Matteo Mazzone CAMPI DI ASFODELI - Associazione '9cento · Giuseppe Ungaretti
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Matteo Mazzone
CAMPI DI ASFODELI Introduzione dell’autore e postfazione di Fausto Ciatti
Infingardamente desisto
resisto
poi che il vento batte
di carne in carne
solipsistico rabdomante
la mia pausa accresce gli inani
asfissianti impetuosi
campi di asfodeli.
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Alla mia famiglia,
a Marco, Alice, Alessandro.
Ad Ernesto e Fausto.
A mia nipote che coltivi il lento,
lento amore per le sudate carte.
<<Ma avremmo vita senza il tuo variare,
Felice colpa?>>
Giuseppe Ungaretti
<<A questo mi sono ridotto: quando
scrivo poesia è per difendermi e lottare,
compromettendomi, rinunciando
a ogni antica mia dignità: appare,
così, indifeso quel mio cuore elegiaco
di cui ho vergogna>>
Pier Paolo Pasolini
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Matteo Mazzone
CAMPI DI ASFODELI
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Introduzione
Campi di asfodeli è un libro sovraffollato: apparenze, ricordi, figure
presenti od assenti, paesaggi deleteri nella transitorietà
evanescente di uno sguardo poetico che li cattura in un fermo
immagine. Tutto in rapporto alla magmaticità del reale, del cosmo
entro il quale, come pedine in balìa del caso, ed a balia di esso,
vortichiamo incessantemente. È, dei tre, il libro che amo di più, che
sento più mio, che sento più riuscito nella mia parabola di poeta,
nell’analizzare il rapporto nevrastenico col reale che non mi
appartiene, che sottace, ascosamente, la sua essenza più intima e
veritiera, quel nulla che non si esaurisce proprio in quanto indicibile
nel suo non dirsi. Dal nulla proviene tale contrasto rigenerativo,
nonché dualistico, tra vita e morte: una tenzone indissipabile nella
opposizione limacciosa e contrastante dei suddetti concetti, ma in
un’esistenza parallela dei due fino a delimitarsi, a confinarsi,
nell'eterno volgere del tempo, della sua azione corrosiva,
distruttrice; dalla vita nasce la morte come dalla morte nasce la
vita: gli opposti non si annullano perché continuano a perseverare
ed a preservare, nelle epoche e nelle età, il ricambio
generazionale di un mondo connotato da una sua intrinseca e
paraplegica sofferenza. Così la poesia, la mia poesia, scava al
fondo di questa sofferenza, di questo denso dolore per
riaffermarne la libidine masochistica e, più semplicemente, non
auspica alla ricerca di una gioia alternativa, di una gaiezza
propedeutica a risarcirne lo straziante schiudersi parallelo di quella
vita-morte che procede nella stessa direzione, fino a procreare,
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con relativo dispendio di energia dovuto alla sua intima ciclicità, un
risultato infimo quanto nullificante, insoddisfacente ed inutile.
La tripartizione della raccolta analizza il processo vita-morte
attraverso tre momenti che fermano l'autobiografismo sentimentale
nella prima sezione, Galleria Mazzoniana, per poi adagiarsi sulle
voci di quei poeti che hanno saputo intravvedere nel mondo e nella
società un chiaro destino di caoticità funeraria - e qui rimando a Di
parodia in parodia - fino al ritorno autobiografico e parodico, che si
fa summa delle precedenti due sezioni, contenuto dell'ultima parte
dei Dieci Haiku.
Ed allora nella prima assistiamo ad un ritorno incessante di fulgori
balenanti, di immagini poetiche, autobiografiche o meno, di
improvvisi lampi nitidi che si abbarbicano ad ombre di un passato
aleatorio che riacquista la sua connotazione vitale per ricadere in
un presente segnato da morte, ma pure indagini personali sul mio
destino, che scruta con interrogatori sibillini il futuro, presagio di
quella irreversibilità che mi allontana, ora, dal mio triste essere poi,
ma che in un batter d'occhio mi proietta, fantasticamente, nella
condizione di adulto, di maturo e di vecchio, fino a quella di
defunto. Nella seconda sezione il discorso sembra prendere una
piega più dolce e silenziosa, pacata e smorzata, in virtù di intenti
parodistico-ironici nel riproporre il tema conduttore vita-morte, che
assuefà l'intera raccolta, già analizzato da alcuni pilastri della
letteratura: così mi diverto, riproducendone anche l'invettiva
linguistica, badando molto ai significati ma pure interessandomi ai
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significanti ed agli accostamenti fonici, a contraffare i loro intenti, i
loro giudizi, ora accostandomene, ora allontanandomene, sempre
col massimo rispetto. Poi, si aggiunga una funzione prettamente
didascalica: quella di spronare l'ipotetico lettore a scandagliare più
a fondo l'operato dei poeti citati: con palazzeschiana, oltre che al
titolo della poesia e al nome del poeta burlato, vorrei che Aldo
Palazzeschi, all'anagrafe Aldo Giurlani, fosse conosciuto per ciò
che ha prodotto, e non perché titolo apparentemente scherzoso di
una poesia di un ventunenne. Infine la terza sezione cesella e
condensa, sotto la pretenziosità metrica e nipponica dell'haiku1,
stati d'animo già altrove espressi: i tre versi di cui si costituisce il
componimento (quinario – settenario – quinario) assorbe, giuochi
linguistici permettendo, una carica esplosiva di emozioni e di
invettive, mine vaganti gettate nel vuoto del mondo di cui non resta
che la natura, la sola esperienza autentica e vera, coi suoi
connotati semplici e gemmanti che fanno cogliere fugacemente
una via di scampo, presto sfumata e inglobata nella desolazione di
una realtà simbolica inattuabile.
Matteo Mazzone
1: a tal proposito l’eminente Zanzotto, oltre a lodarne <<la grazia mai tracotante>>, ne
sottolinea il suo <<non-luogo, un vago mancamento, un sussurro dolcemente ritualizzato, il
non-rumore del senso che si affaccia dentro il non senso della natura quasi a volerlo
preservare, perché la natura deve abitare in esso per restare madre di tutti i sensi>>.
Per chiarimenti, si vedano le limpide pagine della prosa saggistica zanzottiana di <<Cento
Haiku>>, in <<Fantasie di avvicinamento>>, di Andrea Zanzotto, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano, 1991, pagg. 347-353.
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Galleria Mazzoniana
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Fantasticherie
Portami a vedere la cicoria blu
lassù, sì, lassù,
vedi come il campo è tutto blu
il loto cappellano
- che aspetta la carezza sul tronco -
poiché fredda è la malinconia quaggiù
che spezza ogni individuo
pure tu
non farti male, se cadi dai tuoi sogni
badabùm
non aver paura
poiché è solo la cicoria blu.
Portami lassù, dove tutto è blu,
- seminando gioia e dolore-
insegnami a non averne più,
degli alberi a non temer le foglie.
Portami
ora
la cicoria blu.
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Guarigione
Qualcuno può avere le chiavi
del mio cuore affranto.
Un soffio caldo
o poesia dagli occhi
si esprime e mi flette
di brivido in brivido.
Là, dove io sto beato,
mi rallegro d'avere
quell’angelo in terra.
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Ricordo
Zio, non senti le campane scandire
il tuo lutto? Ed il dramma? Non
affacci più lo sguardo terreno
sulla coltre diamantata di giada.
La lucertola intiepidisce il sangue
raffermo: ma tu, pallidamente rivolto,
assorbi gli indistinti fumi delle zolle
che smossi per te: ed è
là che tornammo, tristi inquietudini
frementi in un addio irrevocabile.
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Minuetto
Impartita è la lezione
in questo perdurato
tempo inabissato
la vita è un giuoco di pena.
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Il peccato vien poetando
Avanzi col tuo passo nel varco
stai fermo, astante, bavoso
e nutri paura
se lanciarti al di là del precipizio
accattivante il demonio
nello spazio circoscritto
agisce, sai, il demonio
ma a me piace essere malvagio
come a te essere buonista
giacere,
sentire l'onda del proibito che mi rabbrividisce
e godermi nel mio intimo segreto
un serafino ardente
che non vuole volare
ma si compiace nel paradiso del peccato.
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Irrecuperabilità di lei
Cercata ti ho
nelle cinabri profondità
mentre vapora quel che di me resta
maleodoranti putredini
dai confini impalpabili
un apice di soffusa bontà
schiariva le palpebre ombrose
addolciva l'eterno
cinguettio
nei nidi tra le diroccate cimase.
Quella lontana frescura
che mi rendeva a me
e tu a spargermi i fiori di loto
e l'incenso, ultimo saluto.
Adagiati mio emblema, Amore
tu che sei solita sverginarmi
col tuo odore
se impossessarti di questo
cadavere
per tu sola che m'ami
è la tua giusta dote.
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viva Bomba futurista
La devastazione
certo, la bomba è affascinante
come sgozzare una giugulare
quei dolci fiotti di sangue a macchiare la terra
così nemica
ricorda quel prato di fiori intriso di dolore
ovunque il piede si posi,
se l’uomo s’accorgesse che amare
in fondo è appassionarsi all’anima diversa
se smettesse
la genuflessioncella al male
d’epopea metastasiana
all’occhio del ricco d’odio unico comando.
