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185 Raffaele Colapietra Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie di Raffaele Colapietra Il 2 settembre 2001 è caduto il centenario della morte d’Imbriani, dopo quasi esattamente quattro anni d’infermità e dolorosa immobilità paralizzante, che emblematicamente lo aveva colpito mentre inaugurava in piazza della Lizza a Siena, all’ombra dialetticamente “tirannica” della fortezza medicea, e non lungi dalle me- morie cateriniane del S. Domenico, il monumento a Giuseppe Garibaldi 1 . Il ricordo dell’oblio in cui Milano, per non dire l’Italia, hanno fatto cadere l’analoga ricorrenza per Cavallotti (6 marzo 1898) nonostante certe profondissime affinità ambientali che si è avuto modo di segnalare in nota, mi ha indotto a ripren- dere in mano gli appunti di una conversazione tenuta a Trani nel novembre 1990, che la cortesia di quei cittadini rese affollata e partecipe, e che mi giovò allora, e più mi giova oggi, per ridestare e rinfrescare amori giovanili attorno ai quali i decenni trascorsi, malgrado le benemerenze, troppo conosciute per essere dettagliate, di Giovanni Spadolini ed Alessandro Galante Garrone, non hanno apportato davvero luce soverchia. Imbriani si trova poi in una posizione particolarmente delicata e defilata nei confronti di Cavallotti, che si è potuto, con gli opportuni distinguo, collocare e mantenere alla meglio nell’ambito di quel radicalismo a cui gli studiosi, ed una certa esigua pattuglia di epigoni, hanno dedicato un’attenzione non trascurabile, con esiti critici ragguardevoli, come in quelli di Giovanni Bovio, che viceversa, ed assai lodevolmente, è stato abbastanza presente alla memoria civile e scientifica pugliese, se non del tutto a quella napoletana, sì da presentare oggi un bilancio soddisfacente tanto sotto il profilo culturale quanto sotto quello strettamente po- litico. 1 Ho creduto opportuno soffermarmi con qualche cura sulla localizzazione specifica dell’evento del 20 settembre 1897 (davanti al monumento è ancor oggi la lapide dell’antica sede della società operaia dove Imbriani fu trasportato e Cavallotti fu il primo ad accorrere al capezzale dell’amico) a causa della sua sempre rilevantis- sima rappresentanza simbolica, così come lo è, ovviamente, la data prescelta, quella stessa nella quale, due anni prima, il Crispi presidente del Consiglio aveva inaugurato con un importante discorso il Garibaldi del Gallori sul Gianicolo. Esso era una rivendicazione con iudicio della laicità irrinunziabile dello Stato risorgimentale a suggello della proclamazione della data, nel suo venticinquennio, come festa nazionale, secondo che ricorda orgogliosamente a Gallipoli l’epigrafe dettata per il proponente, all’epoca deputato del collegio, Nicola Vi- schi, l’antico patrizio di Trani e “proconsole” giolittiano in Terra d’Otranto. Non a caso Milano avrebbe contrapposto al 20 settembre del conformismo ufficiale il 3 novembre di Mentana e del “fossato” da essa scavato tra la nazione e la monarchia nella suggestiva immagine di Agostino Bertani, per affidare l’inaugura- zione del suo Garibaldi ad uno dei più smaglianti e complessi discorsi extraparlamentari di Felice Cavallotti.

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Raffaele Colapietra

Matteo Imbriani alla Camera per la difesadei diritti civili e delle libertà statutarie

di Raffaele Colapietra

Il 2 settembre 2001 è caduto il centenario della morte d’Imbriani, dopo quasiesattamente quattro anni d’infermità e dolorosa immobilità paralizzante, cheemblematicamente lo aveva colpito mentre inaugurava in piazza della Lizza a Siena,all’ombra dialetticamente “tirannica” della fortezza medicea, e non lungi dalle me-morie cateriniane del S. Domenico, il monumento a Giuseppe Garibaldi1.

Il ricordo dell’oblio in cui Milano, per non dire l’Italia, hanno fatto caderel’analoga ricorrenza per Cavallotti (6 marzo 1898) nonostante certe profondissimeaffinità ambientali che si è avuto modo di segnalare in nota, mi ha indotto a ripren-dere in mano gli appunti di una conversazione tenuta a Trani nel novembre 1990,che la cortesia di quei cittadini rese affollata e partecipe, e che mi giovò allora, e piùmi giova oggi, per ridestare e rinfrescare amori giovanili attorno ai quali i decennitrascorsi, malgrado le benemerenze, troppo conosciute per essere dettagliate, diGiovanni Spadolini ed Alessandro Galante Garrone, non hanno apportato davveroluce soverchia.

Imbriani si trova poi in una posizione particolarmente delicata e defilatanei confronti di Cavallotti, che si è potuto, con gli opportuni distinguo, collocaree mantenere alla meglio nell’ambito di quel radicalismo a cui gli studiosi, ed unacerta esigua pattuglia di epigoni, hanno dedicato un’attenzione non trascurabile,con esiti critici ragguardevoli, come in quelli di Giovanni Bovio, che viceversa, edassai lodevolmente, è stato abbastanza presente alla memoria civile e scientificapugliese, se non del tutto a quella napoletana, sì da presentare oggi un bilanciosoddisfacente tanto sotto il profilo culturale quanto sotto quello strettamente po-litico.

1 Ho creduto opportuno soffermarmi con qualche cura sulla localizzazione specifica dell’evento del 20settembre 1897 (davanti al monumento è ancor oggi la lapide dell’antica sede della società operaia dove Imbrianifu trasportato e Cavallotti fu il primo ad accorrere al capezzale dell’amico) a causa della sua sempre rilevantis-sima rappresentanza simbolica, così come lo è, ovviamente, la data prescelta, quella stessa nella quale, due anniprima, il Crispi presidente del Consiglio aveva inaugurato con un importante discorso il Garibaldi del Gallorisul Gianicolo. Esso era una rivendicazione con iudicio della laicità irrinunziabile dello Stato risorgimentale asuggello della proclamazione della data, nel suo venticinquennio, come festa nazionale, secondo che ricordaorgogliosamente a Gallipoli l’epigrafe dettata per il proponente, all’epoca deputato del collegio, Nicola Vi-schi, l’antico patrizio di Trani e “proconsole” giolittiano in Terra d’Otranto. Non a caso Milano avrebbecontrapposto al 20 settembre del conformismo ufficiale il 3 novembre di Mentana e del “fossato” da essascavato tra la nazione e la monarchia nella suggestiva immagine di Agostino Bertani, per affidare l’inaugura-zione del suo Garibaldi ad uno dei più smaglianti e complessi discorsi extraparlamentari di Felice Cavallotti.

