Matteo Karawatt Il tema dell’ autorealizzazione nelle Upanishad una lettura in chiave...

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Il tema dell’ autorealizzazione nelle Upanishad: una lettura in chiave junghiana Matteo Karawatt, Roma (1) Veda sono l'intero corpo delle scritture sacre indiane. (2) Cito a memoria. 1. Cosa sono le Upanishad Le Upanishad sono il risultato della reazione di alcuni riformatori del periodo vedico all'eccessivo ritualismo dei sacerdoti indù: comprendono speculazioni metafisiche e psicologiche sull'Essere Supremo, sul vero Sé e sull'esi- stenza in generale. Le Upanishad vengono chiamate anche Vedanta che significa sia la fine che il fine del Veda (1) Le Upanishad contengono in sostanza tutto quanto c'è di profondo nel pensiero indiano. In India esse hanno in- fluenzato non solo le scuole ortodosse ma anche quelle eterodosse come il Buddismo e il Gianismo. Formano la base di tutte le scuole filosofiche indiane e sono la fonte per tutti i saggi, riformatori e mistici. Anche fuori dell'India queste scritture hanno influenzato parecchi mistici, poeti e filosofi come Max Mueller, Hermann Hesse, Arthur Schopenhauer, Bede Griffiths, ecc. In tutto il mondo non esiste alcun studio così bello e così elevato come quello delle Upanishad - dice Schopenhauer e continua - Esso è stato la consolazione della mia vita e sarà la consolazione della mia morte (2) Le Upanishad non sono trattati sistematici di filosofia, ma un resoconto delle intuizioni di vari saggi e mistici antichi distribuito in diversi secoli. I testi presentano esperienze religiose e congetture filosofiche, espressi sotto forma di

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Il temadell’ autorealizzazionenelle Upanishad:una lettura in chiavejunghiana

Matteo Karawatt, Roma

(1) Veda sono l'intero corpodelle scritture sacreindiane.

(2) Cito a memoria.

1. Cosa sono le Upanishad

Le Upanishad sono il risultato della reazione di alcuniriformatori del periodo vedico all'eccessivo ritualismo deisacerdoti indù: comprendono speculazioni metafisiche epsicologiche sull'Essere Supremo, sul vero Sé e sull'esi-stenza in generale. Le Upanishad vengono chiamateanche Vedanta che significa sia la fine che il fine delVeda (1)Le Upanishad contengono in sostanza tutto quanto c'è diprofondo nel pensiero indiano. In India esse hanno in-fluenzato non solo le scuole ortodosse ma anche quelleeterodosse come il Buddismo e il Gianismo. Formano labase di tutte le scuole filosofiche indiane e sono la fonteper tutti i saggi, riformatori e mistici. Anche fuori dell'Indiaqueste scritture hanno influenzato parecchi mistici, poetie filosofi come Max Mueller, Hermann Hesse, ArthurSchopenhauer, Bede Griffiths, ecc.

In tutto il mondo non esiste alcun studio così bello e così elevato comequello delle Upanishad - dice Schopenhauer e continua - Esso è stato laconsolazione della mia vita e sarà la consolazione della mia morte (2)

Le Upanishad non sono trattati sistematici di filosofia, maun resoconto delle intuizioni di vari saggi e mistici antichidistribuito in diversi secoli. I testi presentano esperienzereligiose e congetture filosofiche, espressi sotto forma di

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dialoghi, parabole, analogie e leggende. Queste scritturenon tendono generalmente a dimostrare la verità delleloro affermazioni: l'esperienza personale di ciò che siafferma è considerata già una prova sufficiente per lavalidità stessa delle affermazioni.Il termine Upanishad e composto da Upa = vicino, ni =devotamente e sad = sedere, vuole perciò significare:sedere devotamente vicino al maestro, indicando così lamaniera nella quale la dottrina veniva comunicata aidiscepoli.I testi oggi conosciuti sotto il nome di Upanishad sonopiù di duecento. Uno dei criteri riconosciuti per attestarela canonicità di una Upanishad è il fatto che sia statacommentata da un Acharya, cioè da un interprete auto-revole. Giudicate in base a questo criterio possiamo direche le Upanishad più importanti sono quattordici; tea,/Cena, Katha, Prasna, Mundaka, Mandukya, Taìttirya,Aithareya, Chandokia, Brihadaranyaka sono le piùimportanti.Il compito fondamentale dei pensatori upanishadici con-sisteva nella ricerca di un principio unitario nellamolteplicità dell'esperienza. Essi si domandavanoripetutamente:«Qual'è quella realtà per mezzo della quale tutte le altrecose possono essere conosciute?» Gli antichi saggi indùsperavano fortemente di scoprire una realtàfondamentale dietro e dentro la molteplicitàdell'universo. Essi credevano che con la conoscenza diquesta realtà unitaria tutte le altre cose si sarebberorivelate nella loro essenza e di conseguenza l'intelletto,la mente e i sensi avrebbero ritrovato la loro tranquillità.Questa ricerca dell'unità nella molteplicità portò ipensatori upanishadici a un atteggiamento monistico chesi trova alla base dell'insegnamento più sviluppato e piùimportante delle Upanishad, e che fornisce quella tramadi coerenza e coesione interna alla dottrina insegnatache altrimenti rimarrebbe molto frammentaria edisordinata.

2. Perché lo psicologo junghiano si trova a occuparsianche di temi speculativi e spirituali

Spesso ci confrontiamo con il problema, da una partedella specificità dell'intervento dello psicologo e dall'altra

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(3) C.G. Jung, Simboli dellatrasformazione, in Opere,vol. V, Torino,Boringhieri,1970, p.231.

(4) C.G. Jung, La dinamicadell'inconscio, in Opere,voi. Ili, Torino, Boringhieri,1976, pp. 67-68.