Aldo, Paolo
gli imperi mancati, adesso divorati
si riassestano al tavolo diplomatico
a discutere nei faldoni secchi di merda
mentre
il tuo scandalo si abbarbica nelle coscienze
degli occidentali pudichi
e der Meister prepara il preludio,
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il preludio alla salvezza
cadenti curvanti lecci.
Che sia la morte la salvezza?
Disperazione
equivale a barlume nell’esserci.
Come è bella la bomba,
anti-futurista
anti- pubblicità
anti-amore.
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Leitmotiv
Esistenza
la ferita
a tratti
si lenisce.
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Palinodia -non celebre- alla vita
Nella dama di vetro
torcendomi, mi snodo
per salvare questa fragile entità
ch’al cuore s’appella
simile ad un apostolo dimenticato
che cerca di spiegarsi
al vento che parla
al sole che irradia
ma flette il girasole screziato
simbolo della mia decaduta speranza.
Zitto
nella dama di vetro
ad occhi chiusi lambisco la linea del confine
estesa in percorso verticale
da nadir a zenit della sua importanza
senza travalicare l’ignota felicità alla sua destra.
Rimpiangere la vita
è far seccare la rosea ninfea nel lago
e felicità è amarsi
mi amerò con dolore.
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Lo specolo
Guardando i tuoi occhi
il seme che aspetto da tempo
rinascere dallo sprofondo lugubre,
il silenzio che ravviva la metastasi
delle mie malattie
darti un bacio sulla guancia
e niente più caos nei miei pensieri.
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I passi
Un passo
due passi
l’acacia appoggiata al tetto della masseria:
la tempesta innocente
ha travolto il simbolo della tenacia.
*****
Un passo
due passi
il ragazzo laggiù nel folto del grano
di sangue sporcato
con in mano un libro del Penna, più lontano un Pascoli
a leggere il gemito lamentevole,
delizia mio ragazzo alle nostre orecchie:
tu, che vuoi amare solo il tuo
costernato dolore.
Lamento della cronica
inesistenza
impurezza
inutilità.
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Tempo dell’io asfittico
Mio tempo,
sui tetti non s'ode
che il batter lento della pioggia
calma sentenzia
lo scorrere acre
dell'ora maledettamente buia
cui mi accingo a spegner me stesso.
Il sonno è simile alla morte
quella dolce compagnia
esiziale ai più
che mi è fedele
se cammino per strada
se arcigno lo sguardo rivolgo
all’uomo primo mio defunto.
Volgendo al plenilunio
la nuvola s'allontana laggiù
nel cielo vorticoso di stelle infinite
il pianto è mio grido
di sconsolata triste realtà.
Io solo e furtivo,
di mio petto risoluto
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persisto in questa mia condizione
di assetato d'amore
noia è la vita
sentimento tormentoso
che mi punge come aghi e spine
e stilla un sangue rovente un’ignota consolazione.
Ora qua,
sul mondo dei terreni sentimenti,
mi accingo all’evenemenziale descrizione
di un io
segnato da asfissia.
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Leitmotiv 2
Miraggio
un bacio veloce
destino
erma morte s'appresti
ad essere
una.
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(Libri librati in postmodernismo)
Dei libri
vuotano l'agonia amara
quella sconsolata conclusione
cui arrivo quando chiudo
l'ultima pagina
e ricordo una vaga
loro voce misterica che rintocca
smisurata nel cuore invitto
infelice tremante, quel cuore
ferito dal dardo
della gnome esistenziale.
L'agonia partecipa attiva alla mia esistenza
palingenesi anti-costruttiva del dolore
anti-postmoderna
sentimentalmente patetica
quell'anti- anti, combattivo furore di gioventù
che riecheggia di echi militareschi
che vuole spruzzar sangue nero d'inchiostro
sulle pareti più terse della pelle umana
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nei languidi anfratti del piacere
nascosti ai più timidi
perché flagellati, malati di pudore
quel secco pudore
che rischia di eliminare l'esistenza
o se essa esiste
di convertirla in una piana, turpe, sempliciotta andatura
vitale
ora monotona, ora monotòna, che non stecca di una
nota
che non prova più di un piacere se non il lamento
continuo
inutile
della
sua
nul-
li-
tà.
Ah, quale negligenza l'esistenza,
l'essere in un vortice
di applicata infelicità
amoreggiare con Gadda
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o col suo intrinseco dolore
delimitando il confine tra libro ed anima.
Giacendo immobili,
seduti sul tridente purpureo
sfrecciando in pieno stile impero
di quell'eleganza di cui godi beato
e preghi che tal momento divenga infinito
t'assalga le membra di lodevole gioia:
amara consolazione
l'oggetto e non l'umano.
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Quartina malandrina
Mi sento cedere
desueta consueta malinconia
violenta stringimi
col tuo flagello che usma di vita.
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Alla sera
Nella sera sperduta
quando il tempo sembra fermarsi
ed il suono del vacuo
-non tanto quel vacuo di morte-
trapana assordante l'udito
me solo, d’umore sconsolato,
non voglio agire,
io non cerco se non quanto distrutto
nel mio silenzio indisturbato
nel mio isolamento forzato,
obliato
fin quando la luce dei vostri occhi
sia stata materna salvezza;
quale smisurata passione,
quale smisurato ardore
mi assalgono dirimpetto
e non la contraddizione di
essere qui lasciato come una cosa strappata
ma desiderare
di stare tra i più.
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Nella sera sperduta
quando il tempo sembra fermarsi
di là nel mondo sento un rumore di esistenza
da me lontano né vicino.
Mi dimezzo alla finestra
seguendo il profumo sbocciato del pitosforo bianco
e mi annido su di lui
col mio cervello
intricato
in giravolte di pensieri.
Mentre tace buia la notte
bramo di disvelare Maia o Iside
sotto cui, o Natura,
dormi placido sonno:
afferrare quell'infinitesima parte
di tua bellezza,
eternità a me sconosciuta.
Piansi il mio bramare
piansi il mio sognare
piansi il mio piangere.
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La morte perfetta
Sovente
ripenso alla tua venuta
quando taciturna vuoterai
il corpo
per riempirlo di parossistico fremito.
Sovente
m'immagino il giuoco dei sogni,
tu ed io, io e tu
amorevolmente colti in amplesso,
uniti e disgiunti in
una sinuosa spirale di dolore
ed in fondo la luce
l'artefice produttrice delle mie parole,
la luce creatrice
e genitrice de' miei pianti .
Costruisco il non - essere
quella stasi immodificabile,
inattuabile;
ora
nel mio loden blu notte mi aggiro
simile a flâneur datato
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e degli uomini non vedo che il loro
apparire di ombre.
Talora cala il sogno
la magica mistica visione
l'ineffabile appiglio o
sessuale aggroviglio con lei:
(a chi posso raccontare?)
l’estasi inebriante
s'insinua morso dopo morso
morso di dolore o
morso d'amore
sulla carne profumata e tenera della
mia donna
caduca,
canuta,
sterile.
Amore, mia compagnia di sogno
pensiero dominante
perché bruci nei
botri inaciditi che son queste vene
in queste putredini assemblate?
Vorrei provare
ed osare la conoscenza
di un nuovo respiro
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in due
ma per ora vedo solo l'appannaggio
del mio alito
sullo specchio della finestra di camera.
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Indissolubile fissità
Sapevo che il vento sfregiasse
il tuo volto già logoro:
m'ami ancora nel nostro
dissodato sodalizio ed un'ombra
impura assorbe i fiori angosciosi:
l'umanità sfrigola in fiale di fiele
discende perdendo il viale serotino
non più rimugina l'arcobaleno cromato
di rosso, poi verde, già giallo.
I miei dolori esorbitano in quel grumo
di sogni che vale come minaccia
inesorabilmente: poi una lenta
stanca dea di un mito che fu
si rinnova in deliri di luce,
simboli straziati dal tuo giuoco
di povertà.
Mi manchi, amore: mi manchi.
Annotta l'attimo esente dal tuo
capriccio di donna, che ti rende una,
indissolubile fissità.
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Tu non ricordi
Era la notte
che affondava disperata le sue voci
in derisi avvertimenti di morte:
il melo limoncella profumava l'aria
sul pozzo rosso di mattoni
ed un sibilo straziante di cicala
incespicava laggiù, mai più
così triste la casa umana un tempo lare
del nostro segreto templare.
Un bivio traspare opaco tra me e te
gli allori di creta in cresta smuovono
la calura fissa e stantia: ravvia il tuo giuoco
che nuovo si rende uno smacco di luce
nel cielo smargiasso.
Rampicano i vetrici su d'un veliero
che svia di lontano il cammino: sarà
un inchino al tuo adulto amore snaturato.
Un'ombra tra ombre malinconica sopravvive:
divide l'eterno il suo volgersi dilatato;
giammai si spegne il suo nome che ha forza
di essere scorta di confine.
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Ma io, trasecolato, vivrò la serenità
di un abbraccio carezzevole: il faro o la bara
di pansé chiuderà ad arco il tuo volto
incastonato di diamanti millantanti che nel folto
intorbidano il mio vuoto: nuoto là tra
onde di occasioni perdute immemore
del mio tatto che sfiorò il tuo corpo di donna sfatto.
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Vita fu?
Dimenticato per sempre
quel dolce
sussurro di vita.