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E questa delicatezza dipende dall’essere stato Imbriani irrigidito, e sostan-zialmente esaurito, nelle secche di una protesta tanto generosa quanto esteriore edeclamatoria nell’ambito che genericamente può chiamarsi meridionale, se non pro-priamente meridionalistico, nonché, e più gravemente, a livello nazionale, in quelledi un irridentismo enunciativo, fine a se stesso quando non incoerente e contrad-dittorio.

Gli equivoci e le ambiguità di Raffaele Cotugno quale più o meno legitti-mo erede politico del Nostro e, più impegnativamente, curatore e prefatore, nel1923, dei suoi discorsi parlamentari 2 sono senza dubbio alla base di questa rapi-da e sommaria mancanza d’interesse critico, non sanata certo da quel che è ve-nuto dopo soprattutto in ambito regionale pugliese, un nome per tutti, MicheleViterbo.

Le pagine che seguono, dunque, sull’onda sentimentale dell’occasionale cir-costanza accennata, e sulla base modestissima di una rilettura del saggio di Cotugnoe di una rivisitazione, come si suol dire, dell’attività parlamentare intensissima diImbriani nei pochi anni in cui egli di fatto sedette alla Camera, si propongono contutta semplicità di cominciare a far conoscere, se non altro, lo spessore di testi-mone del liberalismo ottocentesco che il Nostro riveste nel passaggio dal Risor-gimento al post Risorgimento, ed in quello egemonico dalla plenitudine crispinaal prologo giolittiano, in quanto portavoce di una determinata, e sensibilissima,coscienza parlamentare, che in quegli anni decisivi fu messa severamente alla pro-va.

Si tratta, come sempre, di studiare e di approfondire, dopo aver conosciutodi massima: ma questo è un compito che, guardandomi indietro3 posso serenamen-te lasciare ad altri.

Elemento centrale e determinante di tutta la vicenda umana e politica diMatteo Renato è senz’altro la sua nascita a Napoli, il 28 novembre 1843, nel cuoreprofondo, per così dire, della “famiglia di patrioti” di crociana memoria la cuivicenda andrebbe oggi ripercorsa con sguardo più scaltrito e spregiudicato sulretroterra provinciale “rampante” settecentesco degli Imbriani nella valle Caudina

2 Non si trascuri ovviamente, la data di quell’edizione, che segnava una tappa ulteriore di avvicinamento alfascismo da parte di Cotugno radicale, interventista e nittiano, il tutto con gran numero di virgolette, delventennio precedente (naturalmente, la singolare levatura soprattutto intellettuale del personaggio attendeancora una ricostruzione a tutto tondo: ma qui egli ci interessa essenzialmente quale responsabile di unosnodo critico all’interno del quale Imbriani è rimasto impigliato senza scampo).

3 Mi si consenta, proprio a conferma di questa chiave introduttiva autobiografica, l’auto citazione dellarecensione che dedicai in “Belfagor” 1959 estratto di pp. 25 col titolo L’Italia in Africa da Assab ad Adua a Laprima guerra d’Africa del compianto Roberto Battaglia, che in conseguenza mi divenne carissimo amico “Notocon piacere come l’A. riservi all’Imbriani un’attenzione non condizionata dal consueto cliché protestatario edirredentista e borghese proprio del patriota napoletano. Imbriani è senza dubbio una figura schiettamenterisorgimentale, in senso generico e culturale, senza troppe precisazioni politiche, e quindi già anacronisticaalla fine dell’Ottocento. Ma la sua funzione liberale, la sua ispirazione popolare e la sua aggressiva onestà sirivelarono più volte insostituibili, connesse come erano con una severa preparazione dottrinaria e sia purelibresca, ed una spiccata sensibilità parlamentare”.

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della S. Martino tanto cara al Nostro e dei Poerio dell’ormai remota ed estraneaTaverna.

Tale elemento si rende poi più ravvicinato e coinvolgente se si colloca MatteoRenato come fratello mezzano tra due personalità parimenti d’eccezione, Vittorio,su cui non ci sono da spendere molte parole, e Giorgio, caduto nel gennaio 1871, aventidue anni, a Digione, al pari di Giuseppe Cavallotti, il fratello di Felice, maassai più e meglio di lui essendosi già messo in luce tra le figure più vigorose dell’in-transigenza repubblicana napoletana in chiave garibaldina che si era saputa serbareindenne dalle suggestioni bakuniste.

Non si trascuri peraltro, specie sotto l’angolo visuale che attualmente ciconcerne, ciò che gli zii materni abbiano potuto rappresentare e significare per ilgiovane che non a caso, a differenza di Vittorio, volle costantemente accompa-gnare il cognome Poerio a quello paterno, forse soprattutto Alessandro, di cuisintomaticamente si leggeva un motto poetico in epigrafe a “L’Italia degli Italia-ni” di cui parleremo tra breve, un motto nel quale è in nuce il rapporto sempretormentosamente dialettico, e tormentosamente avvertito, tra forma e contenutodella democrazia: “A che le leggi provvide E ’l frequente Senato E di suffragigravide L’urne e il pensiero amato E la parola libera E la comun città… se manca-no Virtude e libertà?”.

Matteo Renato veniva dunque a rappresentare, non soltanto dal punto divista anagrafico, una sorta di quid medium tra gli opposti estremismi, diciamo così,che si sarebbero configurati in Vittorio ed in Giorgio, e ciò, almeno in parte, anchea causa della vocazione, o scelta che fosse, schiettamente militare che lo contraddi-stingue fin dall’indomani dell’infantile esilio del 1850 al seguito di Paolo Emilio e diCarlotta Poerio suoi genitori, nel 1855 il collegio militare di Asti, quindi l’accade-mia di Torino, infine, nel 1859, la partecipazione alla guerra agli ordini di un conter-raneo meridionale, il generale Carlo Mazzacapo.