(5) R. Guénon, La GrandeTriade, Roma, Atanòr, 973,p.70.

della necessità che egli integri nella sua personalità ri-sposte relative a bisogni che vanno al di là del meramen-te psicologico. Per Jung, «La verità psicologica nonesclude affatto la verità metafisica» (3) e per di più il solodiscorso sull'istinto non esaurisce completamente il pro-blema:

L'elemento spirituale appare nella psiche anche come un istinto, anzicome una passione, o - per usare un'espressione di Nietzsche -«comeun fuoco divoratore». Non è un derivato di un altro istinto, comevorrebbe la psicologia dell'istinto, ma un principio sui generis, cioè laforma ineliminabile della forza pulsionale (4).

Del resto tutte le opere junghiane parlano dell'autonomiadello spirito, ma egli sente il dovere di ricordarci la spe-cificità della psicologia come scienza e pertanto racco-manda di tenersi lontani dalle affermazioni metafisiche.Secondo la mia opinione, il continuo e necessario riferi-mento dello psicologo sia al campo medico che a quellospirituale, si basa in ultima analisi sulla divisione ternariadell'uomo in spirito, anima e corpo; divisione ammessa datutte le dottrine tradizionali sia dell'occidente chedell'oriente. Secondo Rene Guénon,

il fatto che si sia giunti in seguito a dimenticarla a un punto tale da nonvedere nei termini di «spirito» e di «anima» che delle specie di sinonimi[...} e di usarli indistintamente l'uno per l'altro, mentre designano pro-priamente realtà di ordine differente, è forse uno degli esempi piùsorprendenti che si possa dare della confusione caratterizzante lamentalità moderna. Questo errore ha d'altronde conseguenze che nonsono tutte d'ordine puramente teorico (5).

La divisione ternaria dell'uomo in corpo, anima e spiritoera familiare ai greci e più specificatamente ai Pitagoriciche in realtà nella loro dottrina cosmologica non facevanoche «riadattare» insegnamenti molto più antichi; anchePlafone si è ispirato a questa dottrina come è palese dallesue teorizzazioni.Nell'alchimia medioevale lo zolfo, il mercurio e il salefurono considerati come corrispondenti rispettivamente alprincipio di attività inferiore e di forza centrifuga dellospirito (Zolfo), alla forza centripeta e contenente dellapsiche (Mercurio) e all'involucro corporeo in contatto conl'ambiente interno ed esterno (Sale).

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Secondo Jung,

Pur non essendoci alcuna forma di esistenza che ci possa esseremediata se non per via esclusivamente psichica, tuttavia non si puòspiegare tutto unicamente per via psichica. [...] spirito e materia sifronteggiano l'un l'altra sul terreno psichico (6).

Al di là dell'ambiguità di Jung su questo punto, ambiguitàderivante dalle esigenze del metodo dialettico basato sutesi e antitesi, sono del parere che lo psicologo analistajunghiano nella sua prassi quotidiana non può fare ameno dei riferimenti incrociati sia con la medicina checon il campo spirituale.

(6) G. Jung, la dinamicadell'inconscio, in Opere,vol VIII, Torino,Boringhieri 1976, p. 233.

3. Brahrnan e AtmanQuesti due concetti sono tanto importanti da formare i duepilastri su cui poggia quasi tutto l'intero edificio dellafilosofia vedantica. La parola Brahman, che dapprimaprobabilmente significava preghiera o discorso, vennegradualmente a significare il fondamento dell'universo o lafonte di ogni esistenza; ciò da cui l'universo è nato o èstato emanato, ciò che è apparso come universo, oppurela realtà suprema che include tutto. L'Atman probabil-mente significava respiro, venne però in seguito a indicareil Sé o l'anima; la realtà più profonda dell'uomo, comepure l'Uno o la realtà fondamentale che comprende tutto.La notevole scoperta che fecero gli antichi veggenti indùfu appunto che i due sono la medesima cosa: Atman eBrahman. Allo stesso tempo i saggi upanishadici eranoconvinti che quella realtà basilare della loro ricerca dove-va trascendere completamente l'esperienza, perciò ten-tarono di definirlo in negativo, indicando cioè cosa essonon è, piuttosto che dire cosa è. Così secondo la Briha-daranyaka Upanishad, si può definirlo dicendo soltanto«non è questo, non è quello»: neti, neti (7).Le Upanishad propongono pure alcune descrizioni inpositivo. Le asserzioni in negativo insieme a quelle inpositivo ci danno un'idea più chiara del concetto di Brah-man. Così per esempio nella Brihadaranyaka Upanishad,si dice che il Brahman è coscienza e beatitudine.Alcuni pensatori upanishadici cercarono una risposta a

(7) BrihadaranyakaUpanishad, II, p. 111.

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(8) A. Elenjimittam, Le Upa-nishad, Milano, Mursia,1984, p. 14.

(9) Chandokya Upanishad,III, XIV, pp.1-4.

un questo sulla natura fondamentale dell'uomo: «Cosasono io nella mia essenza profonda?» Convinti che l'es-senza dell'uomo fosse molto diversa da quello che appa-re agli occhi di tutti, la chiamarono Atman.Nel tentativo di conoscere questo misterioso Atman, iprotagonisti della Taittirya Upanishad rivolsero la loroindagine sempre più nelle profondità dell'essere umanoarrivando a formulare la dottrina degli involucri, secondola quale l'Atman è la realtà sottilissima che sta dentro unquintuplice involucro (8). L'involucro più esterno è quelloformato dal cibo, cioè il corpo fisico. Dentro il corpo.fisicoesiste lo stato del respiro o dello spirito vitale. Dentroquest'ultimo si trova l'involucro della mente (la mentenella concezione upanishadica ha la funzione di struttu-rare le percezioni dei sensi esterni e contiene pensieri,passioni e immagini). Nella profondità dell'involucro dellamente c'è quello della coscienza (in questo involucrohanno origine il discorso logico e l'intuizione). Più profon-do ancora è l'involucro della maya ossia del concatena-mento causale individuale e cosmico. Questi involucri nelloro insieme costituiscono la casa empirica dell'atman.L'Atman è il vero fondamento eterno e immortale dell'e-sistenza: esso può essere sperimentato solo da coloroche oltrepassano le identificazioni con i falsi sé delmondo oggettivo.I saggi upanishadici, che erano alla ricerca sia dellasuprema realtà esteriore (Brahman) che della supremarealtà inferiore (Atman) tentarono di trovare la relazioneesistente tra le due realtà. L'eccitante scoperta che essifecero fu che l'Atman non era nient'altro che lo stessoBrahman. Non esisteva alcuna differenza tra il supremosoggetto (Atman) e il supremo oggetto (Brahman). NellaChandokya Upanishad, c'è un famoso episodio chepresenta questo insegnamento meravigliosamente (9).Uddhalaka istruisce suo figlio Svetaketu sulla realtàsuprema dicendogli che egli stesso è la realtà suprema.Dopo ventiquattro anni di studio il figlio si sente colto,arrogante e presuntuoso. Allora suo padre gli chiede:«Mio caro Svetaketu, dato che tu sei contento di te eorgoglioso delle tue conoscenze, hai mai cercato quell'in-segnamento per il quale ciò che non si è ascoltato è

