comprensione completadi cosa comportasse l’adeguare dei caval-li al tiro di carri da guerra, è senz’altroistruttivo apprendere che si trattava di“un addestramento lungo e meticoloso chedurava sette mesi. Ci è tramandato da unmanuale scritto in caratteri cuneiformi su seitavolette, ritrovato nel 1917 nell’archivio dellacapitale ittita di Hattusa (...) Ne è autore unmitanno, Kikkuli, che si trovava alla corte ittitaintorno alla metà del secolo quattordicesimoa.C. durante il regno di Suppiluliuma I, comegran maestro della cavalleria. Scrive in linguaittita, spesso ricorrendo al mitanno. Ne ripor-tiamo alcuni brani.« 1° giorno. Quando il servo di scuderia portai cavalli al pascolo in primavera, li aggioga e liporta al passo tre kas, al galoppo due iku. Alritorno correranno tre iku. Li stacca, li striglia,li abbevera, li conduce in scuderia, dà adognuno una manciata di trifoglio, due di orzoe una di erba trinciata, mescolate. Mangiatoche abbiano li lega. A sera li fa uscire, li aggio-ga e li porta al passo un kas e al ritorno li facorrere due iku. Li stacca, li striglia, li abbeve-ra. Li conduce in scuderia e dà loro tre man-ciate di erba, due di orzo, due di trifoglio mistea fine trinciato. Mangiato che abbiano, metteloro una sorta di museruola. 2° giorno. Al passo un kas, di corsa due iku.Pasto: due manciate d’erba, una di trifoglio,quattro d’orzo. Pascolare l’intera notte.3° giorno. Due kas e mezzo al passo, due iku di

corsa all’andata. Al ritorno tre iku di corsa,mezzo kas al passo. Notte: erba e paglia.4° giorno. Due kas al passo il mattino, uno anotte. Niente acqua. A notte erba.5° giorno. Due kas al passo, di corsa venti ikuall’andata e trenta iku al ritorno. Mettere lecoperte. Dopo la sudata, un secchio d’acquasalata e uno d’acqua di malto. Condurre alfiume: bagno e nuoto. Ritorno in scuderia: unsecchio di acqua di malto e uno di acqua sala-ta. Ancora bagno e nuoto. Una manciata dierba. Ancora bagno e nuoto. Pasto della notte,trenta litri di cereale cotto e fieno trinciato.6° giorno. Mattino. Lavanda cinque volte;pascolo nel pomeriggio e un bagno. Ripetereper 4 giorni.11° giorno. Ungere con grasso.12° giorno. Tutto il giorno in scuderia. Pasto:solo cereale ed erba tagliata. Ripetere per 10giorni.22° giorno. Lavanda con acqua calda. Erba.Ripetere per 7 giorni.29° giorno. Lo stesso per 3 giorni, ma ungerecon grasso.32° giorno. Legati all’aperto per l’intero gior-no senza cibo o acqua. A sera tre iku di corsa.Pascolo l’intera notte. Ripetere per 3 giorni.35° giorno. Mattino: nuoto. Indi tre kas alpasso. Nella giornata né cibo né acqua. Sera:nove iku al passo. Notte: erba e paglia. Ripete-re per 9 giorni.44° giorno. Fermi l’intero giorno. Una mancia-ta di erba a mezzogiorno. Sera: mezzo kas alpasso. Notte: acqua, erba.45° giorno. Mezzo kas al passo. Nuoto.46° giorno. Tre kas al passo, due iku di corsa.Notte: erba. Ripetere per 9 giorni.56° giorno. Nove iku al passo, di corsa tre iku.Notte: erba.57° giorno. Diciassette iku al passo, il mattino.Sera: diciassette iku al passo, due di corsa.58° giorno. Diciassette iku al passo, due iku dicorsa. Bagno, nuoto tre volte. Dare trenta litrid’orzo con fieno trinciato. Notte: erba.59° giorno. Al passo quattro kas, di corsa due

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I carri da guerra

iku. Ripetere per 9 giorni. La quinta serabagno in acqua calda.68° giorno. Due manciate d’orzo dopo il lavo-ro del mattino, con fieno trinciato. Mezzo kasal passo, due iku di corsa la sera.70° giorno. Mezzo kas al passo, il mattino.Sera: diciassette iku al passo, tre di corsa.71° giorno. Diciassette iku al passo, tre di corsa.

Bagno, nuoto cinque volte. Erba dopo ognidue nuotate. Notte: cereale bollito con fienotrinciato».Il kas è la lega ittita lunga 6 chilometri, l’iku neè la centesima parte cioè 60 metri. L’addestra-mento dei cavalli incominciava a marzo e dura-va fino all’autunno con questa tecnica accura-tissima che presupponeva abbondante mano

d’opera e grande quantità di schiavi adibitiesclusivamente a tagliare l’erba. I cavalli veni-vano lavorati a coppia sia aggiogati sia condot-ti a mano da un uomo a piedi per formare unbinomio inseparabile fra loro. Ciò creava moltedifficoltà se uno degli animali cadeva, perché ilsuperstite accettava un nuovo compagno sol-tanto dopo un accurato riaddestramento59”.

Note

1 Alda Micheli Vigliardi, Rossella Morandi,Alessandro Zanini, Iconografia e arte decorati-va, in “L’antica età del bronzo in Italia”, attidel congresso, Firenze, 1996, pag. 372.2 Emmanuel Anati, I Camuni alle radici dellaciviltà europea, Milano, 1982, pag. 54.3 Martine van Berg-Osterrieth, Les Chars pre-historiques du Val Camonica, Brescia, 1972.4 Si veda in van Berg-Osterrieth, Les Chars pre-historiques du Val Camonica, cit., pagg. 73-80.5 Drews, cit., pag. 106.6 Si veda in Simonetta, Il cavallo nella storiadell’Asia antica, cit., pag. 16.7 Si veda Mary A. Littauer, Joost H. Crouwel,Antefatti nell’Oriente Mediterraneo: VicinoOriente, Egitto e Cipro, in “Carri da guerra eprincipi etruschi”, Roma, 1997, pag. 5.8 Stuart Piggott, The Earliest Wheeled Trans-port, London, 1983, pag. 84, nella traduzio-ne in Keegan, La grande storia della guerra,cit., pag. 163.9 Per le quali si rinvia alle numerose opere giàpresenti, e che in più ampio spazio hannoesaurientemente affrontato il tema; si ricor-dano qui, tra gli altri, Azzaroli, Il cavallo nellastoria antica, cit., nella parte dalla pag. 15 inpoi; Drews, più volte citato, in tutta la parteche va dalla pagina 104 alla pagina 225; ilcapitolo iniziale del catalogo Carri da guerra e

principi etruschi, cit., dalla pagina 5 in poi.10 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,pag. 170.11 Si veda in Hobbs, L’arte della Guerra nellaBibbia, cit., pag. 138.12 Per i carri egizi e la loro descrizione siveda Littauer, Crouwel, Antefatti nell’OrienteMediterraneo: Vicino Oriente, Egitto e Cipro, cit.,pag. 5; e Pier Roberto Del Francia in, a curadi Maria Cristina Guidotti e Franca Pecchio-li Daddi, La battaglia di Qadesh, Firenze,2002, pagg. 54-55 con nomenclatura dellecomponenti del carro. Ringrazio Maria Cri-stina Guidotti per la disponibilità con laquale mi ha consentito una visita accurata aimateriali della mostra sulla battaglia diQadesh, in particolare le armi ed il carro.13 Per la battaglia e per i dati sui carri che vipresero parte si veda diffusamente in Guidot-ti, Pecchioli Daddi, La battaglia di Qadesh, cit. 14 Un carro cananita è in Terence Wise,Ancient Armies of the Middle East, London,1981, pag. 31.15 Per i ritrovamenti di Cipro di veda VassosKarageorghis, Salamina di Cipro, Roma,1974, pag. 22 e segg. 16 Snodgrass, Armi ed armature dei Greci, cit.,pag. 23, a ribadire quanto aveva quasi neglistessi termini indicato nel 1973 Chadwick,in La vita nella Grecia micenea, cit., pag. 53.17 Si veda Joost H. Crouwel, Il mondo greco, in“Carri da guerra e principi etruschi”, cit., pag. 11.

18 Si veda in Omero, Iliade, XI, 747; sull’ar-gomento si veda anche Snodgrass, Armi earmature dei Greci, cit., pagg. 30, 39, 56.19 Si veda Crouwel, Il mondo greco, in “Carrida guerra e principi etruschi”, cit., pag. 11.20 Drews, cit., pag. 118.21 Taylour, I Micenei, cit., pag. 164.22 Si veda Littauer, Crouwel, Antefatti nell’O-riente Mediterraneo: Vicino Oriente, Egitto eCipro, cit., pag. 6.23 Drews, cit., pagg. 170-171.24 Vedi Martinelli, I mezzi di trasporto, cit., pag.577. Per i carri miniaturistici vedi anche Bar-toloni, La cultura villanoviana, cit., pag. 149.25 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit.,pagg. 194-195.26 Nicoletta Camerin, L’Italia antica: Italia set-tentrionale, in “Carri da guerra e principietruschi”, cit., pag. 36.27 Si veda Adriana Emiliozzi, in “Carri daguerra e principi etruschi”, cit., pag. 1.28 A cura di Adriana Emiliozzi, “Carri daguerra e principi etruschi”, cit.29 Adriana Emiliozzi, La ricerca moderna: iprimi risultati, in “Carri da guerra e principietruschi”, cit., pagg. 96-102.30 Carlo Lapucci, In principio fu la ruota, in“L’uomo e il legno 1 - Supplemento al n. 1-2 di Espressione, Italia e oltre”, pagg. II-IV.31 I dati sui legni vengono da Carri da guerra eprincipi etruschi, cit., pagg. 148, 153, 205, 248.32 Marcus Egg, Christopher F.E. Pare, Il

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mondo celtico, in “Carri da guerra e principietruschi”, cit., pag. 47.33 Alla cerchiatura a caldo prendevano parte“una squadra d’operai e d’aiuti che accen-devano un fuoco consistente di legna grossache, come la quercia, fornisse molto calore.Preparavano, oltre alle ruote da cerchiare,secchi e bidoni d’acqua, con piani d’appog-gio per il lavoro. Sul braciere, allargato a cer-chio, venivano posti e sistemati a castello,secondo accorgimenti che ne impedissero ladeformazione, i cerchioni che lentamentes’arroventavano fino a diventare rossi, alcunidicono fino a imbiancare. A questo puntoveniva presa la prima ruota sulla quale veni-va calato il suo cerchio, con mosse precise erapide, in modo che il complesso di legnoentrasse nel ferro senza che questo lo carbo-nizzasse eccessivamente. A questo scopoveniva bagnata opportunamente la corona.L’indugio, l’errore, l’indecisione, la mossasbagliata, non coordinata erano fatali: ilferro rovente non perdonava. (...) Tutta l’o-perazione era fondata sul principio che ilferro, dilatandosi col calore, abbracciava laruota costruita appunto più grande di quan-to risultava la struttura di ferro a temperatu-ra normale. Raffreddandosi poi il cerchio sirestringeva serrando il legno in maniera taleda venire a costituire un tutto unico capacedi sfidare qualsiasi sollecitazione e il tempo.Posato sulla ruota il cerchione incandescen-te, vi veniva inserito a forza con attrezzi par-ticolari chiamati cani (...) che agganciavanolegno e ferro e li stringevano fino a farlicombaciare. (... Un problema) accadeva se ilferro rovente restava troppo a contatto collegno che, bruciandosi, si riduceva perden-do aderenza col ferro. In questo caso laruota presto avrebbe cominciato a giocarenel cerchio logorandosi. Perciò, sistemato ilcerchione, immediatamente i garzoni getta-

vano acqua”. Da Lapucci, In principio fu laruota, cit., pagg. VII-VIII.34 Si veda Jean Spruytte, L’aggiogamento degliequini nel mondo antico. Aspetti tecnici generali,in “Carri da guerra e principi etruschi”, cit.,pag. 70.35 Si veda Keegan, La grande storia della guer-ra, cit., pag. 171.36 Si veda Spruytte, L’aggiogamento degli equi-ni nel mondo antico. Aspetti tecnici generali, cit.,pag. 71.37 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 218.38 Si veda Lorenzo Quilici, Le strade carraiedell’Italia antica, in “Carri da guerra e princi-pi etruschi”, cit., pag. 73 e segg.39 Si veda Giovanni Colonna, L’Italia antica:Italia centrale, in “Carri da guerra e principietruschi”, cit., pag. 15.40 Pietro Janni, Il mondo di Omero, Bari 1975,pag. 162.41 Botto Micca, Omero medico, cit., pagg. 54-55.42 Si veda Crouwel, Il mondo greco, cit., pag.12, e Luca Cerchiai, Gabriella Colucci Pesca-tori, Gabriella d’Henry, L’Italia antica: Italiameridionale, in “Carri da guerra e principietruschi”, cit., pag. 25 e segg.43 Si veda Botto Micca, Omero medico, cit.,pagg. 53 e 54.44 Vigneron, cit., pag. 340.45 Vigneron, cit., pagg. 340-341.46 Moscardelli, in Cesare dice, cit., pagg. 217-218, riporta così il brano: “dapprima, ossianell’azione preliminare all’attacco: scorazza-no e volteggiano all’impazzata, per omnespartes perequitant, lanciando nel contempodardi, et tela coniciunt, sì che col solo spaven-to destato dalla foga dei cavalli, ipso terroreequorum, e dallo strepito delle ruote, strepiturotarum, ottengono il più delle volte lo scom-piglio delle file nemiche. Nell’azione controcavalleria: non appena i «carri» riescono a

insinuarsi fra gli squadroni avversari, i «car-risti» -tranne il guidatore- saltano giù dai«carri» e combattono a piedi. Nel corso delcombattimento, i guidatori, mentre i «carri-sti» stanno combattendo a piedi, escono apoco a poco dalla mischia, aurigae paulatimex proelio excedunt, e dispongono i «carri» inmodo, ita currus conlocant, che i «carristi», sepremuti dal numero dei nemici, possanoessere rapidamente raccolti, ad suos receptumhabeant. Così facendo, si giovano nel com-battimento della mobilità dei cavalieri -perl’azione di sorpresa- e della stabilità dei fanti-per l’azione di forza-: mobilitatem equitum sta-bilitatem peditum”.47 Colonna, L’Italia antica: l’Italia centrale, cit.,pag. 17.48 Nicoletta Camerin, Adriana Emiliozzi,Repertorio dei carri provenienti dalla penisola ita-liana, in “Carri da guerra e principi etru-schi”, cit., pagg. 337-339.49 Si veda Malnati, Manfredi, Gli Etruschi inVal Padana, cit., pag. 83.50 Drews, cit., pagg. 138 e 140.51 Si è già notato l’uso abissino di far porta-re il pesante scudo -gascià- ad uno schiavosino al fronte, come facevano gli oplitigreci, con lo stesso scopo di risparmio dienergie.52 Cerchiai, Colucci Pescatori, d’Henry, L’Ita-lia antica: Italia meridionale, cit., pagg. 25 e 31.53 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,pag. 162.54 Egg, Pare, Il mondo celtico, cit., pag. 48.55 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit.,pagg. 25 e 63.56 Colonna, L’Italia antica: Italia centrale, cit.,pag. 21.57 Drews, cit., pag. 112.58 Si veda Keegan, La grande storia dellaguerra, cit., pag. 171.59 Vitali, Cavalli e cavalieri, cit., pagg. 6-9.

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L’analisi dei mezzi a disposizione deicombattenti non renderebbe un quadrocomplessivo degli eventi bellici dellaprima età del ferro se non venisse com-pletata da una indagine sulle infrastrut-ture difensive fisse a protezione dei luo-ghi abitati.Infatti tra età del bronzo ed età del ferrogli scontri, pur avendo luogo preferibil-mente in campo aperto, o in aree “mar-ginali” del territorio soggetto ai nucleiinsediativi, avvenivano anche a ridossodelle aree abitate, in un contesto dioccasionali “guerre di sterminio” intesealla cancellazione della località assalita avantaggio di quella assalitrice.La vicinanza tra villaggi dell’età delbronzo ed una considerevole quantitàdi altre motivazioni avevano reso infattipossibili scaramucce, razzie e anchevere e proprie lotte per la sopravviven-za tra nuclei umani; già durante l’etàdel rame si erano avuti, in Italia centra-le, rarissimi casi di villaggi con fossato

difensivo, come Conelle, ma essi costi-tuivano sostanzialmente un’eccezione1,e non mostrano caratteristiche tali darenderli una vera “classe” di insedia-menti. Infatti

“gli insediamenti fortificati del III millenniodel Mediterraneo centro-occidentale a lorovolta differiscono tra loro per dimensioni, enti-tà delle strutture all’interno della cinta mura-ria, tecniche costruttive anche se sono accomu-nati dal fatto di non essere in genere posti sulmare o in prossimità di esso, come avvieneinvece per numerosi centri egei. In particolare,considerando i due esempi conosciuti per lapenisola italiana, Toppo Daguzzo e Conelle, sipuò notare come siano diversi per posizionetopografica (sommità di una collina nel primocaso; sperone sbarrato nel secondo), estensio-ne del sito (rispettivamente circa 4.000 e40.000 mq), modalità di realizzazione (unmuro e pochi metri più a monte un fossatointerrotto profondo circa 3 metri con palizzataall’interno, di cui non è del tutto certa la con-temporaneità, nel sito lucano; fossato profon-do fino a 7 metri in quello marchigiano) e pro-babilmente anche per funzione cui era adibita

l’area delimitata, sicuramente abitativa solo aConelle2”.

Diversamente, già nelle fasi iniziali del-l’età del bronzo antico, è stato notatoche nell’area medio-tirrenica un consi-stente gruppo di insediamenti sorge supianori ed alture (15 siti su 23 censiti3).Anche nell’Italia sud-orientale si assistead un simile fenomeno di fortificazionedegli insediamenti, specie quelli costie-ri, ma “anche alcuni insediamenti pro-toappenninici dell’interno possonoessere dotati di mura, come avviene perTufariello in Campania, centro chesembra comunque connesso con il con-trollo di importanti percorsi naturali.Una presenza non sporadica, comeinvece appare essere quella attestataattualmente per l’Eneolitico, di insedia-menti con opere difensive4”.In particolare nell’Italia centrale i sitidifesi sono costituiti da alture isolate,anche e preferibilmente tufacee, e da

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rilievi difesi naturalmente aperti su unsolo lato, di cui talvolta si occupava soloun’appendice marginale; si cercava diperseguire, con questa predilezione peraree elevate, un fine strategico militaree di controllo sul territorio circostante,anche se non sempre l’abitato risultastrettamente “protetto” sull’altura.Infatti, come si è accennato, nell’età delbronzo antico e medio il pianoro non ètutto occupato, ma solo una parte o piùparti distinte di esso; solo nel bronzorecente si userà talvolta tutto lo spaziodisponibile, con un controllo più atten-to sia dell’area insediabile che dellavisuale diretta sul territorio circostante.Quanto al bronzo antico, esempi inte-ressanti sono San Giovenale, Norchia,Luni sul Mignone quali alture tufaceeisolate, mentre Barbarano Romano èun’altura “aperta”; Pian dei Santi pressola Tolfa, Torre Crognola, Montefiore diPitigliano sono invece abitati in appen-dici o zone marginali di pianori5.Nel citato insediamento campano diTufariello presso Buccino l’insediamen-to protoappenninico, formato da caserettangolari con fondazioni di pietra-me, era circondato da un robusto murocurvo di quasi 10 metri di spessore6;anche l’Italia sud-orientale presenta casiconsistenti e numerosi di fortificazione,come Coppa Nevigata, Porto Perone eMolinella, con mura difensive allineatecronologicamente con quelle dellaPuglia “che resta comunque la regioneitaliana con il maggior numero di inse-diamenti fortificati riferibili all’età del

bronzo”, con quelle della Sicilia e conquelle della Campania. Nonostante lapresenza di ceramica egea,

“l’interpretazione più generale del fenomenodell’insorgenza di centri fortificati nell’Italiameridionale e in Sicilia non sembra da porre instretto rapporto con i più antichi traffici mice-nei nel Mediterraneo centrale (che fanno caposoprattutto alle piccole isole del Tirreno meri-dionale, come le Eolie e Vivara), traffici chealmeno in alcuni casi appaiono attestati inmodo rilevante solo dopo la realizzazione distrutture difensive. (...) (La presenza) di inse-diamenti con opere difensive, fa naturalmentesorgere la domanda se essi siano da interpreta-re o meno come siti in qualche modo egemoninei confronti di eventuali centri secondari, cosìda potere pensare a forme di gerarchizzazionesociale con caratteri tali da comportare unaproiezione territoriale. In attesa di ulterioridati, l’impressione generale che si ricava èquella di una situazione sostanzialmente pari-taria sul piano politico (nonostante la diversifi-cazione fra siti aperti e fortificati), a livello dicomunità residenziali, fra gli abitati dediti sol-tanto ad attività primarie e quelli sede di attivi-tà specializzate, situazione che probabilmentesi protrae per tutta l’età del bronzo (ad ecce-zione forse del bronzo finale), anche se invecel’organizzazione socioeconomica interna pre-senta alcuni elementi di trasformazione nelcorso di questo periodo7”.

Anche in Italia nord-orientale, nell’areaveneto-atestina, dall’età del bronzomedio sono presenti numerosi centridifesi; in Friuli-Venezia Giulia, ad esem-pio, sono definiti “castellieri” vari tipi diinsediamento protetto dell’età del bron-zo, ovvero siti sulla cima di colline emonti con cinte litiche, siti pedemonta-

ni con fortificazioni formate da terra-pieni o da orli di terrazzi fluviali, siti dipianura arginati artificialmente secon-do forme geometriche, circondati dafossato. Tipologicamente, in questaregione, sono stati definiti

“in area collinare (...) un primo tipo di insedia-mento impiantato su di un rialzo naturale, inrealtà collinette isolate ed elevate pochi metririspetto alla pianura circostante (...). La secon-da modalità di insediamento prevede l’utilizzoquale area abitativa di uno sperone rocciosoposto presso un corso d’acqua in posizione leg-germente sopraelevata (...) Nelle aree di più omeno aperta pianura assistiamo alla prolifera-zione di svariate modalità insediative, con uti-lizzo nell’alta pianura spesso di muri a secco enella media di terrapieni rafforzati da palizza-ta. I veri e propri «castellieri» della pianurafriulana sono insediamenti pre-protostoricisorti su culminazioni sovente naturali del ter-reno, circondati da un argine spesso a piantarettangolare o romboidale, muniti talora di unfossato esterno. (...) Tra queste manifestazioniinsediative pre-protostoriche una particolaremenzione (...) merita l’abitato di Castiòns diStrada (...) su di un ripiano ghiaioso di formapressoché circolare, cinto da fossato e rialzatodi circa due metri sulla pianura circostante.L’altura risulta formata da riempimento artifi-ciale stratificato, (...) troviamo altre modalitàstrutturali (...) abitati su dossi sabbiosi alluvio-nali circondati da palizzata lignea come avvie-ne a Canale Anfora (...) Inoltre la presenza diarginature od altri tipi di fortificazioni trovanomigliore spiegazione secondo motivazioni distrategia ambientale più che -come spesso inpassato si volle vedere- in quanto mai impro-babili motivazioni di ordine difensivo-guerre-sco. (...) La Cassola Guida conclude sostenendocome «sembra peraltro plausibile che lo scopodi questi aggeri fosse effettivamente duplice, di

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difesa contro gli aggressori e contro le acque,così come i muri dei castellieri carsici servivanoall’occorrenza anche come riparo dallabora»8“.

Diversamente dall’Italia sud-orientale,l’area medio-tirrenica nell’età del bron-zo medio sembra aver vissuto una fasedi evoluzione sociale lenta, con pocaincidenza di eventi bellici: “la mancan-za di armi, la scarsità di strumentimetallici, l’incremento demografico (...)restituiscono l’immagine di una comu-nità pacifica9”; tuttavia a Pitigliano siosserva già in tale periodo “la precoceadozione di quella tipologia insedia-mentale di «area naturalmente difesa»che diverrà canonica nelle fasi successi-ve e che insieme ad altri dati (...) per-mette forse di qualificare Pitigliano, findalla media età del bronzo, come sededi un insediamento «maggiore»10”. In seguito, nella valle del Fiora “duranteil bronzo recente (sec. XIII), si ha una«crisi», un mutamento improvviso dellastruttura socio-economica, il cui riscon-tro archeologico è dato dai grandi mura-glioni a secco che sorgono a Crostolettodi Lamone, testimonianza di un centroprivilegiato11”. Dunque, nel complesso,

“in Etruria meridionale a partire dalla mediaetà del bronzo, si evidenzia un processo di pro-gressiva specializzazione nella scelta del sito dadestinare ad abitato, che giunge a compimentonel corso del Bronzo Finale con l’affermazionedi un modello su altura naturalmente o artifi-cialmente difesa, il quale appare generalizzatoa partire da questo momento nonostante le dif-ferenze geomorfologiche del territorio12”.

In generale, nell’Italia centrale tirrenica,

“durante l’età del bronzo recente si riscontra,negli insediamenti di una certa ampiezza, ladisposizione su alture ripide, facilmente difen-dibili, e la comparsa di fortificazioni eseguite inpietrame. Tale fatto è chiaro testimone di unasituazione in cui le guerre dovevano essere fre-quenti tra centro e centro; lo scopo di esse nonera solo la razzia di bestiame, ma anche la sot-trazione di beni mobili ed individui, con il con-seguente indebolimento dei nuclei vicinipotenzialmente pericolosi. L’organizzazionedelle attività di offesa e di difesa (erezione emanutenzione delle mura, comando degliarmati, amministrazione dei viveri in caso diinvasione del territorio) portò alla comparsa diun capo, eletto tra gli individui emergenti13”.

E’ proprio nell’età del bronzo recenteche

“il potere era diventato ereditario, comemostrano le prime tombe a tumulo con piùsepolture; all’interno di tale situazione si ven-nero creando, nei secoli seguenti, dei cospicuicentri aggregativi che, consci del proprio peso,si scontravano gli uni con gli altri. I villaggifurono allora fortificati e diretti da un capo cherisiedeva in una dimora più ampia delle altre, ilquale, appoggiato da aristocratici di nobiltà ere-ditaria, soprintendeva alla difesa e all’offesa14”.

Tra gli esempi di siti fortificati in Etru-ria si ricordano Narce, dove alla finedell’età del bronzo “le abitazioni eranorealizzate con robuste fondazioni in pie-tra, mentre attorno all’insediamentopoteva esservi stata una sorta di palizza-ta lignea15”; il sito sul Poggio di Sam-prugnano, presso Saturnia16; e Sorgen-ti della Nova, dove nel bronzo finale

l’altura di circa 15 ettari circondata daripide pareti e due fossi confluentiaveva anche un vallo artificiale a est; sitratta di un insediamento che mostra

“una organicità e una razionalità che presup-pongono scelte programmate. Se infatti lepareti rocciose fungevano da mura naturali,l’ingresso doveva avvenire in pochi puntiattrezzati. Una via d’accesso, ma forse non l’u-nica, è stata rintracciata nel settore sud-orien-tale e coincide con uno dei percorsi ancora atti-vi per salire all’acropoli; infatti da un puntopoco distante dal termine del fosso artificialeun sentiero scavato nella roccia sale verso lasommità (...) La strada, oltre ad essere incassa-ta nel tufo, era rinforzata verso l’esterno da unmuro a secco, addossato ad una delle pareti, dicui restano, chiaramente leggibili, alcuni tratti.La tecnica costruttiva del muro, pietre nonsquadrate e giustapposte, del tutto simile aquella riscontrata a Crostoletto di Lamone,permette di datare ad epoca protostorica lastrada e la porta di accesso, di cui resta la pare-te a monte, regolarizzata e lavorata, e lo stipiteper la porta in legno. Il muro, che forse soste-neva qualche struttura lignea, continua per unbreve tratto anche verso l’interno17”.

Nell’Etruria settentrionale è stata ripo-sta in luce la base di un potente murodifensivo dell’età del bronzo finale pres-so Poggio La Croce, nelle vicinanze diRadda in Chianti. Si tratta di una sortadi fondazione, spessa in media m 1,10,che si allunga per due tratti di circa14x28 metri, a difesa di capanne dovegli abitanti, forse transumanti stagiona-li, erano dediti alla lavorazione delcorno di cervo ed alla produzione diformaggi. L’assenza delle pietre di ele-

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vato del muro, così come di depositi diargilla a testimonianza di mura in mat-toni crudi, ha fatto ipotizzate che ladifesa fosse completata, in elevato, daramaglie deperibili, ed in tal senso è incorso una ricostruzione di archeologiasperimentale in loco18. Gli studi hanno ormai dimostrato lasimilitudine delle tipologie degli inse-diamenti protovillanoviani e villanovia-ni, con l’adozione ininterrotta e presso-ché generalizzata, sin dal bronzo finale,di superfici difese sia naturalmente che,talora, da sistemi artificiali; l’età delferro, con le sue trasformazioni econo-miche e socioculturali, portò inoltre aduna ulteriore, profonda mutazione del-

l’organizzazione del territorio; ad esem-pio, nel medio corso del Fiora, “non sitratta più, come nei precedenti momen-ti di passaggio, di mutamento delle sedi;questa volta l’area (...) si spopola quasicompletamente e il punto focale, il cen-tro egemone verso cui tutto gravita, sisposta più a sud dove, sempre sul Fiora,dal IX sec. a. C. è iniziato il processo diformazione della città di Vulci19”.Di fatto con l’età del ferro “si ebberol’abbandono di alcuni centri posti inlocalità isolate ed il movimento (alseguito dei capi) dei gruppi umaniverso aree più favorevoli alle comunica-zioni, la cui importanza andava aumen-tando20”.

I siti prescelti per l’insediamento duran-te la prima età del ferro, pur rispon-dendo ad esigenze di insistenza lungodirettrici di transito, hanno tuttaviacostantemente delle caratteristichedifensive naturali. Infatti

“secondo una scelta che è ben evidente neigrandi centri dell’Etruria meridionale, l’areadestinata all’abitato presenta caratteristicheuniformi: si tratta di un plateau collinare situa-to alla confluenza di due modesti corsi d’acquache garantiscono una buona riserva idrica e,con i loro alvei incavati, rendono la collina bendifesa21”.

Nell’Etruria settentrionale, dove la con-formazione fisica dell’ambiente è diver-sa, si prediligevano alture allungate daifianchi piuttosto ripidi e collocate inmodo da dominare una vasta visuale acontrollo di vie di transito, ma comun-que ben munite, e dotate occasional-mente, come si è visto per Radda inChianti, di difese manufatte sino dalbronzo finale. E’ degno di interesse rile-vare tuttavia come in alcune zone del-l’Etruria settentrionale, che conosceràun attardamento della facies villanovia-na ed una sua compenetrazione con gliaspetti culturali dell’orientalizzante,non vi sia una reale spinta verso la pre-ferenza di sedi naturalmente munite;dalla documentazione archeologica, adesempio,

“non è percepibile (...) nell’area di Chiusi allafine del II millennio a.C., alcun fenomeno diconcentrazione e di selezione degli abitati, né ilprevalere di scelte difensive e/o tattico-strategi-

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Pianta degli scavi di Poggio La Croce presso Radda in Chianti, dove è stata messa in lucela fondazione di una spessa protezione difensiva dell'età del bronzo finale

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che, quale si palesa invece nell’Etruria meridio-nale, ma anzi sembra di notare una preferenzaper località più favorevoli alla comunicazioneed agli scambi. (...) Anche il successivo passag-gio all’età del ferro, a differenza di quantoavviene nell’Etruria meridionale, risulta essereun evento relativamente graduale, nel qualenon cambiano radicalmente le motivazionidelle scelte insediative della fase precedente22”.

Esempi di insediamenti della prima etàdel ferro dotati di strutture difensiveartificiali sono ben noti nel Lazio, dovead esempio il colle occidentale di CuresSabina -per un’area di circa un’ettaro emezzo abitata tra la prima metà dell’-VIII e la seconda metà del VII sec.a.C.-è delimitato da due fossati difensivisituati sui versanti nordorientale e meri-dionale23. Anche all’Acqua Acetosa Lau-rentina “lo scavo del fossato e la forma-zione dell’aggere risalirebbero agli inizidell’VIII secolo a.C.24”, ed a Roma,negli scavi sul Palatino al di sotto degliHorrea Vespasiani, è tornata in luce unaparte della cinta romulea con la portaMugonia del 730-720 a.C., rivelatasiparte di un sistema di strutture notevol-mente complesso per l’epoca25, comemeglio vedremo oltre. Dunque la strategia difensiva dei centriabitati dell’Etruria meridionale e delLazio, già da secoli in essere, prevedevanella prima età del ferro lo sfruttamen-to di condizioni morfologiche del terre-no, le quali non erano soltanto utilizza-te là dove il centro insediativo casual-mente ne avesse, ma anzi erano statealla base della selezione dei siti naturalidove, nel passaggio tra l’età del bronzo

e l’età del ferro, la popolazione eraandata concentrandosi. Tali indicazioni documentano la neces-sità, per la sopravvivenza dei centri abi-tati, di una difendibilità di fronte a benprobabili attacchi esterni, volti adimpossessarsi delle aree più favorevoliallo sviluppo ed a controllare i territoridove l’agricoltura ed i commerci dava-no possibilità particolari di crescita. D’altronde, se da un lato in questoperiodo si assiste -specie nell’Etruriameridionale- all’abbandono di vari siti,occupati talora da secoli, a favore dialcuni di essi che vivono invece una fasedi crescita, si ha anche la creazione dialtri nuovi centri, lungo vie di comuni-cazione nuove, riferibili e collegate avalli fluviali. I siti degli insediamenti difacies culturale villanoviana -che appaio-no ancora, come in precedenza, alturedai fianchi scoscesi, con corsi d’acqua ailoro piedi- al loro interno ospitano zoneabitative disposte “a macchie di leopar-do” sulla più gran parte del terreno,anche se ancora intercalate con zone diuso orticolo e per allevamento di ani-mali da cortile. Non è del tutto assodato se di normatali agglomerati di abitazioni capanni-cole all’interno dell’insediamento fosse-ro o non fossero scompartiti in nucleidistinti intesi a rispecchiare comunitàdiverse per origine (ad esempio comu-nità provenienti da villaggi abbandona-ti diversi, e solo consociate con le altrevicine nella nuova sede in un patto sine-cistico affine a quello che, in Livio, tra-

spare nelle origini di Roma). Nell’esten-sione dell’area centroitalica troviamo difatto realtà diverse, e non si può esclu-dere che, accanto a centri formati persinecismo da comunità distinte fusesicon patti civili e federazioni religiose,esistessero altre realtà protourbanedove fortunate condizioni, determinan-do una crescita demografica di unacomunità già organizzata, avevano datovita ad un popolamento univoco, dallatrama regolare, su un vasto spazio.Gli insediamenti villanoviani risultanoaver occupato aree abitabili di circa 100ettari ed oltre26; contemporaneamenteil territorio assoggettato si espande,giungendo a superare i 1000 kmq, edeterminando una realtà agricola total-mente innovativa connessa con unaregressione dell’uso della transumanzae con un più saldo controllo di ampidistretti minerari, assieme a nuovenecessità di azione politico-sociale perlo sfruttamento ed il dominio militaredi tale territorio27.Le caratteristiche di selezione dei siti edi strutturazione degli insediamentinell’Italia centrale tirrenica della primaetà del ferro ha vari interessanti para-goni presso popoli primitivi attuali; nel-l’Etiopia degli anni Trenta, ad esempio,la tradizione voleva ancora che gli abi-tati venissero costruiti presso le acque

“dei piccoli rivi, i quali offrono l’insurrogabileelemento senza minacciare gran mali. (...) E tut-tavia anche dal ruscello l’abitato etiopico si man-tiene a una qualche distanza. Gli si approssimatalvolta magari sin quasi ad essere lambito (...)

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L’etiope fugge il piano ancora per una cagione,ch’è di riflesso storico. Sulle spianate la notte èpiù chiara e il razziatore si trova singolarmentefavorito. Una ragione di difesa concorre dunquea determinare la scelta del pendio, qual sitoordinario dell’abitato abissino, mentre le cimedelle alture possono essere preferite dall’abitatomilitaresco, il katamà (...) L’ideale sarebbe forse lasommità delle ambe, queste eminenze caratteri-stiche, distintive del paesaggio abissino, le qualisono corpi di monte, di accesso difficile, talvoltacon un unico accesso, e sovra alle quali spesso èun terreno abbastanza piano per conservarepozze o sorgenti e però un terreno coltivabile eabitabile. Lassù la sicurezza, per la tecnica guer-resca etiopica, è presso che assoluta. (...) Il «quar-tiere» abissino è un assieme di abitazioni isolate.Si legge, ad esempio, in Laousse a proposito diGondar: «Le diverse parti della città sono sepa-rate le une dalle altre da vasti spazi deserti e daammassi di rovine» (cioè le parti di città o diquartiere diroccate via via)28”.

Secondo gli studi anche in Ellade la for-mazione della città è legata al sinecismoed alla difesa comune, dove i capi deidàmoi e delle kòmai -i basilèwes- avrebbe-ro riconosciuto

“ad uno scelto tra di loro l’autorità di un primusinter pares, e lasciarono i rispettivi dàmoi per rac-cogliersi in una sede comune (...) In qualchecaso, come nell’Elide, il processo unitario nongiunse a compimento, e i dàmoi conservaronouna certa autonomia. L’unione dei più autore-voli gene dei dàmoi e la definizione di una sedecomune furono i primi passi verso la costitu-zione della polis, caratterizzata dall’assenza diun’autorità sovrana impersonata e dalla paritàdei membri di pieno diritto della nuova comu-nità, i polìtai, di fronte alle leggi stabilite dalcomune consenso. Il nome, che nella suaforma più antica, ptolis, rivela la sua connessio-ne con quello della guerra, p(t)òlemos, sembraindicare un luogo munito (cfr. ptolìethron),quale appunto si immagina per la sede di unconsesso di basilèwes nel difficile periodo inter-medio della cui instabilità Tucidide ha dato undisegno sobrio ma preciso29”.

Secondo alcuni recenti studi sulle formeinsediative dell’età del ferro la predile-zione per aree elevate, oltre che per unavisuale sul territorio, per così dire, “atti-va”, era anche destinata ad una visione“passiva”: le strutture abitative e difensi-ve avrebbero assolto anche ad un com-pito di segnalazione del possesso e deldominio. Tale interessante ipotesi èstata formulata da Trump per la Sarde-gna nuragica, dove l’analisi della consi-stenza dei nuraghe e della popolazioneha fatto presumere funzioni non solomilitari:

“although the later complex nuraghi arepatently military, a point reinforced by thebronze warriors statuettes, this is less obviouswith the single towers and not at all apparentwith the corridor nuraghi, now generallyaccepted as the ancestral form. The latter werecircular, oval or square platforms of no greatheight, supporting simple huts. Even the nura-gic tower, with an elevated fighting platform onits summit, has as its main feature an impressi-ve corbel-vaulted chamber quite inappropriatefor active defence or even refuge. (...) If we re-examine nuraghi from this new wiewpoint, anumber of observations seem to fall into place.The nuraghe, it is suggested, was built prima-rily as a statement of ownership of land and ofthe status of the occupying family. It was sitedto overlook the family’s land, and to be promi-nently visible to anyone who might wish tochallenge their claim to it30”.

Oltre alle sedi principali di insediamen-to erano presenti anche delle reti dicentri minori, della cui esistenza si è giàfatto cenno nel capitolo sulla cavalleria,in collegamento con l’azione di pattu-gliamento ed intervento nelle zone stra-tegiche e di confine da parte dellanascente aristocrazia. Nell’agro lazialepresso Roma le ricognizioni archeologi-che hanno individuato -per il periododalla seconda metà dell’VIII al VIIsec.a.C.- vari nuclei molto ridotti, taloraprobabilmente costituiti da singoligruppi familiari a carattere gentilizio;tuttavia

“alcuni di questi siti, sempre di dimensionimolto limitate (estensione fino a ca. 1 ha), sem-brano invece avere il carattere di piccoli inse-diamenti, a volte chiaramente in posizionestrategica, su pianoro isolato in corrisponden-

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La lancia, la spada, il cavallo

Esempio di capanna monofamiliare villanoviana,riprodotta in un'urna cineraria da VetuloniaVetulonia, Museo Civico Archeologico"I. Falchi"

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za di vie di comunicazione terrestri o fluviali.La distribuzione di queste presenze fornisce unindizio concreto dello stretto legame tra i cetiemergenti, la comparsa ed il consolidamentodei quali sono il risultato di un lungo processodi stratificazione all’interno della società lazia-le e villanoviana, e il possesso della terra, checostituiva la base economica del loro ruolo pre-minente nelle comunità di questo periodo31”.

Analizzando tecnicamente le difese arti-ficiali messe in opera dai popoli dellaprima età del ferro a completamento diquelle naturali, esse risultano per lo piùalquanto sommarie, con palizzate, fos-sati ed aggeri di terra. I rari insedia-menti sul genere di quello del GranCarro a Bolsena, di tipo palafitticolo,dovevano trovare nella loro dislocazio-ne lacustre la migliore difesa, peraltrodi una efficacia già millenaria32; similiinsediamenti esistevano anche sulle rivedel mare, come a Campo Casali pressoViareggio-Massarosa33.Vi è tuttavia, di fatto, una grave scarsitàdi dati archeologici sulla tipologia delledifese fisse alla fine dell’età del bronzoed all’inizio dell’età del ferro; tale lacu-na è stata solo in parte colmata da alcu-ne recenti indagini archeologiche, chehanno dato risultati importanti, specienal Lazio, indicando l’esistenza di solu-zioni tecniche avanzate e di ritualitàconnesse sinora insospettate.Lo scavo romano al Palatino, cui si è giàfatto cenno, ha consentito la ricostruzio-ne di una porta dell’ultimo quarto dell’-VIII sec.a.C., con un tratto delle muraconnesse, della viabilità locale e di alcu-

ni annessi probabilmente sacri, cosìcome dei rituali seguiti nella delimita-zione delle mura e delle porte:

“il solco primigenio, presupposto nel rito etru-sco di fondazione delle città, stabiliva dovedovevano passare le mura e le sue interruzionisegnavano i luoghi dove dovevano sorgere leporte (un solco che si interrompe non puòsegnare il limite continuo del pomerio). Ma ilsolco è traccia labile, che anche una pioggiacancella. Di qui la necessità delle pietre termi-nali lungo il solco, più numerose in corrispon-denza del bastione e assenti nel varco delleporte, per fissare inequivocabilmente il percor-so della fossa di fondazione delle mura. Realiz-zata la fossa, più stretta per il muro e le porte epiù larga per i bastioni, vi sono stati gettati den-tro i massi, da preservare nonostante avesserocompletato la loro funzione (…). Segue lacostruzione delle mura, della porta, dellecapanne di guardia e delle strade, in unasequenza che rientra in un’unica e breve faseedilizia, di cui fa parte il varco, che durante lacostruzione ha funzionato da proto-porta. Ilcaso ha consentito di cogliere il muro dove pro-trudeva per formare una porta (interpretatacome la Mugonia) e la fortuna ha voluto che labuca di palo per il trave verticale esterno dellaporta e la fossa di quello orizzontale costituen-te la soglia fossero stati risparmiati dalle distru-zioni. Nella ricostruzione, il settore est dellaporta, il solo rinvenuto, è stato proiettato sim-metricamente ad ovest. Il fossato è di ricostru-zione. (…) Il ponte, necessario nella faseseguente, è stato immaginato preesistere. L’an-damento sbieco della strada è suggerito dalbordo inclinato del relativo strato. Gli stipitiinterni della porta, di cui non resta traccia per-ché si innestavano sui travi orizzontali, sonostati ricostruiti sulla base di quelli esterni. L’e-sterno del bastione è stato ricostruito in base alsuo interno. I pali verticali del muro rinvenuti

in situ sono due, ma dovevano essere piùnumerosi, viste le orme dei pali nell’argilla del-l’elevato rinvenute in una fossa di distruzionedel muro 1. Il culmine del muro doveva esserecoperto di frammenti di doli, non esistendoancora le tegole. Il deposito di fondazione,rappresentato dal corredo funebre di una fan-ciulla, era situato sotto la soglia in ciottoli, nellaparte interna al limen. La posizione, studiata esignificativa, presuppone un sacrificio umanoreale o simbolico (si pensi ai Doliola), rivoltoprobabilmente ai Lari e alla loro Madre, vene-rati forse nelle vicine capanne. Il corredo datail compimento delle mura in una fase transi-zionale fra il periodo IIIB e il IVA (intorno al730-720 a.C. secondo la cronologia tradiziona-le) (…) Conoscendo il centro della porta delmuro 2, grazie alla fossa del suo paletto –portarifatta ma non spostata- è possibile ricostruirel’ampiezza di quella originaria. L’altezza con-sente l’ingresso ad un uomo a cavallo. La posi-zione del deposito di fondazione ubbidiva alloius della porta, escluso dalla sanctitas del bastio-ne-muro, un locus religiosus in terreno effatus eliberatus, quale quello dell’ager, ma non inaugu-ratus (il limite del pomerium doveva trovarsi piùa sud). La capanna, se cultuale, costituiva unlocus sacer, esterno al ius della porta, alla sancti-tas del bastione e al suolo augusto dell’urbs, làdove gli armati potevano circolare per difen-dere le mura. (…) Dopo una generazione ilmuro 1, fragile nella sua struttura, vennedemolito, il suo elevato deposto in una fossa ela rovina coperta da alcuni strati, l’ultimo deiquali sembra già di preparazione del muro 2.Viene quindi realizzata una fossa per accoglie-re una tomba di infante, scavata nello strato dipreparazione e dentro la cresta del muro 1, poiricoperta da strati di preparazione del muro 2.In un primo tempo abbiamo interpretato ilsepolcro come un deposito di fondazione delmuro 2, ma successivi rinvenimenti più a ovest,dove entro un piccolo recinto un giovane di

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La porta dell'ultimo quartodell'VIII sec.a.C. rimessa inluce al Palatino a Roma; inalto a sinistra la piantaricostruita; in alto a destra,la ricostruzione complessivacon la vista in trasparenzadell'accesso e, a destra, lastessa ricostruzione incomputer graphics

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sedici anni circa si trovava sepolto nella crestadel muro 1 obliterato, con accanto (verso l’in-terno del muro) un altro adulto e un infante,seguiti subito dopo da un’adulta accovacciata,consigliano un’interpretazione diversa. Siamoforse davanti a sacrifici umani, anche di adulti,da vedersi in relazione alla necessità di espiarel’obliterazione del muro romuleo, consideratol’archetipo, di cui i successori non saranno checopie. Nella pianta composita e in quella rico-struttiva compare il fossato che ha obliteratoquello del muro 1. Il muro 2 presenta un para-mento regolare, con blocchetti squadrati alleammorsature, che contiene un riempimento diterra. Il suo andamento è diverso rispetto aquello del muro 1, ma la porta è rimasta signi-ficativamente al suo posto. Il buco del palettoconsente di ricostruire la dimensione dellaporta. E’ presente anche una postierla (perfacilitare i movimenti quando la porta grandeera chiusa) e qui il fossato si avvicina al murotanto da non consentire il proseguimento dellastrada, il che rende verosimile la presenza diun ponte sopra il fossato. I percorsi viari sonodi ricostruzione. Fra le due aperture compareuna fossa rituale, interpretabile anche comeuna capanna di guardia e o di culto, con anti-stante focolare e potrebbe esservene stataun’altra sull’altro lato della porta. Il deposito diobliterazione del muro 1, con quelli successiva-mente rinvenuti, e altri strati consentono didatare il muro 2 agli inizi del VII sec.a.C. (èinteressante notare che le due prime mura siconcentrano nell’età romuleo-numana). Ilmuro 2 è il primo a presentare un paramentonello zoccolo ed è anche il primo in cui l’eleva-to in argilla era protetto da tegole (rinvenutenegli strati di distruzione del muro), normal-mente datate più tardi, a partire dalla metà delVII sec.a.C.Nelle sezioni si nota come il trave di soglia èstato sollevato rispetto al primitivo alloggia-mento, in rapporto ai nuovi piani di frequen-

tazione, ma non è stato spostato. Nelle sezionidi dettaglio si apprezza ancor meglio questorialzamento e l’abolizione dei postes primitiviper allargare la porta, per cui solo quelli giàesterni del muro 1 fungono ormai da postesinterni. Si osservi anche la strutturazione delmuro, con zoccolo, grumi di argilla e loricatestacea di tegole34”.

Quest’ultima osservazione sulla coper-tura applicata sul paramento murariorinvia a quanto già osservato da chi scri-ve relativamente alle prime mura diRoselle, dove

“alla metà del VII sec. a. C. viene eretta unacinta muraria che difende delle vere e propriecase dalla pianta angolare -non più capanneovali- e dotate di un recinto che delimita delterreno di sicura proprietà privata. Questaantica cinta muraria, di cui purtroppo nonconosciamo il perimetro esatto, era statacostruita realizzando un basamento di pietra-me rozzamente sbozzato sul quale poggiava ilparamento difensivo vero e proprio, costruitocon mattoni crudi essiccati al sole. L’andamen-to dei tratti individuati appare curvilineo esembra assecondare il rilievo naturale dellacollina, diversificandosi in questo dalla succes-siva cinta arcaica di grandi pietre, segmentatain tratti rettilinei divisi da spigoli. (...) I princi-pi progettuali indicano comunque una scarsaevoluzione tecnica, in quanto si preferisce evi-tare di costruire in pendenza e si imposta ilmuro col suo basamento sul terreno, senzaeffettuare sbancamenti preparatori sino allaviva roccia. E’ interessante rilevare come anchele case orientalizzanti della Roselle coevaabbiano una tecnica costruttiva simile, se nonpiù evoluta: (...) Viene da pensare, in conse-guenza di ciò, che forse anche le mura di mat-toni crudi potevano avere una qualche coper-tura straminea che ne proteggesse l’estremitàsuperiore in modo da rendere meno gravosa la

costante manutenzione, pur senz’altro indi-spensabile35”.

Alla fine dell’VIII sec.a.C. dovevanocomunque essere ormai note, a difesadei centri abitati più ampi e socialmen-te evoluti, anche le torri merlate di dife-sa; l’olla con coperchio dalla Tomba diBocchoris mostra, tra guerrieri conelmo a cimiero e scudo rotondo, delleraffigurazioni interpretate come varietorri strette ed alte, sormontate da unfastigio di merli.Tra le altre opportunità di difesa, piùsemplici e primitive ma forse più diffu-se nei centri minori e meno muniti,come è stato ipotizzato per Radda inChianti nel bronzo finale, si possonoipotizzare delle “barricate formate contronchi e rami di alberi, alcune chiusuredi siepi e anche dei muri di terra e dipietre36”. In effetti, il confronto conpopoli primitivi odierni indica l’abbon-danza tipologica di difese deperibiliattorno ai villaggi, quali palizzate e fossiriempiti di pali acuminati. Sino ad alcu-ni decenni fa attorno ad alcuni villaggidell’Indonesia venivano organizzatefino a tre “cinte difensive: la più internaè costituita da piante urticanti, la secon-da è una palizzata di bambù appuntiti,la terza, quella esterna, è un fossatopieno di bambù appuntiti”37. AncheCesare in Gallia trovò che i Nervii

“per poter più facilmente impedire alla caval-leria dei confinanti di venire a predare nel loroterritorio, costruivano delle specie di siepi(mozzati in vetta alberi giovani, li curvavano,

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costringendoli, su terreno cosparso di rovi epruni, a estendere qui, in larghezza, la lororamatura); siepi che divenivano, a guisa dimuri, efficienti difese, nelle quali era difficileentrare e misurare a occhio il pericolo38”.

Egli, a sua volta, ad Alesia mise tuttaviain opera contro le truppe celtiche unaserie di trappole a terra primitive maefficaci -cippi, gigli e triboli-, di cui ci halasciato una dettagliata descrizione:

“Questo il genere d’ostacolo che i soldati chia-mavano «cippi», cippos appellabant: tronchi d’al-bero o anche rami molto robusti si scorteccia-vano e appuntivano all’estremità; si scavavauna serie di buche profonde circa un metro emezzo e nel loro fondo piantavansi tali tronchio rami legandoli nel basso perché non potes-sero essere divelti: naturalmente, la parte cherestava fuori buca era lasciata, a simulazione,ramosa. Tali ostacoli erano su una profonditàdi cinque linee, quini erant ordines, congiunti edintrecciati tra loro: chi vi entrasse incappavanelle punte acutissime di quei pali. Questo l’o-stacolo chiamato, dalla somiglianza col fiore«giglio», lilium appellabant: davanti alla fascia di«cippi», un’altra fascia di buche, -distribuitecome il cinque dei dadi- scavate per una pro-fondità di un novanta centimetri, con aperturache sempre più si restringeva verso il fondo -ilcalice del giglio. Qui si calavano paletti rotondi-i pistilli- della grossezza di un femore, appun-titi e induriti a fuoco: non sporgevano però dalsuolo più di quattro dita. Ogni paletto, per ren-derlo più fermo e saldo, era in basso rincalzatocon terra per un trenta centimetri: il resto dellabuca, per nascondere l’insidia, era ricoperto divimini e virgulti. Se ne fece una fascia su ottolinee, octoni ordines, e l’una linea distante dal-l’altra un novanta centimetri. Questo, infine,l’ostacolo chiamato «tribolo», stimulos nomina-bant: davanti alla fascia dei «gigli», si piantava-no sotterra pioli della lunghezza di un trenta

centimetri, da cui sporgevano uncini di ferro, esi seminavano qua e là, dappertutto, a piccoladistanza. Sicché i Galli attaccanti da Alesiaavrebbero trovato davanti ai lavori di contro-vallazione una fascia di terreno cosparsa dell’o-stacolo più speditivo, i «triboli», indi le ottolinee di «gigli», indi la fascia di «cippi»39”.

Le difese più elementari, come quelleche Cesare mise in piedi attorno ai suoicampi in Gallia, ad esempio le palizzatee i terrapieni con strutture lignee, eranotuttavia esposte agli incendi, soventeappiccati dalle truppe attaccanti, chesapevano anche ovviare alla presenza difossati come “gli armati di Viridovice(che) -dopo essersi provveduti di fascinee arbusti per riempire il fosso del vallo-mossero rapidamente all’attacco delcampo romano40”. Di rilievo è la considerazione che talicinte servivano essenzialmente a nonconsentire improvvisi attacchi, e quindia permettere l’avvistamento del nemicoall’assalto, costretto a servirsi delle portee dei passaggi obbligati. Lo stesso Cesa-re fallì a Novioduno nel “prender l’op-pido d’assalto (...) per quanto difeso dapochi, a cagione della larghezza del fos-sato e l’altezza delle mura41”. Alle prote-zioni fisse dava integrazione la regolaresorveglianza delle difese col buio, tenutaancora presso i primitivi odierni “non aldi fuori della cinta difensiva ma lungo ilsuo bordo interno”, con “lo scopo dicontrollare che i nemici non cerchino diaprire un passaggio sotterraneo” o che,con la corruzione di un abitante, nonottengano di far “aprire nottetempo la

porta d’accesso” o di “ collocare dellescale lungo la palizzata42”.In effetti vi sono numerose possibilitàche già nella prima età del ferro venis-sero scavati passaggi sotterranei perinvadere le aree cintate o per provocareil crollo delle difese col sistema dellegallerie di mina; i Galli Biturigi di Ava-rico minarono il terrapieno di Cesare,rallentando la creazione dell’agger, equando questo ormai era quasi ultima-to “si avvertì -era poco prima della mez-zanotte- che il terrapieno emettevafumo: il nemico lo aveva minato43”. Chetale tecnica sia stata adottata nell’Italiacentrale sin da età molto antiche lodimostra la cinta rosellana del VIsec.a.C., rifacimento di quella già citatadel VII secolo; le mura più recentierano fondate sulla viva roccia, talvoltaregolarizzata con scalpellature, a diffe-renza delle difese più antiche:

“questo accorgimento (...) documenta come latecnologia si fosse rapidamente evoluta, evi-dentemente per far fronte a problemi staticima anche militari: il costruire sulla viva rocciaimpedisce infatti la creazione di gallerie sotter-ranee per l’elusione delle difese, o per uso dimina, così come lo sbarramento degli sbocchidi fognature - componenti queste necessarieperaltro alla stabilità delle mura- impedisceincursioni dall’esterno attraverso di esse. (...)Gli accorgimenti messi in atto (...) costituisconoun patrimonio comune alle diverse città etru-sche e rappresentano quindi il risultato di una“memoria” degli assalti e degli assedi subitinelle epoche precedenti44”.

Il tipo di conformazione degli abitati

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La lancia, la spada, il cavallo

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villanoviani, in accordo con quello dialcuni villaggi primitivi attuali, chiariscecome non si cercasse “mai di prendereun villaggio per fame perché, mentre idifensori dispongono sempre di abbon-danti provviste, (...) gli attaccanti nonpossiedono i mezzi logistici per sostene-re un lungo assedio45”.La tattica d’assedio si diffonderà in areacentroitalica solo più tardi, e le fontilatine parlano dell’assedio di Veio, risol-tosi nel 396 a.C., come di una rivoluzio-naria, prolungata obsidione sine die maivista prima46.I dislivelli naturali e quelli artificiali,oltre all’evidente svantaggio del precoceavvistamento per gli assalitori, costrin-gevano questi ad avvicinarsi all’abitatocon una faticosa ascesa ingombrati dallearmi, condizione sempre molto negati-va. Ad alcune alture occupate nell’etàdel ferro iniziale tutt’oggi, pur con viedi agevole percorrenza, si giunge anco-ra molto provati con una semplice mar-cia e senza fardelli. Il lancio di armi dagetto -in particolare dei giavellotti- eradifficoltoso in salita quanto facilitatodall’alto di colline, e la pendenza peral-tro rendeva vantaggiosi, anche serischiosi, gli assalti in discesa di contrat-tacco dei difensori47. La realizzazione difossati artificiali consentiva, in più, unimportante risultato, ovvero lo “sgrana-mento” dei gruppi di attaccanti, fattoben noto ancora ad Aristotele per ilquale “in guerra l’attraversamento deifossati, sia pure molto piccoli, smembrala formazione”(Pol. 1303).

Sulle tecniche costruttive impiegate perla costruzione di mura di terra, pietre etravi, pur tenendo conto delle inevitabi-li differenze presenti tra popoli diversi,ci viene in soccorso Cesare, che narracon precisione il metodo di realizzazio-ne delle difese degli oppida gallici:

“il sistema secondo il quale i Galli costruivanole mura era, in genere, questo: collocavanoorizzontalmente sul suolo -lungo il tracciatostabilito- una serie di travi parallele tra loro e aintervallo l’una dall’altra di circa sessanta cen-timetri, ricoprendole di molta terra e ciottolipressati dopo che le avevano legate fra di lorocon robuste traverse di legno (lunghe, comeora sentiremo, sino a un dodici metri); peròall’esterno -nella parte rivolta al nemico- l’in-tervallo fra le teste delle travi era tenuto, anzi-

ché da terra e ciottoli, da grosse pietre. Nerisultava, così, una specie di grande steccatoorizzontale che delle mura, segnandone circui-to e spessore, costituiva la base. Una volta sal-damente ancorato al terreno e reso ben com-patto siffatto strato basilare, su questo se necostruivano, connettendoli, altri di ugual fattu-ra, sino a raggiungere l’altezza voluta. Le traviperò di ogni singolo strato erano situate inalternanza con le travi degli strati inferiore esuperiore; sì che, viste le mura dall’esterno, cia-scuna testa di trave risultava incastrata fra gros-se pietre: le laterali del proprio strato nonchédello strato inferiore e superiore. Cesare dice«Questo tipo di costruzione -che per quel rego-lare alternarsi di teste di travi e di pietre dispo-ste in linee rette ha un aspetto non sgraditoall’occhio- offre grandissimi vantaggi per ladifesa delle città, perché la pietra lo difendedall’incendio e l’ossatura di legno -sostenuta

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Architettura e difesa militare

Immagine d'epoca che riproduce un villaggio etiopico nel 1936, il cui aspetto non doveva esseremolto dissimile da quello di un abitato di capanne di cultura villanoviana

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all’interno, generalmente, da una serie di tra-verse di un dodici metri, sì da non poter esse-re né rotta né scompaginata- lo difende dall’a-riete»48“.

Sulla costruzione di strutture difensivein pietre, invece, ci soccorrono i risulta-ti di alcuni studi sui nuraghe presentinei pressi di Sassari, i quali hanno ipo-tizzato che “a typical simple nuragherepresents something like 3600 man-days of effort”. Ma, stabilito che il terri-torio soggetto a una costruzione nuragi-ca non era più di un chilometro quadro,la popolazione che vi poteva sussiterenon era più di una famiglia di 10-12persone. Di conseguenza

“ten people could build a nuraghe in a year.This makes no allowance for the young, elderlyand temporarily incapacitated through illnessor childberaring, nor, even more importantly,the meeting of the community’s everydayneeds or food, shelter, defence and everythingelse. The 3600 man-days can come only from,in effect, surpus labour after those other needshave been met, with ten years for pratical pur-poses a better estimate than one for the timerequired to build a nuraghe. (...) A much like-lier labour force, leaving preconceptions aside,could be drawn from the larger community

occupying the valley as a whole, the eleven ormore families. Such a group could build anuraghe in a year with no very great difficulty,a second nuraghe next year and a third theyear after. There is no suggestion that thisactually happened, but in this way all elevennuraghi could have been constructed inside adozen years. By the other scenario, it is difficultto see how they could ever have been built49”.

Anche sul lavoro necessario per la crea-zione di fossati ed aggeri sono stati effet-tuati studi, ed in particolare varie ricer-che sperimentali, che però non sonoriferite specificamente ad esempi realidell’Etruria. Delle sperimentazioni inarea britannica con attrezzi da scavo incorno ed osso, oltre a gerle di vimini,hanno dato risultati piuttosto interlocu-tori, con una capacità tecnica di efficaciadi quegli strumenti antichi -rispetto agliattrezzi moderni quali pale, picconi esecchi- di un terzo o, al massimo, di dueterzi50. Queste sperimentazioni tuttavianon riescono a dare un’esatta quantifica-zione della mole del lavoro di realizza-zione delle difese, in quanto è incertoquanta fosse la manodopera disponibilee la durata della “giornata” lavorativa51.Se comunque, nel complesso, i lavori di

realizzazione di fosse ed aggeri a taglia-re un solo lato di un pianoro sembranoaver impegnato qualche settimana dipiccole squadre di uomini, è degno dinota che, oltre alla realizzazione, eraassolutamente necessario un costantelavoro di mantenimento. Altre osserva-zioni sperimentali effettuate in GranBretagna -ovvero in presenza di unclima diverso- hanno comunque dimo-strato che le trincee subiscono un riem-pimento iniziale assai veloce, seguitopoi da un peggioramento molto lento,assieme ad un celere decadimento dellepareti verticali, che franano allargandoil fossato ma riducendone la ripidità deilati. Gli aggeri invece perdono coltempo poca altezza alla loro sommità,mentre il deposito di materiali sedi-mentari lungo i loro fianchi ne riduce laripidità52. E’ dunque da ritenere certal’organizzazione periodica di lavori dimanutenzione alle difese, ai quali gliabitanti dell’insediamento offrivano illoro contributo in forza lavoro durantela buona stagione, e per i quali si ricor-reva forse agli individui non ammessiall’uso delle armi.

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La lancia, la spada, il cavallo

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Architettura e difesa militare

Note

1 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pag. 185.2 Alberto Cazzella, Insediamenti fortificati econtrollo del territorio durante l’età del bronzo nel-l’Italia sud-orientale, in “Papers of the FourthConference of Italian Archaeology, 1, Thearchaeology of Power, part 1”, London,1991, pag. 50.3 A. Guidi, P. Pascucci, Nuovi dati sull’atica etàdel bronzo nell’area medio tirrenica, in “L’anticaetà del bronzo in Italia”, atti del congresso,Firenze, 1996, pag. 459 e segg.4 Cazzella, Insediamenti fortificati e controllo delterritorio durante l’età del bronzo nell’Italia sud-orientale, cit., pag. 51.5 Francesco di Gennaro, Umberto Tecchiati,Insediamenti su rilievi, in “L’antica età delbronzo in Italia”, atti del congresso, Firenze,1996, pag. 247 e segg.6 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pag. 191.7 Cazzella, Insediamenti fortificati e controllo delterritorio durante l’età del bronzo nell’Italia sud-orientale, cit., pagg. 49 e 51.8 Gian Carlo Zaffanella, Il villaggio preistoricosu altura arginata circolare dei Castellari di Val-lerana presso Casale di Scodosia (Padova) nelquadro del popolamento eneo su altura nella pia-nura veneto-atesina, in “Athesia” III-IV,1989/1990, pagg. 89-92.9 Nuccia Negroni Catacchio, Le testimonianzearcheologiche, in “Sorgenti della Nova”,Roma, 1981, pagg. 118-119.10 Bianca Maria Aranguren, Paola Perazzi,La rupe di Pitigliano (GR): scavi e ricerche topo-grafiche, in “Preistoria e Protostoria in Etru-ria, vol. 2”, cit., pag. 123.11 Negroni Catacchio, Le testimonianze archeo-logiche, cit., pagg. 118-119.

12 Laura Domanico, Monica Miari, La distri-buzione dei siti di necropoli in Etruria meridiona-le nel Bronzo Finale: documentazione ed elabora-zione dei dati, in “Papers of the Fourth Con-ference of Italian Archaeology, 1, Thearchaeology of Power, part 1”, London,1991, pag. 67.13 Martinelli, Le armi e la guerra, cit., pag.208. Per l’aspetto dei centri abitati tra età delbronzo e periodo villanoviano si veda ancheBartoloni, La cultura villanoviana, cit., pag.59 e segg.14 Maurizio Martinelli, L’organizzazione politi-co-sociale, in “Gli Etruschi - mille anni di civil-tà”, Firenze, 1985, pag. 128.15 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pag. 191.16 Barbara Setti, Nuovi dati sul popolamento del-l’alta valle dell’Albegna (GR), in “Preistoria eProtostoria in Etruria, vol. 2”, cit., pag. 254. 17 Nuccia Negroni Catacchio, In Etruriaprima degli Etruschi, in “Archeologia viva”anno V, n. 12, dicembre 1986, pag. 39.18 Si veda Ilario Alfani, Marzio Cresci, LauraDainelli, Marco Zannoni, Archeologia – Notesulla formazione del territorio chiantigiano,Radda, 1998; e Marco Valenti, Carta Archeo-logica della Provincia di Siena – vol. I, Il Chian-ti Senese, Siena, 1995, pag. 260 e segg. Debbo questa segnalazione all’amico MarzioCresci della Archeoprogetti srl, che è statoormai venti anni fa il mio primo caposaggio,e che alle gradi doti di archeologo e di divul-gatore assomma, da sempre, ancor più gradidoti umane ed un entusiasmo inesauribile.19 Negroni Catacchio, Le testimonianze archeo-logiche, cit., pag. 156.20 Martinelli, L’organizzazione politico-sociale,cit., pag. 128.21 Bruno d’Agostino, La formazione dei centriurbani, in “Civiltà degli Etruschi”, Milano,1985, pag. 44.

22 Maria Chiara Bettini, Alessandro Zanini,Il territorio di Chiusi (SI) in età protostorica. Notesul popolamento, in “Preistoria e Protostoria inEtruria, vol. 2”, cit., pagg. 160-161.23 Federico Bistolfi, Olga Colazingari, MariaTeresa Fulgenzi, Alessandro Guidi, AndreaZifferero, Cultura materiale e sistemi insedia-mentali nella Sabina Tiberina, in “The collo-quia of the XIII International Congress ofPrehistoric and Protohistoric Sciences, vol12, The iron age in Europe”, cit., pag. 95.24 Bedini, Abitato protostorico in località AcquaAcetosa Laurentina, cit., pag. 48.25 Andrea Carandini, Palatium e Sacra Via I -Prima delle mura, l’età delle mura e l’età dellecase arcaiche, in “Bollettino di Archeologia”n. 34, 1995.26 Si vedano gli articoli citati alle note 1 e 2.27 Queste notazioni sono riprese da Marti-nelli, La nascita delle frontiera: insediamenti efortificazioni nell’Etruria della prima età del ferro,in “Frontiere e fortificazioni di frontiera -Atti del Seminario Internazionale di Studi”,Firenze, 2001, pag. 261.28 Santi Nava, Caratteri degli abitati etiopici, in“L’Universo”, anno XVII, n. 8, agosto 1936,pagg. 549-551 e 563.29 Giovanni Pugliese Carratelli, Il mondogreco dal secondo al primo millennio a.C., in“Storia e civiltà dei Greci. Origini e sviluppodella città - Il medioevo greco”, cit., pagg.20-21.30 David Trump, The nuraghi of Sardinia, ter-ritory and power: the evidence from the Comuneof Mara, Sassari, in “Papers of the FourthConference of Italian Archaeology, 1, Thearchaeology of Power, part 1”, London,1991, pagg. 45-46.31 Anna De Santis, Proprietà terriera e control-lo del territorio in età orientalizzante: la necropo-li di Pantano di Grano, Malagrotta (Roma), in“Papers of the Fourth Conference of Italian

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Archaeology, 1, The archaeology of Power,part 1”, London, 1991, pag. 99.32 Si veda, per considerazioni generali, Bou-thoul, cit., pag. 129.33 Al riguardo si veda Maurizio Martinelli,La costa tirenica da Pisa alla Versilia, in “GliEtruschi - mille anni di civiltà”, cit., pag.562.34 Carandini, Palatium e Sacra Via I, cit.,pagg. 22 e 30.35 Maurizio Martinelli, L’Etruria: alle originidell’assediare, in “Situations de siège - Situa-zioni d’assedio” Atti del convegno interna-zionale, Firenze, 2002, pag. 337 e segg.36 Bouthoul, cit., pag. 130.37 Pietro Scarduelli, L’isola degli antenati di pie-tra, Roma-Bari 1986, pag. 172.38 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 122.39 Moscardelli, Cesare dice, cit., pagg. 502-503.40 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 164; pergli incendi, pag. 399.41 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 117.42 Scarduelli, cit., pag. 166.43 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 402, siveda anche pag. 398.

44 Martinelli, L’Etruria: alle origini dell’assedia-re, cit.45 Scarduelli, cit., pag. 166. Anche nel Mes-sico precolombiano l’attività bellica, per viadelle comunicazioni difficili e delle relativaorganizzazione, “fu caratterizzata soprattut-to da incursioni, mentre le limitate basi logi-stiche di solito precludevano la possibilità diuna guerra di posizione e di prolungatiassedi”. Da Robert McC. Adams, La rivolu-zione urbana - Mesopotamia antica e Messicopreispanico, Torino, 1982, pag. 203.46 Martinelli, L’Etruria: alle origini dell’assedia-re, cit.47 Per l’usanza di sfruttare la pendenza perassalti in discesa di veda Hanson, L’arte occi-dentale della guerra, cit., pagg. 151-152.48 Moscardelli, Cesare dice, cit., pagg. 399-400.49 Trump, The nuraghi of Sardinia, territoryand power, cit., pagg. 43-45.50 Coles, Archeologia sperimentale, cit., pag. 67.51 Coles osserva infatti che “è assai pocointeressante ipotizzare la costruzione di unmonumento da parte di un singolo in millegiorni o da parte di mille uomini in un solo

giorno, o in qualsiasi altro rapporto tra idue”, cit., pag. 69. Ad esempio, con attrezzimoderni si scavò una trincea di 113,75 metricubi con 1543 ore lavorative; tuttavia inNigeria un argine di terra alto 4 metri elargo 50, costituito da circa 800 metri cubi,fu fatto da un grande numero di uomini inmeno di un giorno usando solo delle cortezappe; vedi Coles, Archeologia sperimentale,cit., pag. 68.52 Vedi Coles, Archeologia sperimentale, cit.,pag. 63. Per offrire un esempio pratico sioffrono i dati del terrapieno con banchina etrincea di Overton Down, costruito apposi-tamente per studiarne le trasformazioni neltempo: il terrapieno appena completato eraalto 2 metri e largo alla base 7 m; la banchi-na era di m 1,3 e la trincea era larga allasommità 3 m, al fondo m 2,4 con una pro-fondità di m 1,5. Dopo 7 mesi e mezzo infondo al fossato c’erano -solo agli angoli- 30cm di fango, che divennero circa 100 dopo20 mesi. Dopo 25 mesi le zolle crollate dal-l’esterno avevano occupato anche il centrodella trincea. Vedi Coles, Archeologia speri-mentale, cit., pagg. 64-70 e fig. 13.

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La lancia, la spada, il cavallo

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Le armi sin qui descritte costituivano,nel loro complesso, quanto l’arte milita-re poteva utilizzare nel corso dellaprima età del ferro nell’area etrusco-vil-lanoviana e nell’Italia centrale tirrenicaper gli scontri terrestri; la loro analisipuò essere illuminante per la compren-sione delle tattiche, giacché “tacticsmore often create, rather than merelyrespond to, weaponry1”. Ciò che è ben chiaro è che l’armato eraovviamente l’adulto pieno, come rivela-no le necropoli; ma se la panoplia delIX sec.a.C. resta poco chiara per la fre-quente assenza di armi reali nelletombe2, essa mostra sin dalla primametà dell’VIII secolo una complessitàcrescente, destinata ad aumentare anco-ra col VII secolo3. Tuttavia elmo, scudo, schinieri, corazzao casacca protettiva, scudo, lancia, gia-vellotto, spada, pugnale, ascia, cavallo ocarro non furono in pratica mai tutti adisposizione di un solo combattente.

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Osservazioni sulla panopliadegli armati e sulle tattiche

Tre dettagli della figura in bronzo di guerriero nudo con elmo crestato e scudo, dal Circolo delTritone di Vetulonia

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Una tra le tombe villanoviane più ricchedi armi, ad esempio, la 2073 di Veio,conteneva un elmo, uno scudo, una lan-cia, due “puntali” di lancia, una spada,un’ascia ed anche un morso di cavallo;le altre di norma sono però ben menofornite, e solitamente l’elemento “guer-resco” diffuso più largamente è la lan-cia, associata talora con un elmo vero, inmetallo, o, in precedenza, con uno sim-bolico in argilla. Tale limitazione d’usorispondeva probabilmente, come si èvenuto rilevando e come si riscontreràulteriormente, a esigenze anzitutto ditipo socioculturale. La presenza di alcu-ne scansioni sociali stabilite per età edignità nell’armamento non impedivacomunque una diffusa variabilità inesso, il che non facilitava certo la rico-noscibilità nelle mischie, problema que-sto che ancora tra Medioevo e Rinasci-mento non era risolto, giacché i guer-rieri “in prelio (…) ita erant universi per-mixti, quod se ad invecem cognoscere nequi-bant, et vix poterat unus alium videre premoltitudine pulveris qui aerem inficiebat4”.Se già dal XIII sec.a.C. si era formatauna qualche koinè tra Grecia, Italia edEuropa centrale riguardo le armi offen-sive in bronzo5, nell’Ellade precedenteall’VIII sec.a.C. la guerra era

“a conglomeration of fighters, armed withspears, javelins, swords, various types ofshields, and mostly fabric or composite bodyarmor. Clans would fight generally in massed,but unorganised, attacks. Armament mightvary by locale, reflecting the tastes and relativewealth of the particular region. Horses were at

a premium (Arist. Pol. 4.1289b33-41), and usedeither to fight with other mounted elites, tolead the loosely defined pack into battle, or tocharge into and pursue the throng of pikeless,unarmored serfs6”.

Sulla panoplia diffusa in Italia avrebbeavuto una grande influenza, dalla nasci-ta delle colonie greche come Pithekous-sai in poi, anche l’armamento descrittonei poemi omerici; similmente allasituazione italiana, riguardo i rapportitra Grecia e Cipro nel IX e VIII secolo

“J.N. Coldstream scrisse nel 1972 che « il piùgrande contributo della Grecia a Cipro nelperiodo geometrico non è affatto di indolemateriale (…) (ma) fu la diffusione dei poemiomerici alla fine dell’VIII secolo, che ispiraro-no la gente di Salamina e Pafo a onorare i lorogovernanti con un tipo di sepoltura che ricor-dava fin nei particolari i riti funebri resiimmortali nei poemi di Omero». Non è possi-bile che qualcosa del genere sia avvenuto inOccidente? (…) La presenza di «eroi», fosseroessi autenticamente tali o solo trattati come tali,per prudenza, dalla società, è un’ulteriore indi-cazione di quanto questa società fosse permea-ta di idee greche, e della Grecia immaginariadell’epica omerica7“.

Ma se tale influenza arriverà a compi-mento nel VII sec. a.C., nei secoli IX eVIII le armi difensive più significativeerano principalmente il copricapo pro-tettivo e lo scudo; il primo era senzadubbio diffuso in materiali deperibili(cuoio, vimini) con eventuali applicazio-ni metalliche, e solo in rari casi, indicati-vi di un particolare livello sociale, veni-vano indossati veri e propri elmi rivesti-

ti in lamina bronzea sbalzata. E’ statoosservato come l’elmo, nella sua colloca-zione all’interno dei corredi funebri,non sia visto solo e tanto come una com-ponente dell’armamento, ed a Veio èstato notato come in tutti i casi del IXsec.a.C. ed anche più recenti in cui unasepoltura contenga una replica in impa-sto dell’elmo, questa non sia mai asso-ciata ad altre armi8. In vari centri –comeVeio, Tarquinia, Pontecagnano-

“le tombe della prima metà del IX sec. sonomolto semplici, i membri della comunità ten-dono a rappresentarsi come eguali riducendoal minimo gli oggetti di corredo (…) sia nelletombe maschili che in quelle femminili manca-no i segni di funzione, ed in particolare le armi,che non compaiono prima della transizione alperiodo seguente. E tuttavia piccoli indizi rive-lano che questa dissimulazione dei segni difunzione e di rango è almeno in parte il fruttodi una scelta ideologica. La presenza dell’elmofittile, imposto come coperchio all’ossuario inalcune tombe maschili, dimostra l’esistenza diuna élite guerriera. Come ho cercato di dimo-strare altrove, e come emerge ancor più chia-ramente da un elmo figurato dalla t. 6569 stu-diato da S. De Natale, a Pontecagnano come inEtruria, il coperchio a forma di elmo di impa-sto non è soltanto il simbolo della funzioneguerriera, ma rappresenta in forma simbolicala capanna. Il personaggio al quale esso è attri-buito è anche colui che garantisce la comunitàdel gruppo di parentela. Questo spiega comemai l’elmo d’impasto e le armi non siano sem-pre necessariamente presenti nelle stessesepolture. (…) questo oggetto polisemico noncopre lo stesso campo semantico delle armi e sitrova sovente dissociato da queste. Ad esempio,proprio in quest’area (della necropoli di Ponte-cagnano) le tombe con armi sono molto poconumerose. Questa considerazione, unita al

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La lancia, la spada, il cavallo

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carattere selettivo del suo impiego, induce asupporre che l’elmo fosse riservato soltanto auna parte di quei maschi adulti ai quali com-peteva la qualifica di guerriero, e probabil-mente ai seniores. A questi infatti ancora si addi-ce la dignità di guerriero, ma più ancora com-pete quella di saggio, e di garante della comu-nità del gruppo di parentela9”.

Diversamente, nella necropoli dellaprima età del ferro a Novilara, nel Pice-no, ripartita in settori distinti per grup-po sociale e familiare,

“tombe con elmo sono assenti nel «recinto»mentre sono presenti nel gruppo Servici n. 3 enel settore D-E Molaroni, oltre che nei gruppiche circondano il «recinto»: questo fattopotrebbe indicare che, come pensa Beinhauer,l’elmo non connoti il personaggio eminente inquanto tale ma sia indicativo di un ruolo effet-tivo di capo-guerriero. Ruolo che poteva venirassunto da personaggi che facevano parte dideterminati segmenti della comunità (…) nel-l’ambito dei quali determinate famiglie vannoprogressivamente sottolineando, nella localiz-zazione delle deposizioni, i legami interni allafamiglia nucleare stessa, probabilmente in rela-zione ad uno strutturarsi in senso «gentilizio»della società10”.

Lo scudo era anch’esso sovente in mate-riale deperibile (legno, cuoio, vimini)con rinforzi metallici ed ornati; solo inun momento maturo dell’età del ferrose ne conosceranno di metallici, almenoper la superficie esterna.La realizzazione di scudi lignei in com-messo di assicelle è un importante indi-catore di conoscenze nel settore balisti-co e tecnico, in quanto la conoscenza ditale lavorazione si mostra volta a sfrut-

tare la massima resistenza al particolaretipo di colpi, offerta dalla disposizionedelle fibre del legno. Anche la presenzadi supporti in cuoio, stoffa o viminisotto le armi difensive in lamina dibronzo (che possiamo definire certa,oltre che dai lacerti rinvenuti, anchesulla base degli studi moderni dellapenetrabilità delle lamine) è indicativadi una elaborata ricerca di protezioneattraverso mezzi meccanici diversi, resi-stenti ma leggeri e compositi11. Questacapacità di resistenza balistica rinviaperaltro ad una attenta valutazione delcosiddetto “peso relativo” delle armicontemporanee12 e del loro centro digravità13.Ben più rari in area villanoviana, per ladifesa, furono gli schinieri, i kardiophyla-kes e le corazzature metalliche in gene-re, mentre è difficile esprimere valuta-zioni quantitative per elementi deperi-bili, come le casacche di cuoio o di tes-suto imbottito, che dovevano comun-que essere presenti e piuttosto diffuse.Tra le armi da offesa, la lancia da puntarisulta essere stata l’arma principale perl’ingaggio bellico. In vari casi è statonotato come nelle necropoli o in loroparti, pur emergendo vari tipi di com-binazioni d’arma, l’elemento maschilepiù ricorrente fosse costituito dalla lan-cia; un esempio in tal senso è offerto daalcuni gruppi di tombe di VIII e VIIsec.a.C. della necropoli Lippi di Veruc-chio. Alla base di tale diffusione visarebbe stato l’uso di iniziare i giovaniall’uso delle armi proprio a partire dalla

lancia, la cui concessione avrebbe avutoluogo in concomitanza con l’ingressonel novero degli adulti; la deposizionenelle sepolture sarebbe dunque stataconcepita come indicatore di statussociale ed anagrafico. “La diversità diarmamento, soprattutto delle combina-zioni, che più del singolo oggetto pos-sono avere un significato distintivo,(può) diventare un interessante indica-tore di differenziazione dei ruoli14”. Perla sua realizzazione -come per la mag-gior parte delle armi offensive- si andòprogressivamente diffondendo l’impie-go del ferro a fianco di quello tradizio-nale del bronzo, con una crescita cheportò al soppiantare le armi enee nelperiodo orientalizzante. Non si puòescludere inoltre che fossero presentianche lance integralmente lignee, dellequali tuttavia non ci sono tracce certe senon nella tradizione letteraria latina.Le spade costituivano un’arma di fortevalore distintivo, che infatti compare inun numero ristretto di deposizioni diguerrieri (forse anche, come si è vistoper gli elmi spesso replicati in impastoceramico, per non sottrarle all’uso15).Anche le asce, di tradizionale impiego,sembrano avviate a divenire armi sem-pre più cariche di significati ideologicirispetto all’impiego pratico bellico, chedoveva comunque prevederne un usosia “da botta”, prevalente, che da lan-cio16.Nel complesso emerge l’adozione di unarmamento piuttosto leggero, che –seb-bene tecnicamente diverso da quello di

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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altri popoli italici coevi, come ad esem-pio i Sardi- era comunque orientato, inaccordo col tipo di combattimento delMediterraneo centro-occidentale, versouna marcata offensività. Ogni panoplia,in ogni tempo, ha infatti risposto ad unequilibrio individuato peculiarmente,popolo per popolo, entro una variabili-tà ampia, seppur comunque stretta dalimiti:

“la lancia non può essere troppo lunga, altri-menti diventa poco maneggevole, la spadanon può essere troppo pesante, altrimentidiventa un fardello, e la protezione per ilcorpo non può esser tale da ostacolare i movi-menti e la flessibilità. Sorge dunque un com-promesso fra difesa ed attacco, fra la necessitàdi proteggersi e il desiderio di attaccare euccidere. (…Talora) il compromesso era afavore dell’abilità di attaccare e uccidere piut-tosto che di proteggersi. (…) Si dava molto piùpeso all’abilità di infliggere danni ai proprinemici17”.

Tale panoplia villanoviana avrà un con-siderevole successo nell’Italia settentrio-nale e nell’Europa centrale, comemostra il fatto che

“una serie di oggetti connessi con l’armamen-to del guerriero villanoviano si trovano diffusitra le Alpi e l’Europa centro-orientale e sonosuscettibili di imitazioni locali: si tratta deglielmi crestati, delle spade ad antenne tipo Tar-quinia, dei morsi di cavallo tipo Veio con soste-gni laterali a forma di cavallini. E’ probabileche la valle dell’Adige servisse (…) da asse dipenetrazione per oggetti di cultura villanovia-na verso nord, ma la mediazione felsinea eracertamente un passaggio obbligato18”.

Sulla tattica militare i nostri sforzi rico-struttivi sottostanno ad una grave man-canza di dati iconografici e letterari, mal’analisi attenta dei materiali ci consen-te tuttavia una serie di osservazioni.Appare evidente che da reparti soloembrionalmente strutturati non è possi-bile attendersi schieramenti ed organiz-zazioni complesse, ma piuttosto delleabilità “alternative”, quali “la profondaconoscenza del terreno, la capacità dicombattere in un modo non convenzio-nale, e l’assoluta dedizione al compitodella sopravivenza, (che) fanno penderela bilancia a favore di chi opera sul pro-prio terreno19”. Già dal XIII e XII sec.a.C. la diffusionedi armi in parte originarie del settoreorientale dell’area centroeuropea20

–spade a lingua da presa, pugnali, scudipiccoli- che accomunavano così Grecia,Balcani, Europa centrale e Italia, avevaimplicato “una profonda trasformazio-ne nel modo di combattere. (…) Lanuova spada da punta e da taglio, alama più larga e più resistente, implicainvece un combattimento rapido, chenon consente più l’uso del grandescudo poco maneggevole. Ora si prefe-risce uno scudo più piccolo, che copresoltanto il petto21”. La tradizione medi-terranea –celebrata e rivitalizzata nell’-VIII secolo dall’epica omerica- avevainoltre enfatizzato il valore etico delduello e del corpo a corpo; esso peral-tro, largamente diffuso presso numero-sissimi popoli antichi e primitivi, appa-re sempre ispirato dal desiderio di rag-

giungere una posizione di privilegionella società, quale carattere permanen-te del comportamento sociale22. Nelmondo omerico

“la virtù (aretè) (…) possiede una qualificazionemilitare spiccata e forma endiadi con la forza(bie: Il. XXIII, 578, cfr. IX, 494). I capi sonocapi militari e saggi consiglieri; il potere è kra-tos, kartos, menos, cioè fatto di forza e di succes-so militare. L’anàssein si realizza ìfi, con la forza,allo stesso modo che lo scontro militare e lasconfitta in guerra. Così l’eroe finisce per risol-versi nella sua forza23”.

Lo scontro faccia a faccia sino anchesino alla morte fu dunque un aspettofortemente permeato di morale -ed alungo caratteristico della cultura occi-dentale24- che andò rafforzando la tipi-ca fisicità dello scontro antico, nel quale

“le armi che si usavano erano semplici secondoi parametri odierni, e potevano essere messe infunzione –lanciate o tirate- solo dalle bracciaumane. La qualità dei materiali era relativa-mente scadente. L’ovvio effetto che questi fat-tori hanno sulla conduzione della battaglia èche le battaglie dipendevano molto più dallaforza fisica dei partecipanti che dalla «forzadelle armi». Con poche eccezioni, «la forzadelle armi» era notoriamente non accurata edipendeva in gran parte da fattori come ilvento e le condizioni atmosferiche. Le battaglieerano a contatto ravvicinato, e in esse i parteci-panti si guardavano negli occhi, lottavano conle braccia e sentivano l’odore dei nemici men-tre combattevano25”.

Nell’Etruria villanoviana, per la presen-za diffusa delle punte di lancia metalli-che (spesso accompagnate da talloni)

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nelle quali particolari accorgimenti(chiodi di ferro, fili bronzei) sono desti-nati ad aumentare la solidità dell’arma,appare chiaro che il metodo di scontrotra guerrieri era principalmente quellodella scherma con la lancia26, molto dif-fusa peraltro in tutto il Mediterraneodal XII sec. a. C. La ricerca di soliditàdelle lance, e la dotazione non di unasola di esse ma anche di più esemplari,impugnati dietro lo scudo dal guerrie-ro, sono elementi che documentano lanecessità di disporre di alcuni “ricam-bi”. Infatti nello scontro le lance veniva-no violentemente sollecitate, e poteva-no dunque essere rotte costringendo adusarne più di una. Tale debolezza è atte-stata anche nei più recenti eserciti diopliti, dove la lancia

“al pari dell’altro componente in legno dellapanoplia, lo scudo, soffriva di un’intrinsecadebolezza strutturale (Sen., Eq., 12.12). Sebbe-ne il legno della lancia fosse di solito il durissi-mo corniolo e talvolta il frassino, è chiaro che ildiametro di due-tre centimetri non bastava aevitare che la punta venisse tranciata (oppureche l’asta stessa andasse in mille pezzi) duran-te il cozzo iniziale (...) A volte il colpo potevaessere parato e l’asta veniva tranciata (da un)fendente27”.

In combattimento le lance

“erano essenzialmente armi da urto, atte a col-pire lo scudo o le protezioni dell’avversario, sene era munito, fino a produrre gli effetti voluti.Potevano essere usate dal fianco contro gambe,scudo o petto del nemico, oppure alzate soprala testa per colpire da altra posizione lo scudo ol’elmo, e quindi la testa, dell’oppositore28”.

Più in dettaglio, sulla scherma del com-battimento con la lancia e riguardo icolpi sottomano o sopramano cui si ègià fatto riferimento, è possibile racco-gliere molte informazioni, attingendoanche ad alcuni aspetti di quanto è notorelativamente a periodi più tardi. Gliarmati di lancia potevano infatti scon-trarsi dopo una corsa all’assalto degliavversari tenendo la lancia al fianco,sottomano, ed indirizzandone la puntacontro uno degli oppositori sfruttandolo slancio della corsa per rinforzare ilcolpo portato usando l’arma comepicca. Così facendo

“si cercava di penetrare nell’inguine o nellaparte superiore della coscia dell’avversario,privi di protezione, sotto il bordo inferiore delloscudo; l’inguine era la parte del corpo, a dettadi Omero, «dov’è molto doloroso Ares per imortali infelici» (Il. XIII, 567). Che il colpoall’inguine fosse quello preferito nella collisioneiniziale è deducibile anche dalla triste descrizio-ne di Tirteo (...) Un’altra alternativa era sferra-re un colpo alle gambe sopra i gambali, doveuna ferita profonda poteva arrestare altrettantorapidamente (...) In vari altri passi della lettera-tura greca leggiamo di soldati vittime di ferite alginocchio o alla coscia, a conferma del fatto chequella parte non difesa del corpo era uno deibersagli preferiti dei primi colpi sottomano (...)Il vantaggio di colpire al di sotto dello scudo erache si trattava della prima e ultima possibilità dimettere a segno il colpo di lancia in una partedel corpo non protetta, con energia sufficientea eliminare in modo immediato e definitivo ilnemico dalla battaglia29”.

Ancora al termine dell’assalto, dallaposizione di lancia sottomano, poteva-no essere

“sferrati con successo colpi al torace, botte fata-li che squarciavano la corazza. Una stoccatasufficientemente violenta da penetrare nellacorazza (...) probabilmente poteva essere sfer-rata soltanto durante l’iniziale carica di corsa.In questi casi, quando (il guerriero) si coprivacon lo scudo nei secondi che precedevano lacollisione, la lancia veniva rivolta leggermenteverso l’alto e diretta con grande impeto control’ampio bersaglio del torace30”.

Nello scontro da fermo, invece, i lancie-ri impugnavano diversamente la loroarma, per darle la necessaria forza dipenetrazione: i guerrieri

“fermi scagliano la lancia dall’alto in bassoimpugnandola sopramano, nel tentativo dipassare sopra il bordo superiore dello scudodel nemico (...) Anche le ferite alla testa e alcollo erano un evento frequente nella mischiagenerale, e sappiamo che il colpo di lancia dal-l’alto verso il basso inferto da un (…) (guerrie-ro) fermo talvolta colpiva l’elmo e le zone nonprotette del collo31”.

Qualche esemplare di lancia -con unapromiscuità d’uso ben nota nell’antichità-poteva comunque essere anche scagliatoa distanza, prima del corpo a corpo. Conl’adesione alla tecnica di combattimentoincentrata sulla scherma con la lanciaanche l’area interessata dalla facies cultu-rale villanoviana pare adeguarsi ad unuso diffuso nell’intera Europa dall’iniziodell’età del ferro, epoca in cui le grandi elunghe spade dell’età del bronzo tendo-no a ridurre sia la loro presenza che -aparte gli esemplari ad antenne ed a lin-gua da presa- le loro dimensioni, comenel caso delle spade “italiche32”.