Il richiamo garibaldino sarebbe stato comunque prevedibilmente irresistibileal pari che per Cavallotti, di solo un anno più anziano (lo era anche Giolitti, maquale differenza! ed è un dato di fatto, il signum di un altro mondo), l’imbarco conMedici, la presenza alla battaglia di Milazzo con decorazione sul campo e promo-zione da parte di Enrico Cosenz4, quella assai più drammatica, a fianco di PiladeBronzetti, e con una breve prigionia nel campo borbonico, a Castelmorrone, neldifficile tentativo di coprire Caserta tra Maddaloni e S. Maria Capua Vetere durantela battaglia del Volturno.

Che quella del Nostro, come si è accennato in nota, fosse all’epoca una posi-

4 È appena il caso di avvertire fin d’ora che tutt’e tre i militari fin qui nominati avrebbero rivestito ufficialtissimi nell’Italia unitaria e monarchica, non sappiamo se ed in quale misura mantenendo contatti col No-stro, che ribadisce comunque fin qui un’ortodossia garibaldina che, e lo vedremo, può tingersi di repubblica-no, ma nulla deve specificamente a Mazzini, né tanto meno a Cattaneo, e questo in forte diversificazionerispetto a Cavallotti e a Bovio.

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zione politicamente alquanto sorvegliata sembra confermato dal suo allineamento,come aiutante di campo, accanto al Cosenz divenuto generale divisionario dell’eser-cito regio nella campagna del 1866 mentre Vittorio e Giorgio entrambi, ed è signi-ficativo di una fase biografica destinata tra breve a divaricarsi con forza, si arruola-vano tra i volontari di Garibaldi.

La rottura, come per tanti altri rispetti, anche questo lo abbiamo segnalatoin nota, si sarebbe verificata soltanto a Mentana, allorché Matteo Renato, dopoun arduo di laceramento vissuto a Firenze dinanzi alla folla che tumultuava sottopalazzo Riccardi, sede all’epoca del vacillante gabinetto Rattazzi, sarebbe entratoa far parte, senza dubbio sotto l’influsso preponderante di Giorgio, dello statomaggiore di Giovanni Nicotera, nella sua scriteriata avventura ciociara, donde gliinevitabili arresti in fortezza, a Palmanova, ma, si noti, non l’abbandono dellacarriera militare, nella quale l’Imbriani tenente dei granatieri persiste, pur in uniter esistenziale sempre più arruffato ed aggrovigliato, che lo avrebbe sospinto inpolemiche giornalistiche costellate da querele ed a duelli con i principali espo-nenti del giornalismo conservatore di quegli anni, Arturo Colautti ed il giovaneMichele Torraca.

Ancora una volta, ed ora definitivamente ed in modo tragico, la rottura sa-rebbe stata determinata da Giorgio, la sua morte a Digione, la scena melodrammaticadella salma vegliata da Jessie White Mario nella cripta dei Cappuccini e di MatteoRenato che getta nella bara la propria medaglia al valore e scrive le proprie dimis-sioni dall’esercito.

Il matrimonio con Irene Scodnik, l’esule dalmata che tanta parte avrebbeavuto nella sua vita e tanta responsabilità nell’inaridirne la memoria nel più angustoirredentismo, ratifica e suggella la svolta, che implica anche una freddezza ormaipermanente ed insuperabile con Vittorio ed un sempre più assiduo coinvolgimentopolitico culminato, sempre in chiave essenzialmente garibaldina, ancora alla vigiliadella “rivoluzione parlamentare”, nel gennaio 1876, con l’assunzione, a fianco diGiuseppe Avezzana, della vicepresidenza del comitato direttivo dell’associazionedei superstiti delle patrie battaglie, donde, il 10 marzo successivo, nella ricorrenzanon puramente formale della morte di Mazzini, l’uscita de “L’Italia degli Italianimonito quotidiano politico morale ed eco scientifica”, il pedagogismo paternalisticoe positivista al potere, si potrebbe dire con una battuta, con tutte le luci e le ombrenon lievi che ciò comporta.

La presa di distanza nettissima nei confronti del Nicotera ministro dell’In-terno bastava da sola a fornire chiaramente la cifra politica di tale pedagogismo, cheveniva ad esemplificarsi in novembre, in occasione delle elezioni generali del 1876,con la prima delle diciotto candidature di Imbriani prima dell’elezione del maggio1889, ma forse, al di là dei 46 voti racimolati, la più significativa di tutte, quellapresentata, e che sarebbe stata più volte reiterata, a San Severo, che era stato il col-legio della “sinistra giovane” di De Sanctis e del progressismo essenzialmenteintellettualistico di Zuppetta, e perciò, ambientalmente parlando, il passaggio dallademocrazia post giacobina del Subappennino del comunitarismo e degli usi collet-

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tivi alla democrazia presocialista del libertarismo anarchicheggiante del Tavoliere edel Gargano settentrionale5.

Trasformando il giornale in settimanale nel luglio 1877 con una rubrica spe-cifica dedicata all’Italia irredenta6 la caratterizzazione del Nostro in quest’ultimosenso appare tanto rapida quanto probabilmente strumentale, l’esigenza di rita-gliarsi uno spazio tutto proprio all’interno della democrazia e, più latamente, del-l’estrema orma non più ministeriale, attraverso l’associazione centrale per le pro-vincie del Mezzodì dell’Italia irredenta, di cui Garibaldi è “preside”, Avezzana pre-sidente, Bovio vice ed Imbriani segretario e pratico factotum, un uffucio che loautorizza a trattare Crispi da “cittadino indegno e pessimo italiano” per l’incontrocon Bismarck da cui l’irredentismo si mostra allarmato non meno di quanto facciala sensibilità liberale e parlamentare dinanzi all’autoritarismo di Nicotera, tantopoco estremista, quella sensibilità, da indurre il Nostro a deporre una corona alPantheon sulla fresca tomba di Vittorio Emanuele ed a sostenere in proposito unavivace polemica con l’inflessibile Alberto Mario7.