Ahimè, gli amanti nel letto che teneri baci devono darsi.
******
Semplicemente
il sole dipinge l’universo.
Naturalmente
tra la fuga del muro
il giusquiamo secerne
il veleno
con cui tacerò
questa
languida brezza
di voce.
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Troppo umana
Da quando intonai il mio ultimo
canto, sparisti ancora più su
tra le spirali indolenti del tempo
assiepata tra l’ombre del pesco ricurvo:
fu l’attimo assente a concedermi
quel triste frangente di coscienza,
di caldo scibile: là nel tuo lungo
spazio adagiata come puro soffio,
inosservata tra i simulacri elisi
ti svisi più deforme che mai
più lunga del tuo passo contorto
che amai, inarcato l’ultimo sfiato:
il girasole scolla la sua libertà
volgendosi al corso del sole;
così il fuoco per cui consumo
si farà breccia del mio perduto orrore.
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Ma tu continua ad evolverti, figura,
a non morire per me, a straziare
un lembo di pietà vitale nel tuo
non riconfluirmi troppo umana:
seduto sul limine di un fiume
il dolce barlume del tuo odore
udrò come quando bevemmo
il calice della nostra defunta ebbrezza.
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Attesa
Già tuona il lampo nel cielo:
io zitto odo ora la cavalla
che nitrisce al tuo passaggio; lenta
si dimena la frusta di ginestra gialla
sul pendio dove prima erano le viti.
Ma potrà la solitudine arricchire
l'anziano tuo essere stata?
Dimentichi, raggelata
tra i contorni di una foto sbiadita
l'odore delle more macerate al sole:
poi le viole
che ancora cogliemmo in sogno d'allora.
Tu trinci la sagoma d'orpello
la mussolina rimuovi dal corpo imbellettato:
ed il nudo accende quel senso di pudico
riscatto; sinuosa mi squadri con quel
tuo ventaglio puro di piume ripudiato:
segui indiscreta ogni mia mossa verso
di te e la dote che ho perso
ti darò come pegno. Sarà un canto di colombi
a biasimare il nostro defunto epitalamio.
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Frammenti d’un riflesso
Dinoccolano le strade lucenti
quando suona la litania delle
prefiche in corteo: sebbene
disparate nei loro tuguri in mucchi
seguono il cocchio aurato di giri
dove la vita è triste presentimento.
Mai più suona il violoncello nelle
notti dolci quando ti facesti preda
dei miei sogni: così nuda e fresca,
mi desti la tua mano al nostro
sodalizio d’amore: fu una tragedia
di scontri in guerra palpitanti: giammai
si stempra il tuo volto sul guanciale
laddove mi fece male il tuo
ridestarti muta: eppure illividita
come una perla ammaccata,
slavata dal non sentirti più mia,
salutavi morta ormai il mio nome
rifugiavi nella pietra del portone
laddove ti strinsi, tempo immemore.
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Ora sul lagno giuoca un ragno
colla tela d’infinite presenze
mentre, volgendo, parlo di te
ai pini che avviliscono
sul confine del tuo giardino.
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I ligustri di San Marco
Per niente
non dispera il cuore.
Il desiderio di sapere che mi guardi
tra la nuvole tempestose nel cielo in dissesto
(ti ho sognata lontana stanotte
ti ho sognato lontano oggi)
o tra il fruscio lento dei ligustri centenari:
uno, due a coppie, tre abbarbicati
nell’alto dei loro fusti.
Chiamavo
una donna-uomo
un androgino che amore sappia darmi,
intensa morte, tua e mia.
Tra i fusti lisci
dov’è non v’è scorza muschiosa, s’affrascano le foglie
dei teneri ligustri:
stupisco a mirare il peso del peso
e mi bacio frettolosamente la mano
con cui ho abbrancato codesta penna
per scrivere quel poco che sono
o quel tanto che vorrei essere
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in questo limbo purgatoriale dove non è luce.
La mia luce s’infrasca tra le frasche riarse dei
miei ligustri
ma non riscalda a dovere l’epidermide esfoliante
che sfoglia come la foglia
per poi non buttare più.
Che bonomia la natura! Vedersi scortecciato.
Nella terra dove il sole non sorge mai -
là gli astri saranno ameni diademi splendenti,
anonimi indipendenti -
nella costruita Bengodi danzerò con te,
pur lì nettamente bolso di fatica
bilioso e borioso.
Un querulo pianto
e tu mi amerai come sempre,
solitudine.
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A mio nipote
Ventuno età in più
di misera esistenza,
non molti ad avvicinare
stesso sangue
purché legga nei tuoi occhi quello
che mancò nei miei,
amore mio.
Non so se sei un lui o una lei,
nemmeno se magro o pingue,
figurarsi se mancino o destro
che importa sapere
quando scoprire è più lieto:
lieto come il tonfo cadenzato di un’albicocca giugnola
o di quella tardiva agostana
che rotolando dall’albero
si posa al piè del fusto.
Dolce come vedere che raccoglierai
e ti ciberai di essa, succo di vita,
odioso bisillabo, meschino abusato,
di cui io non ricordo
neanche la sostanza.
Or sei poco più d’un baccello verde
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immaturo
in grembo:
aspetta, aspetta.
Mio principe, mia principessa
che noia avere uno zio poeta!
Uno zio scrittore, ventunenne,
sì amore,
che dice quel che sente:
sia di morire, sia di annegar tra la gente.
Ma tu,
lenta speranza
che voli nella fantasia
di questo mio qualunque giorno in corso d’essere,
leggerai chi fui
seduto su una scrivania di noce e di cristallo:
come un’ombra che la quercia fa al
piccolo querciolo
ti accarezzerò delicatamente
i capelli
sperando
di essermi sentito
per un baleno.
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13 Agosto 2015
È un delirio di piume:
si snodano sul campo dissodato
che scende lungo la piana dei pioppi
in argine;
ritorna il tuo segreto, bambina,
che non si stanca di apparire nuovo.
Non più varca l’orizzonte ancora
nel parapiglia di lampi tempestosi:
un giorno è già avanzato
come scaglia del tempo che fu.
Se di opali sei tutta circonfusa,
il tuo piccolo accestire lento si consuma:
arrechi indisturbata quel senso di vita
che il tuo nome infonde astrale
e più non cerchi l’estinto piacere;
ora muovi il tuo indice arcuato
nella realtà dei taciturni legami:
un tuo grido ferma la nostra discesa
incolmabile di ripidi trionfi. Là,
infingarda memoria trasalirà al tuo
ricordo: svezzata la pudica felicità
dirompe la tua dismisura assiale:
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che dolce come il mattino invernale
si colora di rosei albori d’attesa.
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L’ abbandono
Arieggi
soffice malinconia,
volteggi tra le fronde del loto supremo
che ha corteccia screpolata:
deh! carico di dolci frutti
che non ho mai visto maturare,
che mai mangiai con te.
Ed è appeso il bastone
su cui covavi l’ora,
non guardavi l’orologio:
nessun avvertimento; indolente,
amicale morte colpisti,
quel dolce amore al quale
le palpebre chiudesti
per il sonno eterno.
Svanì l’inganno che molti chiamano vita:
ma tu, pensiero dominatore
che non m’abbandoni,
chi ti generò?
Volteggi tra il fico ed il melo
ed il cerro laggiù:
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vedi: come non sono più le foglie,
come non sei più tu.
Come sono ancora io:
il mio singhiozzo di vita
ed il tuo spento e sigillato respiro
murato, mutato,
si allenta lentamente;
non è che un tempo di più facile
avvenire.
Al di là dell’aldilà
non si vive che di tormento.
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Sangue con amore
Non ho tempo
per l’indecisione sciacallo:
non ho tempo
di espiare i miei
peccati.
All’alba infliggere un pugnale
dipoi raccogliere le spoglie opime del mio sodale.
Oh amico!
Sei così pieno di sangue
che navighi già nel tuo bistratto ego volumetrico
che dice:
non-senso
non-sento
più ormai.
***
Quanto amai, qualche volta.
Gli mormorai tutto il mio disastroso enimma
e lui poco intese:
sorrise e pianse.
Io girovago vorticoso instancabile
m’addentravo nel spiegarmi meglio;
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mi guardava inebetito
niente profferì.
Quanto odiai, quasi sempre.
***
Divelte
le radici dell’esistenza
ci sciancammo assieme
come due
tarlati roveri secolari.
56
Metafisica reale
Risboccia il fiore di mimosa
così come quello di datura
ritorna il tuo sorriso dalla rugiadosa velatura,
Ginevra,
ed il frangente del mio incedere
s’innesta nella mente.
Ciò che dissi più non dico
ciò che dico più non dirò
se gli astri vorranno l’infinito lamento perpetuare
di quei dolci giovani ragazzi
che sembrano felici! Fenici nel paradiso laggiù,
ah che tempi stretti son questi:
(il non-luogo implica il non-tempo:
da stazione a stazione
il mio braccio sfrega quello del vicino
e la ria aria s’annuvola d’erosione).
Una marcia carcassa - ciò che dissi -
di petali s’ammassa
attorno alla mia semenza spirituale:
sul mio stretto petto incombe il tuo volto
che fisso, fanciulla, mi fissa:
57
se tenti di capirmi
divinamente consumati ,
tra le ginocchia sberciate.
