Maturita Gioco Il Jolly

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...GIOCO IL JOLLY!!! Filosofia : Essere e Tempo - Heidegger Latino : De Brevitate Vitae - Seneca Arte : Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? - Gauguin Italiano : L’Infinito Leopardi; il sentimento del Sublime Geografia Astronomica : Il vulcanismo Fisica : La relatività - Einstein Storia : Il mito della razza ariana Inglese : Aspettando Godot - Beckett Matematica : La probabilità Sono ancora il jolly e m’inchino al mondo, svolazzando la mia mano adorna di campanelli e maniche di pizzo. Sotto al trucco un sorriso, il più intenso che ti abbia mai toccato… Sono un jolly, prendi ancora questa mano

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“G.Battaglini” (TA)

...GIOCO IL JOLLY!!! Filosofia : Essere e Tempo - Heidegger

Latino : De Brevitate Vitae - Seneca

Arte : Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? - Gauguin Italiano : L’Infinito – Leopardi; il sentimento del Sublime Geografia Astronomica : Il vulcanismo Fisica: La relatività - Einstein

Storia : Il mito della razza ariana Inglese : Aspettando Godot - Beckett

Matematica : La probabilità

Sono ancora il jolly e m’inchino al mondo,svolazzando la mia manoadorna di campanelli e maniche di pizzo.Sotto al trucco un sorriso, il più intenso che ti abbia mai toccato…Sono un jolly, prendi ancora questa manoE ridiamo insiemeDella meraviglia di questo giorno. ESAMI DI STATO a.s. 2006-07

Liceo Scientifico Classe 5 sez E

Candidata: Maria Grazia Mancini

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Non sono una giocatrice d’azzardo, né una chiromante. Sono solo una che camminando per vie più o meno affollate spesso si chiede:

“Quell’uomo laggiù... che carta sarebbe in un mazzo?”

Sarà paradossale, ma provate a pensarla così: siamo stati gettati sul tavolo dell’universo, tutto sommato, senza volerlo, direbbe Heidegger… la prima scelta (la scelta di vivere) non è la nostra! Noi non siamo fondamento del nostro fondamento! ma ormai è qui che dobbiamo giocare la nostra partita, comporre il nostro solitario! Ogni uomo ha la sua missione, ognuno il suo colore, il suo seme, il suo numero…AssoDiCuori, FanteDiPicche, 9diFiori... e ognuno recita ruoli iper-improvvisati nel magico teatro della civiltà; e ognuno è talmente immerso nel proprio ruolo che la rappresentazione non ha mai pubblico: non c’è nessun estraneo, nessuno sguardo obiettivo!

Eppure ad un tratto qualcuno risponde alla fatidica domanda pseudo-folle con un semplicissimo:

“E me lo chiedi?...sarei sicuramente un jolly!”

e allora l’intero solitario sembra essere sul punto di autodistruggersi... perché il jolly non ha un seme e non ha un valore, non ha la forza dei re, nè la grazia delle

donne o la presenza del fante; non ha un posto definito nel solitario della vita come i Due, i Tre, i Nove, fa parte del mazzo ma ne è estraneo, tanto da poterlo togliere senza che nessuno sembri sentirne la mancanza. E proprio per questo non subisce il gioco del mazziere, perché il jolly riesce a costruire la sua rappresentazione e contemporaneamente ad esserne suo spettatore... è l’unico che fa un passo indietro, e dallo schermo riesce a saltare in sala (a dispetto del regista!), trovando la strada per i posti a sedere… il jolly si aggira senza pace tra gli “elfi”, come una spia nella fiaba. Arriva a certe conclusioni, ma non ha nessuno a cui riferirle... ogni istante si guarda allo specchio e stenta a riconoscersi: ha una sfumatura diversa il suo sguardo oggi... e in ogni istante gli sembra cosi inverosimile il fatto di poter esistere davvero, che non riesce ad abituarsi all’idea! E nell’inautentica esistenza degli altri, sempre più sbiaditi e meno presenti a se stessi, lui è l’unico a notare il generale vuoto di coscienza di sé. Lui sa di appartenere ad un enigma che non si riesce a decifrare... e proprio per le sue strane certezze e per la sua ferma instabilità si sente considerato Matto dagli “elfi”... sono pochi quelli come lui, con il suo stesso tintinnante cappello colorato... ma poco importa! Lui continuerà a cercare risposte alle spiazzanti domande che pone a se stesso, pronto a fermarsi guardandosi indietro, mostrando orgoglioso i suoi pensieri e sperando che, come i suoi campanelli tintinnanti, essi sveglino tutti dal torpore del solitario, rendendoli parte attiva del tutto... nella voglia di non rimanere “esseri gettati per caso su un’isola”, ma di diventare piuttosto “esserci”, con piena consapevolezza di sé, per avere cura degli altri e prendersi cura del mondo!

In Essere e Tempo è proprio questo l’intento di Heidegger: quello di costruire un’ontologia (studio dell’essere in quanto tale) che partendo da una vaghissima comprensione dell’essere giunga a una determinazione piena e completa del suo senso. Basata sulla domanda “Che cosa è l’essere?”, l’ontologia prevede un ente da interrogare alla ricerca di risposte. Ed è sull’uomo, col suo primato ontologico sugli altri enti, che deve cadere la scelta dell’interrogato. Colui che è in grado di porsi questo interrogativo, Heidegger lo chiama Esserci, prima l’ho chiamato jolly. L’Esserci, non solo può comprendere l’essere (poiché in grado di “rapportarsi” sia al proprio essere, che all’essere in generale), ma può anche essere (poiché è ciò che lui stesso progetta di essere); può “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente” (scelta ontica). Può scegliere se essere il jolly, l’inaspettato, oppure una carta qualunque, con un ruolo e una maschera dei quali è completamente inconsapevole o, peggio ancora, che ha dimenticato dopo essersi perso nel gioco e nelle abitudini, non esistendo più (ex-sistere: stare al di fuori, al di là) ma lasciandosi vivere.