L’exploit irredentista si sarebbe in effetti, obiettivamente, verificato nell’esta-te 1878, com’è noto, col congresso di Berlino ed in seguito con Italicae res diHaymerle, a cui Imbriani aveva replicato con Pro Patria introdotto da Bovio e Lui-gi Mazzacapo, il fratello del suo antico generale, e già ministro della Guerra, colQuid faciendum, una ventata di comizi che, dal Sannazaro di Napoli a Milano,attraverso il Politeama di Roma, scuoteva l’opinione pubblica, il Nostro sempre inprimissima fila, Garibaldi esortante all’insurrezione per gli irredenti ed alla guerrapartigiana sulle montagne, la nazione armata e il suffragio universale quali presup-posti ed obiettivi ad un tempo un po’ di tutta l’agitazione.

5 Mi permetto di richiamare in merito a quanto ne dico in Sansevero collegio elettorale di De Sanctis: lucied ombre della Sinistra giovane in Francesco De Sanctis un secolo dopo a cura di Attilio Marinari, Laterza,1985, II 355-432, Da De Sanctis al socialismo attraverso Imbriani in Studi per una storia di San Severo, SanSevero 1989, II, 605-672, L’attività politica di Luigi Zuppetta dopo l’unità in “Archivio Storico Pugliese”,1989, pp. 375-415. Imbriani sarebbe stato candidato ancora nel maggio 1880 con un plebiscito a Castelnuovo,la patria di Zuppetta, in quanto scambio dell’eredità e delle consegne, senza alcuna base organizzata sociale,ma scarsissimi risultati nel resto del collegio, nell’ottobre 1882 nel secondo collegio di Foggia a scrutinio dilista con 1218 voti complessivi ed il plebiscito trasferito a Rodi, nella prospettiva delineata nel testo, nelmaggio 1886 con un forte incremento in città, tra i ceti artigiani ed operai, a segnare il configurarsi di una verae propria democrazia radicale, appunto per questo essenzialmente urbana nei confronti del ministerialismotrasformista e più tardi crispino (nel 1890, quando il Nostro era già alla Camera, egli, benché sconfitto nelcollegio, raccoglieva in Sansevero città la maggioranza assoluta dei voti: e si noti, ad illuminare i costumidell’epoca, che proprio e soltanto quell’anno, nel maggio, Imbriani era apparso per la prima volta fisicamentea Sansevero, di passaggio nel recarsi a Castelnuovo per commemorarvi Zuppetta nel primo anniversario dellamorte).

6 È appena il caso di segnalare l’opportunità imprescindibile di uno studio specifico sull’Imbriani giorna-lista e talent-scout, si pensi alla successiva collaborazione del giovanissimo Salvatore Di Giacomo al foglio diTrinità Maggiore la cui lapide commemorativa, allo sbocco sul Gesù Nuovo, è diventata pressoché illeggibile.

7 Ancora l’11 aprile 1897, alla vigilia del dramma di Siena, nel corso di richiami “ideologici” che avremomodo di riprendere più avanti, Imbriani difendeva Vittorio Emanuele dalle critiche di Napoleone Colajanniperché, rispetto alle tradizioni repubblicane naturali in Italia (ed è interessante questa che è constatazione piùche rivendicazione) “il voler disconoscere ciò che hanno operato altri, con sacrifici anche nobili ed alti, miparrebbe ingiustizia”.

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Costretto, con un opuscolo sereno ed equilibrato intorno al regicidio, a po-lemizzare indirettamente col fratello Vittorio che col velenoso È galantuomo ilCairoli? aveva preso spunto dall’attentato Passanante per una tirata schiettamentereazionaria, Imbriani manifestava in tal modo duttile prontezza nel passare dall’at-mosfera arroventata dell’irredentismo nazionalistico e fine a sé stesso a quella piùarticolata, ed accentrata sulla difesa dei diritti statutari, che avrebbe condotto nel-l’aprile 1879 a quella Lega della Democrazia, con omonimo brillantissimo giornaleaffidato alla direzione di Alberto Mario, in cui si suole oggi a ragione avvisare ilprimo nucleo dell’estrema radicale e democrativa definitivamente identificatasi neiconfronti della Sinistra storica dopo la caduta di Cairoli8.

Significativamente il ritorno al potere di quest’ultimo, sia pure sulla piatta-forma sgradevolmente regionalista dell’abolizione parziale del macinato, avrebbesuggerito anche a Garibaldi più miti consigli nei confronti di Italicae res e ad Imbriani,nell’ottobre 1879, l’accennato dignitoso equilibrio di Pro Patria, una prova di piùche l’irredentismo, almeno a sinistra, non era ormai che uno dei tasselli di un mo-saico assai più ampio e complesso, il cui provvisorio suggello, nel febbraio 1881, èfornito da quel comizio dei comizi a Roma la cui gestazione ed il cui svolgimentoandrebbero ricostruiti con cura come una delle maggiori mobilitazioni d’opinionedell’epoca, ed il cui ordine del giorno conclusivo, Imbriani al suo postonell’umanimità che lo sancisce, “invita il popolo a riconquistare il suffragio univer-sale9 come uno dei diritti costitutivi di quella sovranità da cui sorga la legge dellavita nuova italiana”.