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come se fosse stato ascoltato, ciò che non si è pensato ècome se fosse stato pensato, ciò che non si è conosciutoè come se fosse stato conosciuto?» Il figlio chiese comepotesse esistere un simile insegnamento e suo padrerispose: «Mio caro, è come se da un pezzo di argilla siconoscesse tutto ciò che è fatto di argilla, restando tutte lediverse modificazioni null'altro che distinzioni di nome e dilinguaggio riguardanti una sola realtà:l'argilla. Ciò significa che la varietà e la pluralità deglioggetti dell'esperienza è soltanto un travestimento dellarealtà unitaria che è alla loro base». L'insegnamento delpadre arriva poi al suo culmine quando dice: «Questasottile essenza anima tutte le cose; essa è l'unica realtà,essa è l'Atman; quello sei tu» (Tatvam Asì).Comprendendo solo intellettualmente l'insegnamento delTatvam Asi, non si raggiunge la conoscenza del «SéSupremo». La conoscenza intellettuale presuppone unadualità di soggetto e oggetto, di conoscente e conosciuto.La conoscenza superiore è quella per mezzo della qualeciò che non è mai stato sentito viene sentito. NellaBrihadaranyaka Upanishad viene così descritta:

Tu non puoi vedere colui che vede mediante la vista; tu non puoi udirecolui che ode mediante l'udito; tu non puoi pensare colui che pensamediante il pensiero; tu non puoi conoscere il conoscente mediante laconoscenza. Questo è il tuo Atman che è in ogni cosa (10).

In altre parole la conoscenza superiore oltrepassa ladualità soggetto-oggetto.Shri Sankaracharya, l'interprete più autorevole delleUpanishad, condensa tutto l'insegnamento sul quale sibasa la sua filosofia detta Adaivata Vedanta, cioè Vedan-ta non dualistica, nella maniera seguente:

Brahman Satyam, Jagan mitya, jivo daiviva, na apara-Brahman è ilreale, l'universo è relativo, la coscienza individuale si identifica colBrahman, e non è realmente differente da Brahman (11).

Questo contenuto viene espresso molto efficacemente inun aneddoto: un pupazzo di sale voleva vedere l'oceano,va alla riva e si avvicina all'acqua; toccando l'acqua perdela mano. La sua curiosità era talmente forte che toccal'acqua anche con i piedi che si dissolvono a loro volta.

(10) BrihadaranyakaUpanishad, III, IV, p. 2.

(11) Elenjimittam, op. cH.,p.10.

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(12) Teilhard de Chardin,Opere, Milano, IISaggiatore, 1978, p. 401.

(13) C.G. Jung, Psicologia eReligione, in Opera vol. XI,Torino, Boringhieri, 1979, p.589

(14) Ibidem, p. 590.

Nell'attimo in cui si sta dissolvendo completamente nel-l'oceano esclama: «Toh, lo sono l'oceano». Questaesperienza tradotta nel linguaggio upanishadico suone-rebbe così: Aham Brahmasma - lo sono quello che sono.Lo stesso concetto viene ribadito nelle sue opere daTeilhard de Chardin, scienziato, paleontologo e mistico:

In seno a un oceano tranquillizzato, ogni sua goccia avrà coscienza dirimanere se stessa (12).

Jung affronta questo problema più di una volta nelleOpere, specialmente nel volume Psicologia e Religione.Parlando dei santi indiani cita Ramakrishna, uno deipresunti saggi, che dice:

Quanto pochi sono capaci di raggiungere l'unificazione (samadhì) e diliberarsi da questo lo (aham}. È raramente possibile. Discuti quantovuoi, separa senza fine; questo lo ritornerà sempre a tè. Oggi abbatti ilpioppo e domani troverai che è rigermogliato [...] Se non potetedistruggere definitivamente questo «lo», trattatelo come «lo, il servitore»(13).

Jung commenta l'insegnamento di Shri Ramana nellostesso capitolo e dice:Shri Ramana, ad esempio, chiama il suo corpo «questo zoticone». Incontrasto con questo, e in considerazione della complessa naturadell'esperienza (emozione + interpretazione), il punto di vista criticoammette l'importanza del ruolo dell'Io cosciente, ben sapendo che senon ci fosse aham-kara [la consapevolezza dell'Io] non vi sarebbenessuno al corrente d'un qualsiasi accadimento. Senza l'Io personaledel Maharshi che, a quanto risulta dall'esperienza, esiste soltanto con lozoticone (= corpo) di sua pertinenza, non ci sarebbe mai stato un ShriRamana. Anche se vogliamo ammettere con lui che ormai non è più ilsuo lo che parla, ma l'atman, sono la struttura psichica della coscienzae così pure il corpo che rendono possibili le comunicazioni attraverso illinguaggio (14).