Sbriciola il platano malato
che schianta gemente
al primo vento.
58
Leitmotiv 3
Le tue ombre
di lacrime mi godo disperato.
Il tuo nero
ammanto circonfuso
alito freddo, oh mia metà, che sei morte:
più gradito sarai tra le
coperte appena dischiuse.
59
Autoritratto
Nell'intimo della mia promiscuità
avrei voluto essere diniego
a ciò che vissi
vivo e vivrò.
Se fosse stato semplice
annegarmi nel Lete colla galeazza
squagliarmi serenamente
come una ragazza
al suo primo amore
serenamente affievolirsi il canto blu
della viola melodiosa
ora non più dolore:
un calice d'oppio liquido
un altro
mi ravviva la droga, l'assuefazione che poi
da solo (non importa oppure non è nuovo)
degusto la mia anima
nel vortice allucinato della vostra sicurezza
che più non mi fotte.
Stasera abbandono la notte:
60
non v'è posto per il funesto
che disconosce se stesso.
61
Campi di asfodeli
Infingardamente desisto
resisto
poi che il vento batte
di carne in carne
solipsistico rabdomante
la mia pausa accresce gli inani
asfissianti impetuosi
campi di asfodeli.
62
Poesia in poesia
Che so
intanto mi cerchi disperata creatura
dove vaghi
innominata velatura
volteggi insaziabile
tra la rosa bruma: non più distingui il movimento
lieve fermento
giallo zafferano il colle
tra le genziane di blu
nella vetusta terra blindata dal tuo pudore
mio odore di donna
che so, rossa di passione,
il volto, le gote tue umide
più non voli intorno all’amato disturbato
arancione razione
di zucca tu doni come dote:
colori l’attimo: fermati, bellezza!
Poesia è la negata esistenza
travolta
dall’insaziabile tuo fascino
63
se avessi un presente, tempo o cosa,
a te lo darei come segno del mio amore:
una zolla di me
infuocato
scoppiettante desiderio;
evanescente
che muore ad ogni tuo bacio
leggero.
64
La farfalla
Tu, lenta farfalla
il giuoco ripeti stanca:
il tempo sospeso s’annulla di corso in corso
non t’importa chi guardi
che cosa devii
melodico il colorato manto
affretti di qua di là
ed
annaspi di poche ore nel gorgoglio del sole
poi muori
tu, lenta farfalla che sei
destino insignificante
nelle melliflue stagnazioni plumbee;
ma poi di stagione in stazione
mi fermo a mirarti:
la pelle rabbrividisce al tuo caldo rimorso
di breve vita.
Potersi scambiare i ruoli
piuttosto che
tollerare e non soffrire.
65
Leitmotiv 4
Non so
se giocar di pietra
o di fango
annegando
in un grumo di gridi:
improvvisamente mattino.
66
Fanticella addolorata
Languido il giorno decade
l’ultime ore consuma:
la fanticella addolorata si mostra sotto la frasca
inarcata:
strappa le foglie una ad una e
timida si disfà
nel lento fluire del tempo
una lucciola illumina i suoi occhi
spenti di morte matura.
Povera fanticella, oscura il volto colle mani
dipoi piange seduta s’un sasso:
le è greve il peso del domani.
Trascolora il lento giorno,
s’intorbida il tramonto lontano e voci corali non ode:
sola rimane in attesa
d’un cenno, d’un guizzo di felicità.
Ma i piedi batton la terra, confusa mistica madre:
tristezza, velocità
isterica riconoscenza
volubile metastasi epicicloidale
che vita è mai questa qua?
Un tratto di puro pietismo
67
(manzoniano paternalismo)
fanticella che esisti
che sfidi l’usignolo più alto di te
od il falco issato
tra statue che vortica in sé:
tu speri in una mano sicura che culli
il nulla di cui è frutto il creato:
disfai povera pulzella;
non rimane che la tua ombra sulla terra
che prima battesti coi piedi.
68
Leitmotiv 5
Dispenso credendo
ribolle la lue
interiore
si sbottona il capezzale
di morte in morte
agrodolce.
69
Leitmotiv 6
Postmoderno frullato in poesia:
invia l'invidia che invade la faccia mondiale
maniacale
mi si perde il mondo nel mondo per il mondo:
poi srotola la Parca il fatuo nefando
rifiuti inceneritori pullulanti liquami in natura
mi si pota la verzura od il pomario
le alberete secrete
attenti ai cani laggiù che sbirciano i lampi minacciosi:
la fontana del mi pais non doma più
si spegne il frontone musone gugliato.
Morte salva il salvabile
lavabile
a secco.
70
Caldo, canicola, lucida follia
Non so se la via di
scampo al suo traguardo
sia proprio codesta:
tra le cimase dei palazzi
il frinire intorpidito delle cicale
mi sale
nelle ossa come morte frale,
rivela la debolezza della maschia specie:
amore od inganno
saranno?
Lungo la lunga inavvertita ragione
i sentimenti si dissolvono giustapposti
alla canicola rovente d’agosto:
rasente il muro di confine
la gelosia deambula colla schietta follia;
ravvia
la sdrucciolosa strada che devia
crepata e malsana
così
per sempre mi dirai quanto sarà infinita
per sempre mi dirai se sarò tuo:
71
o dolce diavolo di repentini furori che
pulluli d’antro in antro e sbiadisci
nella indistinta cloaca
elemosinata
degli umani a te simili:
volanti cimici che svio
o disconosco nel deserto del mondo.
Consalvo mio!
Morte accomuna
amore ed odio.
Non so se il tragitto da evitare
sia il medesimo percorso:
mi perdo assuefatto e
l’inconfondibile accidioso rumore d’essere
subdolo manovratore della realtà
si appropria d’ogni respiro affannoso:
mi piace godermi nel male
intorpidimento delle mie ferite.
72
Chimera
Mi sembra d'assuefare
ora lascivio ed impudico,
di sorso in sorso
la tua meschina pelle struscio
nei solchi del proibito:
Essere confuso che sei,
Chimera,
la mia luce notturna
prima serotina soffusa
apparisti ad onor del vero
conciliante ai miei pensieri poetanti: là
nel vago bisbiglio creaturale, là
nel nebuloso biologale
tu discerni la vita dalla morte
e mi evidenzi, sicura,
nella mia stagione più florida:
la primavera crudele di giovinezza:
violentami.
Sei già stanca di lavorare
mio emblema?
Onde qualche volta sorridi al tuo padrone
ti fai battere come desiderosa prostituta da pagare
batton le botte,
73
botte di piacere (anadiplosi, tu l'insegnasti)
quel cupo sadomaso
piacere dei poeti tristi e
lagnoni:
ma tu li risorgi dal loro spettro di sembianza
la maschera della latitanza:
così t'amo d'inconfondibile desiderio
m'ardo di giorno, di notte
nella carta, nella mente:
non so davvero più
del mio destino: intanto
la celia della vita
è tale che spingo il mio cadavere
dal balcone nel vuoto
esistenziale.
74
Il fieno
Tu qui, tra le fronde ossute dei pioppi
fustoni
saluti il mio fieno ravvolto in covoni
e già brucia un cero ad Eleusi per te
che annaspi nei tonfi di silenzio: ed è
laddove il delirio della vita è morto che
si sprofonda in una calma sentenziosa,
in quel piccolo antro o dispetto
quel muretto
recintato per pochi eletti neofiti: là,
ancora una volta,
si dispensano le volontà del linguaggio
del non detto
del patetico, esilarante verdetto.
Sulla riva del fiume in liminare
ci abbandoniamo alla farsa
crepuscolare.
75
Leitmotiv 7
Apriti mondo e con discrezione
esubera, sobilla nella tua indiscrezione
agita, manduca, maciulla
è una rabbia questa interna-esterna
persistenza, indolenza, prepotenza
che nel tuo bofonchiare somministri:
schizzi frizzi puffi buffi dipinti
sogni coglioni manfrine e vulvoni.
76
Di parodia in parodia
<<Àn tutte le cose la polizia
anche la poesia.>>
Aldo Palazzeschi
77
pirandelliana
La sguerguenza.
Nocumento
così è
la vita se mi pare.
78
palazzeschiana
La cattiva bonomia
doni cosa non hai
silenzioso, maligno
- maledicendoti -
standomene in disparte
ti disprezzo
australopiteco
rettile
e-rettile
se solo ti funzionasse quel poco di
cervello lamettriano (Perché il corpo?)
Amen. Io mangio,
vuoi favorirne?
79
palazzeschiana 2
Amore, ti bacerei
rinchiuso nel mio antro camerale
davvero stupisco
: riflessi
nello sguardo della mia sbriciolata epopea
tu che donna sei
scorta e coorte della mia anima
adoprando la massima leggerezza
al contrario della esosa plasticità dell'Albany
amante del moderno allobrogo feroce
che facciamo mio destino
inscenare la farsa del cuore
nel teatro poetico
o rintanarsi nei riflessi della mediocrità.
Il buffo, il lazzo, lo scherzo
l'uomo che soffre va discreduto
o la morale pietosa
t'avvicina per scrupolo di coscienza?
mio Aldo!
80
palazzeschiana 3
Ed ora fumo.
Non so
Aldo
se distingui la cloaca umana di defecatio:
ma a te piace intossicarti
con quel tuo fumo.