Proprio la morte di Garibaldi, peraltro, nel giugno 1882, a mezzo tra laconclusione della Triplice ed il bombardamento di Alessandria, un rinnegamentovistoso del principio di nazionalità che avrebbe dato modo peraltro ad Imbrianidi elogiare il Mancini ministro degli Esteri per non avervi voluto prender parte (siricordino le contemporanee, e successive, veementi recriminazioni di Crispi e ditutto il successivo nazionalismo patriottardo, da De Zerbi a Corradini!) accanto-nandosi per il momento le conseguenze di ogni genere che la Triplice avrebbepotuto esercitare anche e soprattutto sul risvolto costituzionale della politica in-terna italiana, la morte di Garibaldi, dicevamo, accolta dai democratici francesi,in testa Georges Clemenceau, con ampie esibizioni di solidarietà, offriva il destroper un’iniziativa clamorosa della quale il Nostro sarebbe stato al centro. Giovan-ni Bovio, infatti, che aveva sempre mantenuto, prima e dopo Tunisi, l’atteggia-

8 Non a caso proprio al Nostro pochi giorni prima dell’assemblea romana, il 15 aprile 1897 (BibliotecaNazionale di Napoli, Archivio Imbriani, XX, II, 62) si era rivolto Napoleone Colajanni auspicando “unaestrema sinistra non docile, gesuitica e forse aspirante al potere sotto la monarchia come la vorrebbe il Bertani…ma battagliera ed intransigente come quella francese sotto l’Impero” formula felicissima, quest’ultima, e cheImbriani avrebbe fatto sostanzialmente propria, la tribuna parlamentare come mezzo di comunicazione colpaese e di propaganda presso l’opinione pubblica, in prospettiva genericamente repubblica.

9 Chiaro riferimento al grosso e decisivo equivoco costituzionale dei plebisciti, donde il mito crispinodella “monarchia democratica” e l’utopia di Mario intorno ai placidi tramonti” determinati fisiologicamente,per così dire dal suffragio universale.

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mento più conciliativo ed aperto verso i repubblicani transalpini d’estrema, in-viava a Parigi, come rappresentante della “democrazia meridionale” per l’anni-versario della presa della Bastiglia, il nostro Imbriani, dando alle stampe, insiemecon Federico Salomone, un manifesto per annunziare la ripresa della tradizionedegli scambi politici italo-francesi, interrotti nel novembre 1880, e la cui cronistoriaandrebbe pur ricostruita sotto il profilo culturale e civile del “mito” della repub-blica10.

Il soggiorno parigino di Imbriani si sarebbe protratto parecchi giorni, salvoripetersi poco più tardi, sempre nel nome di Garibaldi, nel settembre 1882, all’Ho-tel de Ville ed al Grande Oriente, una compromissione massonica pressoché inevi-tabile alla quale Imbriani non poteva che acconciarsi, sulla traccia di Bovio, nono-stante l’estraneità di fondo che, al pari di Cavallotti, lo teneva lontano dalla formi-dabile associazione dei liberi muratori11.

L’episodio Oberdan piomba su questo clima a divaricare con violenza le po-sizioni della democrazia, da un lato la parola d’ordine di Bertani, suggestionato daCrispi ed isolato un po’ in tutta l’estrema, Bovio, Cavallotti, il neo eletto AndreaCosta, “bando ai sospetti, mano alle riforme”, dall’altro il “piombo e sangue” fre-neticamente invocato da Imbriani, con sullo sfondo la sottoscrizione per migliaia dicarabine da depositarsi, con patetico donchisciottismo, presso gli studi del pittoreSaverio Altamura e dello scultore Francesco Jerace12, più in là la candidatura aBelluno, sul limite delle Alpi “contese”, dove già sono stati eletti i radicali CarloTivaroni ed Emilio Morpurgo ma dove Imbriani, pur raccogliendo circa tremilavoti in successione al progressista Giuriati, in un intreccio di populismo edirredentismo difficilmente districabile, deve cedere il passo al generale Ricci, candi-dato ministeriale.

Malgrado tutto, il discorso si spostava in realtà, concretamente, sulle rifor-me, stavolta il suffragio universale amministrativo, anch’esso attraverso una serie dicomizi che andrebbe ricostruita con diligenza e che si sarebbe conclusa a Napoli,nel dicembre 1883, al teatro S. Ferdinando, con una grande manifestazione in cuiImbriani sarebbe stato al fianco di Bovio e di Costa, non più che una salvazioned’anima, a dire il vero, al pari della firma apposta al manifesto elettorale dell’estre-ma nel 1886 o della partecipazione al comizio napoletano anti africanista del luglio

10 “I popoli che hanno delle affinità – si leggeva nel manifesto del 1882, da leggersi, ovviamente, nellaprospettiva del 1914 – se vogliono vivere liberi, non debbono separare i loro diritti, i loro interessi, i loro fini:e debbono ricordare ciò ai rispettivi governi che, separati, dimenticano le cause disastrose che alimentano letenebrose Sante Alleanze sulle rovine delle nazioni e della libertà”.

11 Molto più obiettivamente interessante la parabola politica e culturale di Pro Patria, il motto che avrebbedato origine all’omonimo quotidiano sorto nel settembre 1882 dalle ceneri del “L’Italia degli Italiani” e che sisarebbe mantenuto in vita fino al marzo 1883, redattore capo, sempre a Napoli, uno scienziato e repubblicanofederalista di ferro come Arcangelo Ghisleri, le mille miglia distante da Imbriani, la cui personalità ne rimaneperaltro inseparabile.

12 Si porrebbe a questo punto, naturalmente, l’affascinante tema della compromissione “sovversiva” dellearti figurative nel Mezzogiorno prima e dopo il Quarantotto e l’unità, tema che non è ovviamente il nostro mache non può andar sottovalutato in una storia civile e politica dell’intellettuale meridionale.

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1887, un primo approccio del Nostro ad un tema che in seguito, in chiave di na-zionalità, gli sarebbe stato particolarmente caro. Il personaggio che dunque, il 24marzo 1889, viene eletto deputato nel secondo collegio di Bari contro RiccardoSpagnoletti in una suppletiva per morte di Fabio Carcani, l’illustre patrizio diTrani che condivideva, abbastanza scialbamente, per la verità, la sfumaturaprogressista pentarchica del Panunzio a Molfetta, quel personaggio, dicevano, èun gentiluomo ormai attempato, che ha tenuto una posizione politica essenzial-mente garibaldina e tardorisorgimentale assai coerente, che in Puglia a San Seve-ro, come si è visto in nota, sta imperversando ed egemonizzando un’interessantetransizione democratica urbana, e che perciò può apparire in grado di fare effica-cemente da portavoce così per i disagi che la guerra doganale sta apportando inparticolare alla Puglia come per la sensibilità liberale di una certa opinione pub-blica ormai non più disposta a farsi coinvolgere indiscriminatamente nel climaplebiscitario di aspettazione messianica che aveva accolto l’avvento di FrancescoCrispi.