Secondo Jung, l'esperienza dell'identità tra Brahman eAtman, è un'esperienza mistica che ha dei paralleli anchein occidente, sebbene con un linguaggio e una termino-logia diversi.L'identificazione tra Brahman e Atman non può avvenirene per mezzo dei sensi, ne per mezzo del ragionamento,né attraverso la discussione, né mediante l'erudizioneprofonda e neppure per mezzo unicamente dello studiodelle scritture; ci vuole invece una rigida e perseverante

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autodisciplina di purificazione dalle azioni e tendenzepeccaminose, per controllare i sensi, i desideri e lepassioni, per staccarsi dalle cose mondane. La primaparte degli esercizi dello yoga - il cosiddetto hatayoga -ciistruisce su questa disciplina. Oltre ciò le Upanishadpropongono anche la triplice disciplina di sravana (ascol-to), manana (meditazione) e nidhidyasana (pratica). Il95% della spiritualità consiste nel mettere la conoscenzain pratica.

4. // KarmaUn altro argomento di particolare importanza sembraquello del Karma. L'espressione è di origine sanscrita esignifica letteralmente azione, ma nella speculazione filo-sofico religiosa indiana ha assunto il senso di «conse-guenza ineluttabile di qualsiasi tipo di azione (fisica,verbale o mentale)».- Secondo l'interpretazione del Karma come principio dicausalità, a ogni causa corrisponde un effetto e a ognieffetto una causa. A ogni azione segue una reazione.- Il Karma come principio etico viene inteso nel senso di:«avrai il frutto di ciò che hai seminato».- Secondo gli insegnamenti indù, gli effetti delle proprieazioni non possono essere sperimentati tutti attraversouna sola vita, perché mentre si fruisce del risultato diqualche atto, si compiono nel contempo altre azioni equindi si avranno nuovi frutti da raccogliere. Da questofatto si deduce che l'anima deve rinascere per un certoperiodo di tempo. Si crede dunque che l'anima findall'eternità nasca e rinasca. Questa dottrina dellatrasmigrazione dell'anima, che viene chiamata anchereincarnazione o metempsicosi, è il corollario necessariodella dottrina del Karma. Il processo di reincarnazioneavviene nel mondo fenomenico (samsara). Colui cheadempie il proprio dovere (Dharma) progredisce nellavita fino all'esaurirsi di tutte le conseguenze delle sueazioni terrene, liberandosi definitivamente dal mondofenomenico [Mukti), per unirsi al Brahman (Samadhi).La Gita (15), il cosiddetto Nuovo Testamento dell'indui-

(15) I libri sacri indu vengonosuddivisi in due categorie: sruti(l’udito), cioè la rivelazione esmriti (la memoria), cioè latradizione orale. In questaseconda parte è compresa laBhagavat Gita (la lode delSignore).

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(16) Gita, II, p. 12-13; citatada D. Acharuparambil,Induismo, Roma,Teresianum, 1976, p. 204.

(17) C.G. Jung, Gli archetipie l'inconscio collettivo, inOpere, vol. IX, t. 1, Torino,Boringhieri, 1980, p. 349.

(18) Enciclopedia della filo-sofia, Milano, Garzanti,1985, p. 922, alla voce:«Teilhard de Chardin».

(19) H. Chaudhuri, «II signifi-cato del Karma nella Filoso-fia Integrale», in Karma, Lalegge Universale dell'Armo-nia, Roma, ed.Mediterranee, Roma, 1975,pp. 115-125.

smo, espone chiaramente l'aspetto fondamentale diquesto insegnamento con le seguenti parole:

Dice il Signore: «Devi sapere che non c'è mai stato tempo in cui lo nonfui e tu non fosti; e ormai non cesseremo mai di esistere. Come il corpopassa attraverso le fasi dell'infanzia, della giovinezza, della maturità edella vecchiaia, così l'anima passa da un corpo all'altro nelle successiveincarnazioni e assolverà il suo compito» (16).

Nel sistema filosofico di Shri Aurobindo (un altro degliinterpreti autorevoli delle Upanishad) la reincarnazione ènecessaria e indispensabile per il processo dinamicodell'universo. Il cosmo è una manifestazione o autorive-lazione dello Spirito Supremo. Secondo l'insegnamentodelle Upanishad,

la creazione inizia dunque con un atto di separazione degli opposti unitinella divinità. Dalla loro tensione scaturisce, come una potente esplo-sione di energia, la molteplicità del mondo (17).

Questo pensiero upanishadico suona sorprendentementeattuale e simile a certe teorie della fisica moderna.L'espansione spazio-temporale che segue all'esplosioneoriginaria è, secondo Aurobindo, un processo evolutivoche ha inizio su un piano materiale per percorrere poiquelli della vita vegetativa e animale: attualmente haraggiunto quello della mente umana, la quale deve evol-versi ulteriormente per unirsi con il Brahman. Il succitatoTeilhard de Chardin esprime lo stesso pensiero nellamaniera seguente:

La materia originaria contiene già in sé la coscienza come elementoorganizzativo, per cui l'evoluzione si configura come un processo nonpuramente deterministico ma anche teleologico. L'evoluzione dalla pre-vita (mondo inorganico) alla vita (biosfera) tende alla creazione dell'uo-mo e del pensiero (noosfera). L'uomo non è ancora tuttavia al puntofinale: l'universo e in esso l'uomo e la sua storia, tendono a un puntoomega (18).

Haridas Chaudhuri, una delle massime autorità dei nostritempi dello yoga integrale, approfondisce l'argomentomaggiormente (19). Secondo lui l'energia si manifesta sianel moto espansivo che nella crescita evolutiva. L'u-niverso è in espansione. Le galassie si allontanano l'unadall'altra a velocità enorme. In questo processo l'energiaviene dissipata.