Valentino a vita migliore sei passato.
Oggi ne è morto un altro:
un escremento ha sgozzato un suo medesimo
che fiotti !
La ripetitività della morte
cosa affascinante, intendi Aldo.
Ma noi moriamo un poco ogni giorno.
Svegliarsi la mattina, specchiarsi e salutare
l’immagine funerea del nostro volto
per abituarsi
all’idea della felicità.
Aldo!
Amare il proprio doppio
cospargendo di baci la sua pelle
e sotto? Un cranio, un teschio, delle ossa fredde.
81
Le timide foglie frali dei platani
fan l’amore con quelle dei liquidambra:
se muoio,
seppelliscimi lontano da quel
tappeto: già
l’escremento ha contaminato abbastanza
laddove v’era purezza.
82
morettiana
Piove sull’asfalto,
piovon le foglie sul grezzo marmo
il cotto sanguigno
assorbe l’indistinto ossessivo picchiettio,
quella nenia insignificante che solo comporre
sa la pioggia.
Scroscia l’acqua grigia sul muro ammuffito
dipoi scorre sul cancello arrugginito,
quel muro crepato
più vivo di me
ed ecco scendere nelle vene la malinconia
questa pazza malinconica follia:
migliore un frammento di cemento
invece che un vivente
dotato di nonsenso.
Piovon le foglie dei tigli
sui lunghi spazi dipinti
piove l’acqua trasversale saetta
83
ma il tempo della rassegnazione
agita questo corpo:
la rassegnazione atona
o lucida sottomissione
alla consuetudine della vita mortale.
84
ungarettiana
Le foglie ungarettiane
non stanno più:
agita i rami il vento
ed io cado giù
profondo manto rosso
cipermetrina
ferma il mio nervoso
colla morte che ha quel che
di lanuginoso
alla gola.
85
ungarettiana 2
Non vedi non tocchi non odi
quaggiù lacrimante
involontariamente tremante
velenosa specie
che brami in cielo?
86
palazzesco-pasoliniana
Sei tu nella nera fredda
cocolla
che ammicchi colle tue dita
lunghe, scheletriche
chiamandomi all’ombra
sul muro del mio genio?
Mi dici seguimi, seguimi,
vagare non so
sperduto
per il destino,
sgomento
della tua lucida veste di cui da tempo
mi innamorai.
Già ho potuto conoscerti
nei miei aspri ozi
gettato inattivo sul letto:
quando tutte le cose sono immobili
ed io simile a loro,
delirante la vita,
chiedo di vivere
ma viver non so.
87
Quanto bella apparisti!
Silenziosa consorte
mi portasti sotto il tuo leggero tabarro materno,
un viaggio non lungo,
quella felice illusione
anelito di nuova rinascita
nei tuoi mondi dorati.
Come elegante eri!
Forse di fisico poco attraente, spezzabile
sguardo magnetico
t’avrei posseduta se solo non fossi stata
un’idea.
Un’idea lontana.
Quando l’orologio rintoccherà
l’ora il minuto e il secondo?
Di me conscio. In me conscio.
Mi concedi un altro ballo mia sposa?
Non lasciarmi ancora ansioso di te
contraddetto perpetuo
qui dove tu regni
onnipotente deità.
88
sveviana
La tua città mi conquista
colle sue banche e colle sue barche:
irrefrenabile dipoi s'arrese
quel tuo giuoco di paura:
conoscemmo assieme la strana calura
della triste parassitaria cultura.
Intanto, in ammanto luccicante
qua, là, in tramonto d'alba sfavillante
gli sghei son sghei per todos:
chi fa il lenone gustone puppone
travestito da emperadór
ma poiché tu consumasti quel cor
che il destino t'inflisse
fra vernici e carte a capo chino
giammai letteratura avrà di te, inetto,
esemplare perfetto, virgulto nascente
qua, nell'Union dei commerci
a sentimento polivalente.
La servitù nel fumo psichiatrico
si addottora a pere e formaggio:
balle di balli dannunziane
e tu che, non lascivo, escogiti
una scrivania di lusso, fagociti
89
un tuo spazio in reflusso.
Non adocchiare l'occhio dell'occhiuto
nel tuo trascorso letteraturizzato:
mancato quel soffio che sciabotta
la lordata nostra flotta.
90
leopardiana
Quale
colle ospita piccole ombre d’animale
oppure strani e dolce frusci di vegetale
esiste, o grazioso Giacomo, l’agonale
mondo che tu dipingi nel tuo dire sì brutale:
pensasti che dal suo dì natale
l'uomo fosse votato ad infelicità e male:
se tale
è il grigiore della quiete mortale
sia tosto di medicina il pugnale,
o Giacomo, l’oggetto appuntito ma esiziale
a sacrificare l’affanno tremendo di cui poco ci cale.
Verrà il dolce speranzoso segnale:
a che vale
sprezzar la vita con pietra tombale?
Di questo si consta, mio Giacomo, il tuo memoriale
se non del discorre del finale
di ognuno di noi, misero creaturale?
Se poi assale
quell’insensato, asprigno e diseguale
tedio che tu ricordi nel canto pastorale,
91
a che iscopo rimaner organismo a-normale
invece che iscender nel sonno abissale?
Il progresso Giacomo! Corale
è cotesto mondo globale!
Gino o Nicolò s’arraffano a tanto dispendio vitale:
meglio colloquiare col tuo genio marginale
assai meglio, mio amor di poeta. Ottimale
la tua denuncia alla dozzinale
condotta umana. Seppur distanti gli anni, ancestrale
ancora è la situazione comportamentale.
Così tale
è il nostro stato mortale.
92
montaliana
Forse chiedi,
disperata fanciulla,
di assorbire il mio ricordo
la mia essenza esitante
tu
che non dimentichi
ciò ch’è stato e conosci ciò che sarà
od il tempo convenzione
dei tempi oggetto. Chissà
se tieni a cuore il distorto meccanismo del mondo:
la verità
e non il dubbio;
chissà se l’esistenza
è susseguirsi di attimi passati
di cui noi uomini siamo ombre.
Tu
mi segui lontana
disperata amica nell’ombra della paura
mi segui lontana
ed io mi struggo in agonia.
93
mazzoniana
Stagionare, sgretolarsi
pian piano
decanto che decanta
lentamente biasimarsi:
flagello sei
sei flagello felicità.
94
hegeliana
il vuoto è il vero
e più l'è voto tanto più sembra vero:
come pure, ora,
ciò che è reale è irrazionale
e nun pole esser d'altrimenti;
tu stenti, caparbio, a capir e riflettere
ma non dimandi o discerni
intendimenti ragionati o
filosofie di sofie in fie
non indaghi i subietti controlli
de' potenti, i monòpoli, i monopòli
con cui giuocan fanciulletti loro
il comando, i supremi abbietti
tu seguiti a sprizzar pulsanti
del tuo telefono: è tra i tanti
rimani pur numero
un disambiguo corpo slegato
dal suo cervello afono-atono.
95
calviniana
Fu lo specchietto retrovisore
a far perdere il fugace io
squadrato truffato negletto
sì, laggiù in fondo al letto,
invisibili proprio nel Cottolengo
dove il pci alle sore sole non andava a genio:
vogliono che i malati votino democrazia
e cattolico il mondo fascista sia
neofascio littorio di pin pun Pàn
segreto faccio il palindromo nome
che sa di tenet, di anna, di radàr.
Poi mi rifletto tra il viaggiatore del libro
nel cerca e ricerca la bibliografia nelle biocrusche
chissà se i dimezzati rampanti vivono ancora lassù
sull’elce tutto blu
ed io cado giù
nel manicotto manicomiale dei Rondò
sfumati a mo’
di cafoni colla fune di un però, forse, potrei,
scusate, servirei.
Fiducia nella letteratura, Fenoglio in battitura
mi associo al neoOulipo di Queneau
intanto dico: adieu.
96
palazzeschiana 4
Di certo
c’è il ronzio smussato
il silenzio forzato
di una maschera - prigione
che tutti addolora.
Parrebbe strano l’inventare
l’escogitare un mezzo inverso di
tendenza
al nulla.
Fra-Fre-Fri-Fro-Fru.
Baraba-berebe-biribi-
Borobo-burubù.
Ecciù-Ecciù.
Non ne possiamo
più.
97
palazzeschiana 5
La Sora Chiara, la Sofia e la Laurina
tutta scema ed ubriaca che s'inchina
a disprezzare col suo rutto
ciò che fece di lei così brutto:
tra borghesi, chapeau , borghesizzati
tra domande ed atti e confini
latenti sedimenti sono, quei peli sopraffini
i baffi delle vecchie che il belletto
copre a stento: attento tu piccolino,
fatti dare una stampa di carta dal vicino
che sia del Nove o del Settecento
si sbatacchi come brando o verga l'ottocento
che più mai non ha da ire col suo dire.
Ma intanto, tra i panieri di sofà imbottiti,
le tavole imbandite, la mozzarella del lattaio
appena munta la vacca della Isabella,
la parmigiana soporifera di oppio in padella:
oh giammai divini pargoletti !
Genuflette la morale
quel gusto che sa d'anale
dovunque ti giri è pur sempre il suo capezzale.
98
leopardiana 2
Amore
e
Morte
non ingeneronno la sorte.