Matteo Renato Imbriani avrebbe risposto a questa fiducia in modo memora-bile e clamoroso fin dal suo esordio parlamentare del 10 maggio successivo, uncontributo decisivo alla compiutezza morale dell’estrema, una significativa affer-mazione dell’elettorato meridionale sul “deputato del popolo” imponente e tonan-te col suo cappellaccio e la sua valigia di documenti, ma anche un valore spiritualeassolutamente inestimabile, l’onestà, il disinteresse, una corrucciata grandezza mo-rale, spinta fino alla pignoleria, che lo rendeva una sorta di spauracchio per qualsi-asi ministero, un estremo soffio del romanticismo garibaldino sulla democrazia ita-liana.

Le pagine che seguono aspirano a documentare come questo ritratto, ormaidefinitivamente e magari oleograficamente acquisito fino a ieri (oggi, l’abbiamo vi-sto, del tutto dimenticato) veda arricchito con sfumature liberali e democratiche, eperciò propriamente politiche, che fanno di Imbriani non soltanto un personaggioma un’autentica personalità parlamentare13.

L’interpellanza “sulle cause che hanno prodotto la miseria e lo squalloranelle oneste e laboriose popolazioni delle Puglie” va inquadrata sullo sfondo didue avvenimenti di vasta risonanza ad essa immediatamente precedenti, all’inter-no la costituzione definitiva di una opposizione di Destra capeggiata dal Rudini equanto mai conciliante e sfumata un po’ su tutti i principali temi politici sul tap-peto, ma strutturata in prevalenza intorno al moderatismo lombardo nella sua

13 Vale la pena di ricordare che Imbriani ottenne nel collegio circa 7500 voti, un paio di migliaia in più diSpagnoletti, per il quale ultimo furono compattamente la nativa Andria, la Trani di Giambattista Beltrani,Giovinazzo e Bisceglie, mentre Cafiero e Pansini fecero confluire su Imbriani rispettivamente Barletta eMolfetta, e Bovio il suo vecchio collegio uninominale di Minervino e Spinazzola, anche Terlizzi e soprattuttoCorato votando in maggioranza per l’estrema, quella squadratura municipalistica dei risultati elettorali in cuiè tanta parte della storia politica non soltanto del Mezzogiorno e che attende ancora di essere studiata espiegata a dovere.

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fase di transizione all’imprenditorialità industrialistica che l’avrebbe sempre me-glio caratterizzato e reso egemonico, all’estero la morte in battaglia, a Metemmà,del negus Giovanni, che parve per un attimo, aprire seducenti prospettive alleambizioni dei circoli imperialistici, delle quali alla Camera si rese prontamenteinterprete Edoardo Arbib vivacemente confutato da Bonghi con la consueta al-ternativa del “l’Africa che abbiamo in casa”, la prospettiva bonificatrice e colo-nizzatrice, nella circostanza coinvolgente il suo antico collegio elettorale diAgnone, simile a “la più selvaggia parte dell’Africa” donde uno strepitoso e fa-moso incidente, da cui Bonghi uscì vittoriosamente. Non solo: ma i grandi scio-peri agricoli in Lombardia, i tumulti operai a Milano, Gallarate e Terni con nu-merosi feriti e dozzine di arresti, fornivano bene la misura di un malessere diffusonell’intero paese, dinanzi al quale il governo non solo sospendeva le promesseeconomie sul bilancio dell’Africa (la commissione del bilancio, che cercava d’im-porgliele, sarebbe stata indotta a dimezzarsi attraverso una raffica di dimissioni)ma si appellava al diritto statutario regio sulla guerra e sulla pace per rifiutare larichiesta di una legge speciale in proposito.

Il “novello Mirabeau”, come “Il Diritto” definiva Imbriani con una iperbolegiustificativa dalla concitazione dell’ora, articolava pertanto il suo intervento attor-no a quattro nuclei fondamentali:

1) l’esigenza organizzativa del lavoro, che nella circostanza rimane fine a sestessa ma che è all’origine di un lungo discorso tipicamente pugliese (il contadino diRuvo che inneggia alla fame “perché la fame ci permette di affermarci e di raggiun-gere certi ideali” donde il commento del Nostro: “Questo grido schietto di popolo,o signori, è sublime. E chi non sa comprenderlo né valutarlo non ha mai vissuto frail popolo”);

2) il rifiuto, che rimarrà costantissimo in Imbriani, del catastrofismo del “tantopeggio tanto meglio” nel definire, contro Bonghi, in realtà partiti d’ordine i cosid-detti partiti “sovversivi” “perché, sentinelle avanzate, indichino al governo, che paresordo, i mali che poi dovrà finire per toccar con mano. Se noi fossimo davverosovversivi, lasceremmo che questi pericoli sovrastassero, si accavallassero e schiac-ciassero tutto”;

3) il rifiuto, ovviamente altrettanto costante, della politica estera segreta, chetrascende la contingenza della Triplice e va a toccare l’art. 5 dello Statuto anche quinell’ambito di un lungo discorso che culminerà col Giolitti “bolscevico dell’An-nunziata” nel programma diciannovista del Dronero (“Io non conosco i vostri pat-ti segreti, non li conosce la Camera, non li conosce il popolo. Ma appunto perchésono segreti egli li crede immani”);

4) il Parlamento, inteso come mezzo di mobilitazione della pubblica opinio-ne (“Noi da questa tribuna parliamo all’Italia”).

Non a caso l’apulitas del problema sarebbe stata fatta subito propria, in unasquadratura senza mezzi termini, da Antonio Salandra, così come era stato lui, alsuo esordio parlamentare, a farla propria quale relatore sull’innalzamento del daziosul grano.