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L'essenza dell'evoluzione consiste invece nell'autoincen-tramento, nella crescente organizzazione interna e nellacomplessificazione strutturale. Questo è il motore delprocesso evolutivo.Quando molecole diversissime come il carbonio, l'idro-geno, l'ossigeno, l'azoto, ecc. si combinano in propor-zioni definite, nasce una novità qualitativa, cioè la cellulavivente; La cellula possiede la capacità emergente difunzioni nuove come la mobilità spontanea, la crescitaimmanente dall'interno, l'autoespansione, l'autorego-lazione, l'autoriproduzione, ecc. Nella filosofia modernaquesta è la legge dell'evoluzione emergente o creativa.Fin qui il problema viene considerato dal punto di vistafilogenetico. Dal punto di vista ontogenetico, prevaleinvece la legge del Tapa: quando una persona, in virtù diuna lunga pratica di auto-organizzazione intelligente efinalizzata genera il calore psichico interno derivantedall'energia creativa spirituale (appunto il Tapa), alloranuove visioni di verità, bellezza e perfezione illuminano ilsuo orizzonte mentale e trasformano il suo essere totalein una fonte di creatività.Dal punto di vista estetico la legge del Karma fa si chel'equilibrio universale appare come armonia e ordine(Rta) in una moltitudine di sensazioni. Senza l'equilibrioche domina le forze contrastanti di auto-espansioneestroversa e auto-organizzazione inferiore, l'universoperderebbe l'ordine cosmico che, sempre secondoquesto autore, è lo spirito di armonia che tienecreativamente insieme l'entropia disintegrante dellamateria e la negentropia evolutiva della vita. Cosi ilKarma svolge una funzione di equilibrio nell'universo.Intimamente legato al concetto di Karma è quello delDharma. Vivere il proprio Dharma vuoi dire vivere lapropria potenzialità spirituale, cioè la scintilla divina cheè in ognuno di noi e che ha infinite potenzialità di perfe-zione.Non si può vivere il Dharma supremo senza il Dhar-masamsara, cioè gli obblighi, i doveri e i piaceri della vitaquotidiana. È significativo l'episodio raccontato da Jung,della visita del tempio di Surya (il Sole) nello stato di

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(20) C.G. Jung, Ricordi,sogni e riflessioni, Milano,Rizzoli, 1978, pp. 330-331.

(21) C.G. Jung, Psicologia eReligione, in Opere, vol. XI,Torino, Boringhieri, 1979,pp. 491-523.

(22) Ibidem, p. 524.

Orissa; Jung è sbalordito, a suo dire, dalle «scultureoscene di squisita fattura»:Obiettai - indicando un gruppo di giovani contadini che stavano a boccaaperta davanti al monumento, ammirandone la magnificenza -che queigiovani in quel momento stavano subendo tutt'altro che un processo dispiritualizzazione, e che avevano piuttosto l'aria di essere tutti presi dafantasie sessuali. Repl icò il Pandit che accompagnava Jung: «Maproprio questo è il punto. Come potrebbe mai realizzarsi in loro loSpirito, se prima non soddisfacessero il loro Karma? Queste immaginichiaramente oscene sono qui proprio allo scopo di ricordare agli uominiil proprio Dharma (20).

Quando Jung raccontò questo episodio al suo amicoindologo Heinrich Zimmer, questi avrebbe commentato:«Finalmente sento qualcosa di vero sull'India». A quantopare, la spiritualità indù ha dei risvolti molto pratici.Se il Karma è la spinta volitiva del passato, il Dharma èl'attrazione evolutiva verso il futuro. Perciò la forza dellastoria del passato (Karma) e la potenzialità del futuroinsita in ognuno (Dharma) sono due poli dialettici dellostesso processo di crescita.Jung nel suo commento al libro tibetano della grandeliberazione esamina il concetto del Karma in un'otticapsicologica (21). Secondo la sua opinione, ciò che vieneereditato di generazione in generazione e da individuo aindividuo non è la memoria prenatale bensì la potenzialitàmnemonica a richiamare tali ricordi nella mente. Questiricordi secondo le Upanishad sono depositati al momentodella morte nel corpo sottile. Il corpo sottile non è nevisibile ne tangibile, ma è costituito di sensi interni e servecome nesso tra l'Atman e il corpo materiale. Alla mortel'anima abbandona il corpo materiale ma trattiene il corposottile con l'impronta di tutti gli atti: il corpo sottile vieneabbandonato solamente nella liberazione definitiva.Secondo Jung i ricordi del passato formano il mondodell'illusione karmica come viene descritta nel libro tibe-tano dei morti o si manifestano nelle fantasie dissociativedi certi psicotici. Il processo inferiore, l'incontro con ildolore e il male è un dato di fatto perché «le immaginikarmiche appaiono nella loro terrificante crudezza» (22).Dal punto di vista clinico, la dottrina del Karma contribui-sce a far comprendere, in parte, la sofferenza umananelle manifestazioni acute della malattia mentale. Sia la

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dottrina upanishadica che quella junghiana non preten-dono di risolvere alcunché spiegando i nessi causalidella sofferenza. La risposta delle Upanishad alproblema del Karma, almeno nella sua accezionenegativa di sofferenza retributiva è il concetto di Dharma.Vivendo il proprio Dharma, cioè vivendo la presenzadivina in ognuno, si comprende e si supera il Karma.Anche la Dharma-samsara, cioè l'adempimento degliobblighi e doveri della vita quotidiana, è in ultima analisiun mezzo di congiungimento con l'Assoluto. Jung loformula diversamente, ma secondo me in manierasufficientemente limpida e senza equivoci:La domanda decisiva per un uomo è se è in rapporto con qualcosa diinfinito o no. Questo è il vero problema della sua vita. Solo sesappiamo che la cosa che ci interessa veramente è infinita, possiamoevitare di fissare il nostro interesse sulle futilità e su tutti quei tipi discopi che non sono realmente importanti. [...] Più un uomo ponel'accento sui suoi falsi beni, meno sensibilità ha per quello che èessenziale. [...] Se comprendiamo e sentiamo che qui in questa vitaabbiamo un collegamento con l'infinito, cambiarne desideri eatteggiamenti. In ultima analisi contiamo qualcosa solo in virtù di quelche di essenziale incarniamo, e se non la incarniamo, la vita siisterilisce. Nei nostri rapporti con gli altri uomini, quindi, il problemacruciale è se nel rapporto viene espresso un elemento di infinito. [...] Lavita mi è sempre sembrata come una pianta che vive sul suo rizoma.La sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. La parte che si vedeal di sopra del suolo dura una sola estate. Poi svanisce comeun'apparizione effimera. Quando pensiamo all'eterna crescita escomparsa della vita e della civiltà, non possiamo sfuggire aun'impressione di nullità assoluta. Eppure non ho mai perso la sen-sazione di qualcosa che vive e che conserva sottoterra il fluire eterno.Quel che vediamo è la fioritura che svanisce. Il rizoma rimane (23).