Si sgretola la lingua; più non dice.
Resto come le grandi piramidi
infrante nell’ombra:
e
non sperimento l’arcano.
99
gozzaniana
Amai i pomodori che colsi,
la fresca mattina
ferma s'innesta
laddove è sterpaglia
d'obnubilati passati sepolti.
Poi, qui
ora sento
il tuo incedere roco
in su per la valle, giù la pianura,
lieve la fronda si incurva
al ciglio l'erba s'inclina
spazia il loto al tuo passaggio
sebbene il sole ombra non copra
e più non respiri con me.
Furono le sembianze in divenire;
le successive apparenze d’esistenza:
spirate per sempre.
Di secondo in secondo al vivo uomo
lenta morte accade ma lui non coglie.
I calici rilucono la camicia del vino prosciugato,
la tavola né più mai è imbandita,
secco rimane il cibo consumato
100
sulle stoviglie,
sbandan le sedie ora di qua
ora di là.
S’inceppa il disguido del ricordo: chissà
se tu ricordi. Chissà
se al freddo sei ancora
così quando nemmeno la ressa del battimani
ti svegliò.
(Ti siedi con me al tuo posto:
taci e guardo il tuo nulla.
La saetta smorza la roverella,
i lunghi abbai canini sulla vetta,
nel campo rapisce la gazzella un fiocco di senape.)
Amai il sentiero albeggiante
battuto di note lontane
(le pietre lisce parevano
volti bastonati di fatica)
e la redola pianeggiante
che camminammo a ritmo di pavane
---
la campana del mezzodì
suona ancora una volta:
ultima vuota nenia
incombe
che prima amai.
101
Il tempo nella tinozza stantia,
il profumo dell’attimo roso,
la scialbatura derelitta
la mia feroce persistenza
ad obbedire
alla sopravvivenza.
102
luziana
Non ho che un tempo:
dicesti che sempre ti avrei osservata
sempre palpata
lussureggiante sembianza serpentina
che svanisci
affievolisci delle caverne elicoidali.
Opera la baiadera colorita
nei miei sogni latenti
qua ora la materia del suo corpo opale
dimezza la mia malinconia
quel lento soffio spirale
che s’intramezza ad ogni passo,
calpestamento
di terra
vagheggiamento di vita.
Tu donna genitrice
sfiori questo secco uomo asfittico
come la notte di luce
in nuce.
Baiadera mia, danza ancora
ancora per me
finché le lacrime non detergono a fondo il volto
finché il segreto non si disperda tra le umane genti
103
il mare - l’oceano - il monte - la collina
non son più.
Danzami solo questa notte,
si disgeli il cuore affossato
a modo di propaggine d’olivo
che pace non ho.
104
pasoliniana
Poi al contrario
fantasticando sulla notte oscura
senza domanda l’incenso il turibolo oscilla
sul mio prato di porpora dilatante
colle mani m’aggrappo alla non luce
e tu il tuo odore mi sfiati addosso
come un palpitante anelito d’amore
da tremolanti labbra scosso:
baciami divina inquietudine
la mia vita è travaglio negligente
scandalo a discapito degli altri felici
che colgono fiori di glicini.
Il tempo è l’illusione temporale
lo scindere simultaneo dell’esistenza scandita
da un noi fummo, siamo e saremo.
Non importa volgersi al plenilunio con occhi lagrimanti
-autunno che strappi le foglie
primavera che disgeli il genocidio del divenire
ed il caprifoglio vitale abbarbica l'esplosa ringhiera-
ricordo il non possesso
il non accesso
105
alla virulenza del mondo presente. Sarà
la dolce sinfonia di quando morirai, attimo,
trapassato dal mio cuore rosso addolorato.
106
ad Andrea Bassani
ermetica
Cosa saranno le mute stelle
guardare la loro vita apparente:
morte che sei l’immagine istantanea del
presente
nuoti tra le fronde del susino accasciato
dispieghi la dolce sinfonia sul batter della roccia dolente;
nel vento disgeli il secco
presente.
I rossi cirri tormentano d’astio i due pini laggiù
un nugolo incombe blu.
Ma poi di tempo in tempo
temo il dissolvermi apparente
felicitazione: il corpo squama la sua castità;
l’odalisca ottomana
disfà.
Non potrò che dire:
mi
muoio.
Fermati Essere nel mio querulo pensamento
non diventare centrifuga apparizione
107
isterico movimento
solo un grido di voce
che mi possa perdere in te.
Silenzio che doni la tua lingua
perdona lo scendere cadenzato dei gradini
algidi di marmo
a te che puoi più di ogni altro capire
la sordità dei fiori elisi.
108
campaniana
Appare spare
tenebrosa vertigine allungata
di mano in mano il blu protende
poi disfà
la luce riflette i tre vasi bronzei
aliena l'anima dell'uomo prigioniero
ed in prigione di ferro purpureo
negozia la pena
l' arabesco squama ruggine impotente temporale
che scopre la danza macabra di una
troia cartomante notturna.
Tra blocchi mitragliati di colonne bianche
fermo lo sguardo
il silenzio trascorre lento senza goccia
arancio salmone l'agrume pende
come l'acanto aggrovigliato
più del gelsomino che non muore.
Una matrona fetida dai larghi fianchi
che spazia nel tramonto acidulo
di un fendente rosso collinare
109
non più imita
la voce corale che chiama al lavoro:
uomini fatevi sotto
è calda profumata rosa lavata
l'aria ritarda l'eco sessuale magnetico dei corpi
la matrona indugia l'ora
del suo no.
110
campaniana 2
Piazza Vittorio:
rannicchiato tra i pensieri del giorno
roso dal crepuscolo estatino
di nuovo ritorno
alle esequie del mio ultimo
incontro
addolorato furtivamente:
la giostra non conta le proprie giravolte
affanna il punto di partenza
e sul cavallo bianco di cieco presentimento
il bambino giuoca.
Poi giubbo
meditando il garzone che s’aggira scalzo
quel nauseante odor di umano
l’aria imprime nel suo volgersi atona:
paralitico il merlo sulla statua
lo spillo arancio muove
Firenze che tra gli archi si confonde
una Boboli di palagi.
Discendo: aggiusto la camicia:
il non ricordo vibra
la melodia scordata
111
discendo: la camicia aggiusto:
vibra la melodia scordata
il non ricordo;
scordata il non ricordo
la melodia vibra.
Aggiusto la camicia, discendo.
Il mio presente
si spegne
in qualche posto
che non conosco
laddove il tempo trascorso
fu più breve di un passo scalcinato.
112
a Giacomo Trinci
gaddiana (complicata)
Già dorme il demone paralitico
ascrive l’umano
io a peperonata invelenita gaddiana
già perora la sua decidua
evanescenza
perorata
d’animali usmato
e poi divorato
lenta-mente
a mente lenta:
l’io luetico si consuma
fottendosi due putans
occitaniche
così è stato insegnato
ben letratz et eseingnaz
non conosce altro intendimento della roca passione.
Già dorme il demone paralitico
disturbatore di sogni
che più non insegue l’algido disseccatore
pavone d’eccesso colorato
pennuto stramazzato
113
l’io,
ì - ó
asinesco
cognizio sine qua non doloris per essere
defunti
registrati sul commemorativo acciaio
della vergine casta purità
integerrima quanto garrula verità
sulle bocche di tutti.
Abbondano l’io e il tu
fritti tra i pronomi
distanti dalla terra che li ingenerò.
114
gaddiana 2
(duplicativa pronominale soggetto)
La un era così l'Italia del dumila
agiata spiritata traumatizzata
la Sora Chiaretta, tutta perfetta,
galluta adagio adagio,
cotta a lento farfugliamento del puffo
buffo buffone mandrillone
cagnone anguillone:
intanto lo cresce lo stupore, la
lascivia spiritica e spirocheta
bombarda, come il bombo o il mommo,
la buccam mandibolare di denti federali:
la un ci va dall'anestetico anestesista satanico
la un si dice perché né nennè
tra l'erba la cresce una pansé rossa ruvida
che sputa spumoni di saliva da gran gourmet.
115
campaniana 3
Il suono indistinto
scorrevole di dita in dita
diviene riluttante
ai suoi docili albori mattutini
dove
le piaghe del tempo trascorso risanano
stanche
echi dolenti e recalcitranti.
Un’ubbia desiderosa
minacciosa
arreca nel suo sogno frivolo d’inconsistenza
la docile coscienza
di svergognato pensiero:
le mura arrossate di mattoni
s’oppongono al divenire
della realtà
ed in essa defluiscono non più pareti
divisorie
ma ponti slavati
arsi di doghe farinose,
verso un dove insicuro.
Non più obbedisci al mio aiuto,
presenza,
116
se di te non confondo
l’odore acre tuo acceso
con quello di viburni appena sfiorati.
Mi disappari furtiva
ti piace velarti colla mia solitudine,
soddisfatta celandoti
a ridosso delle nappose lagerstroemie
dilegui come fa la corteccia matura:
decade e finisce sul cotto lanuginoso.
Riascolto il suono di ciò che
immobile
raccoglie le tue fughe:
ti sento di dita in dita
assenza
di solitudine fatta
ora presenza.