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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Le considerazioni attorno al peso ed allalunghezza delle più diffuse armi villano-viane -lance e spade corte- sottoposte aduna valutazione tecnica che ne considerimediamente peso relativo, indice peso-lunghezza e lunghezza relativa33, orien-ta a riconoscere in esse armi leggere ido-nee ad una percussione lanciata perpen-dicolare -e non obliqua- di tipo punti-forme, ovvero, di fatto, adatte ad unascherma per colpi di punta e non perfendenti, scherma dunque penetrantema non devastante. Sicuramente l’utiliz-zo delle diverse armi richiedeva unaddestramento distinto e quindi anchel’acquisizione di abilità distinte34, dellequali declinazioni in vere e proprie artidi scherma non abbiamo tracce, ma pos-siamo immaginarne alcuni accorgimen-ti da quelli contenuti in più recentiopere medievali e rinascimentali35.Alla scherma comunque, in vari casi,doveva succedere anche il corpo a corpopiù selvaggio; allora i guerrieri si colpiva-no anche con i tronconi delle lance spez-zate, e tentavano con le mani nude diafferrare la lancia dell’avversario perbloccarlo, sbilanciarlo e farlo cadere36. Seda un lato il far perdere l’equilibriomediante spinte è stato individuato qualeun modulo di comportamento innatonella lotta da parte dell’uomo37, ciò nellaprima età del ferro mirava anche a ren-dere più semplice e mortale il colpo aterra, che anche in epoca oplitica pene-trava corazze ed elmi: “when the hoplitestumbled, his stationary, prostrate bodythen targeted by repeated two-handed

jabs of butt spike, spear tip, or sword38”.Doveva accadere che lo scontro

“si risolvesse più spesso in una gragnuola dicolpi menati alla cieca e di prese disperatepiuttosto che in abili e precise stoccate o inmovimenti ripetuti (...) (i guerrieri) afferravanola barba, i capelli o gli elmi dei loro avversari,cercando di abbatterli a mani nude (...) (talvol-ta) l’uno cercava di strappare l’elmo e la coraz-za all’altro39”.

I corredi funebri dell’Etruria protostori-ca, riferibili a guerrieri armati di solelance o giavellotti, e quelli dove invececompare anche la spada costituisconodocumenti storico-militari e sociali digrandissimo valore, in quanto tale diffe-renza di armamento non è da ritenersicasuale, ma appare “su tutto il periodo, ilche prova che non si assiste ad una mol-tiplicazione delle armi nel corso deglianni, ma che deve piuttosto trattarsi diuna distinzione personale collegata allafortuna o alla posizione sociale40”. La spada, arma da vero corpo a corpo,compare anche nelle coeve necropolilaziali della prima età del ferro in asso-ciazioni particolari; è stato ipotizzatoche “l’associazione delle due armi che siosserva in alcune tombe maschili diquesta fase (III fase laziale, ca. 770-730/720 a. C.) e la presenza della solapunta di lancia in altre sono probabil-mente connesse con una suddivisionein classi di età”; si tratta infatti di una“differenziazione nell’armamento, nonaccompagnata sistematicamente dadistinzioni nella composizione e nellaricchezza del resto del corredo41”.Qualcosa di probabilmente simile sem-bra emergere da studi compiuti sui cor-redi con armi dell’area lucana risalentialla prima età del ferro; qui “sembra (...)evidenziarsi un armamento ben artico-lato con una netta distinzione tra pochiportatori di spada (evidentemente nonpiù di uno per generazione) e numero-si armati di lancia e/o giavellotto42”. Gliarmati di spada lucani sembrano

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La lancia, la spada, il cavallo

Bronzetto di guerriero con elmo crestato,grande scudo o vale e lancia, la Lozzo AtestinoEste, Museo Archeologico

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comunque riconducibili ad un gruppodi rango elevato, vista la compresenzanei corredi di altri oggetti distintivi;

“la distinzione fra una maggioranza di armatidi sola lancia o giavellotto e una minoranza diportatori di spada accompagnata da una lanciao giavellotto appare abbastanza netta (...) Perquanto riguarda la posizione degli armati nel-l’ambito della comunità e al tempo stesso l’or-ganizzazione sociale e politica della stessa, idati più evidenti offerti dal campione in esamesembrerebbero indicare, ad una prima osserva-zione, gli aspetti di una società di tipo più omeno marcatamente militare regolata da unsistema gerarchico basato su una maggioranzadi armati di sola lancia subordinata al gruppominoritario degli «emergenti» portatori dellacoppia lancia-spada43”.

In area picena, la necropoli Molaroni-Servici di Novilara, sebbene scavataoltre un secolo fa, ha documentato unasituazione simile per diversificazioned’armamento nelle tombe maschilidella prima età del ferro:

“le tombe con armi sono presenti in buonaparte di (…) (un) settore della necropoli, anchese sono concentrate soprattutto nella zona cen-trale e l’armamento è diversificato: praticamen-te in tutte le fasi della necropoli individuate daBeinhauer accanto a sepolture con sola lancia visono sepolture con lancia e coltellaccio opugnale, alcune delle quali anche con elmo, cuinelle fasi più recenti può essere aggiunta l’ascia.Beinhauer propende per una interpretazionedi questi diversi tipi di armamento in termini didistinzione sociale e considera gli individuisepolti con elmo capi-guerrieri defunti all’epo-ca dell’esercizio della loro funzione militare.Ipotesi convincente alla luce di quanto sappia-mo di questa società, ma che naturalmente

potrebbe essere sottoposta ad un qualche tipodi verifica soltanto se conoscessimo l’età di que-sti individui, in particolare dei portatori di lan-cia che tra l’altro sono meno numerosi di colo-ro che hanno un armamento più «completo»,comprendente anche coltellaccio, spada opugnale, e sono addirittura assenti nell’ultimadelle sottofasi distinte dall’autore. Questi capi-guerrieri sembrerebbero scelti di volta in voltaall’interno di determinati gruppi (Servici eMolaroni settore D-E), verosimilmente parente-lari, documentati in almeno due diverse zonedella necropoli di Novilara, nel settore Servici1892/1893 e nel settore D-E nel terreno Mola-roni. Il potere militare –e quindi forse anchequello politico- sembrerebbe concentrato indeterminati gruppi verosimilmente legati alloro interno da rapporti di parentela senza chesia possibile dire con certezza, allo stato delladocumentazione, se l’uno avesse una sorta dipredominio rispetto all’altro, ovvero se il pre-dominio passasse da un gruppo all’altro44”.

Anche nello studio dei distinti gruppiche formano la necropoli Lippi diVerucchio, come si è già rilevato, la pre-senza di “sepolture maschili che in seicasi su otto hanno combinazioni sem-plici di armi (…) potrebbe essere dovu-to a differenze cronologiche (…) o forsead un diverso ruolo che gli individui diquesto gruppo svolgevano rispetto aquelli di gruppi cronologicamenteparalleli45”. La situazione di Novilara èstata così utilmente confrontata conquella di Verucchio, dove tuttavia

“l’evoluzione dell’armamento come è ricostrui-bile in base ai vecchi scavi, integrati da quellirecenti (…) risulta molto diversa da quella diNovilara. Nell’antica età del ferro, forse già nelIX e sicuramente nell’VIII secolo, la situazione

sembra analoga a quella di Bologna e del Pice-no: le tombe di guerriero hanno solo la spada,talvolta anche la lancia come nel Piceno. Inseguito la situazione sembra differenziarsialquanto rispetto a quella documentata a Novi-lara ma anche a Bologna o in Etruria. Gli scavirecenti resi noti del predio Moroni evidenzianouna situazione complessa tra l’VIII e il VIIsecolo. Nelle tombe possono essere presenti siasingoli elementi attinenti all’armamento–lance, asce, coltellacci o spade corte (…) -ocombinazioni di elementi –in genere coltellac-ci o spade corte-46”.

Anche in un’altra area italica, la Sarde-gna, nelle combinazioni d’arma attesta-te dall’iconografia dei bronzetti emerge,come si è accennato, una valenza simbo-lica diversa per la presenza o assenza diarmi da guerra come le spade, e per ladiffusione del pugnale a elsa gammata:

“è da tenere da conto, in questo quadro, la pre-senza (…) del pugnaletto ad elsa gammatapendente sul petto. Esso è assolutamenteassente nella raffigurazioni degli «eroi», mini-mamente rappresentato fra gli arcieri ed arcie-ri oranti (…) Se si considera che questo attri-buto si riscontra sul 42% del totale dei bron-zetti di figure umane, dovremo, quindi, rite-nerlo un elemento significativo e significantedel modo di rappresentarsi dei dedicanti, ecercare di individuarne, appunto, il significato.(…) Constatiamo, così, la pressoché totaledistinzione iconografica fra gli «armati» ed i«disarmati», che si esplica nella ostentazione diattributi assolutamente diversi, ma che pur tut-tavia si intrecciano in alcuni particolari e cioè(…) in secondo luogo il pugnaletto che, costan-te nei secondi, trova una buona attestazioneanche sui primi. Sul totale delle raffigurazionidel pugnaletto, il 63% è su «disarmati», il 37%su «armati». (…) risulta evidente che la sua fun-

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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zione (o almeno il suo valore significante nellaraffigurazione) non è quella di un’arma. La suamassiccia e predominante presenza su figureche non si contraddistinguano come «armati»ed inversamente la sua poca rilevanza sugli«armati», nonché la totale assenza negli «eroi»,ce ne rendono sicuri. (…) Esso, in conclusione,indica qualche cosa che è comune sia agli oran-ti che ai capitribù che, più parzialmente, aiguerrieri ed agli arcieri. L’esclusività delpugnaletto come elemento significante deglioranti e la sua forte pregnanza sui capitribùvuole, con ogni verosimiglianza, asserire unaloro condizione comune, al di là delle evidentidifferenziazioni date dagli altri attributi di que-sti ultimi: l’ampio manto che avvolge il corpo eil lungo bastone. Già altrove ho proposto che ilpugnaletto sia un indice di appartenenza alcorpo sociale della «tribù»47”.

Le osservazioni su un sistema di gerar-chia nella società villanoviana e dideterminate aree italiche basato su unamaggioranza di armati di sola lanciasubordinata ad un gruppo di emergen-ti portatori di spada e lancia coincidonoperaltro con quanto attestano le fontiletterarie per il mondo latino, e quelleepigrafiche per il mondo italico; infatti

“da un punto di vista sociologico, importantis-sima è la serie di informazioni varroniane con-servate da Dionigi, dal quale apprendiamo cheil nome delle curie derivava da nomi di capi oda nomi di pagi e che la divisione all’internodella curia non era gentilizia, ma funzionale, trasacerdoti e leitourgoi (Dion. Hal. II, 21-23 e 47,4). La corrispondenza con situazioni di altrecomunità italiche è evidente, quando dal ritua-le iguvino si apprende che la divisione socialeprevista dalle formule arcaiche è fra ordini disacerdoti ed ordini di soldati, a loro volta divisiin nerus sihitir ansihitir, «uomini armati di spada

e privi di spada», gli anziani, e iouies hostatir ano-statir, «giovani armati di lancia e privi di lancia»,a sua volta somiglianza perfetta con la divisioneromana di seniores e iuniores48”.

Anche nel mondo ellenico dei cosiddet-ti “secoli bui49” il numero di coloro chepotevano disporre di spada e lancia eraridotto: in accordo con lo Snodgrass, ilDrews rileva che

“the evidence from graves suggests that a verysmall proportion of the adult males in a DarkAge community were able to afford both asword and a spear, and defensive armour isconspicuously lacking. In the Ionian poleis arelatively well armed basileus might thereforehave had a sword, a spear, and a leather shield,and perhaps wore a helmet, corslet, and grea-ves all made of leather. The men under his com-mand (il corsivo è nostro) would have had nomore than spears and shields50”.

Anche la presenza del carro da guerranelle tombe della fine dell’VIII sec.a.C.–preceduta dalla deposizione di model-lini di carro in tombe tarquiniesi del IXsecolo talvolta con elmi di impasto51-appare accompagnata, nell’Etruriapadana, dalla deposizione della spada etalvolta dell’ascia, oltre agli indispensa-bili morsi equini, in modo da connotarecon “gli elementi legati al ruolo socialee al prestigio militare del defunto” il suo“ruolo di «capo» guerriero52”.D’altronde, sebbene la qualifica di arma-to coincidesse con quella di maschioadulto e membro pleno iure della comu-nità53, la valorizzazione, oltre alla forza,di doti mature come la forza di volontà,il carisma, il coraggio e l’adesione alle

regole sociali, era largamente diffusanelle civiltà antiche54; Euripide scrisseche “un braccio forte può portare ilcolpo di lancia non meglio di uno debo-le; è la natura ed il coraggio di un uomoche lo rendono ciò che è ” (Eur. Elect.,389-390). Dunque la differenza di arma-mento rispondeva a motivazioni socio-culturali; più precisamente si ritiene chel’uso di una qualunque arma, o dellalancia, o piuttosto della spada, sottostes-se a livelli di iniziazione diversi nelmondo degli adulti di pieno diritto55. Lo studio delle necropoli tarquiniesi delIX sec.a.C. ha consentito di ricostruireuna ripartizione piuttosto articolata deimaschi appartenenti alla comunità,all’interno della quale, entro un campio-ne di 179 sepolture, si distinguono delle“sepolture maschili con scodella-coperchio,costituenti poco più della metà del totale, (…)caratterizzate da un trattamento rituale pocoaccurato (…) il corredo vascolare è presente conuna percentuale molto bassa, pari al 21% ed ègeneralmente di composizione semplice, il cor-redo personale, cioè bronzi e affini, è costituitoper lo più dal solo rasoio, o da rasoio + fibula/e,o da sole fibule. Assoluta è l’assenza di armireali, peraltro non frequenti nelle tombe di que-sta età. L’oggetto più ricorrente nell’ambito diquesti corredi con scodella è il rasoio, elementoal contrario molto raro fra le sepolture conelmo-coperchio; è probabile che esso si carichiin questo periodo di valenze simboliche chevanno ben oltre la semplice toletta maschile e sene può ipotizzare un significato in relazione aduna specifica classe d’età o, in alternativa, a unostatus subordinato. (…) I corredi maschili conelmo-coperchio, verosimilmente attribuibili auomini in armi, si differenziano nel complesso

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La lancia, la spada, il cavallo

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da quelli con scodella (…) L’elemento di mag-gior differenziazione è comunque la presenzadi armi reali, singole o associate in combinazio-ni estremamente variabili: sono particolarmen-te degni di nota i pochi corredi con spada,spada + lancia o elmo reale in lamina bronzea;(…) In due sepolture appaiono anche morsi dacavallo, in un caso associati con l’elmo bronzeo.Non va sottaciuto comunque che, accanto a talicorredi di un certo prestigio, costituenti il 33%del totale, la maggior parte delle sepolture conelmo simbolico è caratterizzata dall’assenza dicorredo o, al massimo, dalla presenza di qual-che fibula. Non vi è dunque una totale identifi-cazione fra guerrieri e gruppi sociali di rangosuperiore. La terza categoria di sepolturemaschili, caratterizzata dall’urna a capanna,appare ancora più specializzata in senso ritualedelle precedenti (…) e, in almeno un caso,un’arma, una lancia. (…)Fra gli individui di sesso maschile distinguiamo,da una parte, i non armati (con scodella-coper-chio), di status generalmente piuttosto basso,dall’altra gli armati (con elmo), detentori nelcomplesso di un maggiore prestigio sociale, maarticolati gerarchicamente al proprio interno.La terza categoria di maschi, caratterizzata dal-l’urna a capanna, si pone forse al di sopra delleprime due, ed è verosimilmente da mettere inrelazione con ruoli di grande autorità politica–come adombrato forse dalla simbologia dellacasa/tempio- quali ad esempio quelli di capo diun grande gruppo familiare e/o di sacerdote.(…) Infine, le numerose sepolture totalmenteprive di corredo e con scodella-coperchio, indi-viduano forse alcune categorie sociali in rap-porto di subordinazione con le precedenti, mala cui vera identità (infanti, clientes?) è per ilmomento non specificabile56”.

La consistenza numerica degli individuitarquiniesi privi di corredo in rapportoal complesso della popolazione maschi-

le ammessa a diritti sacri (e, probabil-mente, civili) nel IX secolo, quantificatain circa la metà delle tombe, è tale danon consentire di pensare che la ristret-ta comunità in armi dell’epoca potesserinunciare ad un’aliquota così alta diuomini. Dal momento che costoro alme-no in parte non erano degli infanti –lodocumentano i rasoi deposti sovente-non si può escludere che essi fossero deigiovanissimi ancora in fase di addestra-

mento militare, e che facessero ricorsoad armi totalmente lignee, come l’hastapura latina. D’altronde l’adozione dellalancia quale arma di base per l’accessoall’esercito era nota anche, ormai nel VIe VII sec. d.C., presso i Longobardi, chedefinivano l’assemblea del popolo, ovve-ro dei liberi, gairethix, cioè “assembleadelle lance”; “i liberi erano coloro cheavevano il diritto di portare le armi e difar parte dell’esercito, gli “arimanni”, gli“uomini dell’esercito” (heermann). Legerarchie civili erano identificate conquelle militari (…) il contingente di baseera la fara, aggregato familiare o plurifa-miliare allargato57”.Tale prassi di distinzione del tipo diarmi impiegate, codificata socialmentee culturalmente, non è un fatto isolatoconfinato nell’epoca antica o nelmondo occidentale, ma ritorna confacilità in altre culture primitive odier-ne. Presso alcuni popoli primitivi odier-ni dell’Indonesia, con società tradizio-nali, al di sotto della nobiltà e dei consi-glieri del capo

“ma al di sopra della gente comune si colloca-no i guerrieri più valorosi (...) coloro cioè che sisono distinti per la loro bellicosità (...) (essi)hanno il privilegio di indossare, durante gliscontri armati contro altri villaggi, invece dellasemplice giacchetta di fibra di corteccia checostituisce l’abbigliamento (della gente comu-ne), una corazza di fibre vegetali estremamen-te resistenti e un elmo completato da una visie-ra fornita di zanne metalliche e di una barba difibre vegetali. Elmo e corazza, oltre a fornireuna migliore protezione contro i colpi, servonoa incutere timore al nemico58”.

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

Cinerario biconico villanoviano con coperchioa elmo crestato in impasto - Tarquinia, MuseoArcheologico Nazionale

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Nell’Etruria villanoviana, parallelamen-te a quanto si è venuto rilevando per l’u-tilizzo di armi offensive, anche per glielmi –come rilevato in apertura di capi-tolo- l’utilizzo di tale arma difensiva sot-tostava con ogni probabilità a limitazio-ni determinate dal ruolo sociale, e forseanche economico in relazione ai mate-riali impiegati per la sua costruzione.Quanto invece ad altre armi di tipodifensivo, la documentazione a nostradisposizione è del tutto insufficiente aformulare ipotesi, e per alcune di esse èpossibile che subentrassero aspetti eco-nomici o semplicemente soggettivi,anche se va tenuto presente che in talefase la disponibilità di beni era sottopo-sta anch’essa a vincoli socioculturali.Alcuni studi tendono a ritenere che ladiversificazione delle armi difensive edoffensive dipendesse da una precocedivisione interna della società villano-viana, entro la quale

“si formarono gradatamente delle suddivisioniin classi. Le classi più ricche, che costituivanol’oligarchia del villaggio, già nel IX sec. a. C.possedevano un armamento individuale com-pleto, composto sia di armi da offesa che dadifesa. Con l’allargamento degli interessi edelle minacce esterne, in particolare durantel’VIII secolo, dobbiamo ritenere che questaclasse di guerrieri non fosse più sufficiente agarantire la sicurezza della comunità. Si reseallora necessario armare anche classi menoabbienti della popolazione, pur se equipaggia-te in maniera più povera e comunque control-late e comandate dai guerrieri di rango socialepiù elevato. I guerrieri più facoltosi possedeva-no in genere un elmo di bronzo e una piastra

protettiva per il petto (...) Il corpo di questicombattenti era inoltre quasi completamenteprotetto da un ampio scudo. L’armamentooffensivo comprendeva lancia, spada o ascia epugnale. Le classi minori dovevano invecearmare i loro guerrieri con giavellotti (o piùraramente lancia), ascia (meno costosa dellaspada che all’epoca era assai preziosa) pugnalee scudo di legno col solo umbone bronzeo59”.

Tale ricostruzione tuttavia, pur valida nel-l’osservare l’importanza crescente delbenessere nella società villanoviana, nonspiega la totale assenza in alcune localitàdi armi difensive bronzee di pregio (comea Bologna, dove i guerrieri, paradossal-mente, sarebbero stati tutti solo di classipoco abbienti, mentre nella vicina Veruc-chio sono attestate preziose armi offensi-ve e difensive60); essa inoltre non dà unaconvincente spiegazione della distinzioned’uso della spada, e sembra ritenere lapresenza di una vasta massa di “lancieri”come un frutto tardo dell’evoluzionesociale, mentre essa fu probabilmente lapiattaforma tradizionale di base su cui siimpostava la comunità in armi e che soloin un secondo momento conobbe l’emer-gere degli spadaccini. In altri termini,questa ipotesi ricostruttiva proietta forsetroppo indietro nel tempo la logica dellariforma serviana a Roma; il livello econo-mico e la partizione censuaria61 nellasocietà dell’età del ferro non erano infat-ti che il riflesso di una dignità sociale lecui origini erano ben più profonde, edaffondavano in quel complesso di tradi-zioni che limitare al solo ambito econo-mico appare decisamente riduttivo.

A fianco delle regolamentazioni sulledifferenti associazioni d’arma, vacomunque ammessa una tradizionaletendenza a personalizzare la panoplia,presente peraltro in ogni tempo, sullaquale valgono senza dubbio le osserva-zioni dello Hanson per le truppe deglischieramenti oplitici che, sebbene peresigenze tecniche avrebbero dovutoessere uniformate al massimo rispetto aicontingenti della prima età del ferro,invece

“non (...) avevano necessariamente lo stessoequipaggiamento: un fatto non sorprendentese si considera che gli uomini dovevano por-tarsi il proprio armamento e (...) non venivafornito loro un «equipaggiamento standard».La maggior parte doveva avere qualche prefe-renza per il modello che causava minori disagi(e costava meno), sicché le armi venivanomodificate (si legga: alleggerite) a secondadelle esigenze individuali62”.

La quantità dei guerrieri che partecipa-vano agli scontri in relazione al numerocomplessivo degli abitanti dei singolicentri è stata oggetto di varie indagini;sul tema del “tasso di partecipazionemilitare” delle diverse società è di inte-resse lo studio generale di StanislavAndreski, secondo il quale nelle societàpreistoriche e protostoriche inevitabil-mente

“si viene a creare una classe militare dominan-te nella propria società o vittoriosa su un’altra.(…) Nelle tribù vittoriose, che sottomettonoquelle vicine, tutti i maschi abili possono esse-re guerrieri; mentre nelle situazioni economi-

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La lancia, la spada, il cavallo

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camente favorevoli, quando lo strato dominan-te può provvedere a una popolazione in espan-sione grazie al commercio, all’industria o all’a-gricoltura intensiva, le forze armate si ridur-ranno alle dimensioni appena necessarie63”.

Per quanto concerne il Vicino Oriente diepoca biblica, l’età dei combattentireclutati era attorno ai venti anni, ed inEgitto sappiamo dalle Istruzioni diMerirkare che si accedeva all’esercito alventunesimo anno di età; tuttavia “unacittà della grandezza di Ai con un nume-ro di abitanti compreso fra i 240 e i 320abitanti, cioè 70 famiglie «medie»,secondo i calcoli di Stager, probabilmen-te non reclutava più di due uomini ido-nei per famiglia. Questo dava un totaledi centoquaranta uomini, o diciotto ‘ela-fim (unità militari d’Israele)64”.Diversamente i calcoli effettuati nel 1898dal Delbruck per la popolazione maschi-le adulta in Grecia, in dissidio col Beloch,indicano quantitativi probabilmenteinferiori di uomini a disposizione.

“For the fifth century B.C. Beloch also acceptsthe fact that Boeotia was a country (..) therefo-re with some 40 souls to the square kilometre.(…) In his estimates Beloch assumes that theadult men formed approximately a third of thepopulation; he felt that the Greek populationwas already stabilized as early as the fifth cen-tury B.C., somewhat similar to present-dayFrance. I cannot agree with this opinion.Athens, Megara, Corinth, and many othercities actually grew greatly in the fifth centuryB.C. (…) I also prefer to estimate the numberof children somewhat higher than Beloch andtherefore count the adult males as less than a

third of the population. In Germany today(1898) the males over eighteen years oldaccount for 28 to 29 percent of the population.(…) At the outbreak of the Peloponnesian War,therefore, the field army was made up of overhalf of the adult service-qualified citizens. (…)We are to understand classification in the zeu-gitae class as meaning that the family was to fur-nish one man, equipped. It is impossible thatthe father of a farm family with several grownsons would have been obligated to provide apanoply for each one. Providing one fullyequipped man meant sending not one, but twomen. If this concept is correct, then an Athe-nian hoplite army in 490 B.C. cannot haveincluded a half of the service-qualified Athe-nian citizenry, as in the year 431 B.C., buthardly a third, and probably only a fourth orfifth65”.

Sugli opliti del V sec.a.C. della Beoziaanche lo Hanson ha effettuato i suoi cal-coli basati su Tucidide (IV, 93, 3):

“The make-up of the Boeotian army revealsthat about half the male inhabitants weredenied full citizenship rights. (…) How manydid not have full citizenship rights (i.e.. elegibi-lity to hold all elected offices and partecipate inall municipal councils) under the agrarian con-federacy led by Thebes? (…) The full-citizenhoplites (about 12,000 hoplite farmers) com-posed about twenty percent of the total adultresident population of Boeotia (i.e. 60,000-70,000)66”.

Le milizie dei ridotti villaggi italici del-l’età del bronzo dovevano attingere piùuomini abili possibile dalla comunità;tuttavia, grazie all’adozione di tecnichedi guerriglia, dovevano essere organiz-zate in gruppetti molto esigui numeri-

camente; anche in tempi moderni pertale approccio tattico viene previsto dioperare, se il terreno è favorevole, conuna banda di circa 25 uomini, che scen-dono ai 10-15 su terreni sfavorevoli oostili, pena l’individuazione e l’elimina-zione; su terreno favorevole si prevededi operare entro una distanza contenu-ta in 5-6 ore di marcia67.Quanto all’Etruria villanoviana, uno stu-dio percentuale sugli armati in rapportoalla popolazione maschile è presenteper la necropoli Lippi di Verucchio, risa-lente dalla prima metà dell’VIII al pienoVII sec. a.C.; al suo interno

“l’importanza degli armati nella società espres-sa dalle tombe della necropoli Lippi è (…) sta-tisticamente evidente, anche se, in attesa dianalisi antropologiche sui resti ossei cremati, ladeterminazione del sesso degli individui èavvenuta solo su base archeologica; il numerodegli armati è circa 2/3 del totale degli indivi-dui archeologicamente definiti maschi. (…) (Viè nel tempo) una maggiore variabilità dellecombinazioni di armi e una maggiore inciden-za di individui dotati di armatura complessa(circa il 30% degli armati nell’VIII e il 50% nelVII). (…) E’ possibile, sulla base delle combi-nazioni di armi da difesa e da offesa, osservarealcune caratteristiche della società maschile:nel periodo più antico (come anche nelletombe non datate) un terzo degli uomini, quel-lo con combinazioni di armi più complesse, hanel suo corredo elementi di bardatura equina;nel momento di passaggio tra l’VIII ed il VIIsecolo metà degli uomini ha bardature, lo stes-so avviene nel VII secolo pieno, quando inoltrenelle tombe maschili fornite di panoplie com-plesse si ritrovano, oltre alle bardature ancheparti di carri. La presenza di uomini armati neivari gruppi (della necropoli) è abbastanza

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generalizzata con una distribuzione equilibratanel corso del tempo, anche se si verificano pic-cole dislocazioni. Una distribuzione più limita-ta hanno le tombe con armatura complessa,presenti nell’VIII secolo in quattro gruppi (inuno solo di essi con due individui) e nel VIIsecolo in cinque gruppi con una concentrazio-ne di tre individui nel gruppo C e tre nei grup-pi I e Q. Nell’VIII secolo in tre dei gruppi dovesono concentrati uomini con armatura com-plessa sono presenti anche i casi più articolatidi relazioni interne incrociate (…) Sembrereb-be che la selezione che porta all’acquisizione diun maggior peso da parte di alcuni gruppi, allafine dell’VIII secolo, avvenga all’interno diquesta ristretta cerchia68”.

Pur parziale e connesso ad una societàparticolare quale quella verucchiese, èdi notevole interesse il dato della parte-cipazione all’attività militare da parte dicirca 2/3 del complesso dei maschi pre-sumibilmente adulti –almeno di un’etàsuperiore a quella degli infanti, vista lacollocazione in sepolture con corredo-.Tale età adulta, da studi condotti sullenecropoli protostoriche tarquiniesi ecome verrà più ampiamente trattato nelcapitolo sull’addestramento, sembre-rebbe collocabile attorno agli 11 anni;

“nelle inumazioni della fase II, infatti, i maschinon sono connotati come portatori d’armi(cioè lancia e coltello in ferro) se non a partiredalle inumazioni di terza fascia (oltre 11 anni).Il solo coltello di ferro, accompagnato dall’a-scia bronzea, è attestato, comunque, nellatomba di un individuo (indicato dubitativa-mente come maschio) di seconda fascia (da 6+a 11 anni)69”.

Dunque la percentuale di uomini arma-ti tra gli adulti pieni sarebbe stata, dai

dati tarquiniesi del IX sec.a.C. soprariportati, di circa il 50%, dei quali solo il33% circa (il 16,5% degli adulti) avrebbeavuto un armamento complesso (spada,spada e lancia, elmo fittile). NellaVerucchio dell’VIII secolo la percentua-le di armati tra i maschi adulti sarebbesalita attorno al 66%, dei quali il 30% (il18% di tutti i maschi adulti) con arma-tura complessa; nel VII secolo i portato-ri di armatura complessa sarebberodivenuti circa il 30% del totale. E’ forseinteressante notare che in Sardegna,nell’arco del VII secolo, sul totale di raf-figurazioni di maschi adulti su bronzet-ti, riconoscibili dal pugnaletto ad elsagammata che appare sul 42% dei bron-zetti a figura umana, il 63% è privo diarmi da combattimento, mentre il 37%ne indossa70.Può essere utile verificare come la quan-tità di armati risultasse probabilmenteinferiore –in accordo con la citata teoriadell’Andreski- nell’Atene del 490 a.C.,dove il Delbruck ipotizza un esercitoformato dal 33-20% dei maschi adultitotali. Molto più tardi, nella Toscana traDuecento e Trecento, il rapporto trauomini d’arme e totale della popolazio-ne è stato ipotizzato di 1:3,571, ovverol’esercito comprendeva oltre il 55% deimaschi di ogni età; l’exercitum –la massi-ma mobilitazione comunale possibile-richiamava tutti i maschi tra i 15 ed i 70anni72.Nel complesso si può ritenere che l’or-ganizzazione militare avesse già all’ini-zio dell’età del ferro una certa comples-

sità; d’altronde il diverso numero deicontingenti richiede una diversa orga-nizzazione militare, e “a movement thatis made by an organisation of 1,000men without complications becomes anaccomplishment for 10,000 men, awork of art for 50,000, and an impossi-bility for 100,00073”. L’elevata percen-tuale di combattenti entro insediamentiprotourbani cospicui, indica rilevantiquantità assolute di armati dall’VIIIsecolo, periodo in cui erano in attoanche consistenti trasformazioni socioe-conomiche che coinvolgevano peraltrole tecniche militari.

“Nella sua opera The Shape of the Past. Modelsand Antiquity, T. F. Carney esaminò il modo incui le istituzioni militari influenzano le societàche le possiedono. Oggetto del suo studio eral’introduzione dell’innovazione militare dell’o-plite nella società greca, e le sue scoperte offro-no un modello prezioso per esaminare similicambiamenti sociali. Carney notò che il princi-pale stimolo al cambiamento avveniva attra-verso un nuovo uso delle risorse naturali(mano d’opera e materiali), le modifiche all’in-terno della struttura sociale ed economica peradeguarsi a questo, e la formazione delle isti-tuzioni politico-militari. A sua volta questo«principale stimolo» al cambiamento ha unprofondo effetto sulla tecnologia, la strutturadel popolo, la socializzazione e la personalità,le questioni estere, la cultura e le convinzionireligiose74”.

In effetti, in età villanoviana, la parteci-pazione all’attività militare appareancora stagionale ed occasionale, giac-ché anche presso le popolazioni italichedella prima età del ferro “una vita carat-

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terizzata dall’attività agricola in funzio-ne del fabbisogno esige troppa mano-dopera per permettere il mantenimen-to di un esercito regolare. Non può for-nire la quantità di uomini che un taleesercito necessita –gli uomini sononecessari nei campi e a casa- né può for-nire un surplus di produzione tale damantenere un siffatto esercito in assettodi guerra75”. Tuttavia erano già in attodelle trasformazioni culturali di vastaportata, e tecnicamente

“il combattimento con la lancia non accompa-gna obbligatoriamente un’organizzazione opli-tica, ma sottintende dei metodi di scontro chesuperano la semplice guerra d’imboscata. Delresto l’uso di un elmo, uno scudo di legno e diuna lancia corrisponde ad un armamento giàabbastanza pesante che mal si adatterebbe aduna vera guerriglia. Di conseguenza è verosi-mile che i villanoviani adottassero, per battersi,una organizzazione in linea e che lo scontro sisviluppasse sotto forma di duelli individuali76”.

D’altra parte, anche nella coeva Greciadi età geometrica (VIII sec. a. C.) le bat-taglie, nel loro dipanarsi erano “avveni-menti scomposti, dominati in partedalle armi da getto (...) in parte daicombattimenti con la spada e con lalancia77”. “Most likely a less (rispettoalla falange) rigid style of massed attackhad already been present in the eightcentury. Earlier mass tactics could haveexisted apart from normal hopliteequipment78”.Senza dubbio l’Etruria del IX sec. a.C.aveva già un’organizzazione sia dellasocietà che dei reparti armati tale da

riuscire a tenere testa ai Fenici, i cui pro-spectors non riuscirono a stanziarsi esfruttare le risorse locali su scala similealla Sardegna79, e più tardi anche aicoloni greci, che stavano approdandoed insediandosi sul Tirreno risalendolo,ma senza riuscire a fondare in territoriovillanoviano delle colonie come inveceaccadde in Campania80. Proprio sullabase di questa capacità militare

“G. Colonna ha avanzato un’elegante ipotesidegna di seria considerazione: dovremmo cioèessere disposti a pensare i visitatori eubei («pro-spectors», agenti, o mercanti) intenti a trattarecon determinate persone per ottenere accessoall’area mineraria, col bisogno di protezionearmata lungo il percorso per raggiungerla. Ipercorsi in questione attraversavano inevitabil-mente territori diversi, ciò che costituiva sem-pre nell’antichità un’impresa delicata: secondoLivio, le difficoltà inerenti a un’operazione delgenere costituivano un argomento più forte diquello cronologico contro la possibilità che ilsabino Numa Pompilio avesse realmente visita-to Pitagora nell’Italia meridionale: «sotto laprotezione di chi avrebbe chiunque potutoviaggiare solo, in mezzo a tante genti diverseper lingua e costumi?» (Livio, I, 18.3)81”.

La strutturazione militare villanovianaed italica, con i seniores armati di spadanumericamente inferiori agli iuniorescon lancia, fa pensare ad una organizza-zione per piccoli gruppi, ognuno deiquali forse diretto da un “anziano” chepotrebbe essere stato un “emergente”per generazione, affine per curia ai suoicommilitoni. In genere l’organizzazionedei reparti per piccoli gruppi82 rispon-de alla costituzione spontanea dei grup-

pi psicologici primari, che si proponeanche nel mondo dei combattenti83;non particolarmente diverso appareperaltro il legame di amicizia ed affini-tà attestato più tardi nelle file dellafalange oplitica84.E’ importante paragonare l’organizza-zione dei reparti centroitalici, osservataanche la capacità militare delle comuni-tà villanoviane, al livello organizzativodelle coeve milizie mediterranee: èstato osservato che “Homer, by at leastaround 725-700 B.C., knew phalanxesto be common military formations inthe Greek world, even before their latercharateristic hoplite weapons camefirmly on the scene. (…) The Greekoplite panoply that emerged at the endof the eight century offered new advan-tages to phalanx warfare alone85”. InEtruria ed in Lazio -dove le tipologiedegli scudi della metà dell’VIII sec.a.C.,rotondi ed ovali, sono state dissociate daalcuni studiosi dall’adozione di pur pri-mitive tattiche “oplitiche o manipolari,senz’altro più recenti86”- “sul pianomilitare esiste una consistente docu-mentazione iconografica che dimostra,a partire dalla metà del VII secolo, l’esi-stenza del sistema della falange oplitica,uno strumento bellico formidabile cheprobabilmente dovette avere il suo pesonel progredire dell’espansione territo-riale etrusca87”. L’esiguo ritardo etrusconell’adozione di schieramenti opliticirispetto alla Grecia88 mostra una forteattenzione dei popoli centroitalici alprogresso bellico; comunque l’adegua-

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mento a tale tattica di dispiegamentoed attacco non dovette essere immuneda forti condizionamenti locali, caratte-rizzati da una certa variabilità di arma-mento e dal legame con armi come lalancia, la spada, l’ascia. Quanto questepeculiarità siano state radicate nell’or-ganizzazione militare italica e quanto alungo siano sopravvissute lo dimostra laparata della situla bolognese della Cer-tosa, che all’inizio del V sec.a.C. raffigu-ra, oltre alla cavalleria, ben quattro tipidi reparto di fanteria.Dell’organizzazione in linea, o comun-que in gruppo, della milizia dei villaggipreurbani, villanoviani e latini, è unbuon indizio la stessa presenza di gia-vellotti, che sono più efficaci là dovenon si ingaggino col loro getto deinemici sparsi o appostati, ma piuttostodei reparti con un minimo di compat-tezza e schierati in aree aperte. La pre-senza di giavellotti presuppone dunqueche almeno talvolta (anche se forse nonsistematicamente) le forze di fanteriavillanoviane avessero un primo ingag-gio a distanza. Senza pretendere daipur robusti uomini della prima età delferro dei lanci vicini a quelli degli attua-li primatisti olimpici, si può ipotizzareche la distanza di ingaggio al giavellot-to fosse al di sotto dei 40 metri. Se ilanci sportivi odierni si aggirano sudistanze oltre che doppie, va tenutopresente che, solo nel 1906, il recordmondiale fu di m 53,90, e che il lanciosportivo non ha alcun bersaglio, matende solo a coprire la maggior distan-

za possibile; il peso dell’arma era inoltremaggiore di quello dell’attrezzo sporti-vo attuale, al contrario della sua tecno-logia e della sua stabilità nel lancio.Giacché l’esiguità presumibile dei con-centramenti di truppa nella prima etàdel ferro, congiunta con l’uso di schie-ramenti non in vera falange chiusa,faceva del reparto sottoposto ai dardinon tanto un esteso bersaglio comples-sivo quanto una serie di bersagli, ènecessario pensare che il lancio dei gia-vellotti doveva avvenire a brevissimadistanza. Il diagramma delle ampiezzedi gittata per le armi romane realizzatoda Liberati e Silverio89 indica di fattoche il pilum romano doveva essere usatoper ingaggiare il nemico a circa 30metri. Nella battaglia di Epfig controAriovisto, Cesare non ebbe neanche iltempo di far scagliare queste armi aisuoi soldati in carica, dal momento chela contemporanea carica dei Germanirese praticamente nulla la “finestra diesposizione” del nemico90. Il Drews rile-va invece che la distanza alla quale sipoteva usare un’arma del tipo delloiaculum romano, di più piccole dimen-sioni e minor peso, era di circa 40-50 mper ingaggiare grossi bersagli come icarri da guerra91, senza dimenticareche in Strabone (IV, 4, 3) si accennaall’uso gallico di impiegare giavellottiper la caccia addirittura ad una distan-za maggiore (e con tiri non meno accu-rati) di quella di una freccia.Il lancio di giavellotti più o meno lun-ghi e leggeri consentiva di “ammorbidi-

re” gli avversari e tentare una primarisoluzione, a distanza, dello scontro.Contro tale caduta di dardi gli uomini siaddestravano a proteggersi con loscudo92 ed anche con le spade, comesapevano fare i Britanni (Tacito, Agrico-la, XXXVI).E’ stato giustamente osservato che l’usodi armi da getto, in quanto preludiodello scontro corpo a corpo, ha unaforte influenza sul tono psichico delleschiere, fino a poter portare all’instilla-zione del timor panico:

“nella tattica antica, quando il combattimentoera più semplice e le truppe non potevano evi-tare di scontrarsi «a petto a petto», tutto venivatentato per suscitare lo scoraggiamento neiranghi nemici prima del contatto. Una dellecause dei successi della legione romana è dovu-ta all’uso del pilum, del giavellotto, perché per-metteva di intimorire i ranghi nemici e provo-care tra essi delle perdite prima dell’a corpo acorpo93”.

Alla distanza che si è venuta ricostruen-do un combattente dotato di arma dagetto, qualora avesse fallito il bersaglio,si trovava ad avere una immediatanecessità di difesa personale; passareinfatti dall’ingaggio a distanza al corpoa corpo era cosa di secondi (40 metrisono coperti, da un buon corridore chescatti e si muova a circa 20 km/h, inpoco più di 7 secondi). D’altronde eranecessario, se lo scontro avveniva inun’area abbastanza aperta, accelerarel’avvicinamento per restare esposti adogni tipo di arma da getto per il mino-re tempo possibile:

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La lancia, la spada, il cavallo

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“quando i fanti coprivano gli ultimi centometri di terra di nessuno ed entravano nel rag-gio di azione delle frecce e di altre antiche armida lancio, che potevano colpirli alle braccia,alle gambe, al volto e al collo e a distanza piùbreve penetrare nella corazza, la «finestra divulnerabilità» non durava più di un minuto94”.

L’assalto agli avversari aveva dunqueanche il fine di ridurre i pericoli dell’at-tacco con armi da lancio: “nessuno desi-derava star fermo permettendo alnemico di prendere di mira un bersa-glio fisso (...) Coprire di corsa gli ultimiduecento metri della terra di nessuno(...) limitava il tempo di esposizioneall’attacco finché ci si metteva al riparonella mischia generale95”.Tale distanza va ovviamente intesa perle epoche più tarde, quando la presen-za degli arcieri si fece consistente, ed idanni prodotti da tale tiro si intensifica-vano proprio attorno i 100-150 passi,mentre nel mondo della prima età delferro, dove l’arco è sostanzialmenteassente dal campo di battaglia, la fine-stra di vulnerabilità era più breve.Anche nelle epoche più remote tuttavia“the running pace had the double pur-pose of strengthening the weight of theimpact, both physically and from themorale point of view96”. L’assalto era facilitato dalla non eccessi-va pesantezza della panoplia portatadal grosso dei combattenti, ed è inoltreintuibile che -come gli emergenti sirisparmiavano giungendo sul fronte colcarro o a cavallo- tutti cercavano di pre-sentarsi allo scontro meno affaticati pos-

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

Uno scontro tribale tra gruppi diversi di Dani della Nuova Gunea, probabilmente simile ad unascaramuccia tra comunità protostoriche

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sibile. Nel complesso le armi difensiveed offensive del guerriero villanovianodovevano costituire un fardello beninferiore ai 15 chilogrammi, tali da ren-derlo senza dubbio un fante ancora leg-gero. Ben diversa sarebbe stata invece lacondizione del fante pesante nell’eserci-to oplitico, per il quale

“i calcoli moderni a proposito dell’equipaggia-mento (...) stimano di solito un peso che variatra i venticinque e i trentacinque chilogrammiper la panoplia composta da gambali, scudo,corazza, elmo, lancia e spada: un fardelloincredibile per il fante dell’antichità, il qualecon ogni probabilità non pesava più di settan-ta chili97”.

Proprio alcune prove sperimentalimoderne su truppe equipaggiate conrepliche dell’armamento oplitico hannodato prova della necessità, per effettua-re un assalto efficace, di contenere ilpeso delle armi e la lunghezza dellacorsa:

“gli studi moderni sulla resistenza fisica in sif-fatte condizioni hanno appurato che un paiodi centinaia di metri è il massimo che possonocoprire uomini con armatura pesante a unavelocità di otto-nove chilometri l’ora, tenendoancora lo scudo all’altezza del petto, se voglio-no conservare energie sufficienti per la batta-glia. Nelle prove condotte ai giorni nostri,dopo circa trecento metri anche una sempliceformazione su due file si disgrega per spossa-tezza98”.

Di conseguenza l’urto delle falangiavveniva in effetti dopo una breve ecelere avanzata:

“in minutes armed men crashed together, run-ning «the stadium dash» of about two hundredyards between the two phalanxes (Plut. Mor.846E) (…) Both phalanxes then walked towithin bow-shot, often screaming the war cry«eleleleu», «alala», or other queer sounds sofamiliar to country folk acquainted with animalnoises (…) The Spartans alone adhered to theolder hoplite protocol of walking, not running,into the enemy spears99”

Diversamente, le truppe leggere deiNervii che attaccarono Cesare (Bell.Gall. II, 18 e segg.) percorsero una cari-ca di 200 passi giù per una altura, attra-versando il Sambre profondo tre piedi,per risalire un’altura antistante; tuttaviatale distanza, pur considerevole, variportata al fatto che i Galli, come lemilizie della prima età del ferro, “werenot (…) as heavily armored as the Athe-nian hoplites100”. Approcci di assalto diversi e su distanzemaggiori potevano creare i presuppostiper una sconfitta;

“in Bell. Gall. 3. 19, the Gauls suddenly attacka Roman camp and cover 1,000 paces –8 sta-dia- with a great run («magno cursu»). They arri-ve so exhausted and breathless that they can-not cope with the Romans (…) One might alsowell question whether the 1,000 paces werecovered at an uninterrupted, actual run, sinceit was not a question of an ordered phalanx, inwhich all must move at the same tempo if nodisorder is to occur, but rather of an unalignedmass, in which a man who runs short of breathcan slow down for a while101”.

Certamente l’uso di armi da getto inritirata consentiva, alla schiera che si

fosse evidentemente trovata in fortesvantaggio numerico, un celere abban-dono del campo con una sufficientecopertura tattica; laddove invece i duereparti avessero deciso di tentare ilcorpo a corpo, coloro che avevano sca-gliato i loro giavellotti dovevano ricor-rere alle lance ed alle spade per provve-dere alla loro difesa personale. Va rite-nuto del tutto improbabile che vi fosse-ro individui armati di soli giavellotti, iquali dopo il lancio si sarebbero sgan-ciati prima della mischia: non sembrainfatti realistico che uomini atti -in tuttii sensi, sia fisico che sociale ed iniziatico-al servizio militare non offrissero il loroapporto proprio nel corpo a corpo,ovvero dove più determinante era ilpeso numerico dei guerrieri. Proprioquesta necessità tattica -in accordo conquanto avveniva contemporaneamentein altre civiltà come quella ellenica-portò alla dotazione, per il singolo com-battente, di più lance e giavellotti, deiquali uno o due servivano per il primoingaggio a distanza, e forse l’ultimo perl’uso di punta nel corpo a corpo.Una volta avvenuto l’assalto, nonostan-te il possibile spiegamento in una qual-che disposizione elementare,“il villano-viano prediligeva lo scontro individualee la mischia, anche a scapito della forzaglobale d’impatto sull’avversario102”.Tale tendenza era peraltro comune neipopoli dalle organizzazioni militarisemplici; anche molti secoli più tardi,presso i Longobardi, ad esempio, dopoche le opposte fazioni “venivano a con-

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tatto, la battaglia si trasformava inun’immensa mischia e il combattimentosi frantumava in una miriade di duellipersonali dove il valore, la prestanza el’abilità personale di ogni guerriero nel-l’uso delle armi, venivano valorizzati almassimo103”.Per tale tecnica di ingaggio peraltroabbiamo visto che la panoplia villano-viana era particolarmente idonea, inquanto leggera e maneggevole; lo stes-so coordinamento psicofisico era favori-to dal fatto che l’elmo era conformatoin modo da non limitare la sensorialità.Frantumatosi in una serie di confronti,il combattimento si doveva tenere inmodo piuttosto sparso, con gruppetti diguerrieri affrontati a pochi passi, asostenere e/o difendere quegli “emer-

genti” che ingaggiavano veri e propriduelli di coppie a confronto, scudo con-tro scudo, ad una distanza di circa unmetro giacché la lunghezza della lanciaera di m 1,70-2,00 circa e, come si èvisto dalle sperimentazioni, c’era una“finestra” di distanza minima e massi-ma per il mantenimento dell’efficaciaoffensiva di tale arma.La lancia veniva infatti impugnata, sesopramano, poco più indietro dellametà; nella sua scherma “nel vibrareuna puntata, si deve mantenere lapunta della lancia alquanto più bassadel pugno, dirigendola al busto dell’av-versario; si deve perciò impugnare lalancia un po’ dietro al centro di gravità;il pugno deve essere ben chiuso, il brac-cio flessibile104”.

Non infrequentemente nello scontro lelance potevano venire forzate lateral-mente o colpite sull’asta, determinan-done l’eventuale rottura, alla qualeforse si era cercato di porre rimedio,come si è visto, portando più di un’ar-ma da punta, o accompagnando allalancia, per i patres seniores, la spada, eper altri un pugnale o un coltello.L’abilità degli schermitori alla lancia eratutta nel difendersi con lo scudo atten-dendo che l’avversario si scoprisse, giac-ché lo scudo di fatto, anche in cuoio apiù strati, ma specie se ligneo o conrivestimento metallico, era più che suf-ficiente a resistere alla relativa forza dipenetrazione dell’arma di punta105. Siricorda come, da recenti esperimenti, èstato appurato che comunque un colpo

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

A sinistra, particolare dello scontro tra due falangi oplitiche al suono del flauto, riprodotto sull'olpe Chigi da Veio - Roma, Museo di Villa Giulia; adestra, elementi dell'armamento oplitico greco - Londra, British Museum

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di spada da filo era in grado di pene-trare i 3 mm si spessore della maggiorparte delle lamine bronzee di armidifensive106, ma non la superficie degliscudi in pelle, e quindi anche dellamaggior parte delle difese personalideperibili composite. Proprio da questevalutazioni balistiche si distingue ilruolo dell’ascia da combattimento,arma che richiede molta aggressivitàoffensiva, ma non ha effettivamentebisogno di scherma per l’utilizzo e che,per la sua stessa concezione strutturale,è una leva che moltiplica l’efficacia dipenetrazione del colpo, consentendo didanneggiare o perforare corsetti, elmi escudi. L’ascia, comparendo solo in alcu-ne sepolture come accade con le spade,mostra di aver avuto un valore di signumparticolare, del quale sono riflessi poste-riori l’utilizzo quale simbolo di potereanche regale in Etruria ed a Roma, e daparte del pontifex, così come l’impiegonella pena capitale della securi percussio.Vista la possibilità di proteggere con loscudo il “bersaglio grosso”, ovvero ilbusto, alcune tattiche di duello doveva-no consistere nell’attentare al capo del-l’avversario -in parte fuoriuscente dalclipeo rotondo per mantenere la visibi-lità- che proprio per questo veniva pro-tetto con un elmo; l’esistenza precoce dischinieri induce a ritenere che anche ilferimento degli arti inferiori fosse unatattica frequente, giacché una voltaazzoppato l’avversario diventava immo-bile, se non addirittura costretto a terra,dove sopraffarlo era ben più semplice.

Infatti, come è stato rilevato, “non erapossibile proteggere in modo adeguatola parte inferiore delle gambe spostan-do lo scudo verso il basso, e perciò pol-paccio e stinco, vulnerabili, erano pro-tetti (...) con i gambali107”.Abbiamo già visto come i primi colpi,portati al termine della carica, potesse-ro venire inferti anche con la lancia sot-tomano, all’inguine, alle gambe o ancheal torace. Ben più raro in Etruria dove-

va essere il caso di tentato colpo al brac-cio destro dell’avversario, come mostrala modesta fortuna degli scudi ad “8”,destinati a tale difesa come forse a faci-litare il sostegno della lancia per il suouso da sottomano a mo’ di picca. Proba-bilmente altri popoli italici -presso iquali gli scudi ad “8” ebbero una mag-giore diffusione che in Etruria- impie-garono tale scherma piuttosto diversa,sorretta dal fatto che lo scudo ad “8” è

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La lancia, la spada, il cavallo

Immagine di uno scontro tra guerrieri Maasai, armati di lance e scudi di cuoio, raggruppati inordine sparso secondo una tendenza spontanea nei piccoli reparti armati alla leggera

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imbracciato e non solo impugnato, equindi è più protettivo anche se menomaneggevole, e consente di usare lalancia “a due mani” come un’alabarda,raccogliendosi dietro di esso grazieanche alle sue maggiori dimensioni,che si confanno, assieme alla minoremaneggevolezza, ad un guerriero più“pesante”, dichiaratamente preoplitico.La spada era in uso probabilmente,come si è visto, agli elementi di rango

militarmente e socialmente più elevato;il fatto che solo alcuni anziani “emer-genti” fossero armati di spada e lanciapuò indicare dunque che la schierad’armati trovasse una sua organizzazio-ne interna, ed uno schieramento in bat-taglia, per gruppi di modesto numero,formati da individui d’età simile, direttidal più valente ed anziano di essi.Ovviamente la qualifica di “anziano” vaparametrata non solo sui valori della

vita media all’inizio dell’età del ferro,ma prevalentemente su quelli dell’iteriniziatico per l’uso delle armi da com-battimento, che abbiamo visto avviarsiattorno agli 11 anni, e del quale verràtrattato in un capitolo seguente.Questa strutturazione per “manipoli”ed in connessione alle fasce d’età rivestenotevole importanza, in quanto rivelaun primo parametro di organizzazioneconnessa da un lato col gruppo psicolo-

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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gicamente “spontaneo” tipico deglieserciti108, e dall’altro con la ripartizio-ne per curie109 dei villaggi in crescitademografica, all’inizio dell’età del ferro.Tale strutturazione rinvia inoltre allaripartizione per manipoli attestatanell’Iliade, ed all’uso delle congreghegenerazionali giovanili per l’addestra-mento militare, sullo schema noto dellaiuventus latina, di cui si tratterà ampia-mente più oltre110.Il piccolo gruppo integrato –“gruppoprimario o ristretto”-, al quale gli uomi-ni sono ritenuti in generale più adattidall’etologia111, è da più studi sociologi-ci e storico-militari concordementeindicato come composto da circa diecipersone112, orientativamente tra le 5 ele 17; infatti

“la socievolezza umana nelle sue forme piùsemplici presenta dei caratteri assai costanti(ed i gruppi) non si presentano in modosostanzialmente diverso dai gruppi di giuoco edai gruppi militari, impegnati nel giuoco terri-bile della guerra. (…) I «piccoli gruppi», di cuiqui ci occupiamo, si compongono general-mente di più di cinque e non più di sedici odiciassette individui (i profili più caratteristici sihanno intorno ai dieci o dodici). (…) Nelleintegrazioni umane spontanee, l’autorità e l’a-micizia vanno generalmente di pari passo. Colformarsi dello «spirito di gruppo», del «noi» diquelle dieci o quindici persone, le personaliamicizie e simpatie tendono ad acquistareanche un valore collettivo o di gruppo113”.

Quanto alla strutturazione della comu-nità villanoviana -pur senza pretenderedi riuscire a risolvere e chiarire qui la

complessa questione della ripartizionedella società nel Mediterraneo antico enell’Etruria delle origini114- preme tut-tavia indicare che i metodi di organizza-zione del popolo, e quindi anche degliarmati, fossero connessi con gli schemisul tipo della “tribù” e della “curia” lati-ne, ovvero rispettivamente parentali eterritoriali paganici. Si tratta peraltro diuna metodologia di strutturazione deglieserciti ampiamente diffusa, giacché“sembra che gli opliti di quasi tutte lecittà-stato fossero schierati nella falangeper tribù (...) Gli uomini che si frequen-tavano nelle associazioni politiche, reli-giose o cerimoniali e che avevano lega-mi di parentela consolidavano tali lega-mi quando si trattava di combatterefianco a fianco115”. Anche i Longobardi,secondo lo Strategicon dello Pseudo-Maurizio, tra VI e VII sec. d.C. si schie-ravano ancora

“sia a piedi come a cavallo, non in reparti dinumero definito, non in moirai o in mere ma pertribù e riuniti gli uni agli altri per parentela disangue e per vincoli d’amicizia, per cui spesso,quando degli amici loro cadono nella mischia,si espongono assieme al pericolo in battaglianell’intenzione di vendicarli116”.

Molto prima, tra il 1200 ed il 1000 a.C.,anche la società israelita era stata orga-nizzata per comunità territoriali, defini-te dagli studiosi “tribù”, ma nel nostroambito paragonabili alle curie italiche.

“La parola «tribù» (ebr.: shevet) indica da un latoun’organizzazione tecnica per la società israeli-

ta, e deve essere compresa come una suddivi-sione politica associata con un certo territorio,ma è più di questo, perché il sistema è orga-nizzato seguendo linee discendenti, ciascunatribù da un padre, in modo simile in tuttoIsraele. Sinonimi della parola tribù sono parolecome casa (ebr.: beth) e famiglia (ebr.: mishpa-chah). Oltre a questo, comunque, queste ultimeparole hanno altri significati. Sono usate perindicare unità collettive più piccole rispetto alsistema completo. La mishpachah è un tipo di«associazione protettiva», per l’aiuto reciprocoe l’assistenza ad altri membri del gruppo intempi di minaccia. Strettamente legato a que-sto concetto è il termine ‘elef, «la mishpachaharmata», il modello militare che l’associazionepoteva «far scendere in campo» in tempi diemergenza. Infine, la casa o la «famiglia auto-noma allargata» (ebr.: beth ‘ab) è l’unità familia-re più piccola. (…) I termini usati ci portano aldi là delle strutture politiche verso un’ideologiacentrata sulle relazioni fra i gruppi all’internodella confederazione, e dei membri all’internodei gruppi. L’estensione dei termini familiari algruppo più ampio è una proiezione del con-cetto di famiglia sulla popolazione nella suatotalità. Questo vuol dire che gli atteggiamentiverso gli altri nel gruppo allargato, e le respon-sabilità per gli altri nel gruppo allargato sonoquelli che ciascuno avrebbe verso la propriacerchia familiare ristretta. Nel contesto dell’an-tico mondo mediterraneo, questo ha delleinteressanti implicazioni (…), ed è di particola-re importanza per la nostra comprensionedelle guerre di questo periodo117”.

Anche nella Grecia omerica, la cui strut-turazione sociale appare estremamentecomplessa con organismi diversi esovrapposti, all’interno dei demoi, deglièthnea e dei laòi erano già presenti fra-trie e tribù, organizzazioni sulle qualimoltissimo è stato scritto, e che vanno

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La lancia, la spada, il cavallo

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probabilmente intese come aggregazio-ni connesse rispettivamente alla sferadei gruppi parentali ed a quella territo-riale politica. Nell’esercito acheo

“non è un principio astrattamente geograficoche regola la distribuzione dei contingenti trale varie aree: il che è come dire che i territorida cui essi provengono sono commisurati aigruppi umani che li detengono e non vicever-sa. (…) In Omero demos non è il territorio ingenere, ma il territorio legato a una comunità(…) I contingenti sono concepiti come espres-sione di comunità di tipo personale e non ter-ritoriale. D’altra parte non è neppure un prin-cipio astrattamente etnico-personale che rego-la la composizione dei gruppi stessi. Gentiappartenenti allo stesso ethnos si trovano infattidistribuite in contingenti diversi. (…) I contin-genti che formano l’esercito acheo sono quindiespressione di gruppi la cui unità non dipendeunicamente da una comune origine etnica: l’u-nità cioè è concepita come il prodotto di unprocesso di aggregazione piuttosto di naturapersonale che strettamente genetica. (…) Unaconclusione di carattere generale può alloraessere raggiunta. I contingenti che formanol’esercito acheo sono espressione di comunitàautonome a base personale, con un proprioterritorio, una propria complessa conforma-zione etnica, una propria interna gerar-chia118”.

“(Achei i Ioni) avevano un particolare ordina-mento gentilizio, per gruppi di famiglie legatidal culto di antenati comuni: comunque si siaattuata l’evoluzione di questi raggruppamentifamiliari minori e maggiori (gene, patriài), ecomunque si sia pervenuti all’organizzazioneper tribù (phylai), questo elemento gentilizio,che di generazione in generazione perdevasempre più vigore come vincolo di sangue mane acquistava come vincolo religioso, è rimastovivo ed operante119”.

“Una (…) conferma del carattere prestatale epersonale di tali comunità omeriche si riceveattraverso l’analisi delle testimonianze relativealle fratrie. (…Nestore) ricorda in primo luogo lefratrie come elemento base dell’esercito, accantoalle tribù (Il. II, 362 e segg.).(…) Pertanto la fra-tria qui si rivela da una parte come un aggrega-to che presuppone e trascende la famiglia, dal-l’altra come elemento costitutivo di una comuni-tà politico-militare. Anche questi aspetti sonocomuni alla fratria arcaica in genere. Il caratteregenetico di questa appare chiaro dal nome stes-so di fratria, da riconnettere all’indoeuropeobhrater, cioè fratello, dal legame esistente tragene e fratrie, dalla denominazione patronimicadi molte delle fratrie. (…) la società omerica nelsuo complesso non è politicamente ancorata allefratrie e quindi, come Nestore stesso fa rilevare(Il. II, 364 e segg.) hegemònes e laòi non operanokatà spheas vincolati ad una disciplina fondata suigruppi genetici di appartenenza, bensì a livelloindividuale e personale120”.

“Testimonianze relative alla tribù come istitu-zione politico-statale in Omero non mancano.Una tale caratteristica posseggono infatti letribù quando, nel consiglio di Nestore ad Aga-mennone (Il. II, 362 e segg.), esse appaionoaccanto alle fratrie quali suddivisioni stabilidell’esercito. (…) col che le tribù appaionodotate di una dimensione territoriale, quale siconviene a una organizzazione di tipo politico-amministrativo. (…) Si può concludere quindinel senso che tali accenni alle tribù come isti-tuzioni statali sono tardi e sostanzialmenteestranei alla tradizione, ossia alla società, cheOmero rispecchia. (…) in tale contesto la phre-tre appare elemento costitutivo del demos emomento di mediazione tra questo ed hestìa; latribù invece non appare. (…) Il termine classi-co, specifico per tribù quale istituzione statale èphylè. Ma Omero non lo conosce. Egli conosceinvece phylon, che non vale solamente tribù.Esso indica infatti genericamente un gruppodotato di caratteri comuni121”.

“La fratria omerica è legata alle thèmistes e allahestìa, norme familiari e focolare domestico.(…) Le fratrie (…) vennero a rappresentareuna mediazione tra le tribù e più ristrette orga-nizzazioni familiari (…) un loro rapporto con ilgenos resta più problematico, ma non così net-tamente escluso (…) Si può prescindere dalladenominazione patronimica di molte delle fra-trie (…); si può anche per un momento accan-tonare la partecipazione di essa alla vendetta disangue (…), ma va sempre considerata (…) ladifficoltà di riconoscere a volte (…) se si trattidi fratrie o di gene. (…) La competizione, d’al-tronde, che le fratrie continuano ad avere conassociazioni di tipo non genetico, ma militare epolitico e religioso (…) mostra come il lorocarattere originario resti fortemente ambiguo epartecipe dell’ambito tradizionale e geneticocome di quello comunitario e politico, anche sequest’ultimo prevalse infine. Sul nuovo pianoesse finirono anzi in ogni modo per legarsisempre più alle tribù, quali quadri di leva econtingenti militari, e a loro volta furono orga-nizzate per questo scopo122”.

Anche tra i popoli primitivi attuali sononoti casi di strutturazioni concomitantidel corpo sociale per discendenza e peraree di residenza: esaminando adesempio i popoli Nias indonesiani,strutturati anch’essi per gruppi didiscendenza e gruppi residenziali, sinota che i nuclei di maschi che si rico-noscono discendenti di un antenatocomune distante alcune generazioni,come nella gens, hanno peso su attivitàlogistiche, economiche e matrimoniali.Essi praticano il culto dell’antenatocomune, si assistono economicamenteper i matrimoni, in caso di conflitti e liticon estranei, si danno sostegno per lacostruzione di abitazioni. La discen-

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denza è il principio aggregativo anchedi altri gruppi sociali, di ancor più vastedimensioni -come le tribù antiche?- chepresso i Nias costituiscono uno deglielementi di autoidentificazione piùimportanti e forti. Queste grandi unitàestrinsecano la cooperazione dei loromembri alle feste di matrimonio, allefeste pubbliche di redistribuzione dibeni e alimenti, ed ai funerali. Sonogruppi, questi, non localizzati nel vil-laggio, ma collegati per discendenza,sebbene chi chiede asilo o chi sceglie difar parte del nucleo della moglie abbiafigli inseriti in tale nucleo. Ne possonofar parte, contemporaneamente, inobili parenti del capovillaggio, alcunirami cadetti, ed anche alcuni plebei«adottati» (quali i clientes?) perché svol-gano funzioni servili, assieme a perso-naggi sposatisi con donne del gruppo.Alcuni, invece, sono tutti di plebei chehanno chiesto asilo, altri di più immi-grati confluiti in periodi successivi; se neconoscono anche di formati da discen-denti di prigionieri di guerra.L’altra forma di aggregazione Nias tieneinvece conto di criteri residenziali odella provenienza da altre località; ilnumero di queste unità è però inferiorea quelle per discendenza. Se i primigruppi -quelli per discendenza- attiva-no la cooperazione nelle occasioni ceri-moniali, i secondi -quelli per zona- sonobasi di reclutamento per lavori di inte-resse collettivo -strade, ponti, difese- eper la vigilanza notturna con rondearmate. Sono ancora questi ultimi grup-

pi quelli attraverso i quali si organizza lacostruzione della casa del capovillaggioe la mobilitazione dei guerrieri: questiin caso di battaglia in campo aperto sischierano in unità che riproducono leaggregazioni di provenienza123.In area italica la curia risulta già esisten-te nel II millennio a. C. ed a Roma cia-scuna derivava il suo nome -secondo ilgià citato passo di Varrone- “da nomi dicapi o da nomi di pagi e la divisioneall’interno della curia non era gentilizia,ma funzionale, tra sacerdoti e leitou-goi124”. Il confronto tra la curia latinacon seniores e iuniores, e la ripartizioneiguvina tra sacerdoti da un lato e solda-ti -suddivisi tra anziani con e senzaspada e giovani con e senza lancia- dal-l’altro, notato dal Torelli, è di primariaimportanza, e ci indica -forse già perl’età del bronzo- un metodo di indivi-duazione, addestramento ed organizza-zione dei combattenti. “Il rapportodelle curie con il territorio come unitàpaganica è senza dubbio chiaro, comesembra d’altro canto chiaro che allacuria non appartengono gentes in quan-to tali, ma solo oikoi e genera hominum:l’originale carattere egualitario dellastruttura è assicurato125”.In Grecia, dall’età micenea, un ruolodel monarca-wanax era quello di lawa-gètas, cioè di “condottiero del laòs”, diquel popolo che poteva svolgere attività-compresa quella militare- definite lei-tourgìa, mentre agli abitanti dei dàmoirestavano le demiourgìa, ovvero agricol-tura, artigianato e metallurgia, con una

distinzione di ruoli che arriverà all’etàclassica126.Ai sacerdoti e leitourgoi rimanda peral-tro anche la società della Gallia, doveCesare rileva che erano solo due leclassi di individui socialmente rilevan-ti: “alterum est Druidum, alterum Equi-tum”; i Druidi “hanno la facoltà –perconsuetudine se non per legge- di nonpartecipare alla guerra; non pagano letasse come gli altri; sono dispensati dalservizio militare e da ogni altra presta-zione127”.La ripartizione per familiae e per gruppiparentelari era comunque un sistemaorganizzativo antichissimo della societàitalica;

“la società del Bronzo appenninica –come lasocietà eneolitica in precedenza- sembra esserestata piuttosto a livello tribale: comunità com-posta da poche unità residenziali costituite dafamiglie estese (come a Luni), che vivevano aun livello essenzialmente autosufficiente (…) erette da individui di status più elevato –ma dicui non possiamo dire se tale status venisse rag-giunto nell’arco della vita o attribuito diretta-mente alla nascita-128”.

A Roma il gruppo parentelare -preesi-stente o in parte identificabile con lafutura gens129, andò progressivamentepremendo sulla curia a base territoriale,facendo sì che alle curiae veteres se neaggiungessero di novae con nome genti-lizio:

“nella società si andava affermando la irresisti-bile tendenza di alcuni gruppi in seno allacomunità primitiva, ad acquistare maggiore

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potere rispetto agli altri e a imporre il proprionomen alle varie strutture della società, curie esacerdozi ora, più tardi tribù (...) le curie forni-scono le truppe appiedate, le tribù quelle acavallo, le due partizioni sono funzionali allastruttura dell’esercito e, mentre le curiae per-dono il loro originario rapporto con il territo-rio in quanto cellule paganiche, l’ager Romanusviene diviso secondo le tribù130”.

In breve, la popolazione dei villaggi delperiodo tra età del bronzo ed età delferro sarebbe stata, con le sue famiglie,organizzata per curie intese come rag-gruppamenti zonali all’interno del vil-laggio (e/o di area di provenienza incaso di centro di formazione sinecisti-ca). I maschi non addetti alle attivitàreligiose avrebbero avuto la funzione disoldati, alla quale sarebbero stati intro-dotti con un progressivo addestramentodi tipo iniziatico scandito per genera-zioni131. Ai giovani sarebbe stato con-cesso l’uso della sola lancia (e non atutti, secondo le tavole di Gubbio), adalcuni degli anziani sarebbe stato con-cesso anche l’uso della spada. Taleripartizione varroniana è esattamentequanto appare nelle necropoli tarqui-niesi del IX secolo, come già rilevato inun passo che è forse il caso di richiama-re qui per l’evidente corrispondenza:

“Fra gli individui di sesso maschile distinguia-mo, da una parte, i non armati (con scodella-coperchio), di status generalmente piuttostobasso, dall’altra gli armati (con elmo), detento-ri nel complesso di un maggiore prestigiosociale, ma articolati gerarchicamente al pro-prio interno. La terza categoria di maschi,

caratterizzata dall’urna a capanna, si poneforse al di sopra delle prime due, ed è verosi-milmente da mettere in relazione con ruoli digrande autorità politica –come adombratoforse dalla simbologia della casa/tempio- qualiad esempio quelli di capo di un grande grup-po familiare e/o di sacerdote132”.

I non ammessi in nessuna delle dueprecedenti categorie (in certo modoequivalenti al dàmos miceneo) eranopoliticamente irrilevanti, ma socialmen-te e numericamente non trascurabilicome si è visto; costoro sono riconosci-bili in modo diverso da luogo a luogo, enelle tombe di Tarquinia nel IX sec. a.C.si caratterizzano per l’assenza di elmofittile e di armi, sostituite da una ciotolae un rasoio; viceversa, a Bologna, nellostesso periodo i sepolti con rasoio e sen-z’armi erano detentori di un ruolo pri-vilegiato, ed “altrove, sono invece gliarmati e gli armati con rasoio ad avereprerogative particolari nel cerimonialefunerario133. In area sarda un elementocaratterizzante abbiamo visto essere ilpugnaletto, ritenuto pegno di apparte-nenza alla tribù o comunque al corposociale di pieno diritto134. Anche nel mondo omerico “le gerar-chie politiche si identificano con quellemilitari. Esclusi dal potere decisionalesono l’ànalchis e l’aptòlemos (Il. II,201)135”. Ancora prima, la societàmesopotamica di età storica era riparti-ta in due fasce identificate con “i termi-ni lu, «cittadino libero a tutti gli effetti»,e mash-en-kak, «cittadino non nobile distatus inferiore»136”.

Tuttavia, nell’area villanoviana, già nelIX secolo –oltre che di questi gruppi“funzionali”- si hanno attestazioni delcrescente peso dell’organizzazione perfamiglie estese o per gruppi sostanzial-mente gentilizi, anche in aree padane epiù a nord;

“a S. Vitale di Bologna, come in altre necropoligeograficamente distanti ma testimoni di muta-menti sociali molto simili a quelli che si verifi-cano nel Bolognese (Kelheim in Baviera, S.Canziano sul Timavo in Istria), si notano sepol-ture non più raggruppate per combinazioni dicorredo, bensì concentrate in aggregazionidistinte topograficamente, internamente diffe-renziate nelle combinazioni di corredo sia per ilsesso che per il ruolo degli individui; in taliforme di raggruppamento sono da riconosceredelle unità parentelari (famiglie estese o gruppigentilizi), facenti capo ad una o due delletombe maschili privilegiate. I due elementimenzionati, vale a dire la comparsa di fattoridistintivi di alcuni individui in quanto tali,anche se solo nell’ambito di determinate combi-nazioni di corredo e/o di rituale, e le articola-zioni planimetriche con gruppi familiari estesio gentilizi raccolti intorno ad alcuni di questiindividui, si riconoscono come indizi di un pro-cesso di diversificazione sociale in corso137”.

Anche la necropoli Lippi di Verucchio,sottoposta ad una attenta analisi plani-metrica, ha mostrato di essere ripartitaper raggruppamenti –già presenti dalIX sec. a.C.- probabilmente identificabi-li con gruppi familiari o parentelari;

“a favore del riconoscimento in questi gruppidi strutture parentelari sta la distribuzionetutto sommato equilibrata di tombe maschili efemminili nei diversi gruppi. (…) L’analisi

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topografica preliminare dell’area fin qui scava-ta della Necropoli Lippi ha permesso di indivi-duare ventuno gruppi, all’interno dei quali ètalvolta possibile scorgere una ulteriore artico-lazione interna in «sottogruppi» (…) nel perio-do più antico (prima metà dell’VIII sec.a.C.)(…) un terzo degli uomini, quello con combi-nazioni di armi più complesse, ha nel suo cor-redo elementi di bardatura equina138”.

“In conclusione da questa analisi preliminaresembra emergere l’immagine di una comunitàstrutturata in gruppi parentelari dotati di spic-cata identità in cui il ruolo dei guerrieri arma-ti affiancati da donne con caratteristiche parti-colari, aumenta in numero e in importanza masenza che ciò significhi il prevalere di un unicogruppo dominante. Sembra quindi abbastanzasostenibile, almeno fino agli inizi del VII seco-lo, l’ipotesi a suo tempo avanzata da G. Ber-gonzi che vede negli uomini eminenti, conno-tati come armati, «gli esponenti di una gens ari-stocratica prima inter pares»139”

Simili sviluppi sociali appaiono anchein alcune necropoli tarquiniesi, dove gliindividui sopra i 10-11 anni, sia maschiche femmine, che nelle fasi più antichemostravano di aver acquisito il lororango grazie a ruoli frutto di processiinterni alla famiglia, rivelano nelle fasiseguenti di acquisire quel rango perpura discendenza140, a documento del-l’importanza crescente dell’unità paren-telare a svantaggio delle “funzionalità”della curia paganica, in cui le famiglienucleari erano disciolte.Più tardi, presumibilmente con la diffu-sione del cavallo negli eserciti dell’VIIIsec. a. C. (e della proprietà fondiariaereditaria su ampi territori), le tribùavrebbero conosciuto un momento di

fortuna nell’ordinamento sociale -alme-no a Roma, secondo le fonti letterarie,ma anche altrove141 secondo la docu-mentazione archeologica- col senso diintrodurre ed imporre una caratterizza-zione familiare per tribù prima e genti-lizia poi nel reclutamento di truppe d’e-lite quali i cavalieri, nucleo che raccogliequei guerrieri emergenti i quali, essen-dosi acquisiti con la guerra uno statuseconomico favorevole, per linea didiscendenza hanno beni da tramandareed un ruolo sociopolitico da difendere.Singolarmente, le colonie greche dellaCampania –specie nella Pithekoussaieuboica- sembrano esenti da tali tra-sformazioni, presenti non solo in Etru-ria, Lazio e Campania, ma anche nellamadrepatria Eubea142. La stabilizzazio-ne del ruolo della gens sarà chiaro nelVII secolo, quando varie iscrizioni conpraenomen e nomen costituiscono “ilsintomo onomastico di un progresso incorso in Etruria verso un’organizzazio-ne degli insediamenti in senso piena-mente urbano, basata sulla strutturagentilizia tipicamente italica143”.La predilezione originaria del criteriodelle “cellule paganiche” a quello didiscendenza in ambito militare e socialeera diffusa ancora nella Firenze delDuecento e Trecento144 e presso moltipopoli primitivi, presso i quali

“in ogni caso viene evitato il ricorso alla discen-denza come criterio di reclutamento, probabil-mente per favorire i contatti e la cooperazionefra individui appartenenti a diverse linee didiscendenza e per evitare che, riproducendo le

divisioni determinate dal raggruppamento (ingentes) si esasperino atteggiamenti competitivie conflittuali che potrebbero minare la coesio-ne interna della comunità145”.

Tornando alla tecnica ed alla tattica deicombattimenti, nell’esercito villanovia-no la spada –di cui abbiamo visto laselettività d’uso- poteva avere in scontrisul tipo del duello un ruolo moltoimportante; la sua modesta lunghezzaper gli esemplari a pomo, di tipo “itali-co”, che si attesta intorno ai 40 centime-tri, indica la vicinanza da tenere rispet-to all’avversario, irta di pericolo in uncorpo a corpo letterale anche là dove -vista l’esiguità numerica degli spadacci-ni- l’armato di spada si trovasse a fron-teggiare un guerriero con la lancia.Rispetto a questo, pur godendo di unamaggiore maneggevolezza dell’arma equindi della possibilità di portare anchedei fendenti, con la spada si scontava ilminore allungo, al quale era necessariosfuggire per farsi sotto ed aggredire. Lespade a pomo italiche, dalla lama som-mariamente triangolare e molto aguzzein punta, non mostrando un filo parti-colarmente sviluppato né un peso con-sistente, portano comunque, di fatto, aimmaginare una scherma fatta di para-te con lo scudo –la cui rotondità offremaneggevolezza e un perfetto bilancia-mento- e prevalentemente di affondi dipunta. Le spade ad antenne ed a linguada presa, dalla lunghezza maggiore(circa 60 cm), più robuste e con due filiparalleli sufficientemente ampi, indica-no una scherma fatta invece, oltre che

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La lancia, la spada, il cavallo

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di affondi, anche di fendenti con i qualidanneggiare le aste lignee delle lance, oquanto meno pararne gli affondi conpiù energia, ricorrendo a colpi più ampied accompagnati.Di fatto, la differenza di lunghezza dellespade deve aver contato qualcosa neicorpo a corpo, se è vero -come osservaTacito nel passo già citato sui Britanni-che nelle mischie più violente e serratela lunghezza dell’arma era di svantag-gio a causa della minore manovrabilità.La fortuna delle corte spade italiche -quasi un gladio, se non per la minorerobustezza della lama ed i fili conver-genti- ci dà un indizio ben chiaro sullafrequenza degli scontri a brevissimadistanza, scudo contro scudo, e sull’aretédello spadaccino, così ardito da battereil lanciere con l’attraversarne la guardiae col portarsi letteralmente “addosso”ad esso per colpirlo con la maggioreagilità dell’arma.L’impugnabilità e la resistenza dellespade, minuziosamente ricercata (comesi è visto nel capitolo apposito) nellediverse tipologie, era senza dubbio fon-damentale per accompagnare i colpi,ed anche per evitare che negli urti enelle parate, in caso di impatto violen-to, essa potesse volare via dalle mani,lasciando il combattente alla mercé del-l’avversario. La rapida fortuna dellearmi in ferro dice molto sull’importan-za della robustezza delle lame e quindisullo sviluppo della scherma, intuendoche fossero frequenti urti tali da piegarele armi, ed in particolare quelle bronzee

se a confronto con esemplari in ferro. Su tali aspetti sono di notevolissimaimportanza alcuni dati offerti dall’espe-rienza di Fulvio Del Tin, moderno mae-stro armiere che riproduce spade anti-che. Attraverso dei controlli effettuati sualcune sue realizzazioni in replica146,risulta che la durezza delle spade inbronzo, pur lievemente più consistentinelle riproduzioni odierne rispetto aglioriginali antichi, è molto bassa, e le lorocapacità scadenti rispetto ad una spadain ferro, purché di qualità. Nello scon-tro di scherma, se due spade bronzeeentrano in contatto con forza, la menoresistente delle due si ammacca congrande facilità ed è frequente che si pie-ghi, anche se spezzarla invece, viste lecaratteristiche del bronzo, è estrema-mente difficile. Anche per questo lalama delle spade veniva martellata alfine di “incrudirla” ed irrobustirla. Sel’urto tra spade bronzee è molto forte,non è solo la spada più debole a ripor-tare danni. Dunque è molto probabileche la scherma dell’epoca vedesse unampio utilizzo dello scudo nelle parate,e che la spada bronzea venisse usatasolo per portare colpi ma non per inter-cettare la lama dell’avversario, salvo casidisperati. Una scherma di questo tipo,molto diversa da quella attuale adanche da quella storica, giustifica il fattoche gli scudi fossero leggeri e dotati solodi impugnatura (ovvero privi di braccia-le), in quanto una tale rotella a mano èmolto agile da manovrare contro ognitipo di colpo.

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

Spada italica in bronzo, dalla necropolidell'Osteria di Vulci - Roma, Museo di VillaGiulia

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Anche la brevità delle spade trova nelladebolezza del bronzo una chiara giusti-ficazione: una spada corta e triangolare,con costolature e blood channels, hameno possibilità di piegarsi di unalunga spada a fili paralleli; inoltre ilfatto di usare la spada solo per colpire enon per schermirsi parando, porta allanecessità solo di un’arma affine al col-tello o al pugnale, armi corte alle qualimolti studiosi hanno avvicinato le spadeitaliche. Dunque il duello tra spadaccini armatidi corte spade italiche va immaginatomolto vicino all’arte del combattimentocol coltello147 dove la destra saetta colpia ferire, mentre ci si difende solo conschivate di corpo e con parate dellamano sinistra protetta, in una lottamolto agile. Difatti, con una spada cortacome un pugnale, e con uno scudo for-nito di sola impugnatura centrale, loscontro non poteva che essere similealle attuali tecniche di attacco col coltel-lo, nelle quali, per poter reagire pronta-mente, si doveva tenere d’occhio conattenzione il modo di serrare l’armanella mano dell’avversario -che deter-mina in anticipo se il colpo sarà dipunta o di striscio- ed il movimentodella spalla che regge l’arma, la quale simuove sempre prima che parta il colpo.Similmente anche il movimento deipiedi rivela in anticipo la partenza di unaffondo148.Sull’andamento del combattimentodella prima età del ferro, dunque, oltrealle sperimentazioni già citate nei capi-

toli precedenti, ci sono d’aiuto -più chei manuali di spada medievali e rinasci-mentali- gli scritti sull’arte del battersi alcoltello, opere non comunissime maattestate nell’Ottocento in aree mediter-ranee –come nella penisola iberica-. Laloro lettura espone come la posizione diguardia, diversamente da quanto ciapparirebbe istintivo, è frontale –ma sipuò avanzare il fianco sinistro e lagamba se si ha uno scudo o una difesa-,raccolta ma senza sporgere la testa o ilvolto. Il corpo si intende diviso in partealta –dalla cintura alla fronte- e partebassa -dalla cintura ai piedi-; i colpi piùcomuni sono diretti alla parte alta, confendenti laterali a descrivere una curva,cui si sommano affondi verso il pettodell’avversario che si lanci avanti sconsi-deratamente, e colpi mortali di punta,al di sotto dell’ultima costola, anche sulretro del busto dell’avversario schivatoin un affondo a vuoto149. Oltre a sapercolpire è importante saper fallire ilcolpo senza perdere l’equilibrio o sco-prirsi troppo, giacché ad ogni colpo evi-tato o parato esiste una risposta nonmeno pericolosa150.Il fatto che le spade in ferro siano ingrado, colpendo una lama in bronzo, dientrarvi a fondo producendovi un con-sistente intaglio, secondo altre speri-mentazioni di Del Tin151, non solo giu-stifica l’ovvia fortuna delle spade inferro, ma suggerisce indizi sul mancatoimpiego di alcune spade bronzee rinve-nute –prive di qualunque usura- e sulletendenze evolutive delle armi, le quali,

una volta conseguita nel nuovo metallouna maggiore resistenza elastica, pote-vano mutare di foggia e lunghezzasenza temere di piegarsi ad ogni urto.Nello scontro tra spade in ferro inoltreanche la scherma dovette mutare, giac-ché parare era possibile, entro certilimiti, senza piegature o gravi intagli.Nei contingenti della prima età delferro la spada richiedeva esperienza,abilità e coraggio particolari, ed il “par-ticolare prestigio dei guerrieri dotati dispada rispetto a quelli con corte lance,testimoniato nelle sepolture, è forseconnesso proprio alla diversa tecnica dicombattimento ed al valore che richie-de152”. Ancor oggi, i manuali di scher-ma segnalano che

“qualità indispensabili per chi si accinge aintraprendere la non facile disciplina che è lascherma sono l’intelligenza, la prontezza diriflessi, la volontà, la freddezza di nervi, la pru-denza, un cuore sano e una notevole scioltezzadi muscoli. Qualità fisiche, intellettuali e mora-li: questi i tre grandi gruppi in cui possonoessere divisi i summenzionati attributi. Ciascu-no di essi può essere a sua volta diviso in sotto-gruppi o categorie. Le qualità fisiche, infatti,raggruppano le sensoriali (tra le quali le tatti-che e le visive devono essere maggiormentesviluppate), le nervose (con particolare riguar-do alla resistenza e al controllo dei nervi, chespesso sono messi a dura prova), le muscolari(tra cui l’agilità, la sveltezza e lo scatto), e lefunzionali (vale a dire le qualità di resistenzavera e propria). Le qualità intellettuali com-prendono l’intelligenza e l’intuito. Le qualitàmorali abbracciano la forza di volontà, l’onestàe la lealtà dell’allievo. (…) La disciplina e l’au-tocontrollo sono i fattori (… cui) viene prestataparticolare attenzione nella sala d’armi. (…) La

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La lancia, la spada, il cavallo

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scherma si basa su tre elementi fondamentaliche sono: la «misura», il «tempo» e la «veloci-tà». Per misura si intende la distanza utile perpoter raggiungere il bersaglio nell’effettuazio-ne del colpo. Chi conosce bene la misura ècolui che quando attacca o si difende percepi-sce la distanza giusta della sua punta dal bersa-glio rappresentato dall’avversario. Il tempoconsiste nel saper approfittare di quell’attimonel quale viene a essere ridotta l’attività e laconcentrazione dell’avversario. La velocità è iltempo minimo che deve essere impiegato inqualsiasi azione offensiva o difensiva153”.

Per tutti gli armati, comunque, il com-battimento comportava un affaticamen-to consistente; gli esperimenti delloHanson relativi agli opliti greci hannodimostrato che “dopo una mezz’ora diduello simulato (…) (i combattenti)sono stremati154”; le simulazioni sonoperaltro state effettuate in condizionimeteorologiche favorevoli –dove èeventualmente il caldo a infastidire iguerrieri-, ma condizioni di freddo,vento o pioggia su terreno fangoso ren-devano ancora più difficile lo scontro,infatti

“ancor più critica era la condizione del terrenoquando cominciava a piovere (…) Gli esperi-menti moderni per ricreare le difficoltà in cuisi dibattevano uomini armati in quel modo (daoplita) hanno dimostrato che un terreno sab-bioso o semplicemente poco compatto –pernon parlare di quello bagnato o fangoso-richiede un fabbisogno di ossigeno superioredel 20-25 per cento (…) Ma l’esempio miglio-re nella letteratura antica (…) è l’immane cata-strofe avvenuta in Sicilia sul fiume Crimiso nel341 (…) «La caligine che si era raccolta intor-no alle cime dei colli scese sul campo di batta-

glia, mista a pioggia, vento e grandine. GliElleni ne furono investiti posteriormente, allespalle, ma i barbari furono flagellati sul volto ene ebbero abbacinati gli occhi, poiché la piog-gia era rinforzata dal vento, e contemporanea-mente le nubi scaricavano lampi uno di segui-to all’altro. In questa situazione molti erano imotivi che avvilivano i soldati, specialmentequelli che non erano agguerriti; (…) Inoltrenon avevano un armamento leggero, bensì,come ho detto, erano protetti da armaturepesanti; quindi il fango li impicciava, le pieghedelle tuniche si inzuppavano d’acqua e li appe-santivano, ostacolandoli nei movimenti duran-te la lotta. Gli Elleni li atterravano facilmente e,una volta caduti, essi non erano più capaci dirialzarsi dal fango con le armi indosso (Plut.,Tim. 28. 1-3)»155”.

Proprio per questi motivi in Italia centra-le, come in varie aree del mondo antico,la stagione delle guerre –come megliovedremo nel capitolo sui riti- coincidevacon quella meteorologicamente piùmite, e gli scontri –come le guerre- eranopiuttosto brevi; anche nell’area medio-rientale, alla fine del II millennio a.C.,“non solo le guerre stesse duravanopoco, ma è molto improbabile che le bat-taglie di questo periodo fossero moltopiù che schermaglie estese, che durava-no da un minimo di qualche minuto, aun massimo di qualche ora156”.Per combattere efficacemente in batta-glia non erano necessarie solo doti dibuon schermitore -alla lancia o allaspada- e prestanza fisica, ma anche unanotevole resistenza psicologica, allaquale con ogni probabilità indottrinava-no le pratiche iniziatiche cui sottostava-no i giovani prima di accedere all’uso

delle armi in guerra157. Qualunque stu-dio non può assolutamente restituirel’impatto e la crudezza di un duellomortale, né visioni, rumori ed odori diun combattimento arcaico158:

“La battaglia spossava in breve, forse in menodi un’ora (...) sia fisicamente sia psicologica-mente. Gli uomini si affrontavano faccia a fac-cia e ogni colpo richiedeva uno sforzo fisicoenorme per trapassare con l’arma il bronzodell’avversario (...) (i guerrieri) si ritrovavano inbreve sporchi del sangue di coloro con cui siscontravano (...) Tirteo, ad esempio, affermavache solo un vero guerriero «regge alla vistadella strage» (9.11) (...) Lo shock psicologicoera determinato in larga misura anche dallaperdita di parenti ed amici proprio davanti agliocchi di ciascun fante, che doveva sapere concertezza che a pochi metri di distanza venivanomassacrati i compagni di tutta la sua vita (...)Un certo numero di uomini non solo restavasmarrito e disorientato per la tensione delmassacro, ma smarriva quasi la ragione, tantoda non sapere più che cosa stava succedendo,vittima di quella che noi definiremmo «psicositraumatica da combattimento»159”.

Anche nella Bibbia si fa riferimento allosmarrimento dei combattenti, come inIsaia 21, 3-4, dove il panico è cosìdescritto:

“«Per questo i miei reni tremano, mi hannocolto i dolori come quelli di una partoriente,sono troppo sconvolto per udire, troppo sbi-gottito per vedere. Il mio cuore si è smarrito,l’orrore mi ha invaso (…)» Questo è un ritrattodi debolezza, di mancanza di difesa, di estremodisagio fisico nelle viscere e di mancanza dicontrollo. Molti soldati hanno dato testimo-nianza degli effetti fisici della paura in batta-glia, che sono stati elencati come «un senso di

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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vuoto allo stomaco, un tremolio incontrollabi-le, sudore freddo, una sensazione di debolezzao di rigidità e vomito … urina e … defecazio-ne involontarie»160”.

Insieme al panico, viceversa esistevanoanche occasioni di esaltazione sangui-naria, come quella dei bersekir o berserksvichinghi161, largamente attestata nelVecchio Testamento e in genere nellastoria antica:

“come il panico si diffonde come l’incendio diun cespuglio per tutto un esercito ben organiz-zato, così anche la sete di sangue nell’insegui-mento di un nemico in fuga. Uomini addestra-ti a reagire alle situazioni con la violenza, in cir-costanze in cui avvertono il pericolo, reagiran-no in questo modo, con maggiore veemenza.Ma l’atto di uccidere spesso va oltre ogni giu-stificazione (…) Si tratta di ciò che alcuni stori-ci militari hanno chiamato «il piacere delladistruzione», e che un combattente ha descrit-to come «la febbre della battaglia», uno statoirreale in cui qualsiasi cosa assomigli vagamen-te ad un nemico diventa odiosa. E’ uno stato incui la salvezza personale non conta nulla, e gliuomini si comportano come se fossero inebria-ti, e il senso di realtà tornerà solo quando lafuria si sarà placata. Questi stati mentali posso-no essere accresciuti dalla disumanizzazionedel nemico, di per sé un incoraggiamentoall’irrealtà (…) In una società che ha un fortesenso di identità di gruppo, e che si vedeminacciata dai nemici dall’esterno, l’emergeredi un tale stato mentale è probabilmente piùfacile162”.