5. L'identità tra Brahman/Atman e la Funzione SimbolicaNell'accezione clinica la funzione simbolica viene intesacome il processo d'unione degli opposti consci e incon-sci. Nella psicologia junghiana la regressione della libidocausata dal conflitto tra i complessi consci e quelli incon-sci, neutralizza il conscio e attiva la funzione strutturantecompensatoria che si concretizza attraverso la scelta diuna particolare immagine onirica. Nei Veda c'è unbellissimo brano che illustra questa fase, tra l'altrocommentato anche da Jung:Vishnu cadde in estasi e nel suo sopore diede alla luce Brahma, cheergendosi maestoso su di un flore di loto si levò dall'ombellico diVishnu

(23) C.G. Jung, Memories,Dreams, Reflection, NewYork 1962, citato in E.Whitmont, La ricercasimbolica, Roma,Astrolabio, 1982, p. 316.

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(24) C.G. Jung, Simbolidella trasformazione, op.cit., p. 289.

(25) Ibidem.

(26) C.G. Jung, Tipi psicolo-gici, in Opere, vol. VI Torino,Boringhieri, 1969, p. 127.

portando con sé i Veda che lesse con fervore (nascita del pensierocreativo dall'introversione) (24)

A causa della disattenzione estatica e introversa di Vish-nu, il mondo fu inondato da un diluvio (il risultato di troppaintroversione). Sfruttando la confusione generale ildemonio ruba le sacre scritture e le nasconde negliabissi. Brahma sveglia Vishnu dal suo sonno. Vishnuprende le sembianze di un pesce, scende negli abissi,vince il demonio e recupera le sacre scritture. Jungprocede nel commento dicendo:

Questo è un modo primitivo di descrivere l'ingresso della libido neldominio interiore dell'anima, l'inconscio. Qui, attraverso l'introversione ela regressione della libido, vengono costellati contenuti che prima eranolatenti. Questi, come dimostra l'esperienza, sono le immagini primordia-li, gli archetipi che, mercé l'introversione della libido, sono talmentearricchiti dai ricordi individuali che la coscienza è in grado di percepirli[...] L'archetipo costellato è sempre l'immagine primordiale che rispec -chia la necessità del momento (25).

Nei Tipi psicologici Jung afferma:

Mediante lo yoga i rapporti con l'oggetto vengono introversi e mercé losvuotamento del loro valore, immersi nell'inconscio, dove, come abbia-mo già detto, essi possono intrecciare nuove associazioni con altricontenuti inconsci e perciò ritornare modificati all'oggetto, dopo avercompiuto la pratica del tapas (26).

Nell'ultima fase del processo simbolico, cioè dopo ilconfronto con l'inconscio, l'Io non è più l'autore ma lospettatore in attesa che non controlla l'accadere ma silascia accadere (Sich geschehen lasserì). Questo portaalla percezione di una sintesi tra il conscio e l'inconscio.Solo l'esperienza vitale è il criterio di verifica di talepercezione.Il filo conduttore principale della succitata Gita, cioè l'e-sortazione di Krishna ad Arjuna - «Tu devi liberarti dagliopposti» - si avvicina molto al concetto della percezionedella sintesi nel processo simbolico. La liberazione degliopposti avviene in uno stato meditativo senza contenuti,ne immagini; possiamo ipotizzare, secondo Jung, «unostato nel quale la libido viene fornita nella maniera delcaldo nell'incubatrice». L'identità risultante tra esterno einterno, tra Brahman e Atman, viene descritta, come

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abbiamo detto precedentemente, come Tatvam Asi (Tu seiQuello). Sempre secondo Jung,Nel Brahman, ente creatore e fondamento dell'universo, le cose perven-gono sulla retta via [Rta] giacché in lui esse eternamente si dissolvonoe si ricreano [...] Il senso della vita consiste nel percorrere questa viadel mezzo e nel non allontanarsene mai sconfinando negli opposti (27).

Liberando l'individuo dagli opposti si arriva all'unione stes-sa degli opposti. Psicologicamente è uno stato d'animo.Secondo il mio punto di vista, le varie fasi cliniche delprocesso simbolico - e principalmente il conflitto tracomplessi consci e inconsci, e la regressione della libidoche porta alla neutralizzazione del conscio e all'attivazio-ne delle potenzialità compensatorie della psiche - sirispecchiano nel processo di liberazione dai cinque invo-lucri upanishadici (corpo fisico, corpo vitale, involucromentale, involucro razionale e l'involucro costituito daiconcatenamenti causali karmici). La liberazione da questiinvolucri non significa l'eliminazione fisica bensì la relati-vizzazione del mondo fenomenico. Per usare un'espres-sione upanishadica, Deham na Aham: Koham? So ham(lo non sono corpo materiale: ma allora cosa sono? losono Quello). In altre parole, la mia identità è divina,Vorrei raccontarvi alcuni sogni di pazienti per illustrarequanto affermato finora. Ricordo solo che presi a sé,indipendentemente dalla storia personale del sognatore,dall'atteggiamento conscio del paziente e dal rapportoparticolare che viene a stabilirsi tra l'analista e l'analiz-zando, i sogni non possono rendere - almeno dal punto divista clinico - quella ricchezza di significati che gli èpropria e tanto meno essere indicativi del processomaturativo.Sono nella mia stanza. Attraverso la finestra guardo il cielo e vedonuvole oscure che si addensano all'orizzonte. Corro dall'altra parte dellacamera e vedo dall'altra finestra un enorme lenzuolo bianco che scendedal cielo e prende fuoco. Cerco di uscire dalla stanza ma la porta èchiusa e ho perso la chiave. Giganteschi uccelli rapaci scendono apiombo dal cielo verso la massa che fugge dall'incendio.