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Questa scelta, tuttavia, appare fortemente influenzata dalla condizione ontologica dell’uomo in genere, poiché l’uomo, studiato nella sua quotidianità, non è mai completamente isolato: è sempre un essere-nel-mondo e un essere fra gli altri.L’uomo è nel mondo in modo tale da progettare il mondo stesso secondo un piano globale di utilizzabilità, volto a subordinare le cose ai suoi bisogni e ai suoi scopi (prendersi cura delle cose) e contemporaneamente deve aver cura degli altri uomini, atteggiamento che può significare sottrarre agli altri le loro cure (esistenza inautentica), oppure aiutarli ad essere liberi di assumersi le loro cure (esistenza autentica), magari facendoli risvegliare dal torpore che li avvolge.L’esistenza anonima, basata sul “si dice”, sulla chiacchiera, sulla curiosità e sull’equivoco, non è sottoposta a condanna, e alla base della sua scelta c’è la deiezione, cioè la caduta dell’essere dell’uomo al livello delle cose del mondo, l’uomo diventa fatto, si sente abbandonato ad essere ciò che è. E chi rimane disperso nel mondo, nello stato dell’essere gettato, cioè in balia della sorte, dei desideri e dei pregiudizi, non si appartiene!Ciò che richiama l’uomo alla sua esistenza autentica (il tintinnio dei sonagli) è la voce della coscienza, il richiamo dell’esistenza a se stessa. Così l’uomo si rende conto che il suo essere è temporalità, perchè nel tentativo di trascendere, di progettarsi in avanti, viene gettato all’indietro a causa del suo essere di fatto che lo inchioda al passato, mentre, nell’esistenza inautentica, è soggetto alla deiezione che non gli permettere di vivere autenticamente il presente. Il tempo, in questa visione, è, quindi, una realtà utilizzabile e da utilizzare: il buon uso delle cose è ciò che fa di un uomo un saggio, dotato di virtù, che si possiede pienamente.

Così lo definisce Seneca nel De Brevitate Vitae, opera dialogica scritta probabilmente nel 49, di ritorno dall’esilio. Spesso invece l’uomo, immerso e conficcato (infixos) nei desideri, fatica a rivolgersi a se stesso; e così, si lamenta della brevità della vita. A questa richiesta di tempo, Seneca- rivolgendosi al destinatario Paolino- risponde affermando che, in realtà, è proprio l’uomo che si lamenta che non sa usare il tempo concessogli, un po’ come le figure sbiadite del solitario che, non possedendo se stesse, farneticanti, perdono di vista la Verità; in realtà vita, si uti scias, longa est, cioè: la vita, se sai farne buon uso, è lunga. Bisogna saper vivere… Chi è occupato non intende l’iter della vita, questa navigazione anche difficile, e così perde il passato, tutto proteso al futuro e indotto dalla cupidigia alla lotta vorticosa del presente, di cui sente talora noia: in tal modo, pauroso del suo passato, per i vizi di cui si è macchiato, perde uno dei suoi possessi più certi. Il presente è sempre in corsa e finisce ancora prima di essere giunto. Dunque agli occupati, che sono rivolti all’instabile presente, il tempo sfugge di continuo. Al contrario, il saggio che ama la stabilità tende a sottrarsi al moto del presente e niente dissipa. Gli occupati sono inquieti. E perché tanto timore anche nelle gioie? “perché esse non si fondano su solide realtà ma sono turbate dalla medesima vanità da cui hanno origine”. Difatti, tutto ciò che hanno viene da fuori, dalla fortuna che è instabile (mentre stabile è solo la ragione e l’otium che le si dedica). Ecco dunque l’invito di Seneca a Paolino (ancora una volta!): ritirarsi dalla falsa vita, preda di desideri e di falsi valori. Quando infatti l’uomo scopre autenticamente il mondo, se dischiude a se stesso il suo essere vero, rimuove con ciò stesso i velamenti e gli oscuramenti di prima e chiarifica le contraffazioni con cui si rendeva prigioniero. Pertanto, liberatosi dal suo numero e dal suo seme, inizia a progettarsi in base alle sue possibilità, grazie alla riflessione filosofica, diventa ‘scelta di sé’ e ‘voler aver coscienza’ e dunque è decisione. In ciò ha grande spazio il precorrimento o anticipazione della morte. La meditatio mortis libera dalla paura della morte, insegna a morire (e a vivere), dona piena sicurezza di fronte a un fatto che è effetto di una legge naturale. In Heidegger “la morte è la possibilità più propria dell’esserci”, per cui il singolo si fa consapevole della possibilità ineluttabile della fine, non prevedibile né voluta (come neppure il nascere), del suo tempo. La morte è, in realtà, l’unico momento in cui il singolo uomo è veramente isolato dal resto.La voglia di morte, invece, è frutto della dispersione dell’io nelle cose… Seneca, infatti, consiglia di imparare a “trar partito dalle cose per non esserne vinto”. Chi teme la morte non farà mai nulla da uomo vivo; chi invece sa ciò che gli è stato fissato in sorte fin dal concepimento è preparato alla

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sorte destinatagli: ecco la strada maestra che conduce all’amor fati, rassegnazione ferma e non passiva, fermo pensare e agire di chi ha mete precise, contrapposti all’errare degli uomini che si affaticano inutilmente… Di fronte allo spettacolo talora odioso dell’umanità, Seneca perviene a elogiare la semplicità e la schiettezza; infine scrive: “bisogna mescolare queste condizioni e alternarle, la solitudine e la frequentazione degli altri. La prima ci farà desiderare la compagnia degli uomini, la seconda la compagnia di noi stessi; e l’una sarà rimedio all’altra: la solitudine guarirà l’odio della folla e la folla il tedio della solitudine. Né la mente deve essere tenuta costantemente nel medesimo stato di tensione, ma bisogna talora divertirla col gioco...”. L’importante, direbbe Heidegger, è che l’esserci non si abbandoni alla deiezione, disperdendosi nelle cose. Emotivamente spaesato, non a “casa propria”, l’esserci (il saggio) è a disagio con sé e col mondo, come il jolly che pur essendo parte del mazzo, ne è fondamentalmente estraneo. Il saggio avverte il suo isolamento, ma con ciò anche la possibilità di scegliersi e di conquistarsi, grazie alla nausea del nulla, per cui, pur calato nella temporalità, riesce a porsi sopra le cose, stoicamente, sopra la fortuna!