Non è escluso che alcuni popoli antichiricorressero all’impiego di sostanze psi-cotrope in vista dei combattimenti, perdominare il nervosismo e smorzare la

sensibilità fisica163; tuttavia, se per laGrecia omerica si hanno attestazionidell’uso del vino come analgesico (IliadeXI, 863; XIV, 8) e del suo occasionaleconsumo prima del combattimento(Iliade XIV, 1-8), esso non risulta unprodotto così diffuso nell’Etruria villa-noviana e nell’Italia centrale dellaprima età del ferro da avere avuto simi-li impieghi, né si hanno attestazioni sul-l’uso di altre sostanze164. Proprio per limitare la necessità delcoraggio del singolo e quindi l’incertez-za degli scontri, col tempo venne curatasempre più l’organizzazione dell’eserci-to, “contrappeso” questo in grado direndere l’effetto degli armati più “cora-le” e meno connesso alle reazioni psico-logiche del singolo guerriero165.La tattica complessiva in uso negli scon-tri della prima età del ferro, con unafanteria che si muove “sciamando” sulcampo166, componendosi e scompo-nendosi, formando gruppi o manipoli,concentrando il lancio di giavellotti,allargandosi sotto la caduta di questistessi, facendo impeto sul nemico esparpagliandosi in duelli sul campo, eratipica delle popolazioni italiche, e simantenne nell’entroterra della penisolasino ad epoche piuttosto tarde. Ancorain età oplitica infatti

“le popolazioni montanare dell’entroterra (iSanniti soprattutto, ma anche i Lucani ed iBruzzii, i Volsci, i Marsi, i Marrucini, i Fretani,i Vestini, i Peligni) avevano appreso esse pure aservirsi delle fanterie pesanti (...) (ma) l’impie-go di questa componente andava però rarefa-

cendosi man mano che si procedeva verso l’in-terno; dove la natura irregolare del terrenospingeva, viceversa, a privilegiare l’agilità di unarmamento leggiero, basato prevalentementesu strumenti quali il giavellotto da lancio, e lamaneggevolezza delle piccole manus, le schieredi dimensioni ridotte adatte alla guerriglia eall’uso sistematico dell’imboscata. Assai temutiquando, spinti dall’esuberanza demografica,calavano in direzione delle coste (celebre, adesempio, è la prassi del ver sacrum, il distaccoperiodico autorizzato su base sacrale dellemasse umane eccedenti, destinate a popolarenuove terre)167”.

La tattica sciamante dell’età del ferro ita-liana era in pratica ancora vicina a quel-la dei reparti che avevano rivoluzionatoi campi di battaglia del Mediterraneoorientale già verso il 1200 A. C.: essi

“fought as skirmishers, perhaps as they hadtraditionally done in their tribal guerrillas,rather than as disciplinated troops in organi-zed formations (...) swarmed, as individuals orin small groups, over the field. With a longsword as his primary weapon for hand-to handwarfare, the raider required an «open» space,in which his agility and fleetness could beexploited (...) Again, the javelins suggest aswarming tactic, the javelineer running for-ward and then hurling his weapon168”.

Secondo questo modello di ingaggio, icombattenti

“non formavano linee di battaglia né si votava-no irrevocabilmente all’attacco. Al contrario,avvicinavano il nemico con un’elastica forma-zione a mezzaluna, al cui accerchiamentoerano particolarmente vulnerabili gli avversarimeno dotati di mobilità. Se incontravano unaresistenza decisa in un punto, operavano una

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La lancia, la spada, il cavallo

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ritirata con l’obiettivo di indurre il nemico a uninseguimento imprudente che ne avrebberotto le file. Accettavano il corpo a corpo sol-tanto quando la battaglia volgeva chiaramentea loro favore, e in questo caso infliggevano feri-te con armi da taglio superlative…169”.

L’efficacia dei reparti semileggeri controquelli più pesanti –come contro quelliancor più leggeri- è dimostrata, adesempio, dai risultati conseguiti dai pel-tasti traci, il cui “use of the pelta and thepeltast’s lack of armour enabled (…) toevade the charge of heavily equippedtroops and yet an advantage over ligh-ter troops, such as archers, in hand-tohand-fighting. (…) Peltasts in openorder run forward in groups and throwjavelins. They then retire on their fel-lows. Unencumbered by armour, theynever need come to grips with theirheavier enemy170”. Una riprova di que-sta superiorità è offerta dalla mancatapenetrazione coloniale greca nell’areavillanoviana; si tratta senza dubbio diuno di quei casi in cui l’azione di unpopolo che abbia la padronanza del ter-reno, con tattiche di guerriglia, riesce atenere testa ad un esercito più profes-sionale171.La velocità del combattimento era con-cretamente portata dall’impiego di“missile weaponry, cavalry, skirmishers–all the usual sources of fatal motionand speed on the battlefield- (…) thecenturies-old twin of lethality172”. I ruolidella cavalleria nei combattimenti del-l’Italia centrale nella prima età del ferropotevano essere diversi, giacché certo

ad essa, più che a reparti appiedati,meglio si confaceva in primis la guerra diraid, ovvero “spostamenti, razzie efughe173”: nel capitolo sulla cavalleria siè osservato che, specie nei confronti dipopolazioni senza cavalli ma comunqueverso avversari colti di sorpresa, unattacco di cavalleria si poteva rivelarefulmineo e devastante. Con tale tatticaquegli individui che avessero potutodisporre di equini erano in grado diacquisire beni di pregio, vettovaglie edanche schiavi, portandosi come si èindicato -in un circolo virtuoso- econo-micamente e socialmente ad un livellopiù alto, come sembra di fatto mostrarela crescita qualitativa dei corredi funebriproprio da quando si diffonde l’uso dideporre morsi di cavallo nelle tombemaschili.E’ del massimo interesse rilevare che, aRoma, se la fanteria era tradizional-mente reclutata secondo curiae, ovverosecondo cellule paganiche territoriali,la cavalleria veniva reclutata per tribù,ovvero per nucleo parentelare gentili-zio. In altri termini, ad un nucleo zona-le della comunità protourbana -unavolta raggiunta un’estensione e dignitàtale da costituire una vera curia- venivarichiesto, in quanto segmento dell’insie-me, di contribuire alla difesa collettivacon un determinato numero di fanti.Ma se la maggior parte dei nuclei inse-diativi per rione –più numerosi in sedidal forte sinecismo- arrivavano a costi-tuire una curia, diversamente non tutti inuclei parentelari raggiungevano forza,

dignità e benessere tali da formare unatribù. Infatti non tutti i gruppi familiariannoveravano elementi in grado di alle-vare, addestrare, mantenere o acquista-re cavalli, in quanto non tutti i gruppiavevano conseguito un determinatobenessere. Il “luogo sociale” dove ilbenessere poteva essere individuato,anche diacronicamente, poiché perpe-tuato con l’ereditarietà, era l’organismosuperfamiliare. Di fatto la curia zonalenon aveva alcun vincolo col benesseredei suoi membri, ed infatti al suo inter-no esso poteva andare e venire col tra-sferimento e con altri fenomeni, mentrela tribù mostrava nel tempo una mag-giore stabilità di status economico gra-zie all’introduzione della proprietà pri-vata ereditaria. La richiesta rivolta solo ai benestanti dimettere a disposizione della comunitàdei cavalli e dei cavalieri faceva con ogniprobabilità di questa corvée un vero eproprio tributo al villaggio (e tributoviene da tribus, indicando cioè una tassaimposta al clan superfamiliare), in cam-bio della quale veniva riconosciuto pro-babilmente uno status –quello appuntodi tribù, che non tutti i gruppi di fami-glie possedevano- ed un diritto alla pro-prietà privata ed ereditaria di beni chealtrimenti la collettività, secondo sche-mi diffusi dal neolitico attraverso l’etàdel bronzo, avrebbe probabilmente trat-tenuto per una redistribuzione o un uti-lizzo collettivo. La percezione della for-nitura di cavalli e cavalieri come tributooneroso era ancora ben chiara ai tempi

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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di Cesare, quando essa era fornita dalleprovince come assoggettamento allacollettività statale romana174. Ancoranel 136 d.C. quando Arriano scrisse lasua Ars Tactica sulla cavalleria,

“the overall cavalry commander of an alawould have been a prefect. He would havecome from the equestrian class of Romansociety, so called because in the early days,under Romulus and Tarquin, a man of theupper classes, a knight or an eques was wealthyenough to provide his own horse for militaryduties. Under Servius the State partially paidfor cavalry horses. Later, under Augustus, it isclear that the state provided the eques with hishorse175”.

Ancora nella Toscana del Duecento eTrecento, le “cavallate” erano ancora“servitia debita o delle corvées (…) per chipoteva permettersi di tenere cavallo earmamento in efficienza pro communi(…) L’arcaica distinzione dei cittadini inmilites e pedites si perpetuava riflettendo-si dall’organizzazione militare sullestrutture politiche e da queste su quelle,ancora embrionali, di tipo fiscale176”. La tattica di raid a cavallo, probabilmen-te diffusasi già col bronzo medio177, erainoltre divenuta determinante in unmomento -tra la fine dell’età del bronzoe l’inizio dell’età del ferro- di sposta-mento dei gruppi umani verso nuovesedi e di spinte sinecistiche; essa infattiaveva avuto un considerevole peso nelcancellare i centri più piccoli, meno dife-si per posizione e numero di abitanti.Proprio la minaccia delle improvviseincursioni sembra essere stata alla base

della scelta di siti con ampia visuale suun circondario molto vasto, giacché lacelerità di movimento dei cavalieri ren-deva necessario un buon preavviso nel-l’avvistamento per mobilitare i difensori.Anche la ricerca di soluzioni sinecistichetra gruppi umani diversi –come riporta-no le fonti letterarie per la Roma delleorigini- assolse, tra l’altro, alla formazio-ne di comunità allargate numericamen-te che, pur mantenendosi distinte percultura parentale e tribale, costituironoun corpo consociato nella difesa, conuna consistenza in grado di scoraggiarele scorrerie di reparti poco numerosi dicavalleria.Ai cavalieri sarà stato probabilmentedemandato -come più tardi facevano inGrecia i perìpoloi178- anche il compito disorveglianza sui territori marginali sog-getti alla comunità i quali, grazie aicavalli, erano più rapidamente raggiun-gibili, specie nel quadro di un consi-stente ampliamento del territorio con-trollato dalle singole comunità ormaipreurbane179. In caso di indebita occu-pazione, uso o sfruttamento, i reparti disorveglianza a cavallo potevano interve-nire immediatamente, contrastando inarmi gli invasori180. Una situazione simile per livello di con-flittualità ed estensione delle aree domi-nate, proprio nelle stesse aree geografi-che, è quella che si venne determinandotra Duecento e Trecento in Toscana; qui

“l’attività bellica, sostanzialmente costante, sirinnovava ad ogni primavera, con una succes-

sione di assedi e di incursioni per guastare ilterritorio nemico, costellato, come si è detto, diluoghi fortificati. Insieme alla conquista di uncontado sempre più ampio, l’obiettivo prima-rio delle operazioni di difesa e di attacco era ilcontrollo delle vie di comunicazione. Le spedi-zioni, se non vere e proprie campagne stagio-nali, furono quindi rivolte a distruggere o acontrollare luoghi fortificati. Tale dinamica (…)elevò vertiginosamente il tasso di conflittualità.In questo scenario (…) la sempre più rapidaevoluzione tecnologica nell’armamento delcombattente a cavallo determinarono il for-marsi di «professionisti» assai più efficientidella milizia comunale, non importa se monta-ta o a piedi. Le crescenti potenzialità economi-che (…) costrinsero la città a dotarsi di un eser-cito capace di impegnarsi (…) anche in ambitoextraregionale181”.

Inoltre, in caso di scontro in campoaperto tra file opposte di fanteria, ilreparto di cavalleria aveva un ruoloimportante con la tattica d’urto, giacchéla sua mobilità e la sua capacità di sfon-damento gli consentiva di frammentareil reparto avversario a vantaggio deifanti, oppure, con la tattica del disturbo,di aggirarlo ponendolo tra due fuochirispetto alla fanteria. Proprio per sfrut-tare il proprio ruolo di arma “pesante”contro i fanti, il cavaliere usava talorauna lancia la cui lunga punta presuppo-neva anche una ragguardevole asta,secondo usi presenti anche in Ellade.Cionondimeno, non si può escludereanche l’impiego di più giavellotti dascagliare, secondo un uso atto alla tecni-ca di disturbo di cui più tardi parleràSenofonte (Arte equestre, XII, 12): “Inve-ce di una lancia dal lungo manico, poco

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La lancia, la spada, il cavallo

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robusta e poco maneggevole, racco-mandiamo i due giavellotti di corniolo;si può, se lo si sa fare, lanciarne uno eusare quello che resta in avanti, di lato,e all’indietro; nello stesso tempo, sonopiù solidi della lancia, e più manegge-voli”.In effetti, sebbene privo di sella e di staf-fe e quindi con grosse difficoltà, anche ilcavaliere villanoviano poteva caricaregli avversari in veste di lanciere182. Talepossibilità era contemplata anche daaltri popoli che cavalcavano in battagliasenza staffe; gli stessi Longobardi, chemolti secoli più tardi di norma attacca-vano da cavallo lanciando giavellotti,colpendo dall’alto in basso (sopramano)o col braccio abbassato ed il gomito pie-gato (sottomano) non è escluso che“praticassero già anche il combattimen-to lancia in resta, che consisteva neltenere l’asta stretta sotto l’ascella e neldirigere con la mano la punta della lan-cia, formando così con l’arma e la caval-catura una specie di proiettile unicotanto più efficiente quanto più velo-ce183”.La capacità di rottura del lanciere villa-noviano era comunque sostenuta dallapresenza fisica del cavallo, che rendevauna squadra di cavalleria capace discompaginare un pur nutrito gruppo difanti avversari, a favore dei reparti amiciappiedati. L’appoggio di fanteria eraperaltro uno dei punti di forza non solodella cavalleria cesariana184, ma anchedi quella germanica; in particolare quel-la di Ariovisto

“era addestrata (…) a questa tattica (…): seimi-la cavalieri e seimila fanti fortissimi e velocissi-mi (fanti che ciascun cavaliere si sceglieva perconto suo, nella massa dell’esercito, per difesapersonale), combattevano assieme. I cavalieritrovavano protezione, all’occorrenza, fra i fantie i fanti, a lor volta, se la situazione diventavaper i cavalieri critica, accorrevano; e cavaliereferito caduto da cavallo proteggevano. Questifanti erano diventati, con l’esercizio, sì velociche, se dovevano avanzar molto o ritirarsi congrande celerità, aggrappati alle criniere deicavalli, ne pareggiavano la corsa185”.

All’effetto di impeto della cavalleria ifanti hanno da sempre cercato dellecontromisure, basate nei secoli su ciòche oggi è definibile il “fare quadrato”.Ancora un secolo fa i soldati a piedipoco addestrati, spesso sotto una caricadi cavalleria perdevano la testa e fuggi-vano, ma “un fante che voltasse le spal-le al cavaliere era, come si può benimmaginare, un fante morto186”. PerAristotele (Pol. IV, 1297b 16-24) “l’espe-rienza e la conoscenza tattica dei sistemioplitici non esisteva nei tempi antichi, ecosì la potenza in campo era basatasulla cavalleria”. In caso di rotta, ineffetti sin dall’antichità i vincitori delcampo avevano sciamato sui fuggitivicon fanterie leggere e più che altro conla cavalleria, come suggerisce Senofon-te nell’Ipparchico (IV, 18), raccomandan-do appunto ai cavalieri di ghermire“come falchi” gli indifesi perché “l’inse-guitore deve essere, in ogni caso, piùforte della preda187”.Della prevalenza in campo della caval-leria nella prima età del ferro costituisce

una riprova indiretta l’adozione, nelleepoche immediatamente seguenti,dello schieramento chiuso, giacché l’u-nica difesa per i fanti era appunto il rag-grupparsi; come è stato notato sull’or-ganizzazione in file

“these heavily protected phalanxes were intrin-sically anti-cavalry. They were invulnerable tocharges of horsemen. Greek horses lacked thesize, power, and armor to crash against a wallof spears. (…) mounted warriors could do litt-le anyway against the raised pikes of armoredinfantry ranks. At Plataea (479 B.C.) not manymore than three hundred Athenian hoplitesfor a while stood off repeated attacks of thou-sands of Persian cavalry (Hdt. 9.21-23) who,despite their ferocity and numerical superio-rity, could neither easily bowl them over norbreak into their sea of spear tips188”.

Per la difesa dei fanti dalla cavalleria, tut-tavia, erano sufficienti anche formazionimolto piccole, purché ben chiuse. Anco-ra nel XIX secolo il regolamento delleprescrizioni dei Bersaglieri suggeriva,contro la cavalleria armata di lancia, di“formare i gruppi”, ovvero delle quadri-glie di quattro uomini disposte in qua-drato, schiena contro schiena, con l’ar-ma a baionetta inastata e punta in alto.In tale modo si manteneva il campo,costringendo la cavalleria ad “eseguirela volta intorno al gruppo”. Qualcosa disimile doveva accadere anche in epocavillanoviana; infatti “anche se primitiva,una fanteria non sempre si lascia travol-gere senza avere il riflesso di serrare iranghi, formando così una massa che lecariche non possono intaccare189”.

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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Peraltro a fanti molto abili e coraggiosiera possibile anche attaccare un cavalie-re isolato; il citato regolamento dei Ber-saglieri suggeriva tale azione alla baio-netta “quando i cavalieri marciano suc-cessivamente contro il gruppo, comeaccade generalmente negli attacchi inforaggieri (cioè alla spicciolata)”. L’attac-co alla baionetta al cavaliere, che nel-l’Ottocento rispondeva al comando di“lancia rovesciat”, prevedeva di evitarela lancia con un rapido spostamento delcorpo e di abbassarla verso terra con lacanna del fucile, ottenendo di disarma-re o talora disarcionare l’attaccante.Tale attacco è tecnicamente realizzabileanche da parte di un fante fornito dilancia, e con ogni probabilità era pro-prio una delle azioni messe in operacontro cavalieri isolati anche in epocavillanoviana, assieme al tentativo di feri-re i cavalieri in carica, evitando di subir-ne colpi, puntando contro il loro corpola punta della lancia e facendoli trafig-gere su di essa, sfruttando così la veloci-tà del cavaliere proprio contro di esso.Come si è visto, è possibile che, in alcu-ne fasi del combattimento, i cavalieri inappoggio alla fanteria leggera d’accom-pagnamento potessero “abbandonare icavalli e dare l’assalto a piedi. Riserva ditruppe fresche che interviene in unmomento cruciale, questi fanti improv-visati sono comunque riusciti, più diuna volta, a decidere l’esito”190.Il possibile uso di impiegare i cavalieri,dopo un momento d’urto, come com-battenti rapidamente ridispiegati a

piedi, potrebbe essere alla base tradizio-nale dell’esercizio etrusco dei desultores,giovani in età premilitare che, secondonotizie documentabili dall’arcaismo,eseguivano quello che oggi è chiamato,nel volteggio al galoppo, “salto a terra ea cavallo191”. Inoltre, come si è venutoosservando, anche i carristi erano soliti,secondo un uso omerico, discendere dalloro mezzo per battersi con avversari dipari rango precedentemente sfidati aduello.Il carro da guerra, all’interno della tat-tica militare di battaglia villanoviana,sembra aver ricoperto un ruolo margi-nale; inevitabilmente, in un territoriodominato da paesaggi ricchi di asperità.boschi, macchie e con poche pianureaperte, il carro non poteva servire perazioni di sfondamento e manovra comenelle piane mediorientali. Anche nelleregioni levantine del Mediterraneoperaltro era stato necessario accettare lalimitatezza d’intervento dei nutritireparti di carristi, ridotta alle pianure,mentre in tutte le zone aspre o monta-gnose si era dovuti ricorrere alla solafanteria192.In un’epoca in cui la viabilità stessa sulsuolo italico era embrionale, l’azione delcarro (anche quale mero veicolo di tra-sporto per i combattenti) era limitata; tut-tavia un territorio tribale ingranditosigrazie al sinecismo ed al controllo concavalieri risultava sufficientemente ampioda vederne alcuni esemplari impiegaticon vantaggio nell’addurre i guerrieri ari-stocratici alle aree marginali di confine,

senza consumare le energie di questi conlunghe marce. Come si è già ricordato, “sipuò dire che senza il carro veloce a dueruote non sarebbe stata possibile la for-mazione, da parte delle grandi agglome-razioni villanoviane, di un agro adeguata-mente esteso. Il sinecismo che aveva datoad esse origine aveva infatti posto le pre-messe per la definizione di territori daimalcerti confini, che potevano trovarsianche a circa 40 km di distanza dall’abi-tato. Distanze enormi, che solo l’uso delcarro veloce poteva abbreviare, assieme aquello del cavallo193”.Infatti si può ipotizzare che, in caso dioperazioni militari d’urgenza, cavalierie carristi fossero gli unici a potersi dis-piegare a distanza dal villaggio in tempicontenuti, di molto inferiori a quellidella fanteria. Dunque questa “forzad’intervento rapido” con la propriaazione si inseriva nel già osservato “cir-colo virtuoso” che non poteva che esal-tarne il ruolo politico-sociale oltre cheeconomico: grazie alla disponibilità dimezzi particolarmente costosi (cavalli,carri) costoro potevano svolgere unruolo difensivo primario, ricompensatocon la conferma dell’appartenenza -oltre che ad una élite militare- ad unaélite sociale e politica: “a sfruttare lacampagna, anche lontana, furonosoprattutto i gruppi gentilizi, che daessa trassero in larga misura la propriaricchezza ed il proprio prestigio. Nonmeraviglia, pertanto, che il carro veloceabbia finito con l’essere assunto comeun connotato di classe194”.

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Le razzie effettuate da reparti di cavalle-ria e coadiuvate da fanti dovevano esse-re dei fulminei colpi di mano in cui gliattaccanti piombavano di sorpresa su unpiccolo agglomerato o su una comunitàvicina, la saccheggiavano e si ritiravanoportando via del bottino e alcuni prigio-nieri in schiavitù. La tattica del “morde-re e fuggire, attendere, spiare, tornare amordere e a fuggire, e così di seguito,senza dar tregua al nemico” è elementa-re, antica ed, ancora oggi, moderna; peressa è necessario “conoscere alla perfe-zione i terreni (…), i luoghi di accesso efuga, le possibilità di rapidamanovra195”. Il rapimento di donne,bestiame, provviste e schiavi -ben diver-so dal brigantaggio, in quanto la razzia èun’operazione portata col consensooffensivo di una comunità- fu, con tuttele sue implicazioni “ludiche”, una delleespressioni della normale ostilità, eobbligava peraltro ad una vigilanza con-tinua196. Peraltro il peso reale delle raz-zie e degli scontri, inteso nel senso delnumero dei guerrieri coinvolti, deimezzi impiegati e degli spazi interessati,risulta nelle culture primitive, come inquelle protostoriche, sovradimensionatonel ricordo, che finisce col diventaremito: “la stessa mentalità magica, che faapparire i fantasmi e tutta una serie diesseri soprannaturali, crea nel medesi-mo modo eserciti mostruosi là dove vi èappena una pattuglia nemica197”. Un certo equilibrio tra le forze in campo(ricco di valore etico e simbolico, comenell’esempio del rituale dello scontro tra

Orazi e Curiazi) era di fatto una condiciosine qua non dello scontro in campoaperto, giacché reparti in marcata infe-riorità non potevano riequilibrare nean-che col valore uno svantaggio che -nelfrantumarsi dello scontro- avrebbe fattole sorti della battaglia. Fuori da imbosca-te e raid, infatti, lo scontro antico, basa-to sul corpo a corpo, penalizzava forte-mente il reparto meno numeroso, alquale, se non era possibile lo sgancia-mento, non restava che tentare di muo-vere in modo e luogo favorevole198.Inoltre, anche là dove vi fosse stato uniniziale equilibrio, se le perdite eccessivedell’ingaggio a distanza -con i giavellot-ti- o del corpo a corpo facevano pende-re la bilancia in favore di una delle parti,ai soccombenti non restava che la ritira-ta, più o meno composta nel tentativo disganciamento tattico, o la vera e propriarotta; in questo frangente, per i piùnobili, la disponibilità di mezzi, quali ilcarro o il cavallo, consentiva di avere piùpossibilità di salvezza199. La consistenza delle perdite negli scon-tri, quando si trattava di vere e proprieguerre con tutti i combattenti idonei incampo, doveva essere elevata in percen-tuale (anche se il numero assoluto deiguerrieri era comunque modesto), vistaanche l’assenza di corazzature protettivepesanti. Si hanno varie considerazioniattorno all’elevato tasso di mortalità neicombattimenti antichi200 e, se tali dati sibasano su calcoli fatti prevalentementeper epoche in cui lo schieramento erain falangi o legioni chiuse, va comun-

que osservato che l’accanimento e ladeterminazione nei combattenti dellaprima età del ferro, pur non in schiera,era maggiore a causa del frequenteintento di sterminio nelle guerre tra vil-laggi e insediamenti. Alcuni studi, inparticolare sulle battaglie greche del V eIV sec.a.C., hanno mostrato che la mor-talità era del “ten to twenty percent(fourteen percent on average) losses tothe defeated phalanx, three to ten per-cent (five percent on average) killedamong the hoplites on the winningside201”. Un corso sul servizio sanitarioin Guerra stilato nel 1938 indicava chela mortalità delle ferite, durante gliassalti, ancora in quell’epoca venivaquasi raddoppiata202.La percezione dell’insuccesso potevafacilmente accompagnarsi alla rotta,nella quale nell’antichità si facevasovente una vera strage203 -caedes per iLatini- degli avversari in fuga disordi-nata, travolti da quel particolare feno-meno che è la caduta del tono psichiconella coscienza dell’insuccesso204.Già al momento dello scontro, infatti, legrida di guerra e il lancio di armi dagetto avevano, come si è detto, lo scopodi intimidire gli avversari, fatto che pote-va ben avere successo, come testimonia-no, pur per altre fasi storiche, le fonti let-terarie205. Ma quando ormai all’esitodello scontro, una delle due parti perce-piva chiaramente l’insuccesso,

“solo due erano le alternative. La prima consi-steva nel formare piccole sacche di coraggiosi,

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che potevano ritirarsi a gruppi di due o tre, odi cinque o dieci, facendo pagar caro al nemi-co un inseguimento sconsiderato. In situazionidisperate, si trattava dell’alternativa più razio-nale, che però si verificava raramente (...) Laseconda alternativa (...) era semplicementequella di buttar via le armi -scudo, lancia edelmo- e fuggire per proprio conto (...) Anche aprescindere dal biasimo che circondava questarisposta affatto umana, la semplice fuga offrivaminori possibilità di sopravvivenza (...) Eraprobabile che il nemico attaccasse per primiquesti bersagli facili (...) Raccogliersi in gruppoper scagliarsi contro quei bersagli sparsi e indi-fesi poteva procurare l’insolito piacere di unafacile carneficina che non comportava unrischio reale206”.

Lo scontro produceva così un elevatonumero di feriti, sulla cui tipologia ditraumi sono stati fatti vari studi, i cuirisultati sono prevalentemente conver-genti con le ricostruzioni già indicateriguardo le tecniche di ingaggio e discherma. Tra tali studi uno dei più interessanti -proprio perché calibrato esclusivamen-te sulle ferite ricordate nell’Iliade enell’Odissea, e quindi connesse ad untipo di combattimento e schieramentoaffine a quello della prima età del ferroitalica- è di Augusto Botto Micca; il fattoche sia stato stilato nel lontano 1930nulla toglie alla validità di questo lavo-ro. In esso vengono prese in esame lelesioni dei poemi omerici, che assom-mano a

“180, delle quali 4 sono inferte a divinità, 172a uomini e 4 ad animali. Per la natura stessadelle lesioni e per la trama dei singoli poemi si

trovano in maggior numero le descrizioni nel-l’Iliade (157) che nell’Odissea (23). Tutte questelesioni possono essere distinte in due categorieprincipali: «traumi», ossia lesioni senza discon-tinuità della cute od almeno tale apparente dalpoema, e «ferite», ove la continuità della cute èintaccata in uno o più punti. I «traumi» (13)possono alla loro volta essere suddivisi in «trau-mi semplici» (7), in «traumi seguiti da sveni-mento» (2), in «traumi psichici» con o senzasvenimento (2) ed i «traumi con esito letale»(2). Le «ferite» (159) (…) possono seguire laseguente suddivisione: «ferite leggere» e «feri-te gravi con esito letale». Le prime (32) colpi-scono in numero preponderante gli arti supe-riori (16), poi gl’inferiori (10), indi il torace (2),il collo (1), il dorso (1), l’occhio (1) ed infine unluogo non precisato (1). Le «ferite gravi conesito letale» (127) colpiscono specialmente latesta (53) poi l’addome (30), il torace (22), gliarti superiori (9), il dorso con fuoriuscita del-l’arma dal torace (6) od il dorso semplicemen-te (3), gli arti inferiori (2), la clavicola (1) efinalmente una ferita «nel mezzo» (…) Laregione, in cui però si registrano in maggiornumero le ferite mortali è il collo (27)207”.

Se questo riepilogo offre una primasinossi statistica –pur deformata dall’in-tento epico degli scritti omerici-, esso dàanche un saggio dell’estrema articola-zione dello studio del Botto Micca. Purrinviando ad esso per una valutazionedettagliata, vista la rarità dell’edizioneritengo cosa utile riportarne vari dati estralci, che costituiscono un materiale dilavoro per certi versi insostituibile. Lo studio dell’affidabilità omerica nelledescrizioni, sottoposte ad una analisimedica, dimostra nel poeta una rag-guardevole conoscenza dell’anatomia, equindi una sostanziale credibilità e veri-

dicità delle scene; il controllo delle areecolpite porta in evidenza come “nelledescrizioni delle ferite in Omero, sivede che soltanto eccezionalmente sihanno ferite sul lato sinistro”, giacché loscudo difendeva egregiamente il fianco,ed in particolare la spalla.Riguardo le ferite leggere, viene rileva-to come esse –quando portate a guer-rieri- sono inferte con “la lancia (19), lafreccia (6), un sasso (4), una caduta (1),un urto (1) ed un pezzo di legno appun-tito a mo’ di lancia (1)208”.Anche presso le falangi oplitiche nonsempre le ferite erano gravi, e spesso loscarso slancio dei colpi dati da fermofaceva sì che

“le ferite al torace o all’addome non penetrava-no necessariamente a fondo nella carne e per-ciò non sempre si rivelavano fatali (...) Anchel’elmo poteva reggere all’urto di un colpo infer-to da un avversario sbilanciato, che nella rissaravvicinata non aveva molte possibilità di infon-dere grande energia al proprio attacco (...)Ancor più frequenti erano le ferite secondarie emeno gravi alle braccia, alle gambe, alle mani eai piedi, dato che queste parti del corpo nonsempre erano protette (...) sulle ferite aperteerano regolarmente applicate fasce di lino (...) espesso per fermare l’emorragia si usavanomirra, latte di fico e anche vino209”.

In effetti, anche quando siano leggere,le ferite di guerra risultano, da sempre,caratterizzate da due fattori: “la devita-lizzazione dei tessuti colpiti e l’apportodei germi nelle ferite da parte dell’a-gente vulnerante210”. Della frequentepresenza di infezioni nell’antichità offre

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un esempio la ferita al braccio del figliodi Ippoloco, Glauco, da parte di Teucropresso le mura di Troia (Iliade XII, 387-391); questi, colpito da una freccia, riap-pare ancora infermo nel libro XVI, doveafferma: “ho una grave ferita; da ogniparte la mano mi è trafitta da acutidolori né il sangue si può seccare; l’o-mero mi è appesantito per quella; nonposso sostenere fermamente la lanciané combattere coi nemici avvicinando-mi a loro”(517-521).L’Iliade è fonte di ulteriori informazioni,da cui possiamo immaginare -con ledovute differenze- alcune prassi dell’Ita-lia centrale coeva; dalle ferite venivasempre rimossa l’arma o quanto vi fossepenetrato causando la lacerazione, e sesi cercava di refrigerare la ferita (Iliade V,795), si tentava anche di tamponare l’e-morragia con bendaggi “con fromboladi torta lana” (Iliade XIII, 577-600)211.In certi casi, come nell’intervento diMacaone a curare Menelao, dalla feritaveniva succhiato via il sangue, per poiapplicarvi farmaci (Iliade IV, 214-219); incasi più gravi, come nella ferita allacoscia di Euripilo, Patroclo distende ilferito su pelli bovine e poi “col taglientecoltello recise dalla parte superiore dellacoscia la freccia dolorosissima, da quelladeterse con acqua calda il nero sangue,poi vi sparse una radice amara trituratacolle mani, rimedio lenitivo, il quale cac-ciò tutti i dolori; la ferita si deterse ed ilsangue cessò” (Iliade XI, 842-848)212. Molte delle ferite degli scontri omericiavevano invece esiti mortali immediati;

secondo Botto Micca esse erano cosìripartite per arma e area colpita:

Tale ripartizione denota la lancia qualearma più mortale –e più largamenteimpiegata nel combattimento omerico-;simili conclusioni ha raggiunto ancheFrolich213, che ha analizzato le feriteinferte nelle diverse scene dell’Iliade, ilquale tuttavia

“ha osservato che 106 su 147 erano state infer-te con la lancia, e soprattutto che l’80 per centodi esse aveva provocato la morte dell’eroe. Asuo giudizio, il numero di gran lunga maggio-re di quei colpi fatali era portato al torace.Omero celebrava dunque un tipo di battaglianella quale i colpi venivano sferrati da distanzaravvicinata, il bersaglio era nella maggior partedei casi il torace e i risultati erano generalmen-te fatali214”.

Diversamente, per Botto Micca era latesta la zona più frequentemente colpi-ta mortalmente, ed in particolare ilcollo dove veniva inferto di norma ilcolpo di grazia a guerrieri già feriti o

atterrati. Il già citato corso di medicinamilitare del 1938 ricorda come inguerra

“le ferite della testa rappresentano 1/6 circa ditutte le ferite. Nella guerra 1914-18 la mediadelle ferite della testa nell’esercito italiano rag-giunse il 18,4%, in quello francese il 15,5%, inquello tedesco il 16%. Però (…) la percentuale(…) discese (…) dopo l’istituzione dell’elmettometallico. La mortalità, sul campo, dei craniciascende al 20% su tutti i feriti, cifra effettiva-mente elevata. (…) Il Depage trovò all’esamebatteriologico delle ferite cranio-cerebrali,anche dopo l’operazione praticata nel modopiù asettico, che il 60% di esse erano contami-nate (…) mentre nella guerra franco-prussianadel 1870-1871, la mortalità dei feriti cranicicurati era del 78%, nell’ultima guerra europea1914-18 (…) essa è discesa, nell’esercito fran-cese, al 43,5% ed in quello americano al36,7%215”.

L’Iliade riporta varie ferite mortali alcapo, portate con ogni sorta di armi; tratali descrizioni si ricorda il gran fenden-te di spada con cui “Eleno colla grandespada tracia colpì da vicino Deipironella tempia e strappò l’elmo. Questocavato a forza cadde a terra ed unodegli Achei combattenti, essendoglirotolato tra i piedi, lo sollevò; a lui latenebrosa notte coprì gli occhi” (XIII,576-580). Anche la celebre lancia diAchille “colpì alla tempia attraverso l’el-mo guarnito di guance di bronzoDemolente, lo strenuo combattente,figlio di Antenore. L’elmo di bronzonon la parò, ma la punta, proseguitaattraverso quello, ruppe l’osso ed il cer-vello addentro si lordò tutto di sangue”

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

Lancia Spada Freccia SassoTorace 18 4Testa 28 17 5 4Addome 25 4 1Omero destro 4Omero 3 1Omero e mano 1“Nel mezzo” 1Clavicola 1Anca 1Gamba 1Dorso-torace 6Dorso 3

Totale 91 23 10 4

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(XX, 395-400). Non solo i fanti eranosoggetti a ferite alla testa, ma anche icarristi: Antiloco “ferì Midone raggiun-gendolo con un sasso in mezzo al cubi-to, facendogli cadere di mano le briglieeburnee (…) precipitandosi con laspada, lo colpì alla tempia; questi ran-tolando cadde dal ben costrutto carroprono nella polvere sulla parte anterio-re del capo e sulle spalle. A lungo stettefermo in questo modo, poiché era cadu-to nella profonda sabbia, finché si stesebuttato a terra nella polvere dei cavalli”(V, 584-588).Anche lo studio dello Hanson sullaguerra in Ellade esamina le ferite incombattimento al cranio e le loro con-seguenze:

“il secondo bersaglio fatale (...) era il cranio.Nel celebre trattato di Ippocrate, nelle feritealla testa, si trovano esaurienti descrizioni dellesvariate ferite alla testa causate dalle armi dataglio (...) In qualche caso il primo colpo sfer-rato dal nemico si faceva strada tra i guancialipenetrando nel volto, come quello di Aiace cheuccise il tracio Acamante: « lo colse per primosopra il cimiero dell’elmo chiomato, gli piantòl’arma in fronte; e penetrò nell’osso la punta dibronzo» (Iliade VI, 9-11). In altri casi la violen-za del colpo di lancia era tale da farla penetra-re nell’elmo (...) o da provocare in esso una taleammaccatura che causava comunque la morte(...); in questi casi, probabilmente, la lanciaschiacciava le pareti dell’elmo contro il cranio,ledendo le arterie cerebrali e provocando diconseguenza una grave emorragia (...) Era (...)probabile che quasi tutti i traumi di questo tipofossero fatali. (...) Anche quando l’elmo (...)proteggeva (...) da un danno cerebrale grave, lasola forza del colpo di lancia poteva scagliare

con violenza la testa all’indietro o verso il basso,fratturando le vertebre cervicali, con conse-guente fuoriuscita del midollo spinale, che cau-sava la paralisi e magari la morte immediata, oprovocando un’emorragia nella spina verte-brale, che poteva causare una pressione intol-lerabile, preludio della morte o di una quadri-plegia totale216”.

Come si è detto, al collo venivano porta-te ferite destinate alla decapitazione del-l’avversario; l’Iliade ne riporta diverseche “rappresentano o il colpo di graziaper i guerrieri già caduti per altre ferite(come nei casi di Ippoloco, XI, 145, e diDemoco, XX, 457) od un modo dimorte indicante sprezzo da parte del-l’uccisore (come nel caso di Dolone) (X,456)217”. Se quest’ultimo ferimento è inrealtà un vera e propria esecuzione di unprigioniero, al quale sono state primaestorte informazioni logistiche e strate-giche, la morte di Coone è un vero colpodi grazia sul campo: “(Agamennone)colpì con la lancia di bronzo quello(Coone), che stava trascinando (il fratel-lo Ifidamante) attraverso la turba sottolo scudo onfalato, e gli sciolse le ginoc-chia; ed avvicinandosi a quello sopra Ifi-damante gli troncò il capo” (XI, 259-261). Ancor più cruento è Agamennonecon Ippoloco, che dopo la mortale cadu-ta di Pisandro dallo stesso carro “discese(… e anch’esso) di nuovo abbatté interra, dopo avergli tagliate le mani collaspada e troncato il collo, e a guisa di ciot-tolo lo lanciò a rotolarsi fra la turba” (XI,145-147). Non meno violenta è la fine diDecaulione per mano di Achille: “poi la

punta di bronzo trafisse Decaulionenella cara mano, dove si uniscono i ten-dini al braccio; questi rimaneva intor-mentito nella mano, vedendosi innanzila morte. Ma quegli (Achille) percossogliil collo colla spada, lanciò lontano latesta coll’elmo stesso; la midolla uscìdalle vertebre, e giacque disteso in terra”(XX, 477-483).Un altro gruppo numericamente rile-vante delle ferite gravi e mortali era altorace, che nell’Iliade vengono inferte–con lancia o con frecce- a fanti e fre-quentemente a carristi (come Pisandroucciso da Agamennone con la lancia, XI,143-144). Questi ultimi, non protettinella parte alta del corpo da alcunasponda, erano in effetti bersaglio dellafanteria nemica, alla quale evidente-mente si avvicinavano pericolosamenteper bersagliarla essi stessi con le lance: èil caso di Fegeo, che dopo aver scagliatodal carro una lancia contro Diomede edavendolo mancato, viene da questo rag-giunto: “il Tidide per secondo scagliò ilbronzo; e non invano dalla mano sfuggìla lancia, ma colpì (Fegeo) nel petto trale mammelle e lo buttò giù dal carro” (V,17-19). Anche tra truppe appiedate tut-tavia la lancia veniva spessissimo scaglia-ta a breve distanza, con colpi mortali:quando Idomeneo uccide Alcatoo “locolpì colla lancia nel mezzo del petto egli squarciò la corazza di bronzo, cheprima gli teneva lontano dal corpo lamorte. Allora risuonò scoppiando foratadall’asta. Questi cadendo diede rumoree la lancia era piantata nel cuore, che

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La lancia, la spada, il cavallo

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palpitando agitava l’estremità inferioredell’arma” (VIII, 438-444). Non moltodiversamente Patroclo, scagliando lalancia contro Sarpedone che per primol’aveva attaccato, “lo colpì proprio làdove il diaframma si chiude intorno alforte cuore. Cadde (…) così quello gia-ceva lungo disteso dinanzi ai cavalli ed al

carro, digrignando i denti e prendendola polvere sanguinolenta con le mani”(XVI, 480-491). Quest’ultimo passo, conl’indicazione dei frènes quali praecordia odiaframma, attesta la buona conoscenzaanatomica di Omero, a conforto di unasostanziale affidabilità delle scene e delleferite menzionate.

Anche secondo lo studio dello Hansonla gravità delle ferite al torace era note-vole; a causa di esse

“il fante doveva morire nel giro di pochi minu-ti, a causa delle lacerazioni profonde subite dalsistema circolatorio intorno all’arteria polmo-nare; in caso contrario, correva il pericolo dicontrarre un’infezione diffusa con conseguente

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

Il rientro di una tribù Dani della Nuova Gunea con un giovane guerriero ferito sopra la clavicola da una zagaglia, di cui un pezzo è ancora infisso nel collo

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sepsi della cavità toracica (...) Il collasso pol-monare, oppure un irreversibile danno alle vierespiratorie, erano il risultato consueto deicolpi inferti al torace: un colpo violento allecostole, inoltre, anche se in realtà mancava ivasi maggiori, poteva fracassare l’osso e spin-gerlo contro i polmoni, causando così unimmediato collasso delle vie respiratorie218”.

In effetti, anche i dati sulla mortalitàdedotti a seguito della Prima Guerramondiale indicano come le ferite tora-ciche, pur interessando circa il 66% ditutti i feriti, avessero una mortalità dicirca il 50% dei casi; la morte tardiva,dopo il ricovero, era per ben il 64% deicasi da attribuire ad emorragia.Continuando nell’analisi delle possibiliferite cui erano sottoposti i combattenti,lo Hanson passa ad esaminare i colpicon i quali la lancia

“si conficcava profondamente nella cavitàaddominale o magari (...) perforava l’inguine,se il colpo era portato sottomano. Queste feri-te addominali alla parte inferiore del ventre eall’inguine risultavano quasi sempre fatali e inpochi giorni, se non in poche ore, causavano lamorte per collasso, peritonite o altre infezioni,poiché il contenuto dell’intestino si riversavanella cavità addominale e (il guerriero) si spe-gneva per la perdita di sangue e di fluidi219”.

Nell’Iliade tali ferite sono spesso indica-te come lesioni “nel ventre” o “nelmezzo del ventre” (IV, 531); tra quellepiù dettagliatamente descritte si ricor-dano quella inferta da Merione ad Ada-mante in fuga: “lo colpì con la lancia trale pudenda e l’ombelico, dove Ares èmolto grave per i miseri mortali. Ivi

confisse la lancia; questi in seguito pal-pitava attorno alla lancia, (…), così ilferito palpitò un poco, non certo permolto tempo, finché andatogli vicinol’eroe Merione gli tolse la lancia dalcorpo; le tenebre gli coprirono gli occhi(XIII, 567-575). Euripilo “scagliò la ful-gida lancia e colpì Apisaone, condottie-ro, nel fegato sotto il diaframma e tostogli sciolse i ginocchi” (XI, 577-579);nello stesso modo Enea colpì ApisaoneIppaside (XVII, 347-349) e Deifobouccise Ipsenore Ipposide (XIII, 411-412). Troe Alastoride, vedutosi perdutodavanti ad Achille, tenta inutilmente disupplicarlo: “quegli (Troe) aveva presocon le mani le ginocchia, e stava persupplicare, ma questi lo colpì con laspada al fegato; passò fuori del fegatoed un nero sangue da questo gli riempìil seno; a costui privato della vita letenebre coprirono gli occhi” (XX, 460-472). Piroo, dopo aver ferito Diore conuna pietra “accorse e lo colpì con la lan-cia vicino all’ombelico; tutti gli intestinisi sparsero in terra e le tenebre gli copri-rono gli occhi” (IV, 522-526): una mortecruenta, identica a quella inferta daAchille a Asteropeo (XXI, 180-182).Altre ferite citate da Omero sono porta-te ai lati dell’addome, ovvero al keneòn(il vuoto tra costole ed anche), al lapàre(parte molle tra costola ed anca), ed aipleurà (i lati del corpo).In vari casi anche ai guerrieri su carriviene ferito il ventre, a riprova che lasponda del veicolo non era chiusa adifendere gli occupanti: è il caso di

Achille che uccide Rigmo (XX, 486-487)e di Antiloco che uccide l’auriga di Asiocon una lancia che “s’infisse nel mezzodel ventre. Questi rantolando cadde dalcarro ben lavorato” (XIII, 398-399). Studi recenti confermano la gravitàdelle ferite addominali, con una morta-lità sul campo valutata tra il 70% ed il90%, seguita da un alta mortalità ancheseguente al ricovero. Gli organi più fre-quentemente interessati sarebbero l’in-testino (60% circa), il fegato (16%), lostomaco (7% circa); le cause principalidi morte sarebbero la peritonite e l’e-morragia, con mortalità massima inferite dell’intestino crasso220.E’ interessante rilevare che i guerrieriomerici si recavano in battaglia dopouna refezione del mattino, ritenutaindispensabile per disporre delle forzenecessarie per battersi; Ulisse consigliaAchille (XIX, 155-170) di

“non spedire digiuni i figli degli Achei versoIlio per combattere i Troiani, giacché il com-battimento non sarà di breve tempo, tostochésaranno venuti alle mani le falangi dei guerrie-ri ed un dio animerà la forza di ambedue; maordina che gli Achei nelle navi assaggino cibo ebevanda; infatti questo è forza e resistenza. Poi-ché un uomo digiuno di cibo non può combat-tere a corpo a corpo tutto il giorno sino al tra-monto del sole; infatti nell’animo è pur bra-moso di combattere, ma a poco a poco perdele forze delle membra, già lo raggiunge la setee la fame ed a lui, che va, sono indebolite leginocchia. L’uomo sazio di cibo invece e dibevanda combatte tutto il giorno i nemici e ilcuore coraggioso è nel suo animo, né le mem-bra si stancano prima che cessi dal combatti-mento”.

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La lancia, la spada, il cavallo

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Le ferite agli arti inferiori appaionoraramente mortali nell’Iliade; il solocaduto –colpito all’arteria femorale- èAnficlo, ucciso da Filide il quale “glicolpì la parte superiore della coscia,dove è la maggiore abbondanza deimuscoli in tutto il corpo umano; intor-no alla punta della lancia i tendini furo-no tagliati e le tenebre gli coprironocompletamente gli occhi” (XVI, 313-316). Le armi che feriscono le gambesono molto varie –comprese le pietre ele frecce-, talvolta rompendo anche l’os-so come nel caso di Areilico colpito daPatroclo (XVI, 307-311). Il ferimentodelle gambe è in vari casi la premessaper l’uccisione del ferito, bloccato aterra: così Achille ferma Driope per poifinirlo (XX, 457-458), e così Piroo feri-sce con una pietra Diereo (IV, 518-524).Similmente si combatteva anche pressovari popoli antichi221 o primitivi, cometra i Maori, dove

“lo scopo principale di questi guerrieri veloci(…) era di proseguire l’inseguimento senzamai fermarsi, limitandosi a sferrare un colpo aun uomo per storpiarlo in modo che quelli chelo seguivano fossero certi di raggiungerlo efinirlo. Non era insolito che un solo uomorobusto e veloce, quando il nemico era com-pletamente in rotta, ferisse con una lancia leg-gera dieci o dodici uomini in modo tale da assi-curare che venissero raggiunti e uccisi222”.

Tra le altre ferite frequenti dovevanoesservi anche i colpi di spada e lanciaalle spalle, per i fuggitivi; Omero nedescrive con dettagli una, prodotta daAntiloco a Toone ad interessare l’aorta:

“Antiloco osservando Toone, che gli vol-tava le spalle, assalendolo lo colpì edaprì tutto il vaso sanguigno, che corren-do lungo il dorso giunge attraverso ilcollo; aprì tutto questo vaso, queglicadde supino nella polvere, tendendoambo le mani ai diletti amici” (XIII,545-549). Similmente Menelao ucciseScamandrio “mentre fuggiva dinanzi alui; lo colpì nel dorso fra le spalle con lalancia e gliela fece passare attraverso ilpetto. Cadde prono e le armi risuona-rono sopra di lui “ (V, 55-58). Una tale ferita era frequente anche neiguerrieri che tentavano lo sganciamentodalla mischia ricorrendo al carro, stru-mento che evidentemente non assicuravasempre la salvezza: “Agelao Framonide(…) aveva volto in fuga i cavalli; a lui, chestava girato, (Diomede) infisse la lancianel dorso fra le spalle e gliela fece passa-re per il petto. Cadde dal carro e le armirisuonarono sopra di lui” (VIII, 256-260).Achille uccide prima Ippodamante “chescendeva dal carro e fuggiva dinanzi alui” (XX, 401); poi “colpì nel dorso coll’a-cuta lancia il servo Areitoo, che voltava icavalli indietro, e lo abbatté dal carro; icavalli si spaventarono” (XX, 487-489).Ancora più penosa era stata la morte diAgastrofo, rincorso da Diomede e colpitoall’anca (iskìon) mentre tentava invano diraggiungere il suo carro: “né i cavallierano vicini per sfuggire, ma aveva moltoerrato nell’animo. Infatti il servo li tenevain disparte, ed egli a piedi correva attra-verso i primi combattenti, finché perse lacara anima “ (XI, 338-342).

Tra le altre ferite a danno dei fuggitivic’erano quelle che interessavano laparte inferiore del busto, come perFereclo: “Merione, raggiuntolo dopoaverlo inseguito, lo ferì alla naticadestra e la punta (della lancia) uscì dal-l’altra parte attraverso la vescica sottol’osso. Cadde in ginocchio lamentando-si e la morte lo circondò” (V, 65-68).Numerose erano anche le fratture, dicui molteplici potevano essere sia lecause –con urti e lanci di pietre- che gliesiti; le fratture composte, nelle qualil’osso era penetrato nella pelle causan-do un’emorragia, erano di solito causadi fatali infezioni al midollo osseo.Molte erano inoltre le vittime che peri-vano a distanza di giorni dal ferimentoper emorragie, lesioni interne con infil-trazione di sangue223, ed infezioni nellequali agivano batteri “che scatenano inparticolare le infezioni clostridiali qualiil tetano o la gangrena224”.La sorte dei feriti caduti prigionieri deivincitori sul campo di battaglia esopravvissuti –nel mondo antico e nel-l’Italia centrale della prima età delferro- poteva essere, nella migliore delleipotesi, quella di ostaggi da scambiarecon persone o beni, se non quella dischiavi -peraltro riserva di forza lavoronell’antichità-. Come è stato osserva-to225, non è da escludere che alcuni pri-gionieri fossero oggetto di rituali sacri -come potrebbe ad esempio trasparire inarea etrusca dal probabile “prigioniero”sul coperchio del cinerario dell’OlmoBello di Bisenzio226, compartecipe con

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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degli armati di una danza totemica-nella cui linea potrebbe inserirsi laseguente tradizione del sacrificioumano ed il crudele gioco del Phersuritratto nelle tombe dell’arcaismo etru-sco. Sui loro affreschi compare infatti uncane che cerca di sbranare un uomodalla testa avvolta in un sacco, il qualetenta di difendersi con un bastone men-tre un uomo in maschera barbata –ilPhersu, appunto- gli aizza contro l’ani-male. Questo rito potrebbe aver trattoqualche spunto anche dall’epos omeri-co, dove –in Odissea, XVIII, 84-87- Anti-noo minaccia lo straccione Iro di inviar-lo “alla terra ferma, al re Egheto,distruttore di tutti i viventi, perché titagli con bronzo spietato il naso e gliorecchi ed, avendoti strappato i genita-li, li dia crudi a lacerare ai cani”. La con-danna ai cani fu tuttavia un sistema dipunizione diffuso in varie zone delmondo antico, e –relativamente allapresenza dell’uomo con maschera bar-bata- alcuni studi di psicologia e diantropologia hanno individuato deipopoli primitivi attuali nei cui “ritualitribali vengono spesso compiuti atti diincredibile crudeltà. I partecipanti alrito sono sempre travestiti in qualchemodo, indossano cioè una qualche uni-forme; questo sta a significare che essinon sono lì come individui, ma comemembri di una collettività. Psicologica-mente, le azioni che essi compiono sonocompiute dal gruppo, che quindi neporta la responsabilità227”.La presenza di sacrifici umani nell’E-

truria e nel Lazio protostorici non èindiscutibilmente accertata, sebbenealcune sepolture presso aree sacre epubbliche abbiano anche recentementeriacceso alcune ipotesi in tal senso;restano comunque di notevole interes-se, ormai in età arcaica e classica, l’in-contestabile presenza di giochi gladia-tori ad esito mortale, l’occasionale ucci-sione di massa di prigionieri di guerra–si pensi alle centinaia di prigionieriFocei catturati nella battaglia navale diAlalia uccisi in massa a Caere nel 545a.C.-, e la pur tarda fortuna del mitodel sacrificio dei prigionieri troiani sulrogo di Patroclo. L’offerta di vittimeumane, peraltro, attinte con la guerra,assolverebbe ad una “tipica tendenzariparativa messa in moto dalla situazio-ne depressiva del lutto (…) (la quale)passa invece attraverso l’uccisione delnemico228”. Il meccanismo primitivoche tenderebbe a rabbonire gli spiritidei morti con sacrifici, per evitarne l’o-stilità, è noto presso numerosi popo-li229, ed era palesemente alla base dinumerosi rituali largamente attestatinell’Etruria e nella Roma storiche230.Sul destino di avversari -o di comunità-vinti e soggiogati è stato rilevato chenell’antichità “lo schiavo non fu altro,da principio, che un prigioniero diguerra la cui esecuzione capitale erastata differita perché rendesse qualcheservizio (...) In epoche in cui la solaforza motrice era l’uomo, la guerra,quale fornitrice di schiavi, era, appuntoper questo e come qualcuno ha detto,

creatrice di capitale231” E’ oltremodoilluminante il fatto che dalla letturadelle tavolette di età Protoletteraria rin-venute ad Ur si osservi che

“il termine per «schiavo» deriva da un’espres-sione che significa «paese straniero», il cheforse sta ad indicare che l’istituzione ebbe ori-gine o dalla cattura di prigionieri di guerra, odal reclutamento forzato di gruppi seminoma-di (…) Sono evidentemente «prigionieri diguerra» gli uomini in catene raffigurati in unfamoso sigillo di Uruk, sebbene possa nonessere senza significato il fatto che gli schiavicomparvero non solo in epoca successiva, maanche in misura di gran lunga inferiore rispet-to alle schiave. Forse non era stato ancora ela-borato un sistema per mantenere e impiegarein modo efficace gli uomini prigionieri, cosic-ché generalmente venivano uccisi232”.

Sul destino dei prigionieri di guerrasono stati compiuti vari studi; quello diE. Westermark233 individuava nei tratta-menti riservati da popoli primitiviodierni una diversità indicativa di un“indice della ferocia”.

“Le sue conclusioni (...) sono che quel tratta-mento è molto vario. Talvolta i vinti vengonouccisi, in altri casi sono soltanto gli uomini chesubiscono questa sorte, altre volte (e questesono le più numerose) i vinti sono ridotti inschiavitù o, meglio ancora, sono adottati dallatribù vincitrice e in qualche modo naturalizza-ti oppure scambiati, oppure, dopo qualchetempo, rimessi in libertà234”.

Anche gli usi attestati nell’antichità, alpassaggio tra età del bronzo ed età delferro nel Mediterraneo orientale, nonerano molto diversi; secondo quanto è

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La lancia, la spada, il cavallo

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stato rilevato “ancient conquerors nor-mally removed the occupants from acity -executing some and enslaving therest- before setting fire to it235”. Ladistruzione finale del luogo aveva perobiettivo “to make the place uninhabi-table and thus a monument to the fero-city of its assailants236”.L’atteggiamento nei confronti dei pri-gionieri si connette peraltro con gliaspetti formativi dell’ambito giuridico-legale, che esula da questa trattazione;va comunque osservato che, essendonella preistoria e nella protostoria ildiritto alla faida tribale (o familiare) l’u-nico codice condiviso di “rapporto inter-nazionale”, l’azione che si svolgeva suiprigionieri dopo gli scontri (momentoquesto magicamente e giuridicamenteparticolare ed avulso dalla normalità)dava adito poi a ripercussioni sui rap-porti con la comunità dei catturati. Unoscambio di prigionieri con doni, beni oaltri prigionieri poteva portare, in altri

termini, ad una chiusura delle ostilitàcon trattati, mentre la schiavizzazione ola soppressione (documentata solo inepoche più tarde in Etruria, ma palese-mente di sapore molto arcaico) aprivauna piaga insanabile di continue lotte efaide tra comunità, con odi perpetuabiligenerazione dopo generazione237.

Se la morte in guerra era una possibilitàtemuta da ogni guerriero del mondoantico, come suggerisce anche l’Iliade,alla normale paura di morire “si accom-pagnava l’angoscia di possibili profana-zioni del (…) cadavere (mutilazioni, esi-bizioni della salma (...) e della mancanzadi quella sepoltura che onora abitual-

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

Due scene dalla ceramografia attica a figure rosse con guerrieri che medicano alcuni compagni feriti alle braccia; a sinistra dal cratere degliArgonauti - Firenze, Museo Archeologico Nazionale, a destra dalla tazza di Sosia - Berlino, Staatliche Museen

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mente un guerriero morto in guerra238”.Alla morte in guerra durante il periodovillanoviano maturo, dopo la metà del-l’VIII sec. a. C., un’ipotesi non del tuttoconvincente attribuirebbe la presenzadelle rare sepolture di guerrieri incine-rati nelle necropoli, prevalentementecomposte in quel periodo da inumati: laBartoloni239 la ricorda, osservando chesi potrebbe trattare di caduti sui campidi battaglia lontani dalla patria. A talecircostanza di morte bellica e peregrina,risolta per motivi pratici con l’incinera-zione sul luogo degli scontri e con unaseguente sepoltura in un cenotafio,potrebbero essersi sovrapposti i riflessidel rituale eroico omerico, sulla falsari-ga della sepoltura di Patroclo in Iliadelibro XXIII, con fini celebrativi240.Pur essendo evidente che le occasioni ele modalità di scontro nell’Etruria villa-noviana e nell’area italica della prima etàdel ferro erano estremamente varie,semplificando si può riconoscere che, daquanto sin qui osservato, si potevanoavere occasionali razzie, raid celeri con-dotti da forze molto veloci (a cavallo o sucarri) ma di ridotto peso numerico,avvantaggiate dall’effetto sorpresa;oppure imboscate, puntate, scaramucce.In caso di vere guerre si avevano invecescontri in campo aperto, con la discesa incampo di tutti gli armati disponibili con-tro l’esercito dell’insediamento avversa-rio di simile consistenza, oppure veri epropri assalti a villaggi, volti alla distru-zione totale di avversari scomodi, nelcorso dei quali non entravano in gioco

solo i ranghi completi delle truppe, maanche le difese fisse. Queste diverse tipo-logie di conflitto, secondo una loro logi-ca interna che nei secoli si è mantenutaimmutata, potevano anche essere legatetra loro da un filo di escalation: infatti loscontro di confine nelle cosiddette “areemarginali241” con scaramucce e raid fuun episodio che poté frequentementeavvenire, in un mondo senza confinidelineati242, fornendo talvolta il presup-posto per guerre più estese.

“Tale realtà trova interessanti riscontri ed affi-nità con alcune società di tipo primitivo, comead esempio quelle dell’Africa precoloniale; lìinfatti esistevano dei territori assoggettati allecomunità con confini complessi, sfumati,amorfi. Tra di essi inoltre vi era una «terra dinessuno» sfruttata occasionalmente, o destina-ta a «cassa di espansione» per la crescita dellecomunità o per la dislocazione di quelle nuove,formate da fuoriusciti come avviene nella nar-razione liviana della nascita di Roma. In Africacome nella protostoria, inoltre, i confini nonerano chiaramente stabiliti sul terreno e pat-tuiti, ma erano collocati nella memoria colletti-va che li ancorava a vaghi punti di riferimento,e venivano insegnati per tradizione orale243”.

Esempi di questi combattimenti occa-sionali, originati da eventi come sconfi-namenti, litigi, risse o omicidi preterin-tenzionali244, sono ben attestati nellaletteratura antropologica, e consentonodi “vivificare” le nostre considerazionistoriche con testimonianze dirette, lequali ci restituiscono anche la percezio-ne dei protagonisti. La testimonianza diun pigmeo, ad esempio, ci narra un’im-boscata dall’angolazione delle vittime:

“Quando era giovane, mi raccontò, il suogruppo si era inoltrato in una zona estraneaoltre Mambasa. Egli, che era ancora un ragaz-zo, stava rompendo alcune noci con il fratello.Suo padre, che in quel posto non si sentiva aproprio agio, li mise in guardia e li ammonì ditornare indietro. Essi gli promisero che loavrebbero seguito appena terminato il lavoro.Pochi minuti dopo emerse dai cespugli unMombuti. Vederlo e balzare in piedi fu tutt’u-no, ma già una freccia era piantata nel suofianco; me ne mostrò la cicatrice. Egli cadde,suo fratello lo afferrò per il braccio, ma unafreccia colpì anche lui. Alle grida dei ragazzi, ilpadre e la sua gente si affrettarono a raggiun-gere il posto. Nel combattimento che ne seguìpare che quattro uomini restassero uccisi; trecadaveri furono lasciati sul posto. L’occasioneper questo scontro sanguinoso era stata offer-ta dall’intrusione dei Mamvu-Efe in un terri-torio estraneo; era un’infrazione alla sovranitàdi un altro clan245”.

Nell’Italia centrale protostorica, se letrattative “diplomatiche”, come vedre-mo246, non portavano ad un aggiusta-mento riparatorio dopo una scaramuc-cia, e quindi si iteravano attriti di confi-ne, con raid e controraid di truppe cele-ri (appartenenti all’aristocrazia, che cosìacquisì il ruolo di prima defensio dellospazio tribale e quindi di tutore quoti-diano della comunità), l’escalation pote-va portare a battaglie in campo aperto,frutto di una vera e propria “dichiara-zione di guerra” formale247. Questiscontri, come si vedrà parlando deirituali magico-religiosi, avevano luogocon prassi consolidate, ed entro deiperiodi precisi destinati alla guerra, apartire dalla stagione a ridosso del rac-colto, ed evitando la stagione invernale

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La lancia, la spada, il cavallo

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(durante la quale era impraticabile l’ac-quartieramento).Qualora gli scontri aperti avessero vistouna sonora sconfitta di una delle dueparti -e questa soluzione non dovevaessere infrequente alla fine dell’età delbronzo-, salvo trattative in extremis sidoveva procedere, senza soluzione dicontinuità, all’assalto finale al villaggiodei perdenti, con la cancellazione di unaintera comunità, che cadeva in schiavitùo veniva sterminata. Peraltro, una voltaapertesi delle ostilità dichiarate, non eranecessario che avvenisse uno scontro incampo aperto; lo scopo finale, in caso digravi dissidi, era infatti la totale distru-zione della comunità nemica, ottenibilesolo con la cancellazione del villaggioavversario. Anche presso i boscimaniKung i conflitti avevano un andamentosimile; una testimonianza raccolta nel1953 ricorda l’esito di un primo litigiotra due orde per motivi di selvaggina,finito nella morte di un uomo, a cui feceseguito un assalto del villaggio e lo ster-minio dei suoi occupanti:

“nessuno nel campo aveva sentore del pericoloimminente. Al tramonto le donne tornaronocantando dai campi (…) e così la presenza degliabitanti si palesava al nemico. (…) Da tempol’ultimo bagliore del crepuscolo si era dileguatoe la notte avvolgeva ogni cosa nella sua profon-da oscurità (…) Frattanto i nemici si erano avvi-cinati da tutte le parti, strisciando senza rumo-re, come serpenti. Ma l’attacco non doveva averluogo subito: si sarebbe svolto alle prime lucidell’alba. Il cerchio intorno al campo si strinsesempre più. Qualcuno degli abitanti vegliavaancora qua e là. (…) Tutto era immerso in un

sonno profondo (…) I nemici strisciavano sem-pre più vicini. Ora il cielo del mattino illividì.All’improvviso da tutte le parti si scatenò l’assal-to contro gli infelici dormienti. Con gridaassordanti gli assalitori si precipitarono con lezagaglie levate. Destato così all’improvviso,qualcuno diede piglio alle armi, ma venne subi-to abbattuto. Là uno si difese col coraggio delladisperazione dall’impeto dei nemici branden-do la sua zagaglia, ma la loro preponderanza

era troppo grande, e ben presto cadde trafittodalle lance. Terrorizzate, le donne raccolsero ibambini e cercarono di scappare, ma venneroinesorabilmente trucidate. Una madre riuscì asalvare il suo piccolo; quasi scampò agli inse-guitori, ma una freccia le trafisse il fianco. Per ildolore lasciò cadere il bambino, cercò di trasci-narsi via. Presto le mancarono le forze; gemen-do crollò a terra, mentre gli inseguitori si avvi-cinavano con urla bestiali. Con pochi colpi di

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

Achille che trasporta Patroclo caduto, dall'ansa del Vaso François - Firenze,Museo Archeologico Nazionale

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kiri sfracellarono il cranio del bimbo e ucciseroanche la madre. Solo a pochi fortunati riuscìper caso di fuggire e di rifugiarsi in un accam-pamento amico. Dall’oriente si levò il sole ros-seggiante e i suoi primi raggi illuminarono unascena di orrore. I vincitori si impossessarono delcampo e ne fecero bottino. Tutto ciò che si pote-va trasportare venne portato via. Le giare diargilla vennero frantumate e venne dato fuocoalle capanne. Carichi del ricco bottino, i bosci-mani presero la via di casa. (…) Ben presto iprimi nibbi cominciarono a roteare in larghevolute sul luogo del massacro, poi vennero gliavvoltoi, e di notte iene e sciacalli banchettaro-no con il corpo degli uccisi. Se dopo qualchegiorno uno dei pochi sopravvissuti si fosse avvi-cinato, avrebbe trovato solo alcune ossa sparsequa e là, i resti dei suoi parenti. Ma anche perlui, un giorno, sarebbe giunta l’ora della rap-presaglia. Così uno stato di guerra continuaregna fra clan e tribù nemiche. Per il delitto diuno debbono pagare tutti248”.

Similmente agivano anche gli Asmat, icacciatori di teste della Nuova Guineache chiamano le loro incursioni “spedi-zioni di caccia”:

“raggiunto il villaggio prescelto approdanosilenziosamente e si dispongono ciascuno alsuo posto. Uno di essi suona il corno da caccia,come avvertimento e sfida. Se il villaggio è sor-preso nel sonno l’attacco può concludersi inbreve tempo. A rigore le vittime devono esserecatturate vive, ma la resistenza degli assalitiimpedisce spesso di ottemperare alla tradizio-ne. Ad azione conclusa gli attaccanti esplodonoin grida di gioia e annunciano la vittoria suo-nando il corno da caccia. Poi il gruppo si ritiravelocemente portandosi dietro uccisi e prigio-nieri. Spesso tra questi vi sono anche delledonne, rapite per rinfoltire la popolazionefemminile della tribù se ve n’è bisogno249”.

Nelle guerre di sterminio tra popoli pri-mitivi –come forse accadeva anche nellaprotostoria- si tenta spesso con l’ingan-no di aprirsi la strada all’abitato nemico:

“se è previsto un attacco a sorpresa contro ilnemico si manda in avanscoperta una spia ilcui compito consiste nello scoprire la via piùagevole e il momento più opportuno per pene-trare nel villaggio. Spesso l’attacco avviene dinotte, ma a volte la spia riesce a scoprire che èimminente la celebrazione di una festa e allorasi stabilisce di attaccare mentre è in corso250”.

Tradizionalmente le vie d’accesso ai vil-laggi –nella protostoria come presso iNias odierni-

“sono custodite da sentinelle e al calar del solevengono sbarrate; una ronda notturna perlu-stra il villaggio per sventare attacchi a sorpre-sa e, nei periodi di guerra, le donne si recanoa lavorare nei campi e a rifornirsi d’acqua solosotto la scorta di guerrieri armati. Nessunindigeno si azzarderebbe a trascorrere la nottefuori dal villaggio (...) Può anche accadere cheil capo del villaggio, avendo scoperto grazie adelle spie che è imminente un attacco, di-sponga delle sentinelle nei dintorni; quandoqueste danno l’allarme, i guerrieri escono dalvillaggio e si appostano nella boscaglia ai duelati del sentiero che gli attaccanti stanno per-correndo. Se l’imboscata ha successo gli attac-canti, circondati da nemici invisibili e bersa-gliati dalle loro lance, hanno di solito la peg-gio. Quando, come in questo caso, l’attacco asorpresa al villaggio nemico fallisce, la guerrasi cronicizza e si frammenta in una serie inter-minabile di incursioni, scaramucce e imbosca-te che possono proseguire per anni. Se invecel’attacco a sorpresa ha successo, gli aggressori,penetrati nel villaggio nemico, fanno stragedei suoi difensori, donne e bambini vengono

fatti prigionieri. Quando però gli attaccantiintendono vendicare una grave offesa, il mas-sacro è indiscriminato e gli abitanti del villag-gio sconfitto sono sterminati. L’oro e le armivengono presi come bottino di guerra dai vin-citori (...) gli eventuali superstiti del villaggiosconfitto sono destinati a diventare schiavi delcapo. Anche il bottino del saccheggio deveessere consegnato al (capo), il quale poi prov-vede a ricompensare i guerrieri che si sonodistinti per il loro valore251”.

Le testimonianze letterarie latine dimo-strano comunque che nella prima etàdel ferro non sempre le guerre -perscelta o per motivi militari- avevano finenel totale sterminio: la latina deditio infidem, come atto di fiducia e sottomissio-ne, era sovente accompagnata da unaannessione attraverso la clientela.

“Nella fase (...) protostorica (...) la sorte delvinto è duplice: gli sconfitti che hanno unlegame produttivo con terre prossime a quelledei vincitori ed a queste annesse, possonoessere asserviti con il vincolo della clientela(soprattutto se vi è stata una resa, una deditio infidem); gli altri, specie se non collegabili allazona conquistata e quindi non direttamentereimpiegabili nella produzione, sono conside-rati preda bellica ed eventualmente destinatial sacrificio252”.

Anche presso alcuni popoli primitivimoderni

“può accadere che gli sconfitti siano portati alvillaggio dei vincitori senza essere ridotti inschiavitù e che si verifichi un processo di assi-milazione. Spesso, quando si produce unasituazione di stallo, vengono intavolate delletrattative per arrivare ad una cessazione delle

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ostilità. In questi casi è necessario l’interventodi mediatori, costituiti da capi di villaggi neu-trali253”.

In conclusione, i vincitori delle guerredella prima età del ferro si trovavanodunque a disporre di nuovi territorisoggetti, di beni tratti dal bottino e dinuova forza lavoro, tutti elementi checonsentivano una crescita del loro inse-diamento e, in particolare, dell’aristo-crazia. Questa, fruendo di un’irreggi-mentazione già più che embrionale deiguerrieri, acquisirà rapidamente unpeso militare e sociale schiacciante: ilruolo “eccellente” dei più prestanti nel-l’età del bronzo finale e nel IX sec.a.Cera stato integrato, nell’VIII secolo, conuna “eccellenza” ereditaria all’internodelle famiglie più in vista, che andavanodivenendo anche le più facoltose254. Ilfatto che a Roma, come si è detto, i fantifossero organizzati per cellule pagani-che tradizionali, e che invece la cavalle-

ria fosse innovativamente ripartita pertribù di discendenza, evidenzia comefossero i detentori di beni –probabil-mente da quando si diffondono i morsidi cavallo nelle tombe alla metà dell’-VIII sec. a. C.- a proporre nuove formu-le di organizzazione sociale, concepitein presenza di un’economia in sviluppoed intese a tutelare nell’ereditarietà ifrutti di questa espansione economica.Anche lo studio della necropoli Lippi-Sotto la Rocca di Verucchio, come si èvisto, documenta queste azioni evoluti-ve all’interno della società.La possibilità economica di poter dis-porre di cavalli e carri, costosi rispettiva-mente nell’addestramento e manteni-mento i primi e nell’allestimento isecondi, ma estremamente redditizi conl’impiego in razzie e raid, “autofinanziò”l’arricchimento dell’élite militare e politi-ca, la quale contestualmente si mostròalla comunità tribale protourbana come

la tutrice dell’ordine e dello status quodiplomatico. Intervenendo in armicostantemente ed in modo esclusivo intutti i piccoli e frequenti conflitti di con-fine che dovevano costituire di norma la“politica estera” delle comunità protour-bane, l’aristocrazia si poneva così qualeprima defensio e come garante quotidianodella sicurezza del villaggio e del suo ter-ritorio -senza il quale il villaggio era difatto impossibilitato a mantenersi ed esi-stere-. Nelle occasionali operazioni mili-tari di vera e propria guerra aperta lapopolazione in armi si mantenevacomunque sottoposta all’élite politico-militare, che alla prestanza individualeormai aveva prima assommato e poisostituito il possesso di armi più evoluteed efficaci, una panoplia più complessa,una pratica ed un addestramento mag-giore, oltre ad un potere carismaticopregresso che si rivelava fondamentalenel condurre e stimolare le schiere255.

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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Note

1 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 321.2 Bartoloni, Berardinetti, Cygielman, De San-tis, Drago, Pagnini, Veio e Vetulonia nella primaetà del Ferro: affinità e differenze sullo sviluppo didue comunità dell’Etruria villanoviana, cit., pag.69.3 Angiola Boiardi, Patrizia von Eles, La necro-poli Lippi di Verucchio. Ipotesi preliminari per unaanalisi delle strutture sociali, in “Archeologia del-l’Emilia-Romagna”, n. I/1, 1997, pag. 35.4 Boncompagni, Liber de Obsidione Ancone, RIS,VI, III, pag. 18.5 D’Agostino, Dal Submiceneo alla cultura geo-metrica: problemi e centri di sviluppo, cit., pag.151.6 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 233.7 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit., pagg.159 e 165.8 Bartoloni, Berardinetti, Cygielman, De San-tis, Drago, Pagnini, Veio e Vetulonia nella primaetà del Ferro: affinità e differenze sullo sviluppo didue comunità dell’Etruria villanoviana, cit., pag.69.9 Bruno d’Agostino, Serenella De Natale, L’etàdel ferro in Campania, in “The colloquia of theXIII International Congress of prehistoricand protohistoric sciences, vol. 12, The ironage in Europe”, Forlì, 1996, pagg. 109 e 111.10 Bergonzi, Etruria – Piceno – Caput Adriae:guerra e aristocrazia nell’età del ferro, cit., pagg.73.11 Tale tecnica di ricerca del massimo risultatoprotettivo con la combinazione di materialidiversi a strati è, peraltro, quella oggi impie-gata per la messa a punto di efficaci e leggericorpetti antiproiettile. Attualmente infatti glieserciti adottano corpetti di tipo morbido o ditipo duro; un misto di protezioni tenere edure offre protezione da colpi di proiettile ad

alta velocità, specie per gli organi vitali, men-tre una difesa solo tenera è più adatta proteg-gere da schegge, frammenti e proiettili a bassavelocità. Anche se le protezioni per organivitali sono talvolta in durissima ceramica, ilnormale giubbetto antiproiettile odierno è inmateriale tenero balistico, nel quale i fram-menti di ordigno possono penetrare ma ven-gono rallentati dagli strati multipli di fibra; ilsuo peso oscilla tra i 3 e i 5 chilogrammi. Lafibra utilizzata può essere una fibra di carbo-nio che, come il Nomex 3, è anche ignifuga, ocome il Kevlar. E’ interessante osservare che,come nell’antichità, ancora oggi il pellame èimpiegato come protezione, ma solo a finiignifughi. Anche per gli elmetti sono utilizzatimateriali multistrato come il Kevlar; l’elmettoNATO attuale ad esempio è costituito da 18strati. Ovviamente ai corsetti ed agli elmettiviene aggiunta all’interno una imbottitura ouno scudo che attutisca il trauma da shock chesubirebbe l’organismo presso l’area del giub-betto raggiunta da un proiettile; una imbotti-tura a corpetto di circa un chilo a foggia discudo ricurvo può proteggere efficacemente iltorace di un uomo.12 Vedi André Leroi-Gourhan, L’uomo e la mate-ria, Milano, 1993, pag. 35 e segg.13 Drews, cit., pag. 193.14 Boiardi, von Eles, La necropoli Lippi di Veruc-chio. Ipotesi preliminari per una analisi delle strut-ture sociali, cit., pag. 34, nota 37.15 Sulla assenza delle armi nelle sepolture delIX sec. a. C. per non sottrarle all’impiego eper non caratterizzare troppo il sepolcro stes-so, in un clima di dissimulazione del ruolo socia-le, si vedano i capitoli iniziali, come quellosugli elmi.16 Saulnier, cit., pag. 39.17 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 89.18 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-

na, cit., pag. 66.19 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 133.20 D’Agostino, Dal Submiceneo alla cultura geo-metrica: problemi e centri di sviluppo, cit., pag.155.21 D’Agostino, Dal Submiceneo alla cultura geo-metrica: problemi e centri di sviluppo, cit., pag.151.22 Victor G. Kiernan, Il duello, Venezia, 1991,pag. 4; per i modelli antichi e primitivi si veda-no pag. 25 e segg.; per la battaglia omericacome una serie di incontri corpo a corpo simi-li a duelli, si veda pag. 34.23 Mele, Elementi formativi degli ethne greci edassetti politico-sociali, cit., pag. 60-61.24 Si veda Keegan, La grande storia della guerra,cit., pag. 390 e seg.25 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 17.26 Saulnier, cit., pag. 41.27 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 98; vedi anche pagg. 81 e 99.28 Fossati, cit., pag. 15.29 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 178-179.30 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 179-180.31 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 181.32 Vedi Saulnier, cit., pag. 41 e Snodgrass, Armie armature dei Greci, cit., pagg. 34 e 44.33 Vedi Leroi-Gourhan, cit., pag. 43 e segg., ill.66-80.34 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 71.35 Senza alcuna pretesa di raccogliere qui tuttoquanto è stato scritto sull’arte del combatti-mento tra Medioevo e Rinascimento, e diquanto è stato recentemente ricostruito sullemosse, sui colpi, sulle parate con spade, lance,scudi ed altre armi, si ricordano solo alcune

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opere che sono state consultate durante la ste-sura di questo studio, ma la cui valutazione indettaglio creerebbe una digressione oggetto diun intero volume specifico. Si tratta di FlosDuellatorum in armis, sine armis, equester et pede-ster, opera di Fiore de’ Liberi, manoscrittodegli inizi del Quattrocento, riedito a cura diGiovanni Rapisardi in versione commentata,Padova, 1998; Hans Talhofer, Medieval combat,a Fifteenth-century Illustrated Manual of Sword-fighting and Close-Quarter Combat, a cura diMark Rector, London, 2000; Filippo Vada,L’arte cavalleresca del combattimento, a cura diMarco Bubboli e Luca Cesari, Rimini, 2001;Alfred Hutton, Old Sword Play, Mineola, NewYork, 2001; M.d.R., Manuale del baratero, ovve-ro l’arte di maneggiare la navaja, il coltello o le for-bici dei gitani, Bologna, 1994; John Clements,Medieval Swordmanship, Illustrated Methods andTecniques, Boulder, 1998; John Clements,Renaissance Swordmanship, The illustrated use ofrapiers and cut-and-thrust swords, Boulder, 1997.36 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 90.37 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pag. 87.38 Hanson The Other Greeks, cit., pag. 301.39 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 182-183.40 Saulnier, cit., pag. 40.41 Anna Maria Bietti Sestieri, Roma e il Lazioantico nell’VIII sec. a. C., in “Roma e il Laziodall’età della pietra alla formazione dellacittà”, Roma, 1985, pagg. 185-186.42 Salvatore Bianco, L’armamento protostorico ita-lico, in “Armi-gli strumenti della guerra inLucania”, Bari, 1994, pag. 8.43 Bruno Chiartano, Armi e armati nella necro-poli della prima età del ferro dell’Incoronata - SanTeodoro di Pisticci, in “Armi-gli strumenti dellaguerra in Lucania”, Bari, 1994, pagg. 24-25,ed anche Bruno Chiartano, La necropoli dell’e-

tà del ferro dell’Incoronata e di S. Teodoro (scavi1978-1985), 1994, pagg. 23-29.44 Bergonzi, Etruria – Piceno – Caput Adriae:guerra e aristocrazia nell’età del ferro, cit., pagg.64-68.45 Boiardi, von Eles, La necropoli Lippi di Veruc-chio. Ipotesi preliminari per una analisi delle strut-ture sociali, cit., pag. 34.46 Bergonzi, Etruria – Piceno – Caput Adriae:guerra e aristocrazia nell’età del ferro, cit., pag. 73-74.47 Tronchetti, L’iconografia del potere nella Sarde-gna arcaica, cit., pagg. 216-218.48 Mario Torelli, La società etrusca, Roma, 1987,pagg. 55-56.49 Per altre testimonianze sull’importanza dei“segni” distintivi del valore bellico nelle socie-tà si veda Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 141-143, e pagg. 377-378.Riguardo la distinzione per fasce d’età conseniores e iuniores, sarà bene ricordare che “laconcezione della gerarchia militare è, nellasua forma abituale e potremmo dire normale,una gerontocrazia. Nei due corpi paralleli chein origine corrispondono a due forme diversedi iniziazione, quello degli ufficiali e quello deisoldati, l’avanzamento normalmente vienefatto secondo l’anzianità”. Da Bouthoul, Leguerre, cit., pag. 396. Di fatto, “in tutte le guer-re, le perdite dirette consistono specialmentenella morte di uomini giovani. Questo fatto ècostante e dipende da una tradizione militaregeneralissima e antichissima. Quando sihanno combattenti di età diverse, ai pericolipiù gravi si suole esporre i più giovani (...) L’or-dine di battaglia degli eserciti romani consi-steva in tre linee successive per ordine di età,e in prima linea c’erano i più giovani. Tuttisanno cosa volesse dire essere in prima lineanei terribili corpo a corpo del combattimentoantico. I veterani erano tenuti di riserva e nonintervenivano che raramente. Si aggiunga che

anche dal punto di vista sanitario, i soldati gio-vani resistono meno bene dei veterani alleintemperie, alle privazioni e alle malattie”. DaBouthoul, Le guerre, cit., pag. 285.50 Drews, cit., pagg. 169-170.51 Cristiano Iaia, Simbolismo funerario e organiz-zazione sociale a Tarquinia nelle fasi iniziali dell’etàdel ferro, in “Preistoria e Protostoria in Etruria,Atti del secondo incontro di studi, vol. 1”,Milano, 1995, pag. 251.52 Camerin, L’Italia antica: Italia settentrionale, in“Carri da guerra e principi etruschi”, cit., pag.33.53 d’Agostino, De Natale, L’età del ferro in Cam-pania, cit., pag. 109.54 Per i popoli dell’antico testamento si veda inHobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit., pagg.74-77.55 Vedi nei capitoli sulle lance e sulle spade.56 Iaia, Simbolismo funerario e organizzazionesociale a Tarquinia nelle fasi iniziali dell’età delferro, cit., pagg. 250-252.57 Ugo Barlozzetti, L’arte della guerra nell’etàdella Francigena, Firenze, 1998, pag. 8.58 Scarduelli, L’isola degli antenati... cit., pag.128.59 Fossati, cit., pag. 6.60 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 56.61 Per noi parametri quali lo status economicoe la partizione censuaria appaiono assoluti edi facile comprensione, in quanto ancoraattuali, ma per capire la realtà antica, spo-gliandosi della nostra forma mentis, va osserva-to che nel lontano passato -e presso vari popo-li primitivi- il benessere sottostava a livelli didignità sociale, di gruppo, di nascita o di ini-ziazione diversi, nonostante per noi tali para-metri appaiano lontani o poco comprensibili. 62 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 68.63 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,

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pagg. 225-226.64 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 64.65 Delbruck, Warfare in Antiquity, cit., pagg. 39e 64.66 Hanson, The Other Greeks, cit., pagg. 210-211.67 Si veda in Ernesto “Che” Guevara, La guer-ra per bande, Milano, 1967, pagg. 42, 43, 49,50.67 Boiardi, von Eles, La necropoli Lippi di Veruc-chio. Ipotesi preliminari per una analisi delle strut-ture sociali, cit., pagg. 35-38.69 Andrea Zifferero, Rituale funerario e formazio-ne delle aristocrazie nell’Etruria protostorica: osser-vazioni sui corredi femminili e infantili di Tarqui-nia, in “Preistoria e Protostoria in Etruria, vol.1”, Milano, 1995, pag. 259.70 Tronchetti, L’iconografia del potere nella Sarde-gna arcaica, cit., pagg. 217-218.71 Ipotizzato da Enrico Fiumi, come riportatoda Enzo Salvini, Il territorio e le strade della Tosca-na nel XIII secolo, in “Guerre e assoldati inToscana 1260-1364”, cit., pag. 162.72 Barlozzetti, L’arte della guerra nell’età dellaFrancigena, cit., pag. 48.73 Delbruck, Warfare in Antiquity, cit., pag. 33.74 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 145.75 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 59.76 Saulnier, cit., pag. 41.77 Snodgrass, Armi e armature dei Greci, cit., pag.58.78 Hanson The Other Greeks, cit., pag. 230.79 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit., pag.41.80 Macnamara, The Etruscans, cit., pag. 10.81 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit., pag.158.82 Come i manipoli romani, vedi G. B. Foschi-ni, Corso e ricorso storico nell’arte della guerra, in

“Rivista Militare Italiana”, anno II, n. 5, mag-gio 1928, VI, pagg. 729 e 730.83 Barrois, cit., pagg. 110-111.84 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 36 e 217.85 Hanson, The Other Greeks, cit., pagg. 230-231.86 Bartoloni, De Santis, La deposizione di scudinelle tombe di VIII e VII secolo a.C. nell’Italia cen-trale tirrenica, cit., pag. 278.87 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 74.88 Si veda in Giovanni Brizzi, Società e guerranelle culture antiche dell’Italia, in “Antiche gentid’Italia”, Roma, 1994, pag. 8989 Anna Maria Liberati, Francesco Silverio,Organizzazione militare: esercito, vol. 5 di “Vita ecostumi dei Romani antichi”, Roma, 1988,pagg. 30-31.90 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 96.91 Drews, cit., pag. 182.92 Secondo un uso ancora presente nell’edu-cazione alle armi dei ragazzi in alcuni popoliprimitivi attuali, vedi Scarduelli, L’isola degliantenati..., cit., pag. 163.93 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 169.94 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 40.95 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 154.96 Delbruck, Warfare in Antiquity, cit., pag. 79.Sulla reale ampiezza delle cariche nell’antichi-tà e nelle battaglie della guerra premoderna,si vedano le interessanti considerazioni in Del-bruck, pagg. 74-76, dove si parla della caricadi 8 stadi a Maratona, e di simili cariche deiDanesi nel 1864 su una distanza di 400 passi,fallite ad appena 100 dalla partenza. Ancorain Delbruck – pag. 86- si legge, riguardo lacapacità di attaccare di passo e di corsa, chenel manuale di addestramento della truppaprussiana era riportato di far correre le trup-

pe con equipaggiamento per due minuti dicorsa, 5 al passo, 2 di corsa. Di conseguenza“the speed amounts to 165 to 175 paces perminutes. That gives a maximum of distancethat may be covered at a run with equipment350 paces, and the the Director of the MilitaryCentral Physical Training School was kindenough to tell me personally that he conside-red 2 minutes, or 300 to 350 paces, as themaximum that a march column with fieldequipment might run and still arrive beforethe enemy with undiminished combatstrength. And in that connection, the totalburden of a Greek hoplite was very conside-rably heavier than that of a Prussian infantry-man (for the latter, 58 pounds, for the former,72)”.Nell’antichità, una volta accettato lo scontro abrevissima distanza almeno uno dei due grup-pi armati si lanciava all’assalto; tale evento,allora come oggi, in tutte le guerre, si verificasecondo spinte psicologiche invariate. Su taleaspetto dell’azione bellica una delle testimo-nianze raccolte nel volume di Claude BarroisPsicoanalisi del guerriero, cit., pag. 156, ci pareilluminante per capire, attraverso i secoli, ilclima nel quale si verifica da sempre, e di con-seguenza il suo peso nel definire le virtù del-l’aretè guerriera: “Secondo l’opinione genera-le, il momento è durissimo, richiede la massi-ma concentrazione; per il guerriero, in realtà,avviene tutt’altra cosa: si sente d’improvvisoindifferente, come liberato, e ha l’impressionedi essere invulnerabile; psicologicamente, ilsenso di invulnerabilità offre una protezionemeravigliosa. In compenso, l’illusione di esse-re onnipotente conduce invece sempre drittoalla catastrofe”. Queste parole sembrano l’ecodi quanto rilevato dallo Hanson sull’assaltodegli opliti: “il desiderio dell’uomo armato dilancia di andare a colpo sicuro, di abbatterel’avversario con un solo colpo violento, era un