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Il deputato di Lucera, il presidente del Consiglio, il calabrese Miceli ministrodell’Agricoltura, lo stesso Bonghi, che aveva interpellato in senso largamente ana-logo a quello d’Imbriani, facevano a gara per minimizzare e sdrammatizzare gliavvenimenti (a parte l’ultra africanismo enfatizzato da Salandra) una volta che essisembravano poter assumere un colorito politico protestatario di massa troppo spic-cato, e non sanato certo dalle 20 mila lire stanziate per i comuni maggiormentecolpiti in Terra di Bari, che il Nostro contrapponeva nella replica alle 400 mila speseper il treno reale il Romagna, nel settembre precedente, alla “conquista”, in granparte fallita, di quelle roccaforti repubblicane e socialiste col pretesto delle grandimanovre.

Organizzatore di quel viaggio era stato il vecchio mazziniano AlessandroFortis, ora sottosegretario all’Interno, ed era a lui che si rivolgeva il 28 maggioImbriani con pronto e calcolato slargamento nazionale della sua tematica, gli arrestiarbitrari a Milano ed i quattro morti in provincia, a Corbetta, “e lo chiedo – aggiun-geva il Nostro con chiara fissazione delle responsabilità – all’autorità politica per-ché dall’autorità politica sono partite le informazioni e sono stati dati gli ordiniall’autorità giudiziaria… I governi si servono dei procuratori generali e dei procu-ratori regi loro dipendenti per legittimare tutti gli arbitri, essi non rifuggono datutti gli artifici, da tutti i mezzi”.

Ammonendo a non identificare l’energia con la repressione fine a se stessa,Imbriani sollevava nella replica a Fortis un’esigenza di distinzione rigorosa tra legi-slativo ed esecutivo, così come aveva già fatto implicitamente per il giudiziario, chesarebbe restata tenatce in lui14 e presupponeva una chiarificazione preliminare gra-zie alla quale l’opinione pubblica fosse posta in grado di scegliere (“Non so di qualedemocrazia voglia parlare. Egli ha detto che se ne appellerà agli elettori. Già con lalegge che ha vietato il verdetto degli elettori allorquando si viene assunti a ministroo segretario generale egli si è sottratto a questo verdetto”).

L’accennata crisi della giunta del bilancio riproponeva peraltro in primissimalinea all’ordine del giorno il tema delle economie, ed era ad esse che si appellava il 4giugno Crispi per non far prendere in considerazione una proposta d’Imbriani,Bovio ed altri deputati pugliesi per una partecipazione statale del 20% alla spesaoccorrente alla fornitura di acque salubri alla regione pugliese, un primo nucleoconcettuale del futuro acquedotto, spesa che Alfredo Baccarini già ministro deiLavori Pubblici valutava in 80 milioni e che il presidente del Consiglio ritenevasuperflua sotto il profilo igienico, rimettendosi per il resto all’iniziativa privata, una“democrazia dal basso” che trovava il Nostro tutt’altro che sfavorevole (“Io nonho aspettato dal governo grandi benefici perché i grandi benefici debbono i popoliprocurarseli da loro, non aspettarli come manna che discende dal cielo”) ma, nel-

14 Il 27 giugno 1891, criticando la legge che esonerava dal sorteggio degli impiegati dello Stato eletti allaCamera i ministri ed i sottosegretari, Imbriani escludeva a priori che impiegato potesse essere il presidentedella Camera, e il 9 giugno 1892, dinanzi alla richiesta di sei mesi di esercizio provvisorio avanzata da Giolittifresco presidente del Consiglio, insisteva perché ministri e sottoministri si sottoponessero a nuove elezioni.

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l’insieme, una sensibilità economica ed imprenditoriale anacronistico, è tutt’altroche sveglia.

La chiusura della Camera chiamava intanto il Nostro, a fianco di AntonioMaffi, il deputato operaio di Milano, e del romagnolo Pietro Turchi, ad una difficileopera di mediazione in seno al diciassettemi congresso che si teneva a Napoli tra il20 ed il 24 giugno 1889, nel senso di una stretta connessione fra l’organizzazionesociale e la propaganda politica, che Antonio Fratti annacquava nella formula delle“necessità dell’unità di lavoro”, per superare l’opposizione intransigente degliastensionisti, uno dei tanti compromessi che avrebbero reso il congresso pratica-mente inconcludente, a parte il rifiuto, netto ma non schiacciante, e nel quale Imbrianisi trovava senza dubbio cordialmente d’accordo, delle proposte socialisticheggiantidi Errico De Marinis e Giuseppe De Felice per l’abolizione del diritto di eredità eper la proprietà collettiva inalienabile.

Il centenario della rivoluzione e l’esposizione universale, ma anche la visitadi solidarietà ai due esuli dell’estrema, Andrea Costa ed Amilcare Cipriani, richia-mavano a fine agosto Imbriani a Parigi, dove era stato preceduto dai protagonistidel congresso, Fratti e Felice Albani, e dove era atteso da un significativo spiegamentodella massoneria parlamentare e dal ricevimento del sindaco Chautemps in munici-pio.

Al suo discorso il Nostro replicava in termini tanto vaghi quanto compro-mettenti (“Noi abbiamo una causa comune nel campo della civiltà come abbiamosventure comuni in quello della patria. La vostra frontiera è squarciata alla mercédel Tedesco come la nostra è squarciata a posta alla mercé dell’Austria. È la grandeidea latina che ci unisce. È questa idea latina che spaventa i nostri nemici”) cheFratti si sarebbe incaricato di compromettere ulteriormente con l’auspicare senz’altrol’alleanza italo-francese e la guerra all’Austria, donde una polemica vivacissima,padroneggiata alla meglio da Cavallotti col rifiuto tanto di una eventuale “ingiusta”aggressione da parte della Francia quanto di una guerra “infame e scellerata” controdi essa, la repubblica non potendo venire in Italia se non per virtù di plebisciti.

Ma Imbriani non defletteva, malgrado il vivissimo turbamento suscitato dal-l’attentato di Emilio Caporali a Crispi a via Caracciolo a Napoli15 e si lasciava anziandare anche lui all’auspicio di una guerra di liberazione franco-italiana per l’Alsa-zia Lorena, che costringeva Cavallotti ad una presa di distanza definitiva col lascia-re la questione “alla coscienza dei due popoli che stanno di fronte”16.