Certamente appare impossibile conquistare risposte in un mondo sovraffollato e rumoroso….E per quella voglia di capire, spesso, il jolly , in quella voglia di solitudine, si rintana nel suo cantuccio a guardare il mondo, rendendo “arte e poesia” quei dialoghi da solitario con la sua unica compagnia, pronto a dedicarli a quella folla dalla quale è fuggito alla ricerca di sè. Proprio l’evasione dalla società moderna è il tema centrale della poetica artistica di Gauguin. Desideroso di ritrovare la condizione quasi mitologica dell’autenticità, egli fugge dal mondo complicato, alla ricerca di semplicità, alla ricerca di Natura.Se Gauguin per dare senso alla sua ricerca e all’immaginazione artistica deve estraniarsi dalla società moderna, è perché in essa non c’è più spazio né tempo per l’immaginazione: la “non-civiltà” non è quella dei popoli primitivi, ma quella dell’uomo che, in nome della modernità, si allontana da se stesso.Con la voglia di tracciare nuovi percorsi artistici originali, benché provi ammirazione per Cézanne e amicizia per Van Gogh, dà voce al suo entusiasmo per la natura, con un atteggiamento né esotico né romantico: non cerca qualcosa d’altro o di diverso, ma l’indagine della realtà profonda del proprio essere; Gauguin esplora il mondo per scoprire le origini e i motivi remoti delle proprie sensazioni, per poi rappresentarlo con il “sintetismo”, uno stile che il critico contemporaneo Albert Aurier definirà tipico di un’arte “idealista, simbolista, sintetica, soggettiva e decorativa”.Nei dipinti di Gauguin non c’è rilievo né profondità, eppure le opere non risultano “piatte”: la loro profondità non è di spazio, ma di tempo, un tempo remoto e profondo sul quale le immagini si adagiano e dilatano.Dato che per Gauguin le immagini occupano uno spazio e un tempo interiore, egli non le tratta con effetti di luce, come gli Impressionisti, ma fa in modo che la luce stessa sia emanata dai corpi delle figure. Trasforma la struttura Impressionista del quadro in una struttura di comunicazione espressionista. E in questa chiave di lettura dell’opera d’arte, riesce a rispondere, in modo originale, alle domande del jolly:

Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?

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Gauguin, stanco, deluso, avvilito, probabilmente nel timore di essere ormai un deserto i cui giacimenti erano tutti esauriti, volle dipingere questo quadro, come una sorta di testamento spirituale prima del suicidio, in forza della una totale presa di coscienza dell’esserci e del suo primato ontologico. Pensava che questa sua enorme rappresentazione simbolica contenesse tutti gli elementi chiave per spiegare una vita, pensava di aver ormai terminato le sue scoperte. Poi, però, il suicidio non riuscì, dimostrando che non era così e che la vita gli riservava ancora delle scelte. In forza di questa scoperta, Gauguin scrisse varie lettere parlando della tela che sarebbe stata eseguita in un mese di lavoro, descrivendola come “un affresco su una parete d’oro, con gli angoli rovinati” (gli angoli superiori sono gialli e contengono l’uno il titolo, l’altro la firma). E’ dunque un poema figurato, da non intendersi tuttavia né come una narrazione di fatti, né come un’allegoria evidente; ogni elemento dell’iconografia ha significato simbolico e rimanda a qualche aspetto del percorso della vita umana. Questo vuol dire che tutto ciò che vediamo lì rappresentato, parole e cose, non ha un unico significato, ma cambia e si approfondisce per mezzo della nostra capacità di conoscere i segreti collegamenti tra tutte le cose e le parole.A destra, in basso, un bambino addormentato (simbolo della nascita) e tre donne sedute. Due figure vestite di porpora si confidano i propri pensieri. Una grande figura accovacciata, che elude volutamente le leggi della prospettiva, leva il braccio e guarda attonita le due donne che osano pensare al loro destino. Il centro della tela è dedicato al mondo degli adulti con le loro gioie, i loro dolori e, spesso, la loro disillusione. Spicca una figura più grande e luminosa di una fanciulla che coglie frutti (simbolo della Vita). Vari animali popolano la tela, nostri compagni di viaggio. Un idolo, con le braccia alzate misteriosamente e aritmicamente, sembra additare l’aldilà, una fanciulla seduta pare ascoltare l’idolo. Infine una vecchia rassegnata, prossima alla morte (e sua allegoria), placata e presa dai suoi pensieri, (quasi come il saggio stoico raccontato da Seneca) completa la storia, mentre uno strano uccello bianco, che tiene una lucertola con gli artigli, rappresenta la vanità delle parole.Si svolge tutto sullo sfondo di un corso d’acqua, in un bosco, simbolo dello scorrere del tempo nell’imperturbabilità della Natura. Più lontano il mare e le montagne di un’isola vicina. Così, come la storia si esprime attraverso le diverse età della vita e la rappresentazione di statue o elementi della mitologia religiosa, il paesaggio è quello strato ondulato di caldi colori terrestri che allontanandosi verso l’orizzonte tendono finalmente al blu, su cui le figure nude risaltano in un audace arancione. Alle tre domande, alle inquietanti domande che il jolly si pone sul mistero del proprio passaggio in terra, sul perché della propria esistenza transitoria, sulla propria origine, sulla propria vita, sulla propria fine, alle tre domande senza risposta, corrisponde la pacata solennità delle figure, disposte secondo calcolati rapporti reciproci, lineari e cromatici, trovando la propria giustificazione non nella logica espositiva di parole o di idee, ma in quella compositiva.Scrive Gauguin: “ l’ho eseguito a memoria con la punta del pennello su tela di sacco piena di nodi e rugosità. Può apparire trasandato, non finito, ma mi pongo questa domanda: dove comincia l’esecuzione di un quadro e dove finisce?” Probabilmente è davvero un testamento incompleto, poiché necessariamente incompleta è ogni opera che non descriva il cerchio intero di una vita.L’incompletezza, come mancanza di dati non significa però vanità, anzi si può considerare come il tentativo di sfuggire alla fine attraverso la comunicazione del provvisorio. Il paesaggio che riusciamo a inquadrare in un determinato momento esprime le nostre attuali conoscenze e quindi ciò che adesso siamo. E’ un’idea, l’idea di un paesaggio in cui il confine tra fuori e dentro si confonde nel bisogno di essere attraverso la comunicazione. Un paesaggio ideale presuppone due punti totalmente oscuri, due misteri: uno è l’inizio e uno è la fine. Sul Donde veniamo? e sul Dove andiamo? non c’è alcuna certezza, né risposta che si possa ritenere vera. Ci sono però un’infinità di teorie che tentano più o meno scientificamente di dare una visione, cioè di fare luce su questi misteri. Attraverso la propria capacità di lettura del paesaggio l’io dimostra e comunica la sua esistenza come cosa provvisoriamente finita. Poi tutto ricomincia ed ogni nuova scoperta si aggiunge alle precedenti, che dentro la cornice ormai delimitata, continuano a svelare e a rivelare il mistero degli angoli gialli… Gauguin, quasi un mediatore tra l’infinito e il mondo, jolly tra il mazziere e le carte, si mostra capace di “inventare”, di creare dal nulla, quasi