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potente narcotico, e non c’era spazio neppureper un ragionamento razionale”. Da Hanson,L’arte occidentale della guerra, cit., pag. 154.97 Hanson,. L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 66.98 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 158-159.99 Hanson, The Other Greeks, cit., pagg. 266-267.100 Delbruck, Warfare in Antiquity, cit., pag. 88.101 Delbruck, Warfare in Antiquity, cit., pag. 89.102 Fossati, cit., pag. 8.103 Balbi, L’esercito longobardo, cit., pag. 19.104 G. Ferrari Pietrogiorgi, L’allievo ufficiale -Raccolta dei Regolamenti militari - Edizione perCavalleria ed Artiglieria, Torino, 1934, pag.XIX.105 Anche Machiavelli riteneva che “il nemiconon può fare altro che ricevere le loro lance suipropri scudi e avventarsi su di loro, spada allamano”. Niccolò Machiavelli, Dell’arte dellaguerra, in “Arte della guerra e scritti politiciminori”, Milano, 1967, pag. 360.106 Drews, cit., pag. 177 e Coles, cit., pag. 145.107 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 86.108 I piccoli gruppi all’interno degli schiera-menti militari attraversano l’intera storia mili-tare; non ultimo -vista l’attuale divisioneNATO di gruppi all’interno delle squadre- eraquello della cosiddetta “quadriglia”, parte del-l’addestramento passato del corpo dei Bersa-glieri. “La quadriglia, come dice ovviamente ilnome, era composta di quattro bersaglieridesignati coi numeri da uno a quattro; con ilnumero uno il capo-quadriglia cioè colui checomandava e dirigeva la piccola formazionenelle evoluzioni e nel combattimento (...) laquadriglia poteva essere formata: in fila, inlinea, in gruppo”. Da Alfredo Bartocci, Com-battere da Bersaglieri, in “Diana/Armi” n. 11,novembre 1986, pag. 8. Sul fatto che “in alcu-

ne tradizioni militari questo senso di «appar-tenenza» è incrementato ufficialmente e semi-ufficialmente attraverso diversi mezzi” e che“molti soldati confermano gli stretti legamiche hanno sviluppato in combattimento con icirca dieci uomini con i quali hanno vissuto,combattuto e qualche volta sono morti”, siveda in Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia,cit. pagg. 86-87.Relativamente al gruppo “spontaneo” è statorilevato che, nonostante il trascorrere dei seco-li, all’interno degli eserciti sono sempre presen-ti dei tipi peculiari di gruppo psicologico, suiquali si diffonde lo studio del Barrois: “I due gruppi essenziali per il guerriero sono:- il gruppo esteso (dal reggimento alla com-pagnia), che presenta un tale numero di effet-tivi da rendere impossibile l’identificazione diogni singolo membro (...)- il gruppo primario, o gruppo ristretto, corrispon-dente al plotone o alle sue sottodivisioni, sicaratterizza per la possibilità di percepire indi-vidualmente ciascuno, per la possibilità discambi effettivi tra i membri, per la forte inter-dipendenza e per la spiccata necessità di soli-darietà reciproca. E’ il tipo di gruppo che sidefinisce col «noi». Il gruppo è detto «prima-rio» perché è la prima forma di vita socialedopo la famiglia, al di fuori dei legami diparentela”. Da Barrois, cit., pag. 213.Era dunque il “gruppo primario o ristretto”quello che caratterizzava le non numerosetruppe all’inizio dell’età del ferro in area itali-ca, al cui interno le “sottodivisioni” dovevanoessere appunto al comando di un “emergen-te” carismatico armato di spada. Di questoristretto gruppo militare “l’importanza è statarilevata da lunghissimo tempo nella storia, inparticolare da Machiavelli e da Clausewitz (...)studi hanno dimostrato l’importanza fonda-mentale del gruppo primario per il morale, ilcompimento di missioni e la prevenzione di

disfatte (...) Per terminare questo breve pano-rama, va ricordato come l’appartenenza algruppo determini un fenomeno ben cono-sciuto nell’esercito: lo spirito di corpo. Analiz-zato in modo rigoroso, questo fenomeno puòessere inteso come il risultato di un processodi identificazione reciproca tra i membri delgruppo. E’ lecito definire questo effetto comeideologia di gruppo (...) Il manifestarsi dell’i-deologia di gruppo, attraverso lo «spirito dicorpo», richiama la potenza del gruppo, la suacapacità di chiamare all’azione i membri conla forza della certezza, in un sentimento ditrionfo che ha talvolta qualcosa di inebriante,che non si lascia frenare da dubbi e reticenze.In compenso, l’ideologia di gruppo e la suaforza spiegano anche come il gruppo diventispesso la vera patria in nome della quale cia-scuno è pronto a uccidere o morire”. Da Bar-rois, cit., pagg. 214-216.Tali valutazioni psicologiche, assieme ai docu-menti archeologici, sottolineano dunque l’im-portanza dei “piccoli gruppi” -vedi ancoraBarrois, pagg. 139-140- gestiti da spadaccini.Sulle caratteristiche peculiari degli “emergen-ti”, oltre all’età, va infatti tenuta presente lacomponente “carisma”, sulla quale studi dipsicotecnica militare effettuati alla fine delsecondo conflitto mondiale, con questionaridi preferenza in squadriglie di aviatori, hannodimostrato che “comandanti di squadrigliamolto elevati in grado non vennero scelti danessuno; alcuni giovani subalterni, invece, sierano guadagnata la fiducia di molti colleghi.L’indagine, insomma, rivelò quelli che erano iveri capi dei piccoli gruppi umani, indipen-dentemente dai ruoli di anzianità e dalle notedi servizio dei superiori. E anche qui, le pochesquadriglie che vennero formate seguendo,per quanto possibile, le indicazioni e le prefe-renze degli aviatori che le dovevano compor-re, dettero risultati migliori nel combattimen-

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to, ed ebbero più basse percentuali di perdi-te”. Da Camillo Pellizzi, Elementi di sociologia,Torino, 1954, pag. 25.109 Torelli, La società etrusca, cit., pag. 56.110 Vedi nel capitolo sull’addestramento.111 In tal senso si è espresso Konrad Lorenz; siveda al riguardo Eibl-Eibesfeldt, Etologia dellaguerra, cit., pag. 228112 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.pag. 86.113 Pellizzi, Elementi di sociologia, cit., pagg. 30 e31.114 Su tale tema, datato ma di interesse per laspecificità, lo studio di Vincenzo Costanzi Letribù genetiche nel mondo classico, in “Annali delleUniversità toscane”, Nuova Serie vol. V, fasc.VI, Pisa, 1920, pagg. 203-231.115 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 135.116 Traduzione da Balbi, L’esercito longobardo,cit., pag. 19.117 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pagg. 30-32.118 Mele, Elementi formativi degli ethne greci eassetti politico-statali, cit., pagg. 34-36119 Giovanni Pugliese Carratelli, Il mondo grecodal secondo al primo millennio a.C., in “Storia eciviltà dei Greci – Origini e sviluppo dellacittà”, cit., pag. 10.120 Mele, Elementi formativi degli ethne greci eassetti politico-statali, cit., pagg. 38-40.121 Mele, Elementi formativi degli ethne greci eassetti politico-statali, cit., pagg. 39 e 50-51.122 Ettore Lepore, Città-stato e movimenti colo-niali: struttura economia e dinamica sociale, in“Storia e civiltà dei Greci – Origini e sviluppodella città”, cit., pagg. 187-189.123 Si veda diffusamente in Scarduelli, L’isoladegli antenati..., cit., in particolare pagg. 73-79.Su altre duplici ripartizioni dei gruppi umani,in questo caso per area territoriale e per clantotemico, si veda Edward E. Evans-Pritchard,

Teorie sulla religione primitiva, Firenze, 1978,pagg. 116-117, relativamente agli australianiBlackfellow, cacciatori-raccoglitori di tipo prei-storico che vagano in orde, all’interno del ter-ritorio della tribù composta da più orde, mapresso i quali ciascuno alla nascita viene lega-to ad un animale o ad una pianta, totem delclan124 Torelli, La società etrusca, cit., pag. 55-56.125 Torelli, La società etrusca, cit., pag. 56.126 Si veda in Pugliese Carratelli, Il mondo grecodal secondo al primo millennio a.C., cit., pag. 17.E’ probabilmente da ritenere affine la struttu-razione attestata nel mondo omerico, doveogni “insediamento si trova (…) inserito inuna realtà che lo trascende: o non è che unodegli insediamenti in cui si articola un deter-minato gruppo (…); o, se è l’unico insedia-mento connesso a un gruppo, è questo grup-po che qualifica l’insediamento e non vicever-sa”. Da Mele, Il mondo omerico, cit., pag. 44.127 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 319.128 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pag. 194.129 Torelli, La società etrusca, cit., pag. 58.130 Torelli, La società etrusca, cit., pagg. 56-57.131 Vedi Bianco, L’armamento protostorico italico,cit., pag. 8.132 Iaia, Simbolismo funerario e organizzazionesociale a Tarquinia nelle fasi iniziali dell’età delferro, cit., pag. 251.133 Clarissa Belardelli, Le necropoli come indica-tori della struttura sociale delle comunità villano-viane: il IX secolo a Bologna, in “Preistoria e Pro-tostoria in Etruria, vol. 1”, cit., pag. 210.134 Si veda Tronchetti, L’iconografia del poterenella Sardegna arcaica, cit., pagg. 217-218.135 Mele, Il mondo omerico, cit., pag. 60.136 McC. Adams, La rivoluzione urbana – Meso-potamia antica e Messico preispanico, cit., pag.123.137 Belardelli, Le necropoli come indicatori della

struttura sociale delle comunità villanoviane: il IXsecolo a Bologna, cit., pag. 210.138 Boiardi, Von Eles, La Necropoli Lippi diVerucchio. Ipotesi preliminari per una analisi dellestrutture sociali, cit., pagg. 29 e 32.139 Boiardi, Von Eles, Verucchio, la comunità vil-lanoviana: proposte per un’analisi, cit., pag. 49.140 Vedi Zifferero, Rituale funerario e formazionedelle aristocrazie nell’Etruria protostorica, cit., pag.259.141 Esempi in tal senso sono presenti a Veruc-chio, come già citato.142 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit., pag.95.143 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit., pag.162.144 Nella Firenze medievale si faceva ricorso alreclutamento territoriale quale tutela delsenso di comunità, raccogliendo i combatten-ti per sestieri; “questa organizzazione persestieri non è limitata affatto alla cavalleria masi estende a tutto l’apparato militare cittadino(…) Il sestiere può essere definito come unaggregato di comunità all’interno della città:caratterizzato dal tessuto urbano, dalle funzio-ni religiose e civili che vi hanno sede e dallefamiglie che vi abitano, con tutta la complessarete di rapporti che venivano a costituirsi fraqueste componenti. Ogni sestiere compren-deva al suo interno un certo numero di«popoli», diverso per ogni sestiere (…) Nelparticolare il «popolo» era il centro intorno alquale si aggregavano interessi e necessità ditutti gli abitanti della vicinanza. I sesti, dun-que, e la città intera, altro non erano se non unmosaico di popoli: piccole e gradi comunità diuomini accomunati dalla stessa chiesa, dentroe intorno alla quale si consumava la vita dellamicrocomunità”. Da Marco Giuliani, L’organiz-zazione militare a Firenze fra XIII e XIV secolo –Forme di aggregazione e caratteri generali dell’eser-cito fiorentino, in “Guerre e assoldati in Toscana

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1260-1364”, cit., pag. 41.145 Scarduelli, L’isola degli antenati..., cit., pag.79. 146 In particolare si tratta di due riproduzionidelle spade in bronzo rinvenute a Piano diSpagna ed a Cetona, che nel catalogo di DelTin Armi Antiche compaiono rispettivamentecome “spade dell’età del bronzo 210A e215A”. Del Tin, basandosi sui disegni pubbli-cati da Vera Bianco Peroni in Le spade dell’Italiacontinentale, Monaco, 1970, ha ricreato nellasua bottega artigiana di Maniago degli origi-nali in cera sui quali ha preparato degli stam-pi in terra, similmente a quanto avveniva nel-l’antichità con stampi simili o in pietra. Impie-gando una lega molto simile a quella antica,con un elevato quantitativo di rame, ha pro-dotto queste armi delle quali forse solo lospessore può essere maggiore all’antico, dicirca 2 mm.147 Peraltro quest’arte “rusticana” era untempo ben diffusa nei Paesi mediterranei.148 Si veda Quattrocchi, The Sicilian Blade, cit.,pag. 42.149 Per questi colpi si veda Camille Pagé, LaColtellerie dèpuis l’origine jusq’a nos jours, riporta-to in Giancarlo Baronti, La coltelleria spagnolaalla fine dell’Ottocento, Scarperia, 1994, pagg.10-14; ed M.d. R., Manual del baratero, o arte demanejar la navaja, el cuchillo y la tijera de los gita-nos, pubblicato in italiano nel Manuale del bara-tero, Bologna, 1994. A tale sistema di combat-timento si attiene anche il più recente The Sici-lian Blade – The art of Sicilian Stiletto Fighting, diVito Quattrocchi, cit.,.150 Oltre ai due scritti citati alla nota prece-dente, sulla necessità di saper schivare erispondere si veda quanto riportato in Qua-derni di grafica e anastatica del 700, cit., pag. 4,ed in Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 273.151 Per questa e per le precedenti note, oltreche per le doti di gentilezza e disponibilità,

ringrazio di cuore il cav. Fulvio Del Tin, la cuiproduzione armiera storica abbraccia peraltromolti secoli. La passione con la quale Del Tinconosce le spade, si interessa delle loro carat-teristiche e del loro uso va ben al di là di quan-to occorre ad un artigiano per il suo lavoro;parlando con lui, pur brevemente, è emersoquanto ricostruire con fedeltà, sperimentare evalutare possa offrire grandi quantità di infor-mazioni reali alle quali lo studio teorico nonpuò giungere.152 Martinelli, Le armi e la guerra, in “Gli Etru-schi - mille anni di civiltà”, Firenze, 1985,pagg. 212-213.153 Arturo Volpini, La spada – manuale pratico,Milano, 1975, pagg. 17-20.154 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 66.155 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 92-93.156 Hobbs, L’arte delle guerra nella Bibbia, cit.,pag. 66.157 Analizzando nel complesso lo scontrocorpo a corpo, è evidente che per esso eranecessaria nella psicologia del combattente, adifferenza di oggi, anche una forte bellicosità:“siccome il combattente era sempre a piccolis-sima distanza, la forma di coraggio che essorichiedeva era di natura soprattutto offensiva.Il combattente menava lui stesso con le suemani colpi su colpi sull’avversario e ne riceve-va anche lui dal nemico che gli si trovava per-sonalmente davanti”. Da Bouthoul, Le guerre,cit., pag. 404.158 Cosa poteva essere uno scontro aperto trareparti numerosi lo tratteggia, nel suo bel sag-gio sulla battaglia oplitica, lo Hanson: “il sudo-re che grondava, la vista offuscata dall’elmo, ilvorticare di polvere e di corpi li rendevanoprigionieri nella confusa massa umana; e inol-tre gli uomini erano completamente assordatidal fragore provocato in buona parte dai colpi

delle punte delle lance nemiche (...) Né vadimenticato l’odore acre del sudore di (...)uomini che penavano sotto il sole, l’odore delsangue e degli intestini che scaturivano dalleferite aperte e talvolta il puzzo degli escre-menti dei soldati atterriti o appena uccisi”. DaHanson, L’arte occidentale della guerra, cit., pag.171.159 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 207-208. E’ noto che nei combattimen-ti antichi o a margine di essi, il terrore dispe-rato portava vari soldati a orinarsi o defecarsiaddosso, vedi Hanson, L’arte occidentale dellaguerra, cit., pagg. 115-116.160 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pagg. 81-82.161 Nel mondo scandinavo, tuttavia, questafuria incontrollabile che rendeva alcuni guer-rieri degli invasati è stata ritenuta “a form ofparanoia, possibly related to a belief inlycanthropy, while in some cases it may evenhave been prompted by an epileptic attack.Whatever it was, il was clearly an hereditarycondition rather than something that couldbe learnt. One account actually tells us that aparticular man’s 12 sons were all berserks”.Ian Heath, The Vikings, London, 1996, pag.47.162 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pagg. 85-86.163 Si veda al riguardo in Hanson, L’arte occi-dentale della guerra, cit., pag. 140 e segg.164 Sappiamo comunque dall’Odissea dell’esi-stenza di un rimedio denominato nepente che,mescolato al vino, ha effetto sedativo: “chi loassume, dopo sciolto in un cratere, per quelgiorno non verserebbe lacrime né se glimuore il padre o la madre, né se davanti a luiil fratello o il caro figlio sia abbattuto da spadae lo veda coi suoi occhi” (Odissea IV, 219-232);alcune ipotesi vi vedono un composto conte-nente hashish o oppio. Si veda in Botto Micca,

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Omero medico, cit., pagg. 181 e segg. 165 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 456.166 Alcuni studi hanno messo in collegamentol’impiego della tattica sciamante con i popolidediti tradizionalmente alla pastorizia, indivi-duando delle affinità nella comune necessitàdi tenere sotto controllo un numero consi-stente di individui con minacce ed aggira-menti; “tutti i metodi di battaglia dei popolidediti alla pastorizia che la storia in varie fasiha registrato evidenziano esattamente questomodello”. Da Keegan, La grande storia dellaguerra, cit., pag. 165.167 Brizzi, Società e guerra nelle culture antiche del-l’Italia, cit., pag. 89.168 Drews, cit., pag. 210.169 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,pagg. 165-166.170 Warry, Warfare in the Classical World, cit.,pagg. 50-51.171 E’ quanto sosteneva Ernesto “Che” Gueva-ra in La Guerra per bande, cit., pagg. 13-14.182 Hanson, The Other Greeks, cit., pagg. 310 e315.173 Simonetta, Il cavallo nella storia dell’Asia anti-ca, cit., pag. 18.174 Vedi Moscardelli, Cesare dice, cit., pagg. 33-34.175 Hyland, Training the Roman Cavalry, cit.,pag. 147.176 Cardini, La guerra nella Toscana bassomedie-vale, cit., pag. 29. Altri dati sulle cavallate sonoin Giuliani, L’organizzazione militare a Firenze traXIII e XIV secolo, cit., pag. 40.177 De Santis, Merlo, De Grossi Mazzorin,Fidene, cit., pag. 44.178 Vedi in Lissarrague, L’autre guerrier, cit.,pagg. 203-204, e per il IV sec.a.C., in Hanson,The Other Greeks, cit., pag. 242.179 Vedi anche in Hobbs, L’arte della guerra nellaBibbia, cit., pag. 48.180 Tutto ciò ebbe importantissimi riflessi,

come si può arguire, sulla percezione stessadello spazio all’interno della forma mentis deipopoli di cultura villanoviana; la maggiorefacilità di spostamento e di esposizione adinvasioni da parte di gruppi più lontani fececrescere l’estensione dello “spazio vissuto”attorno ai villaggi, ovvero dell’area con laquale il gruppo tribale preurbano entrava inrelazione. Si veda Maurizio Martinelli, Note sulcontrollo del territorio nell’Etruria villanoviana, in“L’Universo”, n. 5, anno LXXVI - ottobre1996, pagg. 687-694..181 Barlozzetti, L’arte della guerra nell’età dellaFrancigena, cit. pag. 46.182 Vigneron, cit., pag. 279 e segg.183 Balbi, L’esercito longobardo, cit., pag. 29.Sui metodi di combattimento del lancieredella prima età del ferro possiamo ritenere inuso all’incirca le posizioni e i metodi di baseancora praticate dai lancieri a cavallo nellaprima metà di questo secolo. Da un manualemilitare riportiamo le posizioni di “in guar-dia” e di “offesa”:“Posizione di in guardiaa) innanzi in guardia.(...) alzare l’asta verticalmente, fino a che ilpugno sia all’altezza della mammella destra, leunghie indietro, l’avambraccio contro l’asta;abbassare vivamente la punta in avanti, inmodo che l’asta sia orizzontale, in equilibrio,stretta sotto l’ascella destra fra il braccio e ilcorpo e impugnata con le unghie volte in su;il corpo avanti;b) a destra (o a sinistra) in guardia.Volgere prontamente il busto dalla parte indi-cata, mantenendo la lancia nella stessa posi-zione (...)Le posizioni da prendere contro truppe apiedi corrispondono rispettivamente a quelleindicate contro cavalieri, con la differenza chela punta della lancia deve essere diretta alpetto di un uomo a piedi (...)

OffesaE’ costituita dai colpi di punta, che sono oriz-zontali o dall’alto in basso, secondo che direttiad un uomo a cavallo, o ad un uomo a piedi.Nel vibrare una puntata, si deve mantenere lapunta della lancia alquanto più bassa delpugno, dirigendola al busto dell’avversario; sideve perciò impugnare la lancia un po’ dietroal centro di gravità; il pugno deve essere benchiuso, il braccio flessibile (...) Conviene abi-tuare i lancieri a dar colpi di seguito in dire-zioni diverse.A) Colpi di punta orizzontaliDalla posizione di innanzi in guardia:Innanzi puntate.Vibrare una puntata, avanzando la spalladestra, piegando il corpo avanti e distenden-do interamente il braccio; la mano destra conle unghie in alto, l’asta appoggiata sull’avam-braccio destro e sotto l’ascella. Vibrato il colpo,riprendere subito la posizione di innanzi inguardia.”Da Ferrari Pietrogiorgi, L’allievo ufficiale..., cit., ,pagg. XVIII-XIX.184 Si ricorda ad esempio qualche episodionegli scontri di Cesare in Britannia, come inMoscardelli, Cesare dice, cit., pag. 246-247.185 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 86.186 Bartocci, cit., pag. 10.187 Vedi in Hanson, L’arte occidentale della guer-ra, cit., pagg. 199-200.188 Hanson, The Other Greeks, cit., pagg. 234 e 249.189 Vigneron, cit., pag. 292.190 Vigneron, cit., pag. 292.191 Vigneron, cit., pagg. 248-249.192 Drews, cit., pag. 138 e pag. 140.193 Colonna, L’Italia antica: Italia centrale, cit.,pag. 21.194 Colonna, L’Italia antica: Italia centrale, cit.,pag. 22.195 La citazione è da Guevara, La guerra perbande, cit., pag. 22.

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196 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 217, 356-357, 483.197 La citazione è da Guevara, La guerra perbande, cit., pag. 111, a dimostrazione dellaperenne tendenza nei millenni ed a qualun-que latitudine ad esagerare eventi riferiti almondo guerriero. Molte delle “guerre” rac-contate nell’epos greco e latino non dovetteroessere altro che scaramucce o raid ad opera diben pochi armati. Anche nell’antico Israele dietà biblica “del periodo dei giudici conoscia-mo parecchie battaglie (in effetti poco più chescaramucce)…”; da Hobbs, L’arte della guerranella Bibbia, cit., pag. 133. Vari antropologihanno rilevato presso popoli primitivi attualiche “i racconti sono viziati da una marcatapropensione ad alterare i fatti in modo da pre-sentare nella luce migliore le imprese del vil-laggio cui il narratore appartiene (...) La faci-lità con cui (...) mi venivano enumerate guer-re combattute in anni recenti mi lasciò moltoperplesso fino a quando appurai che si tratta-va, in realtà, di litigi e risse fra pochi individuiarmati di bastone”. Da Scarduelli, L’isola degliantenati..., cit., pagg. 171-172.198 Vedi Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia,cit., pag. 132.199 In tale senso si ricordano le testimonianzedi varie fonti, quali ad esempio la Bibbia (2 Re7, 7) e Cesare nel De Bello gallico, il quale ricor-da che egli stesso fece allontanare i cavalli dalfronte di battaglia per non permettere a nes-suno di pensare alla fuga.200 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 153, 169,278, 285, 532.201 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 206; siveda anche a pag. 309.202 Vedi Ministero della Guerra – DirezioneGenerale di Sanità militare, Corso informativosul Servizio Sanitario in Guerra, Roma, 1938,pag. 105.203 Anche nel mondo biblico sono molte le

battaglie che sfociano in un vero sterminiodegli avversari una volta rotta la linea; si vedain Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 79.204 “La disuguaglianza delle perdite, l’arretra-mento di uno dei due avversari o anche unsemplice successo morale, la conferma delprestigio goduto dall’altro” riuscivano a deter-minare il “momento psicologico in cui in unodei due avversari comincia a farsi chiara lacoscienza dell’insuccesso. E’ allora che definitiva-mente si afferma l’ascendente del grupposociale vincitore. Nei casi più tipici, che sihanno precisamente con le battaglie più acca-nite, questa coscienza si rivela in modo quasiimprovviso (...) Si produce dunque, quando lebattaglie sono accanite, un brusco capovolgi-mento del tono psichico. (...) Un altro aspetto diquesto momentum (nel significato che questaparola aveva in origine nella lingua latina, nelsignificato cioè di indicare l’attimo preciso incui l’ago della bilancia comincia a piegare daun lato) è che esso si accompagna con unarapida disgregazione dei legami sociali. (...) Nonc’è più (...) né gerarchia né prestigio né disci-plina né valori. E’ uno sconvolgimento totale(...) Quali sono i fattori di questa demoralizza-zione? Il principale è la constatazione delleperdite (...) fanno sì che il soldato irresistibil-mente pensi alla sua propria morte. Se questaossessione domina anche il resto della truppa,ne viene di conseguenza l’immediata fratturadi tutti i legami sociali: tutto il resto pensa,sente e reagisce come uno che ormai è al difuori e al di là del nostro mondo (...) Sentendo-si virtualmente morto, si sente anche improvvisa-mente liberato da tutti gli obblighi sociali”. Da Bou-thoul, Le guerre, cit., pagg. 167-169. Su questomomento di diffusione del panico tra le fileche precede la rotta è interessante anchequanto scritto da Hobbs in L’arte della guerranella Bibbia, cit., pag. 140: “Come l’ha descrit-

to uno storico, «una volta che il panico si infil-tra, esso sviluppa un proprio impeto frenetico.Effettivamente, coloro che sono coinvolti sem-brano perdere molte delle loro caratteristicheumane, e diventano animali, senza difesadavanti all’isteria del branco». Una descrizio-ne meno prosaica di un esercito nel panico sitrova nella preghiera biblica, «Siano confusi ecoperti di ignominia, quelli che attentano allamia vita; retrocedano e siano umiliati quelliche tramano la mia sventura. Siano come pulaal vento» (Salmo 35, 4-5)”.205 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 116.206 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 196-198. Tale problematica alternativaè rimasta del tutto intatta attraverso i millen-ni, come nota lo Hanson nelle sue pagg. 196-200. La visione del campo di battaglia a scon-tro ultimato spesso doveva fotografare l’acca-duto, in quanto “il teatro della carneficinadoveva essere asimmetrico: un monticello dimorti delle due parti più o meno al centrodella pianura e poi, salvo qualcuno colpito daun’arma da lancio, un’assenza quasi completadi corpi da una parte del mucchio (...) dall’al-tra parte invece il terreno degli sconfitti eratalvolta coperto dai corpi dei morti e dei feri-ti (...) gli uomini abbattuti mentre fuggivano(...) queste erano le spoglie di uomini spaven-tati, atterriti, che erano stati massacrati anoni-mamente da tergo da un nemico non visto,facile preda della armi nemiche in quegli ulti-mi, confusi istanti del panico”. Da Hanson,L’arte occidentale della guerra, cit., pagg. 215-216.207 Botto Micca, Omero Medico, cit.,pagg. 59-60.208 Botto Micca, Omero Medico, cit.,pag. 61.209 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 232-233.210 Ministero della Guerra, Corso informativo sul

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Servizio Sanitario in Guerra, cit., pag. 71.211 Vedi Botto Micca, Omero medico, cit. pagg.155 e segg. 212 Vedi Botto Micca, Omero medico, cit. pagg.157-159. Per questo rimedio farmacologico siè pensato all’Achillea millefolium, mentre in altricasi si fa ricorso a succhi lenitivi o cicatrizzan-ti, probabilmente da erbe del genere Teucrium.Vedi Botto Micca, Omero medico, cit. pagg. 180-181. L’impiego dell’erboristeria avveniva tut-tavia anche per la preparazione di veleni incui intingere le frecce, come intendeva fareUlisse in Odissea I, 260-264. 213 H. Frolich, Die Militarmedicin Homers, Stutt-gart, 1879, pagg. 58-62.214 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 227-228.215 Ministero della Guerra, Corso informativo sulServizio Sanitario in Guerra, cit., pagg. 101-102.216 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 229-230.217 Botto Micca, Omero medico, cit., pag. 60.218 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 227.219 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 228.220 Ministero della Guerra, Corso informativo sulServizio Sanitario in Guerra, cit., pagg. 108-109.221 Non molto diversamente anche tra gli Azte-chi “il duello alla pari era la tipologia (di scon-tro) preferito (…) scopo dei guerrieri era abbat-tere il loro avversario, il più delle volte con uncolpo alle gambe –tagliando un tendine, stor-piando un ginocchio- in modo da poterloinchiodare a terra e soggiogarlo”. Da Keegan,La grande storia della Guerra, cit., pag. 113. 222 A. Vayda, War in Ecological Perspective, NewYork, 1976, pag. 115, in Keegan, La grande sto-ria della Guerra, cit., pag. 107. 223 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 230-234.224 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,

pag. 234.225 Torelli, La società etrusca, cit., pag. 143.226 Mauro Cristofani, L’arte degli Etruschi, Tori-no, 1983, pag. 38.227 Carlo Battaglia, Psicologia e guerra nel Nove-cento, San Domenico di Fiesole, 1994, pag. 45.228 Franco Fornari, Psicanalisi della guerra,Milano, 1966, pag. 69. 229 Sull’argomento si veda in Fornari, Psicana-lisi della guerra, cit., pag. 69 e segg., e in Fran-co Fornari, Psicoanalisi della guerra, Milano,1988, pagg. 60-61; inoltre si consulti CarloBattaglia, Psicologia e guerra nel Novecento, SanDomenico di Fiesole, 1994.230 Al riguardo si veda in Martinelli, Gli Etru-schi – Magia e religione, cit., pag. 156-158.231 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 218.232 McC. Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pag. 122.233 Edouard Westermark, The origin and deve-lopment of moral ideas, tome I, Londra 1906,pagg. 334 e segg.234 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 131-132.Anche Barrois rileva come “da tempi imme-morabili, uno dei destini più temuti e umi-lianti, per un guerriero, è stato quello di esse-re fatto (ferito o meno) prigioniero. Questotimore nasceva dal rischio di essere ucciso,giustiziato dal nemico, oppure «finito» se erastato già ferito in battaglia, tutte condizioniche ricorrono quando, ormai disarmato, nonera da considerarsi nemmeno più un combat-tente (...) per lungo tempo il prigionierovenne ridotto in stato di schiavitù per quantosotto forme differenti (...) Prima delle moder-ne convenzioni, relative alla condizione delprigioniero di guerra, esistevano, almeno perquanti fossero di nobile origine, due modi diribaltare il proprio destino una volta fatti pri-gionieri: la prima soluzione era quella di otte-nere la liberazione mediante il pagamento diun riscatto, la seconda era quella di cambiare

fazione, offrendo i propri servigi al nemico(una simile pratica non fu, per lungo tempo,affatto desueta)”. Da Barrois, cit., pagg. 222-223.235 Drews, cit., pag. 39.236 Drews, cit., pag. 45.237 Per la faida come “legge internazionale” siveda V. Gordon Childe, Preistoria della societàeuropea, Firenze, 1966, pag. 247. Per tali pras-si di guerre prolungate e fratricide tra popoliprimitivi di interesse etnologico si veda, adesempio, Scarduelli, L’isola degli antenati..., cit.,pagg. 166 e segg., 171-174.238 Barrois, cit., pag. 222.239 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit., pag.198.240 Peraltro sull’ideologia dell’eroe omericomorto in guerra e sul suo rituale di incinera-zione sono state effettuate interessanti osser-vazioni dal Barrois -cit., pag. 65-, che ha nota-to come “per l’Iliade, l’onore è anche nellamorte gloriosa, la bella morte (quella cherisparmia al giovane guerriero il declino delleforze, le brutture dell’invecchiamento). Si puòdire che il guerriero vuole sfuggire alla veramorte, quella impostagli dalla natura (...) Intutto ciò vi è, più che un rifiuto, una sfida rivol-ta alle leggi della morte naturale: il guerrierogreco muore per entrare immediatamentenella memoria dell’onore, per restare immor-tale nella sua cultura. Il suo corpo (prima pre-servato da ogni alterazione cadaverica) vienecremato, ma le sue ossa sono raccolte e sepol-te. In una fase successiva, si pone anche, sultumulo, una stele funeraria. L’ideologia fune-raria del guerriero greco è quella della mortebella. Ma è la società a realizzare l’apoteosifuneraria e a conservare la memoria storica”.241 J. Harmand, L’arte della guerra nel mondoantico, Perugia, 1981, pagg. 19 e segg.242 Martinelli, Note sul controllo del territorio...,cit., pagg. 687-688.

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La lancia, la spada, il cavallo

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243 Martinelli, La nascita della frontiera, cit., pag.259.244 Questo tipo di azioni, tuttavia, non rag-giungeva il livello del vero e proprio atto diguerra, infatti “né l’«incursione» né la «scorre-ria» sono veri atti di guerra. Entrambi si pon-gono «sotto l’orizzonte militare» ed è piùopportuno considerarli omicidi plurimi anzi-ché episodi di una campagna militare”. Anchenella Toscana medievale, tra Duecento e Tre-cento, non tutte le operazioni militari com-portavano la mobilitazione generale: “aseconda dello scopo e della mobilitazione sta-bilita, le operazioni di guerra prendevano dif-ferenti denominazioni. (… Vi era) l’«esercito»o «esercito generale», spedizione in grandestile che mobilitava la città intera (…) Unaspedizione che impegnava solo parte dellerisorse cittadine era la «cavalcata», scorreriaeffettuata in origine da soli cavalieri, in segui-to accompagnati da fanti. L’uscita dei fanti erachiamata «tratta» o «andata». C’era poi la«gualdana» che doveva essere poco di più cheun’incursione di cavalleria”. Da Barlozzetti,L’arte della guerra nell’età della Francigena, cit.,pag. 45.245 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pag. 143.246 Vedi nel capitolo sui riti.247 Sulla escalation dei conflitti tra popoli pri-mitivi esiste un’abbondante letteratura; peroffrire solo alcuni esempi di progressionedagli scontri ritualizzati sostanzialmenteincruenti sino alle imboscate o agli attacchi afine di sterminio si veda quanto riportanosugli Tsembaga della Nuova Guinea lo Eibl-Eibesfeldt, in Etologia della guerra, cit., pagg.211-214, e sugli Yanomamo amazzonici, suiMaring della Nuova Guinea centrale e suiMaori il Keegan, in La grande storia della guer-ra, cit., pagg. 97-99, 101-104 e 1089 Eibl-Eibe-sfeldt, Etologia della guerra, cit., pag. 176-177.

249 Paolo Grossi, Asmat – Uccidere per essere,Milano, 1987, pag. 123.250 Scarduelli, L’isola degli antenati..., cit., pag.166.251 Scarduelli, L’isola degli antenati..., cit., pagg.161-167. In effetti, nelle guerre protostoriche,non doveva essere infrequente il massacro e lariduzione in schiavitù della massa degli scon-fitti: “il massacro dei vinti e la vendita comeschiavi dei sopravvissuti erano la regola”, notail Bouthoul -Le guerre, cit., pag. 86- per laromanità, rilevando -pagg. 217-218- che inguerra la popolazione primitiva soccombente“è costretta a rifugiarsi altrove, è ridotta inschiavitù oppure è, semplicemente, trucidata.In quest’ultimo caso accade spesso che ledonne, specialmente quelle giovani, vengonorisparmiate e adottate dai vincitori (...) Unodei principali effetti economici della guerra èstato (...) la cattura di schiavi”. E’ da rilevareche l’accanimento contro i prigionieri di guer-ra ed il rifiuto di scambiarli o riscattarli, inogni tempo, è da attribuirsi ad una volontà dideterminare guerre senza quartiere, nellequali viene vista in gioco la sopravvivenza stes-sa del gruppo. Così facendo infatti si scorag-giano i combattenti -anche della propriafazione- alla resa, giacché il loro destino -anche per rappresaglia- è estremamenteincerto, ed è dunque preferibile per ciascunocercare il proprio futuro nel combattimento,piuttosto che cadere in una prigionia senzasperanza. Per tali informazioni si attinge adalcune notazioni emerse nella tavola rotonda“I prigionieri italiani nella grande guerra”,tenutasi a Firenze il 3 novembre 1994 all’in-terno del seminario “I militari italiani prigio-nieri di guerra”, organizzato dal Centro Inte-runiversitario di Studi e Ricerche Storico-Mili-tari.252 Torelli, La società etrusca, cit., pag. 143. Vedianche Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 456.

253 Scarduelli, L’isola degli antenati..., cit., pag.169.254 Per il riscontro archeologico di tali realtà edi tali ambiti cronologici, anche se per un’areamarginale, si veda quanto sopra citato perVerucchio. Inoltre si veda Nuccia NegroniCatacchio, L’abitato di Sorgenti della Nova nel-l’ambito del Bronzo finale, in AA.VV., “Sorgentidella Nova”, Roma, 1981, pag. 252.255 Questa auctoritas del capo politico-militare,pur vista con moderno sospetto ideologico danumerosi studiosi, va considerata un risultatofattivo di caratteristiche individuali naturali espontanee di ordine psicologico ed etologico,accompagnate da un’aura religiosa. “Come laregalità ha origini religiose, così il comando inguerra ha origini sacerdotali. A Roma il capodell’esercito è circondato dai pontefici, dagliauguri e dagli aruspici (...) La promozione deigiovani alla categoria dei capi militari è cir-condata da cerimonie religiose (...) E’ soprat-tutto presso i popoli dell’antichità, per i qualiper secoli e secoli la guerra fu veramente l’in-dustria nazionale, che si vede meglio il carat-tere religioso dei capi che guidano gli eserciti.Innumerevoli fatti dimostrano che presso iromani il combattente è rivestito di un carat-tere sacro. E’ soprattutto presso di essi chequest’aspetto quasi sacerdotale del guerriero èposto in grandissima evidenza al pari di tuttoquel che riguarda la guerra”. Da Bouthoul, Leguerre, cit., pagg. 391-392.E’ stato rilevato da studiosi di psicanalisi che il“guerriero” (ben distinto da chi “uccide” o“massacra”) è un individuo con intrinsecheattitudini radicate nel carattere che fanno inesso emergere un interesse volto ai combatti-menti. Secondo Claude Barrois il guerrieronon è solo un combattente, bensì “non possie-de solo una «vocazione» alla guerra, verso laquale mostra disposizioni fuori dal comune,ma ama questo genere di vita e le armi stesse

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Osservazioni sulla panoplia degli armati e sulle tattiche

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(...) è un combattente del tutto speciale: per lalucidità deliberata della sua scelta di prendereparte ad un conflitto violento, per la qualità delsuo intervento in una missione (...) per il suogusto a partecipare a questi tipo d’azione”. DaBarrois, cit., pagg. XXIV-XXV. Si tratta di unacondizione permanente anche fuori dal perio-do di servizio militare (Barrois, cit., pag. 8) maper la quale, sino dagli albori dell’umanità,solo alcuni si rivelano adatti (Barrois, cit., pag.37) poiché “sembra comunque (...) che gliuomini guerrieri si siano sempre differenziatidagli altri membri del gruppo” (Barrois, cit.,pag. 25). Il manifestarsi di tale “vocazioneguerriera” può fare seguito a tradizioni d’ori-gine, in seno a famiglie con orientamento mili-tare e civico, talvolta di cerchia aristocratica; inaltri casi invece il guerriero può scoprirsi tale inoccasione di una guerra (Barrois, cit., pag. 8-9). “I guerrieri formano un vasto insieme la cuiesistenza è attestata dalla storia e dall’etnologiaa partire dalla più remota antichità. In certesocietà tradizionali, non vi è adolescente che,dopo i riti di passaggio o di iniziazione, nondiventi contemporaneamente uomo adulto eguerriero” (Barrois, cit., pag. XXV).Quanto al profilo psicologico dei “guerrieri”,Barrois ha rilevato che essi “sanno anche diessere, per certi versi, uomini eccezionali: perla loro maturità, per il fatto di avere accettatodavvero la propria morte, e questo al di là diogni preoccupazione materiale, utilitarista;allo stesso modo sono coscienti del loro ascen-dente su altre persone” (Barrois, cit., pag. 5).Lo stesso comando è una funzione che nonpuò essere svolta se non “si manifesta attra-verso l’autorità, che si fonda su basi diverse: ilcarisma, la tradizione e la legittimità, la nazio-nalità, l’ideologia” (Barrois, cit., pag. 207).

Peraltro già Clausewitz aveva osservato che lequalità che portano all’emergere di un capo“guerriero” sono insite nel suo animo, nel suotemperamento e nelle sue doti intellettivepeculiari, essendo costituite da una particolaremiscela di doti personali. “La guerra è ilcampo del pericolo quindi il coraggio è laprima qualità del guerriero. Il coraggio è didue generi: coraggio in presenza del pericolopersonale e coraggio di fronte alle responsabi-lità, sia nei riguardi del giudizio di una qualchepotenza esteriore, sia nei riguardi della propriacoscienza (...) due qualità sono indispensabili:un intelletto che anche in questa oscurità cre-scente non resti privo di qualche barlume dellaluce interiore, e il coraggio di seguire questadebole luce. Il primo viene raffigurato effica-cemente con l’espressione francese coup-d’oeil,il secondo è la risolutezza. La risolutezza è unatto di coraggio, quando si tratta di casi singo-li, una abitudine dell’anima, quando divieneun tratto del carattere. Qui non si tratta delcoraggio di fronte al rischio fisico ma di quellodi fronte alla responsabilità, cioè in certo sensodi fronte al pericolo dell’anima (...) Quandogettiamo uno sguardo d’insieme alle quattroparti costitutive che compongono l’atmosferain cui si muove la guerra: al pericolo, allosprezzo fisico, all’incertezza e al caso, si com-prenderà facilmente la necessità di una grandeforza dell’animo e dell’intelligenza per proce-dere con sicurezza e successo entro questo dif-ficile elemento (...) Di tutti i sentimenti potentiche riempiono il petto umano nel calore dellabattaglia, nessuno è così potente o costante,vogliamo ammetterlo, della sete di gloria e dionori (...); danno (...) al capitano il desiderio divalere più dei commilitoni, desiderio che purediviene essenziale alla sua funzione se ha da

adempierla in modo eccellente (...) danno,come l’ambizione, il singolo atto bellico in pro-prietà del capo che in questo caso cerca di uti-lizzarlo il meglio possibile, che lo ara conimpegno, lo semina con cura per ottenere unricco raccolto (...) E ci domandiamo, pensandosoprattutto ai capi più grandi, se sia mai esisti-to un grande capitano senza ambizione, se nesia addirittura pensabile l’esistenza (...) La forzadi sottomettere se stessi alla ragione anche nelmomento dei più violenti moti dell’animo: (...)si tratta di un altro sentimento che negli animiforti fa equilibrio alle passioni eccitate, senzaannientarle, e solo con questo equilibrio vieneassicurato il predominio dell’intelligenza. (...)Gli uomini poco mobili ma per ciò stesso pro-fondamente mossi (...) sono quelli più somma-mente adatti a manovrare con la loro forza tita-nica le masse immani nelle quali noi possiamorappresentarci in modo visivo le difficoltà del-l’attività bellica.”. Da Klaus von Clausewitz,Pensieri sulla guerra, Milano, 1995, pagg. 43-53.Il complesso quadro psicologico del “capita-no” dato da Clausewitz e qui brevemente rias-sunto, è di fatto quello di un “leader naturale”che assomma doti tutte atte ad un carisma for-tissimo sugli altri componenti dell’esercito; talipersonaggi, evidentemente trascinanti ancoranei grandi eserciti tra ‘700 ed ‘800, non pote-vano non essere emergenti in una societàancora ristretta, costituita da un gruppo psico-logico o primario, quale quella protostorica.Queste figure, grazie ad una predominanzacaratteriale, carismatica e di virtù militare,divennero col tempo un’aristocrazia che, allagloria ed agli onori acquisiti sul campo di bat-taglia, aggiunse un’ascesa economica e socio-politica, di cui sarà trattato più oltre.

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La lancia, la spada, il cavallo

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Riprendendo alcune considerazioni giàeffettuate all’interno della sezione suglielmi della prima età del ferro, è neces-saria una pur ristretta digressione sullapossibilità di desumere, dai materiali edai pochi dati a disposizione, la presen-za di guerrieri professionisti villanovia-ni –emigrati o mercenari- in altre areedel mondo antico, o viceversa della pre-senza in Etruria di mercenari allotri.In realtà il problema, per esser postocorrettamente -almeno alla luce delleattuali conoscenze- va inteso sia riguar-do l’ipotetica attività, in area etrusca onell’Italia centrale della prima età delferro, di guerrieri mercenari, sia comeuna valutazione della reale consistenzadi coloro che potevano venire attratti inaltre località del Mediterraneo o dell’Eu-ropa antica, per esercitare un’attività dicombattente non più “civico” ma pro-fessionale.Sebbene non sia da escludere l’oppor-tunità occasionale per cui qualche

valente guerriero potesse venire attrattonei ranghi di una comunità italica chenon era la sua con promesse di bottinoed onori, nel complesso la struttura eco-nomica e sociale dell’età del bronzofinale e della prima età del ferro in Ita-lia non pare essere stata tale da averprevisto, come evento consueto suampia scala, la presenza di guerrieri dimestiere appositamente remunerati.Vista anche l’assenza di moneta e la faseevolutiva dell’economia, l’ipotesi di unmantenimento costante, presso unacomunità, di personaggi esclusivamen-te dediti alla guerra ed estranei pernascita e vincoli di parentela alla comu-nità stessa appare solo per certi versipossibile sino alla fine del IX sec.a.C.1 ecomunque ipotizzabile, eventualmente,solo in forma circoscritta, magari inquelle comunità in rapida espansionebisognose di una sicurezza militare. Uno studio relativo all’Italia centrome-ridionale ed alla Sicilia2 ha individuato

il fenomeno del mercenarismo, sullabase della documentazione molto fram-mentaria –archeologica, letteraria,numismatica ed epigrafica- solo nell’ar-co di tempo che va dal VI al III sec.a.C.,ad opera di Sabini, Sanniti, Campani eLucani che offrivano il loro servizio afavore di Greci e Cartaginesi.D’altro canto le notizie relative all’im-piego nel Mediterraneo orientale dimercenari -già dal XIII sec. a. C., e rite-nuti in alcuni casi di origine italica,come alcuni dei “Popoli del Mare”secondo delle identificazioni peraltromolto discusse-, inducono a pensareche il fenomeno del professionismonon fosse assolutamente sconosciuto aipopoli dell’Etruria villanoviana, dovedall’VIII secolo alcuni immigrati italici -oppure semplicemente provenienti dacomunità preurbane diverse- potevanoessere dediti in modo precipuo allaguerra. In particolare la presenza direperti sardi nell’area dell’Etruria

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Alcune ipotesi sulla presenzadi guerrieri professionisti e mercenari

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costiera è piuttosto consistente, ed è unfatto che “fra la fine del IX e la primametà dell’VIII secolo a. C. (...) i centriprotourbani dell’Etruria, da poco costi-tuiti, mostrano proprie forme di mobili-tà, anche marittima, e contatti con laciviltà nuragica, originati o diretti versole risorse minerarie delle zone di Vetu-lonia e Populonia, instaurati verosimil-mente con i gruppi stanziati nella Sar-degna settentrionale3”.La consistente presenza di questi mate-riali sardi nell’Etruria marittima centro-settentrionale, principalmente a Vetulo-nia, pur non comprendendo elmi dall’i-sola –forse deperibili, come è probabile4-contempla comunque alcune spade che,come i materiali etruschi in terre stranie-re, potrebbero indicare il solo flusso dimateriali di pregio oppure –come è pro-babile anche per altri motivi tra Sarde-gna e Toscana- l’emigrazione di personeche di quelle armi facevano uso.E’ infatti interessante che, oltre allearmi, vari reperti sardi rinvenuti inEtruria si riferiscano al mondo militare,come ad esempio dei bronzetti (si pensia quello col fante dall’alto scudo dallatomba del Bronzetto sardo della finedel IX sec. a. C. nella necropoli di Cava-lupo di Vulci) e delle “faretre” bronzeedella prima metà dell’VIII sec. a. C. Chea questi oggetti, potenzialmente espor-tazioni o athyrmata scambiati tra capi, sipossano essere accompagnati movi-menti di persone, sembrerebbe confer-mato dalla presenza in Etruria, oltre chedelle spade a lingua da presa “occiden-

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La lancia, la spada, il cavallo

In alto a sinistra, spadaframmentaria del tipo alingua da presa occidentale,da Populonia; a destra,bronzetto sardo di guerrieroo sacerdote, dalla tombadel Bronzetto Sardo nellanecropoli di Cavalupoa Vulci - Roma, Museo diVilla Giulia; sotto, alcunefaretre miniaturistiche inbronzo, di produzionesarda e raffiguranti armi,da Populonia - Firenze,Museo ArcheologicoNazionale

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tali”, più che altro dei bottoni conicinuragici, legati ad abiti femminili tipi-camente sardi5, evidentemente indossa-ti da emigrate sulla penisola.Anche la presunta attività di “scortaarmata” da parte delle popolazioni villa-noviane e latine a difesa dei prospectorseuboici diretti alle aree minerarie del-l’interno, cui si è già fatto riferimento6,indicherebbe come sin da epoche moltoantiche la funzione guerriera avesse rag-giunto nell’Italia centrale tirrenica nonsolo un elevato valore politico, ma ancheuna rilevanza come attività specializzatadi grossa ricaduta sociale ed economica.“Il fatto che in Toscana manchi del tuttoqualunque testimonianza di una presen-za greca in età geometrica ha dato luogoall’ipotesi che i grandi centri dell’Etruriameridionale dovessero almeno unaparte della loro crescente prosperitàmateriale nell’VIII secolo alle attività diintermediari indigeni7”. Questa lucidaanalisi di Ridgway sulla funzione diintermediazione svolta da alcune comu-nità villanoviane va dunque ampliatanella parte che considera la necessità dipensare questi contatti “in termini nonsoltanto di merci ma anche di servizi8”;quindi non bisogna individuare soloindigeni con materie prime -le risorseminerarie delle Colline Metallifere edell’Isola d’Elba- da un lato, e immigra-ti euboici portatori di servizi e tecnolo-gie –la lavorazione dei metalli, la scrittu-ra e con essa l’epos e l’universo culturaleche ad esso sta dietro- dall’altro, maanche, a cerniera, degli indigeni che

offrivano servizi –scorta armata, attivitàd’interprete, di mediatore economico e,per così dire, giuridico-.Il “valore aggiunto” dell’attività militareera insomma già così elevato da poterindurre a pensare che esistessero i moti-vi per una “specializzazione” in essa giànell’VIII sec.a.C.; tuttavia la temperieculturale del tempo, ed i dati delle fasiimmediatamente seguenti, sembranonon indicare una “mercificazione dellamanodopera” nel segmento militare,ma piuttosto una conservazione di que-sta funzione –produttrice di reddito e diprestigio- all’interno di quelle dell’élitesociale ed economica. L’attività guerrie-ra non viene dunque banalizzata comeun qualunque “lavoro”, ma diviene unatra le occupazioni più nobili e caratteriz-zanti in senso sociale ed etico, a segnala-re l’aretè aristocratica che l’epica omericaproprio in quel momento fortificarispetto alle simili tradizioni autoctone.Questo non significa escludere assoluta-mente che alcune persone potesseroessere dedite in modo professionale allearmi, all’interno delle forze armate deicentri protourbani italici, per fini di red-dito e non per motivi in primis di rangosociale. Ma la loro rilevanza quantitativa,peraltro ancora da provare definitiva-mente, non poteva che essere marginale.Secondo alcuni studi, che in direzioneopposta analizzano i flussi di uomini emerci dall’Italia verso l’esterno, le areedell’Europa centrale, come quelle delMediterraneo orientale, potrebberoaver attratto precocemente degli emi-

granti italici dediti all’attività di guerrie-ro, anche in veste di istruttore per l’ado-zione di tattiche peculiari. In base aimateriali rinvenuti è infatti possibile cheisolati guerrieri originari dell’Italia cen-trale abbiano offerto il proprio servizionell’area danubiana, forse appuntocome istruttori, in parallelo ad una for-tuna ideologica nella Mitteleuropa divari aspetti della facies culturale villano-viana, sia sociali che connessi ai beni diprestigio, ma in particolare relativi al set-tore dell’arte bellica. In effetti dall’anali-si dei reperti rinvenuti emerge che nel-l’Europa centrale la creazione di imita-zioni con varianti locali dei manufattimetallici etrusco-villanoviani -speciedelle armi e degli oggetti connessi all’i-deologia guerriera, come documentanoad esempio le spade ad antenne dell’Al-ta Austria e del Brandeburgo9- fuaccompagnata da consistenti flussi diesportazione di originali; in connessionecon ciò è stato ritenuto il movimentodegli oggetti fosse legato a quello di per-sone –utenti e/o fabbricanti- che, comeguerrieri, ed anche artigiani, “si diffuse-ro da Bologna verso le aree transalpinepassando dall’area veneta e dalla valledell’Adige, come indicano nel primocaso la spada ad antenne di Este10”.Invece, in base alle conoscenze attua-li11, non risulterebbero presenti oggettipeculiari della prima età del ferro cen-troitalica, come gli elmi di tipo villano-viano, nel Mediterraneo orientale,salvo alcuni frammenti dal santuarioellenico di Olimpia intesi però come

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Alcune ipotesi sulla presenza di guerrieri professionisti e mercenari

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prede belliche di greci, o come doniportati da etruschi-villanoviani ai san-tuari d’Ellade. Non sembrano dunque documentati,sulla base dei reperti, flussi migratoririlevabili di guerrieri professionisti del-l’età del ferro dall’Etruria verso Oriente,mentre per periodi più antichi alcuneteorie basate sull’identificazione dei“Popoli del Mare”, attivi nel Mediterra-

neo orientale nel XIII sec. a.C. sin versoil 1200 a.C., sembrano ritenere ciò pos-sibile già per l’età del bronzo. Infatti ladiscussa identificazione dei Shekelesh coiSiculi, dei Lukka coi Lici, degli Ekweshcon gli Achei, dei Tursha coi Tirreni-Etruschi e degli Shardana coi Sardi,comporterebbe la presenza di un forteflusso di popoli in armi, dal Mediterra-neo nord-occidentale verso quello

orientale, il cui intervento avrebbe con-tribuito al tramonto della civiltà palazia-le in tutto il territorio dell’Ellade e del-l’Oriente, e determinando una crisianche nell’Egitto faraonico12. In base aquesta teorica identificazione la presen-za di esploratori del Mediterraneoorientale sulle coste del Tirreno già nel-l’età del bronzo avrebbe avuto dunque,oltre ai fini commerciali, anche una fun-zione di “reclutamento” militare degliuomini locali -i quali peraltro dovetteromostrare come guerrieri una considere-vole resistenza, giacché non vennero esottomessi e colonizzati con la forza-esercitando al contempo una più omeno involontaria attrazione di essiverso il Medioriente.

“For those «Tyrsenians» who lived nearby, theseemporia must have advertised the possibilitiesthat the lands to the east had to offer. The con-tact between the Eastern Mediterranean andSardinia, and the easterns’ exploitation of Sardi-nian copper, has only recently been appreciated.But it now seems likely that in the thirteenthcentury most Sardinians who lived within a day’swalk of the Golfo di Cagliari would have seenthe visitors’ ships, if not the visitors themselves,and would have been well aware of the discre-pancy between their own condition and that ofthese people from the east13”.

L’abilità pregressa nelle armi, frutto delnormale addestramento all’interno dellecomunità di villaggio, potrebbe dunqueaver costituito per alcuni una professio-nalità che apriva le porte all’emigrazioneverso luoghi radicalmente diversi perorganizzazione, opportunità e benessere:

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La lancia, la spada, il cavallo

Località di rinvenimento dei tipi di elmetti crestati in Europa nella carta stilata da HughHencken nel 1959

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“To be a warrior, then, was in these barbarouslands no bad thing, since skill as skirmishermight transport a man to a better life in a betterplace. Men from southern Sardinia went off toByblos and Ugarit, and eventually to Egypt, andit is unlikely that many of them returned homeor wished to do so. In the eastern kingdoms theycould enjoy the pleasures of urban life and at thesame time be men of status and property, withlands assigned them by their king; in return,they were obliged only to guard the palaceduring peacetime and to run in support of thefabled chariots forces on those rare occasionswhen the chariots gave battle. It is not surprisingthat young men in Sardinia and elsewhere aspi-red to serve as skirmishers in the chariot corpsof a wealthy king. All that one needed wascourage, speed, strenght, and an initial invest-ment in the necessary equipment: a sword or aspear, a shield, and an intimidating helmet14”.

Il nucleo di teorie più consistente –e piùa lungo sostenuto, sino a studi recenticome quello di Robert Drews15- riguar-da, tra i “Popoli del Mare” identificati inetnie italiche, gli Shardana: questi guer-rieri infatti erano spadaccini con scudirotondi ed elmi cornuti, particolarmen-te versati in una forma di combattimen-to agile ed in formazione sparsa, estra-neo alle formazioni pesanti e chiusetipiche della tradizione orientale16. Le caratteristiche di questi eccellentischemitori alla spada, ingaggiati siadagli assalitori che dai difensori dell’E-gitto17 nel XIII sec. a. C. e più volte pre-senti in rilievi quali quelli di Abydos,relativi alla battaglia di Qadesh (1275 a.C.), e quelli di Medinet Habu18, ben siattaglierebbero ai guerrieri sardi, comece li presenta la documentazione dispo-

nibile per la fine dell’età del bronzo e,ancor meglio, per la prima età del ferro.Alcuni studiosi, ed in particolareappunto il Drews, hanno così ritenutoche col termine Shardana si indicasserodei guerrieri mercenari provenienti,almeno in origine, dalla Sardegna, e quin-di stabilitisi nella Palestina ed in Egitto,come soldati professionisti in una guer-ra di fanteria, alla spada, in quelmomento tecnicamente rivoluzionarianel teatro orientale19. Il termine diShardana sarebbe poi andato ad indica-re in senso lato degli spadaccini profes-sionisti di provenienza allotria, attiratinegli eserciti dell’Oriente dalle oppor-tunità della vita urbana e dal benessere,dal rango acquisibile e dalle proprietàpersonali quali mercede20.Il costante impiego, da parte dei corag-giosi e spietati mercenari professionistisui rilievi, di elmi cornuti particolarmen-te intimidatori21, può far ipotizzare chetale forma di elmo avesse un valore diriconoscimento del loro status, e chequindi fosse caratteristico dei guerrieriprofessionali22. Ad un controllo sulla dif-fusione degli elmi cornuti in Europa23

emerge che questi sono attestati archeo-logicamente in modo estremamentesporadico24 per periodi di alta antichità,tranne che nei numerosi bronzetti diguerrieri della Sardegna nuragica25.Peraltro l’iconografia sarda è comunquepiù recente delle attestazioni storichedegli Shardana, in quanto essa data per lopiù dal IX sec. a. C. in poi, epoca in cui–se Sardi ed Etruschi mostrano capacità

militari di rilievo- è troppo tardi per par-lare di essi quali “Popoli del Mare”.Se fosse stata comprovata l’eventualitàche alcuni italici avessero lasciato le isolee la penisola, nell’età del bronzo, pervivere nel più avanzato Oriente rico-prendo un ruolo di qualche prestigio, ciòavrebbe avuto un peso molto rilevantenel delineare il percorso evolutivo dellasocietà italica: non sfugge infatti che, setale flusso migratorio di guerrieri si fosseverificato, certo un numero di essi, giun-ti alla vecchiaia, avrebbe fatto ritorno,con beni e conoscenze socioculturalimolto evolute, nei più arretrati luoghid’origine, dove avrebbero potuto costi-tuire dei focolai culturali evolutivi.Vari studiosi rigettano tuttavia le identifi-cazioni dei “Popoli del Mare” con grup-pi di italici, e sull’identità degli Shardanaè da segnalare come gli Elamiti nel XIIIsec. a.C. “mustered 3.415 «horned war-riors» to send to Huhnur: it is usuallyassumed these warriors wore horned hel-mets, and this casts doubt on RamesesII’s Sherdan mercenaries, who may havebeen Elamites after all26”. Le teorie piùrecenti vedono così negli Shardana, conun processo esattamente contrario allateoria del Drews, non tanto dei sardiemigrati verso il Mediterraneo orientale,ma piuttosto dei guerrieri giunti dallaSiria in Egitto, via mare, vinti da Rames-se II e da questo faraone inseriti poi nelproprio esercito. Essi sarebbero ripartitipiù tardi in direzione del Mediterraneonordoccidentale, e sbarcati in Sardegnaavrebbero dato il loro nome all’isola27.

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Alcune ipotesi sulla presenza di guerrieri professionisti e mercenari

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La lancia, la spada, il cavallo

Note

1 Come asserisce infatti lo Hobbs, la vita agricoladelle comunità semplici non consente il mante-nimento di una milizia fissa; si veda in Hobbs,L’arte della guerra nella Bibbia, cit., pag. 59.2 Gianluca Tagliamone, I figli di Marte –Mobilità mercenari e mercenariato italici inMagna Grecia e Sicilia, Roma, 1994.3 Mauro Cristofani, Le attività produttive, in“Gli Etruschi in Maremma”, Milano, 1981,pagg. 195-197.4 Vedi nella nota 25 di questo capitolo.5 I bottoni nuragici infatti sono presenti aPopulonia (Piano delle Granate, tomba a fossaX; San Cerbone, tomba a fossa XL), Vetulonia(4 esemplari da Poggio Belvedere), Roselle,Tarquinia (Selciatello di Sopra, tomba 202; LeRose, tomba LXI), al Lago dell’Accesa (tombea fossa IV, VIII, IX e XIV) ed a Cerveteri(Sorbo, tombe a fossa nn. 272 e 384).6 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit., pag. 158.7 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit., pag. 156.8 Ridgway, L’alba della Magna Grecia, cit., pag. 158.9 Si veda Luciana Aigner Foresti, Relazioniprotostoriche tra Italia ed Europa centrale, in“Gli Etruschi e l’Europa”, cit., pag. 158.10 Aigner Foresti, Relazioni protostoriche traItalia ed Europa centrale, cit., pag. 158.11 In primis dallo Hencken, The earliest euro-pean helmets, già citato.12 Come si è osservato, gli Shekelesh, gli Shar-dana ed i Tursha che presero parte con il libi-co Meryre all’invasione dell’Egitto sono statiritenuti dal Drews tutti provenienti dall’Ita-lia attuale, salvo gli Ekwesh o Achei; “Meryrerecruited from Sicily, Tyrsenia and Sardiniatogether fewer men than Achaea supplied tohim all by itself (...) But prospectors for mer-cenaries would undoubtedly have found thelands of central Mediterranean a promising

vein. Sicily was almost entirely barbarous,but for a few Sicilians of the southeast coasta window on the wider world had been ope-ned: on the promontory of Thapsos, juttingout from the shore a few kilometers north ofthe Siracusan bay, traders from the easternMediterranean, and perhaps specificallyfrom Cyprus, had built a town for themsel-ves by 1300, and the town continuedthrough the thirteenth century. Here werespacious and rectilinear buildings, and theresidents of the town lived the good life, witheastern artifacts and luxury items. On thecoasts of Italy, which was equally primitive,Myceneans had established emporia at Sco-glio del Tonno, on the Gulf of Taranto, andat Luni sul Mignone, in Etruria”. Da Drews,cit. pagg. 217-218.13 Drews, cit., pag. 218.14 Drews, cit., pagg. 218-219.15 Ci si riferisce al già citato volume diRobert Drews, The end of the bronze age, chan-ges in warfare and the Catastrophe c.a 1200 b.C., Princeton, 1993.16 I testi dall’Egitto e da Ugarit relativi allatarda età del bronzo, assieme ad alcune figu-razioni, sembrano indicare che l’impiego di“stranieri” abili nel combattimento individua-le a piedi e nella scherma di spada e di lanciafosse piuttosto diffuso durante il XIII sec. a.C. Lo studio sull’organizzazione militare del-l’Oriente mediterraneo compiuto dal Drews,che ritiene gli Shardana dei personaggi di ori-gine sarda, punta sul fatto che “in the thir-teenth century, however, many kings prefer-red to secure the services of valiant barbarianson a permanent basis. In return for a plot ofland, and for some other compensation, thewarrior would be available for annual cam-paigns and might perform guard or sentinelduty at other times of the year (...) The bar-barian was a far more efficient skirmisher:

ferocious in his horned or feathered helmet,he used his long sword to threaten opponentsin a wide perimeter. Although the Egyptianspharaos procured many of their professionalsfrom Nubia and Lybia, some of the best (andperhaps the most picturesque) skirmishersevidently came from Sardinia. Both in Egyptand at Ugarit a term sometimes applied forforeign professionals skilled at hand-to-handcombat is shardana (...) The word originallymust have meant “a man from Sardinia”.That phrase, however, although entirely mea-ningful when spoken by a Sardinian nativeliving in Egypt, would have meant little ornothing to a native Egyptian, who had neverseen a sea, an island, or a map”. Da Drews,cit., pagg. 152-153.17 Riguardo l’Egitto, il Drews ritiene che “Thefirst Sardinians attested in Egypt were raiderswho ravaged the Delta in 1279 and weredefeated and captured by Ramesses theGreat. They had come «in their warshipsfrom the midst of the sea, and none were ableto stand before them». Once impressed intoRamesses’ service, the Sardinians evidentlyserved him very well. They were an importantand conspicuous part of the army he took toKadesh in 1275 B.C.: in the Abydos reliefs(...), some Sardinian runners -warriors wea-ring horned helmets and carrying dirks orshort swords- are slaying the fallen Hittitechariot crewmen and cutting off their hands,while others serve as personal bodyguards forRamesses”. Da Drews, cit., pag. 153.18 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag 104.19 Per gli Shardana con elmi cornuti, si vedaDrews, cit., pagg. 152-154 e diffusamente.20 Quanto al Medio Oriente, il Drews ritieneche “Sardinians apparently served as merce-naries already in the Amarna period. In cor-respondence denouncing Rib-Addi of

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Byblos, Shardana are mentioned three times,and they are quite clearly soldiers. In theUgarit tablets there are several references toShardana, although by ca. 1200 B.C. the termmay here too have denoted function ratherthan provenance. Heltzer regards the Sharda-na as «foreigners in the royal service of Uga-rit», and in some sense they undoubtedlywere foreigners. Yet one of the few Shardanamentioned by name is «Amar-Addu, son ofMutba’al». The names of father and son areboth Semitic. Another Shardana seems tohave inherited fields at Ugarit, the normalpractice being that the Shardana receivedland from the king in return for military ser-vice. It thus appears that at Ugarit some ofthe Shardana may have been fairly well assi-milated into the general population. At Uga-rit some Shardana served as mdrglm-guardsand as tnnm; the latter term, as noted above,evidently means «hand-to-hand warriors»”.Da Drews, cit. pagg. 154-155.Secondo il Drews questi mercenari, definitiShardana, dunque non sarebbero stati tuttiSardi di nascita, ma il termine che li indica-va sarebbe stato presto riferito, per estensio-ne, ai guerrieri mercenari di origine stranie-ra. Il loro abbigliamento -con l’elmo cornu-to- pur rinviando ad una iconografia effetti-vamente presente nella seguente Sardegnanuragica, non appare di quest’area esclusi-vo, e “it would be safest to think of the hor-ned helmet as appealing to a variety ofEuropean, Mediterranean and Near-Eastern warriors: a professional warrior whowished to look and feel formidable couldhardly do better than strapping on his headthe horns of a bull. Most if not all Sardinianwarriors serving in the eastern Mediterra-nean may have worn the horned helmet.But Sicilians may also have worn it, since in

the Medinet Habu relief of the naval battlein 1174 B.C. the enemy wear horned hel-mets, and the accompanying inscriptionidentifies Shekelesh but not Shardana amongthe enemy”. Da Drews. cit., pag. 153.21 Vedi Drews, cit., pagg. 218-219.22 Ipotesi sollevata anche riguardo i soldatidel “vaso del guerrieri” da Micene; vediDrews, cit., pagg. 161-162.23 Hencken, The earliest european helmets, cit.,pagg. 169-174.24 Solo in due esemplari dell’età del bronzoIII o IV della Danimarca a Vikso: figurazioniche fanno riferimento ad essi si hannocomunque -oltre ai citati rilievi di MedinetHabu e di Abydos, ed al “vaso dei guerrieri”di Micene- su una figurazione di guerriero daMagacela (Badajoz, Spagna), in una simileimmagine da San Martinho (Castello Branco,Portogallo), in figurine di dèi da Ras Shamrain Libano e da Enkomi a Cipro, in una figu-retta dall’area siriana, nonché da alcuni som-mari graffiti dell’età del ferro della Valcamo-nica e da un “bronzo orientalizzante etrusco”,a cui si sommano le figurazioni italiche piùtarde, relative all’area del Sannio, e quelledalle zone celtiche, alle quali fa riferimento E.T. Salmon. Nel riferire dell'elmo con cornadei guerrieri Sanniti, il Salmon li attribuisceagli ufficiali, e indica come "le corna indica-vano che il soldato sabello combatteva sottol'emblema di Mamerte (con il culto del qualeil toro era strettamente connesso). Vedi E. T.Salmon, Il Sannio e i Sanniti, Torino, 1995,pag 113 e nota 46.25 Comunque recenti studi (vedi Carlo Tron-chetti, L’iconografia del potere nella Sardegnaarcaica, cit., pag. 207 e segg.) hanno indica-to come i guerrieri sardi nei bronzetti indos-sino elmi cornuti e con lobo frontale. Va rile-vato come sia possibile che l’”elmo a lobo

frontale” altro non sia che una interpreta-zione errata della riproduzione del coprica-po tradizionale sardo ovvero la “berritta”portata con il sacculo in avanti, come è nelcostume di varie località isolane. Si veda perl’iconografia in AA.VV., Sardegna, in “TuttI-talia”, Firenze, 1963, pag. 200, 205 ed inparticolare pag. 68, dove il suonatore di lau-neddas porta la berritta con una fascia sulletempie esattamente come il guerriero delbronzetto conservato a Cagliari presentenello stesso volume a pag. 28.Un confronto diretto tra un bronzetto nura-gico di Cagliari che riproduce un toro conpomi sulle estremità delle corna, e l’usoancora vivo di inserire arance sulle corna deibuoi durante le processioni agresti -per unconfronto illuminante dell’iconografia siveda ancora Sardegna, in “TuttItalia”, cit.,pag. 54 per il bronzetto e pag. 83 per la tra-dizione odierna-, ci permette di capire qualicorna fossero quale effigiate nei bronzetti, eprobabilmente di cosa fossero fatte le cornadegli elmi sardi. E’ infatti evidente che unelmo metallico, se avesse sul frontale dellelunghe corna anch’esse metalliche, comenei bronzetti, impaccerebbe il guerriero inmodo gravissimo. L’assenza, peraltro, dielmi metallici con corna metalliche reperitiin Sardegna, ci fa immaginare che forse, piùche di “elmi”, si debba parlare di copricapi–magari in cuoio, o in altro materiale depe-ribile- ornati da vere corna di bovino cave,molto più leggere e meno sporgenti diquanto l’iconografia rappresenti.26 Terence Wise, Ancient Armies of the MiddleEast, London, 1981, pag. 13.27 Si veda, a cura di Maria Cristina Guidotti,Qadesh 1275 a.C. – Fu vera gloria?, in“Archeologia viva” anno XXI, n. 95, settem-bre/ottobre 2002, pag. 44.

Alcune ipotesi sulla presenza di guerrieri professionisti e mercenari

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Sebbene, come si è visto, gli armatidella prima età del ferro fossero inseritiin una compagine relativamente orga-nizzata e piuttosto varia nell’equipag-giamento, va considerata quale potesseessere la loro preparazione all’attivitàbellica.E’ da ritenere probabile che, come intutte le società primitive ed arcaiche, tuttii maschi fisicamente abili e facenti parte apieno diritto della comunità fossero adde-strati per essere pronti a combattere, inservizio gratuito1. Va infatti tenuto pre-sente che nelle epoche più remote ilnumero di uomini che la guerra impie-gava rispetto alla popolazione maschile,ovvero l’indice percentuale definito“volume della guerra”2, era elevatissimo.Dopo secoli di esistenza di lance, scudi,spade e giavellotti, è impensabile chel’uso delle armi fosse lasciato all’im-provvisazione; dato che l’abilità nell’usocoordinato di esse offriva un vantaggioper la sopravvivenza negli scontri, è ben

probabile che la non semplice abilità dischermire di lancia (ed ancor più dispada) difendendosi con lo scudo fossefrutto di un addestramento, così comel’indispensabile esperienza all’equita-zione, di ancor più complessa acquisi-zione.D’altronde, la “maschilità” dell’attivitàbellica, e la necessità di una “iniziazio-ne” ad essa sono fatti ben noti tra ipopoli primitivi.

“La guerra è la forma più vistosa e più spicca-ta di divisione del lavoro (...) Nel loro insieme,i riti della iniziazione che troviamo senza ecce-zione in tutte le popolazioni primitive servonoa dare risalto all’entrata dei giovani nella cate-goria dei guerrieri (...) E’ con torture orrendeche il giovane viene ormai impegnato adaffrontare la morte, a sopportare il dolore fisi-co e ad essere fedele ed obbediente ai suoi capi(...) L’antichità classica conservava l’evidentissi-ma sopravvivenza di questa pratica nella ceri-monia della consegna della toga pretesta e piùancora in quella della consegna della toga viri-le (...) Ma la grande affaire per i giovani così ini-

ziati sarà ormai la guerra. Vengono preparatiad essa, sono penetrati nell’idea che essa è l’oc-cupazione per eccellenza, l’occupazione piùimportante degli uomini. Le sofferenze chesopportano dopo l’iniziazione mirano soprat-tutto a renderli insensibili in vista dei combat-timenti. La guardia al gregge e soprattutto lacaccia sviluppano in essi qualità guerriere, l’a-bilità a tendere insidie, a nascondersi in imbo-scata e a servirsi delle armi. Quando nella tribùesiste un’organizzazione militare, le cerimoniedella iniziazione coincidono con l’arruolamen-to del neofita3”.

A tali osservazioni fa eco Claude Barroisrilevando come “in certe società tradi-zionali, non vi è adolescente che, dopoi riti di passaggio o di iniziazione, nondiventi contemporaneamente uomoadulto e guerriero. Proprio da lì scaturi-sce probabilmente l’esaltazione di queivalori, detti virili, concernenti i guerrie-ri4”. In effetti in molte società primitivela condizione di membro della colletti-vità di pieno diritto non la si acquisiscecon la semplice esistenza, ma sottostà

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Ipotesi sull’addestramento alle armi

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ad alcuni riti di passaggio costituiti daprove di indottrinamento e di abilità.Presso i Bameru del Kenia, ad esempio,

“i bambini, soggettivamente considerati, insocietà, sono niente. (…) Al più sono equiparatiagli agnelli del gregge (…) Vadano o vengano,crescano o muoiano, tutto è affare particolare deigenitori, i quali, in teoria, hanno su di loro unpotere assoluto (…) Né il consiglio degli anziani,né i capi dei villaggi si curano dei bambini (…)Finché sono piccoli o fanciulli, davanti alla socie-tà sono considerati come non esistenti; né vifaranno la loro comparsa che il giorno della loronascita civile, cioè in quello della circoncisione.(…) Questa, infatti, segna il passaggio dell’indivi-duo alla virilità e lo rende capace di godere ditutti i diritti sociali e civili propri della tribù.Prima della circoncisione non si è cittadini, nonsi è nemmeno uomini, non si conta per nulla.L’incirconciso non può far valere alcun diritto,appunto perché non ne ha; non può avere auto-rità di sorta; non può aver voce e parte attiva innessuna discussione o faccenda. (…) Nei tempiandati non si concedeva la circoncisione se nonai giovani completamente sviluppati di corpora-tura, perché «circonciso» voleva dire esser pron-to alle armi ed alla custodia degli armenti dalleeventuali razzie dei Massai5”.

Questa condizione di completa subordi-nazione ai genitori ricorda la potestas delpater familias romano nei confronti delfilius, specie di quello ancora privo dellatoga, e la collocazione dei giovanissimiall’esterno della comunità trova con-fronti nei rituali funebri della prima etàdel ferro dell’Italia centrale, comemeglio vedremo più oltre. Similmente,secondo Cesare, anche presso i Galli ilpadre aveva sui figli –come sullamoglie- diritto di vita e di morte; inoltre

i giovani –puberes- erano tenuti a conve-nire al concilio armato una volta rag-giunta l’età adatta; fino a quel momen-to “considerano una vergogna che ilfiglio ancor fanciullo stia in pubblicovicino al padre. Doveva essere inconce-pibile (…) che a riunioni per affari pub-blici potesse partecipare uomo disarma-to o alle armi non valido: i padri nonpermettono ai loro figli di presentarsi aessi in pubblico se non quando abbianoraggiunto l’età che li renda adatti allefatiche della milizia6”.Tutt’oggi, anche presso i Carajà delMato Grosso e gli Asmat della NuovaGuinea,

“quando si parla di esseri umani, nell’idea deiCarajà, non si fa mai riferimento alla tribù inte-ra, o a tutto il villaggio, ma si indica un nume-ro ben determinato di persone viventi in unacomunità, e cioè solo il gruppo degli uominiadulti iniziati. Questa classe di individui si trovain opposizione ad altri gruppi di esseri (…) ecioè bambini, donne e nemici. (…) All’internodelle comunità l’opposizione principale si con-figura in quella esistente tra il gruppo degliuomini iniziati e tra gli altri individui, cioèdonne e bambini. Gli iniziati rappresentano lacultura per eccellenza, di cui possiedono tuttigli elementi, anche rituali, a partire dalmomento dell’iniziazione. I bambini, invece,hanno un certo grado di indifferenziazione,non avendo ancora subito tutte le trasforma-zioni fisiche necessarie a definire il loro essere,e sono in definitiva potenziali uomini e donne,ma con un certo grado di neutralità7”.

“Tra gli Asmat la vita infantile non è considera-ta propriamente vita, è una sorta di limbo cheprelude alla vita vera. Se un bambino muore i

genitori provano un acuto dolore, ma la comu-nità non gli dedica la cerimonia funebre che sicelebra per la morte di un adulto. E’ come sel’«anima» che abitava il bambino fosse rientratanel mondo degli spiriti senza incarnarsi. Lanascita alla vera vita avviene più tardi, quandoil giovane affronterà le prove dell’iniziazioneall’età adulta. E’ mediante questo rito che laforza vitale dell’antenato scenderà ad abitare inlui e lo guiderà a diventare un guerriero. E’stato spesso osservato che il «primitivo» non haneppure il concetto della propria individualitàcome di un «io» originale. Effettivamente lacomunità non è vista dall’uomo arcaico comeentità esterna, formata da altri individui cui eglipossa associarsi (…) Nel corpo mistico dellacomunità ognuno entra con l’investitura inizia-tica che gli apre l’orizzonte alla vera vita «Sipotrebbe quasi dire che per il mondo primitivoè l’iniziazione che conferisce agli uomini il lorostatus umano; prima dell’iniziazione non si èancora pienamente integrati alla condizioneumana… L’iniziazione costituisce dunque un’e-sperienza decisiva nella vita di ogni individuoappartenente alle società premoderne»8”

“La conquista dell’essere uomo è perseguitanei popoli arcaici lungo precise tappe di svi-luppo. L’arco della vita di ogni membro delgruppo è segnato da riti che lo sottraggono aldominio naturale-biologico e lo innestanoentro il flusso delle forze spirituali che hanno ilpotere di produrre la maturazione umana..Non c’è prova più evidente che, per il mondoarcaico, l’uomo non è fatto dalla natura. (…)Nelle società arcaiche per diventare uomocompleto ciascuno deve passare da una tappadella vita ad una successiva, ogni volta fare unarresto, patire una crisi, affrontare una«morte», sfociare in una «rinascita». Spesso siidentificano i riti di iniziazione con il passaggiodall’adolescenza all’età adulta, perché questatappa è forse la più fondamentale nello svilup-

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La lancia, la spada, il cavallo

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po umano (…) Ma le testimonianze raccolte insvariate tribù del globo conservano traccia diquattro età iniziatiche: infanzia, adolescenza,maturità, saggezza. L’educazione non riguarda,dunque, solo i giovani sino a una certa età, rag-giunta la quale l’individuo sia consideratouomo completo. La vita umana si configurapiuttosto, nelle società arcaiche, come un pro-cesso di educazione permanente lungo succes-sivi cicli di sviluppo che sono ogni volta chia-mati a una più vasta responsabilità sociale. (…)Alcuni studiosi hanno sostenuto che i riti dipassaggio avrebbero lo scopo di sanzionareufficialmente uno status sociale acquisito difronte alla collettività. Questo è certo l’effettopiù appariscente del rito. Ma non spiega «per-ché» la cerimonia del passaggio d’età compor-ti delle prove per lo più dolorose, dei distacchida precedenti forme di comportamento che l’i-niziato paga di persona attraversando espe-rienze spesso sconvolgenti. (…) Il rito di pas-saggio, come una soglia, ha due facce: sanciscela conclusione di un ciclo di vita, spalanca unnuovo orizzonte da intraprendere. (…) Il gio-vane che passa dallo stadio di adolescente aquello di guerriero, non si tramuta, come permagia, in un guerriero completo per effettodel semplice rito di passaggio; ma grazie a quelrito muta radicalmente attitudine verso la vita,prende a guardare ogni cosa da guerrieroadulto, di fronte a qualunque situazione nonpuò più regredire alla posizione soggettiva del-l’adolescente. Il ragazzo che è stato è morto.(…) Tale «morte» è uno degli scopi dell’inizia-zione. Le esperienze che il giovane attraversasono sconvolgenti perché non è facile ucciderein lui il fanciullo che vorrebbe continuare avivere la vita per sé. L’altro scopo è, appunto, lanascita interiore di un nuovo essere (…) Per ilpensiero arcaico l’uomo è dunque fatto: non èlui a farsi da solo. Sono gli anziani iniziati, imaestri spirituali che lo «fanno»9”.

Queste osservazioni valgono per tutti ipopoli primitivi, come ad esempio quel-li dell’Africa nera dove i riti di passaggio

“dall’infanzia all’adolescenza (…) immettonodi pieno diritto l’individuo nella vita del clan.(…) Questa operazione è detta dai Kikuyu irua(...) (nel Kenya) l’abolizione dell’irua (…)distruggerebbe la simbologia che permette diidentificare le classi di età (…) si tratta di deter-minare, con l’operazione fisiologica e con ilcomplesso dei riti che l’accompagnano, unvero e proprio trauma psichico nel giovane,tale da marcare indelebilmente il momento dipassaggio dall’epoca dell’infanzia a quella diuna maggiore maturità10”.

I più recenti studi di etologia e psicolo-gia applicati ai conflitti ed alla parteci-pazione all’uso delle armi indicano che

“il «vero» uomo nei popoli primitivi è colui cheritorna alla propria tribù dopo avere ucciso perla prima volta un nemico. La guerra diventaquindi una specie di prova dell’esistenza e del-l’autenticità, come se un uomo, o almeno l’uo-mo primitivo, facesse la guerra per dare a sestesso una prova del proprio esistere come verouomo (…) Un capitolo particolarmente impor-tante della guerra nei popoli primitivi è quelloriguardante i rapporti tra la guerra e i riti ini-ziatici. Questi infatti devono essere consideratinon solo come riti puberali, ma come tipici ritidi iniziazione alla guerra, in quanto fare laguerra è l’attributo specifico dei maschi adulti.Dopo i riti iniziatici, il giovane è autorizzato aportare le armi. (…) Il fatto che i riti iniziaticisi colleghino direttamente, oltre che alla castra-zione, all’interruzione del rapporto con lamadre e alla vicenda di morte e resurrezione,ci induce ad avanzare l’ipotesi che l’apparte-nenza al gruppo implica la mutilazione di unaparte di sé11”.

In effetti

“tanto nell’addestramento militare quanto neirituali di iniziazione di molte popolazioni (…)i giovani vengono spesso umiliati e tormentatiin modo eccessivo; solo successivamente ven-gono istruiti per essere infine accolti nellacomunità come membri a pieno diritto. Allabase dei rituali di iniziazione ci deve essere lanaturale inclinazione dell’uomo ad apprende-re dalle persone di rango superiore (…) Infinele privazioni patite in comune creano legamiduraturi all’interno del gruppo. Lo scopo del-l’iniziazione sopra menzionata (cioè l’identifi-cazione assoluta col gruppo e l’adozione dellesue norme e regole, che in parte vengonocustodite come grandi segreti) viene assicuratoallo stesso modo. (…) Nell’addestramentomilitare, la recluta viene per prima cosa sotto-posta ad un processo (…) (che) ha lo scopo diinserirla in un grado basso della gerarchia edunque di aumentarne la disposizione adapprendere dai superiori e a ubbidire ai loroordini. (…) La disposizione a obbedire, sia essainnata o indotta dall’addestramento, evita chela contesa per il rango sia continua e distrutti-va, evento che disturberebbe sensibilmente lavita del gruppo12”.

Se, in sostanza, l’iniziazione alle armi edalla maturità predisporrebbe psicologi-camente all’adesione ed al sacrificio diuna parte di sé al gruppo, essa comun-que interverrebbe anche nell’indottri-namento necessario per poter uccidere:“l’inibizione a uccidere un altro uomo èmolto forte in tutte le culture; se la sivuole superare, come ad esempio inguerra, allora è necessario un particola-re indottrinamento che porti a ignoraregli appelli alla solidarietà umana, capa-ci di risvegliare sentimenti di compas-

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Ipotesi sull’addestramento alle armi

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sione13”. Anche il comportamentoaggressivo è stato dimostrato essere for-temente influenzato da modelli diapprendimento, in particolare damodelli sociali14. Similmente e simme-tricamente, l’indottrinamento dei gio-vani punta anche all’educazione alsacrificio a favore del gruppo: “lo spiri-to di sacrificio viene intensificato for-nendo all’impulso bellico un aspettoentusiasmante (…) (esso) viene di solitomobilizzato nei giovani. Sono i giovaniche vengono spinti facilmente ad alie-narsi per uno scopo ideologico. I giova-ni accettano l’idea di perdere la vita alservizio di un’idea con maggiore facilitàdegli adulti15”.Anche se non si hanno prove documen-tali precise degli usi addestrativi duran-te la facies villanoviana, vi sono alcuniindizi che portano a presumerne l’esi-stenza, proiettando a ritroso nel tempoqualche prodromo di ciò che sarà l’ad-destramento giovanile tra orientalizzan-te ed arcaismo d’Etruria, e ricordandogli esercizi che si tenevano nel CampoMarzio della Roma delle origini16.D’altronde alcune tracce di riti di inizia-zione e di passaggio, connessi ai solimaschi ed all’uso delle armi, per lomeno per la caccia, sono stati indivi-duati in Italia, specie all’interno di grot-te, e risalgono sino alla preistoria;

“many of the Italian cult sites, with their hid-den, inaccessible and cramped chambers fitthis model well, but the best evidence comesfrom Grotta di Porto Badisco. This cave has

abundant wall paintings, executed in red ochreor dark brown bat guano, distributed overthree galleries or corridors, divided into twelveseparate zones (…) the basis of my argument isthat the paintings in the different zones repre-sent transformations of the same themes. Asone progresses further into the cave, oneencounters increasingly sacred versions of thethemes (…) if this is right, we can go on toargue that the different zones may representdifferent levels of religious knowledge and thatthe access to them might coincide with succes-sive initiations into such knowledge. (…) Onthe roof and the walls of Zone VIII –an innerzone, more than half way along Corridor 2- areabout 100 juvenile handprints. Theseobviously indicate the presence of juveniles inthis part of the cave, and they could well havebeen there as participants in initiation ceremo-nies of the kind I have envisaged. The nextstage in my thesis is the argument that the ini-tiation rites involved only the male members ofthe community. There are three reasons forarguing this. One reason is, as usual, ethnogra-phic analogy. (…) There are also two internal,contextual arguments. The first relates to theexistence of a hunting cult. (…) The secondcontextual argument relates to the location offigures in which the sex is marked (…) all thecertain female figures occur in Zone III,argued to be the first zone in the cave, with theleast secret versions of the cult, while definitelymale figures are found in almost all zones,including the innermost, most sacred zones17”.

Per periodi più recenti la documenta-zione archeologica dell’Italia centraleoffre prove inconfutabili quanto menodi una differenziazione nell’atteggia-mento sociale nei confronti dei giova-nissimi all’interno delle comunità; inCampania, ad esempio, “esisteva (…)una specializzazione di funzioni, nella

prima metà del IX sec., alla quale corri-spondeva una struttura gerarchica ele-mentare; inoltre il carattere di membropleno iure della comunità escludevaalmeno una fascia d’età: quella dei bam-bini, che in maggioranza non eranoammessi alla sepoltura formale18”. Altre tracce in tal senso risalenti allaprima età del ferro possono osservarsinell’uso, attestato in alcuni siti, di sep-pellire gli infanti ed i giovanissimi pres-so le capanne di abitazione piuttostoche nelle necropoli, escludendo quindiqueste categorie di defunti da quantofissato dalle norme religiose che dove-vano valere solo per gli “adulti” e percoloro che avevano quanto meno avvia-to il loro processo di iniziazione verso lamaturità. E’ stato recentemente ribaditocome nell’area laziale (sia latina cheetrusca) all’inizio dell’età del ferro “èprobabile che i bambini sotto una certaetà (tre anni circa) non avessero sepol-tura singola nella necropoli (di Veio) eche la loro morte, come documentato aRoma (Plut., Numa, 12; Cic., Tusc., I,39,93), non dovesse essere occasione dilutto”.19 E’ pur vero, in opposizione,che sono attestate anche molte tombe,nelle necropoli, di maschi privi di cor-redo e di armi, esclusi dunque dall’ini-ziazione alle armi ma ammessi alla pre-senza nelle aree necropolari.Questo diverso trattamento dinanzi airituali di sepoltura ricalca quanto avvie-ne presso vari popoli primitivi attuali,dove come si è visto “se un bambinomuore (…) la comunità non gli dedica

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La lancia, la spada, il cavallo

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la cerimonia funebre che si celebra perla morte di un adulto20”. Sarà solo nelcorso dell’VIII secolo ed agli inizi delVII sec.a.C. –e solo per rari casi- che inalcune tombe infantili (come a Veio)appariranno delle armi, collocate adindicare non più un ruolo sociale, ma ilrango del gruppo genetico di apparte-nenza21. Simili atteggiamenti sono statiriscontrati anche in altre aree italichenel VI sec. a.C. quando –ad esempio aRecanati- “la presenza di alcune tombedi bambino con punte di lancia suggeri-sce la possibilità che, sul piano simboli-co, almeno una parte dei bambini siacaratterizzata in modo analogo agliadulti, attraverso l’evidenziazione dellaloro qualità, ereditaria, di futuri guer-rieri22”.Si è osservato, parlando delle spade,come queste compaiano in deposizioniparticolari, ipoteticamente riferibili apochi individui che, armati di spada elancia, si distinguevano con chiarezzadal resto degli armati di sola lancia.Questi “spadaccini”, più che dall’agia-tezza economica, sarebbero stati caratte-rizzati o da una particolare fascia d’età,oppure dall’essere ciascuno un “emer-gente” all’interno di una generazione.Non disponendo di un’analisi precisa edefinitiva sull’argomento, ma basandosisul più volte citato passo delle TavoleIguvine, si può rilevare che, all’internodegli armati, la scansione per età avevaun suo peso, fatto questo che non puònon trovare origine nel delicato bino-mio di prestanza ed esperienza23.

Tutte queste osservazioni, assieme allaconoscenza di altri usi meglio noti perl’Etruria delle epoche più tarde ed aicitati confronti etnologici con popoli pri-mitivi, lasciano supporre che l’accesso almondo degli adulti, quali membri dellacomunità a tutti gli effetti compresi quel-li militari, fosse “sbarrato” anche nell’E-truria villanoviana e nelle aree italiche daun periodo di iniziazione che compren-deva l’addestramento ginnico e l’utilizzodelle armi. Nella fascia d’età intermediatra “infanti” e “adulti” gli adolescentidovevano praticare una forma di indot-trinamento preparatorio24; questo, nelleforme praticate nell’antichità secondoquanto ci è noto anche dagli usi ellenicicoevi25, interessava probabilmente il fisi-co, la morale, l’intelletto, le arti e l’acqui-sizione progressiva di quel bagaglio diriti, conoscenze e miti che formavano ilpatrimonio comune del gruppo diappartenenza. Ciò era il fondamentalebagaglio di identificazione del singoloquale membro di una comunità e qualeerede di un patrimonio di nozioni chesolo la tradizione orale consentiva dimantenere26. A ciò si aggiungeva unaforte forma di irrobustimento del carat-tere: “uno dei principi dell’addestramen-to dei guerrieri spartani (oltre alle proveiniziatiche di stampo classico) consistevanel misurare la loro «resistenza adammettere mancanze ed a cedere allaseduzione dell’errore», dopo aver fattoloro sperimentare su se stessi i differentiaspetti per ciò che veniva consideratovergognoso e infamante27”.

Attraverso tappe simili all’ephébeia elle-nica dunque, a partire dalla preadole-scenza e da un’età di circa 11 anni, iragazzi dell’Etruria villanoviana proba-bilmente dovevano apprendere, con ilpatrimonio culturale dell’epoca e delluogo, anche i fondamenti dell’adde-stramento militare, per divenire attornoai 17 anni pienamente idonei al com-battimento. Nelle inumazioni tarquinie-

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Ipotesi sull’addestramento alle armi

Una parte del testo delle tavole di Gubbio, cheriferisce di iouies hostatis anhostatir, ovvero digiovani con lancia e senza lancia - Gubbio,Museo Civico

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si del villanoviano II infatti “i maschinon sono connotati come portatorid’armi (cioè lancia e coltello in ferro), senon a partire dalle inumazioni di terzafascia (ovvero di età al di sopra degli 11anni)28”. E’ inoltre noto che a Roma icittadini con obblighi militari, dettiiuniores, appartenevano alla fascia di etàtra i 17 ed i 46 anni; ormai in età cesa-riana tuttavia non tutti erano costretti alreclutamento, se non in casi di emer-genza, come nel 52 a.C. quando furonochiamati alla coniuratio29.Per tentare di immaginare tale adde-stramento, è bene richiamare quali fos-sero gli usi dell’ephébeia greca e di varipopoli primitivi attuali. I metodi di ini-ziazione all’attività guerriera in usopresso i Nias dell’Indonesia -come legenti dell’età del bronzo finale e dellaprimissima età del ferro insediati in vil-laggi con territorio ristretto, strutturatisocialmente in modo embrionale sottoun capo e con un armamento leggerosimile- prevedono che

“solo alcuni riescono a diventare (guerrieriemergenti), ma tutti gli uomini validi sonocapaci di combattere e partecipano agli scontricontro altri villaggi. I giovani vengono sottopo-sti ad un severo addestramento che inizia quan-do sono ancora in tenera età; ai bambini disette-otto anni vengono fornite lance e spade dilegno affinché imparino a imitare i movimentidegli adulti. Dopo questa fase iniziale l’adde-stramento si fa più severo: i bambini ricevonodegli scudi e si esercitano a parare i colpi di lan-cia. Dopo alcuni anni, quando gli adolescentihanno ormai acquisito una certa padronanzanel maneggio delle armi, cominciano ad eserci-

tarsi nel lancio: per migliorare la loro mira li siobbliga a usare come bersaglio un guscio dinoce di cocco posto a una certa distanza; unadolescente armato di scudo si colloca vicino albersaglio e cerca di parare i colpi. Appreso l’usodelle armi, i giovani ricevono vere lance daguerra, scudi di legno e sciabole e passano allefasi finali del loro addestramento, esercitandosinelle danze di guerra30”.