Vediamo un altro sogno dello stesso paziente ventiset-tenne:Vedo un uccello grande quanto un elefante. L'uccello è bianco con unamacchia nera sulla testa. È una femmina e mi insegue per valli e campi.

(27) Ibidem

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Cerco di nascondermi dietro le rocce, ma non ci riesco. A un certopunto entro in una villa protetta da sbarre. Dalla villa una ragazza conun fucile mi spara [...]

Penso che questi due sogni non necessitano di alcuncommento, in quanto illustrano in modo quasi fotograficola dissociazione e l'angoscia che scaturiscono da imma-gini irrazionali incontrollabili.Dopo circa dieci mesi di lavoro analitico, i suoi sognicominciarono a trasformarsi. Eccone uno:

Scendo nel sotterraneo della nostra casa in campagna. I soffitti sonobassi, i corridoi lunghi, gli spazi vasti. Scendendo sempre più giù,insieme al mio amico archeologo, vedo delle stupende pitture murali,molto antiche. Ho la sensazione di aver scoperto qualcosa di prezioso,forse l'immagine di una donna che porta dell'acqua [...]

In questo sogno si può evidenziare il percorso dellalibido nel mondo interiore della psiche per mezzodell'introversione, ma questa volta, a differenza dei primisogni, in maniera compensatoria.Nel sogno che segue, di un uomo di 39 anni verso laconclusione dell'analisi, è evidente il motivo dell'unionedegli opposti:

Vedo il polo nord. Il sole e la luna si avvicinano. Un bambino unisce ilsole e la luna con una corda che assume la forma della lettera S. Ilpadre del bambino ha solo una camicia addosso, ma non sente freddo.

I paralleli tra lo yoga e i processi del percorso analiticosono molti. Una prima serie di esercizi dello yoga èfinalizzata al miglioramento dell'igiene fisica (purificazio-ne, autodisciplina, rilassamento) che porta a unamaggiore consapevolezza dell'immagine corporea. Letecniche attinenti alla concentrazione e alla meditazionesono analoghe al lavoro di introversione richiestodall'analisi. Incidentalmente va osservato che ilsignificato etimologico dell'espressione Hatayoga èl'unione tra il sole (ha) e la luna (ta).Nell'impostazione analitica classica il momento predomi-nante è l'analisi dei sogni, mentre nelle tecniche yogaviene data maggiore importanza all'osservazione distac-cata delle immagini attivate dalle tecniche stesse.Secondo Jung, la percezione della sintesi risultante dal-

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l'unione degli opposti è molto simile alla percezione dellaretta via (Rta), che è il risultato dell'unione dell'Atman conil Brahman. L'avvicinamento tra la posizione upanishadicae quella junghiana si può cosi evidenziare sia nella prassiche nei fondamenti teorici.L'identità tra Brahman e Atman viene ulteriormente for-mulata nelle Upanishad come Sat-Chit-Ananda (Sat =Realtà o Essere, Chit = Coscienza, Ananda = Gioia):cioè la gioia che scaturisce dalla sintesi tra l'essere e lacoscienza. Le riflessioni teoriche di Jung sulla FunzioneTrascendente vanno inserite, a mio parere, nel contestodella problematica fondamentale che percorre tutto ilpensiero speculativo occidentale attraverso ben ventisecoli, cioè la corrispondenza tra l'ordine dell'essere el'ordine conoscitivo: nel linguaggio upanishadico appuntotra il Sat = Essere e il Chit = Coscienza. Senza entrareapprofonditamente in merito a questo problema, cosìvasto, si può tranquillamente affermare che fu affrontatoda 1. Kant e da N. Cusano e più recentemente da E.Cassirer. Dalla lettura delle opere junghiane mi risulta cheJung accoglie molte delle speculazioni di NicolausCusano. Forse è interessante osservare che sia il con-cetto di analogia, che è alla base del principio dell'unifi-cazione degli opposti, che la stessa espressione coinci-dentia oppositorum sono stati usati in modo autorevole especifico da quest'ultimo:

Dio è coincidentia oppositorum, che è la complicazione del molteplicenell'uno; all'inverso, il mondo è l'esplicazione dell'uno nel molteplice. Tra idue poli si ha un rapporto di partecipazione, per il quale Dio e il mondo sicompenetrano (...) il mondo si configura come un'immagine, un'imitazionedello stesso essere divino, ovvero come un secondo Dio o «un dio creato"(28).

La somiglianza tra questo brano e la dottrina upanisha-dica dell'identità tra Brahman e Atman, è sorprendente.

6. Osservazioni conclusiveQuesto personale modo di lettura ha per me il valore diuna ricerca delle radici della mia cultura nativa. Ricercache sovente rimane circoscritta nel campo della cono-scenza intellettiva. Erano per me assai emozionanti le

(28) Enciclopedia dellafilosofia, op. cit., alla voce:<<Cusano, Nicola>>

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(29) C.G. Jung, L'uomo e isuoi simboli, Roma, Monda-dori, 1985, p.61.

(30) C.G. Jung, Ricordi,sogni..., op. cit., p. 328.

(31) C.G. Jung, Due testi dipsicologia analitica, inOpere, voi. VII, Boringhieri,1983, p. 78 n.