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come un dio in terra, facendo vivere nella sua opera il suo pensiero…e di fronte all’indefinitezza del cerchio della Vita, davanti a un orizzonte che non può dominare, egli sembra quasi “spaurirsi”, come quel poeta romantico di fronte all’infinito scorrere del tempo……..

Giacomo LeopardiTratto dai Piccoli Idilli, L’Infinito è la poesia della grandezza e insieme della miseria dell’uomo: della grandezza, perché l’uomo, unico tra tutti gli esseri, ha la capacità di intuire una realtà più vasta, l’infinito spaziale e temporale: della miseria, perché, limitato com’è, l’uomo partecipa soltanto con l’immaginazione, e non concretamente ed eternamente, come pure vorrebbe, alla più ampia vita di quell’infinito. Sprofondando negli abissi dell’interiorità, concepita come unica realtà esistente, tende senza posa all’infinito, nell’insofferenza per ogni limite e costrizione, nell’ansia mistica di superare le barriere del reale per attingere ad una realtà più vera che è al di là di esse, in cui l’io si identifica con la totalità… e in questa voglia di “altrove” si nasconde il bisogno di fuggire dalla grigia piattezza del mondo che si lascia vivere dalla quotidianità, complici particolari sensazioni vaghe e indefinite che inducono l’uomo a crearsi con l’immaginazione quell’infinito, in realtà irraggiungibile, cui aspira. Il Leopardi lo paragona ad un’ansia, una tensione, lo slancio vitale dell’individuo, lo identifica col principio del piacere e la brama assoluta di felicità che nell’uomo è fondamentale, illimitata e che urta contro ogni insormontabile ostacolo della vita e che spinge l’immaginazione a concepire un’idea di piacere infinito. Il limite-siepe, qui, è il trampolino per il tuffo dello spirito nel mare dell’immaginazione, che così diventa la vera protagonista della poesia, come si capisce dal verso “io nel pensier mi fingo”: tutto il percorso è immaginato all’interno della fantasia dell’autore che lascia fluire liberi i propri pensieri nell’ infinito.Tale è la grandezza degli spazi e l’immensità del tempo che il cuore sobbalza: "per poco il cor non si spaura". Mente e cuore, abituati a vivere nel finito, quasi si smarriscono nell'infinito, come il jolly si spaura nell’incontro con se stesso... Caratteristica principale dell’indefinito è il “perdersi”, l’“estasi”, alludendo così ad

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quïete

io nel pensier mi fingo, ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s'annega il pensier mio:

e il naufragar m'è dolce in questo mare.

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una dimensione diversa dal reale; di conseguenza l’infinito è immagine del “diverso”, del “vago”, dell’“incompleto” ed è lo spazio assoluto della poesia. Il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della Natura, sia nel suo aspetto pacifico, sia, ancora di più, nel momento della sua impetuosità, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza; ma al tempo stesso, proprio perchè cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi: ecco spiegato il sentimento del sublime. Scrive Kant: “Noi diciamo sublime ciò che è assolutamente grande, ciò che è grande al di là di ogni comparazione…noi non possiamo avere per esso alcuna misura adatta fuori di lui, né altro criterio v’è in esso stesso. È infatti una grandezza che è uguale a se stessa …al cui paragone tutto il rimanente è piccolo [..] Le rocce che s’elevano ardite e quasi minacciose, le nuvole temporalesche che s’ammassano nel cielo tra lampi e tuoni, i vulcani

nella loro potenza devastatrice, gli uragani che lasciano dietro di sé la devastazione, l’oceano senza limite sollevatesi la tempesta, l’alta cascata di un grande fiume, tutte queste cose riducono a un insignificante piccolezza il nostro potere di resistere a tanta forza. Ma la loro vista ci esalta tanto più quanto più è spaventevole, a condizione che ci troviamo al sicuro.Ma l’animo si sente elevato…quando contemplando queste cose, senza riguardo alla loro forma, si abbandona all’immaginazione e alla ragione, la quale pur unendosi all’immaginazione senza alcun fine determinato, la estende e insieme trova che tutta la potenza dell’immaginazione stessa è inadeguata alla sue idee.”