L’addestramento greco aveva, pur condifferenze tra città, dei parametri affini.A Sparta, dove gli usi erano particolar-mente duri31,

“siamo in grado di seguire abbastanza bene ilsuccedersi di queste graduali promozioni nell’e-ducazione militare spartana. A sette anni il bam-bino viene tolto alla madre ed arruolato in unasezione chiamata ila. A dodici anni il giovinettodiventa pais, quindi, di promozione in promo-zione, a vent’anni raggiunge il grado di irane.Durante tutto questo periodo il giovane è sotto-posto ad un rude allenamento fisico e morale.La sua educazione intellettuale è molto sempli-ce, essendo limitata all’apprendimento di alcu-ne poesie e dei canti guerreschi o religiosi cheaccompagnano le danze collettive; inoltre, adogni grado dell’iniziazione, il giovane riceve larivelazione delle tradizioni mistiche, leggenda-rie e rituali proprie della sua classe d’età. L’istru-zione fisica e militare è molto rigida; con piedi etesta nudi, vestito di una corta tunica, il giovanesi corica su di una lettiera di canne, fa quotidia-namente una marcia ritmata dal suono del flau-to e si dedica ad esercizi ginnici: salto, corsa, lan-cio del disco. Fra le prove imposte alle successi-ve iniziazioni, due sono rimaste celebri: la fla-gellazione davanti all’altare di Artemide Ortia el’ultima, la krypteia, superata la quale il giovanediventa irane32”.

Similmente, a Creta l’addestramento -prima fisico e poi militare- aveva inizio a

14 anni, ed a 18 il maggiorenne venivaiscritto -come peraltro a Sparta- ad unaconfraternita (hetaireia) che praticavapasti pubblici in comune33. Anche dove,diversamente da Sparta e Creta, i pro-prietari dei fondi agricoli erano contem-poraneamente agricoltori e soldati, l’ad-destramento era simile anche se abbre-viato; ad Argo, Megara, Sicione, Platea,Tebe, Tespie ed in altre città esisteva l’e-phébeia, praticata in età classica anche adAtene, dove però venne formalmentestabilita nel tardo IV sec.a.C34. Con essaa 18 anni i figli dei cittadini venivanoarruolati per due anni al fine di ottene-re istruzioni alla ginnastica dai paidotrìbesed all’uso delle armi dai didàskaloi. Comeè stato osservato, queste usanze sembra-no derivare da pratiche molto antiche;

“per capirle, infatti, è necessario confrontarlecon alcuni aspetti delle società dette primitive.In queste società la popolazione maschia adul-ta che saremmo tentati di qualificare «a pienoregime», forma una o parecchie associazionicon pratiche e tradizioni segrete. Queste asso-ciazioni dispongono di una casa comune dovesoltanto gli uomini sono ammessi; qui essi tra-scorrono parte della giornata, si distraggono,consumano qualche pasto. I giovani sonoaccolti in queste società soltanto a partire dauna determinata età e dopo aver subìto un’ini-ziazione che comporta una comune formazio-ne e prove spesso sgradevoli e crudeli35”.

Nella Grecia della metà del VII secolo, diEsiodo e del “secondo Omero”, le tradi-zioni delle confraternite di contadini-sol-dati andavano perdendo il loro ruolo diossatura di base della società, ma

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“la tradizione di vita comune e di consorzioarmato, anche se in via di dissoluzione, non èancora svanita al punto di aver cessato di colo-rare, guidare e illuminare col suo ideale d’ono-re e di fierezza la vita di questi rudi contadini,i quali sanno benissimo che non si possiedeveramente la terra del proprio lotto se non si ècapaci di difenderla con l’elmo sul capo, loscudo al braccio e la zagaglia in pugno, dopouna adeguata istruzione e un’iniziazione tradi-zionale dirette dagli anziani36”.

Nella Roma repubblicana il giovane -asegnalazione della sua appartenenzaad un gruppo di individui non ancoramaturi, e quindi degni di rispetto quasisacrale- come si è accennato vestiva latoga praetexta orlata da una fascia diporpora, come anche i magistrati, iconsoli, i dittatori, i pretori, gli edili edi sacerdoti. Il diritto alla praetexta dura-va fino ai 17 anni, quando una cerimo-nia solenne accompagnava l’abbando-no della praetexta per accedere allamaturità, indicata dalla toga pura -ovvero bianca senza ornati- dettaappunto anche virilis. Va osservato chequeste esteriorità dell’abbigliamentoerano in realtà il riflesso di fatti moltopiù pregnanti; lo stesso fatto di vestirela toga indicava l’appartenenza alnumero dei liberi di un certo rango,che quali cives togati si contrapponeva-no al populus tunicatus, agli apparte-nenti alle classi inferiori abilitati solo alvestire la tunica37.Alla crescita del ragazzo tra gli 11 ed i17 anni, come vedremo più oltre par-lando del Lusus Troiae, a Roma cambia-va anche la sua appartenenza alle fasce

giovanili, passando per i pueri minores,pueri maiores e iuvenes; queste ripartizio-ni indicavano per certo scaglioni corri-spondenti a diversi livelli di preparazio-ne. L’associazione giovanile di iuvenes(iuventus) risulta sempre, nella storiaromana, “organizzata su nobili basi econ fini squisitamente educativi38”; Ter-tulliano (Nat. II, 2) ci ribadisce che laiuventus era aperta agli adolescenti cheper la prima volta indossavano la togapraetexta.Le associazioni giovanili non sono notesolo a Roma, ma

“anche in epoche pre-romane. Un’iscrizioneosca, trovata a Pompei, sui muri di un edificioidentificato come palestra, si riferisce appuntoad un sodalizio giovanile e menziona unaVereiia Pumpaiiana, interpretata con il significa-to di Iuventus Pompeiana. Ciò trova riscontroanche nelle fonti (Livio IX, 25) quando si parladella distruzione delle tre città degli Ausoniavvenuta nell’anno 314 a. C. facendo riferi-mento alle relative Iuventus39”.

L’equitazione, conoscenza fondamenta-le per gli appartenenti alla cavalleria (equindi tra i personaggi più agiati) nonpoteva certo essere improvvisata, equindi doveva far parte delle nozioniche necessariamente i rampolli di cava-lieri si trovavano a dover apprendereprecocemente. E’ stato rilevato checavalcare senza sella né staffe, con unoscudo che sbilancia, e dover anche col-pire con la lancia o con la spada, è allaportata solo di cavalieri molto esperti,ed anche Arriano –quando già esisteva-

no le prime selle- “makes it clear thatthe standard bearers needed to be themost experienced riders in the Tacticamanouvres40”.Non sarà un caso che, tra le disciplinesportive d’Etruria, il blocco più antico e“preolimpico” comprendesse, col pugi-lato, anche le corse di carri e l’equita-zione41: sebbene le testimonianze in talsenso siano di epoca orientalizzante èdifficile pensare che, quando nelletombe villanoviane più significative sideponevano morsi di cavallo, non fos-sero in uso attività ludiche equestri inte-se all’addestramento.E’ presente una consistente documen-tazione sull’esercizio del cosiddettoLusus Troiae, un’esibizione di destrezzache, seppur effettuata a Roma sinoall’età di Claudio, è documentata inEtruria sull’oinochoe di Tragliatella del-l’ultimo quarto del VII sec. a.C. (630-610 a.C.), e di cui Virgilio fa risalire leorigini al tempo di Enea42. Ad essa par-tecipavano tre gruppi di giovani di etàdiversa, tra gli 11 ed i 17 anni, che rap-presentavano probabilmente diversilivelli di preparazione premilitare43.Per Virgilio il Lusus si teneva all’internodi una celebrazione funebre annualecon giochi di vario tipo, quasi un “sag-gio ginnico” giovanile al quale tutti siappressavano con segni sacri: “Ore fave-te omnes et cingite tempora ramis, Sic fatas,velat materna tempora myrto”44. Il LususTroiae era così eseguito dai giovanissimia cavallo ed in armi, come si evince daiversi di Virgilio45:

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“«Va’, corri, e ad Ascanio, se ha già pronta laschieradei fanciulli con sé, ed il torneo dei cavalli èallestito, di’ che in onore dell’avo guidi le squadre e simostrinell’armi»; diceva, e intanto dal lungo circotutta fa uscirela folla ammassata, comanda che lascino liberoil campo.E i piccoli avanzano insieme, davanti agli occhidei padrisplendono alti sui cavalli frenati; tutti, a guar-darlipassare, fremono i giovani Teucri e i Trinacrii.A tutti stringe i capelli, com’è costume, coronasottile, e portan due aste di corniolo, di ferro le punte;alcuni han lucenti faretre alle spalle; a sommodel petto, intorno al collo, va un giro di duttile oro ritorto.Tre squadre di cavalieri, e in pari numero avan-zanotre capi: dodici dietro a ciascuno i fanciulli.Risplendono in schiere divise, in linea i capicavalcano.Una è la schiera trionfante che un piccolo Priamoguida e il nome del nonno ripete, tuo carofiglio,

Polite, e gloria futura degli Itali: un traciocavallopezzato di bianco lo porta, bianche sopra lozoccolole zampe, bianca la fronte arduo levante.Secondo Ati, da cui gli Atii latini discesero,il piccolo Ati, fanciullo a Iulo fanciullo assaicaro.Ultimo, ma innanzi a tutti per bellezza, il belIulomonta un cavallo sidonio, che Didone la can-didagli aveva dato, che fosse pegno e segno d’amore.Cavalcano gli altri fanciulli cavalli del vecchioAceste trinacrio.Applaudono ai piccoli ansiosi, e mentre li guar-dano,godono i dardani, le avite fattezze ravvisano.Poi che, festanti, tutto il consesso e gli occhi deipadribearono, alti a cavallo, il segno che essi sapevanoEpìtide diede, un grido lontano, e fece schioc-care la frusta.Quelli presero a correre in fila e in tre gruppisnodaron le schiere caracollando, e ancora, aun richiamo,si voltarono indietro e l’armi minacciose bran-dirono.Poi nuove fughe cominciarono e nuovi ritorni,

correndosi incontro, e i giri coi giri, alternan-dosi,intrecciano, accennan figure di lotta con l’armi:e ora scoprono in fuga le spalle, ora le piccherivoltanoferocemente, e poi, fatta pace, ancora insiemegaloppano.Come nell’alta Creta il Labirinto antichissimo,groviglio di chiuse pareti, ambiguo inganno dimillevie, formava un cammino dove ogni traccia,raccontano,l’indecifrabile e irripetibile intrico facevabugiarda;così i figli dei Teucri, correndo, le tracceaggrovigliano, intesson per gioco fughe e bat-taglie,sembrando delfini, che a nuoto per l’umidestradeil mare Carpatico o il Libico solcano (e scher-zan tra l’onde).Questo gioco di corse e battaglie, per primoAscanio, quando Alba cinse la Lunga di mura,ripeté, insegnò a celebrarlo agli antichi Latini,come lui da fanciullo e i piccoli Teucri con lui;gli Albani insegnarono ai figli, quindi la massimaRoma l’accolse e conservò il rito patrio,e ancora Troia si dice e Schiera Troiana i fan-ciulli”.

La descrizione ritrae dunque il LususTroiae come una evoluzione ippica ditipo guerresco, avvicinabile per effettocoreografico alle danze armate marispetto ad esse molto più vicina ad unaprova di destrezza, in quanto simulazio-ne per giovani di azioni di combatti-mento. Altre notizie letterarie relative afasi storiche molto seriori ci indicanoche il Lusus era lo spettacolo principaledei Ludi iuveniles romani, come è atte-stato da Plutarco (Cat. Min., 3, 1-2) per

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Particolare dalla decorazione dell'oinochoe di Tragliatella con due giovani cavalieri presso il labirinto indicato come "Truia"

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l’età sillana ed, in seguito, da altri auto-ri per gli anni 46, 40 e 33 a. C. (CassioDione, XLIII, 23, 6; Svetonio, Caes., 39,2) sino all’età augustea (Cassio DioneLI, 22, 4; LV, 10, 6) quando se ne cessòla replica (Svetonio, Aug., 43, 2) perriprendere sotto Caligola e Claudio.

“In an illumining article Dr. Graham Websterhas traced the Hippika Gimnasia back to theearly years of Rome’s development, and heshows the link with the Lusus Troiae ceremonywhich took place each year at the spring festi-val on 1 March. The mythical counterpart tothe religious ceremony was shown in Virgil’sdescription of the Troy games in the Aeneid.From this we learn the breed of the horse used–mainly Sicilian, with one troop leader on aThessalian, both very highly rated breeds- andthe manoeuvres executed. The three troopsencircled spectators, formed lines and wove apattern at the gallop, charged and skirmished,wheeled and counter attacked. In the Tactica (diArriano) we see the circling in the CantabrianGallop, the counter attack (… ) Suetonius men-tion the Troy games several times and in hissection on Caesar specifically notes them, asdoes Dio, who tells us they were an equestrianexercise for young boys of the nobility. Dio alsocomments that men of the same rank compe-ted with chargers, pairs and four horse teams.This shows the difference between children’smounts and the adults’ chargers. (…) Dr. Web-ster points out that these equestrian displays,ridden by the juveniles, only took place on anannual basis. By Arrian’s day the military exer-cises of his Tactica would appear to be of a moregeneral nature46”.

Le fonti47 in effetti chiariscono cheprendevano parte alle evoluzioni tregruppi di ragazzi, ovvero i già citatipueri minores, pueri maiores e iuvenes, che

formavano le cosiddette tres equitum tur-mae. Dal momento che i ragazzi impe-gnati avevano tra gli undici ed i dicias-sette anni, si evince che le tre turmaeerano costituite da giovani di età diver-sa, giunti a diversi livelli di preparazio-ne militare48.Come si è visto, i fanciulli, appartenen-ti alla nobiltà, coronati ed armati, corre-vano in file descrivendo andamenti cir-colari e sinuosi. L’andamento delloschema ci è conservato da un’iscrizionepompeiana49 che esalta, in due distici,la piacevolezza del lusus serpentis e l’abi-lità di un giovanetto, Septumius: l’iscri-zione è infatti realizzata con un anda-mento serpentiforme, che descrivequattro curve alternativamente a destraed a sinistra. Si è già detto come varistudi abbiano posto in luce il legameprofondo –ed al contempo l’evoluzione-che unisce il Lusus alle evoluzioni conte-nute nell’Ars Tactica di Arriano, stilatanel 136 d.C., in particolare per l’anda-mento del percorso; peraltro nella Gio-stra della Quintana, attestata a Folignogià nel XVII secolo e tutt’oggi disputa-ta, l’evoluzione equestre prevede ancorala percorrenza di un ovale e di un “8”iscritto nell’ovale, con un andamentoserpentiforme50.L’antichità del Lusus Troiae, riferita comemito dal passo virgiliano51, è confermatastoricamente come si è detto da unreperto di eccezionale interesse, che con-sente di riferirne la pratica anche all’am-biente etrusco orientalizzante. Si trattadell’oinochoe etrusco-corinzia di Traglia-

tella nel territorio di Caere (oggi aiMusei Capitolini di Roma), sulla qualesono incisi e dipinti due cavalieri nudi,armati di scudi con episema diverso e dielmi a calotta, di cui uno regge ancheun’asta mentre l’altro sembra accompa-gnato da una scimmietta sul dorso delcavallo. Alle loro spalle è disegnato unlabirinto a sette cerchi al cui interno l’i-scrizione “TRUIA”, ovvero “Troia”, indi-ca chiaramente quale lusus equestre aves-sero svolto i due cavalieri, in perfettaassonanza col passo virgiliano.Rilevato che l’oinochoe risale all’ultimoquarto del VII sec. a. C. si desume che ilLusus Troiae era già noto ai giovani cere-tani di quell’epoca, i quali dovevanocondividere una buona parte delle suecaratteristiche disciplinari che sarannopoi romane, come l’adesione esclusivadi giovani nobili in età di preparazionepremilitare, del cui corpus di discipline illusus faceva senz’altro parte. L’aristocra-ticità del gioco doveva essere talmentecaratterizzante da dare ad esso un valo-re rituale che non andò perduto nean-che col trascorrere dei secoli, giacché vipresero parte personalmente in gioven-tù Catone, Britannico e Nerone; la stes-sa premiazione dei partecipanti preve-deva a Roma, in epoca tarda, la conse-gna di una nobile lancia d’argento sulCampidoglio52.La rappresentazione sull’oinochoe etru-sca accoglie anche scene mitologicherelative a Teseo ed Arianna, oltre che aesplicite scene sessuali; di conseguenzail contesto complessivo pone in luce il

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valore iniziatico del lusus stesso, rintrac-ciandovi chiari riferimenti al mito diTeseo intersecato con i miti omerici. Inparticolare uno studio ha rilevato, nellaintera narrazione organica dei fregi sulvaso, una serie di segni dai quali “appa-re evidente il valore iniziatico (...) inrapporto al cambiamento ed allo svi-luppo della sessualità degli iniziandi53”;così dal sacrificio di Teseo al suo scam-bio di doni con Arianna, tutto indica lanecessità per l’eroe –e, per estensione,per i giovani- di superare prove perconseguire una maturità sessuale la cuicollocazione è appunto in fondo ad unpercorso iniziatico che, tra simbolo erealtà, è il labirinto identificato conTroia. Questo intreccio tra consegui-mento dell’attitudine alla guerra e dellacapacità di generare ha abbondanticonfronti nel campo etnografico54.Anche nell’Atene di età classica, comedimostrano numerose scene dipinte suvasellame attico a figure rosse, alcuni gio-vani partecipavano ad esercitazioni dellacavalleria, che pure aveva un ruolo mili-tarmente marginale: “le jeune est à la foisle partenaire érotique, l’athlète, le guer-rier non ancore pleinement hoplite55”.Riguardo l’attestazione di sport equestrie corse ippiche, l’epoca villanovianaoffre purtroppo documenti poco artico-lati figurativamente; il momento di veraespansione in questo campo iconografi-co si ha col periodo orientalizzante,quando le immagini di cavalli e cavalie-ri divengono parte integrante dell’ima-gérie presente su monumenti funebri,

palazzi, oggetti di pregio destinati ainobili. La base in arenaria da PoggioGaiella di Chiusi con quattro cavalieri incorsa, ormai del 600 a. C. circa56, ritraedegli individui, a giudicare all’unicointeramente conservato, di giovane età,ovvero imberbi dalla tipica capigliaturadel kouros, che indossano una corta tuni-ca a maniche corte (oltre forse a unperizoma). Una simile gara è ritrattasulle lastre da Murlo con corse di caval-li relative al palazzo principesco degliinizi del VI sec. a. C.57, peraltro prece-dute cronologicamente dall’acroterio aritaglio, ancora da Murlo, risalente al625-600 a. C. e riproducente un corri-dore a cavallo presumibilmente nudo senon per una cintura alla vita58.Una prova di destrezza equestre dovevaessere anche l’esibizione dei giovanidesultores, che balzando su e giù dalle

groppe dei cavalli (secondo immaginidipinte di età arcaica) eseguivano lestesse figure ancora oggi presenti neglispettacoli circensi. Con una disciplinasolo lontanamente affine a quella grecadei kalpoi dromoi e degli apobati (dovel’atleta, dopo 600 metri di cavalcata, sal-tava a terra per coprire il resto del per-corso tenendo il cavallo per la briglia) idesultores compivano a Roma vere e pro-prie acrobazie da circo con evoluzionisu uno o due cavalli59. Infatti gli atletisaltavano da un cavallo in corsa su unaltro che procedeva appaiato, oppurepotevano sdraiarsi sul dorso dell’anima-le al galoppo; in altri casi cavalcavanostando in piedi sul cavallo, oppure rac-coglievano in corsa, restando in groppae sporgendosi verso il basso, deglioggetti posti sul terreno60. Anche questiesercizi, da un passo di Svetonio, sap-piamo che erano svolti da giovani dellanobiltà: “equos desultorios agitaveruntnobiles iuvenes” (Caes, 39). Com’è statorilevato62 tali esercizi avevano fini edu-cativi e, come per le discipline già osser-vate, servivano in particolare all’educa-zione ginnico-militare degli aristocrati-ci. In Etruria gli esercizi dei desultoressono ben documentati solo dopo lafacies villanoviana62, ed a Roma essisono attestati fino in età adrianea; gliesercizi svolti in pubblico secondo l’ArsTactica di Arriano si concludevano con

“the very spectacular leap on to their gallopingchargers. Coming at the end of a display, par-ticularly when their arm and back muscles

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La lancia, la spada, il cavallo

Particolare dalla decorazione dell'oinochoe diTragliatella con due coppie dedite ad attivitàsessuali

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must have been beginning to tire, this deman-ded supreme fitness and athleticism in thetroopers, and in the horses a degree of steadi-ness. (…) To mount as Arrian demands in thefull battle kit on to a galloping horse needsspring in the legs, strength in the arms, andtiming. As most cavalry recruits were still tee-nagers or in their early twenties when enlistingthey would have been at the height of theirphysical powers63”.

Sulla base di quanto si è sin qui osserva-to, si può tentare -in via ipotetica- diricostruire l’ambito e le fasi dell’adde-stramento iniziatico all’uso delle arminella prima età del ferro. Sino al terzoanno di età i bambini non dovevano farparte -come si è visto- della comunità, equindi solo attorno a quell’età forsesuperavano una prima fase di “ammis-sione” alla congregazione di villaggio.L’avvio delle forme di iniziazione edallenamento fisico probabilmente avevaluogo tra i 7 e gli 11 anni, fascia d’etàche sembra diffusamente prediletta tra ipopoli antichi e tra quelli primitiviodierni64.Non si tratta di un’età casuale; talefascia ricalca infatti i limiti minimi enormali della pubertà, secondo para-metri ancora oggi ritenuti validi65, checoincidono con lo sviluppo endocrinodei caratteri sessuali; tutt’oggi, in unmanuale di scherma, si legge che “rite-niamo che il bambino possa iniziare lascherma all’età di sei, sette anni, tenen-do conto della sua formazione fisica eindirizzandolo gradatamente medianteuna buona preparazione atletica66”.

I più giovani, indicati a Roma col termi-ne di pueri minores, dovevano iniziare amimare la scherma con armi-giocattoloin materiali deperibili, ed avviavano -inalcuni casi- la loro pratica equestre.Dopo questa fase, di poco più chegioco, il superamento di una qualcheprova dava accesso ai pueri maiores, per iquali le tecniche di allenamento fisicoerano più dure ed impegnative Il puer,abbigliato della toga praetexta a Roma,era contrassegnato da una ammissionead una categoria “protetta” magica-mente e civilmente, in attesa della qua-lifica di membro della comunità a pienodiritto. Con la praetexta il giovanissimo,il cui aspetto avrebbe potuto altrimentiesser confuso con quello di uno iuvenis,si segnalava come individuo ancora“imperfetto”, ma quanto meno giàall’interno delle preparazioni di base.L’accesso alla categoria degli iuvenes erasenza dubbio di notevole peso, e quindisottolineata da cerimonie complesse,come a Roma l’abbandono della togapraetexta per la pura, probabilmenteaccompagnate da una prova. Lo iuvenis,non più puer, accedeva all’uso della lan-cia vera e propria, come abbiamo vistoaccadere presso alcuni popoli primitiviodierni e come sembra indicare il passodelle tavole di Gubbio che distingue“iouies hostatir anhostatir”, ovvero “giova-ni armati di lancia e giovani senza lan-cia”. Della corrispondente diffusionedella lancia nelle sepolture maschili vil-lanoviane quale elemento ricorrentenelle combinazioni semplici d’arma si è

già detto, e va ricordato come nel grup-po plastico del carrello dell’Olmo Bellodi Bisenzio siano riprodotti, con unadonna con un vaso sulla testa, un guer-riero ed un giovane con scudo67.Lo iuvenis accedeva ad una vera e pro-pria associazione giovanile o consorte-ria, entro la quale doveva probabilmen-te sottostare a prove pratiche di com-battimento simulato e ad allenamentiginnici pesanti. Non solo il corpo dove-va essere curato (con prove di affatica-mento, privazione, dolore) ma anche lamente, con l’apprendimento di cono-scenze fondamentali di uso comune(che oggi definiremmo scolastiche), conl’imparare danze e canti rituali e conl’acquisizione delle tradizioni religiose,rituali e mitologiche che costituivano latrama del tessuto connettivo di ciascunacomunità. Probabilmente le curie o letribù costituivano gruppi di iuventusdistinti, in modo che le specifiche tradi-zioni di ciascuna consorteria -nel cultodi antenati, nel ricordo di antichi retag-gi o in rituali particolari- fossero appan-naggio solo degli appartenenti allacuria o tribù stessa68.Di periodici banchetti pubblici fatti incomune, secondo usi diffusi presso varipopoli, esistono tracce in Etruria, comepresso l’edificio fontile semisotterraneodi San Giovenale di facies villanovianaed orientalizzante, dove sono stati rin-venuti cospicui resti di pasti collettiviconsumati ripetutamente nel tempo,attorno alla seconda metà dell’VIII sec.a. C69. La predilezione per il consumo

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Ipotesi sull’addestramento alle armi

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di cervidi può indicare che l’abbatti-mento di tali capi fosse una delle provedi abilità in cui si cimentavano i ban-chettanti, e forse ciò costituiva unaprova da superare, a seguito del succes-so nella quale l’animale veniva consu-mato in un rito sacro collettivo70. L’addestramento alla caccia ed allaguerra sono intimamente collegatiperché “la caccia e la pesca costitui-scono due tra le migliori scuole per laformazione guerriera (va ricordatoche la guerra, da Omero a Aristotele,veniva già concepita come una appli-cazione della caccia e della pesca)”70.Le virtù conseguite con l’eserciziodella caccia erano infatti le medesimedel combattimento: “il gruppo deicacciatori prefigura quello dei guer-rieri sotto molti punti di vista: l’adde-stramento e la resistenza; la coesionerigorosa tra i cacciatori (...); il corag-gio, la combattività e l’aggressività; losforzo di adempiere ad una missione(...); una conoscenza differenziata del-l’altro, tale da potersi spingere addi-rittura fino a delle identificazioni nel-l’animale; il rispetto di quest’ultimo,nel caso le sue capacità lo rendanoben più di una semplice preda: unessere la cui vita ha un prezzo nelmondo arcaico; l’accettazione deipericoli, spesso notevoli72”. Sul legame tra animali oggetto di caccia,accettazione sociale della morte –anchequella prodotta dall’adulto/guerriero- ereligiosità fa luce un passo di Franco For-nari:

“l’animale nemico divenne l’animale sacro, iltotem, che dava la vita e la morte, faceva nasce-re i bambini e faceva morire gli uomini per l’os-servanza e l’infrazione del tabù (...) Per unamisteriosa fermentazione d’anima l’uomo pre-datore arrestò il suo uccidere trasformando lacaccia in religione. L’animale sacro poteva veni-re ucciso, ma solo in modo sacrale, per il pastototemico, come rito di interiorizzazione dellamorte, che era stata messa al di fuori degliuomini attraverso l’uccisione. Allora, per laprima volta nella storia degli animali, l’uomoscoprì che uccidere equivale a morire73”.

Ancora entro l’età di iuvenes i ragazzidovevano essere resi edotti, con lenozioni di base sull’agricoltura e sulleproprietà officinali delle piante (inaccordo con Catone), anche sulle pecu-liari attività del membro adulto di pienodiritto in seno alla collettività, ovverosulla vita pubblica, sui sistemi sociopoli-tici e sull’attività in sede di assemblea.Sul genere di prova iniziatica cui lo iuve-nis di un centro villanoviano doveva sot-tostare per divenire adulto non si hannodati chiari, ma è quasi certo che ognicomunità adottasse prove diverse, forseaffini quanto meno per tematica e perambito esoterico. Dal momento che gliEtruschi di età arcaica non risultano cir-concisi74 si può escludere che -comeinvece avviene ed avveniva presso varipopoli del mondo- fosse proprio la cir-concisione il rito di passaggio cui sotto-stare. La prova comunque non potevanon dimostrare da un lato l’abilità inarmi, e dall’altro l’adesione alla tradi-zione religioso-culturale della comuni-tà; alcune analisi sulla conservazione

nell’Italia antica di foreste inesploratesino all’età romana tardorepubblicanahanno spinto ad ipotizzare che in questiboschi si tenessero prove di sopravvi-venza solitaria, sul tipo della krypteiaellenica. Se si aderisce all’ipotesi giàindicata della concessione della lanciacon l’ingresso nel novero degli iuvenes, èpossibile che il suo impiego fosse com-preso nelle prove da superare. Come siè già osservato sopra, la frequente pre-senza di scene di caccia nell’imagerie vil-lanoviana, anche e specialmente suoggetti caratterizzanti la capacità guer-riera –i foderi di spade- e la maturitàmaschile –i rasoi-75; la precoce e dura-tura iscrizione della caccia tra le attivitàsegno di aretè, ed i riti religiosi ad essaconnessi, fanno ritenere che probabil-mente una prova di abilità nella cacciapotesse rientrare nel rituale iniziatico.Tale azione di caccia ed uccisione pote-va probabilmente simboleggiare, comesi è visto, l’interiorizzazione della mortee quindi l’accettazione –tipica del mem-bro adulto della collettività e del guer-riero- che da quel momento si era ingrado di uccidere ed essere uccisi all’in-terno di leggi non (sol)tanto di natura,ma anche e specialmente umane, anziqueste valori fondanti del gruppo edella sua sopravvivenza. Gli esempietnografici in popoli primitivi attuali disimili prove sono peraltro numerosi76.Quali che siano state le prove –comun-que diverse probabilmente da villaggioa villaggio- esse dovevano essere real-mente selettive, e non solo formali. Una

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ulteriore interpretazione ipotetica delpasso già citato delle Tavole Iguvinevedrebbe infatti nei “iouies anhostatir”,cioè i “giovani senza lancia”, quei mem-bri della comunità che avessero fallito laprova di iniziazione.Il testo iguvino, facendo riferimento a“nerus sihitir ansihitir”, ovvero “uominiarmati di spada e senza spada” fa intra-vedere la possibilità di un ulteriore livel-lo di iniziazione dopo l’ingresso nelmondo virile. Il parallelo formulare tragiovani ed adulti sembra in effetti indi-care che, ad un certo livello di maturità,come ai giovani poteva venire concesso

l’uso della lancia, agli adulti potevavenir concesso quello della spada, dellacui selettività in base alle deposizioni siè già parlato. Presso popoli primitiviattuali, come si è già citato, è attestata lapresenza di livelli di progressiva inizia-zione nell’arco della vita, per cui “lamaturazione umana (…) si svolge gene-ralmente lungo tappe successive cheper lo più configurano un arco di quat-tro età: infanzia, adolescenza, maturità,saggezza. (…) L’educazione non riguar-da dunque solo i giovani fino a unacerta età (…) si configura piuttosto,presso le società «primitive», come un

processo di educazione permanente77”.Qualcosa di simile, come si è visto, èipotizzato anche per i popoli preistoriciitalici sulla base dell’iconografia di alcu-ne grotte.La preminenza sociale degli armati dispada sugli armati di lancia sarebbestata dunque quella degli uomini piùmaturi (nell’esercito romano si militavadal 17° al 47° anno di età78), ovvero deiveterani che, acquisite ulteriori cono-scenze iniziatiche ed essendo numeri-camente più esigui degli altri79, poteva-no essere destinati ad un ruolo dicomando80.

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Ipotesi sull’addestramento alle armi

A sinistra, gli atleti della tomba della Scimmia a Chiusi, raffigurati evidentemente non circoncisi econ la cosiddetta "infibulazione atletica"; a destra, un rasoio villanoviano con effigiata una scena dicaccia, dove forse si può scorgere un legame tra iconografia e supporto, connessi entrambi con lamaturità maschile

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Note

1 “Tutti gli uomini vengono addestrati alcombattimento. La città antica è essenzial-mente un castello abitato da una collettivitàla cui principale ragion d’essere è la difesacomune; in essa la difesa comune sta sullostesso piano della funzione economica”; daBouthoul, cit., pag. 199.2 Sorokin, Les theories sociologiques contempo-raines, 1934, pag. 249.3 Bouthoul, cit., pagg. 135-137, con ampiedocumentazioni sugli usi dei popoli primiti-vi, ivi e da pag. 365. Sulle possibili causedella durezza delle prove di iniziazione qualiselezioni biologiche e quali forme di “infan-ticidio indiretto” per alleggerimento demo-grafico, si veda in Bouthoul, cit., pagg. 322-323; sugli aspetti di conflitto generazionaledietro la gerarchia gerontocratica degli eser-citi, si veda Bouthoul, cit., pag. 396.4 Barrois, cit., pag. XXV. Alcuni recenti studi di psicologia relativi aidisturbi dei reduci di guerra (in particolaresulla sindrome da stress post-traumatico inguerra su reduci della guerra del Vietnam)rilevano che ben il 27% dei veterani impe-gnati in azioni di combattimento vengono inseguito colpiti da stress (si veda Maria TeresaMartini, Gli psicologi americani ripensano il Viet-nam: la sindrome da stress post-traumatico, in, acura di Paolo Tranchina, Enrico Salvi, MariaPia Teodori, Sandra Rogialli “Portolano diPsicologia”, Pistoia, 1994, pagg. 231-237).L’osservazione sul “drastico cambiamentonel sistema di reclutamento militare, passan-do da un servizio di leva selezionato compo-sto da professionisti e volontari ad un arruo-lamento obbligatorio” (cit., pag. 235) e lanotata correlazione della sindrome con unascarsa fiducia in se stessi avvenuta nel perio-

do premilitare -assieme ad esposizione adepisodi di violenza nel combattimento-muove a ritenere che individui psicologica-mente più fragili e non temperati a fatti trau-matici o violenti possano -in ogni tempo eluogo- venire poi colpiti da disturbi psicolo-gici. Le “torture orrende” nei riti di passag-gio puberale citate da Bouthoul, dunque,potrebbero configurarsi come una “vaccina-zione” psicologica alla quale il futuro com-battente viene sottoposto, cosicché tale trau-ma -provocato in addestramento, ovvero inuna condizione di controllo- tempri l’indivi-duo in un momento in cui dalla sua stabilitàpsicologica non dipenda la sopravvivenzastessa. Ciò inoltre ne impedirebbe il “dan-neggiamento” in età matura da parte di unasindrome da stress post-traumatico di guer-ra, i cui sintomi porterebbero il membrodella comunità ben al di fuori di quei para-metri di aretè che l’antichità esigeva da uncombattente. Peraltro le violente pratiche diiniziazione alla maturità per i maschi avreb-bero il ruolo di indottrinare alla violenza edalla competitività, in vista di una circoscrizio-ne della capacità empatica alla sola comuni-tà di appartenenza. Si veda, per la non istin-tività e non predeterminazione dell’aggressi-vità nei bambini, Francesco Robustelli eCamilla Pagani, L’educazione contro la violenza,in “Psicologia contemporanea”, luglio-ago-sto 1996, n.136, pagg. 4-10; per la tesi oppo-sta Carlo Alberto Pinelli, Alla ricerca delle ori-gini, in C.A. Pinelli e Folco Quilici, “L’albadell’uomo”, Bari, 1974, pag. 155 e segg.5 G.D., Nel paese degli elefanti e delle danze (IBameru), in “L’Universo” anno XX, luglio1939, n. 7, pagg. 561-565. Ciò sebbene pres-so i Bameru “chi ha bambini è ricco, è forte,è stimato, perché tutto il popolo istintiva-mente sente che in quelli sta la sua conser-vazione, la sua forza, la sua ricchezza”.

6 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 323; vedianche pag. 301.7 Luisa Faldini Pizzorno, Le barriere invisibili –Gli indiani Carajà del Mato Grosso, Genova,1989, pagg. 71-72.8 Grossi, Asmat, uccidere per essere, cit. pagg.40-41.9 Grossi, Asmat, uccidere per essere, cit. pagg.25-26 e pagg. 125-129.10 Oskar Kowalenko, Riti sessuali dell’Africanera, Milano, 1967, pagg. 19-22. Non diver-samente, nell’Europa ottocentesca il model-lo di esercito prussiano trovò la sua fortunaorganizzativa nell’accezione della coscrizio-ne intesa “come (…) «rito di passaggio» cheli aveva portati dalla fanciullezza alla virilità.Questo «rito di passaggio» diventò unaforma culturale importante della vita euro-pea, un’esperienza comune a quasi tutti igiovani europei di sesso maschilexi”. D’al-tronde, come nelle società arcaiche, secondovon Clausewitz “coloro che si dedicano aquesta funzione (la guerra) si considerano,finché vi avranno parte, come appartenentia una specie di consorteria, le cui regole,leggi e abitudini costituiscono precipuamen-te gli elementi spirituali della guerra”. DaKeegan, La grande storia della guerra, cit.,pag. 26.11 Fornari, Psicoanalisi della guerra 1988, cit.,pag. 42, pagg. 53-54 e pagg. 120-121.12 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pagg. 95, 101, 102.13 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pag. 107.14 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pagg. 122-127.15 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pag. 46.16 Si veda in Yann Le Bohec, L’esercito roma-no, Roma, 1992, pagg. 146-147.17 Ruth D. Whitehouse, Ritual knowledge,

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secrecy and power in a small-scale society, in“Papers of the Fourth Conference of ItalianArchaeology”, cit., pagg. 197-200.18 Bruno d’Agostino, Serenella De Natale,L’età del ferro in Campania, in “The colloquiaof the XIII International Congress of Prehi-storic and Protohistoric Sciences, vol. 12,The Iron Age in Europe”, cit., pag. 109.19 Gilda Bartoloni, Alessandra Berardinetti,Anna De Sanctis, Luciana Drago, MarioCygielman, Lucia Pagnini, Veio e Vetulonianella prima età del ferro: affinità e differenze nellosviluppo di due comunità dell’Etruria villanovia-na, in “The colloquia of the XIII Internatio-nal Congress of Prehistoric and Protohisto-ric Sciences - vol. 12 - The iron age in Euro-pe”, Forlì, 1996, pag. 68.Com’è noto tutta l’infanzia e l’adolescenzaerano seguiti, in Etruria come a Roma, darituali che accompagnavano la crescita e laformazione del cittadino di pieno diritto; ilfanciullo etrusco -secondo quanto mostranoad esempio vari bronzi ellenistico-romani (alMuseo Etrusco Gregoriano ed a Leida Rijk-museum, vedi in Mauro Cristofani, I bronzidegli Etruschi, Novara, 1995, nn. 126, 127,128 pagg. 299-300)- recava come segno dinascita libera una bulla discoidale appesa alcollo, spesso accompagnata da altri penden-ti. Lo stesso bronzetto di Aplu alla Bibliote-que Nationale di Parigi (in Cristofani, I bron-zi degli Etruschi, cit., n. 100 pag. 284), sia chese ne accetti o meno l’identificazione in unadivinità, rappresenta di fatto un adolescentenudo, con una clamide al braccio, che portaancora la bulla al petto, come l’Apollo conkithara nello stesso museo (in Cristofani, Ibronzi degli Etruschi, cit., n. 101 pag. 284). Lebullae sono reperti peraltro attestati in Etru-ria sino da età molto antiche: al VII sec. a. C.risale ad esempio quella prenestina dellaCollezione Castellani al Museo di Villa Giu-

lia (in AA.VV., Il Museo Nazionale Etrusco diVilla Giulia, Roma, 1980, n. 12 pag. 330),come un esemplare simile da Marsiliana (I.Strom, Problems concerning the origin and earlydevelopment of the etruscan orientalizing style,Odense University Press, 1971, pag. 40.20 Grossi, Asmat, uccidere per essere, cit. pag.40.21 Filippo Delpino, Tra omogeneità e diversità,il trattamento della morte a Tarquinia villanovia-na, in “Preistoria e Protostoria in Etruria,Protovillanoviani e/o Protoetruschi, ricerchee scavi”, Manciano, 1998, pag. 476.22 Bergonzi, Etruria-Piceno-Caput Adriae:guerra e aristocrazia nell’età del ferro, cit., pag.73.23 Si veda, tra le fonti, Dion. Hal. II, 21-23 e47, 4; tra gli studi, Mario Torelli, La societàetrusca, Roma, 1987, pag. 56.24 Tale azione risponde non solo a necessitàsocioculturali del gruppo d’appartenenza,ma anche a motivazioni che spingono i gio-vani di età adolescenziale. Per i maschi intale fascia di età sono state infatti riscontra-te, in ordine decrescente di importanza, leseguenti spinte motivazionali: 1) Bisognomotore; 2) Affiliazione sociale; 3) Bisognoludico; 4) Affermazione di sé; 5) Amore perla natura; 6) Compensazione; 7) Aggressivi-tà. Piuttosto diverso è il quadro per i maschiadulti, che sono mossi da: 1) Affiliazionesociale; 2) Bisogno motore; 3) Amore per lanatura; 4) Bisogno ludico; 5) Compensazio-ne; 6) Affermazione di sé; 7) Aggressività. Siveda Maurizio Belli, I giovanissimi e il tiro asegno, in “Diana-Armi”, n. 11, novembre1986, pag. 82.Nella gioventù è stato inoltre riscontratouno spontaneo e particolarmente consisten-te spirito di sacrificio, assieme alla sensibili-tà al prestigio ed alla gloria, all’amicizia, allospirito di squadra ed alle cause cui consa-

crarsi. Si veda in tal senso G. Bouthoul, Leguerre, cit., pagg. 402-404.Tuttora, è stato riscontrato, un giovaneapproda ad una società sportiva (come aduna pratica iniziatica) “con la sicurezza diraggiungere una alternativa valida alleansie, alle forme di disadattamento, di con-flitti, tipiche espressioni di questo periodoevolutivo. Lo sport in questa fase assumeuna funzione di alto significato psicopeda-gogico, aiutando il giovane a contenere,padroneggiare, e dare il giusto senso di svi-luppo ai molti aspetti della sua personalitàsia sotto il profilo personale che sociale”. DaM. Belli, I giovanissimi, cit., pag. 83.25 Emile Mireaux, I Greci al tempo di Omero,Milano, 1972, pag. 122 e segg.26 Quanto fosse fondamentale la trasmissio-ne di tali dati per la conoscenza ed il domi-nio dello spazio è stato indicato in Martinel-li, La percezione dello spazio, cit., pag. 387 esegg.27 Barrois, Le guerre, cit., pag. 79. In tale con-testo di addestramento emerge come “ilconcetto di onore sia diverso da quello che iltermine è poi venuto ad assumere in segui-to. L’onore è un mezzo fondato sulla buonacondotta, che realizza un compromesso tra glieccessi del coraggio virile (che conduconoad una eccessiva ferocia) e della prudenza(aidos), suscettibile di provocare un atteggia-mento passivo, poco virile e poco coraggio-so”.28 Zifferero, Rituale funerario e formazione dellearistocrazie nell’Etruria protostorica, cit., pag.259.29 Moscardelli, Cesare dice, cit., pag. 355.30 Scarduelli, L’isola degli antenati di pietra, cit.,pag. 163.31 Sull’addestramento dei giovani a Sparta siveda anche Keegan, La grande storia dellaguerra, cot., pag. 245.

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32 Mireaux, I Greci al tempo di Omero, cit., pag.122.33 Anche in Etruria, a San Giovenale, sonodocumentati pasti collettivi rituali nellaprima età del ferro; se ne parla poco oltre inquesto stesso capitolo.34 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 345.35 Mireaux, I Greci al tempo di Omero, cit., pag.122.36 Mireaux, I Greci al tempo di Omero, cit., pag.127.37 In epoca più tarda a 16 anni il giovane ari-stocratico romano, affidato ad un autorevo-le personaggio di fiducia della famiglia,seguiva per un anno il tirocinium fori, unapprendistato alla vita pubblica dopodiché,ai 17 anni, era finalmente maturo per esse-re civis atto anche al servizio militare. Si vedain Anna Maria Reggiani Massarini, Scolari emaestri, in “Vita e società nell’Italia antica”,Verona, 1993, vol. I, pagg. 257-258. Se lematerie della sua conoscenza dovevano esse-re per tradizione principalmente -secondoCatone- medicina, agricoltura, oratoria edarte militare, la sua completa formazionenon poteva prescindere da un attento adde-stramento fisico, di cui ci offrono tracce idati sulle associazioni giovanili.38 Annamaria Liberati Silverio, Le associazio-ni giovanili, in “Lo sport nell’antichità”,Roma, 1987, pag. 28.39 Liberati Silverio, Le associazioni giovanili,cit., pag. 27.Dei sodalizi romani a sfondo religioso-mili-tare costituisce un importante ed arcaicodocumento l’epigrafe dal tempio dellaMater Matuta sull’acropoli di Satricum; l’i-scrizione in latino arcaico -databile all’ulti-mo decennio del VI sec. a. C.- è una dedicade “i sodali di Marte agli dei ctonii di PublioValerio”. Questa “ci permette di identificareuna corporazione, probabilmente di iuvenes,

classe di età alle dipendenze del magisterpopuli (futuro dittatore, così simile, anche nelnome, al Mastarna della tomba François diVulci” attestata alla fine dell’età dei re etru-schi di Roma. Da Filippo Coarelli, Romasepolta, Milano, 1984, pag. 63. Lo spazio incui la iuventus si esercitava era il CampoMarzio -da cui il termine di “suodales Mamar-tei”-, terreno ereditario dei re ed in partico-lare dei Tarquini, che “all’inizio della Repub-blica” divenne “di pubblico dominio (ed)assunse definitivamente il carattere (...) di(...) luogo di esercizi militari”. Da Coarelli,Roma sepolta, cit., pag. 89. “In particolare (...)si svolgevano, in un circo denominato Triga-rium, corse di carri legate all’annuale cam-pagna militare, come l’Equus October e leEquirria. Si ricorderà, a questo proposito, l’i-scrizione di Satricum già commentata inprecedenza, che ci ha rivelato l’esistenza,alla fine del VI secolo a. C., di una sodalitàdi giovani legata a Marte (certamente ladivinità del Campo Marzio) che sembra averdedicato una base agli dei gentilizi di unValerio, forse lo stesso Valerio Publicola, unodei primi consoli della Repubblica. Trovia-mo qui riuniti, fin dall’età arcaica, gli ingre-dienti che caratterizzeranno in seguito unaspetto essenziale della struttura ideologicaimperiale: corporazioni di giovani (iuvenes)organizzate a fini paramilitari, legate a unculto emanante dalla personalità carismati-ca di un capo (...) Nell’età arcaica e classica,i ginnasi erano spesso costruiti accanto allavera, o presunta, tomba di un eroe, le cuivirtù e la cui carismatica presenza avrebberodovuto contribuire al buon risultato dell’e-ducazione”. Da Coarelli, Roma sepolta, cit.,pag. 98.40 Hyland, Training the Roman Cavalry, cit.,pag. 16; vedi anche pagg. 46 e 48.41 Si veda sotto la voce “Sport” in AA.VV.,

Dizionario della civiltà etrusca, Firenze, 1985.42 Eneide, V, 548 e segg.43 Si veda Annamaria Liberati Silverio, Leassociazioni giovanili, in “Lo sport nel mondoantico”, Roma 1987, pag. 33.44 Eneide, V, 71-72.45 Eneide, V, 548-603.46 Hyland, Training the Roman Cavalry, cit.,pagg. 92-94.47 Esse, oltre ai passi citati, comprendonoanche il trattatello Perì Theriakès pros Pìsona,Cassio Dione LIX, 7, 4; Svetonio, Calig., 18,3; Claud., 21, 3; Ner., 7, 1; Tacito, Annales,XI, 11, 2.48 Liberati Silverio, Le associazioni giovanili,cit., pag. 33.49 C.I.L. IV, 1595.50 Sulla Giostra della Quintana e sul suoandamento è illuminante lo schema ripro-dotto in Foligno e dintorni, ne “L’Automobi-le”, n. 568, marzo 1998, pag. 3751 Eneide, V, 548-603.52 Liberati Silverio, Le associazioni giovanili,cit., pagg. 33-34.53 Mauro Menichetti, L’oinochoe di Tragliatel-la: mito e rito tra Grecia ed Etruria, in “Ostra-ka” I, n.1, 1992, pag. 7 e segg. Sul LususTroiae dell’oinochoe della Tragliatella è fonda-mentale questo interessante quanto com-plesso articolo che pone in luce il valore ini-ziatico del lusus stesso.“Sulla natura di questo percorso si possonoricordare anche le suggestive pagine di K.Kerényi che ha saputo cogliere gli aspettiambivalenti del simbolo labirintico: è unmondo destinato al buio, alla marginalità,dove però è necessario passare per giungerealla luce; chi supera questa prova non tornaall’uscita come quando era entrato. Accantoa questa dimensione se ne colloca un’altra,per cui la prova del labirinto acquista unaspecifica valenza per così dire politica: risale

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agli anni Trenta una serie di studi, prove-nienti dall’ambito della scuola «mitico-ritua-le», in cui la figura del labirinto viene rin-tracciata entro contesti pertinenti ai miti e airiti della regalità” (pag. 17). Troia ed il labirinto furono vinti da quell’a-stuzia (-metis-) che l’iniziando deve mostraredi avere per divenire adulto a tutti gli effetti,con un avvicinamento che lo stesso Virgilio(Aen., V, 588-591) usa riferendosi al percorsodel Lusus Troiae. L’astuzia, il coraggio e lamaturità dei giovani del mito tesaico (non-ché del Lusus) sono da ritenere condizioninecessarie alla successione regale per cui“ancora una volta la sfera del mito e quelladel rito si fronteggiano e si condizionano avicenda. I danzatori della géranos, accompa-gnati dal geranoulkòs sull’esempio delladanza delia eseguita da Teseo e compagni,celebrano il superamento della prova inizia-tica del labirinto nei termini rituali di unapyrrìche ove interviene il solo elementomaschile; ma il labirinto truia costituisceanche il campo di prova ove si attua la suc-cessione regale ritualmente celebrata e rego-lata nel Troiae lusus” (pag. 27).I frutti della maturità sono peraltro benchiariti dalle ultime immagini del fregioinferiore del vaso, ovvero la doppia scenasessuale (o hieròs gamos dell’iniziato e di unadea che ne assiste la maturità sessuale e poli-tica) e l’accesso ai troni vegliati dalla dea.Dunque “il labirinto truia viene percorso siadalla schiera dei danzatori che imitano lagéranos delia danzata da Teseo e compagnisia dai cavalieri che eseguono il Troiae lusus;dallo stesso labirinto truia si originano, percosì dire, due destini diversi: i danzatori,superata la prova, divengono guerrieri-opli-ti; i due cavalieri, nelle vesti del «vecchio» edel «nuovo» geranoulkòs, accedono allo hieròsgàmos e al trono su cui vigila la dea. Appaio-

no evidenti, a partire dal labirinto quale sim-bolo grafico della città, le allusioni, messe inluce già da tempo da M. Torelli, alla figuradi Teseo quale synoikistés di una polis cheandava costituendosi in Etruria e nel Lazio,e ritrovare su lastre provenienti dalla zonadella Regia di Roma le raffigurazioni delMinotauro e dell’uccello gru assume il carat-tere di necessaria e puntuale conferma diquanto finora detto. Si è visto, inoltre, che illabirinto truia è il luogo dove si esplica lamétis dell’eroe, quella stessa qualità che,caratteristica dell’eroe del mito, vediamoassociata nella pisside della Pania o nellelastre architettoniche da Acquarossa o Velle-tri alle imprese del princeps. In altre parole,la métis giustifica l’accesso alla regalità maessa è una virtus che deriva non dalla ripro-duzione automatica del potere operanteall’interno delle gentes ma dal mito o, ancorpiù precisamente, dalla buona disposizionedi una dea quale Arianna-Afrodite che puòelevare alla regalità anche un Thefarie Velia-nas o un Servio Tullio nella prospettiva indi-viduata da F. Coarelli” (pag. 30).54 Per tutti si cita solo quello degli Asmat, inGrossi, Asmat, uccidere per essere, cit., pag. 132.55 Lissarrague, L’autre guerrier, cit., pag. 210.56 Si veda in AA.VV. L’archeologia racconta losport nell’antichità, Firenze, 1988, pag. 118, n.64.57 Annette Rathje, in Case e palazzi d’Etruria,Milano, 1985, pagg. 123-124.58 Lamar Ronald Lacy, in Case e palazzi d’E-truria, cit., pagg. 70-72.59 Si veda E. N. Gardiner, Athletics of theancient World, Oxford, 1930, pag. 228.60 Si veda il materiale didattico della mostra“L’archeologia racconta lo sport nell’antichi-tà”, scheda 23, Esibizioni equestri.61 Annamaria Liberati Silverio, Le associazio-ni giovanili, cit., pag. 28.

62 Nella Tomba del Maestro delle Olimpiadia Tarquinia (500 a. C. circa) sono raffiguratiun cavaliere caduto presso una pariglia, ungiovane nudo in atto di saltare a terra dalprimo di due cavalli in corsa, un cavalierecon tunica su un cavallo affiancato da unaltro cavallo. Sebbene la vicinanza di questefigure con due corridori nudi a piedi abbiafatto ipotizzare una rappresentazione di kal-pes dromoi -Stephan Steingraber, Catalogoragionato della pittura etrusca, Milano, 1984,pag. 326-, la vicinanza delle pariglie dicavalli, il fatto che i corridori a piedi nonabbiano le briglie alla mano e la direzione dimarcia dei podisti fa propendere per unascena di corsa a piedi vicina a quella deidesultores, del cui esercizio anzi viene esaltatala pericolosità, con uno dei tre atleti sbalza-to a terra. L’esercizio più diffuso, a quanto sievince da questa tomba, da quella n. 4255 diTarquinia (480 a. C.), dalla Tomba dellaScimmia a Chiusi (480-470 a. C.) e dallaTomba tarquiniese del Triclinio (470 a. C.)era quello in cui il giovane atleta, portandoentrambi i piedi su un lato della cavalcatura(sempre il destro tranne che nel caso dellacoppia speculare della Tomba del Triclinio,forse proprio per la successione dei passinecessari all’esercizio) ed avanzandoli attor-no alla spalla dell’animale, reggendosi allacriniera o alle briglie, si lanciava a terra dadove, grazie all’elasticità delle gambe e adun sapiente sfruttamento della velocità, conogni probabilità tornava in groppa con unbalzo, secondo uno schema d’esercizio anco-ra rappresentato nei circhi equestri. Devoproprio alla cortesia del sig. Mario del CircoStorico Tribertis alcune interessanti notizierelative allo svolgimento tecnico di questoesercizio: per esso, come per quello del pas-saggio a volo da una cavalcatura all’altra, èfondamentale la conoscenza del ritmo di

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Ipotesi sull’addestramento alle armi

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andatura del cavallo. Infatti il passo equinofa sì che la groppa si muova con un effetto “afisarmonica”, per cui ad un passo la groppasale, al passo seguente si mantiene stabile inalto, poi discende, si mantiene stabile inbasso, per poi riprendere il ciclo. Per l’eser-cizio del desultor, una volta portate ambo legambe su di un solo lato della cavalcatura,era necessario effettuare il salto verso terranella fase discendente del moto della grop-pa, assecondando l’andamento del cavallo;si eseguiva poi un rapidissimo passo a terra,pari a quello equino con cui la groppa simanteneva bassa, per poi darsi slancio conle gambe ma, anche e prevalentemente, conla mano che reggeva l’attacco della criniera,sfruttando il riflesso dell’enorme potenzaerogata dall’ascesa del dorso del cavallo. Inpratica l’energia del cavallo -una macchinadi circa cinque quintali di muscoli- che solle-vava la groppa costituiva un vettore versol’alto al quale bastava sapersi assecondareper risalire in posizione. Questa necessità diconoscenza esatta delle fasi del moto delcavallo e dei loro attimi di inizio e terminerichiedeva nel desultor come nell’autore divolteggi da un cavallo all’altro una buonaconoscenza degli animali ma prevalente-mente un perfetto coordinamento tra corpoe mente, al fine di eseguire i giusti movi-menti al giusto momento. Peraltro, come haancora assicurato l’artista circense interpel-lato, l’età dell’atleta poteva essere anchemolto tenera, in quanto la confidenza con icavalli è anzi più semplice da acquisire peristinto in gioventù. Anche un ragazzo tra gli11 ed i 17 anni avrebbe quindi potuto ese-guire questo esercizio, ed anche con unperiodo di training molto breve (nell’ordinedei giorni o settimane) se portato per l’equi-tazione ed idoneamente strutturato a livellomuscolare.

E’ degno di nota che il cavallo necessitava diuna sua preparazione adeguata all’esercizio,poiché la trazione laterale esercitata daldesultor in fase di risalita in groppa potevadisturbare il passo dell’animale. Era perciòfondamentale l’uso di cavalli già esercitati ariconoscere il verificarsi dell’esercizio, bilan-ciando con uno spostamento la risalita delcavaliere.Tutto ciò rimanda dunque, nella varie figu-re eseguite dai desultores, ad un esercizio disignificativa sintesi tra coordinamento psico-motorio, forma fisica, conoscenza dell’equi-tazione e doti di addestramento; in associa-zione con le altre discipline praticate daiiuvenes dell’Etruria arcaica si ricava un’im-magine del futuro cittadino di pieno dirittonella comunità improntata ad una ampiaaretè che abbraccia la prestanza fisica, l’equi-librio tra corpo e mente, la capacità di domi-nio sulle forze animali ed esterne, l’adegua-mento etico a norme che, nel loro insieme,fanno della tradizione l’unico modus secon-do il quale agire e comportarsi in ogni fran-gente.Preme osservare, come indizio di profondis-simo radicamento nella cultura delle classinobiliari, che la tradizione delle evoluzioni acavallo (in armi o non, con giostre guerre-sche o esercizi di destrezza) compiute in uncontesto spettacolare da giovani rampolli dinobilissime famiglie anche in età molto gio-vane, gode di attestazioni costanti dall’etàetrusca, attraverso quella romana, sinoanche al Rinascimento. Lo stesso Lorenzode’ Medici, nel 1459, all’età di soli diecianni, partecipò alle spettacolari manovreequestri, dette all’epoca “armeggerie”, chesi tennero vicino a Palazzo Medici perfesteggiare l’arrivo in visita di GaleazzoMaria Sforza. Egli si esibì infatti, dopo ilcalare del sole, a seguire le evoluzioni a

cavallo di dodici armigeri, con una sua esi-bizione immortalata dai versi di un anoni-mo, che lo ricordano come “un giovanettoassai virile, giovane d’anni ma vecchio disapere” -vedi Maurizio Martinelli, Ai tempi diLorenzo, Firenze, 1992, pag. 18.63 Hyland, Training the Roman Cavalry, cit.,pag. 158.64 Ad esempio, tra i Carajà del Mato Grossola tonsura del capo dei giovani di sessomaschile –che li fa uscire dal novero deibambini e li rende “entrati nella collettivitàsociale degli uomini iniziati”- si tiene appun-to all’età di 12 anni. Si veda in Faldini Piz-zorno, Le barriere invisibili, cit., pagg. 61-62.65 Per l’attualità di tale escursione di età siveda, recentemente, quanto apparso sullapubertà precoce in “City – Firenze”, anno 2,n. 160, martedì 17 settembre 2002, pagg. 1e 6.66 Volpini, La spada- manuale pratico, cit., pag.18.67 Camporeale, Le prime scene narrative nel-l’arte etrusca, cit., pag. 24.68 Anche in Ellade si ritiene che “gli opliti diquasi tutte le città-stato fossero schieratinella falange per tribù (...) Gli uomini che sifrequentavano nelle associazioni politiche,religiose o cerimoniali e che avevano legamidi parentela consolidavano tali legami quan-do si trattava di combattere (...) Sono nume-rosi i riferimenti espliciti, nella letteraturagreca, al fatto che i singoli contingenti dellafalange venivano formati sulla base dell’affi-liazione tribale”. Da Hanson, L’arte occidenta-le della guerra, cit., pag. 135. Tale uso ancheromano di formare l’esercito per contingen-ti messi a disposizione per tribù presupponedunque, di fatto, che anche l’addestramentoiniziatico si tenesse all’interno del gruppotribale. Anche nel Messico precolombiano laresponsabilità dell’addestramento militare

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La lancia, la spada, il cavallo

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dei ragazzi era a carico di organismi detticalpulli, ancora dubitativamente identificatitalora con lignaggi endogami (assimilabilialla tribus o alla gens), talora con gruppi alocalizzazione residenziale (assimilabili allacuria); simili organismi è stato ipotizzato esi-stessero anche in area sumerica. Si vedaMcC. Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pagg. 111-113.69 Per il sito di San Giovenale si veda Marti-nelli, Gli Etruschi – magia e religione, cit., pag.42 e segg.70 Peraltro, parzialmente versus l’identifica-zione nel santuario di San Giovenale di unluogo connesso all’iniziazione maschile -epiù precisamente con una sorta di “casa degliuomini”- vi è la constatazione che anche nel-l’Etruria arcaica ed ellenistica la preparazio-ne alle armi appare scissa dalla presenza diun luogo precipuo (almeno alla luce dellenostre conoscenze archeologiche attuali) equindi in assenza obiettiva di un vero “gin-nasio”, la formazione fisico-militare (ed ideo-logica) dei giovani pare essere stata, più cheuna cura statale (come peraltro a Roma) unadelle funzioni svolte da organismi sociali piùristretti e, contenutisticamente, più antichi.Gens, tribù, curia: all’interno di uno di questiorganismi pre-statali, sotto la guida di“patroni” di indiscussa dignità (che solo daAugusto in poi saranno personalità legateallo stato, e più precisamente alla famigliaimperiale) doveva aver luogo la originariaformazione dei giovani, svolta in pratica“privatamente” da quel nucleo di nobili oveterani che, vedendo in ciò un’importantestrumento di perpetuazione tribale e di sta-bilità sociale, avevano tutti gli interessi a favo-rirla ed a sostenerla. Di pari passo al tiroci-nium fori, la iuventus era la preparazione delfuturo membro della comunità a pieno dirit-to, né va dimenticato il peso didattico sui gio-

vani (in particolare per i portatori di bulla epraetexta) della figura del pater familias, veropadrone e capo indiscusso al cui comporta-mento, al cui pensiero ed alle cui tradizioni ilfilius familias e i familiari erano tenuti perlegge ad uniformarsi.Anche nell’Etruria più tarda i figli dellefamiglie nobili non potevano sfuggire ad unmarcato imprinting che li abilitasse, una voltamaggiorenni, ad esercitare compiutamente iloro diritti ed i loro doveri, ma che princi-palmente ne facesse i latori ed i continuato-ri di ideologie che -all’interno della loro clas-se- erano la sicurezza del mantenimentodello status quo sociale.71 Barrois, cit., pag. 31. L’autore prosegueosservando come esse “con il fine contrap-punto di identificazione reciproca tra uomoe preda, non sono nient’altro che una pro-pedeutica alla storia psicologica del guerrie-ro. Le attività inerenti agli stili di vita dellepopolazioni raddoppiano piuttosto di valoree di significato in virtù dell’appartenenzacomune degli uomini, sin dall’infanzia, a ununiverso di discorsi, di gesti, di parole cherinchiudono tali azioni nelle lor griglie sim-boliche”; da Barrois, cit., pag. 31-32.Dote principale del guerriero e del cacciato-re è comunque una forma d’intelligenza -detta métis in greco- che “corrisponde intutto a un savoir-faire pratico che trasforma,al momento buono, il debole in forte. Iltutto grazie a un insieme di manovre edastuzie, ispirate ad un’attenzione e unacume tanto percettivi quanto intellettuali,portati al massimo grado (...) una grandecapacità di concentrazione, di anticipazionedegli eventi, nonché una duplice attitudine:quella di essere preparati a reagire a ciò cheè per definizione imprevedibile, e di esserepronti a fronteggiare qualsiasi eventualità” .Da Barrois, cit., pag. 31.

L’addestramento di un giovane alla cacciaed alle armi doveva dunque istillargli “inven-tiva, atta a creare l’evento-sorpresa e fonda-ta su una capacità di osservazione impecca-bile; rapidità; possesso di tutti gli artifici delladissimulazione e del silenzio; conoscere l’artedei rivolgimenti e rovesciamenti di fronte (...)La caccia (...) con il forte contrappunto diidentificazione reciproca tra uomo e preda,non sono nient’altro che una propedeuticaalla storia psicologica del guerriero. Le atti-vità inerenti gli stili di vita delle popolazioniraddoppiano piuttosto di valore e di signifi-cato in virtù dell’appartenenza comunedegli uomini, sin dall’infanzia, a un univer-so di discorsi, di gesti, di parole, che rin-chiudono tali azioni nelle loro griglie simbo-liche”. Da Barrois, cit., pagg. 31-32..72 Da Barrois, cit., pagg. 28-29.73 Franco Fornari, Psicoanalisi e cultura dipace, San Domenico di Fiesole, 1992, pag.92.74 Si vedano, a assoluta assicurazione, leimmagini di atleti nella tomba chiusina dellaScimmia, dove i personaggi che disputanogare sono ritratti con il prepuzio fermato inuna cordicella che funge da cintura sui fian-chi, ovvero col cinto per la cosidetta “infibu-lazione atletica”, sulla quale si veda, a cura diAnna Rastrelli, Lo sport nell’Italia antica –manifestazioni e discipline sportive in Grecia e inEtruria, Firenze, 2002, pag. 69.75 Vedi nel complesso Camporeale, Le primescene narrative nell’arte etrusca, cit., pag. 19 esegg.76 In tale senso potrebbe leggersi anche laraffigurazione di caccia al cervo sul rasoiovillanoviano della tomba bolognese BenacciCaprara n. 16, che immortalerebbe dunqueun evento di passaggio verso il mondo virileproprio su un oggetto -il rasoio- che delmondo virile è tipico. Altrettanto significati-

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Ipotesi sull’addestramento alle armi

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La lancia, la spada, il cavallo

ve appaiono le altre raffigurazioni villano-viane di scene di caccia, sovente su oggettitipici del mondo virile adulto. Presso varipopoli primitivi odierni dell’Africa la provadi caccia costituisce ancora una prova di abi-lità da superare per essere ammessi nelnovero degli “adulti”, che oltre a doti di abi-lità con le armi e di astuzia dimostrano cosìdi poter sostentare una famiglia77 Grossi, Asmat, uccidere per essere, cit., pag.125.78 Si veda in Armi ed armature dell’impero roma-no, cit., pag. 12.79 Ciò doveva accadere necessariamente,

non fosse altro che per la mortalità stessa.80 Recenti studi sulla forza isometrica degliarti superiori mostrano che, per il generemaschile nella fascia di età tra 15 ed oltre 60anni, si ha un periodo di sostanziale elevatorendimento dai 20 ai 59 anni; il massimoviene raggiunto tra 30 e 39 anni, ovveroall’incirca poco prima della metà della vitamedia. Si veda Vieri Boddi, Fitness & well-ness, Firenze, 1998, pag. 52. Riportando taleindicazione ai parametri di vita media agliinizi dell’età del ferro, si può cogliere lamotivazione delle fasce di militanza nell’e-sercito. Peraltro, la presenza nell’exercitum

trecentesco in Toscana risulta compresa tra i15 ed i 70 anni. Si veda Barlozzetti, L’artedella guerra nell’età della Francigena, cit., pag.48. Tuttavia, ancora oggi, per un guerriglie-ro, “l’età massima del combattente, almenonella fase del tutto nomade della banda, nondeve superare i quarant’anni (…) crediamoche non si debbano accettare ragazzi di etàal di sotto dei 16 anni fra i componenti diuna banda (…) l’età migliore per il guerri-gliero ondeggia fra i venticinque e i trenta-cinque anni. Da Guevara, La guerra perbande, cit., pagg. 71-72.

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Osservate le tecniche di ingaggio e diimpiego delle armi, le tattiche e le ele-mentari strategie, oltre alle basi dell’ad-destramento, restano dei quesiti relativialle cause ed al generarsi di attriti milita-ri tra le comunità di epoca protostorica. Per una analisi di questi meccanismi nelperiodo a cavallo tra l’età del bronzo equella del ferro nell’Italia centrale tirre-nica è indispensabile effettuare primaun excursus tecnico sui meccanismisocioculturali, psicologici e biologici chein ogni tempo vengono posti alla radicedel fenomeno bellico in generale.Preme infatti ricordare che la guerra,intesa come fenomeno nel senso piùlato, ha motivi di essere profondamenteradicati nella biologia e nella psicologiadegli esseri viventi, oltre che -com’è evi-dente- nella cultura di essi. Nel regnoanimale, contrariamente a quanto si èpensato per molto tempo, vi sono varicasi di vere e proprie guerre, moltodiverse dalla caccia -extraspecifica- ed

alla lotta -intraspecifica-; per questiaspetti si rimanda alla estesa nota1. L’i-stinto aggressivo umano è stato lunga-mente studiato e vari saggi ripercorro-no quanto meno l’evoluzione deglistudi2; i più recenti approcci prevedonoche il comportamento aggressivo nonvada ritenuto “innato in noi come enti-tà completa, e che perciò non ha sensoporre l’alternativa «innato o appreso»;(…) per spiegare il fenomeno dellaguerra, non chiamiamo affatto in causaun istinto aggressivo innato: la guerra èun risultato dell’evoluzione culturale,che peraltro è del tutto basata sull’evo-luzione filogenetica e ne costituisce lacontinuazione3”. Tale spinta aggressiva nell’uomo, inconsonanza con quanto notato in alcunianimali, è stata ricondotta, per grandilinee, a due radici principali: la spintaverso il rango e la territorialità4, giacchéesiste “certamente un rapporto di deri-vazione tra la difesa del territorio nell’a-

nimale e la nozione di territorio da sal-vaguardare nel caso dell’uomo, che hatrasformato questo concetto in ideale5”.Secondo alcuni studi il rango e la gerar-chia attengono specificamente ad unapproccio alla realtà caratteristico delgenere maschile, fatto questo che spie-gherebbe la tradizionale adesione degliuomini alla guerra6.In base ad altri studi, l’aggressione indi-viduale si sarebbe trasformata in aggres-sione di gruppo quando “i gruppi diesseri umani, che come cacciatori eranopiù efficaci degli individui, impararonoa cacciare in collaborazione su territoricomuni, così come si erano adattati afare gli animali predatori, sicché la cac-cia collettiva divenne la base dell’orga-nizzazione sociale e fornì l’impulso acombattere gli esseri umani intrusi7”.Nella bellicosità umana, rispetto a quel-la animale, subentrano inoltre variaspetti psicologici e sociologici, di tipoestetico, distraente, ludico, di distinzio-

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Alle origini della guerra:il controllo dello spazioe le cause degli scontri

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ne ed altri ancora che non possonoessere in questa sede esaminati8. Tuttociò, assieme a potenti spinte economi-che9, determina una situazione psicolo-gica in cui, come si è accennato, si per-dono le sfumature di distinzione traamico e nemico, e si identifica -comenella lingua latina- lo straniero nelnemico, l’hostis. La forte alterità attribuita al nemico èstata messa da Fornari –autore di Psicoa-nalisi della guerra- in relazione alla

“emergenza originaria del nemico nelle fantasieinfantili. Allorché infatti il bambino all’ottavomese di vita sviluppa la prima reazione di difesadal nemico, conosciuta come angoscia persecu-toria dell’estraneo, proietta illusoriamente sullapersona umana sconosciuta una intenzionalitàaggressiva, per cui lo sconosciuto diventa estra-neo-straniero-nemico senza che abbia mai inrealtà dimostrato al bambino di avere verso dilui concrete intenzioni aggressive10”.

Similmente, nei conflitti più gravi tragruppi etnici, l’”altro”

“diventa il nemico assoluto, nemico per natura.Non si tratta di qualcuno che la storia o glioggetti della contesa mi rendono nemico perchéin contrasto su qualcosa, ma di uno che è natu-ralmente mio nemico perché rappresenta ciò cheinquina la mia origine. (…) Non è, qui, l’alteritàdell’altro che si odia ma, anzi, al contrario, la suavicinanza, la sua eccessiva prossimità. Allora, conun meccanismo, chiamiamolo così, di «pulsioneepurativa» il più prossimo viene reso altro, alte-rizzato, reso totalmente altro11”.

Il punto di alterità che si raggiungeverso il nemico è da sempre incredibil-mente elevato: “il fatto che alla contro-

parte spesso non venga riconosciuta lanatura di uomo, sposta il conflitto allivello di una contesa tra specie diverse:e anche nel regno animale l’aggressivitàinterspecifica è per lo più distruttiva12”.Come ha osservato C. Barrois in Psicoa-nalisi del Guerriero,

“per il guerriero l’altro è innanzitutto unpotenziale avversario (...) Al di là dei sentimen-ti, tocchiamo qui uno degli aspetti più sconfor-tanti della guerra: l’altro non è più riconosciu-to come un autentico alter ego, come un pro-prio simile (...) Così l’estraneo, in virtù di untenace narcisismo di gruppo, era (ed è tuttora)considerato come un inferiore, un barbaro, ecomunque un elemento di minaccia, magaripersino da demonizzare13”.

D’altronde tale tendenza distintiva haorigine, secondo alcuni, nella stessasfera degli istinti: “La distinzione tra noie loro, l’inimicizia per il diverso ha radi-ci profonde, ben documentate in tutto ilregno animale, tanto da potersi ritene-re in gran parte un impulso «istinti-vo»14”. L’elementarietà di tale atteggia-mento è stata individuata anche dallapsicologia, che avvicina tale comporta-mento alla dissociazione schizoide15.Queste osservazioni si collegano allanecessità della deflessione all’esterno dell’i-stinto di morte definita da Freud, con laquale l’uomo trasformerebbe il suo ter-rore interiore inaffrontabile ed invulne-rabile in un nemico esterno in carne edossa, affrontabile e mortale. Per altre teorie la guerra si attiverebbeanche come elaborazione paranoica

del lutto, ovvero come risposta a unaangoscia depressiva e persecutivainconscia che scatterebbe talvolta col-lettivamente nell’uomo, davanti a fatto-ri economici, politici, ideologici, razzia-li che dunque non sono fattori specificidi guerre, ma piuttosto dei generatoridi conflitti16. Di conseguenza le funzio-ni profonde della guerra sarebbero siadi protezione del sé interiore, graziealla distruzione della vita di altri, sia didispersione del surplus di energiaaggressiva inutilizzata, la quale vieneperaltro tradizionalmente “raccolta”,“tesaurizzata” e poi “spesa” dalle socie-tà17. Non a caso il passaggio dall’eroga-zione della violenza “privata” (legibussoluta) a quella “collettiva” (legibus liga-ta) segna l’origine del nomos statale18.D’altronde è stato ancora solo somma-riamente indagato il complesso intrec-cio e la diretta proporzionalità, nellesocietà, tra evoluzione nelle dinamichepsicologiche, accumulo di energiadistruttiva ed evoluzione nelle tecnolo-gie d’arma19; è invece ormai assodatocome la guerra abbia una ciclicità con-nessa all’eliminazione dell’aggressivitàdistruttiva, con la quale ogni singolomembro di un gruppo umano “proiettaverso l’esterno l’aggressività direttaverso l’interno, per salvare l’oggetto d’a-more, con cui si identifica20”, ovvero ilgruppo stesso. Non a caso anche neipopoli primitivi i rituali più crudelidella collettività –come anche le guerre-vengono svolti da membri selezionatidel gruppo i quali

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“sono sempre travestiti in qualche modo,indossano cioè una qualche uniforme; questosta a significare che essi non sono lì come indi-vidui, ma come membri di una collettività. Psi-cologicamente, le azioni che essi compionosono compiute dal gruppo, che quindi neporta la responsabilità (…) il Super-io indivi-duale è messo fuori gioco, e sostituito da unocollettivo, che impone di seguire le particolariregole della guerra21”.

L’istinto associativo umano estrinseca inquesti casi tutta la sua capacità di influi-re sulla psicologia del singolo e delgruppo: esso “si rafforza in situazioni dipericolo. Ogni gruppo acquista autono-mamente una maggiore coesione quan-do deve opporsi ad un gruppo rivale(...) L’amore che ciascuno di noi senteper i suoi «compagni» aumenta nellamisura in cui può essere volto controqualche estraneo22”. Nella guerra inol-tre il compattarsi del gruppo si associaad un identificarsi con un territorio23.Per tutte queste cause la guerra estrin-seca la sua valenza di forma di distruzionedi eccedenze, sia economiche (di beni)che umane (di vite). In alcuni casi ledistruzioni, più moderate, consumanoo distruggono solo le eccedenze;

“è in questo caso che, tanto dal punto di vistaeconomico quanto (...) dal punto di vista psico-logico, la funzione esercitata dalla guerra èanaloga alla funzione esercitata dalle feste, nelsenso sociologico della parola. Essa porta consé, per tutto il tempo che dura, un capovolgi-mento delle regole economiche al rispettodelle quali il gruppo è abituato, né più némeno di come le feste portano con sé un capo-volgimento temporaneo dei modi di vivere e

delle regole morali. (...) Questa eccedenza (...)nelle civiltà primitive, la sua utilizzazione con-siste quasi sempre nello sperpero che se ne fanelle feste e con la guerra24”.

Proprio per questo si ritiene che questaistituzione distruggitrice volontaria abbiauna funzione demografica precisa,ovvero quella di rallentare l’aumento dipopolazione con l’aumento della mor-talità giovanile, causando un “rilassa-mento demografico25”.A queste forme di contenimento dellapopolazione di fascia più giovane (daalcuni studiosi definite “infanticidi dif-feriti”, ovvero atti volti -se non alla sop-pressione- all’eliminazione dalla comu-nità di eccedenze umane individuateper generazione in linea con l’uso delver sacrum citato da Livio26), si può ascri-vere la presenza delle emigrazioni dimassa che non solo caratterizzò la vita ela civilizzazione del Mediterraneo anti-co, ma che sta nella leggenda alle origi-ni della stessa civiltà etrusca (con l’emi-grazione dei Lidi comandati dal giova-ne figlio del re, Tirreno), della città diAlbalonga (con l’uscita di Ascanio, figliodi Enea, da Lavinio abundante multitudi-ne -Livio, Ab Urbe condita, I, III, 3-) edella stessa Roma (dove l’infante espo-sto, Romolo, popola la sua nuova fon-dazione fuoriuscendo da Alba dove“supererat multitudo Albanorum Latino-rumque” -Livio, Ab Urbe condita, I, VII, 3-ed apre un asilo secondo l’antico siste-ma di coloro che fondavano nuoviagglomerati, i quali “attirando a sé unafolla ignobile e modesta la facevano cre-

dere discendenza nata a loro dal luogo(...) Colà dalle popolazioni confinantiaccorse ogni specie di gente senzadistinzione, libero o schiavo che fosse” -Livio, Ab Urbe condita, I, VIII, 5-6-).Completato questo excursus di ordineteorico e psicologico sulla guerra e lesue radici –esteso ma in realtà moltolacunoso per quanto la ricerca ha indi-cato- è adesso necessario scendere avalutare la particolare situazione dellaprima età del ferro in area centroitalica.Ai nostri sforzi ricostruttivi tuttavia sioppone il fatto che il nostro approcciodi moderni all’evento guerra è irrime-diabilmente diverso da quello dellesocietà passate, ed in particolare daquelle più antiche e primitive, per lequali alle spinte economiche, sociali,territoriali ecc. si sovrapponevanoanche spinte psicologiche e religiose,che per gli antichi avevano un pesoprioritario, mentre a noi sfuggono total-mente. Infatti “la guerra, nelle societàprimitive, si trova molto più vicina allemodalità in cui essa è fantasticata nel-l’inconscio27”.Essenzialmente, sino dall’età del bron-zo, la sussistenza dei villaggi era assicu-rata, sul piano alimentare, da attivitàagricolo-pastorali che vedevano svolge-re, nelle immediate vicinanze delle abi-tazioni, la coltivazione orticola di legu-minose, mentre in aree più distanti dalvillaggio, a rotazione, si effettuavanodisboscamenti per praticare la coltiva-zione di cereali28. “Necessariamentedunque l’abitato ed il territorio circo-

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stante, che formavano un tutt’unoinscindibilmente legato da un equilibriodi ecosistema, erano di proprietà comu-ne29”, creando un profondo e sentitovincolo tra comunità e territorio sogget-to, da alcuni definito come “regionesimbiotica circostante30” dal momentoche “le culture più semplici sono condi-zionate in maniera più diretta dall’am-biente di quelle avanzate31”.In questo territorio tribale, con gli agri-coltori, agivano inoltre gli addetti all’al-levamento bovino e suino, oltre ai pasto-ri di caprovini. L’impiego delle diversepotenzialità del territorio, per lo sfrutta-mento agricolo e per l’uso di pascolo,richiedeva una attenta organizzazionecoordinata dei domini tribali e del lavo-ro della popolazione. Giacché l’alleva-mento integrava l’agricoltura di villag-gio, si doveva prevalentemente sfruttareper esso il territorio controllato al di làdegli ultimi campi coltivati, ad opera dipastori stanziali; tuttavia -là dove il climaed il suolo con l’altitudine lo rendevanonecessario32- doveva essere in uso anchel’alpeggio e la transumanza, con l’ab-bandono stagionale del villaggio daparte di alcuni individui.

“Tenere bestiame per tutto l’arco dell’anno, inun insediamento di bassa altitudine nell’Italiacentrale, è estremamente difficoltoso per un’e-conomia di villaggio che ha possibilità scarse oaddirittura nulle di ricorrere al foraggio, inquanto il pascolo è di solito ridottissimo d’esta-te, rispetto all’inverno. Perciò una data areadovrebbe rimanere d’inverno sottoutilizzata,per poter mantenere il bestiame d’estate. Allo

stesso modo un villaggio agricolo degli Appen-nini poteva tenere abbastanza bestiame da uti-lizzare pienamente i pascoli estivi, dopo lo scio-glimento delle nevi, ma solo a costo di un grandispendio di energie sarebbe riuscito a procu-rargli cibo e ricovero nei mesi invernali. Latransumanza è quindi una soluzione estrema-mente efficiente per risolvere il problema delpascolo stagionale a quote elevate e ridotte: ilbestiame sta nel pascolo quando questo è almeglio, è altrove quando è malridotto. (…) Lapossibilità di transumanza su vasta scala si basasu sistemi politici stabili, che assicurino la sicu-rezza degli animali (…) Comunque questi sonostati il perfezionamento finale di uno spettro disistemi di pascolo mobile, gran parte dei qualiè stata assai più semplice, con movimenti dianimali a più breve raggio. Molti villaggi, peresempio, usavano allontanare il loro bestiame(…) ma questa necessità impegnava solo pochigiovani che lasciavano la comunità solo per unviaggio di poche ore o di un giorno al massi-mo. (…) Se non possiamo trasporre la tran-sumanza su vasta scala nella preistoria, è benericordare che i sistemi di pascolo mobile sonostati sviluppati proprio per rendere efficiente almassimo l’uso del pascolo stagionale ed evitarecosì la necessità di foraggio e stalle dove nonc’è disponibilità di nutrimento prodotto sulposto. In altre parole, nell’Italia centrale, alivello di sussistenza, la mobilità è una soluzio-ne spesso più semplice della sedentarietà33”.

A prescindere comunque dalla tran-sumanza (da pensare anche su lunghetratte, alla luce di recenti considerazionicoincidenti su siti dell’entroterra chian-tigiano, senese ed aretino, nonché dellacosta maremmana), la sussistenza degliinsediamenti dell’età del bronzo pog-giava essenzialmente sul binomio “terri-torio soggetto” e “villaggio”, in un deli-cato equilibrio tra demografia, consu-

mi, tecnologie, produzione e redditivitàagropastorale, ed in connessione ad unmarcato senso di appartenenza del ter-ritorio che caratterizza l’uomo comevarie specie animali34.

“La società primitiva è composta dappertuttodi tribù, ciascuna delle quali si è stabilita su unaparte del territorio di cui sfrutta le risorse.Comunque avvenga questo sfruttamento, permezzo della caccia oppure della pesca oppuredell’allevamento del bestiame oppure permezzo dell’agricoltura, ciascuna tribù trae il suosostentamento da quella estensione di terrenoche occupa. La sua attività consiste dapprimanei faticosi lavori che compiono i suoi membriper ottenere quanto occorre al sostentamentoMa la tribù deve anche vegliare alla difesa delsuo territorio. «Lo scontro può essere pocograve e senza importanza se le risorse del terre-no sono abbondanti e se sono di fronte pochiuomini, ma può anche essere aspro e violentose gli uomini sono una moltitudine e le risorseche si disputano sono magre». E si aggiungache la tribù non può stare soltanto sulla difensi-va; in condizioni normali la sua popolazionetende a crescere e perciò si sente fatalmentespinta a cercare di ingrandire il suo territorio, ilche la mette nella necessità di entrare in con-flitto con altre tribù. La più icastica e la piùimperiosa delle condizioni dell’esistenza degliesseri umani è, dice Sumner, il rapporto checorre, in un determinato stadio dello sviluppodelle arti, tra il numero di essi e l’estensione delterritorio di cui dispongono35”.

Numerosi studi hanno fornito varieindicazioni quantitative e di rapportoproporzionale sui binomi abitanti/areadell’abitato e abitanti/area controllataper varie aree del mondo antico, cosìcome per l’Italia centrale.

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Riguardo il neolitico dell’Europa orien-tale, ad esempio, è stato ritenuto che, interreni alluvionali, “la quantità di terranecessaria per nutrire una persona, conla produzione preistorica di frumento,varia da mezzo ettaro a un ettaro36”.Studi comparativi sull’America centraleprecolombiana e sulla Mesopotamiaindicano per la prima area che, là doveè in uso l’agricoltura itinerante del“taglia e brucia” della foresta,

“per ogni famiglia occorrono da 7,5 a 15 o piùettari, o coltivati o come parte di un fondo diriserva sfruttato ciclicamente. Nelle zone mon-tuose la presenza di orti permanenti (…) haridotto la superficie necessaria a forse 6,5 etta-ri per famiglia. Dove è presente l’irrigazionequeste cifre si riducono molto più drastica-mente: meno di un ettaro (… e) meno dimezzo ettaro nelle condizioni eccezionalmenteintensive (…) Per la Mesopotamia (…) è statoriferito recentemente in un distretto l’estensio-ne media dei terreni di proprietà di famigliecontadine era di 6 ettari; ed è presumibile che

il fabbisogno minimo per la sussistenza sianotevolmente inferiore a queste cifre37”.

Per i siti fortificati di facies protoappen-ninica dell’Italia sudorientale si è ipotiz-zato che quelli dall’estensione di circa 1-2 ettari –dalla densità probabilmentepiù elevata- ospitassero tra i 100 ed i200 abitanti per ettaro, ovvero comples-sivamente tra i 100 ed i 400 abitanti cia-scuno; la distanza tra coppie di insedia-

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Riproduzione schematica dei livelli di organizzazioonepastorale nello spazio: si avvertono le differenze tra lapastorizia stanziale e le altre forme di allevamento.

Schema semplificato delle oscillazioni migratorie dei pastori nomadi in associazionecon l’aspetto e l’estensione del territorio. Dall’alto, oscillazioni di penepiano,tra pianure e rilievi, di altopiano e di versante

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menti sembra aggirarsi intorno ai 10km, e 5 km di raggio sembrano averavuto anche i siti costieri coevi.

“Il raggio di 5 km ricorda naturalmente quellodella «site cathment analysis», ma in questo caso sipuò ritenere, in base alle dimensioni degli abita-ti costieri sopra ricordate e alle relative stimedemografiche, che il territorio strettamentenecessario per le attività di sussistenza fonda-mentali fosse molto più piccolo: per un insedia-mento di 200 abitanti, l’area occorrente per effet-tuare la coltivazione e l’allevamento del bestiamepuò essere stimata intorno ai 600 ettari, che rap-presenta quindi il 15% del territorio totale38”.

Negli stessi studi è stato ritenuto che “laconsistenza stessa della popolazione,nell’ordine delle due o tre centinaia diindividui, sarebbe piuttosto bassa perquella che dovrebbe avere, per usareun’espressione sintetica facilmentecomprensibile e senza voler entrare nelproblema di tutte le sue implicazioni,un «chiefdom»39”.Uno studio per l’area di Mara pressoSassari ha individuato, in età nuragica,la presenza di undici nuraghe all’inter-no della valle chiusa di Bonu Ighinu,ampia circa 10 kmq, coltivabili solo perdue terzi. Il rapporto tra numero dinuraghe e “supporting territory ofapproximately a single square kilome-tre, implies a resident community of asingle farming family of perhaps ten totwelve souls40”.A questa condizione sarda di insedia-menti sparsi si oppone la realtà dell’Ita-lia centrale tirrenica; qui l’abitato di Veio,nell’età del bronzo finale, ha ancora

un’estensione di un solo ettaro, ma laCerveteri coeva si estendeva su 3 ha41 e siritiene, pur da indagini sommarie, chealcuni insediamenti potessero arrivare a10 ha42, tenuto conto che Sorgenti dellaNova oltrepassava i 15 ha. Per i dati dipopolazione relativa “si potrebbe appli-care una regola in genere ritenuta validadagli archeologi per gli insediamenti ditipo accentrato, che consiste nel moltipli-care per cento il numero degli ettari43”.Nella vita di tutti i giorni, per la maggiorparte della popolazione -quella sedenta-ria dei singoli villaggi dell’età del bron-zo- lo spazio realmente conosciuto eralimitato e coincideva con quello dove si

svolgeva la vita della comunità; giornoper giorno questo ristretto territorioveniva contraddistinto da punti di riferi-mento condivisi da tutti i componentidel gruppo stanziale e veniva umanizza-to dalle comuni sensazioni di lontanan-za, vicinanza, frequentazione. In questospazio “sentito” ed “umanizzato” dallapresenza tribale “vi sono soglie invisibili,ma non oltrepassabili, confini, cen-tric44”. Nel complesso questa percezionedello spazio umanizzato, che viene defi-nita “mente locale”, faceva del mondo inetà protostorica un territorio attornoall’io ed al noi -il gruppo di villaggio-,che dal “qui” dell’insediamento si allar-gava verso un esterno ignoto; in questaoscurità gli unici punti di riferimentoerano i pochi percorsi viari conosciuti, infondo ai quali c’era l’altro, il poco noto,forse l’ostile. Ancora recentemente pervari popoli primitivi

“via via che ci si addentra nella foresta vi sononon solo più pericoli, ma anche meno punti diriferimento, per cui si evidenzia un quadro diconoscenza diretta del territorio di gradovariabile, che diminuisce quanto più ci siallontana dal centro del mondo (…) Le comu-nità, viste dall’alto, appaiono come una sortadi isole prive di vegetazione racchiuse fra uncorso d’acqua e la foresta. All’interno di questoambiente, destinato esclusivamente agliumani e quindi pienamente socializzato permezzo delle istituzioni, si svolgono la vitafamiliare, sociale e religiosa dell’individuo,mentre la vita economica ha luogo per la mag-gior parte all’esterno, nei due ambienti confi-nanti: il fiume e la foresta. Nel villaggio, cheesprime il massimo della socialità esistente nel

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I centri dell’Etruria meridionale ed i loroterritori nell’età del bronzo finale delineaticon i poligoni Thiessen

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mondo, regnano l’ordine e la ragione, inquanto al suo interno esistono norme di com-portamento che di-staccano l’uomo dagli altriesseri viventi, e in quanto tutto ciò che vi ècontenuto, dagli individui alle suppellettili èperfettamente controllabile da coloro chesono alla guida della comunità, il cui compitoprincipale è di mantenere l’armonia universa-le attraverso il mantenimento dell’armonialocale di villaggio. Questa armonia, questapiena socialità della comunità, contribuisconoad allontanare ogni pericolo di anarchia, econsentono di creare un ambiente protettivoche assicura all’individuo una vita teoricamen-te priva di problemi e pericoli, al contrario diquanto avviene negli ambienti del fiume edella foresta, abitati da specie animali e spiritiche sfuggono al controllo umano e che quindipossono avere un carattere incerto o ancheminaccioso. Un villaggio quindi (…) è l’essen-za stessa della socialità, opposta alla naturalitàdell’ambiente circostante, ed è quindi armoniae ordine. Ed è per questo che è così importan-te che un villaggio sia pulito e ordinato, con isentieri ben tracciati ed i porti ben tenuti. Unvillaggio è lo specchio della vita armonicadella comunità, del suo ordine morale, delmantenimento della tradizione e della capaci-tà del suo capo di saper guidare gli abitantisecondo le giuste regole, che sono totalmenteopposte a quelle vigenti nel mondo della natu-ra, dove nulla è prevedibile (…) la foresta,offrendo punti di riferimento meno precisi,può essere infida e confondere chi vi si avven-tura (…) così la foresta è inquietante e poten-zialmente ostile, non solo per la sua difficilepenetrabilità, ma anche perché in essa si anni-dano molti animali pericolosi ed esseri chenon sempre si possono controllare, come glispiriti (…) (la foresta) è in antitesi totale con ilvillaggio, nel senso che rappresenta la totalenaturalità, per cui l’individuo, proveniente daun ambiente che si configura invece come

piena socialità, non si sente mai del tutto sicu-ro in una dimensione priva dei consueti puntidi riferimento culturali. (…) uno scapolo (…)non avendo quindi raggiunto il massimogrado di socialità, non è ritenuto sufficiente-mente capace di compiere la trasformazionedi un settore di foresta, per sottrarlo allaincoerenza naturale (la vegetazione sponta-nea) e recuperarlo al sociale, integrandolo alvillaggio, di cui gli orti fanno parte. (…) in unacomunità (…) il gruppo degli uomini adultiiniziati (…) si trova in opposizione ad altrigruppi di esseri (…) e ad individui totalmenteestranei a tale universo (nemici)45”.