117
sbarbariana
Trucioli, avanzi di manicaretti
così tra i desolati deserti
si stana il guazzabuglio medioevale
dell’ipocondriaco egosistema catacombale:
una falena che non sa quando vive
e quando muore: per pudore
di esser ferita tra le dita di sonnambuli
e decentemente sfasata in coriandoli
a ritmo di piano, pianissimo
la tortura si mastica a volontà
tra gli omuncoli defunti senza pietà
che sganciano una bomba, (che calamità!)
sui propri consimili babbioni: redimerli
sarebbe miraggio elettrizzante
come una bestia gorgogliante il suo frantumato
ecosistema per una lena ansimante
che s’aggira in dormiveglia ma
nessun pezzente osa mutar la sua sveglia.
118
volponiana
Le industrie son belle
fatte a pennello per gli operai
lavoratori, non senzienti, non
comprendenti giammai:
lavora che gli lavora il plusvalore
in profitto si giace beato
così il borghimprenditore costernato dice:
piatto ricco mi ci ficco.
Mentre la manodopera in tram s'attanaglia
la Teodolinda pulisce colle scope di saggina il poltrone di
Don Kapò
colla sua faccina triste da
sottopagata, un po'
sottoproletaria proudhoniana
butterata e malsana di fatica
così è ita la partita del progresso-cesso
su cui sorvolano i mosconi del capitale
latrinale; eccetto che il super del presidente del mega
del direttore conte
istrambazzatore in polluzione all'altoparlante: "numeri
miei, muovetevi a procurarmi sghei
da bravi, non adombrate mestizia
soffrite, bestie, con pudicizia".
E chicchirichì chicchirichì chicchirichì.
119
sbarbariana 2
Seduto sulla poltrona di sala
rimugino scorto dalla vita
la mia vile condizione, di scartafaccio
ingombrante che non sa decifrare
ammanettare
questo suo suono mortale, lento
come un lichene spento che arranca
sulla pianta fino al giorno seguente.
Tu fosti esente dalle ebbrezze di un passo
maturato, più docile sarà il trapasso
Camillo, verso cui, arzillo, depuro
anch'io me stesso rasentando il muro
della dimenticanza, del completo oblio
o disvio la distanza del precipizio
che incombe in me, suo sposo novizio.
Cara morte esprimi la nostra invocazione
all'ombra del faggio del postribolo: tu che sei la sola
donna da amare
nel deserto impietosito
dei bipedi da sgozzare. Non rimane
che un truciolo di spensieratezza, tu a Spotorno, io a
Pistoia: quella quieta
nefandezza che aprirà la bolgia mala
120
di fuochi imperituri, ardenti per il nostro
diniego.
121
pascoliana
Un’altra sera si somma
al mio tempo ombroso:
la pena non muta
di penna in penne
trascrivo l’apatico ozio
ingabbiato chi sa dove,
chi sa dove.
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zanzottiana
Ah ih già giù
è tutto un male quel mio
cosmogale di angui languenti
auguri marinai migranti con
aliquote a tasso variabile
poi aliquot currunt corregge
che casino i meteorologi
apoplessia di pollo alla griglia
con il Titiro che tu patulens sub
(ab in cum de per) non mi interessa
all'ombra di un faggio io mangio il maggio
mondo magma lava il lapillo
sbronzo fico di fuoco esiliato e
fecondo di immondo rifiuto in
cosmicomico dolore: ira per lira
se sì ma chi ci fotterà
la fontana deserta butta batte di vuoto
colore di nero
senza motore, zero
i rimasugli dell'ortica aitante
ballante adulante pallantes mores
non si cerca la ricetta
frivoletta guazzabuglio di pòiesis della
monaca di Monza infervorata
123
dalla poesia in poesis amalgamata.
Addio bestia bestione di tozzi mozzi conati addio.
124
penniana
Tu sei solito vivere addormentato
entro il dolce gorgoglio della vita:
tra ragazzi magnificenti
sedute dirompenti
isolotti e mutandine,
che mutano mutazioni
sei agra solitudine nel mondo privato del
singolo;
schiacci il mutuo dolore
calpesti la triste malinconica felicità:
e morirà
l'attimo esente dal tuo capriccio di sole.
Ma io s'andrò di giorno in giorno
sussurrando nel singulto della mia docile esistenza
parvenza di apparizione,
mi decido, deciduo tra i lilia,
a cogliere
il mio lento avvenire: giulivo
scarto e svio la dissolutezza o
l'ignominioso parossismo
piacere di piacere al prossimo demente:
fervente rintoppo
qualche scalcinata parte del mio essere
125
con sicurezze labili all'innesto;
voglio vivere entro l'aspro borborigmo
della non vita.
126
zanzottiana 2
Si sbotta la brocca in caciotta
parmigiana - ana
del mirto mistico poetico
erodoluetico tra i vedo e non ti vedo
discredo e discreo il mondo immondo
analisi speculativa di Tasi ed Iva
la son belle le merci in tardiva elezione
con tutte quelle parolone in ALE:
professionale- nazionale- super eccezionale
aggiungi il vademecum latrinale
che fa da prontuario pronto
a sconto in sordina di vaghina
endo-intro-eso-estro d'estro.
Giammai faremmo dei nostri guai
più vanto di quanto canto
laddove lei non abbarbicherà a
ridicolizzare il ridicolizzabile
(raro, rado e rato)
col suo pianto in ammanto di fiat lux:
stampate leggi abluzioni di Merdelà
legittimisti pro Leopoldo 2º fuori da qua.
127
tozziana
False falsificazioni di firme
tra cambiali cambiate di cambi
mi bruciate i libri, fratelli,
dacché io dovrò acquisirne molte altri
per voi ciascuno.
In questo mondo goloso di golosoni
le leccornie di Enrico sono dolci con cui taffiare
tra la pappa dei papponi
che si pappano il dolco del groviglio
lautamente
e morituri se ne stanno a
defecare sulla carta mai aperta.
Letture di libri non letti,
pali di croci come inflitta punizione
a chilometro zero
s'addirizzano in virile erezione:
fa signori l'ignoranza
fece uomo il distinguo intellettuale
la minima appercezione
del nostro antico sedimento culturale.
Giulio è meglio di Enrico,
Niccolò firma la rovina dei tre:
128
l'altro si gode nel suo edonè kinetikè.
129
Dieci Haiku
130
131
haiku 1
Imprigionato
nel crudele fandango
vivo in plastica.
132
haiku 2
Attendiamo qui
tra accasciati asfodeli
il sonno eterno.
133
haiku 3
Divampa attonita
la postmodernità:
pure Aldilà.
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haiku 4
Troppo e sculato
riverbera Esculapio:
di crisi in lisi.
135
haiku 5
Felicità
sventrami aguzza il cuore
di uno sbarbaglio.
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haiku 6
Tu mia rima
cara, oh dolore e amore,
t’ho in me scolpita.
137
haiku 7
Deh, pota il folle
topinambur di luce,
Montale everso !
138
haiku 8
Grilli o nolenti,
tutti parlano e dicono
troppo sul troppo.
139
haiku 9
Attorno attorno
mi turba la turba di
cerebrolesi.
140
haiku 10
Ancora surge
il finocchio selvatico
nostro per sempre.
141
142
Il paradiso arboreo di Matteo Mazzone
Chi conosce, anche solo superficialmente, Matteo Mazzone sa
quanto il mondo vegetale sia una presenza costante nella sua vita:
conversando con lui si parla ben presto di coltivazioni e potature,
orti e boschetti. Agli amici poi piace figurarselo immerso nell’orto a
seminare e innaffiare, e subito dopo sospeso a dieci metri da terra,
intento a sfrondare e dare forma al fogliame. Lassù,
temporaneamente rampante come il calviniano Cosimo ma senza
le risoluzioni polemiche di quello, Matteo guarda il mondo degli
uomini da un punto di vista privilegiato. Sale e scende, si
allontana nell’aria e torna a terra, alterna distacco e
coinvolgimento, ironia e passione. E poiché Matteo è anche poeta,
è naturale che piante, arbusti, fiori, erbe, frutti invadano i suoi
versi. Di più: quella arborea è assai probabilmente la cifra originale
delle raccolte finora stampate dal giovane scrittore pistoiese.
Mazzone se ne serve abbondantemente, disseminando le proprie
liriche di riferimenti alla natura, e in questo modo conferisce ad
esse un colore particolare. I frequenti, apparentemente involontari
lapsus, che rinviano al suo interesse principale accanto alla
letteratura e ai rapporti umani, costituiscono un campionario vasto
e ricco di immagini poetiche. Tutti insieme danno vita ad un
lussureggiante giardino orientale, un 'paràdeisos’ simile a quelli
delle Mille e una notte, e nel contempo ci forniscono la lente
personale con cui Mazzone osserva e legge la realtà che lo
143
circonda. Il mondo vegetale è insieme il negativo di quello umano
e il suo silenzioso o sonoro compagno di vita.