Il sublime, quindi, è generato dall’animo umano davanti all’irrompere della Natura infinita…

E una delle sue manifestazioni più violente e travolgenti è, senza dubbio, il fenomeno vulcanico che coinvolge, da miliardi di anni, il nostro pianeta. Il vulcanismo è la manifestazione della risalita, dall’interno della Terra fino in superficie, di magma (materiale roccioso allo stato fuso, mescolati a gas e vapori). Nell’astenosfera e nella crosta terrestre si creano grosse masse magmatiche a causa della crescente pressione e temperatura. Quando il magma perde gran parte dei suoi gas e vapori, che si disperdono nell’atmosfera, si parla di lava. L’attività vulcanica dà origine, in superficie, a edifici vulcanici, che si accrescono al termine di un condotto vulcanico. La disposizione dei vulcani risulta localizzata lungo le fosse abissali, dove lo sprofondamento della crosta porta alla fusione di parte della zona di contatto, o lungo le dorsali oceaniche, dove il magma del mantello risale in superficie.Ci sono però diversi tipi di vulcani, a seconda del materiale eruttato:- Quando il magma eruttato è molto basico si dà origine a vulcano a scudo (per esempio quelli islandesi, o più genericamente le dorsali), le cui eruzioni sono frequenti e poco esplosive; la lava scorre fluida per molto, prima di solidificarsi, dando origine ad un edificio molto largo e appiattito (eruzione di tipo hawaiano, o islandese se il cratere è lineare). Il materiale è perlopiù di tipo fuso. Questi vulcani sono localizzati lungo le dorsali e nei punti caldi. - Troviamo invece un vulcano a cono quando le lave sono più acide. In questi casi il magma è molto viscoso e trova difficoltà nel risalire, solidificando velocemente una volta fuori. Alle emissione laviche si alternano emissioni di piroclastiti, ossia materiale solido che viene sparato fuori e che, alternandosi con le colate, forma gli strati dell’edificio. Eruzioni di questo tipo possono essere molto violente, poiché il magma tende ad ostruire il camino vulcanico creando un “tappo”; solo quando le pressioni interne sono sufficienti a superare l’ostruzione l’eruzione riprende (eruzione di tipo vulcaniano), ma nei casi estremi ci può essere un’esplosione che può arrivare a distruggere l’intero vulcano (eruzione di tipo peleèano). Il vulcanismo di questo tipo è presente lungo il margine

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O

x

z

O x'

continentale delle fosse o dei sistemi arco-fossa, ossia dove il magma proviene dalla crosta, ove le rocce sono di composizione più eterogenea. Vi è infine da analizzare un terzo aspetto del vulcanismo, ossia il vulcanismo secondario; quando il fenomeno eruttivo cessa e il vulcano si estingue permane comunque in profondità la camera magmatica che raffredda e solidifica nel corso di milioni di anni, nel corso dei quali continua ad interagire con il terreno, con l’acqua delle falde, con i gas in risalita. Tale massa in raffreddamento dà origine a popolari fenomeni detti manifestazioni tardive, come i geyser, le terme, le mofete, ecc.

Per la loro irruenza, le eruzioni vulcaniche, furono un tempo considerate una sorta di punizione divina per la disubbidienza degli uomini, o comunque una manifestazione diretta del volere degli dei. Ora ricordano all’uomo la sua impotenza di fronte alle forze della Natura… in una sorta di rielaborazione di quel sentimento tutto romantico del sublime… come il Leopardi davanti alla sua siepe, come il jolly davanti alla meraviglia del creato… il tempo sembra non poter mutare l’essenza più profonda dell’uomo, con la sua angoscia e i suoi sogni…

Ma di che sostanza è il tempo? E dove esso si forma? […] La notte guardo gli spazi fra le stelle, vedo il vuoto senza misura;

e ciò che travolge e porta via, è il momento fisso privo di inizio e di fine.Antonio Tabucchi

Un po’ “banalizzata” dalla letteratura, lo studio del tempo e dello spazio come grandezze relative fu portato a compimento da A. Einstein nella sua teoria della relatività.Alla base della formulazione matematica della teoria della relatività ristretta (o speciale) di Einstein, discendenti dal postulato di invarianza della velocità della luce, sono le trasformazioni di Lorentz. Esse furono inizialmente introdotte per rimuovere le contraddizioni esistenti tra elettromagnetismo e meccanica classica e spiegare i risultati nulli dell'esperimento di Michelson-Morley tramite l'introduzione del fenomeno della contrazione delle lunghezze. Sotto di esse le equazioni dell'elettromagnetismo rimangono invarianti nel passaggio tra due sistemi di riferimento tra loro in moto relativo.La luce e tutte le altre radiazioni elettromagnetiche si propagano a una velocità costante nel vuoto, la velocità della luce. Tale velocità rappresenta una costante fisica indicata tradizionalmente con la lettera c (dal latino celeritas, "velocità"). Indipendentemente dal sistema di riferimento di un osservatore o dalla velocità dell'oggetto che emette la radiazione, ogni osservatore otterrà lo stesso valore della velocità della luce. Nessuna informazione può viaggiare più velocemente di c.

In particolare: = 299 792 458 m/s 300.000 km/s.