Non diversamente nel mondo antico, ecome aveva notato il Liverani per gliAssiri, la cosiddetta “ideologia delladiversità” aveva una forte connotazioneterritoriale:

“l’ideologia della diversità si applica a quattroambiti, quello dello spazio, del tempo, dei benie delle persone. Per ogni caso si applicano glistessi principi generali, ovvero, più si è vicini alcentro, più le cose sono stabili. Circa lo spazio,vi è un’opposizione tra «il centro cosmico… euna periferia caotica». (…) Riguardo al tempo,il centro diventa il luogo dell’ordine, e dell’or-dinamento della creazione. Il rituale dimostrache il re conosce e controlla il tempo e ilcosmo. (…) Per quanto riguarda i beni, la peri-feria è il luogo dell’esotico, delle merci nonlavorate, mentre il centro è il luogo in cui l’i-gnoto è foggiato nel noto. (…) Infine, la stessastruttura è imposta sul mondo delle persone.Quelli in correlazione con il centro sono vistipositivamente, quelli alla periferia negativa-mente. La periferia è il luogo della linguadiversa, delle diverse abitudini, il cui atteggia-mento è di potenziale opposizione. Essi sono«stranieri» o «forestieri», termine caricato divalore negativo, e sono generalmente visti

come una minaccia. L’attività correlata a questipopoli della periferia è l’eliminazione o la sot-tomissione, e «dopo la guerra, la sottomissio-ne, la conquista, e la distruzione, l’ambienteumano periferico è ricostruito secondo ilmodello corretto». Ciò si può vedere nella poli-tica assira nei confronti della Samaria nel 722.(…) Gli Assiri vedono se stessi, in una prospet-tiva etnocentrica (per utilizzare un concettorecente), come il paradigma di ciò che è auten-ticamente umano. Gli stranieri sono strani,parlano strane lingue (…) sono inoltre caratte-rizzati, e spesso ridicolizzati, come subumani,appartenenti al regno animale, e spesso para-gonati agli animali. Sono inferiori sotto tutti ipunti di vista, e additati per la loro vigliacche-ria e disonestà. Oltre a questo, l’unica nazione(Assiria) è contrapposta ad una moltitudine dinemici: «…in ultima analisi il re assiro dasolo… emerge sui molti rappresentanti delmondo caotico». (…) L’azione del centro sullaperiferia, dell’ordine sul caos, (…) è eliminareo sottomettere46”.

“La maggior parte degli etnologi sono d’accor-do nel ritenere che i rapporti tra le popolazio-ni primitive sono, fino a quando non venganomodificati da accordi o da speciali condizioni,di ostilità e di guerra. (...) Lontano dal suogruppo, l’individuo è sempre in pericolo per-ché è come uno straniero, e straniero significanemico. Tylor, dopo il Vico, ha fatto osservareche la parola latina hostes aveva da principio ilsignificato di straniero e che successivamenteha preso, come era naturale, quello di nemico.Se ci mettiamo a fare la sintesi delle usanzesulla guerra di quasi tutti i popoli primitiviconosciuti, siano essi i canachi o indigeni dellaPolinesia oppure i nigeriani o gli australiani,troviamo che la loro regola di vita è un isola-mento trucemente ombroso di ciascuna tribùnel proprio territorio. Chiunque se ne allonta-ni corre il rischio di essere assassinato o di esse-re fatto schiavo47”.

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Presso vari popoli primitivi di fatto“qualsiasi minaccia ai confini che ilgruppo ha stabilito per se stesso è unaminaccia ai singoli membri del grup-po48”, per cui “l’ostilità latente checaratterizza i rapporti fra i dominitende ad esplodere di continuo in guer-re feroci che a volte si concludono rapi-damente con la distruzione di uno deidue contendenti49”. Com’è tradizional-mente diffuso in tutto il mondo, il moti-vo che poteva spingere le comunità divillaggio, istintivamente diffidenti edostili tra loro salvo mitigazioni in caso dialleanze o affinità, era quello della ven-detta di un’offesa: “basterà che unmembro del gruppo sia stato molestatoo insultato da uno o più membri dell’al-tro gruppo50”; “l’uccisione di un mer-cante o di un messaggero reale potevagiustificare una guerra51”. In altri casi ilmotivo -o il pretesto- si può definire insenso lato il desiderio di sostenere unaqualche rivendicazione52. Lo studio deipopoli primitivi offre una vasta gammadi esempi per le cause scatenanti delleguerre:

“i motivi che possono provocare un conflittosono numerosi: un furto di maiali, un assassi-nio, il saccheggio della tomba di un capo, l’ac-coglienza offerta ad uno schiavo fuggitivo o adun debitore insolvente. La profanazione dellatomba di un capo (...) costituisce un oltraggiogravissimo, che scatena inevitabilmente unaguerra, mentre negli altri casi esiste la possibi-lità di comporre pacificamente la controversiase lo schiavo fuggiasco viene restituito, il furtorisarcito o l’assassino punito. Tuttavia se fra leparti esistono antichi motivi di rancore, allora

l’incidente costituisce solo un pretesto per apri-re le ostilità53”.

Tra le altre cause va ricordato il rattodelle donne, pratica presente pressovari popoli primitivi54 e che, anche nel-l’Italia centrale tra preistoria e protosto-ria, poteva ben essere in uso non sol-tanto per l’acquisizione occasionale di“mogli” -come attesta il ratto delle Sabi-ne nel mito romano-, ma anche perl’approvvigionamento di schiave. Que-ste infatti costituivano un valore ed un“reddito” non solo attraverso il lorolavoro, ma anche attraverso i figli cheerano in grado di generare55.In vari casi i conflitti per l’acquisizionedi territori si possono considerare dovu-ti, oltre che a mire politiche espansioni-stiche di alcuni centri, anche a causenaturali o meteorologiche:

“quanto più una popolazione è primitiva etanto più direttamente subisce questa influen-za (…) in periodo di abbondanza essa si molti-plica quasi in modo illimitato per vedere poiquesto suo aumento numerico decrescere bru-scamente a causa della carestia e delle priva-zioni, oppure a causa delle loro conseguenzedirette, cioè delle migrazioni pacifiche o arma-te da esse provocate. La guerra, infatti, per lascarsezza di beni di consumo, è quella che è lapiù caratteristica dei popoli primitivi56”.

L’influenza delle cause meteorologichesui conflitti può indurci a interessanticonsiderazioni sulla cancellazione dinumerosi insediamenti e sui movimentidi popolazioni che si ebbero con l’iniziodell’età del ferro in Italia; infatti alcuni

studi57 avrebbero rilevato dopo l’età delbronzo (durante la quale il clima sub-boreale fu piuttosto mite e secco), ilverificarsi di “un marcato peggioramen-to-deterioramento climatico (…) a par-tire dal IX secolo a.C., con l’inizio delperiodo«sub-atlantico»58”. Dunque, conla coincidente presenza di prospectorsellenici e mediterranei, con l’introdu-zione di tecnologie nuove sia nellametallurgia che nell’agricoltura, con leinfluenze mitteleuropee, e con il nuovoimpiego di armi e strumenti quali ilcavallo, anche dei nuovi approcci conl’ambiente ed il suo impiego, nonché leinfluenze del clima vanno consideratetra le concause di necessità nuove neipopoli dell’Italia centrale tirrenica all’i-nizio dell’età del ferro.E’ ovvio che in ogni tempo le spinteespansionistiche di un gruppo, qualun-que ne sia stata la causa, quando com-primono i territori dei vicini hannoeffetti a catena: chi si vede ridotto il ter-ritorio, volente o nolente, è costretto asua volta ad espandersi verso le terredegli altri confinanti, come accadde inAfrica, agli inizi dell’Ottocento, a causadell’espansione degli Zulu59. Fintanto-ché esistono terre incolte o “di nessu-no”, in un quadro di popolamentorado, gli attriti hanno effetti bellici limi-tati: “il perdente finiva su nuove terrepiù povere. Com’è tipico dei popoli pri-mitivi che vivono in un paese sottopo-polato, il risultato non era la carneficinama lo spostamento60”. In un quadro dipopolamento più fitto, invece, “basta

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che questa specie di fuga offensiva siastata più o meno coronata dal successo,perché si veda l’attacco iniziale riper-cuotersi in una serie di altri attacchi,l’uno dopo l’altro, i quali, quando le cir-costanze e le sorti del combattimento lopermettono, possono estendersi fino amolto lontano. E’ appunto per questoche nel corso della preistoria si ha uncerto numero di spostamenti dellepopolazioni61”.La bellicosità di un popolo quindi spin-ge anche gli altri vicini ad una bellicosi-tà riflessa62; talvolta, invece, spinge aguerre preventive, fatte oggi per evitaredomani di essere preda di un vicino inespansione: è il caso di Roma che “adot-tò fino dai primi tempi una politica diaggressione metodica e di guerra pre-

ventiva cui diede implacabilmente ese-cuzione estendendo ordinatamente lesue conquiste63”. Esiste inoltre una bel-licosità data dalla necessità di mantene-re i frutti di una espansione: in talesenso è stato letto, per la Verucchio del-l’VIII sec.a.C., “il carattere bellicoso diuna popolazione che costituiva col suoterritorio una sorta di enclave all’internodi un’area dominata dagli italici (…) E’dunque abbastanza logico ritenere chequella ricchezza non fosse conseguenzadella necessità di difendersi ma dellapossibilità di espandersi, mantenendo,con le armi, la sicurezza64”.Fino alla fine dell’età del bronzo, pur inpresenza di movimenti commerciali,migratori e pastorali di notevole peso erespiro, il fondamento del sensus loci cui si

è fatto riferimento era rimasto intattonell’animo delle popolazioni sedentariedi villaggio, grazie anche all’ideologiareligiosa che -intrisa di fondamentaleanimismo- vedeva nello stesso ambientenaturale l’albergo dei riflessi di forze divi-ne, con le quali si doveva evitare di com-promettere l’equilibrio di convivenza.Le attività dei pastori, dei commercian-ti e dei fabbri girovaghi avevanocomunque realizzato, con l’iterazione dirotte consolidate, dei reticoli di collega-mento tra comunità diverse che, impie-gando preferibilmente le vie di crina-le65, avevano aperto uno spiraglio piùampio alle “relazioni estere”. Secondoalcuni, gli artigiani che si muovevanotra le comunità dovevano avere, a lorotutela, una sorta di “corporazione”intertribale le cui radici affondavanonella sfera religiosa66. Anche i pastori,per acquisire diritti di transito e di inse-diamento stagionale presso popolazionilontane, intrattenevano buoni rapporticon le altre genti comportandosi darappresentanti dell’intero gruppo diorigine ed ottenendo in questa vesteun’incolumità personale tutelata dallagaranzia della faida, una delle pochissi-me leggi intertribali efficaci all’epoca67

e prima filiazione dello ius privatumverso lo ius publicum68. La faida infatti,da strettamente privata e legata solo allafamiglia nucleare, dovette allargarsi allacomunità legata da vincoli di sangue,seppure con varie forme intermedie;presso vari popoli primitivi è nota infat-ti da un lato una faida portata avanti

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Modello teorico elaborato per spiegare le trasformazioni sociali che ebbero luogo nel neoliticomedio, basato in parte su indizi che fanno pensare a un deterioramento climatico. Un climafattosi più umido e freddo, in aggiunta alla cresciuta pressione demografica, può avere provocatotensioni per l’appropriazione delle risorse, in primo luogo la terra coltivabile. L’acuta competizionesulle risorse, a sua volta, può avere dato origine a episodi di ostilità, accompagnati dallacentralizzazione e dalla fortificazione degli insediamenti. Da “Le Scienze” 235, cit.

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dall’intera tribù con tutte le sue fami-glie, “le cui origini si debbono ricercarenelle generazioni del lontanissimo pas-sato e che viene continuata solo in virtùdella vendetta di sangue”, ed una acarattere più “privato”, a cavallo traquella familiare e quella pubblica69.E’ stato rilevato, dalle caratteristichedegli insediamenti dell’età del bronzorecente e finale –difesi e su altura-come in questo momento si possaimmaginare una “elevata bellicositàintercomunitaria70”; con tale fase “siapre per l’Italia settentrionale unperiodo di grande instabilità sia sulpiano culturale ed economico che suquello insediativo (…) nel territoriocorrispondente all’Etruria vera e pro-pria (…) è stato (…) ipotizzato che altermine dell’età del bronzo finale, allafine del X secolo a.C., si sia verificatoun periodo di instabilità politica, conlotte armate, e sociale, il cui esito defi-nitivo avrebbe portato alla costituzionedelle principali città etrusche71”.L’osservazione delle caratteristiche delpaesaggio per così dire “sociale” dellafine dell’età del bronzo offre alcuniimportanti spunti per intuire crescenticause di attriti: secondo alcuni studi nel-l’Etruria del nord, come nelle Marche enel Lazio, “vi è un «riempirsi» del pae-saggio e un’intensificazione nei modi diutilizzarlo fra il 3000 e il 1000 a.C.72”; ilterritorio era stato dunque privato diquelle “terre di nessuno” che fungevanoda “camere di compensazione” agli spo-stamenti volontari o forzati delle popola-

zioni, anche a causa di un incipienteaumento della popolazione, che avrebbecomunque visto il suo compimento mas-siccio solo coi secoli VIII e VII73. D’altrocanto sono contemporaneamente atte-stati anche la riduzione della transuman-za e l’incremento dell’allevamento stan-ziale –che determinano un aumento di“fame” di terre- proprio nel momentodella formazione della proprietà privatafondiaria e del rientro nella sedentarietàdei pastori, fenomeno questo connessostoricamente

“in parte (…) a una porzione relativamentecospicua della popolazione nomade le cuigreggi, per un qualunque motivo, sono scese al

di sotto del livello minimo necessario allasopravvivenza di gruppi di famiglie estese.Questi gruppi, privi di terra e di ogni altromezzo di sussistenza, non hanno altra risorsache infiltrasi nelle regioni coltivate come disor-ganizzata forza-lavoro. Uno strato superiore dinomadi, meno numeroso, ma ai nostri finiugualmente importante, riesce a far crescere laproporzione fra animali e pastori fino a supe-rare il punto in cui l’allevamento è economica-mente conveniente. Questo strato deve cercaredi convertire le sue greggi in una forma piùstabile di capitale, e precisamente in terreni74”.

L’incremento dei pollini di cereali neidiagrammi pollinici nel Lazio interno enell’Abruzzo occidentale, e le collegatetestimonianze di una agricoltura più

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Alcuni pollini al microscopio; lo studio dei pollini presenti negli strati archeologici consente didimostrare le variazioni nella composizione vegetale dell'ambiente e l'introduzione di colture

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intensiva alla fine del secondo millennioa.C.75, costituiscono la testimonianza diun più profondo e capillare sfruttamen-to del territorio, per la cui acquisizionesicuramente dovettero aumentare i con-flitti e la bellicosità, abbandonando latradizionale situazione dei popoli primi-tivi per cui gli sconfinamenti intenziona-li a fini economici possono anche noncondurre “a scontri, nel senso che diffi-cilmente i legittimi fruitori (…) attribui-ranno quest’atto ad una volontà precisa,ma preferiranno attribuire la violazionea distrazione o trascuratezza, così cheuna semplice discussione possa riporta-re le cose al loro stato normale76”.Riguardo la pressione demografica,dimostrata in aumento nel periodoindagato, è stato osservato che i conflit-ti “sono tanto più probabili quanto piùdensa è la popolazione del territorio.(…) In altre parole, la probabilità che sigiunga a una contesa aumenta più rapi-damente di quanto non cresca la popo-lazione: se la popolazione cresce linear-mente, la probabilità cresce più o menoin progressione geometrica77”.Vi erano nuovi interessi per il controllodegli attracchi costieri o dei nodi viari, edinoltre i movimenti di alcuni gruppi cheabbandonavano delle località ormai “iso-late”, dirigendosi verso aree interessatedai flussi commerciali, finivano con losconvolgere la geografia di zone peraltrogià popolate nelle aree migliori. Nella realtà dell’età del bronzo finale lapresenza di poche merci di valoreintrinseco e di poca manodopera -vista

la ridotta consistenza dei villaggi, conterritorio di circa 5 km di raggio78- ren-deva l’ambito di scambio dell’economiabrevissimo, in un quadro di civiltà dipagus79. In seguito però, con l’estender-si dei territori controllati e l’espandersidelle comunità nella prima età delferro, i gruppi umani andranno aumen-tando i beni delle comunità -con “teso-ri” quali quello di San Francesco a Bolo-gna-, giacché la ricchezza diverrà fon-damentale per il sostegno della vitasociale ed anche della guerra80. Laguerra stessa, peraltro, consentiva incaso di vittoria di ingrossare i propritesori con il bottino.La nuova portata dei contatti tra comu-nità e gruppi umani determinatasi conla prima età del ferro, ed anche conesploratori del mondo egeo -peraltrosensibilmente presenti già dal XIII sec.a. C.-, assieme all’interesse per lo sfrut-tamento di nuove aree minerarie dove,dal IX sec. a. C., si andavano estraendominerali ferrosi, portarono al moltipli-carsi delle occasioni di trasformazionedel binomio “insediamento - territoriosoggetto”. Anche le nuove possibilitàtecniche sia nel settore dei trasporti chein quello della tattica di incursione conraid di cavalleria agirono come elemen-ti di trasformazione negli equilibri.In altri termini le normali e tradiziona-li occasioni di attrito tra villaggi (qualiepisodi di aggressione di personedurante viaggi o attività in zone margi-nali; furto di bestiame nel territorio o aidanni di pastori; ingresso ed indebito

sfruttamento di terre coltivate, pastoralio da legnatico; furto di beni e scara-mucce di confine; necessità alimentariin crescita con la pressione demografi-ca, con carestie o con locali calamità)rimasero presenti ed attive. Ma al casusbelli tradizionale si andarono inoltreassommando cause nuove, riflessi delletrasformazioni avviatesi con l’età delferro: la necessità di aumentare le terreagricole a causa della frequente crescitademografica; la volontà di acquisire ter-ritori i cui prodotti (agricoli, minerari,in legname, in sale o in uomini) avreb-bero dato alla comunità ed ai suoi sin-goli membri più benessere -con il pos-sesso privato ed il commercio-; l’inten-zione di eliminare un “concorrente”all’ormai inevitabile sviluppo all’internodi un’area oggettivamente ristretta perdue entità tribali, e più complessiva-mente, la volontà di creare più surplusagroalimentare e di altri beni per favo-rire la crescita economica81.Lo spazio necessario allo standard divita dei villaggi stava crescendo, assie-me alle esigenze economiche ed alleopportunità di sondaggio e conoscenzadello spazio stesso. A differenza diquanto era avvenuto in età tardomice-nea, dalla fondazione di Pithecusai -tra780 e 770 a. C.- la presenza di coloni ecommercianti dall’Ellade e da moltealtre aree del Mediterraneo era cresciu-ta in modo esponenziale; con le notiziesull’esistenza di altri popoli in luoghilontani giungevano anche nuovi modu-li socioeconomici e politici, conoscenze

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queste foriere di radicali trasformazio-ni. Gli orizzonti più ampi -nel concepi-re non solo lo spazio, ma anche lasocietà- muovevano infatti alla rivolu-zione che formò la civiltà propriamen-te etrusca, toccando fondamentalmen-te la sfera dell’ideologia come dello spi-ritus religioso. Le aree marginali deiterritori di villaggio necessitavano diun controllo più costante e vigile,diventando in questo periodo un limespiuttosto mobile, con l’espandersi o ilrestringersi dei domini soggetti. Daquesta tensione dei rapporti esteri edella necessità di una attenta poliziadei “confini” (come si è accennato in

precedenza e come si verrà chiarendomeglio più oltre) a trarre vantaggiofurono gli individui socialmente edeconomicamente emergenti -apparte-nenti ad un’aristocrazia già da tempopresente, ma forse non ancora cristal-lizzatasi per clan e famiglie-. D’altro canto, analizzando più in detta-glio il quadro sin qui descritto, già nel-l’età del bronzo finale l’organizzazionedegli insediamenti accentrati –ad esem-pio Sorgenti della Nova- presupponevaun rapporto dialettico del nucleo inse-diativo col territorio circostante; in que-st’ultimo venivano necessariamente dis-seminate, su un’area crescente, le attivi-

tà di produzione primaria, legate all’a-gricoltura ed all’allevamento, compren-sive della macellazione delle carni e lalavorazione del latte, mentre nel centroabitativo si andavano agglutinando fun-zioni quali l’immagazzinamento dellegranaglie e la panificazione, assiemealle produzioni artigiane82.Con l’età del ferro il rapporto col terri-torio venne a modificarsi e ad essereanimato da una forte ricerca dei beninecessari alla vita –tradizionalmenteottenuti anche con la guerra83-, ricercaapprocciata in questo periodo con mag-giore determinazione che in preceden-za e, principalmente, con esigenze

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Sopra, a sinistra i centri dell’Etruria meridinale ed i loro territori all’inizio dell’età del ferro deli-neati con il metodo dei poligoni di Thiessen; a destra due esempi di ricostruzione dell'utilizzo delterritorio nel raggio di 5 chilometri da un insediamento del IX sec.a.C.: a sinistra il centro di Lagodi Castiglione, a destra quello di Ardea

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maggiori. Come è stato scritto per ilmondo greco descritto nell’epos omeri-co, sostanzialmente coevo, la societàprotostorica è contraddistinta da

“baratto, assenza di moneta, assenza di merca-to locale, assenza di mercanti specializzati. Mac’è di più. Vi è cioè una precisa limitazione delnumero delle merci: quando si esce dal gene-rico, le merci risultano limitate al vino, aimetalli, agli schiavi, al bestiame. (…) In con-clusione quindi queste comunità omerichesolo limitatamente si aprono a rapporti di tipocommerciale. Tutto ciò, tenuto conto dellanatura agricola di tali comunità, vuol dire inprimo luogo tendenza all’autarchia e all’auto-consumo, ossia una produzione collegata a finidi sussistenza. Vuole anche dire, in secondoluogo, che il commercio, per essere regolare enon solamente occasionale e saltuario, devefar capo a chi possiede regolarmente un sur-plus e scorte di riserva. Ma vuole anche dire,per chi non è in queste condizioni di circuitialternativi (…) In primo luogo occorre, infatti,ricordare il ruolo svolto dalla guerra e dai rela-tivi bottini: leis e ktèma sono due forme altret-tanto legittime di acquisizione (Il. IX, 406 s.).Metalli, bestiame, schiavi possono essereacquisiti in questo modo. E vi è un appositosistema di distribuzione del bottino, il quale faleva sul geras scelto per i capi e sulla mòiraeguale per i membri della comunità in quantotali e quindi semplicemente sorteggiata. (…)La guerra e la suddivisione della preda sonodunque tanto normali quanto lo svolgimentodi un convito o l’accesso ai mezzi di produzio-ne agricoli. (…) Essenziale dunque in questotipo di società risulta il possesso dei mezzi diproduzione e di sostentamento (terre, bestia-me, forza lavoro, metalli, armi) e la capacità dicontrollare le varie forme di circolazione dibeni (commercio, divisione delle terre e delbottino, surplus)84”.

L’VIII sec.a.C è stato indicato come ilmomento in cui nell’Italia centrale tir-renica si fanno più chiari gli effetti delpossesso privato terriero:

“l’accumulo di beni suntuari, che contraddi-stingue molte tombe del versante medio-tirre-nico a partire dalla metà dell’VIII secolo a. C.,è stato spiegato come un effetto indotto dacambiamenti avvenuti nei rapporti di proprie-tà della terra, più specificamente attraverso ilpassaggio da regimi di proprietà comunitaria aforme di possesso individuale, connotate insenso aristocratico, con relativo capovolgimen-to del modo di occupazione dello spazio geo-grafico. (…) Il significato del tumulo funerario,inteso come marker di articolazione e stratifica-zione del tessuto sociale, è stato indicato a piùriprese nell’analisi delle società protostoriche edi età storica sviluppatesi nella penisola italia-na. (…) Nelle culture italico-orientali, secondoV. D’Ercole, la delimitazione del terreno fune-rario con un circolo di pietre costituirebbe unindizio in merito al passaggio da un regime diproprietà comunitaria della terra alla proprie-tà individuale: recenti acquisizioni fisserebberonell’età del bronzo finale l’attivazione del pro-cesso. (…) quella di Tarquinia è una situazioneestremamente rappresentativa di (…) un feno-meno di antichità e continuità nel possesso dicerte aree, interpretabile nel senso proposto daR. Peroni in merito ad un’appropriazione dellaterra da parte dei gruppi gentilizi già nell’etàdel ferro85”.

La disponibilità privata della terra,secondo gli studi dello Hanson per laGrecia, è una componente in grado diindurre uno sviluppo nelle tecnicheagricole, a differenza di quanto accadein epoche o aree dove il suolo ed il suosfruttamento sono collettivi86; anche inEllade –come nell’Etruria coeva- “at the

beginning of the eight century theGreeks discovered how to coltivate thedomesticated olive on a wide scale,along with other trees and vines, andmastered the tecniques of easy propa-gation such as grafting. That knowled-ge allowed for a lasting alternative topastoralism87”. Il nostro parallelo tra laGrecia e l’Etruria contemporanea, sullalinea tracciata dalle intuizioni dello stu-dioso americano, può estendersi all’im-piego nell’VIII sec.a.C. delle terre mar-ginali88, attestato in entrambe le aree;nell’area ellenica

“the late eight-century move toward viticultureand arboricolture probably explains the crea-tion of (…) new upland establishments. Otherunproductive swampland below the hills, andthe rarer areas where problems of drainageand mountain runoff also made farming mar-ginal, are similar cases. Under the new dyna-mics of intensive agriculture, this ground toocould be developed through ditches and drai-nage canals. The picture that keeps emergingsuggests a unique interdependence betweenfarm residence, servile labor, diversified crops,and the farming of marginal lands. (…) Theoriginal catalyst for the change (…) was (…)population pressure and the growing scarcityof good bottomland89”.

L’uso delle terre marginali ed il “riempi-mento” del territorio, che abbiamo vistoattivarsi nell’Italia centrale già nell’etàdel bronzo, per compiersi comunquesolo con l’età del ferro, uniti al possessofondiario privato ed alla concessionedella terra per l’uso di essa, costituisconoi segni della nascita “of agrarianism. Italone created the surplus and capital to

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allow a significant minority of the popu-lation to shift its attention from farmingand to pursue commerce, trade, craft-smanship, and intellectual develop-ment90”. In altri termini, l’utilizzo inten-sivo del suolo, nella sua totalità, per finiagricoli –ed in Etruria anche per losfruttamento minerario- avrebbe postole basi per la formazione del surplus, unadelle componenti prima assenti nell’e-conomia. Anche in Etruria padana, adesempio, è stato notato che “con l’VIIIsecolo, specialmente nella secondametà, corrispondente al VillanovianoIII, la riorganizzazione del territorio,

con la formazione di comprensori omo-genei attorno ad alcuni insediamenti dimedie dimensioni, e la stessa nascita diun aggregato protourbano come quellodi Felsina, implicano la capacità di con-trollare le risorse agricole del territorio edi gestire le eccedenze91”. L’agricolturadi sussistenza basata sul sistema del deb-bio o dei campi d’erba, che esauriva laterra, venne abbandonata in Italia cen-trale -forse nell’VIII secolo, su influenzagreca- a favore del sistema del maggese,ovvero dell’alternanza dei campi, grazieal quale i terreni riposano e recuperanoproduttività, migliorando le specie colti-

vate ed aumentando la deforestazione92.In Ellade, lo stesso Esiodo fa riferimen-to alla formazione del surplus agricolonelle Opere e giorni, dove dice (361-363)“Quando un uomo aggiunge a ciò cheha, allontana da sé il bisogno; perché seaggiungi anche solo poco a poco, e lo faispesso abbastanza, presto quel pocodiverrà molto”. Per stabilizzare ed ottimizzare le colturenell’area centroitalica si rese indispensa-bile il ricorso all’irrigazione ed allacanalizzazione delle acque, attività che,se da un lato attivano conflitti per l’at-tingimento per il controllo dei corsid’acqua, dall’altro richiedono forzalavoro organizzata, con legami –a valleed a monte- con la strutturazione dellasocietà ed il livello di benessere;

“i sistemi di irrigazione (…) costituiscono deimiglioramenti pressoché stabili, che (…) ten-dono a concentrare nelle mani di un segmen-to sociale ristretto le potenzialità per la produ-zione di un surplus di ricchezza accumulabile. Aseconda delle circostanze locali, tali potenziali-tà possono essere definite in termini di diritti oalla terra o all’acqua; in ogni caso la conse-guenza è sempre quella di concentrare la ric-chezza ereditabile e alienabile in risorse pro-duttive (…) Sembra si possa nondimeno con-cludere (…) (che l’irrigazione) costituisce sem-plicemente una parte secondaria di una retefunzionalmente interdipendente di tecniche disussistenza, gerarchie politiche e relazioni eco-nomiche93”.

A tale modello –che lo stesso Hansondefinisce uno dei possibili- può essereutilmente affiancato, integrativamente,quello considerato da McC Adams per

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Particolare della figura di aratore con due buoi aggiogati, applicata sul carrello dell'Olmo Bello diBisenzio - Roma, Museo di Villa Giulia

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la formazione degli insediamenti urba-ni nella Mesopotamia e nell’Americacentrale:

“possiamo quindi passare alla considerazionedei surplus agricoli per quel che concerne illoro probabile ruolo di condizioni preliminarialla rivoluzione urbana nelle aree da noi esa-minate. (…) ma ciò che bisogna chiarire è se losfruttamento di un determinato ambiente permezzo di una determinata tecnologia agricola,implicando un potenziale livello di produttivi-tà dal quale si possa sottrarre il consumo realeper stabilire il surplus utilizzabile per la redistri-buzione, contribuisca veramente a creare leideologie e i contesti istituzionali necessari permobilitare quel surplus. Si può affermare chenegli agricoltori esista una tendenza, a loropeculiare, a spingere la produttività al più altolivello possibile, compatibilmente con la lorotecnologia, ossia a elevare al massimo la loroproduzione sopra i livelli di sussistenza, affret-tando così la crescita di nuovi modelli di appro-priazione e consumo e quindi l’esistenza di éliteliberate dalla responsabilità di produrre cibo?(…) Karl Polanyi e i suoi collaboratori hanno(…) dimostrato in modo convincente il contra-rio, rilevando che le effettive eccedenze agrico-le sono sempre definite e mobilitate in un par-ticolare quadro istituzionale, e che proprio l’af-fermarsi dei simboli collettivi e delle istituzionidegli stati primitivi può spiegare la conversio-ne del tempo libero dei contadini in riserve dicibo immagazzinate nelle città. RecentementeMartin Orans ha proposto un approccio van-taggioso e alquanto diverso al problema diinterpretare il significato delle eccedenze agri-cole. Per riassumerne le linee essenziali, (…)ciò che conta in realtà, sostiene Orans, non è ilmargine tra la produzione e il consumo procapite, che implica il miglioramento dell’«effi-cienza» come principale fattore in cambiamen-to, e che è di per sé incalcolabile a partire dai

consueti dati archeologici e storici. Almeno dalpunto di vista del mutamento socioculturale, lavariabile cruciale è invece l’ammontare lordodella ricchezza accumulata o surplus. Porre ilproblema in questi termini (…) mette in evi-denza il fatto che, in qualunque contesto socio-culturale, la mobilitazione di surplus comportauna catena di processi piuttosto che il sempliceraggiungimento di un margine tra produzionee consumo da parte dei produttori primari.L’accumulazione delle eccedenze è quantomeno facilitata dai miglioramenti tecnologicidi mezzi di trasporto collegati in modo deltutto indiretto all’agricoltura (come barche ecarri) e, a ogni modo, comporta l’elaborazionedi meccanismi istituzionali complessi, non soloal fine di assicurare la produzione del surplusda parte dei contadini, ma anche per concen-trarla e ridistribuirla. Inoltre, fatto altrettantorilevante, il concetto di surplus lordo indirizzal’attenzione verso i centri politici e religiosidella società, sia essa urbana oppure no. Fu inquesti centri, dopo tutto, che la sua utilizzazio-ne diede luogo a nuove classe e gruppi di spe-cialisti, come pure alle costruzioni monumen-tali e ai beni di lusso essenzialmente associati aloro, e attraverso i quali in primo luogo identi-fichiamo la rivoluzione urbana. (…) (Inoltre) ciporta a riflettere, per esempio, sulla possibilitàche una crescita globale della popolazione edell’unità territoriale offra alla rivoluzioneurbana un impulso forte almeno quanto gliapparenti incrementi in «efficienza». Le ten-denze verso l’espansione territoriale, l’unifica-zione politica e la concentrazione della popo-lazione all’interno di una unità politica, si pos-sono per conseguenza interpretare non soltan-to come manifestazioni finali della rivoluzioneurbana, ma come processi funzionalmenteinterrelati e fondamentali rispetto a essa. Se sicalcola il surplus non come quantità pro capite,ma come ammontare globale di ricchezzaaccumulata utilizzabile, da fattore indipenden-

te di cambiamento esso si trasforma in un com-ponente inserito in una rete interdipendentedi causa ed effetto. L’estensione del controlloterritoriale, nuove forme di ordinamentogerarchico, i molteplici progressi tecnologici,tutti questi fattori hanno potuto contribuirealle dimensioni del surplus quanto i migliora-menti dell’«efficienza» agricola immediata,mentre l’impiego del surplus, qualunque fossestata la sua origine, ovviamente influì a suavolta in misura non trascurabile su questi fatto-ri. (…) In realtà i surplus e le istituzioni che nepromuovevano lo sviluppo e li impiegavano siintrecciavano inestricabilmente a formarne lasostanza94”.

La spinta verso il possesso terriero,come si è visto e come si vedrà anchenel capitolo seguente, favorì in partico-lare, nell’Etruria villanoviana, una fasciasociale, formata di potenti clan superfa-miliari, che costituì per lungo tempo l’a-ristocrazia; in un circolo virtuoso la con-quista di nuove terre veniva perseguitamilitarmente, con vantaggio dei leaderguerrieri ai quali senza dubbio andava-no vari proventi –anche fondiari- deiconflitti. La disponibilità di terra inoltredoveva forzatamente accompagnarsicon l’acquisizione di manodopera schia-vile, alimentata anch’essa con guerrecome accadeva in Oriente ed in Gre-cia95: conquista di territorio, e di bracciaper esso, andavano quindi di pari passo,a vantaggio entrambe di una nobiltàche acquisiva patrimonio e rangosecondo un meccanismo per così dire“autoincrementante”.Dell’intenzione di questi gruppi di con-gelare perpetuamente la propria supre-

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mazia danno testimonianza varie noti-zie che, seppure ben più tarde, fannoriferimento alla stabilità teoricamenteperpetua delle proprietà fondiarie inarea etrusca. Depone tradizionalmentein questo senso la citazione latina (inGromatici veteres I, 350 e segg.) della nar-razione della profetessa Vegoia adArrunte Volumno, nella quale si sostie-ne che in Etruria il dio più importante,

equivalente a Giove, “volle che i confinifossero segnati con termini i quali ungiorno gli uomini delle nuove ere viole-ranno per avidità, manometteranno erimuoveranno. Ma chi toccherà i confi-ni a proprio vantaggio sarà dannatodagli dèi”96. Recentemente, a questidati, si assommano alcune notazioni suldiritto privato etrusco basate su testiepigrafici, dove appaiono disposizioni

su proprietà ed usi di fondi caratterizza-te dalla conservazione perpetua deidiritti originari, caratteristica rinviataperaltro –secondo una interpretazionedelle stesse epigrafi- allo ius etruscum97.Una simile tendenza alla perpetuazionedella proprietà fondiaria appare occa-sionalmente anche in Ellade, dove adesempio “Philolaus of Corinth (about730 B.C.?) has supposedly enactedregulations ensuring that the farms atThebes might remain the same numberin perpetuity (hopos to arithmos sozetai tonkleron; Pol. 2.127b1-6)98”. Anche la spinta coloniale greca sulMediterraneo, e nell’Italia meridionale,oltre che dalla penuria di terre inmadrepatria avrebbe tratto origine,secondo alcuni spunti, dalla volontà diriprodurre l’agricoltura delle aree d’ori-gine con alcuni correttivi sociali; “thatis, would-be georgoi were seeking toreproduce –or given this second chance,to perfect or to improve on- an agrarianideology they had seen at home. Incolonies, there were none of the pro-blems (as Aristotle realized) of Dark-Age holdovers, aristocratic horse-bree-ders who were resistant to reformula-ting the land of their ancestors alongnewer agrarian principles99”. Va da sé,comunque, che l’accesso alla terra fu inGrecia senz’altro più diffuso che inEtruria; il gran numero dei georgoi-hopli-tai, che in età storica combattevano perdifendere la loro terra, ne dà una testi-monianza indiscutibile. Diversamente,nell’Italia centrale tirrenica ed in parti-

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Schema delle trasformazioni in atto con l’inizio dell’età del ferro in Etruria

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colare nell’Etruria la limitazione socialeall’accesso al possesso fondiario apparemolto precocemente, e si mantienecome una forte connotazione del modusdi gestire territorio e proprietà. Non sipuò escludere che la resistenza etruscaalla penetrazione greca nella prima etàdel ferro sia stata animata, oltre che dafatti tecnici della sfera militare, ancheda alcune incompatibilità ideologiche,come quelle sul piano della proprietà.E’ possibile, in altri termini, che ci siastata anche una opposizione ed unadifesa “culturale” etrusca dall’idea dellaparcellizzazione del suolo –simmetricaad una organizzazione militare diversa,

e dell’impiego più “polverizzato” social-mente del surplus, portata dai coloniquale correttivo agli usi della loromadrepatria, mentre per tradizione l’E-truria villanoviana trovava a sé più vici-no lo schema socioculturale della vastaproprietà attribuita ad ampi organismisociali –collettivi nella protostoria, gen-tilizi con l’età del ferro- piuttosto affinial mondo omerico –fatto di cui le testi-monianze della fortuna dell’epos cidanno innumerevoli prove-.Uno dei principali portati dell’evoluzio-ne attivatasi nell’Italia centrale dellaprima età del ferro, fu la formazione deinuclei abitati protourbani; anche l’ele-

vata conflittualità tra gruppi può averavuto un peso nella spinta verso il sine-cismo dei gruppi sparsi; anche quicome in Mesopotamia “almeno parzial-mente a causa della maggiore forzadifensiva di vasti insediamenti raccoltiin un nucleo compatto, e forse in parteanche a causa del maggiore controllopolitico che poteva essere esercitato sudi essi in tali condizioni, pare altresì chequesto sia stato un momento della tra-sformazione «degli agglomerati centra-li in veri e propri centri urbani»100”. Icentri che si agglutinano in Italia cen-trale a cavallo tra IX e VIII sec.a.C.costituiscono vere strutture protourba-

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Alle origini della guerra: il controllo dello spazio e le cause degli scontri

A sinistra, ricostruzione di una capanna villanoviana della prima età del ferro ai Giardini Margherita di Bologna; a destra, schema generaledell'intelaiatura di pali che sorreggeva le capanne villanoviane e laziali della prima età del ferro

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ne, anche se sono state notate estensio-ni diverse tra nuclei dell’Etruria e delLazio:

“all’inizio dell’VIII secolo conosciamo infattiin Etruria grandi agglomerati protourbani(estesi da molte decine ad oltre un centinaiodi ha) già formatisi nel corso del secolo pre-cedente; nei territori attribuibili a questi cen-tri è presente normalmente un solo insedia-mento di medio rango, verosimilmente in unrapporto di dipendenza gerarchica dal centromaggiore. Nel Latium vetus abbiamo inveceuna serie di centri di medio rango, con esten-sione compresa approssimativamente fra 5 e10 ha, di recente rioccupazione (dopo le atte-stazioni di vita riferibili alla fine dell’età delbronzo), separati da distanze che variano da 5a 10 km. Queste differenze nell’assetto terri-toriale sono basate verosimilmente su unadiversa organizzazione sociale ed economica.Probabilmente in Etruria siamo già di frontea forti organismi politici, capaci di esercitareun controllo sulle singole comunità di villag-gio, mentre nel Lazio il controllo è ancorasuddiviso fra un numero maggiore di centri dipiccole dimensioni101”.

Il controllo sulle comunità di villaggioperiferiche aveva origine senza dubbioda legami tra clan e aree decentrate, inalcuni casi originati da emanazionipacifiche e più antiche102, in altri casi–probabilmente più numerosi- daacquisizioni belliche, secondo uno sche-ma ampiamente diffuso nel mondoantico103, come in Mesopotamia:

“al vertice della società mesopotamica era unaristretta cerchia di famiglie nobili, che sembraavessero esteso considerevolmente il loro con-trollo sulla terra attraverso gli acquisti del

tardo Protodinastico e dell’Accadico. (…) sem-bra che in Mesopotamia le famiglie più poten-ti possedessero domini di tipo feudale, inparte sotto il loro controllo diretto, di dimen-

sioni molto varie. La loro forza-lavoro (…)dipendeva in misura mutevole dalla distribu-zione (…) di appezzamenti di terra e da altreforme di clientela104”.

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La lancia, la spada, il cavallo

Veduta di un villaggio Sonjo in Africa, composto da capanne con tetto di paglia dotate di unantiporta coperto, come le capanne della prima età del ferro italica

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Similmente l’insediamento etiopicodegli inizi del Novecento

“è un campo di soldati, la sede del comandoguerriero vigilantesi dal paese circostante (...)In essa trascorrono gli ozi, che il signore e ilsuo corteggio guadagnarono in una impresaguerresca (…) Con ritorni periodici, gli armaticompiono una sortita, a fine di levare il «tribu-to» sovra le popolazioni delle contrade, che sisono avute in balìa economica (…) Per questacausa, la città etiopica si distribuisce secondol’interesse militare ed il valore economico dellepopolazioni suddite105”.

Se nell’Italia centrale tirrenica la resi-denza per una aristocrazia connotatadagli interessi agrari e mercantili è lacittà in formazione, “è lecito configura-re come rocche aristocratiche alcuniepisodi insediativi di carattere minore(…), preludio si un sistema di popola-mento rurale che troverà un assetto ter-ritoriale stabilizzato nell’orientalizzanterecente106”. Questo processo di consoli-damento della proprietà terriera suaree decentrate dovette giungere ineffetti a compimento nella secondametà dell’VIII sec. a.C. e nel VII secolo;infatti

“in territorio laziale (…) le ricognizioni disuperficie e l’indagine archeologica degli ulti-mi anni vanno delineando (...) per la seconda

metà dell’VIII e soprattutto per il VII sec.a.C.,nel periodo della formazione dei centri urba-ni, una sempre più numerosa diffusione dipiccoli insediamenti e necropoli, sparsi sututto il territorio intorno a Roma sulle due rivedel Tevere. Nella maggior parte dei casi, sitratta di nuclei di consistenza molto ridotta,verosimilmente corrispondenti a singoli grup-pi familiari a carattere gentilizio; alcuni diquesti siti, sempre di dimensioni molto limita-te (estensione fino a ca. 1 ha), sembrano inve-ce avere il carattere di piccoli insediamenti, avolte chiaramente in posizione strategica, supianoro isolato in corrispondenza di vie dicomunicazione terrestri o fluviali. La distribu-zione di queste presenze fornisce un indizioconcreto dello stretto legame tra i ceti emer-genti, la comparsa e il consolidamento deiquali sono il risultato di un lungo processo distratificazione all’interno della società laziale evillanoviana, e il possesso della terra, che costi-tuiva la base economica del loro ruolo premi-nente nelle comunità di questo periodo. (…)L’insieme delle evidenze (…) sembrerebbeindicare come Veio rappresenti il punto diriferimento politico ed economico di questoterritorio almeno a partire dall’VIII secoloa.C. In questo momento infatti sembra possi-bile cogliere l’inizio di un processo di organiz-zazione del territorio che si attua in modo pia-nificato. Questo processo, che si precisa nelVII secolo, prevede sia un controllo strategicodelle principali vie di comunicazione median-te insediamenti (…), sia la colonizzazioneintensiva delle campagne con la creazione dinumerosi piccoli agglomerati –probabili fatto-rie- sparsi su tutto il territorio107”.

Alle origini della guerra: il controllo dello spazio e le cause degli scontri

Stele dalla tombra 793 della Necropoli SanVitale di Bologna, riproducente la facciata di

una casa con finestre e tetto a capriataBologna, Museo Civico Archeologico

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Note

1 La guerra e le altre forme di aggressivitàintraspecifica hanno una consistente diffe-renza: “nella forma di conflitto aggressivoche chiamiamo guerra, i controlli che met-tono freno alla distruttività sono del tuttoassenti: l’obiettivo è qui l’uccisione di com-pagni di specie appartenenti a un gruppodiverso dal proprio”. Per questa osservazio-ne (pag. 13) e per il comportamento aggres-sivo nel regno animale, sul piano intraspeci-fico, va ricordato lo studio di Eibl-Eibesfeldt,in Etologia della guerra, cit. pagg. 45-67 pergli animali in genere, e l’intero cap. 4 per ilterritorialismo e l’aggressività tra i primati,alla cui lettura si rimanda per non appesan-tire ulteriormente questa già estesissimanota.Per l’aggressività si veda anche John Klama,L’aggressività, realtà e mito, Torino, 1991.Tra gli animali inferiori, in particolare tra gliinsetti, le formiche svolgono vere e proprieguerre di sterminio tra di loro; è stato osser-vato che esse “sono anche gli unici animaliche sono proprietari, che possiedonoabbondantemente riserve e beni, l’imposses-sarsi dei quali è per altri animali cosa utile.Essi hanno dimore stabili, cantine fornite diviveri e copiosissime provviste (...) alleva-menti di bestiame (di afidi) (...) Le formichefanno e subiscono le guerre sempre allamaniera degli uomini. Invasione militaredel formicaio, combattimento, sottomissio-ne dei vinti. Il vincitore si insedia nella cittàsottomessa oppure porta a casa sua le prov-viste (il saccheggio), le operaie e le uova incova, le quali forniranno i lavoratori chesaranno messi a servizio della collettività vit-toriosa (la schiavitù), nonché gli afidi chesaranno il suo bestiame. Le formiche fanno

la guerra perché posseggono dei beni, dellericchezze. Sono, unitamente alle termiti ealle api, i soli animali che si trovino in que-ste condizioni (...) Tuttavia (...) nelle loroguerre, al semplice fattore economico (desi-derio di preda e di appropriazione del lavo-ro e dei beni delle loro congeneri) si aggiun-ge il fattore psicosociale”. Da Bouthoul, Leguerre, cit., pagg. 237-238.Fornari (Psicoanalisi della guerra 1988, cit.pag. 38) rileva che “le teorie, largamente dif-fuse, che sostengono l’origine economicadelle guerre, sembrano confermate dai solicasi di guerre vere e proprie fra gli animali(api e formiche). (…) le api e le formichesono gli unici animali ad avere una econo-mia sotto forma di beni accantonati. In alcu-ne specie di api e di formiche troviamo cioètutti i caratteri di una guerra collettivamen-te organizzata, il cui scopo è il saccheggio”.Non sono solo gli animali inferiori che pos-seggono una consistente vita economica adavere guerre: recenti studi hanno documen-tato come gli scimpanzé, tra le scimmieforse quelle più vicine all’uomo, abbianonon solo uno spiccato senso della territoria-lità tribale (dalla quale discende il periodicouso della sorveglianza e verifica dei confini acura dei maschi), ma anche il principio dellaguerra, che sembra avere inaspettatamenteun fine di sterminio.Nel suo volume Il popolo degli scimpanzé (JaneGoodall, Il popolo degli scimpanzé, Milano,1991), Jane Goodall dedica un intero capi-tolo alla guerra (il decimo); essa rileva che“almeno una volta la settimana i maschi (...)solitamente in gruppi di non meno di tre,visitano le aree periferiche del territoriodella propria comunità. Non vi è un confineben definito tra i territori dei vari gruppisociali, anzi, di solito fra il territorio di ungruppo e quello di un altro vi è un lembo

intermedio di sovrapposizione (...) Quando,nel caso di una perlustrazione, i maschiaccertano la presenza di estranei, iniziano amuoversi con cautela, a fiutare la vegetazio-ne, a prestare orecchio al minimo suono (...)Se poi vedono qualche scimpanzé dellacomunità vicina, la loro reazione dipenderàdalla dimensione del gruppo degli estraneirispetto al proprio (...) Se (...) le forze sonopiù o meno pari - e cioè se i due gruppi sonocomposti di un egual numero di maschi- iloro membri, solitamente mantenendosi aduna distanza di qualche centinaio di metri, silanciano insulti (...) Infine, dopo una mez-z’ora o anche più, ciascun gruppo si ritireràverso la più sicura zona rappresentata dallaparte centrale dei rispettivi territori. Questocomportamento fiero e rumoroso serve aproclamare la presenza dei legittimi pro-prietari del territorio ed a intimidire i vicini.Non è necessario che si verifichi un vero eproprio scontro. Gli attacchi selvaggi e bru-tali hanno luogo, invece, quando due o piùmaschi incontrano un estraneo da solooppure un paio di femmine estranee con iloro piccoli”. Da Goodall, Il popolo degli scim-panzé, cit., pagg. 116-117.Oltre a queste interessanti ma incruenteprassi di controllo del territorio, la Goodallnarra anche di quella che lei definisce “laguerra dei quattro anni”. Si tratta di unascissione di una comunità in due sottogrup-pi, che dopo un avvio con occasionali dissa-pori, sfocia in una vera guerra di imboscate,intesa alla totale cancellazione di uno deidue “sottogruppi” con il recupero della suaporzione di territorio. Il racconto della Goo-dall, che qui riporteremo solo fortementesunteggiato, potrebbe benissimo essere per-tinente ad una vicenda svoltasi in un villag-gio protostorico: “la comunità (...) iniziò adividersi. A quell’epoca, verso la fine del

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regno di (...) vi erano 14 maschi pienamen-te adulti: sei di essi (...) cominciarono a tra-scorrere periodi di tempo sempre più lun-ghi nella parte meridionale del territoriodella comunità (...) Il «sottogruppo setten-trionale» era molto più numeroso, e com-prendeva otto maschi adulti, dodici femmi-ne ed i loro piccoli. Col passare dei mesi irapporti tra i maschi dei due sottogruppidivennero sempre più ostili. I maschi delgruppo settentrionale tendevano ad evitarel’area utilizzata dai separatisti, ma spesso (...)i maschi del gruppo meridionale facevanopuntate verso il nord (...)Due anni dopo la comparsa dei primi segnidi divisione divenne evidente che ormai sierano formate due comunità distinte, cia-scuna con la propria individualità territoria-le (...) Quando i maschi delle due comunitàsi incontravano (...) non mancavano mai diurlarsi insulti (...) Ciononostante, anchedopo questi episodi accadeva che talvolta itre maschi più vecchi rinnovassero la loroamicizia.Per un anno le cose continuarono in questomodo, ma poi si verificò il primo brutaleattacco dei (...) sei maschi adulti (...) su ungiovane maschio (...) Non vi è dubbio chequell’aggressione lo condusse alla morte (...) Nel corso dei successivi quattro anni fummotestimoni di altre quattro aggressioni simili aquesta (...) A quel punto fu chiaro che imaschi di Kahama erano condannati: primao poi i due restanti sarebbero stati trovati educcisi (...) L’unico sopravvissuto (...) vennebrutalmente ucciso come gli altri (...) La suamorte segnò la fine della comunità di Kaha-ma (...) La violenza ai danni di un’altracomunità e gli atti di cannibalismo (...) furo-no eventi mai osservati in precedenza (...)Dopo la morte di (...) i maschi vittoriosi, incompagnia delle loro femmine e dei piccoli,

avevano percorso senza timore il territorioappena annesso”. Da Goodall, Il popolo degliscimpanzé, cit., pagg. 120-127. Sulle ricerchedella Goodall sugli scimpanzé e sull’uso diarmi da parte delle scimmi si veda anche inEibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit., pag.68-76, e 79-83.Di notevole interesse, per quanto vedremosugli effetti a catena delle guerre nellecomunità primitive, è la testimonianza deglieventi seguenti alla guerra di scimpanzéappena descritta: “questo felice stato di cosenon durò a lungo. La comunità di Kahama(...) aveva fatto da cuscinetto fra quella diKasakela e la potente comunità meridionaledi Kalande, che ora tendeva ad espandersisempre più verso nord. Un anno dopo che imaschi di Kasakela avevano trionfato (...) sitrovarono costretti a iniziare a ritirarsi (...)Successivamente, essendo rimasta con solicinque maschi adulti, la comunità di Kasa-kela non solo continuò a perdere terreno asud, ma iniziò a perderne anche a nord,dove la numerosa comunità di Mitumba,cogliendo l’occasione favorevole, iniziò aespandere i propri confini meridionale (...)quattro anni dopo (...) il territorio controlla-to (...) di Kasakela (...) era (...) appena suffi-ciente a dar da mangiare (...) stavano perricevere lo stesso trattamento che avevanoriservato alla comunità di Kahama. (...) Perfortuna, a quell’epoca, la comunità di Kasa-kela poteva contare su un inconsueto nume-ro di giovani maschi che (...) potrebbe averdato ai loro vicini l’erronea impressione chela comunità di Kasakela fosse ancora poten-te (...) Lo status quo, a quanto sembrava, erastato ristabilito”. Da Goodall, Il popolo degliscimpanzé, cit., pagg. 127-128.All’interno di questa breve indagine sulcomportamento “bellicoso” negli animali, èdegno di nota che di norma, quanto meno

tra i mammiferi, quando lo scontro fisicovede uno dei due contendenti in evidentedifficoltà, questo può interrompere la lottasegnalando di essere vinto. “Esiste (...) indeterminate specie di animali, una serie dicomportamenti rituali, di condotte di com-promesso, che si traducono in un’inibizionedella violenza omicida. E’ dunque un’effica-cissima regolamentazione sociale quella chepermette la sopravvivenza del gruppo nellesua condizioni normali di vita “. Da Barrois,cit., pag. 25. Difatti i giochi di caccia, di pre-dazione e di combattimento sono caratteriz-zati da un’inibizione del morso mortale,quando le prede sono animate, reali. Nell’a-nimale adulto questo impulso a trattenersi,questa inibizione della violenza grave siritrovano nei combattimenti o duelli tra ani-mali (competizioni sessuali, alimentari, ter-ritoriali): in linea generale, il combattimen-to non è mortale, e uno dei due protagoni-sti adotta una condotta di “sottomissione”con la quale fa capire la sua resa, offrendosiin atteggiamento non bellicoso. L’avversariocessa allora immediatamente le ostilità”. DaBarrois, cit., pag. 42.Eccetto i casi, come nel racconto della Goo-dall, in cui si scatenino eccezionali situazionidi intento assassino, è dunque solitamentesufficiente negli scontri intraspecifici che ilvinto assuma un atteggiamento di sottomis-sione, che di norma coincide con atteggia-menti di tipo infantile, per far cessare lalotta. E’ stato osservato infatti -ad esempiotra i lupi, i cavalli, i babbuini ed altre scim-mie- che l’”appello infantile” acquieta l’av-versario, ed il comportamento “da cucciolo”blocca l’aggressività (in tal senso si vedaToraldo di Francia, Cultura, pace, guerra, cit.,pag 16; Patrizia Messeri, I conflitti negli ani-mali, in “Conflitti, sicurezza, negoziati”,Urbino, 1987, pagg. 40-41.

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Ciò, che come istinto vale di norma ancheper l’uomo, può essere messo in relazionecon la pratica dell’iniziazione e dell’accessocerimoniale dei giovani nel numero degliadulti, i quali in primis sono addetti alla guer-ra. In pratica, attraverso l’accesso ad unaautocoscienza, ad un autocontrollo e conuna dimostrazione di coraggio, resistenza aldolore e virtù guerriera, il giovane abban-donerebbe alle sue spalle -al di là di unaimportante cerimonia che fa da sigillo- lacondizione “franca” di “non aggredibile”,diventando invece aggredibile e, principal-mente, aggressore.A questa nuova condizione non si può acce-dere che attraverso dimostrazioni di corag-gio, giacché essa comporta la messa a repen-taglio della vita stessa; i segnali di sottomis-sione infatti non sempre potranno salvarel’adulto belligerante in caso di sconfitta,giacché “perché i gesti di sottomissione rag-giungano il loro effetto, è necessario che ilsoccombente abbia il tempo sufficiente a tra-smetterli e il vincitore il tempo di recepirli.L’invenzione delle armi (...) bastò a renderevana questa fondamentale premessa. (...) Inguerra è considerato moralmente lecito spa-rare ed uccidere ma non infierire sui feriti osui prigionieri. Perché questa differenza? Maperché costoro, in modi diversi, riescono asegnalare agli avversari la loro sottomissione(...) Ancora più insidiosa è la capacità, tipi-camente umana, di degradare gli avversarifino a non sentirli più come congeneri”. DaCarlo Alberto Pinelli, in C.A. Pinelli, F. Qui-lici, L’alba dell’uomo, Bari, 1974, pagg. 154 e158-159.2 Per tutti si ricorda solo quanto contenuto inKeegan, La grande storia della guerra, cit.,pagg. 81-95; vi sono presenti vari spunti digrande interesse anche sui tipi di approccioal “fenomeno guerra”, molto spesso analiz-

zato troppo settorialmente e non global-mente.3 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pag. 173.4 Carlo Alberto Pinelli, Alla ricerca delle origi-ni, in C.A. Pinelli, F. Quilici, “L’alba dell’uo-mo”, cit., pagg. 154-155.5 Barrois, cit., pag. 136.6 A cura di Antonello Sciacchitano, Perché laguerra oggi?, Firenze, 1996, pagg. 98-100.7 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,pag. 87.8 Per essi si rimanda alle parti terza e settimadel volume già citato del Bouthoul, pagg.129-150 e 343-368.9 Come dimostra l’epoca di più consistentediffusione del fenomeno guerra, ovvero dalneolitico “con la nascita dell’agricoltura edell’addomesticamento degli animali”(Toraldo di Francia, cit. pag. 18).10 Fornari, Psicoanalisi e cultura di pace, cit.,pag. 96. Lo stesso autore ha sottolineatoaltrove come “qualsiasi situazione che siponga come «altro da sé» è percepita comeminaccia-distruzione della propria verità,per cui l’uccisione dell’«altro da sé» coincidecon l’affermazione della propria verità”, cosìcome –nelle prove iniziatiche- con la condi-zione di “vero uomo” nei popoli primitivi.11 Sciacchitano, Perché la guerra oggi?, cit.,pag. 20.12 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pag. 129.13 Barrois, cit., pag. 25 e 186.14 Toraldo di Francia, cit., pag. 17.15 La quale “caratterizza non solo gli indivi-dui ma anche i gruppi, la cui vita emotiva èsovente più elementare di quella degli indi-vidui che li compongono. Nella vita di tutti igiorni (...) dividere buoni e cattivi migliora lerelazioni del gruppo rispetto al quale i catti-vi stanno fuori, ma a spese non solo dell’im-

poverimento affettivo ma anche del rischiodi esplosioni di violenza e di odio verso i«cattivi» (...) Per alcuni la caratteristica tipi-camente umana di aggressività e distruttivi-tà intraspecifica è realizzata proprio dallapossibilità di trasformare l’oggetto totale,ambivalente, in oggetti parziali; in questachiave l’omicidio non è l’uccisione di unuomo ma un tentativo di sopprimere unoggetto cattivo, persecutore, o di liberarsidelle parti cattive, odiate di sé (...) Vi eradunque nel modo di vedere il nemico una«dissociazione schizoide» negatrice dellarealtà, in base alla quale la guerra potevaapparire, in modo delirante, non un male,ma un rimedio al male”. Adolfo Pazzagli,Conflitti e sicurezza nella realtà interna dell’uo-mo, in “Conflitti, sicurezza, negoziati”, Urbi-no, 1987, pagg. 53-54.16 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pagg. 14-15 e pagg. 21-22.17 Come ancora oggi accade –in forma piùaccurata- negli stati moderni, che “monopo-lizzano e capitalizzano la violenza”. CarloBattaglia, Psicologia e guerra nel Novecento,San Domenico di Fiesole, 1994, pag. 19 e21. Sul processo di tesaurizzazione, mono-polio e capitalizzazione della violenza siveda in Fornari, Psicanalisi della guerra 1966,cit., pag. 8, 23, 87 e 91.18 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pag. 23.19 Battaglia, Psicologia e guerra nel Novecento,cit., pag. 70.20 Battaglia, Psicologia e guerra nel Novecento,cit., pag. 93.21 Battaglia, Psicologia e guerra nel Novecento,cit., pag. 45.22 Pinelli, cit., pag. 154.23 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pagg. 128, 130, 135, 189, 190.24 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 247-248.

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25 Si veda in Bouthoul, Le guerre, cit., pagg.284-318. Tale funzione è comunque condi-visa con altre istituzioni “delle quali la guer-ra non è che un caso particolare”; esse sonol’infanticidio diretto ed indiretto, le proveselettive, le mutilazioni sessuali, il monache-simo, la schiavitù, l’uso della pena capitale.In tal senso si veda Bouthoul, Le guerre, cit.,pagg. 319-340. La presenza nell’antichità ditutte queste istituzioni distruggitrici è nota;l’infanticidio diretto “occupa un grandissi-mo posto nelle società primitive ed arcaiche(...) Nelle civiltà europee dei tempi antichi,l’infanticidio era una istituzione stabile ericonosciuta dalle leggi come un dirittosacro del capo famiglia (...) In Roma, ai suoitempi più antichi nel corso di una cerimoniarituale il neonato veniva presentato al padre,ed il suo rifiuto di prenderlo sulle sue brac-cia condannava il bambino ad essere esposto(...) Ricordiamo il posto che occupano i neo-nati abbandonati nei racconti nelle leggen-de dell’antichità: Mosè, Romolo” . Da Bou-thoul, Le guerre, cit., pag. 321.26 Nel quale in origine si prometteva l’offer-ta in sacrificio della “primizia” costituitadagli individui nati nella primavera seguen-te, poi convertito nella costrizione delle per-sone designate ad andare in esilio, nonappena raggiunta una certa età.27 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pag. 56 e segg. 28 Si veda AA.VV., Sorgenti della Nova, Roma1981, pagg. 141-142; Gilda Bartoloni, Lacultura villanoviana, Roma, 1989, pag. 59 esegg.29 Maurizio Martinelli, La percezione dello spa-zio nell’Etruria protostorica e storica, in “L’Uni-verso”, anno LXXVIII, n.3, maggio-giugno1998, pag. 397 e segg.30 McC. Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pag. 32.

31 J. H. Steward, Teoria del mutamento cultura-le, Torino, 1977, pag. 37.32 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pagg. 152-153, dove siporta l’esempio del probabile legame, in etàappenninica, tra l’area di Belverde pressoCetona ed i pascoli invernali della Marem-ma dove sono apparsi “proprio quel tipo diaccampamenti invernali che si può pensarefossero utilizzati da pastori e mandriani pro-venienti dagli insediamenti di Belverde”. 33 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pagg. 31-34.34 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pagg. 85-87 per la territorialità umana,pagg. 48-51 per quella animale.35 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 145.36 John M. Howell, Gli inizi dell’agricolturanell’Europa nordoccidentale, in “Le Scienze”,marzo 1988, n. 235, pag. 80.37 McC. Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pag. 60.38 Alberto Cazzella, Insediamenti fortificati e con-trollo del territorio durante l’età del bronzo nell’Ita-lia sud-orientale, in “Papers of the Fourth Con-ference of Italian Archaeology”, cit., pag. 54.39 Cazzella, Insediamenti fortificati e controllodel territorio durante l’età del bronzo nell’Italiasud-orientale, cit., pag. 55, vedi anche pagg.52-53.40 Trump, The nuraghi of Sardinia, territoryand power, cit., pag. 43.41 Laura Romanico, Monica Miari, La distri-buzione dei siti di necropoli in Etruria meridiona-le e nel Bronzo Finale: documentazione ed elabo-razione dei dati, in “Papers of the Fourth Con-ference of Italian Archaeology”, cit., pag. 68.42 Cazzella, Insediamenti fortificati e controllodel territorio durante l’età del bronzo nell’Italiasud-orientale, cit., pag. 56.43 In Negroni Catacchio, In Etruria primadegli Etruschi, cit., pag. 45.

44 F. La Cecla, Segni di luoghi e mappe menta-li, in “Lineagrafica”, n. 3, maggio 1986, pag.42 e segg. Sull’argomento si veda diffusamente in Mar-tinelli, La percezione dello spazio nell’Etruriaprotostorica e storica, cit., pag. 387 e segg.; inMaurizio Martinelli, Note sul controllo del ter-ritorio nell’Etruria villanoviana, in “L’Univer-so” anno LXXVI, n.5, settembre-ottobre1996, pag. 687 e segg.; Maurizio Martinelli,L’Etruria: alle origini dell’assediare, in “Situa-zioni d’assedio”, atti del convegno interna-zionale, Firenze, 2002, pag. 337 e segg.;Maurizio Martinelli, La nascita della frontiera:insediamenti e fortificazioni nell’Etruria dellaprima età del ferro, in “Frontiere e fortificazio-ni di frontiera”, Atti del Seminario interna-zionale di studi, Firenze, 2001, pag. 257 esegg.; Maurizio Martinelli, Guerra e controllodel territorio in Etruria tra età del bronzo ed etàdel ferro, in “Papers from the EAA ThirdAnnual Meeting at Ravenna 1997”, volumeI: Pre- and Protohistory, Oxford, 1998, pag.51 e segg. 45 Faldini Pizzorno, Le barriere invisibili, cit.,pagg 19-20, 22, 41, 71,46 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pagg. 148-149.47 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 145; vedianche pag. 346.48 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 20.49 Scarduelli, L’isola degli antenati, cit., pag. 161.50 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 469. Il bel-l’episodio “Gli idolatri” dalle Novelle dellaPescara di G. D’Annunzio ci offre, fuori dalcampo storiografico, una delle più belle evivide ricostruzioni di un conflitto tribalecausato da un’offesa alla collettività e daun’aggressione.51 Alonso de Zurita, in McC. Adams, La rivo-luzione urbana, cit., pag. 173.

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Alle origini della guerra: il controllo dello spazio e le cause degli scontri

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52 “Il ratto delle Sabine, le frontiere naturali,l’esigenza dell’uguaglianza o quella dellasupremazia, l’impellente bisogno di un terri-torio, di una zona d’influenza, di ottenere untributo oppure, all’opposto, di essere esone-rato da un tributo, l’esigenza della conversio-ne a una fede religiosa di una popolazione oquella dell’adozione di un regime politico”.Da Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 469.53 P. Scarduelli, L’isola degli antenati, cit., pag.165.54 Presso i Carajà del Mato Grosso “la vio-lenza nei confronti dei nemici è del tuttogiustificata (…) perché serve a proteggere leproprie donne dal ratto”; i buoni rapporticon un gruppo vicino “si ruppe quandoalcuni giovani Carajà si organizzarono perrapire le giovani Tapirapé, che erano rite-nute molto belle. Perciò, mentre il mercatoera nel suo pieno svolgimento, assalirono unvillaggio Tapirapé e rapirono le donne e leragazze più belle, con alcune delle quali sisposarono, mentre le altre servirono da pro-stitute per i visitatori. Infatti le donne pri-gioniere, tra i Carajà, sono considerate pro-prietà comune degli uomini del villaggio”.Faldini Pizzorno, Le barriere invisibili, cit.,pag. 75; vedi anche pag. 53.55 Per le guerre ed il ratto delle donne, vediBouthoul, Le guerre, cit., pagg. 139-140 e285, e Barrois, cit., pag. 147; per le guerre afine di bottino e cattura si veda anche inBarrois, cit., pag. 37.56 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 552.57 M. Panizza, Schemi cronologici del Quaterna-rio, in “Geografia fisica Dinamica del Qua-ternario”, vol. 8, Torino, 1985. Si veda anchein Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 12,58 Zaffanella, Il villaggio preistorico su alturaarginata circolare dei Castellari di Vallerana, cit.,pag. 161.

59 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,pagg. 36-37.60 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,pag. 34.61 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 217-218.62 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 132-133.63 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 456.64 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 60.65 Si veda G. Cataldi, Processi di formazione delterritorio etrusco, in “L’Universo” n. 6, novem-bre 1983, pag. 833 e segg.66 Si veda in V. Gordon Childe, Preistoria dellasocietà europea, Firenze, 1966, pag. 247.67 Per la faida di veda in Gordon Childe,Preistoria della società europea, cit., pag. 247;per l’acquisizione dei diritti di transito e diaccoglienza per i pastori transumanti si vedaBartoloni, La cultura villanoviana, cit., pag.46.E’ degno di nota che “la parola che noi usia-mo, «guerra», deriva appunto dal terminegermanico werra qualificante non già loscontro in campo aperto tra eserciti con-trapposti, la guerra pubblica (quella allaquale ci si riferiva con la parola latina bel-lum), bensì la mischia privata da porre inrapporto con la lotta politica –noi la direm-mo «guerra civile»- e più ancora con lo scon-tro tra gruppi consortile la cui molla prima-ria era la «faida», la vendetta”. Da Barlozzet-ti, Guerre e assoldati in Toscana 1260-1364, cit.,pag. 25.68 Si veda anche in Sciacchitano, Perché laguerra oggi?, cit., pagg. 18-19 e 87-88.69 Del tipo di quella osservata presso glieschimesi Kinipetu: “un eschimese Kinipe-tu, ospite presso gli eschimesi Eivillik, fuferito in modo leggero nel tiro al bersaglio.I suoi parenti andarono a prenderlo e prete-sero un indennizzo, che fu loro negato. Allo-ra le parti lese scelsero tre uomini che, come

rappresentanti di tutta la tribù, proclamaro-no una faida nei confronti di tre individuimaschi della tribù degli Eivillik, se la lororichiesta non fosse stata accolta. Le due tribùavrebbero continuato a vivere in pace, ma seuno di quei sei uomini avesse superato i con-fini dei suoi terreni di caccia, avrebbe corsoil rischio di essere ucciso da uno dei suoiavversari”. Da Eibl-Eibesfeldt, Etologia dellaguerra, cit., pag. 140.70 Cazzella, Insediamenti fortificati e controllodel territorio durante l’età del bronzo nell’Italiasud-orientale, cit., pag. 56.71 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pagg. 10-12.72 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pag. 153.73 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pag. 194.74 McC. Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pag. 78.75 Barker, Ambiente e società nella preistoria del-l’Italia centrale, cit., pag. 155.76 Faldini Pizzorno, Le barriere invisibili, cit.,pag. 21.77 Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pag. 188.78 Bartoloni, La cultura villanoviana, cit.,pagg. 25-26, 63.79 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 328.80 Si ricordi l’uso dei “tesori di guerra”, dicui in Boutoul, Le guerre, cit., pag. 206.81 Secondo un modello individuato per lepopolazioni mesopotamiche, “pur tenendopresenti le parzialità e limitazioni delle fontidel tempo, ciò che esse testimoniano, non ètanto l’inizio di processi di differenziazionesociale all’interno delle comunità, quantopiuttosto l’esistenza di lunghe e aspre lottetra esse. Nella maggior parte dei casi puòdarsi che tali lotte abbiano avuto origine daesigenze o pratiche dovute alla sussistenza:

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La lancia, la spada, il cavallo

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Alle origini della guerra: il controllo dello spazio e le cause degli scontri

per esempio, i contrasti sull’irrigazione chesorgevano per gli opposti interessi di abitan-ti a monte e a valle; le rivalità per territoriconfinanti; o i modelli locali caratteristica-mente divergenti di notevole surplus e diimpoverimento. Ma chiaramente essevanno inquadrate in uno schema regionalepiuttosto che interno alla singola comunità.Qualunque sia stata la loro origine, le rivali-tà di questo genere portarono a fusioni diterritori, popolazioni, ed eccedenze agrico-le, in cui i fattori politici ed economici eranostrettamente intrecciati”. McC. Adams, Larivoluzione urbana, cit., pag. 79.82 Negroni Catacchio, In Etruria prima degliEtruschi, cit., pag. 47.83 Eibl Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.,pag. 191.84 Mele, Elementi formativi degli ethne greci eassetti politico-sociali, cit., pagg. 65-66.85 Andrea Zifferero, Forme di possesso dellaterra e tumuli orientalizzanti nell’Italia centraletirrenica, in “Papers of the Fourth Conferen-ce of Italian Archaeology”, cit., pagg. 109,110, 118.86 Hanson, The Other Greeks, cit., pagg. 30,31, 32 nota e 35.87 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 42.

88 Hanson, The Other Greeks, cit., pagg. 39-40.89 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 82.Vedi anche pag. 98.90 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 27.Vedi anche pag. 45.91 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 62.92 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 61 e 109.93 McC Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pagg. 73 e 99.94 McC Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pagg. 63-65.95 Hanson, The Other Greeks, cit., pagg. 68-69.96 Su tale tema si veda diffusamente in Mar-tinelli, La percezione dello spazio nell’Etruriaprotostorica e storica, cit. 97 Si veda diffusamente in Giulio M. Fac-chetti, Frammenti di diritto privato etrusco,Firenze, 2000.98 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 121.99 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 195.100 McC Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pag. 172.101 Anna De Santis, Proprietà terriera e control-lo del territorio in età orientalizzante: la necropo-

li di Pantano di Grano, Malagrotta (Roma), in“Papers of the Fourth Conference of ItalianArchaeology”, cit., pagg. 99-101.102 Ad esempio questo pare il collegamentointuito per Pontecchio, nel territorio bolo-gnese, che nell’orientalizzante mostrerà l’i-nizio di una crisi in direzione aristocraticadegli organismi comunitari che, dalla cittàmadre, tenevano tradizionalmente rapporticol centro periferico. Si veda in Malnati,Manfredi, Gli Etruschi in Val Padana, cit.,pagg. 87-88.103 Tra gli esempi spazialmente più distanti,eppure tecnicamente molto vicini, quellodell’America centrale precolombiana, dovele terre erano dei nobili grazie alla vittoriosaconquista dei territori vicini. Si veda in McCAdams, La rivoluzione urbana, cit., pag. 141.104 McC Adams, La rivoluzione urbana, cit.,pagg. 136-137.105 Nava, Caratteri degli abitati etiopici, cit.,pag. 562.106 Zifferero, Forme di possesso della terra etumuli orientalizzanti nell’Italia centrale tirreni-ca, cit., pag. 115.107 De Santis, Proprietà terriera e controllo delterritorio in età orientalizzante, cit., pagg. 99 e104.

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Come si è visto, addestramento edaudacia, prestanza fisica e disponibilitàdi armi efficaci -tra le quali le spade edi cavalli- furono alcuni dei fattori cheposero in età protostorica alcuni indivi-dui emergenti, all’interno di ripartizio-ni sociali per età, per curie e per tribù,nelle condizioni di diventare, nelle fasivillanoviane mature, i consolidati tutoridel territorio soggetto alla comunità,nell’interesse comune1. Essi divenneroal contempo i fruitori di alcuni proven-ti dei combattimenti, a titolo probabil-mente personale prima e gentilizio poi,a vantaggio della loro condizionesocioeconomica privata. E’ presumibileche coloro i quali si accollavano il peri-coloso carico della tutela dei territorianche a lungo raggio (fondamento que-sto, come si è visto, della sopravvivenzae del benessere collettivo già nell’età delbronzo) fossero ricompensati di ciò conun ruolo emergente nell’organizzazionedi villaggio, punto d’origine di quella

auctoritas che -intrisa di valore politico esociale- diverrà il privilegio duraturodell’aristocrazia nell’arco della civiltàetrusca. E’ d’altronde un processo psi-cologico assodato quello in base al quale“le guerre comportano generalmenteuna trasformazione radicale del grup-po: esso si ordina e si organizza sotto ilcomando di un capo, al quale, in circo-stanze critiche, possono venire concessipieni poteri (...) il guerriero dunquenon tardò a distinguersi, per azioni efunzioni, dal resto della popolazione2”. Di fatto la differenziazione sociale cheandava prendendo piede nell’Etruriavillanoviana, con un’accelerazione nellaseconda metà dell’VIII sec. a. C. ma giàattiva da almeno un secolo, trovava unagiustificazione primaria proprio nell’at-tività bellica. Le sepolture maschili dellaprima età del ferro dedicano un inte-resse crescente agli attributi connessicon la sfera guerresca, senz’altro i piùcaratterizzanti, e proprio tra quelli in

particolare prescelti diffusamente –dal-l’Etruria meridionale a quella padana-per “umanizzare” talora il vaso cinera-rio e ridare una fisionomia “da vivo”alle spoglie incinerate3. Come attestanoalcuni elmi fittili in tombe, il cui apiceriproduce una capanna in miniatura,quest’arma difensiva era stata presceltaper evocare simbolicamente l’abitazio-ne, ed attestare che quel defunto erastato detentore della capacità di garan-tire la continuità del gruppo di parente-la4. A tale caratterizzazione in sensoguerresco, presente a Tarquinia giànella prima metà del IX sec. a. C. pur inassenza delle preziose armi reali, edestinata a crescere nella seconda metàdello stesso secolo, si accompagnavanocontemporaneamente solo pochirichiami al sesso del defunto nell’ogget-tistica di ornamentazione personale(fibule) e di toeletta (rasoi). In pratica,come l’appartenenza dell’individuodefunto al sesso femminile veniva indi-

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Le armi in una società che si evolve:benessere e combattimento

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cata con fusaruole e rocchetti, così lamaschilità dell’incinerato e la sua fun-zionalità sociale di adulto e civis dipieno diritto era evidenziata in primisproprio dall’uso delle armi, informazio-ne che viene evocata comunque solocon gli elmi in impasto, mentre le armimetalliche sono assenti5; per tutti isepolti con corredo -che erano solo unaparte della popolazione seppellita, asua volta parte della popolazione com-plessiva- era poi presente una modestadotazione di vasellame impiegato per lacerimonia funebre6.

“Con la seconda metà del IX secolo a. C. lasituazione diviene più complessa. Nei corredimaschili la funzione guerriera è enfatizzata dalricorrere del coperchio ed elmo e dalla presen-za di una panoplia comprendente la cuspide dilancia con il relativo puntale e la spada. Il guer-riero che combatte con la spada rappresenta ilculmine della gerarchia sociale (...) Compaio-no inoltre, sia pur raramente, alcuni oggettimuniti di una carica ideologica particolare,come i modellini di carri con cavalli dallatomba Selciatello di Sopra 44 (a Tarquinia),maschile (...) Noi non conosciamo l’esattosignificato di questi oggetti, ma non possiamonon intenderli come segno di grande distin-zione, in un momento in cui le differenziazionitra corredo e corredo sono ancora estrema-mente contenute e schematiche. Con l’VIIIsecolo il quadro subisce un profondo muta-mento (...) Ora alcune figure di guerriero assu-mono una rilevanza del tutto eccezionale: nonsi tratta di una generica sovrabbondanza delcorredo, ma piuttosto della enfatizzazionedella funzione guerriera attraverso una pano-plia splendente, che può comprendere monu-mentali elmi da parata di bronzo o spade isto-riate, e della comparsa di un armamentario

rituale espresso ad esempio dalla presenza del-l’incensiere. Tra i corredi più significativi emer-ge quello della tomba 1 di Poggio dell’Impic-cato (a Tarquinia) che ben esprime l’unirsi, inuna sola persona, della funzione guerriera, evi-denziata qui dalla sontuosità delle armi e dallaprobabile presenza di un carro, e della funzio-ne rituale7”.

Dunque la classe formata dagli indivi-dui emergenti, nella facies villanovianamatura, non fu solo caratterizzata da unbenessere economico (fatto questo chepuò essere stato secondario ed effettoanche di altre cause) ma fu anche e piut-tosto la peculiare detentrice dell’eccel-lenza in armi e nel rito: è questa esclusi-

vità nel campo dell’ideologia che deveessere considerata causa e fonte dellapreminenza economica8. In altri termi-ni, se con l’VIII sec. a. C. la funzioneguerriera e rituale va palesemente acoincidere in alcuni personaggi chespiccano considerevolmente all’internodelle comunità ormai protourbane, giàda tempo la compagine sociale dovevaessere in fermento, specie a causa delcomplicarsi delle relazioni esterne assie-me all’organizzazione interna delle sin-gole comunità9.Nuovi interessi economici, come si èvisto, andavano determinando flussi dipersone intesi ad adeguarsi ai flussi dimerci e beni in corso. La grande sco-perta portata dai commercianti egei,acquisita in Etruria nell’età del ferro10 eperaltro all’origine anche in Greciadella profonda trasformazione socioe-conomica dell’VIII secolo che genereràla polis, fu quella dell’uso del surplus: perl’età del bronzo e sino all’inizio dellafase villanoviana, di fatto, l’economiaappare essenzialmente orientata all’e-quilibrio di sussistenza con poche con-cessioni all’acquisizione del superfluo, econ una assoluta preponderanza delpossesso comunitario, specie del suolo.Si tratta di una tendenza conservativache, come è stato rilevato11, attraversaessenzialmente tutta la protostoria ita-liana dal neolitico alla fine dell’età delbronzo; la stessa orditura delle consue-tudini appare intesa alla conservazionedi uno status che perpetui se stesso,senza differenziazioni socioeconomiche

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La lancia, la spada, il cavallo

Il corredo della tomba F della necropoli dellaRipaie di Volterra, comprensivo di oggetti dipregio - Volterra, Museo Guarnacci

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marcate, con precise attività -banchetti,guerre- intese anche alla periodicadistruzione/consumo delle eccedenze,sia di beni che di persone.E’ nel corso della facies culturale villano-viana, e con l’VIII sec. a. C., che cresceinvece la volontà di sfruttare le fonti dis-ponibili in natura quanto è possibile,con una tecnologia in crescita, forman-do un surplus di particolari classi dimateriali e beni, il quale può essere dre-nato a vario titolo12 e barattato con altrigeneri, creando una abbondanza dibeni circolanti all’interno della società.Si pensi, quale esempio, al ripostiglio diSan Francesco a Bologna coi suoi innu-merevoli bronzi, destinati allo scambioed alla stabilizzazione -verso l’alto- dellivello economico della collettività13.L’importanza del surplus nello scavalca-mento degli equilibri socioeconomicitradizionali presso diverse civiltà, inparticolare al momento del trapasso traetà -e tecnologia- del bronzo a quelladel ferro, non è sfuggita a vari autori14

che hanno notato come la stessa dispo-nibilità, oltre che di armi, anche diattrezzi agricoli in ferro consenta di“cultivate land far more productivelythan their ancestors had a century ear-lier. Thus they were able to build up sur-pluses and lay the foundations of a verynew society15”. In particolare, per l’E-truria è stato indicato come con il ferro“furono fabbricati gli attrezzi, che per-misero già nel IX-VIII secolo a.C. la tra-sformazione dell’agricoltura da estensi-va in intensiva16”.

Ovviamente espansioni e spostamenti digruppi umani verso aree fonti di risorsenon potevano essere sempre pacificheed indolori in una situazione in cui, difatto, gran parte degli spazi naturali piùadatti all’insediamento umano ed allosfruttamento agricolo e minerario eranogià occupati. Si verificava spesso, infatti,una spinta a catena, per cui, una voltacacciati alcuni gruppi dal loro territorio,essi erano costretti a valersi sugli altrivicini17 o a venire con questi a compro-messi ed accordi di sinecismo, possibil-mente su territori limitrofi fusi assieme.

Inoltre le materie prime che potevanoavere un riscontro commerciale verso imercanti stranieri ed i loro giacimentierano ormai ben noti non solo agli ori-ginari detentori di esse, ma anche ai loroconfinanti ed a tutti i gruppi che neerano privi, determinando tensioni cre-scenti. Nei gruppi tribali entrati in con-tatto con mercanti stranieri e con le loroopportunità conoscitive di più articolateed agevoli condizioni di vita, si andava-no creando le esigenze per una più com-plessa ripartizione sociale; lo stesso pesodello sfruttamento di minerali ferrosi(come anche di stagno e rame) a fini dicommercializzazione spingeva all’au-mento della manodopera attiva, cheessendo in parte formata da servi eschiavi non poteva che provenire da“prelievi” demografici in forma di rattoo di sopraffazione ai danni di centri abi-tati nemici18. Mantenere o acquisire areeminerarie, terre agricole e zone boschi-ve; organizzarne lo sfruttamento otti-mizzandolo; imbastire relazione esterne(sul piano locale) ed estere (coi mercan-ti stranieri) per convertire il surplus inaltri beni carenti sul posto; assicurare ilcontrollo dell’area soggetta alla comuni-tà, ed eventualmente espanderla, conun’attenta gestione delle risorse umanee con un’efficace ed univoca politicadiplomatica e militare: tutto questocostituisce un complesso di azioni con-catenate le quali -una volta accettatanela necessità- trasformano la realtà dellostatus protostorico portando sulla via diuna nuova cultura.

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Le armi in una società che si evolve: benessere e combattimento

La sala contenente l'enorme quantità di oggettirinvenuti all'interno dell'orcio del ripostigliodi San Francesco - Bologna, Museo CivicoArcheologico

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Proprio per ottemperare a questenecessità gli individui che assommava-no carisma, doti fisiche e morali, oltreche al ruolo di rappresentanti di uncospicuo gruppo familiare, si trovaronoa costituire, nel comizio assembleare delnucleo di villaggio allargato preurbano,forse ripartito per curiae, delle presenzefondamentali, il cui peso divenne mag-giore di quello di altri individui. Questiprimi inter pares, con ogni probabilitàcaratterizzati anche da un’età particola-re, all’interno di particolari gruppiparentelari dalla spiccata identitàsostanzialmente affini alle gentes19 (sipensi ai patres familiae, agli armati dispada ed a quanto osservato dagli studiattorno alla loro “distinzione per età”),si trovarono, godendo di questo ruolo, adoversi-potersi accollare determinateresponsabilità pena la perdita del ruolostesso, e della conseguente supremazia,all’interno del gruppo. Difesa attiva delgruppo e coordinamento delle “politi-che” (inscindibilmente connesse in uncorpo unico che comprendeva aspettisociali, economici, produttivi, militari,diplomatici, sacri), assieme alla respon-sabilità morale di condurre il gruppofuori dalla tradizione culturale di ascen-denza preistorica (ben definita come“una intenzionale accentuazione delruolo innovativo e «di rottura» con latradizione che questi nuovi gruppidominanti intendono consapevolmenteassumere20”), non poteva essere assuntache dai leaders culturali, coincidenti coicapi socio-militari. Ciò, a valle di una

prima divisione delle competenzeall’interno della comunità protostorica,ovvero della ripartizione delle diversefunzioni finalizzate alla sussistenza, apreuna distinzione che perdurerà nei seco-li: “si produce così quella divisione dellavoro fra i detentori della forza milita-re e il resto della popolazione (...) E’ unoscambio di servizi: gli uni si assumono lefunzioni della protezione, gli altri quelledella produzione21”.Se la funzione di protezione è nell’ori-gine più remota concomitante con l’al-tra -in una comunità indistinta dovetutti i maschi validi lavorano e combat-tono-, l’evoluzione culturale porterà allaformazione di un ceto dominante guer-riero, embrionalmente già presente apartire dall’età del rame e per l’età delbronzo22, per arrivare ad una élite dicombattenti che costituisce l’aristocraziadel gruppo, alla quale non competerà lafunzione della produzione. Rileva infat-ti Bouthoul che “nell’antichità classica(...) si attiva, dal punto di vista militare,una certa divisione del lavoro. E sonoallora coloro che hanno occupato lacittà nei primissimi tempi, i «padri», glieupatridi, i patrizi, eccetera, quelli chetendono a riservarsi l’onore di portarele armi (...) e così tendono a divenireuna casta di guerrieri23”.Il loro emergere, già nella prima metàdel IX sec. a. C., è infatti contraddistin-to dall’esaltazione delle doti belliche,doti dunque della virtus fisica e moraleche non erano riflessi di un pregressobenessere -il quale non avrebbe peraltro

potuto esistere nella società precedente,essenzialmente paritaria-.Al contrario, la maggiore disponibilitàdi beni degli emergenti “aristocratici”fu proprio il portato di un secondomomento, in quanto il prestigio del lororuolo -e l’efficacia della loro azione sociale eguerriera- era premiato con la fruizioneparticolare di maggiori possibilità eco-nomiche. La stessa attribuzione di unafunzione di protezione ad alcuni e diproduzione ad altri nasce in forma sim-biotica, ed i riconoscimenti ai primi daparte dei secondi è vista come una giu-sta mercede.La ricchezza delle armi, nelle panopliee nelle sepolture, è dunque uno sfoggio,prima ancora che di benessere econo-mico, di autorità nel gruppo: in origine èquesta, generata dall’azione nella sferapolitica e militare, che a sua volta pro-duce la disponibilità di mezzi. I capidella compagine militare celebranonella sepoltura il loro emergere dall’u-niformità del gruppo e dall’anonimato,e contemporaneamente iniziano l’accu-mulo di beni che, se l’auctoritas ed ilpeso civile dei capifamiglia erano eredi-tari, sarebbero andati costituendo il cre-scente patrimonio degli emergenti del-l’VIII secolo24. Il termine latino stesso,connesso ad auctor “fondatore” ed allaradice di augeo: cresco, ac-cresco, meri-terebbe uno studio ben approfondito; ilpossibile riferimento di esso all’apparte-nenza ad una fascia di età matura (cre-scere), all’essere capostipiti e consiglieri(auctor) ed alla capacità di accumulare

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accrescendo un patrimonio/surplus(accrescere) sono già di per sé suggesti-vi indizi.Grazie alla celebrazione del valoreguerriero e della discendenza, attraver-so l’auctoritas e l’acquisizione di beni, siandrà costituendo un circolo chiuso percui i detentori di una autorevolezza inparte ereditata familiarmente ed anche,in parte, “coltivata”, andranno genera-zione dopo generazione a costituireautomaticamente la classe aristocratica.All’interno di quest’ultima sarà essen-zialmente il diritto di nascita (pur assie-me ad alcune doti personali) a determi-nare chi sarà l’erede di un ruolo-chiave,nel quale pur subendo vari doveri one-rosi e rischiosi (quali quelli dell’attivitàmilitare) si ottengono consistenti privi-legi per sé e per la propria famiglia. Questo accesso aristocratico ai benicostituisce una consistente differenzatra la realtà dell’Etruria e quella greca,come si è già indicato, con la quale siandrà allargando la divergenza ideolo-gica nell’orientalizzante. E’ stato sottoli-neato che per l’aristocrazia terriera elle-nica, detratte tutte le spese cui eracostretta per l’agricoltura, la guerra ed iclientes,

“doveva rimanere ben poco da spendere nellusso. (…) In Grecia i grandi centri di spesaerano nei santuari: a Olimpia, Delfi, Corinto,Argo, Claro, Pafo, ma in Italia ci troviamo difronte a dei privati in grado di acquistareoggetti così preziosi. Con che cosa li pagavano?E’ comune opinione che la ricchezza dei centrietruschi tirrenici venisse dalle attività minera-

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Il cinerario di Montescudaio, con una vivace scena di banchetto con un personaggio di rango elevato seduto davanti ad una mensa imbandita - Firenze, Museo Archeologico Nazionale

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rie (…) Ma è probabile che l’Etruria tirrenicafosse anche in grado di vendere prodotti agri-coli e dell’allevamento, legname, pelli, lana25”.