(32) C.G. Jung, Psychologyand Alchemy, in CW/12,London, Routledge & KeganPaul, 1953, p. 9.

rarissime volte che questa conoscenza si infiltrava nelmio campo esperenziale, nel lavoro con i pazienti. Il piùdelle volte, nella prassi quotidiana con i malati, ci si ritrovaalla ricerca del senso, del senso della vita, indi-pendentemente dal livello culturale del paziente. Durantele sedute non ci si limita a parlare solo di argomentipsicologici. Spesso non è neanche possibile fare unalettura psichica di tutto. Per il maestro zurighese «lapersonalità globale dell'analista è l'unico equivalenteadeguato alla personalità del paziente» (29). La persona-lità globale dell'analista, secondo me non può esserecircoscritta solo in termini psicologici e tanto meno èpossibile suddividerla artificialmente durante le sedute. Laconflittualità tra i vari complessi e la manifestazione dellafunzione compensatoria dei simboli sono abbastanzaevidenti nel lavoro quotidiano dell'interpretazione deisogni. D'altra parte, lo studio delle tecniche yoga (intesocome processo di relativizzazione dei cinque involucri cheimpediscono all'uomo di vivere una vita armoniosa)sembra molto simile nella sostanza e nello scopo a uncerto tipo di lavoro analitico. Naturalmente il linguaggio, ipresupposti culturali e i riferimenti mitologici sono moltodiversi.Anche riguardo a questo problema la posizione di Jungnon è univoca. Da una parte egli dice:Come europeo non posso prendere nulla in prestito dall'oriente, madevo plasmare la mia vita da me stesso, secondo quanto mi suggerisceil mio intimo o mi apporta la natura (30).

Dall'altra afferma:L'aspetto del Karma è ineliminabile se si vuole comprendere più a fondola natura di un archetipo (31).

E più in generale:Siccome l'atteggiamento dell'europeo enfatizza fortemente l'oggetto, loderuba del suo rapporto con l'uomo inferiore. L'orientale è invece piùradicato a terra, e vive la radice profonda di tutto l'essere. E perciò noi,come psicologi, abbiamo il dovere di comprendere realmente e fino infondo l'Oriente (32)

Come si può comprendere realmente l'Oriente senzaassimilarlo? (A meno che la comprensione sia su un

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piano puramente intellettivo). Come si può assimilarlosenza interiorizzarlo? A quanto pare, non appena Jungusa il linguaggio concettuale, il contenuto del discorsoviene a polarizzarsi in tesi e antitesi, perché l'essenzastessa della mente conscia nella quale ha origine il lin-guaggio concettuale è discriminazione, polarizzazione eseparazione. Su un piano invece esperenziale, si costellanello stesso Jung un'integrazione fortemente complemen-tare tra Oriente e Occidente. Cosi, per esempio, quandoparla del rapporto dell'individuo con l'infinito nel brano giàcitato:

La vita mi è sempre sembrata come una pianta che vive sul suo rizoma.La sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. La parte che si vede aldi sopra del suolo dura una sola estate. Poi svanisce come un'ap-parizione effimera. [...] Quel che vediamo è la fioritura che svanisce. Ilrizoma rimane (33).

Secondo Jung allora la vera essenza della vita non vacercata nella fioritura di una stagione, bensì nel rizomanascosto che vive nel fluire eterno. Secondo le Upanis-had, gli involucri fisici, mentali, karmici, ecc. sono effimeri.Quello che è reale è l'identificazione con l'Assoluto. Da unpunto di vista critico la domanda cruciale sembra;«Può esistere una coscienza senza l'Io?» Penso che lapsicologia intesa come discorso sulla psiche non possaesimersi dal rispondere un secco «No». Il no è natural-mente una risposta mediata da un linguaggio concettuale,dialettico e polarizzante. Se invece la psicologia è ancheun discorso che procede dalla psiche, allora il linguaggioche si presta è il linguaggio dell'esperienza dell'unità degliopposti; la coscienza dell'Io che si unisce con lacoscienza del «Sé», come nell'aneddoto del pupazzo disale che voleva vedere il mare e nel momento delladissoluzione esclama: «Toh, lo sono l'oceano», o comedice Teilhard de Chardin: «In seno a un oceanotranquillizzato, ogni goccia avrà coscienza di rimanere sestessa», o come dice Shri Sankaracharya interpretando leUpanishad: «Brahman è il reale, l'universo è relativo, lacoscienza individuale si identifica col Brahman, e non èrealmente differente da Brahman» (34).Quando il linguaggio concettuale risalta la funzione

(33) C.G. Jung, Memories,Dreams, Reflection, NewYork 1962, citato in E.Whitmont, La ricercasimbolica. Roma,Astrolabio, 1982, p. 316.

(34) Elenjimittam, op.cit., p. 10.

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pensiero, il linguaggio esperenziale-simbolico mette inluce la funzione dell'intuizione. Abbiamo bisogno di tuttie due i linguaggi, così come abbiamo bisogno di tutte lefunzioni.Comunque il secondo tipo di linguaggio sembra benadattarsi all'amplificazione dei contenuti del proprio vis-suto con l'aiuto dei miti, delle religioni o di ogni altraproduzione artistica, letteraria o fantastica; in questocaso specifico appunto quelle dell'India. I risultatiottenuti da Jung sembrerebbero primo, una confermadelle sue ipotesi dell'esistenza di un inconscio non-individuale; secondo, la possibilità di capire la strutturareciprocamente complementaria di culture diverse;terzo, un'indicazione, benché minima, di come usare leimmense potenzialità curative delle religioni nel contestoclinico, considerandole alla stregua di grandi sistemiterapeutici.Esaminare gli sviluppi psicologici individuali in rapportoalle diversità culturali sembra un compito tanto affasci-nante, specie perché il linguaggio esperenziale superale barriere culturali, quanto difficile. Mi accontentereiinvece di affermare che l'intervento psicologico nella suaaccezione riduttiva, cioè tralasciando gli aspetti medici espirituali, non può sempre dare delle rispostesoddisfacenti. Arricchire il contesto analitico facendo deiriferimenti incrociati con campi di vitale importanza comequello spirituale, può forse offuscare la specificitàdell'intervento psicologico, ma fa guadagnare nellaricchezza dell'incontro tra due esseri umani, tutti e duein cerca di senso. Il senso della vita.