Trasformazioni di Lorentz tra due sistemi di riferimento inerziali in configurazione standard

Una trasformazione di Lorentz è una trasformazione lineare con cui ricaviamo, a partire dalle coordinate nel sistema di riferimento S (t, x, y, z), le coordinate rispetto al sistema di riferimento S’(t', x', y', z') di un evento nello spaziotempo. Senza perdere di generalità, si può assumere che S’ abbia i tre assi spaziali paralleli a quelli di S, che il sistema S’ si muova con velocità lungo l'asse x di S e che le origini dei due sistemi di riferimento coincidano per t' = t = 0. Questi due sistemi di

t t׳

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riferimento sono detti in condizioni standard. Sotto queste condizioni le trasformazioni di Lorentz assumono la forma:

; dove e è la velocità

della luce nel vuoto. Ricorrendo a tali trasformazioni, le equazioni di Maxwell restano invariate.Come conseguenza delle trasformazioni di Lorentz si ha che:

la velocità della luce ha lo stesso valore c in qualunque sistema di

riferimento. Anzi, essa rappresenta una velocità limite, cioè la velocità v di un qualsiasi

corpo è sempre tale che v<c, infatti se fosse v>c, la quantità diventerebbe

immaginaria e la prima e la quarta trasformazione di Lorentz perderebbero di significato La lunghezza (a riposo) di un regolo di estremi A, B(coordinate misurate nello

stesso istante), misurata nel riferimento mobile, risulta contratta del fattore se viene

misurata nel riferimento fisso. La durata di un fenomeno, misurata in un punto di un sistema mobile, appare dilatata del

fattore se viene misurata nel sistema fisso.

Due eventi che sono contemporanei nel riferimento mobile non sono contemporanei nel riferimento fisso.

Contrazione delle lunghezze

Infatti, considerate le coordinate di e , nel sistema di riferimento in

moto, le coordinate spaziotemporali del regolo nel sistema fisso saranno:

Indicata con L la lunghezza del regolo nel sistema di riferimento fisso, avremo:.

Per calcolare L è necessario che sia :

.

L’espressione delle lunghezze del regolo nel riferimento fisso è:

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Se Pertanto la lunghezza è una quantità relativa ed è contratta nel riferimento in quiete.Dilatazione dei tempi

Consideriamo un fenomeno che abbia inizio nel punto e fine in , di

durata (durata propria dell’evento, misurata dall’osservatore in moto). Quale misura ottiene un osservatore fisso?! Dal suo punto di vista risulta:

pertanto: e risulta ; cioè il tempo osservato nel riferimento fisso risulta più lungo.

La vita di A. Einstein è segnata, purtroppo, dai due conflitti mondiali, dall’affermazione del regime nazista e dai suoi progetti di purificazione della razza ariana dall’imbarbarimento.Lo stesso Einstein, turbato di fronte alla disumanità di tali progetti, costretto ad allontanarsi dalla sua Germania, scrive:« I conflitti politici ed economici e le complicazioni degli ultimissimi decenni ci hanno posto davanti agli occhi pericoli che nemmeno i più neri pessimisti del secolo scorso si erano mai sognati. A quei tempi credenti e miscredenti in ugual misura accettavano le intimazioni della Bibbia sulla condotta umana come esigenze autoevidenti per gli individui e la società. Nessuno che mancasse di riconoscere il più alto ed eterno fine dell'uomo nella ricerca della verità oggettiva e della conoscenza sarebbe stato preso in seria considerazione.Eppure oggi dobbiamo ammettere con orrore che questi pilastri dell'esistenza civilizzata dell'uomo hanno perso la loro saldezza. Nazioni che un tempo ricoprivano alte posizioni si prostrano davanti ai tiranni che osano asserire impudentemente: giusto è quello che ci fa comodo! La ricerca della verità per amore della verità non ha giustificazione e non deve essere tollerata. In quei paesi si praticano apertamente e si accettano come motivati o inevitabili il governo arbitrario, l'oppressio-ne, la persecuzione di individui, fedi e comunità.E il resto del mondo si è andato lentamente assuefacendo a questi sintomi di decadimento morale.»Infatti, il 24 febbraio 1920, in una birreria di Monaco, un ex combattente austriaco, Adolf Hitler, aveva illustrato a poco più di duecento persone le 25 tesi ispiratrici del partito che doveva rimettere in equilibrio il corso del Destino […], dettare le leggi atte a riportare lo Stato tedesco ai suoi principi immortali: la nazione e il sangue. Il Partito nazionalsocialista – uno strumento per la lotta contro il parlamentarismo, il comunismo e l’ebraismo – doveva preparare la nazione germanica ad un futuro nel quale la razza superiore degli Arii, la razza dei padroni, avrebbe potuto disporre dei mezzi e delle possibilità di tutto il globo. Con quella prima manifestazione, il Partito nazionalsocialista – ricorda Hitler nelle sue memorie - spaccò il quadro ristretto delle piccole associazioni e si aprì per la prima volta all’opinione pubblica presentandosi come il più potente fattore dell’avvenire del popolo tedesco.Scrisse Hitler:La mancanza di una nazione avente unità di sangue fu per noi causa di indicibili sofferenze. Ha donato metropoli, per risiedervi, a molti potentati tedeschi, ma ha privato il popolo tedesco del diritto di dominare.Ancor oggi il nostro popolo soffre di questa interna lacerazione, di questo disgrega mento. Ma ciò che ci apportò sventura nel passato e nel presente può formare la nostra fortuna nel futuro. Perché, se, da un lato fu funesto il fatto che non abbia avuto luogo una totale fusione dei nostri originarii

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elementi di razza e quindi non si sia prodotta la formazione unitaria del nostro popolo, fu, d'altro lato, una ventura che almeno una parte del nostro miglior sangue sia, con ciò, rimasta pura e sia sfuggita all'abbassamento razziale. […]Ancor oggi noi possediamo nel nostro corpo nazionale tedesco grandi elementi, non mescolati, di uomini germanici del Nord, nei quali possiamo ravvisare il più prezioso tesoro per il nostro avvenire. […]Chi parla d'una missione del popolo tedesco sulla Terra, deve sapere che questa può solo consistere nella formazione d'uno Stato ravvisante il suo compito supremo nella conservazione e nell’incremento degli elementi più nobili, rimasti illesi, della nostra nazione; anzi dell'intiera umanità. […] Basterebbe impedire per sei secoli la capacità e la facoltà di generare nei degenerati di corpo e nei malati di spirito per liberare l'umanità da un'immensa sventura e per condurla ad uno stato di sanità oggi quasi inconcepibile. Quando sarà realizzata, in modo cosciente e metodico, e favorita la fecondità della parte più sana della nazione, si avrà una razza che, almeno in principio, avrà eliminati i germi dell'odierna decadenza fisica e morale.