Inizialmente i vantaggi economici conse-guenti ad un ruolo direttivo dovevanoessere modesti: il saccheggio che seguivaalle guerre era comunque sempre forie-ro di alcuni beni, giacché sappiamo -purda fonti tarde- che la preda di un centroespugnato toccava a tutti i combattenti,mentre quello di un centro arreso anda-va ai soli capi (da Tacito, Storie, III, 19,626); tuttavia doni, prede, vettovagliedovevano essere poi in gran parte redi-stribuiti alla comunità attraverso feste e

banchetti (secondo un uso già protostori-co dell’età del bronzo medio27 e ancorapresente in vari popoli di interesse etno-logico presenti in aree pur lontane delmondo28), coi quali si aumentava lacoesione del gruppo e contemporanea-mente si assicurava l’appoggio popolare.E’ importante cogliere appieno il signi-ficato sociale della redistribuzione delsurplus nelle feste, che sono, insieme allaguerra, l’unico metodo di consumodelle eccedenze nelle civiltà primitive29.L’osservazione degli usi presenti pressoalcune società semplici odierne30 ciindica, nelle grandi feste redistributive,un cursus necessario per l’ascesa nella

gerarchia sociale: il surplus drenatodalla festa è convertito in potere e pre-stigio, e le feste sono “i canali istituzio-nali per l’acquisizione di prestigio equindi svolgono, come cardini del siste-ma dei ranghi, una funzione essenzialenel processo di riproduzione sociale31”.E’ degno del massimo interesse il fattoche tali feste reditributive, talvolta costatelunghissimi accumuli di sostanze, sonoorganizzate presso degli attuali popoliprimitivi entro un rigido schema di costo,successione a catena e liceità a secondadel rango dell’individuo, rango cheperaltro proprio con un cursus honorum difeste può venire asceso, fino a giungerealla carica di capovillaggio32. Di festereditributive di tale tipo –forse connesse ariti religiosi ed iniziatici- sono attestatealcune probabili tracce nell’Etruria villa-noviana, come nel caso di San Giovenale,sulla cui acropoli è stato rimesso in luceun edificio semisotterraneo, costruitonella seconda metà dell’VIII sec. a. C.Questo era caratterizzato da un ambientequadrato, scavato nella roccia per unaprofondità di m 1,70 circa. Sul fondodella cavità passava diagonalmente uncanale naturale, dove doveva scorreredell’acqua sorgiva. Due alti gradini nel-l’angolo sud-orientale conducevano dalpiano di campagna esterno al pavimentoche, ricoperto da uno strato di argillaimpermeabile, non recava alcun alloggioper palificazioni. Tracce di buche di palosono invece comparse nelle immediateadiacenze esterne alle pareti. Il ritrova-mento di numerosi resti di corna di cervo,

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All’interno dell'area archeologica di San Giovenale sono tornati alla luce i resti di un edificiosemisotterraneo e di una capanna, legati entrambi a riti lustrali ed al consumo di pasti rituali

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ceramiche e resti di pasti in una discarica,nei pressi di una capanna con focolare,hanno permesso di ipotizzare la connes-sione dell’intero complesso con dei ritua-li religiosi. L’ampio vano sotterraneo,coperto da una tettoia straminea e forsecon leggere pareti, sarebbe stato adibito ariti lustrali; nelle sue vicinanze, in unacapanna del tutto simile alle capanne diuso abitativo, si dovevano effettuare deipasti periodici, in connessione a riti con-nessi alle acque ed al cervo, oggetto dicaccia selettiva e come si è detto forse inrelazione con l’iniziazione di giovani.All’abbandono, avvenuto nel primo quar-to del VII sec. a. C. per il disseccarsi dellafalda acquifera, l’ambiente sotterraneovenne riempito coi resti del connesso edi-ficio adiacente33.Nell’Etruria della prima età del ferroalcuni dei beni accumulati dovevanoinoltre essere investiti in armi d’avan-guardia34, l’uso e l’efficacia delle quali

garantiva -nell’adempiere alle propriefunzioni difensive ed offensive- lasopravvivenza e la conservazione delrango sociale. Dalla seconda metà dell’-VIII sec. a.C. inoltre l’allevamento dicavalli per l’utilizzo di essi quali stru-mento per la guerra e per le incursionicostituì una ulteriore spesa obbligatoriatra gli emergenti, ed uno status symbolsempre più ambito, diffuso su un terri-torio molto vasto in Italia35. L’introdu-zione di immagini di cavalli tra le primeiconografie figurative presenti sulle ollefalische in impasto, anche se ormai nelVII secolo inoltrato, è appunto un chia-ro documento dell’allevamento equinocome status symbol: particolarmente elo-quente è un frammento ceramico alMuseo Regionale di casa Siviero a Firen-ze36, dove sono raffigurati un cavallomaschio –ovvero del genere usato per lariproduzione e la guerra- ed un puledro–tipicamente oggetto di allevamento-.E’ degno di interesse ricordare che l’in-sorgere di veri e propri simboli delpotere testimonia di un notevole livellodi complessità raggiunto dalle società;psicologicamente infatti

“nella vita politica l’oggetto di identificazionenon è il leader, ma sono i simboli (…) all’inter-no della società pochi uomini (l’élite), posse-dendo la maggior parte dei beni e detenendoil potere, manipolano i simboli di identificazio-ne per mantenere questo stato di cose (…) cioè,la maggior parte dei cittadini ha un rapportoidentificatorio con i simboli, mentre la mino-ranza, che detiene il potere, li manipola perconseguire vantaggi personali37”.

I vari altri beni acquisiti in guerra, manon funzionali ad essa, restavano nelpatrimonio dei singoli emergenti,diventandone appannaggio privato edereditario, ed al contempo simboleg-giando il ruolo dei loro detentori; inol-tre modeste ma ideologicamente consi-stenti differenze nei dettagli delle abita-zioni, delle vesti, degli oggetti d’usodeperibili dovevano certo evidenziareanche nella vita di tutti i giorni la distin-zione crescente tra i semplici abitanti daun lato e gli “aristocratici” dall’altro coiloro familiari.E’ così che, già tra IX ed VIII secolo, ilbinomio “attività militare” ed “aristo-crazia” si va cementando; in una realtàin evoluzione quale quella della primaetà del ferro l’aumento di peso di que-sto binomio giungerà fino a comporta-re la frattura degli equilibri sociali dellastessa cultura villanoviana nelle sueascendenze preistoriche. In altre paro-le la presenza di un ristretto numero diindividui collocati di comune accordo aldi sopra degli altri anche perché svol-gessero, con le loro capacità, un ruolodi organizzazione, di difesa e di svilup-po, poteva essere tollerato dalla struttu-razione sociologica villanoviana purchéci si mantenesse al di sotto di un certolivello di “deformazione” del sistemacomplessivo, ancora di ascendenzapreistorica. Formazione del surplus, tra-sformazione dell’economia e della pro-duzione, crescita del sistema di scambi,contatti esterni intensificati, ereditarie-tà della condizione e dei beni

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Olla falisca frammentaria, la cui incisione-uno stallone maschio ed un puledro-documenta il valore di status symboldell'allevamento equino - Firenze, MuseoRegionale Casa Siviero

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dell’“emergente” saranno invece, nelcomplesso, un quantitativo di inputeccessivo per l’intelaiatura ideologica(prima ancora che sociale) di tradizionepreistorica. Nel Lazio “le economie ori-ginarie del paesaggio «aborigeno»cedevano il passo a un ordinamentopiù razionale, fondato sulla suddivisio-ne del territorio38”; nell’Etruria meri-dionale il metodo di vita venne quinditrasformato accedendo in breve alleformazioni protourbane ed alla civiltàpropriamente etrusca, mentre l’Etruriasettentrionale interna ebbe fino all’ulti-mo quarto del VII sec. a. C. una suddi-visione conservativa per piccoli poten-tati rurali, di impianto ancora villano-viano e protostorico, ma culturalmenteabbastanza evoluti39. Ancora più con-servativa sarà la situazione dell’Emilia edelle aree romagnole villanoviane,dove le pur presenti trasformazionisocioideologiche incideranno sullaforma mentis collettiva senza stravolger-ne i valori fondanti: qui la realtà simanterrà al suo fondo sorretta dai valo-ri e dalle idee villanoviane sino allametà del VI sec. a. C. La resistenza dialcune zone alla diffusione di un diver-so modo di intendere la società, le atti-vità, in una parola la cultura stessa, è unfenomeno del massimo interesse, cheavviene di fronte all’opportunità di unintero ripensamento, da parte dell’uo-mo, non solo di se stesso e della sua col-lettività, ma anche dell’ambiente nelquale è inserito40. La più antica comu-nità protostorica villanoviana del IX

secolo, erede culturale di quella di vil-laggio dell’età del bronzo sebbeneattraverso migrazioni di sedi, variazioniconflittuali di aree soggette ed espan-sioni dei territori controllati, dovevacostituire

“il massimo livello di integrazione consentitodalle determinanti ambientali costituite dairapporti tra le costrizioni dell’ecosistema, ilgrado di sviluppo delle forze produttive e i rap-porti di produzione (...) Le dimensioni di undominio (qualche chilometro quadrato) nonconsentono al capo di accumulare un surplustale da permettergli di mantenere una forzaarmata permanente alle sue dipendenze, esenza questa non vi è alcuna possibilità diampliare sensibilmente l’area del dominio (...)non esiste differenziazione produttiva (...) ilsurplus è sufficiente a stimolare dei processi distratificazione sociale ed a garantire la supre-mazia ad un’élite aristocratica che lo redistri-buisce parzialmente mediante feste per accre-scere il proprio prestigio41”.

Queste parole, scritte per i domini deiNias indonesiani, si attagliano perfetta-mente allo status dell’Etruria al passag-gio tra età del bronzo ed età del ferro,offrendoci -pur tra innumerevolivarianti- una immagine viva e mobiledel passato attraverso un confronto coipopoli primitivi. Anche nell’Italia cen-trale tirrenica la realtà culturale esocioeconomica nonché di ecosistema,come si è detto, si era assestata sin dalneolitico42 attorno a una struttura fon-dante fatta di determinati equilibri: laproduttività -connessa alla tecnologia-era stazionaria per quantità e qualità,ponendo limiti quali-quantitativi agli

scambi, peraltro contenuti di normanella quotidianità entro ristretti limitispaziali, anche in conseguenza delle dif-ficoltà di movimento -per scarsa viabili-tà43 e per assenza di diritto intertribale.Le condizioni ambientali consentivanola sopravvivenza ed un modesto accu-mulo di surplus a comunità di alcunecentinaia di individui, disseminate suun territorio direttamente controllatonella maggior parte delle aree di valoreagricolo-forestale e minerario, ma intaluni casi comprendente anche zonelibere più disagiate, disponibili per fuo-riusciti intesi a creare nuove comunità.Il controllo di un’area tribale più vastaera peraltro impossibile in assenza dipresupposti di comunicazione, di inte-grazione economica e sociale, per cui incaso di aumento di popolazione non sicreava un dominio più vasto, ma si“generava” da un “villaggio-madre” un“villaggio satellite44”. L’uso della fonda-zione di nuovi centri da parte di fuoriu-sciti può essere stata connessa, oltre cheal ver sacrum per sovrappopolazione,anche agli effetti delle lotte tra varieredi del capo per la successione e tra leloro fazioni45. Peraltro la crescita demo-grafica incontrollata era socialmentescoraggiata dalla scarsità di surplus e diaccumulo di questo, sia con redistribu-zioni che con altre forme di “distruzio-ne” dei beni non strettamente necessa-ri. Uno stato costante di guerra latentecon i vicini assicurava da un lato ilrispetto dei confini, dall’altro un mode-sto ma costante movimento di individui

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verso la schiavitù -per essere adibiti alavori- e di beni di bottino; alla forma-zione del surplus, destinato come si èdetto alle feste redistributive comunita-rie e quindi non accumulato a tempoindeterminato, contribuiva solo il lavo-ro delle famiglie, numerose ma col limi-te delle possibilità attese di sostenta-mento. La demografia d’altra parte erariequilibrata dalla mortalità, dai limitidella produttività e dalla estensione delterritorio tecnicamente coltivabile -econtrollabile- dalla forza tribale, dai“prelievi” di prigionieri e dalle guerre.

“In altri termini la mancanza di fattori di inte-grazione economica e di strumenti di control-lo militare e politico spiega l’impossibilitàstrutturale di espansione di domini (...) la con-figurazione molecolare della struttura politica(...) si giustifica dunque con la mancanza di fat-tori di integrazione a largo raggio (scambicommerciali, lavori idraulici) e con l’impossibi-

lità di attivare strumenti di controllo politico-militare; d’altra parte l’elevata produttività delterreno spiega come numerose comunitàsocialmente stratificate possano sorgere e man-tenersi autonome a breve distanza l’una dall’al-tra. E’ comprensibile, allora, che in mancanzadi stimoli all’integrazione, le relazioni fra que-ste comunità tendano a configurarsi prevalen-temente in termini di ostilità reciproca46”.

Saranno i contatti dall’esterno, assiemealla scoperta dell’uso del ferro e ad altreinnovazioni o riscoperte, a “fecondare”il territorio dell’Etruria villanoviana,spostando i presupposti socioculturali edi integrazione economica su una scalainfinitamente più ampia, mutando l’e-cosistema stesso -come fonte di beni eteatro di umanizzazione del paesaggio-nel quale l’uomo si vedrà operare inmodo nuovo via via che alle formearcaiche della virtus mos maiorum suben-treranno scale di valori nuovi.

Spada italica con fodero del tipo"Pontecagnano", dalla tomba a camera

2 del Poggio delle Granate a PopuloniaFirenze, Museo Archeologico Nazionale

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Note

1 D’altronde la funzione stessa del guerrieroè determinata da una particolare condizionementale, che è “la lucida partecipazione adun’impresa che abbia tra le sue conseguenzela morte degli altri e forse di se stesso, in ungruppo organizzato al servizio di una collet-tività”. Da Barrois, cit., pag. 193.2 Barrois, cit., pagg. 38-40. Anche “in Grecia,infatti, l’esercito (come pure in altri Paesi) siimpose forse come una delle prime istituzio-ni dello Stato nell’antichità, in ragione diquelle che erano le esigenze di organizzazio-ne, di coordinamento, di concentrazionedelle forze, di comando, di relazioni tra sferaprivata e quella pubblica”. Da Barrois, cit.,pag. 202; per le schematizzazioni del ruolodell’esercito e dei guerrieri nei rapporti tramassa della comunità, capo e nemici, si vedain Barrois, cit., pagg. 199-206.3 A un aspetto di “fuga” dalla decadenza cor-porea del guerriero fa riferimento il citatopasso di C. Barrois (cit., pag. 65), indicandocome da un lato la morte in guerra sottrag-ga il caduto all’invecchiamento ed allamorte naturale, e come dall’altro la crema-zione “sublimi” il morto in una incorruttibi-lità virtuale, donandogli una “morte bella”sia in senso morale che in senso estetico,idealizzando il guerriero, nel ricordo, comeun giovane nell’interezza del suo vigore edella sua virtù.4 Vedi in d’Agostino, De Natale, L’età del ferroin Campania, cit., pag. 109.5 Vedi Bartoloni, Berardinetti, Cygielman,De Santis, Drago, Pagnini, Veio e Vetulonianella prima età del ferro, cit., pag. 69.6 Bruno d’Agostino, La formazione dei centriurbani, in “Civiltà degli Etruschi”, Milano,1985, pag. 45.

7 d’Agostino, La formazione..., cit., pagg. 45-46.8 Altrimenti, si rischia di perdere il realeconcatenarsi degli eventi formativi dellasocietà tra villanoviano ed orientalizzante.Nonostante le più chiare attestazioni nel-l’oggettistica di questa vasta auctoritas sianoposteriori alle prime differenziazioni tecni-co-economiche nei corredi, esse devonocostituire per noi un “supplemento d’infor-mazione” tardivo rispetto alla realtà prece-dente, la quale forse in una fase formativanon ci ha lasciato documentazioni chiare edunivoche a livello archeologico, anche per laattestata tendenza alla dissimulazione delledifferenze socioeconomiche che costituisce,ancora nella prima età del ferro, un retaggiodell’età del bronzo.9 Per l’evoluzione della società in epoca vil-lanoviana si vedano Torelli, La società etrusca,cit., pag. 35 e segg.; Martinelli, Note sul con-trollo del territorio nell’Etruria villanoviana, cit.,pag. 687 e segg.10 In quest’epoca nell’Italia centrale si ebbeper tale realtà economico-produttiva uninterese diverso da quello incontrato per leforme, pur più sviluppate, del mondo tardomiceneo; il pregevolissimo lavoro delloHanson (Hanson, The other Greeks, cit.) mettein luce come in realtà l’economia palazialemicenea non avesse lo spazio per la promo-zione dell’individuo che invece emerse dalcosiddetto “medioevo ellenico”. Il surplus fuanche in Grecia una scoperta che presepiede con l’VIII secolo -secondo le cronolo-gie delle opere letterarie usate come provadallo Hanson- , fatto questo che dà alla vitaevolutiva dell’Etruria un valore consistentein quanto non totalmente derivato, maparallelo ed in parte autonomo, al puntoche, mentre in Grecia il surplus sarà nellemani di una larga fascia “media” di coltiva-

tori proprietari di piccole fattorie, in Etruriasarà l’aristocrazia -ed al suo vertice quelladei ricchi cavalieri a capo delle gentes in for-mazione- a ricavarne i vantaggi, insediando-si stabilmente al timone della società perquasi l’intera storia della civiltà etrusca.11 Barker, Ambiente e società nella Preistoria del-l’Italia centrale, cit., pagg. 123, 171, 193, 211.12 Si pensi all’eccesso di produzione agricolapropria, alle “decime” ricavate da terzi, alle“corvées”; su tali aspetti si veda in Carlo Zac-cagnini, Modo di produzione asiatico e VicinoOriente antico. Appunti per una discussione, in“Dialoghi di Archeologia” n.3, nuova serie,anno 3, 1981, pagg. 32-34, 39.13 Per il ripostiglio si veda S. Tovoli, in IlMuseo Civico Archeologico di Bologna, Bolo-gna, 1982, pag. 259.14 Più in generale si vedano, in primis, V. Gor-don Childe, What happened in History, Har-mondsworth, 1942, pag. 175 e segg.; Nor-man Gottwald, The tribes of Yaweh, New York,1979.15 Drews, cit., pag. 75.16 Giovannangelo Camporeale, La Toscana altempo degli Etruschi, in “Toscana etrusca eromana”, Milano, 2002, pag. 16.17 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 217-218.18 Si veda al riguardo Torelli, La società etru-sca, cit., pag. 143, dove si evidenzia l’uso diprigionieri quali clientes in caso di deditio infidem, ovvero quali schiavi “se non collegatialla terra conquistata e quindi non diretta-mente reimpiegabili nella produzione”19 Vedi in Boiardi, Von Eles, Verucchio, lacomunità villanoviana: proposte per un’analisi,cit., pag. 49. 20 Boiardi, Von Eles, La Necropoli Lippi diVerucchio. Ipotesi preliminari per una analisidelle strutture sociali, cit., pag. 39.21 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 159.22 Zaffanella, Il villaggio preistorico su altura

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arginata circolare dei Castellari di Vallerana, cit.,pag. 186.23 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 199. La stes-sa figura del guerriero omerico arcaizzanteappare psicologicamente “inquadrata nel-l’ambito di una aristocrazia militare, all’in-terno di una società egalitaria, di Homoaequalis”. Da Barrois, cit., pag. 67. Per capiredove sarebbe approdata la suddivisione deltipo di azione militare all’interno dellecomunità urbane, si veda recentemente ilprimo capitoli di Giovanni Brizzi, Il guerrie-ro, l’oplita, il legionario. Gli eserciti del mondoclassico, Bologna, 2002.24 La stessa celebrazione del valore militare,in tutti i suoi aspetti, poggia in origine sul-l’esaltazione di un’aretè che è significativaadesione a legami affettivi concreti, di pri-mordiale importanza all’interno dei piccoligruppi (Barrois, cit., pag. 12). Il valore del-l’impresa individuale (secondo una forma men-tis comune anche all’Iliade -vedi Barrois, cit.,pagg. 65-68 e 76-) agìta in nome ed in favo-re del gruppo sociale egualitario è la condi-zione iniziale in cui si muove il guerrierodell’età del bronzo finale, e fors’anche dellaprimissima età del ferro villanoviana. Quelguerriero ancora “non vive i suoi atti o la suastessa esistenza né a livello di soggetto, né dicoscienza di sé. In lui troviamo l’esperienzadell’interiorità di un io personale, singolo,inteso come zona suscettibile di introspezio-ne. Il guerriero (...) è un individuo, di fatto,non per la sua propria singolarità, ma perquella del suo destino, per il prestigio dellesue imprese e per il suo potere di sopravvi-vere ad esse, attraverso il ricordo della suafama nei secoli (...) E’ evidente che è il grup-po sociale a riconoscere questi valori e adesaltarli nelle sue istituzioni”. Da Barrois,cit., pag. 62.Dal fatto che “esistere come individuo” equi-

valga all’essere “degno di venir ricordato”(Jean-Pierre Vernant, L’individu, la mort, l’a-mour, Parigi, 1989, pag. 217) discende lacelebrazione funeraria crescente del ruolo diguerriero, giacché la morte del guerrieroeroico trova larga collocazione nell’ambitodella memoria, della cultura e del grupposociale. A ciò si assomma “la funzione disostegno svolta da miti, epopee e religioni -modelli di riferimento impliciti ed esplicitiper il guerriero- (...) il mito (...) intende rap-presentare tutto ciò che è degno di memoria(...) In questi racconti si mescolano l’allego-ria, dei frammenti di storia, i simboli, levalutazioni sociali, le descrizioni (...) (e con laloro) trasmissione (...) i personaggi rappre-sentati, le loro imprese, i valori sociali, eser-citavano (...) un grande fascino, unito aldesiderio di imitarli o di cimentarsi perso-nalmente in questo tipo di azioni”. Da Bar-rois, cit., pagg. 40-47. Il modello di punta,“la personalità fondamentale degli ultimi tremillenni è appunto quella dell’ uomo bellico(il quale) non è affatto il prodotto di unaselezione genetica, bensì di una formazioneculturale” Da Toraldo di Francia, cit., pag.18; vedi anche pag. 19.25 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 72.26 Si veda in Yann Le Bohec, L’esercito roma-no, Roma, 1992, pag. 285.27 Si veda Negroni Catacchio, Le testimonian-ze archeologiche, cit., pag. 119.28 Si veda ad esempio in Scarduelli, L’isoladegli antenati di pietra, cit., pagg. 137-147.29 Si veda Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 248e pagg. 349-352. Non è solo questo, tuttavia,il filo che lega le guerre e le feste: le feste,come la guerra, richiedono la riunione deimembri della comunità, consistono in unadispersione di beni, sottostanno a regolemorali diverse da quelle del quotidiano,

comprendono episodi di esaltazione colletti-va e di annullamento della sensibilità fisica,assieme a occasionali riti sacrificali.30 Quali i già citati Nias indonesiani.31 Scarduelli, L’isola degli antenati, cit., pag.138.32 Presso i Nias l’abbinamento, con quelleeseguite dal “capo”, di alcune “opere pub-bliche” e di alcune azioni di prestanza guer-riera “da un lato (...) simboleggiano il pote-re militare del capo e ne rafforzano il presti-gio di leader capace di garantire la sicurezzadegli abitanti del villaggio contro i nemici(...) dall’altro (...) imponenti investimenti diforza-lavoro da parte della comunità, testi-moniano il grado di controllo esercitato dalcapo sui suoi sudditi e ricordano, al tempostesso, attraverso la loro associazione con legrandi feste redistributive, la sua generosi-tà”. Da Scarduelli, L’isola degli antenati, cit.,pag. 143.33 Si veda Maurizio Martinelli, San Giovena-le, in “Gli Etruschi - mille anni di civiltà”,Firenze, 1985, pagg. 316-317. Sull’ipotesiche tali pasti collettivi e tali cerimonie lustra-li avessero qualche connessione con l’inizia-zione giovanile e le prove di abilità a caccia,si veda il capitolo sull’addestramento allearmi.34 Della crescita dinamica nel tempo delledeposizioni di armi nelle tombe è uno spec-chio interessante quello della comunità diVerucchio: si veda in Boiardi, Von Eles,Verucchio, la comunità villanoviana: proposte perun’analisi, cit., pag. 48; ed in Boiardi, VonEles, La Necropoli Lippi di Verucchio. Ipotesi pre-liminari per una analisi delle strutture sociali,cit., pag. 35.35 Tale “volontà di trasferire anche nellasepoltura gli attributi di uno status socialemolto elevato” inserendo nella sepoltura unacoppia di morsi equini in bronzo, è attestata

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Le armi in una società che si evolve: benessere e combattimento

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La lancia, la spada, il cavallo

anche, ad esempio, oltre che a Verucchio(Boiardi, Von Eles, La Necropoli Lippi di Veruc-chio. Ipotesi preliminari per una analisi delle strut-ture sociali, cit., pag. 36), a Vigna di Mezzopresso Rondineto (Como) nell’VIII secoloa.C.; si veda in Raffaele C. de Marinis, Com-prensori protourbani e articolazione sociale nellacultura di Golasecca, in “The colloquia of theXIII International congress of Prehistoric andProtohistoric Sciences”, vol. 12, cit., pag. 26.36 Il pezzo ha n. di inventario 169.37 Battaglia, Psicologia e guerra nel Novecento,

cit., pagg. 85-86; vedi anche pag. 88.38 Giusto Traina, Ambiente e paesaggi di Romaantica, Roma, 1990, pag. 24.39 Questi spariranno solo alla fine del VIIsecolo, comunque in un quadro di resisten-ze ideologiche all’abbandono di forme direlazione sociale e di dimensione d’aggrega-to di reminiscenza protostorica40 Si veda in Martinelli, La percezione dellospazio, cit.41 Scarduelli, L’isola degli antenati, cit., pagg.156-157.

42 Barker, Ambiente e società nella Preistoria del-l’Italia centrale, cit., pagg. 123, 171, 193, 211.43 Si veda Quilici, Le strade carraie nell’Italiaarcaica, cit., pag. 73 e segg.44 Si veda ad esempio la successione di Lavi-nio, Alba e Roma nel racconto liviano.45 Così come appare nel racconto liviano, èattestato anche tra vari popoli primitiviodierni; si veda Scarduelli, L’isola degli ante-nati, cit., pagg.157-158.46 Scarduelli, L’isola degli antenati, cit., pagg.157-158.

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L’attività bellica protostorica dovettegià prevedere l’usanza, quando possibi-le, della spoliazione degli avversariabbattuti e del bottino di guerra insenso più lato.Pur nell’ovvia assenza di dati precisiriguardo la situazione nell’Etruria pro-tostorica, alcuni confronti con l’epicaomerica e con le narrazioni liviane sulLazio antico sembrano indicare comun-que un precoce verificarsi dell’acquisi-zione delle spoglie.In area italica è attestata la deposizionedi armi in fiumi e laghi sino dall’età delbronzo antico e medio –per l’Italia delnord-est-, e dalla fine del bronzo medioper l’Italia centrale; tale usanza è stataposta in relazione alla rinuncia votivaverso il frutto della spoliazione di avver-sari caduti in combattimento:

“in the votive offering of a weapon belongingto a fallen adversary, there is an element ofrenunciation: the victor renounces the right totake possession of what he might have kept for

himself. Perhaps the act of renunciation was anessential reason why the custom of sacrificingweapons in water continued for many centu-ries after the advent of Christianity1”.

Di conseguenza per l’Etruria “nonmanca chi pensa che durante l’Orienta-lizzante arcaico (circa 730-680 a.C.) glioggetti preziosi dovevano essere fruttodi bottino di guerra o doni fra aristo-cratici2”.Nell’Iliade si hanno frequenti episodi incui il duello tra due guerrieri si conclu-de con l’uccisione di uno dei due con-tendenti ed il seguente bottino dellearmi del caduto; talvolta questa sottra-zione di ènara è un “incerto e pericolo-so protrarsi” dell’azione di combatti-mento3 portato a compimento ancheda seguaci del vincitore. Degne di inte-resse sono alcune riflessioni sul mondoideologico ellenico4 deducibili dall’evo-luzione semantica del termine grecoènara, che vale originariamente perquel tutt’uno che era stato il guerriero

abbattuto quando era ancora vivo, eche, con la sua morte, è “un’unità pre-sentata nel suo disintegrarsi”. Queste“spoglie” sono dunque i “resti dell’ucci-so (corpo e oggetti che gli apparteneva-no)5” e che solo in un secondo momen-to semantico diverranno “bottino” inte-so come soli oggetti, come nelle ex-uviaelatine.Questo percorso ideologico rivela quan-to, con la spoliazione del caduto, non sicompisse solo un atto di rilevante signi-ficato economico (giacché le armi eranotra gli oggetti più costosi e caratteriz-zanti a livello socioeconomico) maanche -e forse in origine principalmen-te- un atto magico6: con l’impossessarsidelle spoglie del caduto, parte “preleva-ta dal cadavere (...) ancora grondantesangue7”, si rapiva ed acquisiva simboli-camente il valore, la forza e la virtù del-l’ucciso8. Sui significati psicologici piùprofondi di tale azione si è espressoFranco Fornari; egli, relativamente a

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Le spoglie

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popoli primitivi attuali i quali “hannol’abitudine di portare con sé, per con-servarle come trofei e amuleti, parti delcorpo del nemico ucciso” (alle quali,come si è visto, sembra richiamarsi iltermine greco ènara), ritiene “lecito per-ciò ravvisare in tali costumi, nei qualiuna parte di un oggetto nemico vieneportata e conservata nel proprio mondoprivato, la verificazione diretta di ciòche Klein ha chiamato il processo diinternalizzazione di un oggetto parzialecattivo, a scopo di controllo delle ansiepersecutorie9”.D’altra parte il duello -forma di scontro,come si è visto, in cui dovevano frantu-marsi molte battaglie della prima etàdel ferro- aveva per tutti i popoli antichiun forte valore simbolico10 e le armicostituivano una parte integrante delguerriero e della sua magica unità. L’al-ta antichità del duello come prassi èstata ampiamente analizzata da varistudi, supportati da una sterminata let-teratura etnografica, ai quali si rimandaper brevità11; duellare comunque èsempre stato un comportamento orien-tato ad aderire più all’”onore” che allavita stessa, e “fu sempre e dovunquelegato a gruppi sociali che occupavanoposizioni di privilegio, o ispirato daldesiderio di raggiungere quelle posizio-ni, desiderio che rappresenta, se nonuna componente della natura umana,almeno un carattere permanente delcomportamento sociale12”. Come siosserverà parlando dei rituali religiosidella guerra, le armi e la persona del

guerriero che si immolava nella devotiodiventavano un tutt’uno di valore magi-co, e le spoglie sottratte da un capo adun capo avversario (come nel caso diRomolo contro Tito Tazio re dei Sabini,in Livio I, 10, 15) potevano avere unparticolare valore religioso per venireofferte agli dèi. Romolo infatti dappri-ma “regem in proelio obtruncat et spoliat”,quindi egli stesso

“spolia ducis hostium caesi suspensa fabricato ad idapte ferculo gerens in Capitolium escendit ibique eacum ad quercum pastoribus sacram deposuisset,simul cum dono designavit templo Iovis finis cogno-menque addidit deo. «Iuppiter Feretri» inquit, «haectibi victor Romulus rex regia arma fero templumquehis regionibus, quas modo animo metatus sum, dedi-co, sedem opimis spoliis, quae regibus ducibusquehostium caesis me auctorem sequentes posteriferent»13”.

Non solo i guerrieri a piedi raccoglieva-no le spoglie del nemico, ma anche lacavalleria: nonostante l’assenza di staffe,i cavalieri italici dovevano essere deditigià da epoche molto antiche ad unasorta di torneo equestre che, avviato daun avvicinamento e da sfide verbali, sfo-ciava poi in un urto frontale alla lancia,col facile disarcionamento reciproco econ un finale svolto a terra. Sebbene sene trovino esempi in epoca piuttostomatura (VI sec. a. C.; ad esempio LivioII, 6,6-11; 19, 6-9; 20, 1-3) con più epi-sodi, è presumibile che già i cavalieri vil-lanoviani cercassero il duello apostro-fando alcuni avversari con frasi provo-catorie. Così ad esempio, pur in unmomento più tardo, secondo le fonti

letterarie fece Aulo Cornelio Cossorivolgendosi a Tolumno con questeparole:

“«E’ qui l’uomo che rompe i trattati umani, cheviola i diritti delle genti? Vado a sacrificare que-sta vittima!». (…Quindi), spronando, la lanciain avanti, si porta contro questo avversario iso-lato. Avendolo, col colpo, gettato giù dal caval-lo, egli stesso, appoggiandosi alla lancia, salta aterra. Qui, mentre il re si alzava, lo rovescia conlo scudo, e, con vari colpi di punta, lo inchiodaa terra. Allora spoglia il cadavere, gli taglia latesta e, portandola da vincitore sulla punta diuno spiedo, spaventa i nemici con la morte delre e li disperde14”.

Ancora dalle fonti latine, giacché l’usodei duelli singoli -nella cavalleria e nellafanteria- aveva avuto come effetto colla-terale indesiderato quello di disturbareda un certo momento storico in poi ladisciplina dei reparti, apprendiamo cheben presto, allorché l’esercito venneorganizzato in schiere ordinate, per iduelli fu stabilito, nell’esercito romano,che fosse necessaria per essi l’autorizza-zione del comandante, pena la decapi-tazione, di fatto impedendone così, inmolti casi, lo svolgimento. Tale minac-cia non fu vana, e ancora nel 340 a. C.,come ricorda Livio (VIII, 7, 1-12) TitoManlio, ingaggiato un torneo di caval-leria con Gemino Mecio tuscolano, gli“trapassò la gola col suo ferro in mododa farlo uscire tra le costole, l’inchiodòa terra. Poi, dopo averlo spogliato, tornòverso i suoi (...) ignaro del proprio desti-no”, che fu proprio la decapitazione “innome dell’offesa disciplina militare”.

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La lancia, la spada, il cavallo

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Dunque, proprio per il suo divieto ineserciti organizzati, l’affrontarsi in “sin-golar tenzone” è con ogni probabilitàda rinviare cronologicamente ad un’e-poca precedente, in cui il combattimen-to a duello era previsto nella normaleevoluzione tattica degli scontri, e quindipreferibilmente al periodo protostorico.Anche in Grecia

“the few prizes for valor that appear in Greekliterature were given to the strong and reliablewho upheld the line, not to the Homeric fewwho waded out in front of their comrades.Only in non-polis societies –Scythia, Persia,Thrace, Carthage, Iberia, and Macedonia- dowe hear of state decorations for military valorand special recognition for killing individualopponents (e.g., Arist. Pol. 7.1324b.10-24)15”.

In questi scontri a duello l’esito dovetteprevedere precocemente e con frequen-za, come si è visto, il finale catartico del-l’acquisizione delle spoglie non solo perbottino -fonte di un arricchimento eco-nomico non indifferente- e per segnod’onore16, ma anche in quanto testimo-nianza di vittoria su un altro personag-gio eminente di una comunità avversa-ria, e pegno magico di forza e superio-rità, aspetto questo che rimanda allepratiche magico-rituali della guerra. Quale esempio di simbolismi simili, giànella Grecia micenea, si ricorda come,presso i capi seppelliti nelle tombe a cir-colo di Micene, vennero rinvenutenumerosissime spade: “Schliemann, loscavatore, calcolò ad esempio che i treuomini sepolti nella tomba a fossa V

erano accompagnati da almeno novan-ta spade17” Sebbene varie di questearmi siano state probabilmente da para-ta, è possibile e verosimile che altrefacessero parte del bottino di scontri eduelli. La discussione che Achille pren-de coi capi achei -nel nono libro dell’I-liade- riguardo la sua personale proprie-tà di Briseide, schiava parte del bottinosottrattogli da Agamennone che eserci-tava il diritto di ripartizione “a tavolino”delle spoglie tra i guerrieri, ci indicacome, almeno nell’Ellade di età omeri-ca, quanto veniva raccolto in guerraavesse una destinazione quanto meno

parziale al capo e/o alla comunità, perpoi essere in parte redistribuito18. Il peso del bottino bellico nell’economiaomerica è stato sottolineato in numerosistudi, ed è quindi stato oggetto di accu-rate analisi sulla sua prassi di ripartizio-ne, sulla quale peraltro anche Achille edAgamennone mostrano di aver forte-mente dissentito; di fatto, comunque,

“vi è un apposito sistema di distribuzione delbottino, il quale fa leva sul geras scelto per i capie sulla mòira eguale per i membri della comu-nità in quanto tali e quindi semplicemente sor-teggiata. (…) La guerra e la suddivisione dellapreda sono dunque fatti tanto normali (…)Una porzione speciale del bottino, il geras,viene riservata ai capi nel momento in cui sidivide la preda. Tutto ciò in riconoscimentodella loro funzione, che è anch’essa geras, edella loro natura privilegiata: (…) il geras(tocca) oltre che ai basilées, agli dèi e (è) quindi,riconoscimento di quanto di divino v’è nellafunzione e in chi la esercita19”.

Diversamente, nell’economia greca dietà classica il bottino di guerra andòperdendo il suo valore di controlloredelle dinamiche economiche e sociopo-litiche, e principalmente il suo significa-to etico-magico, se è vero che le armidegli avversari, dopo la battaglia opliti-ca, venivano recuperate per venire riuti-lizzate o commercializzate, e che addi-rittura “during the last years of the Pelo-ponnesian War (i.e., 413-404 B.C.)” ireparti militari della Beozia “stole sla-ves, roof tiles, and other furnishingsfrom the Attic countryside, as a bypro-duct of constant border raiding20”.

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Le spoglie

Il circolo “A” di tombe a Micene

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La lancia, la spada, il cavallo

Note

1 Lavrsen, Weapons in Water, cit., pag. 18.2 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 71.3 Moreno Morani, Il morto e le spoglie, in“Aevum”, n.1, anno LXVI, gennaio-aprile1992, pagg. 19 e 20.4 M. Morani, Il morto, cit., pagg. 17-22.5 M. Morani, Il morto, cit., pag. 21.6 Peraltro uno dei punti chiave della psicolo-gia del guerriero antico, “l’ideologia funera-ria del guerriero (greco) è quella della mortebella (...) L’accanimento per ottenere unamorte gloriosa si spinge fino al punto di pri-vare il nemico della sua: non si può capirealtrimenti la crudeltà, per noi orribile, dellepratiche di oltraggio, di mutilazione, dismembramento dei cadaveri nemici; i corpimagnifici e virili vengono oltraggiati e spo-gliati delle armi più belle”. Da Barrois, cit., pag.65.Sulla forte suggestione presente nella sottra-zione di un bottino di guerra composto dioggetti-simbolo fa luce quanto rilevato per

l’asportazione delle campane, tipico nelleguerre della Toscana trecentesca: “Il depre-dar la campana di una comunità vinta inbattaglia (…) non era semplice furto di unoggetto di valore ma un gesto di profondosignificato simbolico, anche se incentratosullo spregio rituale: voleva dire privare quelpopulus della sua voce così come lo si privavadelle sue possibilità combattive con l’abbatti-mento delle mura. Non solo: incamerarlanel bottino di guerra significava assimilarecon essa l’identità stessa del nemico, e quin-di la sua virtus, che andava ad accrescerequella del vincitore”. Anna Benvenuti, Mas-simo Papi, “Un palio a femmine meretrici”. Lecampagne “castruccine” nella memoria di Gio-vanni Villani, in “Guerra e guerrieri nellaToscana del Rinascimento”, Firenze, 1990,pag. 191.7 M. Morani, Il morto, cit., pag. 21.8 Si tratta di un percorso logico simile a quel-lo del cannibalismo rituale in uso pressoalcuni popoli primitivi odierni, come gliAsmat della Nuova Guinea. 9 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pag. 77.

10 Ne vedremo degli aspetti nel capitoloseguente, nel riferimento all’episodio diOrazi e Curiazi.11 Per tutti si ricorda Victor G. Kiernan, Ilduello – Onore e aristocrazia nella storia europea,Venezia, 1991, in particolare nella pagg. 25-39 per le età primitive e più antiche.12 Kiernan, Il duello, cit. ,pag. 4.13 Livio, I, 10, 15-25.14 Livio, IV, 19, 1-5; traduzione da Vigneron.cit., pag. 287.15 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 279.16 Segni simili a quelli che, più tardi, saran-no le ricompense dell’esercito romano qualile hastae purae.17 Snodgrass, Armi ed armature dei Greci, cit.,pag. 16.18 Ciò avviene anche presso vari popoli pri-mitivi attuali, come i citati Nias indonesiani,dove “al termine di una guerra vittoriosa, alcapo spetta la metà del bottino”. Da Scar-duelli, L’isola degli antenati, cit., pag. 137.19 Mele, Elementi formativi degli ethne greci eassetti politico-sociali, cit., pagg. 65-67.20 Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 144.

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Nella protostoria la guerra tra le comu-nità, essendo evidentemente una prassigià di remota origine, non avvenivaormai in modo casuale né nel suo svol-gimento tattico e tecnologico, né tanto-meno nella preparazione politica,diplomatica, strategica e religiosa.Peraltro, la ricchezza del mondo magicoe rituale dei popoli primitivi, specie inconnessione alla guerra ed all’impiegopsicologico di essa quale meccanismo ditrasferimento delle proprie necessità dicolpa in una “elaborazione paranoideadel lutto”, è stata oggetto di magistralistudi1.Prendendo a spunto quanto le fontinarrano per la tradizione romana, chetalvolta trova sommari riscontri nelladocumentazione archeologica per l’E-truria, c’era una stagione per la guerra,inaugurata e chiusa da specifiche ceri-monie, ed una prassi religioso-diploma-tica, che tentava di comporre gli attritidi confine, fallita la quale si aveva una

vera e propria dichiarazione di guerrache rispettava un cerimoniale impor-tante non solo -e non tanto- per gliuomini, ma anche per gli dèi.Anche l’esito dei combattimenti nel-l’ambito del singolo scontro, della“campagna” o dell’intero fine strategicopoteva essere ritualmente influenzatocon atti religiosi volti contro il nemico.Quale peso avesse l’accettazione reci-proca -e dunque la diffusione intertri-bale- di cerimoniali simbolici religiosinei tentativi di ricomposizione politicadegli attriti, e nell’attuazione dello scon-tro bellico tra comunità, è documentatodall’uso di sostituire talora i conflittigeneralizzati con “guerre simboliche”,fatte di sfide nell’esibizione di potenza ebenessere, o piuttosto di scontri tracampioni o rappresentanti, come nelcaso degli Orazi e Curiazi, come è lar-gamente attestato anche nell’etnografiapresso popoli primitivi odierni. L’esitodi questi “combattimenti”, pur essendo

lungi dall’aver fattivamente messo incondizioni di inferiorità “clausewitzia-na” una delle due parti, era comunquerispettato dalle comunità contendenticon scrupolo, ad indizio di una lealtà aipatti, di probabile fondamento religio-so, condivisa dalle diverse collettività. La stagione adatta alla guerra era tradi-zionalmente, nell’antichità, quella pri-maverile ed estiva2, che non richiedevaaccampamenti ed acquartieramenti,offriva facili approvvigionamenti neiterritori invasi nel caso che la penetra-zione nelle terre ostili si prolungasseper più giorni, e stimolava alla razziadei raccolti o alla loro distruzione3; que-sta preferenza si mantenne anche nelMedioevo, quando “le operazioni mili-tari si svolgevano di solito tra maggio eottobre, sia per sfruttare il bel tempo siaper colpire i raccolti dell’avversario4”. Sievitavano di norma scontri in condizio-ni di grande freddo o pioggia, ed anchese i guerrieri

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I riti della guerra

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“erano chiamati a combattere in primavera,bufere e temporali rendevano loro difficile lavita. La temperatura corporea dell’individuosorpreso con tutta la panoplia addosso diminui-va rapidamente, perché le vesti bagnate diven-tavano spiacevolmente gelide e si appiccicavanoalla pelle (...) Ancor più critica era la condizionedel terreno quando cominciava a piovere. (Unguerriero) bagnato fradicio, gravato (...) nonriusciva quasi a muoversi quando il terrenodiventava molle e fangoso. Gli esperimentimoderni per ricreare le difficoltà in cui si dibat-tevano uomini armati in quel modo hannodimostrato che in terreno sabbioso o semplice-mente poco compatto -per non parlare di quel-lo bagnato o fangoso- richiede un fabbisogno diossigeno superiore del 20-25 per cento5”.

E’ stato osservato da alcuni studiosi che“tra i popoli agricoltori la guerra si fa,di regola, dopo la mietitura6”, e ciò giàa partire dall’epoca biblica, quando leguerre si tenevano al “cambio dell’an-no”, cioè in primavera, “all’inizio delmese di Nisan, quando c’erano i raccol-ti dell’orzo e del grano7”; tuttavia laconstatazione che nell’Italia centrale tir-renica questa funzione agricola avvienetradizionalmente nel giugno8, porta adaccogliere le osservazioni delloHanson9 che ridimensionano la ten-denza alla devastazione delle colture deipopoli nemici e che indicherebberopiuttosto l’uso di mirare a impossessarsidelle terre e/o, con esse, del raccoltoaltrui, nell’unico momento in cui lemessi costituivano un bottino di suffi-ciente valore10. Infatti

“il grano e l’orzo possono essere dati alle fiam-me, ma solo durante un breve periodo subito

prima del raccolto, il che imporrebbe all’inva-sore di penetrare nel territorio nemico proprioin quel momento. Inoltre, numerose difficoltàriducevano tale possibilità: se l’invasore avesse(...) (anticipato il) radunare le sue truppe,sarebbe giunto sulle terre nemiche quando ilgrano era ancora verde, e quindi non avrebbepotuto usarlo per integrare le proprie razioni eancor meno dargli fuoco; se l’invasione fosseavvenuta più tardi, a fine giugno o a luglio, ilraccolto poteva esser già avvenuto (...) Occor-reva insomma invadere il territorio nemicoproprio all’inizio del raccolto, bruciare l’orzo eil grano, privare il nemico di un intero anno dilavoro e di investimenti, utilizzare le derrateper nutrire le cause stesse della loro distruzio-ne. Ma resta un’ultima ironia: l’esercito degli(...) invasori, essi stessi contadini, aveva le pro-prie responsabilità in patria, e il tempo cheimpiegava nella distruzione del grano delnemico veniva sottratto al lavoro necessario neiloro campi, proprio nel momento in cui erapiù prezioso. In breve, la devastazione dellecolture era un processo tutt’altro che semplice,e anche quando si verificava di solito non avevaripercussioni durature11”.

Nel complesso dunque, per i conflittiprotostorici, può valere quanto è statodetto delle guerre feudali e duecente-sche dell’Italia centrale, ovvero che esse“potevano ben essere costituite di brevie poco sanguinosi segmenti stagionali,che magari si ripetevano ogni anno inquanto il loro puntuale ripresentarsi erain fondo funzionale a tutto un modo divivere e di produrre12”.Che i terreni coltivati ed in procinto didare raccolti fossero oggetto di conqui-sta e non di distruzione nell’Italia proto-storica lo testimonia il calendario roma-no che la tradizione attribuisce a Numa

Pompilio (calendario questo non piùrecente del VI sec. a. C. e che ha partimolto più antiche, vistane la scansionefestiva tipica di una comunità “pastora-le, agricola e guerresca13”), nel quale lastagione propizia alle guerre si aprivanel marzo. Il 14 si avevano infatti le festedette Equirria, iterazione di quelle del 27febbraio e costituite da corse di cavallinel Campo Marzio o sul Celio; visto ildiffondersi dell’ideologia “cavalleresca”dalla seconda metà dell’VIII sec. a. C., èpossibile che la cerimonia si sia andataformando in quel tempo. Il 19 marzo siteneva inoltre il Quinquatrus, la festadelle danze sacre dei Salii -i sacerdoticustodi degli scudi sacri o ancilia- davan-ti alle armi di tutta la comunità accata-state nel comizio, e così purificate e“benedette”, secondo un rituale diffusoanche presso popoli primitivi14. Anche ilcollegio dei Salii sarebbe stato voluto daNuma Pompilio, secondo quanto ripor-ta Livio (I, 20, 12-15):

“Salios item duodecim Marti Gradivo legit tunicae-que pictae insignae dedit et super tunicam aeneumpectori tegumen, caelestiaque arma, quae anciliaappellantur, ferre ac per urbem ire canentes carminacum tripudiis sollemnique saltatu iussit”.

Il loro

“era un sodalizio di dodici membri (l’etimolo-gia è da salire «saltare»; cf. Varr. de l. L. V, 85:Salii a salitando, quod facere in comitio in sacris quo-tamnis et solent et debent; Serv. ad Aen. VIII, 285:dicti Salii quod circa aras saliunt et tripudiant), chesecondo la tradizione risaliva a Numa, ma cheaveva in realtà origini protolatine, poiché

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ricorreva in città latine ed etrusche, come AlbaLonga, Laurento, Aricia, Tuscolo, Tivoli, Ana-gni; secondo Servio (Aen. VIII, 285) si dovreb-be pensare ad origini etrusche. Erano votati aMarte. Durante le feste religiose danzavanouna danza di ritmo anapestico (UU__), dietroal corifeo (praesul). La danza era variamentegiudicata dagli antichi: elegante secondo Plu-tarco (Num. 13), maestosa secondo Luciano (desalt. 20). Cantavano inoltre inni religiosi, dettiaxamenta «invocazioni» in onore di varie divini-tà (Paul.-Fest. s. v. Axamenta: Axamenta dicebanturcarmina Saliaria quae a Saliis sacerdotibus cane-bantur in omnes deos composita: nam in deos singu-los versus facti a nominibus eorum appellabantur utIanuli, Iovii, Iunonii, Minervii), di cui abbiamooggi pochi frammenti a stento comprensibili,come del resto riuscivano già incompresibili aiRomani d’età più tarda e ai Salii stessi (Hor.epist. II, I, 86; Quint. I, 6, 40: Saliorum carminavix sacerdotibus suis satis intellecta). I Salii eranoreclutati tra i patrizi e formavano due collegi:dodici Palatini, con santuario sul Palatino,dodici Collini (o Agonenses), con sede sul Quiri-nale, il che ci riporta al dualismo tra la cittàquadrata sul Palatino e gli altri colli, non anco-ra politicamente uniti ad essa. La loro caricaera a vita, salvo che venissero nominati flaminio pretori o consoli. A loro era affidata la custo-dia degli ancilia, scudi di cui uno sarebbe cadu-to dal cielo e gli altri undici sarebbero stati fatticostruire da Numa per proteggere l’originale.Le funzioni dei Salii erano esercitate special-mente in marzo, quando avevano inizio lecampagne di guerra (ancilia movere) e in otto-bre, quando esse avevano termine (ancilia con-dere). (...) Marte dà il nome al mese Martius,mese nel quale ricorrono le sue feste principa-li. Alle calende di marzo sono indicate delleferiae Martis, poiché quello sarebbe il giorno incui cadde dal cielo lo scudo sacro. Alle nundi-ne, cioè il 9, il fabbro Mamurius avrebbe forgia-to gli altri undici. Durante tutto il mese (ilprimo, il nove, forse il diciassette, durante l’A-

gonium martiale, il diciannove, durante i Quin-quatrus, il ventitré, per il Tubilustrium), i Saliieseguivano le loro danze sacre. Marzo è il mesein cui si aprono le campagne di guerra, ma èanche il mese in cui hanno inizio i lavori agri-coli. Marzo proteggeva il territorio dai nemici,ma anche lo proteggeva contro i flagelli natu-rali: era dio di guerra, ma anche dio dellaterra, invocato dall’agricoltore15”

Degli ancilia si è già trattato ampiamen-te nella parte sugli scudi della prima etàdel ferro, rilevando come la loro foggiasi rifacesse ad esemplari diffusi in areaellenica. La loro esibizione e percussionecon delle lance, unitamente alla recita-zione dei salmi ed al particolare passo didanza, invocava il favore di Marte e cele-brava rinforzandolo il valore guerriero.Di quella arcaica danza saliare sappiamoche i passi -detti saltatio e tripudium-erano colpi del piede in ritmo ternario esaltelli. Seneca ci ricorda (Lettera a Luci-lio, XV, 4) come un esercizio simile “allamaniera dei Salii”, ovvero il saltare sulposto, fosse piuttosto facile ma atto allosviluppo del corpo, e Catullo (XVII, 1)ritiene che tale danza fosse sufficiente afar pericolare i ponti meno stabili.L’esistenza di danze in armi è un fattoattestato anche nell’Etruria della primaetà del ferro; esso ebbe un suo sviluppodurante i secoli sino all’arcaismo ed ai“danzatori armati” effigiati nelle tombea camera dipinte, che compivano la loroazione, sulla base delle loro raffigurazio-ni, con lo stesso passo di danza dei Salii,composto da saltelli di cui alcuni a piediuniti e ginocchia flesse, e con una impu-

gnatura della lancia -simbolica- inversa enon atta al combattere, ma piuttostoidonea alla percussione dell’arma stessacontro lo scudo. L’uso dello scudo comestrumento sonoro è attestato anche inraffigurazioni di alta antichità su cerami-ca geometrica greca e su un sonaglio ita-lico dipinto, da Sala Consilina16.L’attestazione etrusca più antica didanza in armi è tuttavia da riconoscerenel “diorama” sul coperchio del cinera-rio dell’Olmo Bello da Bisenzio, alMuseo di Villa Giulia a Roma. I danza-tori, in cerchio, recano scudi e lance,mentre un bovino è sospinto probabil-mente per essere destinato al sacrificio esembra comparire anche (purtroppodubitativamente) la figura di un prigio-niero: il Cristofani17 considera infattil’episodio ritratto sul coperchio una“scena di danza totemica, nella quale ècompresa forse la figura di un prigio-niero catturato”, che “ha un valoremagico-sacrale”. La figura del presuntoprigioniero è quella di un uomo chemarcia, senza scudo né armi né coprica-po, tenendo i polsi uno sull’altro dinan-zi a sé, come se avesse le braccia legate.L’interpretazione di quel reperto puòessere molto utilmente facilitata dallalettura di uno scritto di Fornari sui fat-tori psicologici della guerra, e che rilevala connessione tra la festa ed i conflitti:

“Gli aspetti psicologici più tipici della festa insenso sociologico sono: 1) il produrre un’unio-ne materiale dei membri del gruppo; 2) l’esse-re un rito di spesa e di sperpero; 3) il costituireuna modificazione più o meno grande delle

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regole morali; 4) l’essere un rito di esaltazionecollettiva; 5) l’instaurare una specie di annulla-mento della sensibilità fisica; 6) l’instaurare ritisacrificali. La guerra sarebbe quindi la festasuprema. La teoria sociologica della guerracome festa suprema si incontrò (…) con l’inter-pretazione data da Abraham della guerracome festa totemica. La guerra sembra peròun’elaborazione successiva alla festa totemica:nella festa totemica è il proprio totem-padreche viene sacrificato-ucciso mentre nella guer-ra è ucciso l’estraneo (…) Il fatto che nei popo-li primitivi la guerra sia accompagnata da atti-vità di danza –situazione che oggi appare con-servata nelle parate militari- accentua il rap-porto della guerra con la festa18”.

La danza degli armati, diffusa dunquein vari centri latini ed in Etruria dallaprotostoria, poteva ben essere “una spe-cie di rappresentazione mimica dellaguerra (...) tuttavia molti etnologi, comeJames Frazer nel suo Commentary on theFasti of Ovid (...) ammettono che il fra-stuono prodotto dalla percussione degliscudi metallici e tutto il mimo mirasse-ro ad assicurare la vittoria; ma preten-dono che i nemici (...) fossero (...) gli spi-riti maligni19”.L’epoca cui risale il cinerario dell’OlmoBello -la fine dell’VIII sec. a. C.- nefarebbe una delle più antiche raffigura-zioni etrusche di danze di guerra, non-ché di individui in condizione di cattivi-tà. Piuttosto incerto sarebbe il ruolo diquesto personaggio prigioniero nelladanza; la sua presenza potrebbe infattiindicare la capacità di supremazia delgruppo che lo ha catturato, o costituirela presenza del bottino di guerra -schia-

vi, bestiame- alle danze di successo,oppure suggerire la sottomissione delcatturato ad un culto a lui estraneo -unanimale siede infatti al centro dei dan-zatori-, oppure ancora vederlo sottopo-sto ad un ruolo attivo in un rito, forseanche come vittima -in parallelo con ilbovino-. L’animale totemico al centrodel coperchio non sembra tanto unascultura quanto un animale vivo, conuna catena che lo cinge al collo20.Appare forse possibile –sulla scorta diquanto riportato sulla connessione psi-cologica tra guerra e festa- che si trattidi una attestazione del passaggio dai ritisacrificali totemici più primitivi ad unapiù complessa attribuzione del ruolo divittima ad altre figure – l’animale dasacrificio, il prigioniero, il nemico-all’interno di una festa guerresca diunione ed esaltazione collettiva operatadai maschi della comunità.Sembra di cogliere, nell’evolversi delleattestazioni iconografiche etrusche, unpercorso ideologico delle danze armate,che da rito comunitario e sacro -attra-verso le scene della situla di Plikasna daChiusi oggi al Museo di Firenze e dellapisside della Pania da Chiusi, sino alleraffigurazioni nelle tombe dei Pirrichi-sti (500 a. C.) e delle Bighe (490 a. C.) aTarquinia- vanno ad assumere semprepiù le caratteristiche di forma spettaco-larizzata di una delle componenti dell’i-niziazione maschile all’uso delle armi.Col tempo infatti la danza in armi etru-sca appare avulsa dalla partecipazionedi sacerdoti21, e ricorda piuttosto gli

esercizi d’addestramento e le danzefunebri della Grecia, condotti appuntoda giovani in età di preparazione mili-tare22. Col VI e V sec. a. C. la danza inarmi, conservando l’aspetto coreografi-co delle movenze, diviene infatti inEtruria una rappresentazione spettaco-lare durante le feste e gare funebri, checomunque conserva un valore ritualeguerriero: essa viene eseguita -nellaTomba delle Bighe a Tarquinia- neipressi della statua di culto di una divini-tà guerriera armata di lancia, cui sifanno onori presso un’ara (si ricordi chenella Curia Saliorum, con l’introduzionedel culto iconico, era conservata la sta-tua di Marte armato di lancia, e che iSalii per Servio -Aen. VIII, 285, “circaaras saliunt et tripudiant”). Essa è comun-que, ormai, una delle discipline cuisono dediti i giovani nel periodo premi-litare, assieme a quelle più strettamentesportive, che non mancano mai diaccompagnarla nelle pitture delletombe a camera. La cerimonia saliare,nel corso della quale si purificavanotutte le armi della comunità per render-le religiosamente idonee alla guerra,non fu dunque che una delle attività delmondo antico che attestano il legametra sfera del sacro ed armi23.I rituali che nella Roma della prima etàdel ferro segnavano l’apertura della sta-gione militare erano completati, il 23marzo, dal Tubilustrium, cerimonia in cuisi aveva -come il nome lascia intendere-la lustrazione o purificazione sacra delletrombe di guerra. E’ degno di rilievo

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ricordare che proprio agli Etruschi siattribuiva nell’antichità l’invenzionedella tromba, fatto che potrebbe indica-re l’uso anche presso l’Etruria villano-viana di riti di lustrazione di strumentisonori. Plinio (Nat. Hist. VII, 56) ricordache “Piseo il Tirreno (inventò) la trom-ba di bronzo”, Pausania (II, 21, 3) ripor-ta che “Tirseno per primo inventò latromba”. Igino (Fab. 274, 20) narrainvece che “Tirreno figlio di Ercole perprimo inventò la tromba per questaragione, che mentre i suoi compagni sinutrivano di carne umana, per la lorocrudeltà gli abitanti della regione fuggi-rono all’interno. Allora egli (...) suonò laconca traforata e chiamò all’adunata il

paese. Fu giurato di seppellire i morti edi non mangiarli, e la tromba si chiamòil «canto tirreno»“. Anche Diodoro (V,40, 1) parla di “salpinx tirrena”. Il“suono tirreno” era dunque quello delletrombe per antonomasia. Tra le altre fonti abbiamo Lattanzio(Comm. in Stat. Theb. VI, 404): “il rumoretirreno: significa la tromba, la qualeinventò per primo Piseo, l’imperatoredei Tirreni”; ed anche S. Isidoro di Sivi-glia (Etymol. III, 21, 3; XVIII, 4): “Tuba:per la prima volta fu inventata dai Tir-reni, intorno ai quali Virgilio, Aen. VIII,526: «Ed il suono tirreno della tromba mug-gire per l’aria» (...) la tromba per primil’hanno inventata i Tirreni, da cui Virgi-

lio «Ed il suono tirreno muggire per l’aria»:questa infatti fu inventata dai pirati tir-reni, quando, essendo dispersi per lesponde del mare, non era facile loro diconvocarsi con la voce o col corno diconchiglia, poiché il vento spesso copri-va il suono”.Oltre a Tirreno e Piseo, altro ipotetico eleggendario inventore etrusco dellatromba fu, per Lattanzio (Comm. in Stat.Theb. IV, 224) “Malea: Malea re degliEtruschi, il quale per primo ha inventa-to la tromba. Egli, mentre esercitava lapirateria e il mare era flagellato dalletempeste, si insediò su questo monte,che dal proprio nome chiamò sia Apol-lo Maleotico, sia il monte Malea”.

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Il cinerario dell'Olmo Bello da Bisenzio nel suo insieme e, a destra, un dettaglio del grupporaffigurato sul suo coperchio, intento ad una danza o processione attorno ad un animale totemicoRoma, Museo di Villa Giulia

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Al “suono tirreno” dell’Eneide, ed allegame delle trombe, in Etruria, con laguerra, si riferisce anche Servio che, nelsuo commentario (Aen. VIII, 526), anno-ta: “Ed il suono tirreno muggire attraversol’aria. Tirreno suono della tromba disse,perché è noto che la tromba fu inventa-ta presso gli Etruschi. Dunque «il suonotirreno», suono delle trombe tirrene. Ebene con gli auspici convenienti siannunzia la guerra, per mezzo delsuono delle trombe”. Anche Stazio (The-bais, III, 648; VI, 404; VII, 630) scrisse:“il tuo furore faccia tale augurio a te solo,affinché conservi anni vuoti senza gloriae il suono tirreno mai suoni attorno alletue tempie (...) Incontro suonò il rumo-re tirreno, e tutti saltarono dal posto (...)Voi Muse avete visto infatti (le lotte attor-no a Tebe) mentre nella vicinanza diMarte i plettri d’Elicona si inorridisconodello strepito tirreno”.Notizie tecniche più utili ci provengonoda Polluce (Onomast. IV, 84) il quale rile-va che “anche la tromba appartiene aglistrumenti a fiato, ed è invenzione dei

tirreni; la forma retta o curva, la mate-ria il rame e il ferro, la linguetta d’osso(...) Serve anche per accompagnare leprocessioni e le funzioni sacre ed i sacri-fici presso gli Egiziani, gli Argivi, i Tir-reni ed i Romani”.Dunque per “tromba tirrenica” si inten-devano strumenti a fiato sia retti checurvi, realizzati per lo più in metallo(ferro o bronzo, presumibilmente); essiusavano forse un bocchino o un’anciasingola d’osso (la “linguetta d’osso”),anche se l’identificazione del pezzo èdubbia24. Peraltro, lo stesso Polluce (Ono-mast. IV, 76) ricorda che “i Tirreni usanoanche suonare il corno”; che con “corno”si indicasse uno strumento diverso dalletrombe si ricava da Ateneo (Deipnosoph.IV, 187) che dice come “i corni poi e letrombe sono invenzione dei Tirreni”.Passando al riscontro sui materialiarcheologici, per il vaglio dell’ipotesisull’uso di trombe e strumenti a fiato perla guerra già nell’Etruria villanoviana, ireperti di maggiore antichità sembranorisalire alla prima metà dell’VIII sec. a.

C., se si vuole intendere come tromba ilreperto della tomba tarquiniese n. 1 diPoggio dell’Impiccato. Al suo interno,come si è venuto rilevando nel capitolosugli elmi della prima età del ferro fuinfatti trovato -con un cinerario, unelmo crestato, una spada, ornamentipersonali, vasellame ed aes rude- unagrossa conchiglia di Charonia Nodifera,troncata all’apice per poterla usare comestrumento da impiegare, vista la caratte-rizzazione militare del defunto, in guer-ra25. La conchiglia di Charonia Nodifera,il più diffuso grosso gasteropode delMediterraneo, rimanda esattamente adalcune delle fonti citate, che parlano delprimo strumento usato da Tirreno comedi una “conca traforata” (Igino, cit.).Esemplari recenzioni -ma atti comun-que a testimoniare il valore ideologicodella tromba sino dalla sua comparsa-risalgono ormai alla seconda metà delVII sec. a. C.; si tratta dell’elegantecorno musicale in avorio, dalla TombaBarberini di Palestrina (oggi al Museo diVilla Giulia a Roma). Il canneggio,

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A sinistra, il lituus rinvenuto all'ingresso dell'area sacra dell'abitato della Civita di Tarquinia - Roma, Museo di Villa Giulia; a destra, il corno da guerradalla necropoli di San Cerbone a Populonia - Firenze, Museo Archeologico Nazionale

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lungo 40,5 cm, ha forma conica ed èdebolmente curvo. Decorato con incisio-ni, intarsi ed incrostazioni di ambra,reca, all’imboccatura, delle tracce di ossi-do, dalle quali si desume che esistesse unbocchino necessario al funzionamentodello strumento26. Probabilmente simileera il coevo corno in avorio dal Tumulodei Carri di Populonia, della prima metàdel VII sec.a.C. e di produzione etrusco-laziale27 o etrusco-fenicia28, del qualesono stati recuperati dei frammenti ealcune delle cerchiature in oro lavorate abulino, tra cui uno degli anelli di soste-gno29. Sebbene alcune ipotesi identifi-chino tale oggetto in un corno potorio,la stessa tomba populoniese contenevaun altro corno, in bronzo, integro e com-pleto, di proporzioni maggiori dell’e-semplare di Palestrina. Questo, realizza-to in un sol pezzo, aveva un bocchino,integrato al canneggio, di forma ellissoi-dale; il tubo era piuttosto curvo (circa unquarto di cerchio) e di forma conica30.Sulla base della documentazione icono-grafica presente nell’intero arco dellaciviltà etrusca l’uso delle trombe sembraessere stato improntato, in Etruria comepresso altri popoli coevi, alla funzionedi segnale, in primis bellico (ma anchecivile). In tal senso concordano con l’i-conografia anche le fonti letterarie lati-ne, le quali, oltre a quelle già citate,ricordano (Diodoro Siculo, V, 40) comegli Etruschi “inventarono la cosiddettasalpinge utilissima nelle guerre, e da lorochiamata tirrena”; inoltre Servio comesi è visto specifica che “bene con gli

auspici convenienti si annunzia la guer-ra, per mezzo del suono delle trombe”:la tromba era dunque il suono che, ceri-monialmente, segnalava l’apertura diuna guerra, e ne accompagnava alcuniaspetti tattici. La sua capacità di chia-mata alla raccolta e di segnale traspareinfatti anche dal citato passo di Iginodove Tirreno “chiamò all’adunata ilpaese”, nonché dal riferito passo di S.Isidoro dove -sul mare- il suono serve asegnalare la posizione e a scambiareordini. Una verifica dell’uso di tali stru-menti ci viene dal confronto -pur lonta-no nel tempo- con l’esercito romano diepoca repubblicana ed imperiale, pres-so il quale gli squilli di tromba avevanoinnanzitutto un uso tattico:

“in battaglia vengono utilizzati tre strumenti: latromba diritta (tuba) è destinata a tutti gli uomi-ni ai quali dà il segnale dell’assalto e quello dellaritirata, come pure della partenza dal campo; lasi ascolta anche nelle cerimonie sacre. Il corno(cornu), che è una tuba ricurva e rinforzata dauna barra metallica (...) in battaglia, esso suonaper i portatori di signa (insegne e vessilli)31”.

L’Ars tactica di Arriano attesta –ormainell’età imperiale- che gli squilli ditromba erano impiegati per iniziare lacarica, ma già in precedenza, per imovimenti della cavalleria, si era fattoricorso a segnali sonori, mettendo afrutto una naturale predisposizione deicavalli ad associare esercizi con talisegnali32.Le trombe non erano tuttavia meri stru-menti per segnali bellici; a Roma

“normalmente, trombe e corni suonano insie-me per avvertire che si deve avanzare verso ilnemico, che si deve venire alle mani, e suona-no in celebrazioni religiose come i suovetaurilia(...) I suonatori di tromba devono purificare iloro strumenti nel corso del tubilustrium33”.

A Tarquinia, nell’area sacra tornata inluce negli scavi dell’abitato, è stato rin-venuto un lituus musicale in bronzo(una tromba diritta ad estremità ricur-va) piegato ritualmente e deposto inassociazione con oggetti di uso militare,anch’essi resi inservibili; ciò testimoniasenz’altro una forte sacralità, almeno inepoca etrusca orientalizzante, deglistrumenti musicali per la guerra, pari aquella delle armi34.Per completezza di informazione, e permeglio immaginare le sonorità emesseda questi strumenti nelle operazionimilitari, va ricordato che essi produce-vano più di una nota. Un lituus romano,pur tardo, rinvenuto a Dusseldorf, haemesso durante un esperimento seinote diverse -sol diesis, la, mi, la, do die-sis, re diesis su tre ottave-, ed alcunicorni dell’età del bronzo mitteleuropeihanno dato anch’essi, spesso, più di unanota, con sonorità piuttosto inconsuetema sempre di particolare potenza35.L’effetto psicologico -sulle truppe ami-che e sulle truppe nemiche- era, conquello di segnale, uno dei motivi princi-pali dell’utilizzo della tromba in guerra:i passi letterari citati intendono infatti il“suono tirreno” -similmente alle gridadi guerra- come un suono terrificante,come un verso animale, in assonanza

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con quanto lo stesso Cesare avrebbescritto più tardi: “non è senza motivo aifini di deprimere il nemico e animare leproprie truppe, che le trombe suoninod’ogni parte e i soldati gridino36”. “E’noto che, subito dopo il lancio di proiet-ti in distanza (pietre, frecce, giavellotti)l’esercito romano alzava un grido, unimmenso clamore (...) queste grida rive-stivano per gli autori antichi una gran-de importanza: esse infatti dovevanorafforzare il coraggio di quelli che lelanciavano e spaventare quelli che lesentivano37”. Anche nella Grecia deglieserciti oplitici le grida di guerra38 e lamusica accompagnavano il cozzo dellefalangi, come faceva il “terrificante (...)suono dei flauti spartani che segnalavaalle prime file dello schieramento nemi-co (...) l’inizio della loro lenta e spaven-tosa avanzata39”. Di tale avanzata, pre-corritrice di quella degli Highlanders edelle loro cornamuse, ci narra Plutarco(Lyc. XXII, 2-3): “Era uno spettacolograndioso e insieme terrificante vederliavanzare al passo cadenzato dei flautisenza aprire la minima frattura nelloschieramento o provare turbamentonell’animo, calmi e allegri, guidati alpericolo dalla musica”.Ricercando le fonti psicologiche di taleusanza di grida, suoni e segnali intesi adintimidire si trova che

“all’origine del fenomeno si collocano dueaspetti fondamentali dell’esistenza dell’uomo«barbarico»: l’istintività animale e la ritualitàcollettiva. In guerre che, per ragioni culturalied ambientali, non possono che essere scontri

di piccoli gruppi, l’efficacia del singolo, il suosprezzo del pericolo (spinto fino alla più totaleincoscienza) sono componenti fondamentalidella vittoria. Siamo ad un livello di scontro tipi-co di società arcaiche, scarsamente articolate,nelle quali la coscienza individuale del guerrie-ro è plasmata dalla volontà del branco, in cui è«marchio d’infamia e di vergogna per tutta lavita ritornar salvo dal combattimento quando ilcapo è caduto». Accanto ai riti e agli oggettimagici propiziatori (...) troviamo l’urlo. Urloche esalta la ferinità, che ottunde la mente, cheannulla la paura dell’istante cruciale. Ma ancheurlo che gela il sangue del nemico, che gli anni-chilisce le sue possibilità di reazione.La voce diviene quindi strumento, arma, e cometale è soggetta a sviluppo. Dapprima è sola, poiamplificata dal corno (o da altri strumenti affini,a seconda delle popolazioni), il cui suono imita,a volte meglio della stessa voce umana, il versoanimale, esaltando la ferinità del guerriero; lasua potenza atterrisce il nemico avvolgendolo inuna continuità sonora impraticabile con le solecorde vocali. Ma nel corno è racchiuso qualcosadi più che non la semplice “elaborazione” delsuono vocale: in esso vi è il distacco dal corpo, ilgesto mediato, segno di umanità. E con essoarriva la prima rudimentale forma: il richiamo,l’eco, la risposta. Il branco si organizza e il guer-riero si evolve aggiungendo un’altra protesi alproprio corpo40”.

Tornando alla successione di festeromane d’apertura della stagione belli-ca, tutta la serie delle cerimonie fin quielencate -Equirria, Quinquatrus, Tubilu-strium- era, nel suo complesso, quantonecessitava perché l’esercito della proto-storia -la comunità in armi- fosse nellecondizioni religiose idonee ad intra-prendere una possibile guerra. Lanecessità di purificare le armi dellacomunità, riunite a Roma nel Comizio

durante il Quinquatrus, assolve, nel suosignificato più profondo, a fare del com-battente una sorta di “sacerdote offi-ciante il giudizio di dio”. Specialmentenelle comunità della protostoria e del-l’antichità

“il conflitto si inizia con riti e cerimonie e pre-ghiere di consacrazione e di purificazione. La con-sacrazione è destinata a dotare il combattentedelle virtù che gli occorrono ad attirare su di luila protezione divina e a conferirgli quel cheGranet chiama l’efficacia. Queste cerimoniesono in generale collettive. Vi si aggiungonopoi i riti di purificazione che servono, pure essi,ad accrescere l’efficacia, ma soprattutto sono,in un modo o in un altro, riti funebri anticipati(...) il combattente è ad un tempo il sacrificatore e lavittima eventualmente designata41”.

La cosiddetta “efficacia” del guerriero42

era insomma demandata al complessodei riti di apertura della stagione belli-ca, che aveva il compito di costituire l’at-tivazione psicologica del guerriero.Questa veniva stimolata con segnali esuggestioni di vario tipo (sonore, fisi-che, collettive, cerimoniali ecc.), allequali, come vedremo, si aggiungevanoaltre azioni per la colpevolizzazionedegli avversari. Il peso della ritualità edella religione era determinante perportare a compimento una identifica-zione del singolo combattente con ilvolere del gruppo e degli dèi di riferi-mento: “presso i romani, riti specificisottolineano la sacralizzazione del sol-dato e la sua desacralizzazione quandoabbandona l’esercito43”, segnalandocosì, nel rito, l’apertura di un mondo

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psicologico nuovo, entro il quale l’ucci-sione ed il sacrificio di sé sono ritenutinormali44. Il rito attiva infatti la liceitàdel comportamento e la deresponsabi-lizzazione del singolo: “qualunque sia ilpeso che venga o non venga dato allapulsione aggressiva, essa può sfociare inguerra solo in quanto l’individuo siainserito in un contesto politico-istituzio-nale che lo deresponsabilizza45”. Se Equirria, Quinquatrus e Tubilustriumaprivano la stagione della guerra nellaRoma primitiva, altre feste -simili e con-nesse con gli stessi elementi- ne accom-pagnavano la chiusura nell’ottobre: sitrattava dell’Equus October (il 15 ottobre)e dell’Armilustrium (il 19 ottobre), lequali possono far immaginare consimilicerimonie nell’Etruria protostorica.L’Equus October, simile alle Equirria, con-sisteva essenzialmente in una corsa dibighe dedicata a Marte, e che si svolge-va nel Campo Marzio; il rito tuttaviaprevedeva anche che il cavallo di destradel tiro (quello più forte) venisse sacrifi-cato al dio, e che ne venissero tagliatetesta e coda. La testa

“veniva affissa a una parete, che talvolta era quel-la della Regia (...) ma che non era sempre enecessariamente questa. Per la testa appenatagliata, infatti, si apriva una contesa tra gli abi-tanti del quartiere di Suburra e quelli della viaSacra, e solo in caso di vittoria dei primi la pare-te cui la testa veniva affissa era quella della Regia.In caso di vittoria dei secondi la testa veniva affis-sa alla torre Mamilia. Per la coda, invece, nonv’era contesa alcuna: appena staccata, essa veni-va portata ancora grondante alla Regia, così cheil suo sangue ne bagnasse l’altare46”.

Aldilà di alcuni aspetti cerimoniali e topo-grafici che riferiscono di un’epoca ormaiavanzata (la Regia, l’ara, la Torre Mami-lia), il nucleo della cerimonia può benessere risalente alla prima età del ferro.

“Quale fosse, poi, il valore simbolico dei diver-si atti sacrificali è altro problema, già discussonell’antichità, e al quale possiamo solo accen-nare. In Plutarco leggiamo diverse possibilispiegazioni: secondo una prima ipotesi, il ritorappresentava l’uccisione del cavallo di Troia;secondo un’altra interpretazione il cavallo eraofferto a Marte perché animale particolarmen-te bellicoso e quindi particolarmente gradito aldio; una terza immaginava che il rito simboliz-zasse la punizione di coloro che usavano la loroagilità per prendere la fuga47”.

L’Armilustrium, il 19 ottobre, prevedevala presenza dei Salii che, in quell’occa-

sione, dovevano ancilia condere, appen-dere gli scudi sacri nella loro sede, spe-cularmente all’ancilia movere del Quin-quatrus. Altrettanto specularmente alTubilustrium la purificazione delle armiera fondamentale: “che l’esercito, redu-ce da un paese straniero e protetto daaltri dèi e da altri spiriti che potevanocontaminarlo, si purificasse prima dirientrare tra i suoi, oltre che dalla paro-la armilustrium ce lo indica il fatto che isoldati, che seguivano il carro del ducetrionfatore, portavano corone d’alloro«per entrare in città mondi di sangueumano»48”.Come si è già venuto osservando, lapurificazione era un momento fonda-mentale dell’evento bellico, per la psi-cologia magica dei gruppi antichi:

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I riti della guerra

Note prodotte negli esperimenti su corni antichi: a lituus romano, Dussendorf; b corno dell’età delbronzo, Chute Hall, Irlanda; c corno dell’età del bronzo, Drumbest, Irlanda; d corno celtico,Arbrin, Irlanda; e, f lurer dell’età del bronzo, Brudevaelte, Danimarca; g, h trombe di Tutankha-mon in bronzo e argento. Da Coles, Archeologia sperimentale, cit.

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“i rituali di espiazione, di purificazione, in par-ticolare al ritorno da spedizioni militari, atte-stano da lungo tempo la consapevolezza collet-tiva dell’aspetto trasgressivo della morte recataal prossimo, anche in guerra. I guerrieri nonvenivano reintegrati nella loro comunità senon dopo cerimonie che sancivano la respon-sabilità collettiva delle azioni belliche, di per séindividuali49”.

“La ritualizzazione di un certo numero di com-portamenti bellicosi ha la funzione di sollevareil guerriero -in quanto individuo- dal pesoschiacciante e dai gravi rischi che si troverebbea sopportare se fosse lasciato in una condizio-ne di isolamento. Citiamo ad esempio i riti dipurificazione che precedono il combattimento(...) e quelli che si rendono necessari tra la finedi un combattimento e il momento della rein-tegrazione nella collettività50”.

I riti che seguono la guerra sono statilargamente indagati dagli psicologi, chehanno rilevato come essi “rappresenta-no un’elaborazione del senso di colpasuscitato dall’uccisione in guerra (…)fra i Monumbo della Nuova Guineatedesca, chi uccide un nemico in batta-glia diventa «impuro» come le donnedurante la mestruazione51”. La “socia-lizzazione” dell’atto bellico con la collet-tività, il reinserimento dei guerrieri -edil riconoscimento delle esperienze psi-cologiche subite da essi- sono dunque ifini reconditi dei rituali che risultanobene attestati nella Roma più arcaica, eche possiamo solo intuire in ambientevillanoviano52.Tra marzo ed ottobre, durante la sta-gione che col miglior clima portavaanche frutta, messi e vari raccolti, ave-

vano dunque luogo, di preferenza, leguerre. Se questo periodo dell’annoera infatti quello che preferibilmenteavrebbe dovuto tenere gli uominimaturi al lavoro nei campi coltivati53,era anche quello in cui erano più facilitutte le attività all’aperto, compresaquella bellica; inoltre la presenza di rac-colti nelle terre di confine e nell’agrocircumvicino faceva da stimolo adincursioni, sconfinamenti, sottrazionidi derrate e rapimenti. Al contempo lastagione era anche quella durante laquale nella protostoria le greggi stazio-navano nei pascoli d’altura estivi (tramaggio e ottobre, ma variabile da zonaa zona), in attesa della transumanzaautunnale verso le aree costiere. Come si è già visto, la guerra poteva sca-turire da razzie o da scontri improvvisi edinattesi, oppure essere l’esito finale di unatrattativa, seguente ad una vera e propriadichiarazione di ostilità; in qualunquecaso era comunque necessaria -affinché sitrattasse di un’azione “politica” e non disemplice delinquenza- la volontà colletti-va dell’intero gruppo di entrare in con-flitto con una comunità estranea. Per que-sto dovevano essere necessarie delleriunioni assembleari del capo dellacomunità e dei suoi consiglieri in veste dirappresentanti della popolazione, cheabbiamo visto essere ripartita -almeno aRoma nella prima età del ferro- per curiee tribù, in modo che gli armati acquisis-sero la necessaria determinazione percombattere con convinzione e valore,secondo una prassi presente peraltro

anche in vari popoli primitivi54.L’analisi dei riti e delle formule in uso aRoma nella prima età del ferro per lastipula di alleanze, oppure per il lanciodi ultimatum militari, ci offre un riscon-tro fattivo di notevole interesse attornoa quanto si è osservato sui perché e sullecause delle guerre nella protostoria, ecostituisce un inquadramento ideologi-co e storico per le non documentaterelazioni, in Etruria, tra popoli dellecomunità di insediamenti diversi.A Roma gli specifici addetti a questiaspetti di “politica estera” erano deisacerdoti, i Fetiales, che furono la piùantica istituzione romana di dirittointernazionale, e che ricordano similipersonaggi attestati presso vari popoliprimitivi55. Abbiamo visto infatti comele guerre avessero una forte valenza reli-giosa, ed al contempo

“non esiste conflitto che non abbia un aspettogiuridico (...) Come non c’è società, per quan-to primitiva possa essere, che non abbia a suabase una dottrina giuridica, così non c’è guer-ra senza regole, incerte o precise, che presie-dano alla sua dichiarazione e alla fine delleostilità. Anche presso i popoli primitivi, laguerra è un contratto disciplinato sempre daleggi o da usanze. La dichiarazione di guerrasegna l’entrata in vigore di uno stato giuridicoparticolare. Comincia da quel momento unnuovo ordine di rapporti che dura fino allaconclusione della pace. Nelle civiltà arcaiche ildiritto è inseparabile dalle varie forme delculto. Generalizzando, si può affermare che intutte le società il diritto è inseparabile dalle cre-denze religiose, perché i principi generali, deiquali le leggi particolari costituiscono le appli-cazioni pratiche, fanno parte di ciò che è con-

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siderato sacro (...) Lo stato di guerra è uno statosacro. Per gli antichi la sacertà della guerra eradimostrata dall’intervento delle divinità infer-nali e annientatrici. Il combattente è votato aqueste divinità con riti di consacrazione, deiquali le insegne militari, le uniformi eccetera,sono la manifestazione visibile. Quando laguerra è finita, prima di riprendere la sua vitanormale, il combattente deve essere sciolto daquella consacrazione o liberato per mezzo diesorcismi dalle potenze infernali e dal suo statodi impurità religiosa56”.

Proprio per dare risposta a questo gene-re di esigenze spirituali, a Roma

“il diritto di guerra comincia ab initio. E’ undiritto squisitamente formalista, e c’è un colle-gio speciale di sacerdoti, i feciali, che sorvegliala stretta applicazione delle regole. Quel chesoprattutto importa è che la guerra sia dichia-rata secondo i riti. Poco importano il perché elo scopo di essa. Se le forme della dichiarazio-ne di guerra sono minuziosamente rispettate,essa è giusta. Se non lo sono, la inosservanzadei riti la fa ritenere ingiusta, nefasta, votataall’insuccesso e apportatrice di sventure57”,

in un’atmosfera di formalismo religiosoche avrà in Etruria la sua massimaespressione.L’istituzione dei Fetiales è

“attribuita da Livio (XXII,4), da Dionisio(II,64), da Plutarco (Num. 12; Camill. 18) aNuma, da Cicerone (de rep. II, 17) a Tullo Osti-lio, da Servio (ad Aen. X, 14) ad Anco Marzio, alquale, per altro, Livio (...) attribuisce la redazio-ne scritta del ius fetiale. Il collegio dei feziali eracostituito in Roma da venti membri, scelti a vita,mediante cooptatio e avevano triplice funzione:1) condurre le trattative prima dell’alleanza odella guerra; 2) stringere il trattato di pace a

guerra finita; 3) vigilare a che il trattato fossemantenuto (Cic. de lev. II, 21: foederum pacis,belli, indutiarum oratorum fetiales iudices, nuntiisunto, bello disceptanto). I feziali andavano ordi-nariamente in deputazioni di quattro membri,due dei quali avevano incarichi speciali e cioè ilpater patratus (che patrabat «prestava giuramen-to» a nome del popolo romano) e il verbenarius,che portava con sé le sagmina o verbenae, zolle dierba sacra tolte alla rocca capitolina, erba cheaveva valore apotropaico e con cui si toccava lafronte, per allontanare i mali influssi (nel passoliviano -I, 24, 23- il verbenarius tocca con la ver-bena il capo ed i capelli del collega che diventain tal modo il pater patratus)58”.

Altri dati importanti si ricavano da

“due fonti latine antiche sui fetiales, quella delgrammatico Nonio Marcello: «Fetiales apud vete-res Romanos erant qui sancto legatorum officio abhis, qui adversum populum Romanum vi aut rapi-nis aut iniuriis hostili mente commoverant, pignorafacto foedere iure repetebant: nec bella indicebantur,quae tamen pia vocabant, priusquam id fuisset Fetia-libs denuntiatum», e quella assai più nota e altempo stesso problematica di Varrone (De l. l.,V, 86): «fetiales, quod fidei publicae inter populospraeerant; nam per hos fiebat ut iustum concipereturbellum et inde desitum ut foedere fides pacis consti-tueretur; ex his mittebantur antequam conciperetur,qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus,quod fidus Ennius scribit dictum».Dalla testimonianza di Nonio emerge dunqueche i Fetiales avevano il compito giuridico-poli-tico istituzionalizzato, in veste di ambasciatoriufficiali (sancto legatorum officio) di dirimere lecontroversie che insorgevano tra lo stato roma-no ed altre comunità in seguito ad atti di vio-lenza, furti od offese perpetrati ai danni delpopolo romano, pretendendo come risarci-mento (repetebant) in base alla legge (iure)oggetti di garanzia (pignora, che potevano esse-re beni materiali od ostaggi), facto foedere, sin-

tagma ambiguo che possiamo provvisoriamen-te intendere «dopo aver compiuto il foedus»senza indurci a forzare il testo interpretando«dopo aver stipulato un accordo fiduciario». Iltesto in esame trova infatti il suo completa-mento nel pensiero immediatamente successi-vo che si riferisce alla guerra come esitoimmancabile nel caso, senza dubbio frequente,di accordo fallito tra le parti contendenti. Aconclusione dell’enunciato apprendiamo infat-ti che le guerre (bella) che ne potevano conse-guire tra i due popoli non potevano definirsi«legali» (pia nel senso religioso di fas e nel sensogiuridico di ius) se non fossero state ufficial-mente intimate tramite i Fetiales59”.

Il fatto che i Fetiales avessero rapporticon altri simili sacerdoti preposti allostesso ufficio presso altre comunità eche gli accordi stipulati tra questi perso-naggi avessero un valore vincolante intutte le comunità ci induce a ritenereche la presenza di depositari del “dirit-to internazionale” fosse diffusa pressomoltissime popolazioni della prima etàdel ferro. Tale deduzione logica trovaperaltro conferma nelle fonti letterarielatine, che indicano alcune aree etnichele quali condividevano con Roma l’isti-tuzione dei Fetiales:

“fonti storiche varie menzionano i Latini (Liv.I, 32, 11), gli Ardeati (Dionys. II, 72; Serv. adAen. X, 14), gli Equicoli (Dionys, passim), gliAlbani (Liv. I, 24, 4), i Laurentini (CIL, X,797). I romani non avrebbero creato da sé taleistituzione, ma l’avrebbero introdotta nellaloro città durante l’età regia più antica sulmodello di una consimile usanza già presentepresso altri popoli, quali potrebbero essere gliEqui o gli Ardeati (Dionys. II, 72, 1) o i Falisci(Serv. ad Aen. VII, 695) o gli Equicoli (secondo

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una concorde notizia testimoniataci da Serv.ad Aen. 10 -44-, Dionys, II, 72; Liv. I, 32; Aurel.Vict. Vir. ill., 5). Al re di quest’ultimo popolo inparticolare, Fertor Resius, viene attribuita l’in-venzione del ius fetiale (cfr. CIL, I=VI, 1302).Da queste testimonianze ricaviamo che l’areaetnico-geografica cui la tradizione attribuiscepriorità nell’istituzione dei fetiales rispettoall’introduzione di tale uso in Roma è circo-scrivibile con notevole precisione: si tratta del-l’ambiente falisco che si colloca a sud dellazona etrusca e di quella umbra, ad occidenterispetto a quella sabina e a settentrione rispet-to a quella latina60”.

Entrando nel dettaglio, è possibileseguire le prassi ed i rituali coi quali iFetiales61 romani, similmente ad altriloro equivalenti coevi di altre etnie,stringevano alleanza, intimavano ulti-matum e dichiaravano guerra. Livio (I,24, 14-36) ci riporta come i Fetiales agi-rono, sotto il regno di Tullo Ostilio, nel-l’episodio degli Orazi e dei Curiazi, rife-rendo formule precise che, per il lorovalore documentario, preme citare inlatino:

“Tum ita factum accepimus, nec ullius vetustior foe-deris memoria est. Fetialis regem Tullum ita rogavit:«Iubesne me, rex, cum patre patrato populi Albanifoedus ferire?» Iubente rege «Sagmina» inquit «te,rex, posco». Rex ait: «Puram tollito». Fetialis ex arcegraminis herbam puram attulit. Postea regem itarogavit: «Rex, facisne me tu regium nuntium populiRomani Quiritium, vasa comitesque meos?» Rexrespondit: «Quod sine fraude mea populique Roma-ni Quiritium fiat, facio». Fetialis erat M. Valerius; ispatrem patratum Sp. Fusium fecit, verbena caputcapilloscque tangens. Pater patratus ad iusiurandumpatrandum, id est sanciendum fit foedus, multisqueid verbis, quae longo effata carmine non operae estreferre, peragit. Legibus deinde recitatis «Audi»,

inquit, «Iuppiter, audi, pater patrate populi Albani;audi tu, populus Albanus: ut illa palam primapostrema ex illis tabulis cerave recitata sunt sine dolomalo, utique ea hic hodie rectissime intellecta sunt,illis legibus populus Romanus prior non deficiet. Siprior defexit publico consilio dolo malo, tum tu illeDiespiter, populum Romanum sic ferito, ut ego huncporcum hic hodie feriam; tantoque magis ferito,quanto magis potes pollesque». Id ubi dixit, porcumsaxo silice percussit. Sua item carmina Albani suum-que ius iurandum per suum dictatorem suosquesacerdotes peregerunt”.

Si tratta, per quanto riportato, di unaformula “solenne nel suo arcaismo,ricca, come tutte le preghiere, di allitte-razioni (pater patrati populi - palam primapostrema - potes pollesque)62”. Non tutto ilfraseggio cerimoniale, comunque, puòessere riportato; le parti più sacre, noncitate da Livio per preservarle da magieostili, erano tuttavia “carmina”, formuledi andamento metrico.Le parole usate dalle fonti latine per lastesura di patti di alleanza tra popolisono foedus facere, foedus ferire e foedus per-cutere.

“Del resto che i tre moduli sostanzialmenteconsentano nel riferirsi ad un’azione concretaben precisa emerge dai tre «verba actionis» ferire,percutere, facere dei quali i primi due esprimonoun’azione violenta con spargimento di sangue(ferire) fino alla morte di un essere viventepreso di mira (percutere). Siamo indotti pertan-to a ritenre che foedus entri in tali sintagmi conil significato di «vittima sacrificale colpita amorte secondo un particolare rituale». Le fontistoriche confermano queste nostre considera-zioni semantiche e illazioni circa il referente difoedus, fornendoci un quadro straordinaria-mente preciso e dettagliato dei tempi e dei

modi relativi a tale azione rituale. Essa si collo-ca senza dubbio nell’ambito della stipulazionedi un trattato tra due distinti popoli in posses-so della medesima istituzione dei fetiales i cuicapi (patres patrati), cui sono stati delegati pienipoteri da parte delle rispettive autorità politi-che centrali quali il re o il senato, dopo averereciprocamente notificato i rispettivi «pacchet-ti» di proposte, pervenuti ad un’intesa i cuicontenuti, più tardi, a conclusione del cerimo-niale, verranno registrati e sottoscritti daentrambe le parti (cfr. Liv. IX, 5, 4), procedonoal solenne giuramento di ratifica degli accordipresi, che ci è noto, per il «coté» romano, tra-mite Livio (I, 24, 8) (...) A questa precatio segui-va, secondo modalità fortemente connotate sulpiano simbolico, l’uccisione della vittima (por-cum ferire, perfettamente parallelo a foedus feriredove, secondo il ben noto processo di sostitu-zione tipico delle oblazioni violente sacrificali,il porcus è «substituens» di foedus in quanto con-venzionale materializzazione di questo): l’armausata per vibrare i colpi mortali alla vittima erauna pietra sacra (silex, lapis) proveniente daltempio romano, situato sul Campidoglio, diIupiter Feretrius (“scagliatore di fulmini” secon-do il modulo foedus ferire) (...) Prima della sot-toscrizione delle clausole del trattato da partedei fetiales rappresentanti dei due popoli incausa (cfr. Liv. IX, 5, 4) il pater patratus, com-piuto il rito sacrificale, getta via la pietra reci-tando la formula: «si sciens fallo, tum me Diespitersalva urbe arceque bonis eiciat, ut ego hunc lapidem»(...) mentre la medesima cerimonia viene com-piuta dal pater patratus dell’altro popolo (Liv. I,24, 9). Da questi dati emerge la centralità cul-tuale, giuridica e politica del foedus «vittimasacrificale che suggella un patto internazionalemutuamente costituito, accettato tramite solen-ne giuramento e sottoscritto non solo presso iRomani, ma anche presso popoli limitrofi»63”.