Anche un primo spoglio delle liriche che fanno parte di questo libro
rivela una messe di correlativi oggettivi di matrice silvestre o
agreste, visualizzazioni di esperienze o stati d’animo vissuti dal
poeta. Ora il lettore, familiarizzando con queste liriche, impara
presto a ravvisare nel loro autore una personalità complessa,
continuamente in bilico fra l’avvilimento e l’entusiasmo, l’amara
denuncia e la generosa ricerca di un riscatto, il fardello del corpo e
la liberazione da esso. Insomma, ricordando Pasolini: non c’è mai /
disperazione senza un po’ di speranza. E’ ovvio attendersi che
quei correlativi oggettivi lo accompagnino in ogni momento del suo
cammino umano e poetico, e percorrano da un capo all’altro uno
spazio esistenziale assai variegato e variopinto. Questo accade
puntualmente: Mazzone è assai abile nell’associare ai differenti
vegetali altrettanti sentimenti o pensieri, usando la sua tavolozza in
funzione di quelli.
E i colori variano continuamente, creando un tessuto chiaroscurale
e pluristilistico, fatto di oggetti e nomi di uso comune accanto ad
altri più scelti e inconsueti. Nessuna delle tre sezioni della raccolta
(dalla prima insistentemente autobiografica, alla centrale che gioca
con la letteratura fra il palazzeschiano e il postmoderno, alla
conclusiva preziosamente cesellata) è priva di questi riferimenti,
che anzi si dispongono in climax: il nostro campionario si apre con
l’umile cicoria (Fantasticherie) e si conclude con l’aristocratico
144
topinambur (Haiku 7). La gamma dei vegetali citati, poi, ne copre
molti a tutti noti e svariati altri meno conosciuti, a testimonianza
delle competenze botaniche ben più che dilettantisticamente
amatoriali del nostro poeta (valgano per tutte le parole pitosforo,
giusquiamo, datura).
Ecco dunque ripresentarsi il topico legame fra uomo e paesaggio,
trasversale a tanta della nostra letteratura, rivissuto stavolta senza
retorica anzi con la convinzione e la credibilità dell’esperienza
diretta. Le icone floreali suggeriscono alternativamente l’idea della
morte e della vita: verso quest’ultima Mazzone pronuncia, talvolta
con rassegnazione talvolta con determinazione, il suo sì
condizionato, e la condizione è la cognizione del dolore di matrice
eschilea, leopardiana e gaddiana. Qualche esempio a sostegno
della tesi suesposta potrà chiarirla ulteriormente. Non si rimanda
alle singole poesie, per dare modo a chi legge di operare un suo
proprio percorso di verifica completando questa semplice traccia.
Già il titolo, Campi di asfodeli, rinvia al senso di morte associato
dagli antichi a questa pianta dai fiori color bianco pallido, che essi
immaginavano ricoprire i prati del mondo sotterraneo sede dei
defunti; e parallelamente alla vita, rabbiosamente rivendicata nel
fallico tendere in alto dell’asfodelo. Le età della vita di ciascuno
vengono evocate mediante altrettante istantanee ‘verdi’: ecco
allora la propaggine degli olivi alludere alla nascita, il baccello
verde all’infanzia, il tiglio alla maturità; la quercia evoca l’anzianità,
il leccio la vecchiaia, il platano malato l’agonia, l’asfodelo la morte.
145
La bellezza femminile viene legata alla rosea ninfea e alla rosa
comune, quella maschile al caprifoglio. Per esprimere le idee di
astio, sicurezza, eleganza, malinconia, entusiasmo, Mazzone
ricorre al ricordo rispettivamente del pino scaglioso, dell’arancia
compatta, della roverella (anche nei suoni), del loto, della cicoria
blu (impossibile non ricordare il famoso ‘blu Chagall’ che dà forma
nei quadri del pittore russo alla presenza del divino o shekinà).
Ancora: ad una dimensione colloquiale, informale, contaminata
dall’uso comune rimandano la zucca, l’erba medica, il fico, il rovere
tarlato; ad una più inconsueta e aristocraticamente vergine il
ligustro, la mimosa, il giusquiamo. Il grano e lo zafferano sono
compagni di cammino, l’albicocca di giugno fa intravedere la
felicità sognata e intatta, quella di agosto la felicità esperita e ormai
trascorsa. Perfino un testo programmatico come Poesia in poesia,
là dove Mazzone prende coscienza di sé come di un campo da cui
svellere una zolla per donarla alla Bellezza, si registra la presenza
dello zafferano e della genziana (giallo e blu, allegria e naufragio)
accanto alla zucca (semplicità un po’ scanzonata). L’antipoetico
pomodoro dialoga a distanza con il letterario viburno, l’umile
finocchio selvatico custodisce il profumo del mistero e
l’accessibilità della vera poesia al pari dello squillante girasole
(intenso e struggente è l’ultimo frammento, Haiku 10: Ancora
surge/ il finocchio selvatico/ nostro per sempre).
Tutta questa abbondanza e varietà di riferimenti giustifica
l’impressione, maturata col procedere della lettura, di un mondo
poetico alternativamente tragico e comico, apparentemente
146
umorale in realtà articolato in molteplici pieghe e sfumature. E’
quello spoudoghèloion, mescolanza di serio e di leggero, che
intende esaurire la complessità e paradossalità dell’esperienza
umana, che sospende il principio di non contraddizione, come ci
hanno insegnato in tempi diversi Eraclito, Petrarca e Eliot. Al di là
del grido disperato e dello sconforto, come dell’ironia e del
divertissement, questa è l’essenza della parola poetica nei Campi
d’asfodeli di Matteo Mazzone.
Fausto Ciatti
147
148
Ringraziamenti
Come sempre, l’ultima pagina è dedicata ai saluti meritevoli:
mamma Silvana e babbo Sergio, i miei fratelli Roberto, Claudio e
Lorenzo, le mie cognate Irene, Moira e Alice, mia nipote Ginevra
ancora poppante, poi i miei zii, Marco ed Anna in particolare, i miei
cugini vicini e lontani, tra cui Laura la dolce, sottolineando la
profonda disponibilità del primogenito Luca, autore della foto in
copertina, che mi ha aiutato per l'impaginazione del libro. Un
abbraccio ai miei colleghi accademici universitari Diletta, Elisa,
Davide, Lucrezia e Paolo e alla mia diade vecchiona inconfondibile
che si ritrova presente anche in questo libro, Alice e Marco. Poi
ancora Benedetta, Gregorio, Costanza e Giulio ed un caro saluto
ai romani Alessandro, Andrea. Ringrazio il caloroso gruppo di
lavoro dell’Associazione Culturale <<’9Cento>> e con cordiale
affettuosità la cara Elena Becheri, assessore alla cultura di Pistoia;
un particolare amorevole saluto a Donatella Solmi, al mio poeta
preferito Andrea Bassani, con cui condivido l’asfissiante,
increscioso peso di quel nulla che l’uomo può dare, ed al
magnanime poeta concittadino Giacomo Trinci, pluripremiato per
la sua metricista cifra stilistica di traduttore de’ tempi bui. Ancora
un saluto esageratamente grande, colmo di un affetto
intramontabile per Ernesto Marchese e Fausto Ciatti (quest’ultimo
tirato fuori dagli umbratili velari pascoliani): ancor lor colpa se
annoiovi col terzo libello. E tu, che voli infingardo tra i nostri campi,
ci sei tra le linee eteree della scrittura, dove resisti al tempo e nel
149
tempo, scalfito nella mia memoria d’immagini: la convenzione del
tuo essere stato si perpetua nel continuo esserci ora,
nell’incommensurabilità di un attimo che ti ricorda definito ed
intatto.
Pistoia, 7 Frimaio anno CCXXIV
150
151
L’autore
Ultimo di quattro fratelli, Matteo Mazzone nasce a Firenze il 5 maggio
1994. Esordisce con “Acre Tirso“, nel Dicembre 2012 (Tipografia
Bianchi), in cui, fra gli altri concetti, sono espressi i pilastri fondamentali
della vita: l’amicizia, i legami familiari e il rispetto del prossimo.
Intraprende la carriera accademica iscrivendosi alla Facoltà di Lettere di
Firenze. E’ il membro più giovane e socio dell’Associazione culturale 9
Cento Pistoia. Nel Giugno del 2014 ha pubblicato a Pistoia la seconda
raccolta “Dialogi” (Tipografia Breschi), assai diversa dalla precedente,
dalle poesie ora soggettivo-liriche, ora di mordace denuncia anti-
postmoderna. Ha collaborato con il Centro Documentazione della
Biblioteca San Giorgio di Pistoia, ha partecipato al ciclo di conferenze
poetiche intitolato “Eros ed Erosione”, nel quale sono state lette sue
liriche. Dal 2014 ha collaborato coll’emerito Circolo Letterario Giacomo
Leopardi di Pistoia, pubblicandovi saggi critici letterari come “Gozzano
ed il dannunzianesimo stroncato” e “Leopardi politico: storia di un’anima
patriottica”. Ha dedicato intensi studi a Ungaretti, Pasolini, Celan
Palazzeschi, Gadda. Vince nel 2015 il concorso nazionale "Habere Artem
XVII edizione", colla poesia "Lo specolo" ed è inserito nell’omonima
antologia di poeti contemporanei. Nel 2015 pubblica, sempre a Pistoia, la
terza raccolta “Campi di asfodeli” (Tipografia “Le Fotocopie”). Sta
lavorando alla riorganizzazione e pubblicazione critica delle poesie di
Marco Gargini, fu scultore e poeta pistoiese. I suoi testi sono disponibili
presso le biblioteche San Giorgio di Pistoia e Forteguerriana, oltre che
gratuitamente in internet sul sito dell’Associazione sueposta.
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