Carico di tutta questa storia di mostruosità, l’uomo degli anni ’50 sente di dover ricostruire una realtà ormai distrutta basandosi su quel mondo di sogni e incubi appartenenti al subconscio: nasce così il “Teatro dell’Assurdo.”

The "Theatre of the Absurd" is a kind of drama that attempts to portray and analyse the essential question of the meaning of life in a period when religious explanations have ceased to be valid: as Nietzsche said, "God is dead" or, as Freud stated, life may be regarded as merely a "disease of matter". While a traditional play was judged by the skill, depth and realism of its characterisation and dialogue, the theatre of the absurd seemed to abandon any attempt at achieving either. This places man in the dilemma of being unable to find any essential purpose in his actions - the dilemma of existentialism, of being confronted with choices in day-to-day living and having to invent purposes and meanings for himself without any metaphysical or intrinsic principles to guide him. Naturally this also creates a problem for the dramatist: how can he create a drama, which presupposes action, when the presupposition on which existentialist drama is based is that all action is meaningless, pointless and insignificant? Beckett solves the dramatic problem by presenting characters who are obsessed by the meaninglessness of their own lives, and yet who are haunted by a memory of significance, a nostalgia for past meanings, coupled with the realisation that they are no longer valid. Out of this clash of longing and rejection he creates dramatic tension.He also strips away the usual trappings of language and character to create drama that is extremely reductivist in its methods: the personages of his plays are stylized, without individual histories or social identities, stock theatrical figures. Language, too, is stylized or patterned, to the point where it no longer expresses all the richness and variety of significance we normally associate with language, but the inarticulate sense of a pure form, an abstraction - as in music rather than speech.

These qualities are all embodied in Waiting for Godot, built around the central theme of waiting - waiting for an event that never happens. The two main characters are variously presented on stage as either tramps or clowns.One of the most important features of this drama is the minimalistic set: a stylized tree, no more than a stem with two or three leaves attached, by a country road.The road suggests the homelessness of the characters (they sleep outdoors, one of them in a ditch) and emphasizes the fact that they are going nowhere, although just possibly someone might arrive. By the tree, the two main characters, Estragon and Vladimir, are waiting for 'Mr Godot'. Day and night pass; the other two named characters appear, the same dialogue patterns and themes are repeated, the same hopes that Godot will come, the same disappointments and frustrations constantly recur.The main theme of the play is obviously that of waiting. Although it is not unusual in the theatre, Beckett stands apart for the nihilism, uselessness and absurdity of his "waiting," which involves not

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only the characters on the stage, but the audience as well, which is kept waiting for what's going to happen next, while nothing happens at all. On the other hand, the act of waiting itself may be seen as something positive, suggesting faith and hope.There are, however, many more themes to the play than that: among them let us mention: the search for identity, underlined by the characters often being referred to by different names (Didi, Gogo, Albert);the monotony of life, represented in the circular and repetitive structure of the play; action without progression, since "the only progress that interests Beckett is not upwards and outwards, but inwards and downwards";the inability to act, a theme emphasized in Beckett's subsequent works, where the characters are progressively (and symbolically) deprived of any form of movement and even of their own limbs and voices;a preoccupation with time: "time" is perhaps the word that is most frequently mentioned in the play; it lacks any connotation of quantity or quality; it either fails to pass at all, or it is too slow or too fast. There are virtually no children in Beckett's plays, and his characters deteriorate quite rapidly. Their preoccupation with how to pass time often leads them to nonsensical talk and gestures.

Vladimir: Well? Shall we go?Estragon: Yes, let’s go. They do not move…

A voi la scelta:

meglio diventare jolly…

O

restare fermi in attesa di Godot,

lasciandosi vivere da una vita che non ci appartiene?

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Il concetto di probabilità, introdotto nel '600, è andato precisandosi nel tempo, divenendo la base di una branca della statistica ( statistica inferenziale), cui fanno continuamente ricorso numerose scienze sia naturali che sociali. Al momento non esiste ancora un’interpretazione universalmente accettata e della probabilità vengono date diverse definizioni:

Definizione classica (Laplace): La probabilità di un evento è il rapporto tra il numero dei casi favorevoli al verificarsi dell’evento e il numero dei casi possibili, purché questi ultimi siano tutti ugualmente possibili. Quindi per la teoria classica, dato l’insieme E degli esiti elementari di un esperimento e un suo sottoinsieme A (detto evento), se i casi possibili sono

e i casi favorevoli al verificarsi dell’evento A sono , la probabilità che si verifichi

l'evento A sarà data da: , .

L’evento certo ha probabilità 1, quello impossibile ha probabilità 0. La teoria classica considera che tutti i casi siano equiprobabili, cosa che, invece, nella realtà non sempre accade. La legge frequentista o legge empirica del caso, partendo dalla considerazione che gli eventi non sempre sono equiprobabili, si basa sulla sperimentazione.

Definizione frequentista (Von Mises): La probabilità di un evento è il limite a cui tende la frequenza relativa dell'evento stesso quando il numero delle prove tende all'infinito.Per la teoria frequentista, detto il numero di prove effettuate ed la frequenza con cui si

verifica l’evento A, la probabilità sarà data da: .