L’analisi del termine latino per “pace”,ovvero “pax”, che peraltro ha rispon-

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denze nell’italico, ci offre interessanticonsiderazioni culturali a partire dalsuo etimo: esso deriverebbe infatti dadue radici diverse, una dal significatosemantico originario di “piantare, con-ficcare”, dal cui “fissare, costituire” ecc;e un’altra dal significato originario di“unire, legare, congiungere” i cui deri-vati sarebbero passati dalla culturamateriale a quella etica64.

“Sulla radice *PAK-, che esprime una sferaconcettuale fondamentale dell’etica e dellareligiosità degli antichi Italici (la buona dispo-sizione che lega l’uomo all’uomo e, nell’ambitosacrale, la divinità all’uomo) il latino nel corsodei secoli ha sviluppato (…) una ricca famiglialessicale che, pur conservando tracce dell’anti-co valore religioso, si connota in senso giuridi-co; alla sua base sta originariamente il signifi-cato di «patto, accordo che si fonda sulla buonadisposizione dei contraenti». (…) Per il suo rap-porto con pacisci, «stipulare un trattato», paxindica uno specifico modo d’essere delle rela-zioni fra due o più Stati: la pace deriva e dipen-de dall’accordo di più volontà appartenenti acomunità statali diverse (…) la pax latina indi-ca più semplicemente il presupposto e la pre-messa di un contenuto, piuttosto che il conte-nuto stesso. Perciò i Romani, quando sono inguerra e dichiarano che il loro scopo è quellodi pacem dare, leges paci imponere, pacare, (…)intendono dire che con la guerra mirano a rea-lizzare una situazione di superiorità che con-senta loro di dettare all’avversario le condizio-ni per l’instaurazione di un certo rapporto fraRoma e il nemico vinto. (…) E’ in questo sensoche essi pacem dant ai vinti e la loro pace è con-seguenza delle loro vittorie, senza le quali essanon sarebbe neppure possibile (per i Romaninon è concepibile una pace che tenga dietro asconfitte)65”.

Dunque non con tutti i popoli vicini erapossibile concludere alleanze incruentee trattati66, ed appare chiaro nella Romaantica -come sin dalla protostoria,- i rap-porti esteri fossero stati molte volte costi-tuiti da sole liti per ottenere soddisfazio-ne di un qualche danno subito dallacomunità. Ad opera dei Fetiales

“con la clarigatio si chiedeva soddisfazione (resrepetere) per i torti subiti e la restituzione delmaltolto (oggi noi indichiamo tale operazionecol termine di «ultimatum»). Se dopo trenta-tré giorni i popoli che avevano offeso i Roma-ni non davano le soddisfazioni richieste (necdederunt, nec solverunt, nec fecerunt, cioè «nonrestituirono le cose rubate, non le risarcirono(...), non ripararono ai danni sofferti»), allorasi indiceva, con rito e formula apposita, laguerra67”.

Ecco infatti, ancora nelle originarieparole, la clarigatio che Livio (I, 32, 22-37) riporta come introdotta da Numaattingendo agli Equicoli:

“Ut tamen, quoniam Numa in pace religiones insti-tuisset, a se bellicae cerimoniae proderentur, nec gere-rentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquoritu, ius ab antiqua gente Aequicolis, quod nuncfetiales habent, descripsit, quo res repetuntur. Luga-tus ubi ad fines eorum venit, unde res repetuntur,capite velato filo - lanae velamen est - «Audi, Iuppi-ter», inquit; «audite fines» -cuiuscumque gentis sunt,nominat - ; «audias fas: ego sum publicus nuntiuspopuli Romani; iuste pieque legatus venio verbisquemeis fides sit». Peragit deinde postulata. Inde Iovemtestem facit: «Si ego iniuste impieque illos hominesillasque res dedier mihi exposco, tum patriae compo-tem me nimquam siris esse». Haec, cum fines supra-scandit, haec, quicumque ei primus vir obvius fuit,

haec portam ingrediens, haec forum ingressus paucisverbis corminis concipiendique iuris iurandi mutatisperagit”.

Non sempre tuttavia questa cerimoniaaveva effetto sul popolo ostile, e si giun-geva così alla dichiarazione di guerraufficiale, accompagnata da un rito:

“si lanciava entro il territorio del nemico un’a-sta bruciata in punta col fuoco e intrisa col san-gue o colorata di rosso (sanguinea preusta): cosìsi segnava l’inizio delle ostilità. Questo rito, inquesta forma, ebbe termine quando i Romanicominciarono a portar guerra in territori lon-tani. Rimase però in forma simbolica: i confinidello Stato furono rappresentati da un campo(campus hostilis) presso il tempio di Bellona,dentro il quale si scagliava la lancia e si compi-vano le cerimonie del rituale. Anche nelle for-mule, riportate integralmente da Livio, di que-sti (...) riti, si notino le allitterazioni68”

che sono indizio di alta antichità, forseriferibile ancora ad età precedentiall’introduzione in Italia della scrittura.Così Livio (I, 32, 37-66) spiega con esat-tezza la vera e propria apertura religio-sa del bellum purum piumque:

“Si non deduntur, quos exposcit, diebus tribus et tri-ginta - tot enim sollemnes sunt - peractis bellum itaindicit: «Audi, Iuppiter, et tu, Iane Quirine, diiqueomnes caelestes vosque, terrestres, vosque, inferni,audite: ego vos testor populum illum» -quicumqueest, nominat - «iniustum esse neque ius persolvere.Sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus,quo pacto ius nostrum adipiscamur». Cum his nun-tius Romam ad consulendum redit. Confestim rex hisferme verbis patres consulebat: «Quarum rerum,litium, causarum condixit pater patratus populiRomani Quiritium patri patrato Priscorum Latino-

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rum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dede-runt nec solverunt nec fecerunt, quas res dari, solvi,fieri oportuit, dic» inquit ei, quem primum senten-tiam rogabat, «quid censes?». Tum ille: «Puro pioqueduello quaerendas censeo itaque consentio conscisco-que». Inde ordine alii rogabantur; quandoque parsmaior eorum, qui aderant, in eandem sententiamibat, bellum erat consensum. Fieri solitum, ut fetialishastam ferratam aut sanguineam praeustam ad fineseorum ferret et non minus tribus puberibus praesen-tibus diceret:«quod populi Priscorum Latinorumhominesque Prisci Latini adversus populum Roma-num Quiritium fecerunt, deinquerunt, quod populusRomanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis ius-sit esse senatusque populi Romani Quiritium censuit,consensit, conscivit, ut bellum cum Priscis Latinis fie-ret, ob eam rem ego populusque Romanus populisPriscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinisbellum indico facioque». Id ubi dixisset, hastam infines eorum emittebat. Hoc tum modo ad Latinisrepetitae res ac bellum indictum, moremque eumposteri acceperunt”.

Il fatto che il testo faccia essenzialmenteriferimento, in una frase formulare, allanecessità di guerra giacché gli avversari“non restituirono (delle cose sottratte),non offrirono risarcimento, non ripara-rono” indica che le liti solitamente,come si è peraltro visto in un capitoloprecedente, prendevano spunto da attia danno, oltre che di persone, anche dibeni intesi non come proprietà privatama come proprietà comunitaria delpopolo romano, dato questo che rinviaad una società di tipo protostorico (bendiverse saranno, ad esempio, alcune litidi confine in età storica che, tra Romaed Etruria, vedranno scoppiare delleguerre “private” come quella dell’episo-dio dei Fabii).

Può essere interessante osservare comela connessione tra la guerra ed il pre-tendere qualcosa a risarcimento daqualcuno sia entrata nella sfera seman-tica in più lingue; in tedesco, ad esem-pio, è chiara “la correlazione tra Krieg,guerra, e kriegen wollen, voler averequalcosa da qualcuno. Ich krieg noch wasvon dir, significa tu mi devi ancora qualco-sa, dove krieg suona come Krieg, guerra,Secondo questa etimologia, stare inguerra, significa pretendere qualcosadall’altro69”. L’invasione dello spazio territorialedegli avversari, fatta eseguire dai Fetialesall’asta, era un magico superamento diun limes religioso70 e non solo socio-politico e militare, il cui attraversamen-to ad opera di nemici costituiva unsacrilegio che esponeva questi all’iradegli dèi amici71. Anche per i Greci tra-dizionalmente “la loro terra avìta dove-va a tutti i costi restare vincolata -apor-thetos- e non doveva essere calpestata daaltri che da loro stessi72”. In più, il lan-cio di un’asta priva di un puntale atto afarne una vera lancia evoca un mondomolto arcaico, nel quale si usa ancoral’indurimento del legno col fuoco perricavarne un’arma. Tale valore simbolico dell’infissione dellalancia, che magicamente fissa gli eventi,evoca peraltro un rituale attestato inEtruria pur in epoca ormai orientaliz-zante, in un contesto funerario: in cimaal tumulo di Poggio Pepe a Vetulonia fuinfatti rinvenuto un puntale di giavel-lotto a base ristretta ancora conficcato

verticalmente in uno strato di ghiandefittili, di lamelle d’oro e di ciottoli flu-viali73. La connessione tra il conficcare -lalancia- ed il sancire –una guerra- trovaun riflesso linguistico nelle radici deltermine pax, di cui si è già parlato piùsopra; la connessione tra i due significa-ti non va ritenuta casuale o esclusiva dellatino, se si pensa al rito vetulonieseappena descritto ed al fatto che nell’E-truria storica sono noti riti presso il tem-pio di Northia a Volsinii –in tutto similia quelli nel tempio di Giove Capitolinoa Roma- coi quali il trascorrere deltempo e dell’anno era sancito -fissato-dall’infissione di un chiodo nelle paretidell’edificio sacro. Nel suo complesso l’intero rituale deiFetiales ha

“una sorprendente analogia magica con la pro-cedura degli atti civili del diritto romano. Sol-tanto dopo aver proceduto a questa litis conte-statio danno il via alle ostilità gettando simboli-camente al di là della frontiera delle aste dilegno scelto per il suo color sangue. E’ da quelmomento che le ostilità vengono aperte, comesi dà inizio a un processo che segua il suo corsosotto l’arbitrato degli dèi74”.

E’ stato notato come

“il rito dei feciali romani può essere considera-to un rito di colpevolizzazione del nemico, attraver-so una vera e propria litis contestatio, alla qualeveniva chiamato come testimone tutto il creato(dei, piante, animali, uomini, magari passantiignari). (…) La riflessione psicoanalitica sullacerimonia dei feciali ci suggerisce che la fanta-sia ad essa collegata può essere così espressa:«Sia ben chiaro a tutti –al mondo terreno e

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ultraterreno- che il nemico è nel torto –che ècioè cattivo». La formula rituale è infatti «Se ilmio ricorso alle armi è ingiusto, che io nonveda più la mia patria». (…) La colpevolizza-zione del nemico sembra pertanto di impor-tanza fondamentale per evitare il senso dicolpa che la guerra provoca nell’uomo e segnaun momento essenziale nella vicenda di rottu-ra tra tempo di pace e tempo di guerra, nellacerimonia di apertura del mondo psicologiconuovo instaurato dalla guerra. Dopo tale ritol’omicidio, il saccheggio, il ratto e lo stuprodiventano leciti, per un periodo determinato.Da quel momento gli uomini accettano di daree di ricevere la morte violenta e di cercare diimpossessarsi dei beni dell’avversario con laviolenza, come di mettere a repentaglio il pro-prio, come se, benché eluso attraverso la proie-zione, il sentimento di colpa implicasse tuttaviameccanismi autopunitori. L’istinto di conserva-zione entra pertanto in crisi o meglio in unavicenda drammatica governata da un mani-cheismo radicale, regolato dalla scissone delmondo in amico e nemico75”.

Il rituale rendeva quindi giusta la guer-ra, secondo una esigenza che l’uomo siè sempre posta e che -pur variando neltempo alcune motivazioni giustificati-ve76- ha sempre visto tra le guerre giu-ste “quelle che noi combattiamo perdifenderci, oppure per riprenderci coseillecitamente rapinateci, oppure ancoraper vendicare le ingiurie, che siano digrave nocumento a noi e alla nostrapatria e che l’avversario rifiuti di ripara-re”: queste parole non sono una ulterio-re traduzione del formulario dei Fetiales,ma quelle scritte nel novembre 1375 daColuccio Salutati, cancelliere dellaRepubblica Fiorentina, estremamentesimili anche a quelle di Matteo Palmie-

ri, nei primi anni Trenta del XV secolo:la guerra giusta “maximamente si faper racquistare le cose che ingiustamen-te fussino state occupate da’ nostri nimi-ci; fassi ancora per difesa delle nostrecose et per vendicare la iniuria che vio-lentemente ci fusse stata recata, acciòche la pubblica degnità si conservi77”.E’ il caso di ricordare che l’inizio dellaguerra, accompagnato dal citato ritualedei Fetiales, non poteva accadere in ungiorno infausto o senza l’accordo deglidèi (testimoniato in età più tarde dallapresenza degli auspici degli àuguri)78.La definizione di fas o non fas dei giorniera legata al calendario, ed era in realtàmolto varia per sfumature. Senza entra-re nella descrizione dettagliata delcalendario romano79, è solo il caso diricordare che esso (nel I sec. d. C., macon riferimenti che rimandano all’etàmonarchica) su 365 giorni ne prevede-va 46 fasti, 184 fasti con possibilità diattività civica, 58 nefasti, 66 nefasti afine di gaudio e 11 solo parzialmentefasti nell’arco della giornata; inoltre vierano anche altri giorni colpiti da limi-tazioni e interdizioni religiose80.Una volta dichiarata la guerra, le ostili-tà, secondo quanto si è osservato riguar-do le tattiche di combattimento, si evol-vevano con battaglie e scontri di teatro,se non fino alla totale cancellazione diuna delle comunità ostili, con l’azionedi tutti gli adulti iniziati all’uso dellearmi. Alcuni miti italici e gli usi di alcu-ni popoli primitivi odierni indicano tut-tavia che potevano esistere anche delle

competizioni incruente e delle guerresimboliche, dichiarate o meno.Un primo modus di “scontro ritualizza-to”, di fatto quello più incruento, era loscambio di doni tra capi rivali, fatto tipi-co di vari popoli primitivi -peraltro pre-sente anche oggi- nello stato di pacearmata. Punto focale di questa prassi

“è il più delle volte, il dono, fatto con atto solen-ne, di considerevoli ricchezze regalate da uncapo al suo rivale allo scopo di umiliarlo, di dif-fidarlo e di obbligarlo. La persona cui il dono èofferto non può non mostrare l’umiliazione cheprova, non può non capire il significato di sfidache ha il dono e l’obbligo che assume accettan-dolo. Passato un po’ di tempo, dovrà risponde-re con un suo (dono) di maggior valore del pre-cedente: deve rendere a usura81”.

Questa “offerta esagerata che conferisceal donatore (...) che abbia l’ultima paro-la, rango e prestigio82” è riconoscibile,nella protostoria italica, nel circuito discambio di doni che tocca alcuni indivi-dui delle comunità già dall’età delbronzo -secondo quanto dimostrano icorredi funebri con oggetti di pregio eproduzione non locale-, per crescere sulpiano quali-quantitativo e nella diffusio-ne sociale dal villanoviano maturo e,principalmente, dall’orientalizzante.Oltre ai “doni di rivalità”, detti anche inantropologia potlach, esistevano altrerivalità ritualizzate, basate comunque sucostumi di dissipazione tipici di popoliprimitivi, ovvero sulla distruzione solen-ne di ricchezze83; le stesse feste comuni-tarie redistributive aperte ai popoli vici-ni, anche se non se ne hanno articolate

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attestazioni ma solo accenni nell’Italiacentrale protostorica84, potevano avere,come è stato osservato in vari popoliprimitivi, una funzione

“di strumenti di regolazione destinati a trasfor-mare i conflitti potenziali in competizione con-trollata per l’acquisizione del prestigio (...)Infatti alle grandi feste organizzate da un capopartecipano, con il loro seguito, i capi dei vil-laggi con i quali egli intrattiene rapporti (...) Mala festa è anche una dimostrazione di ricchezzae di forza data a nemici potenziali: capi nei con-fronti dei quali esistono motivi di rivalità o ran-core (...) un capo (...) esibisce anche il potere ela ricchezza di cui dispone per ridefinire a pro-prio vantaggio i rapporti con i potenziali nemi-ci, in questo modo le feste redistributive costi-tuiscono le mosse di un grosso gioco politicobasato su un sistema di regole condiviso da tuttie scandito dall’alternanza di scontri armati esfide ritualizzate. Il gioco si struttura come unprocesso di comunicazione al cui interno (lefeste) rappresentano messaggi attraverso i qualiogni contendente informa gli avversari dellaconsistenza delle proprie forze85”.

In altri casi lo scontro fisico avvenivarealmente, ma poteva essere “ritualizza-to” assumendo una dimensione circo-scritta; oltre al metodo dello “scontro dicampioni” (quale quello tra Orazi eCuriazi, o tra Turno ed Enea nel XIIlibro dell’Eneide) potevano essere pre-senti, secondo usi attestati in popoli pri-mitivi ma non documentati nell’Italiacentrale protostorica, le prassi di duellicon lotta a mani nude tra guerrieri, o dibattaglie in campo aperto in cui si arre-stavano i combattimenti non appenauna delle due parti accusava le prime

perdite86. Tra i numerosi esempi conte-nuti nell’etnografia87, si ricordano gliscontri ritualizzati dei Murngin dell’Au-stralia, e quelli riccamente descritti daEibl-Eibesfeldt dei Durgum Dani e degliTsembaga della Nuova Guinea88; inoltre

“un duro allenamento alla corsa, al salto e allascherma preparava il guerriero chuckcheedella Siberia al «tipo di combattimento che loaspettava: il duello dei campioni e quello dimassa». Era anche possibile che prima delloscontro di contingenti limitati si prendesseroaccordi; questo accadeva, ad esempio, fra imalesi, in cui le faide fra clan venivano risoltecon il duello o con battaglie che si svolgevanoin tempi e luoghi prestabiliti. Analoghe batta-glie in forma di duello si verificavano fra le pic-cole tribù zulù nel periodo in cui ancora laguerra presso di loro aveva un carattere inqualche modo dilettantesco (…) Anche fra gliabitanti degli altopiani scozzesi esisteva qualco-sa del genere, ovvero l’abitudine di affidare lecontese a gruppi scelti di spadaccini o anche auna sola coppia di rivali89”.

La leggenda degli Orazi e Curiazi (LivioI, 24), cui si è già fatto più volte riferi-mento, narra appunto di come i re diRoma e di Alba, all’epoca di Tullo Osti-lio, si fossero accordati perché tre guer-rieri per parte si scontrassero in rappre-sentanza del loro popolo. “Il comandosarebbe andato là dove sarebbe andatala vittoria (...) Prima che si affrontassero,fu stretto un patto tra Romani ed Alba-ni con queste condizioni, che, di qua-lunque popolo fossero stati i cittadiniche avrebbero vinto questo confronto,quello avrebbe comandato senza conte-se sull’altro90”.

Lo scontro nella narrazione si arricchi-sce di un particolare alone di parità -nonché di limitata ostilità col popoloalbano- nel constatare che “per caso neidue eserciti si trovavano allora duenuclei di tre fratelli gemelli, non diversiper età e forza (...) tuttavia resta incertodi che popolo fossero gli Orazi e diquale i Curiazi”.E’ interessante rilevare come questometodo di soluzione delle contese, attoa limitare lo spargimento di sangue, siaattestato largamente su tutte le spondedel Mediterraneo, dagli inizi del III mil-lennio alla fine del I. Infatti

“si constatano scontri di campioni alla presenzadei rispettivi eserciti, di solito preceduti da unoscambio di insulti sia tra loro che tra le due col-lettività nemiche. L’arco di tempo va dalla pro-posta fatta dal signore di Aratta a Emmerkar diUruk (...) allo scontro tra Quinto Pompeo Nigroe Antistio Turpione durante la seconda campa-gna iberica di Cesare nel 45. Di questi duellisono state avanzate diverse interpretazioni. PerJ. J. Gluck si tratta di una preparazione alla bat-taglia, nella quale gli insulti -spesso di marcasessuale- ed esempi di coraggio individualemirano a suscitare l’ardore in milizie poco por-tate a battersi (...) Invece, per la maggioranzadegli studiosi, il motivo va cercato in un mutuoaccordo tra le parti o i capi a confronto, deside-rosi di limitare lo spargimento di sangue91”.

Oltre ai casi di singoli duelli risolutori,di cui alcuni di età omerica92, si cono-scono in Grecia diversi casi di controllodegli scontri e di limitazione dei dannida essi arrecati; ad essi fa riferimentoanche Erodoto, che riporta episodigreci del VI sec.a.C.; si tratta di casi in

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cui “in uno spirito giuridico, si mettonoalle prese gruppi di pari numero: quel-lo, per esempio del VI secolo tra Spar-tani e Argivi a proposito della regione diTirea, con 300 uomini per parte93”. Anche se tali prassi non si possono dirediffuse, è degno di considerazione che, apartire da un’epoca imprecisabile vicinaall’inizio dell’età del ferro, anche nell’Ita-lia centrale si potesse stringere un accor-do tra due popoli inteso a garantire lasupremazia a quello che sarebbe risultatovincitore di un duello tra campioni. Ciòinfatti indica un buon livello di sviluppodelle capacità di mediazione nella “politi-ca estera” degli ambasciatori, ed uno deimezzi per la crescita demografica nei cen-tri protourbani della prima età del ferro,prevedendo un sinecismo “pacifico” enon necessariamente forzoso94.Nel caso dei popoli albano e romano,legati da una antichissima relazione dicui è abbondantemente nutrita l’Eneide,c’è da pensare che la fusione sotto l’ege-monia principale di uno dei due siastata, di fatto, un episodio del sinecismoche mosse nell’età del ferro inizialevarie comunità di villaggio a fondersi insiti privilegiati. Trattative, comunità ditradizione e di riti, legami di sangue dicui la leggenda ha un riflesso mitologi-co, gettavano dunque dei “ponti” tranuclei insediativi, spingendoli ad unio-ni mediate piuttosto che a scontri totali;in quest’ultimo caso infatti i due popoli,in probabile equilibrio di forze, avreb-bero finito con l’uscirne l’uno distrutto el’altro gravemente compromesso, a

rischio di diventare anch’esso preda diun terzo popolo vicino.Se dunque gli esiti di uno spargimentodi sangue massificato erano sino dalprofilarsi della guerra un pedaggio dapagare più pesante di un abbandonodelle proprie sedi con patti e compro-messi, si optava per la soluzione menograve, peraltro foriera di un irrobusti-mento numerico e territoriale -e secon-do alcuni studi anche genetico- dellacomunità mista derivata, più concor-renziale nei confronti del vicinato. E’ovvio che, perché i patti fossero rispet-tati “cum bona pace” (Livio I, 24, 12), lospirito di onore, di lealtà e di fedeltà airituali e alla religione doveva essere uncaposaldo ideologico della società deltempo, fatto questo che, peraltro, varieosservazioni sull’organizzazione milita-re, sulle armi, sulle tattiche e sull’orditosociale hanno già messo in risalto.Negli scontri militari la supremazia sulnemico era legata, dunque, anche alfavore ed all’aiuto degli dèi, e la prote-zione religiosa era fondamentale al pro-filarsi degli scontri. Si è già fatto cenno alricorso costante, ben attestato nelle fontiletterarie più tarde, relative al mondoetrusco e romano, agli auspici tratti daappositi sacerdoti. Anche se non sihanno precisi documenti per quantoriguarda gli inizi dell’età del ferro nell’E-truria villanoviana, è molto probabileche il controllo di auspici anche a fini bel-lici avesse origini molto antiche, comel’intera mantica etrusca95, e che tutte leazioni religiose necessarie in momenti di

guerra si siano perpetuate fino a conflui-re in una sezione dei Libri Rituales etru-schi di più recente formazione96, doveforse avremmo potuto trovare riti e ceri-monie simili a quelle romane sin quiosservate, relative all’apertura, esecuzio-ne e chiusura delle guerre. Nella Romaprotostorica, così come il reclamo deidiritti “internazionali” calpestati, la for-mazione del calendario adatto alla guer-ra, le cerimonie di purificazione e consa-crazione degli eserciti e le dichiarazioniufficiali di guerra, anche la “consultazio-ne” degli dèi -da avere necessariamentefavorevoli, pena la sconfitta- era unaspetto religioso che rientrava nei ritualiconnessi alle azioni belliche. Questa usanza non appare peraltrorelegata al mondo italico, ma fu unaprassi largamente diffusa nel mondoantico, compreso quello omerico e quel-lo greco: Senofonte riporta esempi intal senso, e precisa: “Gli dèi sono signo-ri delle operazioni dell’agricoltura nonmeno di quanto lo siano nelle azioni diguerra. Coloro che sono in guerra cer-cano di vincere sugli dèi prima di com-battere, e li consultano attraverso isignificati che appaiono dai sacrifici edagli auspici riguardo ciò che devono onon devono fare” (Oec. V, 19-20). InEllade, inoltre, esiste una ricca icono-grafia relativa a scene di lettura degliauspici nel fegato delle vittime ad operadi guerrieri in partenza per il conflitto;sia su ceramiche a figure nere che afigure rosse la scena è sostanzialmentefissa: il combattente, completamente in

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armi, tocca con la destra il fegato dellavittima, sorretto da un giovane, alle cuispalle sovente assiste un anziano97. L’uso di prendere auspici prima di guer-re o battaglie non era diffuso solo nelMediterraneo antico, ma anche pressociviltà molto lontane98 ed in epoche benpiù recenti, come nel Trecento99; tut-t’oggi, presso vari popoli primitivi, pre-sagi e auspici che precedono il combat-timento fissano magicamente il destinoin modo irrevocabile:

“poiché il segno favorevole si è prodotto, lapartita è vinta. Il nemico non sarà battuto; èbattuto. Il Capo ha già ucciso tale e tale Caponemico. Il colpo di lancia che getterà a terral’avversario, non farà che dare l’ultima rifinitu-ra all’avvenimento, che fin d’ora è una realtà(…) la battaglia è vinta; è cosa fatta, e quando,qualche settimana più tardi, la battaglia avràluogo veramente, non sarà, per così dire, altroche una formalità (…) la vittoria non è statasoltanto preparata (…) la decisione ha giàavuto luogo nella regione dell’invisibile (…) Ladivinazione è intesa (…) come il vero possessod’un avvenire già presente100”.

Perché non solo fossero fausti gli dèidella comunità -onorati con le feste dicalendario già ricordate- ma perchéanche gli dèi degli avversari abbando-nassero quel popolo, esisteva -almeno aRoma- un apposito rituale, quello dellaevocatio. Sebbene gli episodi registratidalle fonti letterarie siano tutti di epocatarda e le formule per tale rito faccianoriferimento a città, statue e templi101,l’impostazione ed il concetto fondamen-tale di una tale azione magica volta a finimilitari appare molto arcaico. Infatti

“la evocatio, storicamente attestata in più occa-sioni durante la vita della Repubblica, era unrito antichissimo in cui il generale romano invi-tava gli dèi tutelari della città alla quale avevaposto assedio a lasciare le loro case e ad eleg-gere residenza a Roma, dove templi più degnidi loro sarebbero stati costruiti: esempio parti-colarmente significativo della tolleranza, pernon dire apertura della coscienza religiosaromana verso divinità straniere. Esso è statogiustamente paragonato a un rito analogo pra-ticato fin dal II millennio a. C. dagli Hittiti (...)Il rito era certo una creazione indoeuropea, deltutto opposta al modo di vedere dei popolisemiti che muovevano guerra non solo ainemici ma agli dèi dei nemici. (...) Si trattavaquindi di un votum publicum contenente parti-colari promesse di ricompensa se la preghieraera esaudita. Ma, dietro questo rituale, malgra-do tutte le formule di deferenza e rispetto, siintuisce una minaccia di forza che rasenta lasfera della magia primitiva102”.

Livio (V, 21-23) narra l’evocatio fatta daCamillo sotto le mura di Veio nel 396 a.C., rivolta a Giunone Regina103, conqueste parole:

“Tum dictator auspicato egressus, cum edixisset, utarma milites caperent:«Tuo ductu», inquit, «PythiceApollo, tuoque numine instinctus pergo ad delendamurbem Veios tibique hinc decimam partem praedaevoveo. Te simul, Iuno Regina, quae nunc Veios colis,praecor, ut nos victores in nostram tuaque mox futu-ram urbem sequare, ubi te dignum aplitudine tuatemplum accipiat»”.

E’ stato osservato come il passo, pocopiù oltre, rechi

“l’uso del plurale degli dèi invitati a far partedel bottino e di quelli evocati, mentre nella for-mula rituale si parlava solo d’Apollo per il bot-tino e di Giunone per l’evocazione. Si potreb-

be pensare che, contrariamente a quanto dettonella formula, parecchie divinità siano stateevocate. Forse la spiegazione si può trovare nelpasso seguente (61, 8): «cum iam humanae opesegestae a Veiis essent, amoliri tum deum dona ipsos-que deos, sed colentium magis quam rapientiummodo coepere». (...) Il passo liviano denuncia (...)l’esistenza di un rituale, che egli trasporta nelracconto episodico. Cioè nel rito dell’evocatio cidoveva essere un gruppo, appositamente pre-parato per trasportare la divinità evocata aRoma, che entrava nel suo tempio e, prima ditoccare la statua, un membro poneva alla divi-nità la domanda. Gli altri, scrutando l’attitudi-ne della statua, dichiaravano ad alta voce che ladivinità aveva fatto segno affermativo104”.

Un tale rituale, intriso di concetti estre-mamente primitivi, non sembra esserestato prerogativa esclusiva dei Romani–né dell’antichità105-, infatti

“ nei suoi Satunalia (III, 9) Macrobio forniscedati preziosi sui particolari della evocatio. Questaavveniva, egli dice, quando i Romani riteneva-no impossibile catturare in altro modo una cittànemica. Ma, in ogni caso (...) si sentivano indovere di prendere alcune precauzioni per evi-tar a loro volta di ricevere un simile trattamen-to dai nemici. Perciò la divinità che proteggeval’Urbs Roma e il nome latino dell’Urbs eranotenuti gelosamente segreti. Un tribuno dellaplebe, Valerio Sorano amico di gioventù di Var-rone, subì la massima pena per aver trasgreditola sacra, inflessibile norma del silenzio106”.

Così il rito dell’evocatio “aveva potereirresistibile quando si conosceva il nomevero della divinità da evocare (che spes-so era occulto), onde i Romani tennerosempre celato il nome delle divinitàprotettrici della città e il nome segretodi questa, per non esporla al pericolo di

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evocationes107”, che anche altri popolicontemporanei ai Romani praticavanodunque abitualmente.Un altro rito religioso volto alla vittoriain guerra e di concezione molto primi-tiva, attestato solo nelle fonti letterarierelative a Roma, era quello della devotio,che per certi versi costituiva una formavolontaria di sacrificio umano. Essa

“è attestata solo tre volte, nel 340, nel 295 e nel279, ma (...) di fatto risaliva al passato più remoto.Secondo questo rito, tre membri della famosagens dei Deci si offrirono agli dèi per salvare lacittà. Conosciamo i particolari di questi sacrifi-ci volontari da passi estremamente importantidelle Storie di Livio (Libro VIII, cap. 9, 10) cherievocano le sacre norme del rito primitivo edescrivono la devotio del console Decio nel 340

durante un’aspra battaglia fra truppe romane etruppe latine non lungi dal Vesuvio. Vedendoche la sua ala sinistra stava per cedere di fron-te al nemico, Decio deliberò di «votarsi» per lesue legioni. Un pontefice lo istruì sull’atteggia-mento da tenere: gli fece indossare la toga prae-texta, velarsi il capo e, ritto su un giavellottoposato a terra, recitare una formula ritualisticache cominciava con una invocazione dell’inte-ro pantheon romano. Il console consacrò lapropria vita agli dèi della terra e degli inferi,Manes e Tellus, in cambio della salvezza delproprio esercito; ma nell’offrire se stesso, offrìalle medesime divinità anche gli eserciti nemi-ci. Recitata la preghiera, armato di tutto puntoe a cavallo, si lanciò nelle file latine e, trasfigu-rato dal rito magico, apparve sovrumano, unmesso degli dèi incaricato di espiarne l’ira e diallontanare le sue truppe e volgere contro ilnemico il pericolo imminente. Alla sua vista, ilatini spaventati si diedero alla fuga108”.

Il passo liviano è di notevole interesseper quanto riguarda la conservazionedella formula ritualistica da pronunciare:

“in hac trepidatione Decius consul M. Valeriummagna voce inclamat: «Deorum», inquit, «ope, M.Valeri, opus est; agendum, pontifex publicus populiRomani, praei verba, quibus me pro legionibus devo-veam». Pontifex eum togam praetextam sumere iussitet velato capite, manu subter togam ad mentumexserta, super telum subiectum pedibus stantem sicdicere: «Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona,Lares, divi novensiles, di indigetes, divi quorum es,potestas nostrorum hostiumque, dique Manes vosprecor, veneror, veniam peto feroque, uti populoRomano Quiritium vim victoriamque prosperetishostesque populi Romani Quiritium terrore, formidi-ne, morteque adficiatis, sicut verbis nuncupavi, itapro re publica (populi Romani) Quiritium, exercitu,legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium legio-nes auxiliaque hostium mecum deis Manibus Tellu-

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I riti della guerra

A sinistra, specchio etrusco in bronzo con riprodotto l'indovino Calcante che prende auspici dal fegato di una vittima - Roma, Museo GregorianoEtrusco; a destra, il modello in bronzo di fegato con indicate le sedi delle divinità etrusche, rinvenuto a Decima di Piacenza - Piacenza, Museo Civico

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rique devoveo». Haec ita precatus, lictores ire ad T.Manlium iubet, matureque collegae se devotum proexercitu nuntiare. Ipse, incinctus cinctu Gabino,armatus in equum insilivit, ac se in medios hostesinmisit. Conspectus ab utraque acie, aliquanto augu-stior humano visu, sicut caelo missus piaculum aom-nis deorum irae, qui pestem ab suis aversam in hostesferret: ita omnis terror pavorque cum illo latus signaprimo Latinorum turbavit; deinde in totam penitusaciem pervasit. Evidentissimum id fuit, quod, qua-cumque equo invectus est, ibi, haud secus quam pesti-fero sidere icti, pavebant109”.

Dunque l’offerente, che è al contempoanche vittima sacrificale, compie unacerimonia con parole dettate dal ponte-fice (praeire verba):

“colui che si sacrifica, prima di procedere allapronuncia della formula deprecatoria, deveindossare la toga pretesta (propria del sacrifi-cante), velarsi il capo nell’atteggiamento giànoto dell’orante, tenere di sotto la toga ilmento con la mano (cioè come l’offerente tienela mano sulla vittima), tenersi dritto in piedisopra una lancia (per esprimere materialmen-te quello che intende provocare col suo sacrifi-cio). Compiute queste operazioni passa allaformula di preghiera (...) Il devovente richiamail capro espiatorio, poiché, come questo, vieneprima dell’immolazione caricato dei peccatidel popolo (sicut caelo missus piaculum omnis deo-rum irae, qui pestem ab suis aversam in hostem infer-ret). Risulta così carico di influssi maligni, chetrasferirà, insieme alla sua persona, nel camponemico, recandovi danno e morte110”.

Il rito della devotio, e della trasformazio-ne di un combattente in una pestis, ha ineffetti fortissimi legami con l’antichissi-mo rito del capro espiatorio; quest’ulti-mo rituale peraltro non è solo noto dalrito biblico caratteristico del giorno di

Kippur, ma recentemente è stato rintrac-ciato da Ida Zatelli all’interno del testocontenuto su una tavoletta dall’archiviodel Palazzo G di Ebla, nota come “Ritua-le per il matrimonio del re di Ebla”, data-bile tra il 2400 ed il 2300 a.C., testo cuiseguono cronologicamente altre attesta-zioni di rituali simili presso vari popolidell’Oriente antico111. Raccogliendo sudi sé ogni negatività, come illustra laparte che segue del brano liviano, e dive-nuto “intoccabile” per i suoi commilitonie per gli avversari,

“il devotus poteva essere o uno dei generali del-l’esercito romano, o un soldato semplice cheun comandante avesse scelto. Se non moriva, ilrito non era considerato perfetto, e gli dèidovevano essere placati con sacrifici ed offertesostitutive. In realtà, il devotus diveniva una spe-cie di malattia contagiosa, come risulta dalfatto che Livio lo chiama pestis. Se poi sfuggivaalla morte, atti sacri della massima importanzasi imponevano per purificarlo. Se era un sol-dato, bisognava seppellire una statua alta alme-no due metri e compiere un sacrificio; e a nes-sun magistrato romano era lecito passare sulluogo in cui la statua era stata sepolta. Se eraun generale, non compiva nessun sacrificio népubblico né privato, ma offriva a Vulcano o aun altro dio tutte le sue armi. Era un sacrilegio,per il nemico, impadronirsi del giavellotto sucui il console era rimasto eretto durante ladevotio: ma, qualora se ne fosse impadronito, siricorreva ad uno speciale rito espiatorio inonore di Marte, il suovetaurilia. L’essenza diquesto rito arcaico era quindi che, durante ladevotio, tutti gli influssi benefici del generalepassavano nel telum sotto i suoi piedi, mentreegli attirava su di sé e sulla sua armatura per-sonale tutti gli influssi malefici che minacciava-no le truppe, per poi trasferirli al nemico112”.

La devotio fu un rituale che ebbe unalunga vita nel campo militare, essendoattestato a Roma anche in età imperia-le, praticato come si è detto da ufficialie poi anche da semplici soldati113.Entrambi i riti comunque, e con essi lecerimonie dei Fetiales e gli auspici, assol-vevano sul piano psicologico ad uncompito preciso connesso

“alle modalità in cui la guerra si esplica neipopoli primitivi (…) i processi di identificazio-ne o proiezione di entità illusorie creano la sen-sazione di una potenza molto maggiore diquella che può essere ricavata dalla reale forzadelle braccia e di tale amplificazione illusoriadi forza e di potere partecipano tutti i membridel gruppo. Il poter mettere le numinosepotenze benefiche nel proprio capo o nel pro-prio gruppo e il poter mettere invece quellemalefiche nel gruppo straniero finisce per darealla guerra un preciso carattere rituale di con-trollo delle presenze invisibili. Per quanto delleguerre primitive facciano parte momenti reali-stici, come la difesa o un attacco ad un territo-rio, razzie di schiavi, ecc., questi appaiono tut-tavia largamente interferiti dai prevalenti mec-canismi di regolazione dei rapporti con le illu-sorie presenze invisibili114”.

Nella devotio, ancora una volta, il telumdiventava, da semplice arma, un pegnomagico gravido di significati: “Telo (...)hostem potiri, fas non est” (Livio VIII, 10,44-46). Peraltro, come si è già visto, learmi avevano avuto sino dall’età delbronzo un significato magico, per ilquale venivano deposte in fiumi elaghi115, e come al tumulo di PoggioPepe a Vetulonia, la loro collocazioneassomma valori simbolici e magici116.

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Note

1 In particolare Fornari, Psicoanalisi dellaguerra 1988, cit., pag. 58 e segg.2 Può essere curioso rilevare come peraltrole stagioni primaverile ed estiva siano quelledurante le quali la bellicosità umana apparemaggiore: un singolare studio statistico suiduelli tenutisi nel 1896, dimostrò che ai 37duelli estivi ed ai 24 primaverili, se ne oppo-nevano solo 20 invernali e 22 autunnali. Siveda Jacopo Gelli, Per chi ha da battersi a duel-lo, in “Almanacco italiano 1985”, Firenze,1984, pag. 116.3 Si veda anche in Tao Hanzhang, Sun Tzu -The art of war, Vane, 1993, pag. 21 e 123. 4 Barlozzetti, L’arte della guerra nell’età dellaFrancigena, cit., pag. 41.5 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pagg. 91-92.6 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 195 e 554.7 Hobbs, L’arte della guerra nella Bibbia, cit.,pag. 48.8 AA.VV., Cultura contadina in Toscana - Illavoro dell’uomo, Firenze, 1982, vol. I, pagg.43-44; 64-68.9 Lo Hanson peraltro, pur californiano,vanta con giusto orgoglio di essere la quintagenerazione di farmer della sua famiglia, e diaver trascorso la maggior parte della sua vitaal lavoro nelle terre familiari, con una cono-scenza reale e pratica delle questioni agrico-le. 10 Keegan, La grande storia della guerra, cit.,pag. 128.11 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 44.12 Franco Cardini, La guerra nella Toscanabassomedievale, in “Guerre e assoldati inToscana 1260-1364”, cit., pag. 30.13 Agostino Pastorino, Religiosità romana dalle

Storie di Tito Livio, Torino, 1960, pag. 3; vedianche Filippo Coarelli, Renato Tamassia,L’influsso greco ed etrusco nello sviluppo dei gio-chi e delle gare atletiche nel mondo romano, in“Lo sport nel mondo antico”, Roma, 1987,pagg. 25-26.14 Si veda ad esempio in Eibl-Eibesfeldt, Eto-logia della guerra, cit., pag. 211.12 Pastorino, cit., pagg. 14-15.16 Bartoloni, De Santis, La deposizione di scudinelle tombe di VIII e VII secolo a.C. nell’Italiacentrale tirrenica, cit., pag. 280.17 Cristofani, L’arte degli Etruschi, cit., pag. 38.18 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pagg. 43-44.19 Raymond Bloch, Le origini di Roma, Mila-no, 1977, pagg. 144-145.20 Uno dei più probabili significati profondidi tale messinscena in armi, è quello di unevento collettivo e tribale con cui consentireai guerrieri astanti il “riconoscimento” di sestessi, e della propria esperienza vissuta incombattimento, come componente dellavita dell’intera comunità. Ad esempio la rap-presentazione nelle tragedie greche di figu-re di eroi guerrieri faceva sì che “i cittadiniateniesi, allevati nel culto della virilità, delcoraggio civile e militare (...) si riconoscevano;prendevano, in altre parole, coscienza delfatto che ciò che credevano capitare solo aloro era invece condiviso da tutti gli altri, alpunto che una tragedia poteva metterlo inscena. In questo modo, si sentivano ricono-sciuti dal loro gruppo sociale”. Da Barrois,cit., pag. 72.21 Si veda, per questo distacco dalla sferasacra, anche Mary A. Johnstone, The dance inEtruria, a comparative study, Firenze, 1956,pag. 146.22 Si veda Emile Mireaux, I Greci al tempo diOmero, Milano, 1972, pag. 122. Di taledanmza ellenica ci restituisce l’effetto coreo-

grafico il bassorilievo della fine del IV sec.a.C. esposto al Museo dell’Acropoli diAtene; se ne veda una immagine in Sabati-no Moscati, Vita privata nell’antichità, Milano,1976, pag. 85.23 Anche quanto si è venuto osservando sudeterminate raffigurazioni presenti sui fode-ri di spade di epoca villanoviana sembraribadire, pur con motivazioni e spiegazioni anoi oscure, un legame tra arma e culto. Ci siriferisce in particolare alla “raffigurazioneindividuata sul fodero di una spada villano-viana proveniente da Sant’Antonio di Ponte-cagnano, risalente appunto alla prima etàdel ferro; su questo sono raffigurati, stilizza-ti nel canonico geometrismo del tempo,quattro singolari recinti allineati, all’internodi tre dei quali si trovano dei quadrupedi.Ogni recinto, considerando il disegno unmisto di vedute in pianta (della struttura) edi fianco (degli animali), doveva essere tri-partito, con un vano centrale più vasto e duepiù stretti ai lati, addossati alla parete difondo, mentre sul davanti della struttura siavevano più aperture tra pareti, pilastri ocolonne. Si tratta senza dubbio della piùantica raffigurazione etrusca di una struttu-ra architettonica a pianta tripartita, caratte-rizzata tra l’altro da una singolare divisionedegli spazi che ben ricorda quella molto piùtarda tra cella ed alae templari. Che si trattidi una struttura coperta o scoperta, sacra oprofana, si ha con questo documento la cer-tezza che la pianta tripartita con vani addos-sati al fondo di una struttura preceduta dauna parte anteriore aperta era già presentesino dalla prima età del ferro nell’ideologiaetrusca del costruire: il tempio non è quindidel tutto un’innovazione, ma anzi una con-ferma dell’ascendenza villanoviana sul pen-siero religioso dell’Etruria formata. L’inter-pretazione più probabile delle strutture effi-

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giate sul fodero, che vi riconoscerebbe deisemplici recinti per il bestiame, riproporreb-be un ulteriore legame tra mondo religiosoetrusco e aspetti del mondo pastorale. Talelegame si sommerebbe dunque a quelli giàosservati in precedenza indicando, attraver-so più indizi, come le radici più profondedella fede etrusca siano da cercarsi in parti-colare nell’ambito pastorale dell’epoca acavallo tra l’età del bronzo finale e l’iniziodell’età del ferro”. Da Martinelli, Gli Etruschi- magia e religione, cit., pagg. 143-145, e tavo-la di pag. 144, col disegno del fodero non-ché una ipotesi assonometrica del recintoillustrato.Il fatto che recinti consimili appaiano sunumerosi foderi, anche con rappresentazio-ni all’interno che non sembrano avere sensose non, invece, in spazi aperti, non contrastacol fatto che vari meandri-recinto -ed in par-ticolare quello della spada di Pontecagnano-abbiano particolarità tali da farli identificarecon oggetti precisi della realtà, e non condisegni astratti per riempitivo. In tal senso,infatti, depone lo zig-zag di incerta interpre-tazione che appare lungo la parete di fondodel vano centrale del recinto più grande delfodero, e non sugli altri; esso non si giustifi-ca che con l’intento di rappresentare un det-taglio strutturale -per noi oscuro- di un ele-mento reale.24 Sui sistemi di imboccatura degli stumentia fiato etruschi si veda anche Maurizio Mar-tinelli, Il doppio flauto in Etruria – Un recuperofilologico, in “Kermes”, n. 38, anno XIII,aprile-giugno 2000, pag. 21 e segg. 25 Si veda Mario Iozzo, in Civiltà degli Etru-schi, Milano, 1985, pagg. 57-59.26 Vedi Giuseppe Proietti, Praeneste, in “IlMuseo Nazionale Etrusco di Villa Giulia”,Roma, 1980, pag. 284, n. 396.27 Si veda Aldo Mazzolai, Il Museo Archeologi-

co della Maremma, Grosseto, 1984, pag. 57.28 Si veda in Antonella Romualdi, I veicoli dalTumulo dei Carri di Populonia. Necropoli di SanCerbone, in “Carri da guerra e principi etru-schi”, cit., pag. 161.29 Notizie in Antonio Minto, Populonia, cit.,pag. 119; sull’ipotesi che si tratti di un cornopotorio e non di uno strumento si ricordache, per il Minto, vi era in origine anche unbocchino “conformato a mandorla con foromediano ellissoidale” del quale però non viè più traccia nei magazzini.30 Si veda Minto, Populonia, cit., pag. 127 e,più recentemente, in Romualdi, I veicoli dalTumulo dei Carri di Populonia. Necropoli di SanCerbone, cit., pagg. 160-161.31 Yann Le Bohec, L’esercito romano, cit., pag.65.32 Si veda Hyland, Training the RomanCavalry, cit., pag. 107.33 Yann Le Bohec, L’esercito romano, cit., pag.65.34 Vedi Bonghi Jovino, Chiaramonte Treré,Tarquinia – Testimonianze archeologiche e rico-struzione storica, cit.35 Al riguardo si veda più diffusamente inColes, Archeologia sperimentale, cit., pagg.163-167.36 Moscatelli, Cesare dice, cit., pag. 95.37 Le Bohec, L’esercito romano, cit., pag. 187.38 Grida come “Eleleleu”, o “Alala”; si vedain Hanson, The other Greeks, cit.39 Hanson, L’arte occidentale, cit., pag. 112 ;ed Hanson, The Other Greeks, cit., pag. 275.40 Teo Paoli, Alessio Rinaldi, Il suono dellaguerra, in “Leoni Vermigli e candidi liocor-ni”, Quaderni del Museo Civico di Prato,n.1, pagg. 172-173. In effetti il suono haavuto, sino dalle epoche più lontane, unruolo importante nella guerra, Gli strumen-ti più semplici, quali tamburi e corni, eranostati introdotti per segnali tra le truppe: Sun

Tzu, comandante militare vissuto attorno al500 a. C. in Cina rileva: “Il Libro dell’Am-ministrazione Militare dice «Allorché la vocenon può essere udita in battaglia, sono usatitamburi e gong. Dal momento che le truppeopposte non possono vedersi chiaramentein battaglia, vengono usati vessilli e bandie-re». Adesso, gong e tamburi, vessilli e ban-diere, sono usati per unificare l’azione delletruppe. Quando le truppe possono essereunite così, il coraggioso non può avanzareda solo, né il codardo ritirarsi”. Da TaoHanzhang, Sun Tzu - The Art of War, cit.,pag. 115.Il suono ha comunque l’effetto psicologicodi galvanizzare i combattenti; tamburi etrombe di guerra -e poi molti altri strumen-ti, talvolta combinati in fanfare- sono statiusati in ogni tempo e luogo per risvegliare ilcoraggio nelle schiere ed intimidire quelleavversarie. Al riguardo si veda in Bouthoul,Le guerre, cit., pag. 411.41 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 382; vedianche le pagg. seguenti.42 In parte connessa al morale, che perNapoleone era ciò che conta per tre quartinella guerra. Vedi in Hanson, The OtherGreeks, cit., pag. 279 nota.43 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pag. 45.44 Fornari, Psicanalisi della guerra 1988, cit.,pag. 40-41.45 Battaglia, Psicologia e guerra nel Novecento,cit., pag. 97.46 Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e aRoma, cit., pag. 163.47 Cantarella, I supplizi capitali in Grecia e aRoma, cit., pagg. 165-166.48 H. M. R. Leopold, La religione di Roma,Genova, 1988, pag. 36.49 Barrois, cit., pag. 39.50 Barrois, cit., pag. 173.

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51 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pag. 76-78.52 Infatti allora come oggi “la fine di unaguerra importa gradualmente lo stato dipace: questa (...) implica il ritorno della col-lettività ai suoi valori abituali, ossia agli idea-li e ai divieti che reggono la vita comune (...)Insomma, gli enti governativi (...) sono tenu-ti finalmente, in nome della solidarietànazionale, a fare di tutto per assicurare aiguerrieri, come a tutti i combattenti, unapiena reintegrazione in seno alla collettività(...) Nelle società tradizionali, al termine diguerre motivate da semplici ragioni di pre-dazione, di appropriazione, di sopravviven-za, di ritualità tribale, senza organizzazionené riconoscimento da parte di un corpopolitico, si svolgevano già rituali di reinte-grazione identici, per modalità e funzioni, aquelli delle società moderne”. Da Barrois,cit., pag. 235.53 Sino a pochi decenni fa il ciclo della vitadel contadino prevedeva ancora da novem-bre a febbraio una “ferma” nelle case a riat-tare tutto per la nuova annata imminente.54 Si veda ad esempio in Bouthoul, Le guer-re, cit.,pagg. 60-61 e 125-126.55 Vedi in Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guer-ra, cit., pag. 209 e segg.56 Bouthoul, Le guerre, cit., pagg. 84-85.57 Bouthoul, Le guerre, cit. pag. 85.58 Pastorino, cit., pag. 22. Per altri dati suiFetiales si vedano Liv. I, 4-9; 32, 5; 32, 6-11;II, 4-8; VIII, 39, 14; IX, 10, 2 segg; IX, 5, 3-4; 10, 8; XXI, 45, 8; XXX, 43, 9; XXXI, 8,3; XXXVI, 3, 7; Cic. De off. I, 36; de leg. II,21; Arnob. II, 67; Dion. Hal. II, 73; Val.Max. VI, 6, 3; Plin. NH., XXII, 5.59 Romano Sgarbi, A proposito del lessema lati-no «Fetiales», in “Aevum”, n.1, anno LXVI,gennaio-aprile 1992, pag. 72.60 Sgarbi, cit., pagg. 74-75.

61 Il cui nome alcuni propongono di spiega-re -in relazione col termine foedus, “accordofiduciario”- “come *foediales/*fediales con ilvalore semantico di «garanti» che ben si con-nette con la funzione propria di tale castasacerdotale cui lo Stato romano affidavapieni poteri nella stipulazione politico-sacrale di patti internazionali”; da Sgarbi,cit., pag. 77.62 Pastorino, cit., pag. 22.63 Sgarbi, cit., pagg. 73-74.64 Italo Lana, L’idea della pace nell’antichità,San Domenico di Fiesole, 1991, pag. 55.65 Lana, L’idea della pace nell’antichità, cit.,pag. 56 e pag. 62.66 Dalle Res gestae di Augusto apprendiamoanzi come il tempio di “Giano Quirino, chei nostri antenati vollero che fosse chiusoquando attraverso tutto l’impero del popoloromano vi fosse pace ottenuta con le vittorieper terra e per mare, come si tramanda,prima che io nascessi due volte in tutto fuchiuso a partire dalla fondazione dell’Urbe”.Da Lana, L’idea della pace nell’antichità, cit.,pag. 82-83.67 Pastorino, cit., pagg. 23-24.68 Pastorino, cit., pag. 24.69 Claus-Dieter Rath, in “Perché la guerraoggi?”, cit., pag. 54.70 Per l’importanza della limitatio dello spa-zio si veda Martinelli, La percezione dello spa-zio, cit., pag. 395 e segg.; e Martinelli, GliEtruschi - magia e religione, cit., pag 97 e segg.71 Si veda Le Bohec, L’esercito romano, cit.,pag. 320.72 Hanson, L’arte occidentale della guerra, cit.,pag. 15.73 Talocchini, cit., pag. 42.74 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 343.75 Fornari, Psicoanalisi della guerra 1988, cit.,pagg. 40-41. 76 Si veda Agnes Heller, Guerra “giusta” e

“ingiusta”, in “Testimonianze”, aprile 1991,n. 4 (334), anno XXXIV, pag. 71 e segg.77 Claudio Finzi, La guerra nel pensiero politicodel Rinascimento toscano, in “Guerra e guer-rieri nella Toscana del Rinascimento”, cit.,pag. 133.78 Si veda Le Bohec, L’esercito romano, cit.,pag. 321.79 Su di esso si veda anche Dario Sabbatucci,La religione di Roma antica – Dal calendariofestivo all’ordine cosmico, Milano, 1988.80 Antonietta Dosi, François Schnell, Spazio etempo - vita e costumi dei romani antichi, n.14,Roma, 1992, pagg. 81-82.81 Georges Bataille, La part maudite, Parigi,1949, pag. 81 e segg.82 Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 256.83 Su questi aspetti si veda Fornari, Psicoana-lisi della guerra 1988, cit., pag. 37.84 Qualche segno in tal senso è comunquepresente nella letteratura latina che narraepisodi delle origini di Roma; la stessa festadurante la quale si ebbe il ratto delle Sabinesi presenta come una festa collettiva con lapresenza di più comunità diverse e rivali.85 Scarduelli, L’isola degli antenati, cit., pagg.144-147.86 Si veda in Pinelli, Alla scoperta delle origini,cit., pagg. 156-157, ed in Scarduelli, L’isoladegli antenati, cit., pagg. 168-169.87 Alcuni esempi di popoli primitivi chericorrono a scontri ritualizzati sono in Kee-gan, La grande storia della guerra, cit., pag. 92.88 Si veda Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guer-ra, cit., pagg. 181 e segg; 208 e segg.89 Kiernan, Il duello, cit., pag. 30. Sulle bat-taglie ritualizzate degli zulù si veda ancheKeegan, La grande storia della guerra, cit.,pag. 34.90 Livio, I, 24, 8-12.91 Jacques Harmand, L’arte della guerra nelmondo antico, Perugia, 1981, pagg. 121-122.

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92 Come quello tra Nestore per i Pilii control’arcade Ereutalione, Iliade VII, 132, 150 esegg.; o come quello tra Paride e Menelao,Iliade III, 244 e segg. che doveva decidere lesorti della guerra troiana; per altri esempi siveda in Harmand, cit., pag. 122.93 “Tale prassi vige, nello stesso secolo, nel-l’ambiente etrusco-romano, come confermail combattimento tra gli Orazi e i Curiazi,che consente a Roma di mettere le mani suAlba: l’interpretazione di G. Dumézil, che vivede una messa in scena a posteriori dell’at-tività bellica del re Tullo Ostilio, un mito ini-ziatico per iuvenes, è particolarmente inade-guato, in quanto avulsa dal contesto storico”.Da Harmand, cit., pag. 122. Su “the earlytradition of monomachia or ritualized battlebetween two chosen fighters, the agreementto settle the Argive-Sparta dispute overThyreatis borderland through a matchedbattle of 300 «Champions» si veda ancheHanson, The Other Greeks, cit., pag. 311. E’già stato indicato come in Ellade esistesseroepigrafi di alta antichità secondo le quali, dicomune accordo tra le parti, come nellaguerra della piana lelantica, avvenuta nell’-VIII sec. a. C., era fatto divieto dell’uso diarmi per il tiro a lunga gittata, il cui usoinnalzava pesantemente le perdite.94 Questo nega, per quei tempi, le osserva-zioni di Von Clausewitz, per il quale “sareb-be nel falso chi volesse ridurre la guerra trai popoli civili a un puro atto razionale deigoverni, e vederla sempre più pura da ognipassionalità fino al punto di non aver piùbisogno realmente delle masse fisiche delleforze combattenti, ma solo dei loro rappor-ti; quasi algebra dell’azione (...) Ripetiamodunque la nostra definizione: la guerra è unatto di forza e non c’è nessun limite nell’usodi questa: l’una parte impone la proprialegge all’altra, ne sorge una reciprocità d’a-

zione che, logicamente deve condurre all’e-stremo limite (...) Perché il nemico sia indot-to a fare la nostra volontà, dobbiamo ridur-lo in una condizione più svantaggiosa delsacrificio che da lui richiediamo; gli svantag-gi di questa situazione non possono esseretransitori”. da K. Von Clausewitz, cit., pagg.18-19.L’uso dello scontro di campioni sembrainfatti negare la necessità di una escalationreciproca nell’uso della forza tra contenden-ti; ciò non indica tuttavia che gli antichi fos-sero più “civili” -nell’accezione di Von Clau-sewitz- dei contemporanei, ma piuttosto chetalvolta lo stesso profilarsi di una guerra erauna possibilità “più svantaggiosa del sacrifi-cio che si richiedeva”.95 Si veda in Martinelli, Gli Etruschi - magia ereligione, cit., pagg. 73-74.96 Si veda in Martinelli, Gli Etruschi - magia ereligione, cit., pag. 75.97 Su tale uso e sull’iconografia sulla cerami-ca attica si veda in Lissarrague, L’autre guer-rier, cit., pagg. 55-69.98 Ad esempio anche nella Cina del V sec. a.C., secondo quanto si rileva dall’Arte dellaGuerra di Sun Tzu; si veda Tao Hanzhang,Sun Tzu - The Art of War, cit., pag. 83. Taleuso è comunque presente anche presso varipopoli primitivi odierni presenti in varieparti del globo; si veda ad esempio in Scar-duelli, L’isola degli antenati, cit., pag. 165.99 Si ricorda ad esempio che, nel 1324, larottura di una delle campane che suonavaper raccogliere le milizie di Firenze nel con-flitto contro Pistoia, fu ritenuto “segno dimala fortuna”; su tale evento e sull’impor-tanza della mantica in connessione alleguerre tra Medioevo e Rinascimento si vedain Benvenuti, Papi, “Un palio a femmine mere-trici”. Le campagne “castruccine” nella memoriadi Giovanni Villani, cit., pag. 189.

100 L. Lévy-Bruhl, La mentalité primitive,1922, pagg. 222, 223, 243, 374 ; traduzioneda L. Vivante, L’idea del fato e le precognizioni,in “La ricerca psichica”, anno XXXVI, fasc.2, febbraio 1936, pag. 57.101 Le statue di culto non sono attestateprima del VI sec. a. C., quando il culto eraaniconico, ed assente l’architettura templa-re.102i Bloch, Le origini di Roma, cit., pagg. 134-135.103 Sulla evocatio sotto le mura di Veio e sul-l’assedio di quella città, coi suoi riti e miti, siveda Martinelli, L’Etruria: alle origini dell’asse-diare, cit., pag. 349.104 Pastorino, cit., pagg. 142-143.105 Sulla permanenza dei riti di attrazionedella protezione divina sulle comunità inguerra si veda anche in Martinelli, L’Etruria:alle origini dell’assediare, cit., pag. 349 e segg.106 Bloch, Le origini di Roma, cit., pagg. 134-135.107 Pastorino, cit., pag. 142.108 Bloch, Le origini di Roma, cit., pagg. 136-137.109 Livio VIII, 9, 10-33.110 Pastorino, cit., pag. 133.111 Si veda in Ida Zatelli, The origin of the bibli-cal scapegoat ritual: the evidence of two eblaitetexts, in “Vetus Testamentum” n. 48/2 (1998),pagg. 254-263. Voglio ringraziare Ida Zatel-li non solo per la collaborativa disponibilitànell’aiutarmi a seguire questa traccia a ritro-so nel tempo, ma anche per la passione conla quale mi ha esposto le sue acquisizioni ele sue congetture, prova di un coinvolgi-mento profondo nella ricerca, e di unaattenzione vera ai significati dei fenomenistorici ed agli insegnamenti che lo studio diessi può offrire. 112 Bloch, Le origini di Roma, cit., pagg. 137-138.

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113 Si veda in Le Bohec, L’esercito romano, cit.,pagg. 321-322.Se, come da alcuni è stato ritenuto, gli even-ti bellici sono scatenati da varie concausema, in primis, da un eccesso di popolazionedi giovane età da eliminare -G. Bouthoul, Leguerre, cit., pag. 284 e segg.- va ricordatoall’interno dei quadri rituali e delle pratichereligiose connesse con le cause di guerra,l’uso del ver sacrum. Secondo questa prassiuna intera generazione di individui, comefossero una serie di “primizie” vegetali o ani-mali, veniva “consacrata” agli dèi, e quindiuna volta giunta ad un’età sufficientementematura, veniva allontanata dalla comunità.Si tratta, di fatto, di un “infanticidio differi-

to” -si veda in Bouthoul, Le guerre, cit., pag.320 e segg.- che la religione metteva a dis-posizione quale alternativa alla guerra, laquale “ci appare, in modo che ci sorprendee ci colpisce, come un infanticidio differito”anch’essa -Bouthoul, Le guerre, cit., pag. 281-.114 Fornari, Psicanalisi della guerra 1966, cit.,pag. 102-103.115 Su tale uso, in tutte le sue sfaccettature, sirinvia diffusamente a Lavrsen, Weapons inwater, cit.116 Senza entrare nella sterminata tematicadella sepoltura dei guerrieri caduti, e dellegame tra i relativi cerimoniali eroici conquelli documentati nell’Iliade, può essere

interessante osservare come la collocazionedi una lancia al di sopra del tumulo vetulo-niese trovi una qualche rispondenza nelrituale tenuto nel deporre un tridente soprala deposizione sacrificale più profonda deltumulo pisano di via San Jacopo, databiletra VIII e VII sec.a.C. E’ possibile che, se iltridente è inteso ad evocare il mare cometeatro della morte del personaggio celebra-to nel cenotafio, la deposizione della lanciaa Vetulonia fosse intesa a suggerire la mortein guerra del titolare di quel tumulo. Per lasepoltura di Pisa si veda Massimo Becattini,Il principe di Pisa, in “Archeologia Viva” annoXVIII, n. 76, luglio/agosto 1999, pag. 66 esegg.

I riti della guerra

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A conclusione delle valutazioni sullaconsistenza degli organismi armati esulla conflittualità della prima età delferro in Etruria, è necessario prenderein esame anche la presenza militare sulmare.Come è noto, le testimonianze relativeall’attività di navigazione in epoca villa-noviana sono molto scarse, e di conse-guenza poter tratteggiare il profilo dellamarineria del tempo è molto difficile;ancor più arduo è l’avventurarsi in ipo-tesi sull’uso di natanti a scopi bellici sulmare. L’analisi tecnica di quanto dispo-niamo sulle più antiche imbarcazioni1sembra non porre un particolare accen-to su particolari accorgimenti destinatiad uno specifico impiego tattico:

“stando ai modellini di barche che si rinvengo-no nelle tombe di Tarquinia, fin dal IX sec.a.C., gli scafi avevano la linea di chiglia dirittae le pareti svasate, probabilmente per contene-re merci. Spesso la prua era decorata da unaprotome di animale, come nelle navicelle

bronzee nuragiche, riproducendo un modelloche troviamo dipinto, per esempio, in un vasodel Miceneo IIIC2”.

La modestia tecnologia delle imbarca-zioni della prima età del ferro nonsignifica tuttavia che l’uso di esse e lanavigazione fossero state sino a quelmomento pressoché nulle: l’Italia meri-dionale adriatica era già apparsa pun-teggiata sino dall’età del bronzo anticoda insediamenti costieri, collocati pro-prio in punti d’approdo -con una cre-scita di interesse per la difesa di essi dalbronzo medio3-; similmente anche lecoste toscane stanno rivelando una fittaserie di insediamenti litoranei, ricono-scibili come collocati sull’antica lineadella costa marina e/o di quella di varielagune salmastre a ridosso del litorale.In tale senso depongono, ad esempio, ilsito sommerso di Punta degli Strettinelle acque della laguna di Ponente aOrbetello, del bronzo finale; i numerosinuclei dell’età del bronzo attorno alla

stessa laguna –Casale Brancazzi, Nun-ziatella, Grottino di Ansedonia, Grottadei Sassi Neri, Talamonaccio, Grottadello Scoglietto, Capalbio, Tagliata diAnsedonia, III Faro, Peschiera di Nassa,Pianone-4; ed ancora i siti dell’area anord dell’Argentario, presso l’anticaLaguna di Talamone, denominati “Fer-rovia”, “Valentina”, “Tombolello” e“Casa San Giuseppe”, i più antichi deiquali risalgono al bronzo antico emedio, mentre gli altri datano al bron-zo finale ed alla prima età del ferro5. A queste testimonianze di uno sfrutta-mento delle acque costiere e palustriper la pesca e le saline, organicamentecorrelate ai vicini complessi in grotta,probabilmente affacciati in origine sullacosta, si aggiungono altre realtà moltosimili collocate sulla costa più a nord: siricordano ad esempio l’insediamentopalafitticolo rinvenuto a Stagno, in pro-vincia di Livorno, di cui sono state rin-venute le platee di fondazione per piat-

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taforme, assieme a materiali dell’età delbronzo finale e della prima età delferro6; le attestazioni dell’età del bronzoda Pisa, e le grotte dell’area di Vecchia-no a nord della città, sino ai ritrova-menti della Versilia e di Massaciuccoli. Come si è visto, le più antiche imbarca-zioni etrusche sarebbero state sostan-zialmente simili alle navi sarde a fondopiatto: “queste ultime, in pratica deri-vanti dalla zattera, recavano al di sopradel pianale di base dei pali verticalisporgenti verso l’esterno a cui erano fis-sate con fori e corde (senza chiodi) letavole delle fiancate; due rinforzi inter-ni rinsaldavano la prua, su cui era siste-mato un grande simulacro a forma ditesta di animale7”. Tra i documentiarcheologici più significativi dell’inge-gneria navale sarda si ricorda il bronzet-to sardo della Tomba del Duce di Vetu-

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In alto, ricostruzione di una nave sarda confondo arrotondato e, sopra, una navicellaminiaturistica in bronzo dalla Falda dellaGuardiola di Populonia - Firenze, MuseoArcheologico Nazionale; sotto, a sinistraricostruzione di una diversa imbarcazionesarda a fondo piatto sulla base della navicelladalla tomba del Duce di Vetulonia e, a destra,particolare della prua di una navicellaminiaturistica sarda in bronzo, dal circolodelle Tre navicelle di Vetulonia - Firenze,Museo Archeologico Nazionale

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lonia. Si tratta comunque di una tipolo-gia di imbarcazione che ha una resaottimale nella navigazione palustre,dove il fondo piatto consente di scivola-re anche su secche e bassi fondali; talifogge sono infatti rimaste in uso inToscana, come ad esempio presso ilPadule di Fucecchio, dove l’imbarcazio-ne tradizionale è il “navicello”, lungocirca 6 metri, una

“imbarcazione dal fondo piatto, con prua par-zialmente chiusa nella parte superiore dallapontigiana e poppa anch’essa coperta parzial-mente in alto dal culaccino; tredici matei sosten-gono internamente la struttura del fondo edelle due sponde laterali. (…) Il navicello veni-va utilizzato nel Padule di Fucecchio comemezzo di trasporto sia di persone che di merci(rena, erbe palustri, granaglie, ecc.)8”.

Nonostante l’originaria diffusione pro-tostorica di navi a fondo piatto (comedimostrano la lampada fittile da Vulci, enell’Alto Adriatico la nave di Novilara),gli Etruschi passarono rapidamenteall’impiego di imbarcazioni a fondoarrotondato9.

“La fase successiva appare la costruzione discafi a sezione tonda, fase in cui le monossili ele navi della prima colonizzazione egea posso-no avere avuto il loro peso. Per l’esecuzione diquesti scafi è documentato l’impiego di cucitu-re, come nel caso del relitto di Bon Porté, conun concetto tecnico già incontrato a Vetuloniaed affine alle legature dei timoni delle figura-zioni di Aristhonotos e di Polledrara. Le cuci-ture della sutilis navis di Bon Porté sono inter-ne, ma il bronzetto della collezione Sini diNuoro, il vaso di Cerveteri al Louvre e il dinosdi Cerveteri suggeriscono anche la presenza di

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Particolare del sistema di unione delle assi della barca solare di Cheope, con le tavole raccordateda corde passanti per fori nello spessore del fasciame e nell'interno dell'imbarcazione, visibilinelle commessure allargate - Cairo, Museo della Barca Solare

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legature esterne per serrare il guscio delloscafo, come quelle delle navi egizie. (...) In que-ste prime fasi è pensabile un allineamento alletecniche mediterranee (Egitto, Omero, Lubia-na), ma poi è riscontrabile un attardamentorispetto all’evoluzione mediterranea successi-va. (...) Considerando aspetti ricostruibili diarchitettura navale, troviamo già in età villano-viana le sezioni trasversali tipiche dell’antichi-tà: -fondo piatto e fiancate a spigolo (Sardegna,Vulci, monossili dell’Italia centrale interna); -fondo piatto e fianchi arrotondati (Sardegna,Novilara); -fondo tondo (Sardegna, monossiledi Furbara, Bon Porté); -fondo tondo carenato(terracotta di Tarquinia)10”.

In effetti una barchetta miniaturisticada una tomba villanoviana tarquinieseindica l’uso di chiglie con carena assiale,formata da una lunga trave curva adestremità sollevate. Questi accorgimenticostruttivi indicano l’adozione di solu-zioni destinate a migliorare la stabilitàdegli scafi, evidentemente destinati pro-gressivamente ad escursioni più lunghesul mare aperto, le cui condizioni piùvariabili e comunque meno calmerichiedono imbarcazioni appositamen-te congegnate. Non solo le necessità direggere il mare grosso inducono a stabi-lizzare le imbarcazioni, ma anche quelledi mantenere una rotta a dispetto dicorrenti e della deriva11.Nel complesso comunque le imbarca-zioni documentate sino entro l’VIII sec.a.C. sono di modesta complessità tecno-logica:

“il repertorio figurato della ceramica etrusca cipresenta come documento figurato più anticouna rappresentazione di nave su un’olla dipin-

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In alto, modellino di barchetta in impasto, da una tomba villanoviana di Tarquinia - Firenze,Museo Archeologico Nazionale; in basso urna villanoviana a capanna in lamina di bronzo con unasingolare decorazione a foggia di imbarcazione sulla sommità del tetto - New York, MetropolitanMuseum of Art

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ta da Bisenzio, databile poco prima del 700a.C.: si tratta di un’imbarcazione provvista diuno scafo rotondo e di una prua a protome dianimale, confrontabile con i vasi configurati abarca dell’età del ferro. Aggiunta essenzialesono due remi, tenuti da altrettanti personaggie, probabilmente, un remo di governo cheappare libero: si tratta di una barca a quattroremi, dunque. La località di rinvenimento,situata sul Lago di Bolsena, può far supporreche l’imbarcazione fosse adibita alla navigazio-ne fluviale o lacuale, piuttosto che a quellamarittima. Nella necropoli dell’VIII secolo delSasso di Furbara, presso Caere, è stata rinve-nuta un’imbarcazione di legno, lunga circa 3metri, ricavata da un unico tronco d’albero, checi documenta l’esistenza di navigli di piccoledimensioni, usati probabilmente per la pesca oper compiere viaggi a piccole tappe12”.

Tra le nozioni di base che le popolazio-ni dell’Italia centrale tirrenica andaronoconsolidando nella prima età del ferronon poteva mancare la conoscenza del-l’andamento dei venti, che impongononel Mediterraneo centrale direzioni estagioni precise:

“nel semestre invernale le grandi correnti aereedella terra si manifestano in questa regione fre-quentemente con venti che arrivano da ponen-te e che, carichi come sono dell’umidità raccol-ta sorvolando l’Atlantico e il Mediterraneo occi-dentale, si scaricano largamente in pioggia sul-l’Italia centrale e sulla Grecia, elargendone inquantità sufficiente anche alla Tunisia e allaLibia. Nel semestre estivo invece, per il fattoche l’equatore del caldo si avvicina di molto anoi, i prevalenti venti di ponente si spostano dialtrettanto verso nord e attraversano di poi ilMediterraneo centrale con un deciso anda-mento NE-SO, da aliseo (...) nel semestre estivo(...) la regolarità dei venti è maggiore, e le

comunicazioni attraverso il Mediterraneo cen-trale (...) sono più facili dall’Europa verso l’Afri-ca che non nella direzione inversa13”.

La modestia tecnica di queste diversetipologie di imbarcazioni non impedì lacircolazione su bracci di mare apertoanche sufficientemente estesi, come sul-l’area tirrenica che divide la Sardegnadalle coste toscane; ne sono testimonian-za vari reperti sardi in bronzo e in cera-mica rinvenuti in sepolture vulcenti dellafine del IX sec. a. C.14 e in tombe popu-loniesi della prima metà dell’VIII seco-lo15, ai quali si sommano in Sardegna

“una serie di bronzi prodotti nell’Etruria tirre-nica, datati fra la seconda metà del IX e la

prima metà dell’VIII sec. a. C. Si tratta di asce,di rasoi e di fibule tipologicamente assimilabilia produzioni di Populonia (per esempio le fibu-le dal nuraghe Palmavera e dal nuraghe Atten-tu) e Vetulonia (per esempio un’ascia dal ripo-stiglio di Forraxi Nioi) o dal territorio internodell’Italia, giunti verosimilmente dai centri del-l’Etruria settentrionale (per esempio le spadead antenne dal nuraghe Attentu e da Oliena).Le fibule in particolare, facendo parte degliornamenti personali, funzionali all’abbiglia-mento delle genti del continente, vengono rite-nute segni di una presenza etrusca nell’isola16”.

Alle più semplici imbarcazioni sin quiesaminate si contrappone il ben piùcomplesso scafo attestato su un’urnacineraria bronzea a forma di capanna,conservata al Metropolitan Museum of

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Il tumulo monumentale di via San Jacopo a Pisa

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Art di New York. Questo reperto ripro-duce infatti una capanna circolare dellaprima età del ferro, sul cui colmo deltetto

“atop the roof is riveted what appears to be theframework of a high-sterned boat (representa-tions of early Etruscan vessels shows no evi-dence of a raised stern). The significance of theboat is difficult to fathom; perhaps the decea-sed was involved in maritime activities –ship-ping or piracy17”.

Se l’autenticità di tale singolare repertofosse confermata, l’imbarcazione su diesso riprodotta costituirebbe un pegnodi grande ed improvviso avanzamentodelle tecnologia navale etrusco-villano-viana; essa è in effetti molto vicina allenavi –da trasporto e da guerra- attesta-te nell’iconografia greca più tarda. L’al-ta e robusta prua, la poppa dal curiosoterminale rinforzato e rialzato, le fian-cate dotate di rialzo centrale induconoinfatti –come già suggerito nella purdatata edizione citata dell’urna- ad alcu-ne perplessità sull’autenticità, vista ladiscordanza profonda dall’iconografiacoeva di navi in Etruria. Anche ilmodellino ligneo di imbarcazione rin-venuto nella tomba 26 del sepolcretoMoroni di Verucchio, ormai degli inizidel VII sec.a.C., è sostanzialmente unasemplice scialuppa a chiglia carenata:

“di notevole importanza per le suggestioni cheevoca è la modesta barchetta di legno (oraappiattita, ma ancora leggibile) rinvenuta inquesta tomba: si tratta di un’usanza che si ritro-va in tombe tarquiniesi della prima età del

ferro, dove queste barchette sono fittili (…)Questo rinvenimento probabilmente indica unparticolare rapporto della comunità verucchie-se con la navigazione costiera. La barca rap-presentata sembra adatta a una navigazione dipiccolo cabotaggio, in vista delle coste, comegeneralmente doveva avvenire in questo perio-do in Adriatico: la sua presenza nel corredofunerario di un personaggio eminente dellaVerucchio dell’inizio del VII secolo non puòessere casuale18”.

All’incirca contemporaneo alla tombaverucchiese è il grande tumulo monu-mentale pisano di via San Jacopo, forse

un cenotafio destinato –tra la fine dell’-VIII ed il VII sec. a.C.- ad un personag-gio di spicco che aveva legato la propriafortuna e prestigio ad attività marinare,come attesterebbe la deposizione, soprala fossa ed al suo riempimento, di untridente in ferro, a sua volta sovrastatoda una grande pietra a forma di timonedi nave19. La documentazione offertada questi contesti funebri attesta la cre-scente importanza del controllo delmare, oltre che delle coste, a causa delleattività commerciali che vi si andavano

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Ricostruzione di una nave etrusca del VII sec.a.C sulla base dell'iconografia disponibile

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svolgendo col movimento in mare aper-to, e non solo sottocosta con cabotaggioa vista20, in quanto “i tre secoli circa cheseparano la fine della navigazione mice-nea dagli inizi della navigazione feniciae greca nel Tirreno offrirono, soprattut-to nel corso del IX e della prima metàdell’VIII sec. a. C., la possibilità di per-correre le coste21”.Negli ultimi anni una serie di scopertearcheologiche nuove -e di revisioni divecchi scavi- ha assodato l’esistenza nel-l’VIII sec. a. C.di una serie di centri abi-tati costieri e su palafitte, sia nell’Etruriameridionale22 che in quella settentrio-nale. La presenza di questi insediamen-ti su bacini lagunari e baie, oltre alleopportunità per una facile pesca, sem-bra indicare la possibilità di navigazionilocali semplificate e di facili attracchi.Sull’alto Tirreno, oltre ai siti già indica-ti per l’area di Orbetello –Casa San Giu-seppe, Tombolello- e a Stagno di Livor-no, si ricordano l’insediamento pisano,di cui sono note le necropoli, e l’abitatosu pali di San Rocchino di Massarosa,

presente almeno dalla fine dell’VIIIsec.a.C.23.Coloro che dai litorali dell’Etruria villa-noviana si spostavano verso aree occu-pate da altre popolazioni (sia per mareaperto, sia costeggiando, con scali pres-so comunità lontane) dovettero dunqueaccompagnare la loro attività con l’im-bastitura di buone relazioni diplomati-che, nonché con la capacità di far ricor-so alle armi per difendersi da eventua-li aggressioni. I carichi di mercanzie,pur ridotti in un’epoca di produzione“artigiana”, di modesto accumulo disurplus e di imbarcazioni molto piccole,potevano difatti suscitare notevole inte-resse, e la precoce nomea degli Etru-schi quali noti pirati sembra indicareuna frequente azione predatoria dellesingole comunità sul mare sin daglialbori della loro presenza sul Tirreno.E’ stato osservato che sulla base delle“rappresentazioni di navi su ceramicheetrusche fabbricate nel primo quartodel VII secolo a Tarquinia, Bisenzio,Caere e Veii, dobbiamo presumere che

i «pirati» etruschi fossero già molto atti-vi24”, e sebbene non si debba sopravva-lutare l’efficacia sul mare delle imbarca-zioni corsare dell’Etruria villanoviana,è possibile che la loro azione sul Tirre-no fosse già sensibile, in una certamisura facilitata dalla leggerezza delnaviglio impiegato. Peraltro, è statoipotizzato che per tali fasi di alta anti-chità “la differenziazione tra navigliomilitare a remi e naviglio mercantileprevalentemente a vela, già presentedall’età omerica (Od. IV, 24 e segg.) nonpare sia stata netta ed è probabile che visia stato un uso promiscuo25”.La capacità di resistenza militare che iprospectors fenici e greco-euboici –attivisul Tirreno dagli inizi dell’VIIIsec.a.C.26- trovarono sulle coste occupa-te dai villanoviani, tale da indurli adallacciare buoni rapporti commercialisenza tentare scontri per la penetrazio-ne e la colonizzazione terrestre con undominio diretto27, fu forse accompa-gnata da un ulteriore deterrente sulmare, e sebbene agli ellenici non siastato totalmente impedito il transitocon forze di contrasto navale, vacomunque ricordato che secondoEforo, riportato in Strabone (VI, 2, 2), lafondazione di colonie greche in Siciliadurante l’VIII secolo a.C. sarebbe stataresa difficoltosa dalla presenza di piratietruschi. Secondo alcune tesi, inoltre, illivello quali-quantitativo della marine-ria greca dell’VIII sec. a.C. sarebbe daridimensionare, come gli effetti delcommercio marittimo e delle esplora-Disegno della battaglia navale riprodotta sul cratere di Aristonothos

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zioni sull’evoluzione della madrepatriaellenica28. E’ comunque dal 700 a. C. circa che, inprimis a Caere, le raffigurazioni di naviprendono campo sul vasellame etrusco,in un contesto storico e tecnologico chefanno del mare un teatro di combatti-menti, ed è infatti in questa temperieche si deve “necessariamente sottinten-dere l’esistenza di infrastrutture colle-gate con la navigazione e di imbarca-zioni più evolute rispetto a quelle cono-sciute nell’età del ferro29”. Ai decenniattorno al 650 a.C. risale anche il tri-dente dell’omonimo circolo vetulonie-se, la cui destinazione d'uso -se è cor-retta l'interpretazione quale insegna dipotere recentemente ribadita nellamostra vetuloniese del corredo30-potrebbe essere affine a quella prove-niente dal già ricordato tumulo pisano;l’analisi iconografica delle testimonian-

ze sull’architettura navale etrusca –bensvolta dal Bonino, al cui studio sirimanda31- attesta un arricchimento didettagli tecnici e strutturali sulle imbar-cazioni centroitaliche prima assente.Dunque imbarcazioni etrusche degnedi confronto con quelle elleniche efenicie, almeno per stazza –se non pertecnologia31- e più evolute della sem-plice “scialuppa”, compaiono –fattaeccezione per la citata urna bronzea delMetropolitan- proprio col VII sec. a. C.,alla cui prima metà si colloca l’imbarca-zione effigiata su un vaso d’impasto daVeio, oggi al Museo di Villa Giulia,dotata di albero e due castelli -di pruae di poppa- e di rostro. Quest’ultimo,peraltro, viene ritenuto dalle fonti let-terarie latine (Plinio, Nat. Hist., VIII,209) un’invenzione proprio degli Etru-schi, che assolveva anche ad un uso dideriva e di stabilizzatore, oltre che di

riserva di galleggiamento e di aiuto allamanovrabilità33. “Nel repertorio della ceramica figurataappaiono, a cominciare dal 700 a.C., vere eproprie raffigurazioni di navi, largamenteinfluenzate dalla ceramica greca tardogeome-trica. Due oinochoai di fabbrica tarquiniese,attribuite al pittore delle Palme, attivo intornoal 700 a.C. e operante nella tradizione decora-tiva di influenza cumana, ci presentano addi-rittura una piccola flotta. Sulla prima sono rap-presentate cinque navi procedenti in fila dadestra verso sinistra, tutte con la vela spiegata;sulla seconda sei navi, ancora in sequenza, unadelle quali con la vela raccolta. I vascelli hannouno scafo rotondo, prua aguzza e poppa rien-trante curva; la linea che percorre al centrotutta la lunghezza dello scafo non sembra cherappresenti un vero e proprio ponte, quanto ilcapo di banda. In alcuni casi, a poppavia, èinnalzato il castello per il timoniere, mentre èquasi sempre presente il remo di governo.Oltre all’albero sono rappresentate anche tuttele funi che costituivano il complesso imbroglioper governare la vela34”.

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Note

1 Su questo tema offre una buona vedutad’insieme Marco Bonino, Imbarcazioni arcai-che in Italia: il problema delle navi usate dagliEtruschi, in Secondo Congresso Internazio-nale Etrusco, Atti, vol. III, Roma, 1989, pag.1517 e segg. 2 Mauro Cristofani, Gli Etruschi del mare,Milano, 1983, pag. 18.3 Alberto Cazzella, Insediamenti fortificati econtrollo del territorio durante l’età del Bronzonell’Italia sud-orientale, in “Papers of theFourth Conference of Italian Archaeology”,cit., pag. 55.4 Su Punta degli Stretti e sugli altri siti siveda Lara Arcangeli, Enrico Pellegrini,Gabriella Poggesi, L’insediamento sommerso diPunta degli Stretti nella laguna di Orbetello(Grosseto) e il popolamento dell’area costiera tra ifiumi Fiora e Albegna in età protostorica, in“Preistoria e Protostoria della Toscana. Attidella XXXIV Riunione Scientifica dell’Isti-tuto Italiano di Preistoria e Protostoria”,Firenze, 2001, pagg. 545-555.5 Su questi siti si veda Giulio Ciampoltrini,Insediamenti nella bonifica di Telamone (Orbetel-lo, Grosseto): un contributo per l’insediamentoperilagunare dell’età del bronzo in Toscana, in“Preistoria e Protostoria della Toscana. Attidella XXXIV Riunione Scientifica dell’Isti-tuto Italiano di Preistoria e Protostoria”,Firenze, 2001, pagg. 533-543; ed anche Giu-lio Ciampoltrini, Considerazioni sull’insedia-mento del bronzo finale alla Puntata di Fonte-blanda (Orbetello, Gr), in “Preistoria e Pro-tostoria in Etruria, Atti del secondo incontrodi studi, vol. 2”, Milano, 1995, pagg. 103-106.6 Si veda Pamela Gambogi, Mary Nanni,Alessandro Zanini, L’abitato protostorico di

Livorno-Stagno. Nota preliminare, in “Preisto-ria e Protostoria in Etruria, Atti del secondoincontro di studi, vol. 2”, Milano, 1995,pagg. 93-98.7 Maurizio Martinelli, I mezzi di trasporto, in“Gli Etruschi - mille anni di civiltà”, Firenze,1985, pagg. 579-580.8 Mara Rengo, Scheda n. 149 di Città di Mon-summano Terme – Museo della Città e del Terri-torio, Pisa, 2001, pag. 166. 9 In generale, sull’evoluzione delle imbarca-zioni antiche, si veda Piero dell’Amico, Leorigini antiche e lo sviluppo della nave, supple-mento alla “Rivista marittima” n. 6, giugno2000.10 Bonino, Imbarcazioni arcaiche in Italia: ilproblema delle navi usate dagli Etruschi, cit.,pagg. 1521-1523.11 Sui tipi di imbarcazione villanoviani e perla marineria si veda anche Giulia Pettena,Gli Etruschi e il mare, Torino, 2002.12 Cristofani, Gli Etruschi del mare, cit., pagg.27-28.13 Delfino Deambrosis, Note di geografia mili-tare del Mediterraneo, in “Rivista Militare Ita-liana”, anno II, n. 12, dicembre 1928, VII,pagg. 1952-1953; vedi anche Delfino Deam-brosis, Note di geografia militare del Mediterra-neo, in “Rivista Militare Italiana” anno II, n.4, aprile 1928, pagg. 590-591.14 Ad esempio la tomba del Bronzetto sardonella necropoli di Cavalupo.15 Si veda Mario Cristofani, Le attività produt-tive, in “Gli Etruschi in Maremma”, Milano,1981, pagg. 194-197.16 Cristofani, Gli Etruschi del mare, cit., pagg.15-16.17 Richard Stuart Teitz, Masterpieces of Etru-scan Art, Worcester, Massachusetts, 1967,pag. 18; tav. Pag. 107.18 Malnati, Manfredi, Gli Etruschi in Val Pada-na, cit., pag. 57.

19 Sul tumulo pisano, si veda Becattini, Ilprincipe di Pisa, cit., pagg. 66-68.20 Si veda Cristofani, Gli Etruschi del mare,cit., pag. 18.21 Cristofani, Gli Etruschi del mare, cit., pag.18.22 Si vedano P. Pascucci, La Mattonara, in“Ferrante Rittatore Vonwiller e la Maremma1936-1976. Paesaggi naturali, umani,archeologici”, Ischia di Castro, 1999, pagg.91-102; C. Belardelli, Torre Valdaliga, in “Fer-rante Rittatore Vonwiller e la Maremma1936-1976. Paesaggi naturali, umani,archeologici”, Ischia di Castro, 1999, pagg.79-90.23 Su San Rocchino-Campo Casali si vedanoMaurizio Martinelli, La costa tirrenica da Pisaalla Versilia, in “Gli Etruschi – mille anni diciviltà”, cit., pag. 562, ed Adriano Maggiani,S. Rocchino (Massarosa), in “Etruscorum antequam Ligurum – La Versilia tra VII e IIIsecolo a.C.”, Pontedera, 1990, pag. 69 esegg. 24 Cristofani, Le attività produttive, cit., pag.197.25 Bonino, Imbarcazioni arcaiche in Italia: ilproblema delle navi usate dagli Etruschi, cit.,pag. 1525.26 Cristofani, Gli Etruschi del mare, cit., pag.18.27 Cristofani, Le attività produttive, cit., pag.197.28 Si veda Hanson, The Other Greeks, ct., pag.294.29 Cristofani, Gli Etruschi del mare, cit., pag.26.30 Vedi AA.VV., Principi e insegne del potere,Roccastrada, 2003; qualche dubbio è solle-vato dalla presenza, alla base dell'asta cen-trale, di un elemento in origine scorrevole edentato, che sembra inidoneo ad una inse-gna -come la smontabilità dei tre denti fer-

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La guerra ed il mare

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La lancia, la spada, il cavallo

mati da un acciarino passante- e più funzio-nale ad un elemento connesso alla sfera delbanchetto, che peraltro ha ampio peso all'in-terno del corredo vetuloniese. Ringrazio l'a-mico Marcello Lotti per questa ipotesi alter-nativa. 31 Bonino, Imbarcazioni arcaiche in Italia: il

problema delle navi usate dagli Etruschi, cit.32 Ritenuta in Etruria attardata, dall’arcai-smo, rispetto al resto del Mediterraneo daBonino, Imbarcazioni arcaiche in Italia: il pro-blema delle navi usate dagli Etruschi,cit., pag.1521.33 Si veda, per il rostro e per le imbarcazio-

ni, in Martinelli, I mezzi di trasporto, cit.,pagg. 579-580, in Cristofani, Gli Etruschi delmare, cit., pag. 29, ed in Bonino, Imbarcazio-ni arcaiche in Italia: il problema delle navi usatedagli Etruschi, pag. 1523.34 Cristofani, Gli Etruschi del mare, cit., pagg.27-28.

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1Il Cimitero Inglese ai Bagni di Lucca - analisi e proposte di restauro

atti del convegno

2Manutenzione e sostituzione nel restauro dei monumenti lapidei

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3Angelo Cornacchia, Gianna Marasco, Marco RinaldiLa Toscana nel Medioevo - La Via Francigena

Progetto di fattibilità

4Ugo Barlozzetti

L’arte della guerra nell’età della Francigena

5Francesco Asso

Itinerari garibaldini in Toscana e dintorni 1848-1867

6Carlo Carbone, Alessandro Coppellotti, Scilla Cuccaro

I luoghi delle battaglie in Toscana

7Maurizio Martinelli

La lancia, la spada, il cavallo - Il fenomeno guerra nell’Etruriae nell’Italia centrale tra età del bronzo ed età del ferro

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