Tale definizione poggia su quella che è definita legge empirica del caso ovvero legge dei grandi numeri: in una successione di prove effettuate nelle medesime condizioni, la frequenza di un evento si avvicina alla probabilità dell'evento stesso, e l'approssimazione tende a migliorare con l'aumentare delle prove.Essa si applica ad esperimenti casuali i cui eventi elementari non si possono ritenere ugualmente possibili, ma l'esperimento è ripetibile più volte sotto le stesse condizioni.

http://www.griaf.unipa.it/ProTerm/entropia/applets/urna/applet_estrazioni.htm

Definizione soggettiva o soggettivista (De Finetti, Savage, Ramsey): La probabilità di un evento è il grado di fiducia che un individuo nutre nel verificarsi dell’evento in questione, sulla base dell'esperienza personale e delle informazioni disponibili in un determinato momento. Si applica a esperimenti casuali i cui eventi elementari non si possono ritenere ugualmente possibili e l'esperimento non è ripetibile più volte sotto le stesse condizioni.

Immaginiamo che ci sia una partita di calcio e che lo spazio dei tre eventi siano “la vittoria della squadra di casa, la vittoria della squadra ospite e il pareggio”. Vediamo cosa succede con i tre approcci: secondo la teoria classica esiste 1 probabilità su 3 che avvenga il primo evento secondo la teoria frequentista ci si può dotare di un almanacco, controllare tutte le partite

precedenti e calcolare la frequenza di un evento secondo la teoria soggettiva, ci si può documentare sullo stato di forma dei calciatori, sul

terreno di gioco e così via fino ad emettere una probabilità soggettiva. Possiamo notare che nella definizione classica è contenuto un vizio logico: supporre che tutti i casi siano egualmente possibili implica aver definito in precedenza la probabilità nel momento stesso in cui la si definisce.La definizione frequentista viene messa in crisi in quanto, essendo una legge sperimentale necessita di un numero molto elevato di osservazioni, inoltre è generalmente impossibile ripetere le prove nelle medesime condizioni, anzi in molte situazioni le prove non sono ripetibili.

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La definizione soggettivista si contrappone a quella classica e a quella frequentista in quanto non riconosce alla probabilità alcun contenuto oggettivo, ma per tale motivo non è accettata da molti.L'impostazione assiomatica della probabilità, proposta da Andrey Nikolaevich Kolmogorov nel 1933 sviluppa la ricerca sul dibattito fra quanti consideravano la probabilità come il limite di frequenze relative e quanti cercavano un fondamento logico della stessa. Definizione assiomatica (proposta da Andrey Nikolaevich Kolmogorov nel 1933): La

probabilità viene definita in termini di insiemi e di teoria della misura, in modo da ottenere una costruzione formale della teoria della probabilità a prescindere dal significato da attribuire al termine probabilità. La teoria della probabilità pertanto, secondo i matematici, è lo studio di uno spazio astratto di probabilità (su cui sono ad esempio definite le variabili casuali).

Alla base della trattazione della teoria assiomatica della probabilità c’è il concetto di -algebra e quello di spazio di probabilità.

-algebraDato un insieme non vuoto e una famiglia F di sottoinsiemi di (cioè ), si dice che F è

una σ-algebra su se gode delle seguenti proprietà:

Teoria assiomatica della probabilitàLa teoria assiomatica della probabilità assume come concetto base quello di spazio di probabilità.

Si chiama spazio di probabilità una terna ,dove

è un insieme non vuoto, chiamato spazio campionario, i cui elementi si possono pensare come gli esiti elementari possibili di un esperimento.

è una -algebra di sottoinsiemi di i cui elementi sono chiamati eventi. P è una misura della probabilità in , così definita:   

, con , tale che:

1.

2.

3.

È importante notare che P è definita in e non in .

Esempio

Preso un mazzo di 52 carte da gioco e due jolly, se estraiamo una singola carta dal mazzo, allora lo spazio campionario è un set di 54 elementi, in quanto ogni carta individualmente è un possibile risultato. Un evento, invece, è qualsiasi sottoinsieme dello spazio campionario, incluso qualsiasi insieme singolo (cioè uno dei 54 eventi elementari, difatti ognuno di essi rappresenta una delle possibili carte che si possono estrarre dal mazzo), l'insieme vuoto (che è definito avere probabilità

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zero) e l'intero set di 54 carte, cioè lo spazio campionario stesso (che è definito avere probabilità uno). Altri eventi sono sottoinsiemi propri dello spazio campionario, ognuno dei quali contiene elementi multipli. Quindi, per esempio, eventi potenziali includono:

"Rosso e nero insieme, ma non jolly" (0 elementi), "Il 5 di cuori" (un elemento), "Un Re" (4 elementi), "Una carta di picche" (13 elementi), "Una carta (54 elementi).

Teoremi

Dagli assiomi della probabilità derivano alcuni teoremi fondamentali, quali

il teorema della probabilità totale:

il teorema della probabilità composta:

il teorema della probabilità assoluta:

il teorema di Bayes:

nonché concetti chiave come

la probabilità condizionata:

l'indipendenza stocastica:

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BIBLIOGRAFIA:

L'enigma del solitario- gaarder

Protagonisti e testi della filosofia - Abbagnano

Il libro di letteratura - Attalienti

Dal testo alla storia, dalla storia al testo - Baldi

Storia dell'arte

Il globo terrestre e la sua evoluzione - Calmieri

Storia e storiografia - Desideri

http://www.unitus.it/scienze/giovani/Lucci/japa/vulcani.html

http://www.discipulus.it/includes/DeBrevitateVitae.pdf

http://it.wikipedia.org

http://www.griaf.unipa.it/ProTerm/entropia/applets/urna/applet_estrazioni.htm

http://scholar.uwinnipeg.ca/courses/38/4500.6-001/Cosmology/SpecialRelativity.htm

internet

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