15 Si disse subito, ed era vero, che il Caporali fosse conosciuto da Imbriani e soprattutto da Bovio, che loaveva anche raccomandato in quanto oriundo del suo collegio pugliese. I telegrammi del Nostro e di Cavallottial presidente del Consiglio non cancellavano perciò i sospetti di cui si era reso interprete il Codronchi prefettodi Napoli col parlare di arruolamenti di volontari per la Dalmazia promossi proprio dai due uomini politici.

16 Per tutto l’argomento si vedano i resoconti e le corrispondenze de “Il Secolo” in particolare 3, 11, 15, 16e, 30 settembre, 6 ottobre 1889, con un’importante partecipazione di Luigi Ferrari, il giovane e brillantedeputato di Rimini (il tutto va visto sullo sfondo delle elezioni generali del 23 settembre in Francia, cheavevano segnato il tramonto definitivo del fenomeno Boulanger).

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L’abbraccio affettuoso tra Imbriani e Crispi, che suggellava la seduta inaugu-rale della nuova sessione della Camera, allietata da un discorso della Corona parti-colarmente aperto a tendenze democratiche, concludeva formalmente e patriottica-mente l’impasse, ma non senza che il clima politico fosse stato messo a rumoredall’esilio delle elezioni amministrative del 10 novembre, le prime indette a normadella nuova legge comunale e provinciale di cui il presidente del Consiglio era statoartefice e protagonista, i radicali primi a Milano per numero di voti, i ministeriali diBaccelli con un sol seggio di maggioranza a Roma ed appena qualcuno in più aNapoli ed a Bologna, ma poi un autentico plebiscito democratico in Romagna (tut-ti i comuni eccetto Rimini), nelle Marche e nell’Umbria, anche lì con l’eccezionequasi solitaria di Perugia, a non parlare di Verona, Parma e Genova dove i radicaliera stati determinanti nel provocare la sconfitta dei conservatori e dei clericali.

In questo scenario di “regioni inferme che hanno bisogno di una pronta curaricostituente”, per rubare l’espressione alla “Nuova Antologia” 1 dicembre 1889 vainquadrata la classica questione di libertà e di diritto parlamentare sottoposta il 5dicembre alla Camera, la scarcerazione di Pietro Sbarbaro eletto deputato di Paviaal posto di Benedetto Cairoli, e di cui la giunta per le elezioni proponeva la conva-lida.

Imbriani, che in luglio aveva visto proibita una sua conferenza proprio a Paviaper sospetto d’irredentismo, è fermamente al suo posto in difesa delle prerogativeparlamentari (“Si tratta della sovranità nazionale delegata alla Camera… ben piùalta, ben più in su di quanto non sia quella dei tribunali”).

Se il governo non ha scarcerato prima della convalida, argomenta il Nostro,vuol dire che se ne rimette alla Camera “potere politico sovrano”, la convalida esclu-dendo che Sbarbaro sia tra i condannati esclusi a loro volta dalla rappresentanzanazionale.

Imbriani rammenta Crispi, che ne era stato discusso protagonista, la questio-ne Lobbia, nel senso di far garantire dal controllo parlamentare il principio dellaseparazione dei poteri, dal momento che “il potere legislativo ha il diritto di dareidei moniti al potere esecutivo quante volte esso influisca sul potere giudiziario”.

Egli accetta perciò la proposta del presidente Biancheri perché la questionesia sottoposta ad una specifica commissione ed iscritta all’ordine del giorno, rifiutaquella Baccarini sollecitante il governo a far scarcerare Sbarbaro, perché in tal casonon sarebbe il Parlamento a decidere, esclude l’opinione del guardasigilli Zanardelliche la Camera chieda in questo modo al sovrano una sorta di grazia, ricorda nuova-mente a Crispi che l’anno prima si è sospesa la seduta a Westminster perché unministro aveva privato per due ore una donna della libertà personale, conclude,dinanzi alle esitazioni ministeriali, che avrebbero fatto trascinare la questione perparecchi mesi: “Forse verrà un’altra Camera la quale sarà più gelosa delle proprieprerogative”.

Tra queste ultime ve ne era per la verità una che Crispi rimetteva per la primavolta in onore, quella di discutere l’indirizzo di risposta al discorso della Coronasecondo la vecchia consuetudine liberale e parlamentare subalpina.

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Imbriani il 6 dicembre se ne compiace, giacché di tutti gli atti della Corona èresponsabile il ministero, donde l’opportunità di un’ampia discussione di politicagenerale17 a cominciare dalla lodevole iniziativa di abolizione della tariffa differen-ziale18 “perché è una delle poche volte in cui il governo raccoglie il voto popolare,manifestato con la voce potente della nazione. Questa è veramente vittoria demo-cratica” (la pubblica opinione specialmente pugliese che rifiuta la guerra doganale esi afferma sul Parlamento e, attraverso esso, sul governo).

Tutt’altro è purtroppo da dirsi per la garanzia ministeriale che si è creduto dipoter dare ad un prestito di quattro milioni al nuovo negus Menelik in violazionedelle prerogative parlamentari su cui il Nostro torna a distendersi con un nuovomeno coperto accenno all’art. 5 dello Statuto ma aderendo anche al basilare concet-to crispino, dal quale in seguito sarebbe rinvenuto, del potere costituente insitoorganicamente, e perciò costantemente, nell’attività del Parlamento (già qui vi èperaltro un sintomatico spostamento, anch’esso nel gusto di Crispi, in direzionedei plebisciti, ben al di là della “camicia di forza” dello Statuto semplice barrierache impedisce di retrocedere all’assolutismo) identificando nell’esecutivo la respon-sabilità esclusiva dell’iniziativa politica.

“Non doveva anche il ministero, costituzionalmente, nell’allargare la sua sfe-ra d’azione, ottenere il pieno consenso del Parlamento?” si chiede preliminarmenteImbriani: e prosegue: “Io credo che siamo nel diritto nostro parlamentare dimodificazioni da apportarsi a quell’articolo dello Statuto che conferisce alla Coro-na il diritto di pace e di guerra… È stato riconosciuto che le assemblee legislativesono assemblee costituenti in permanenza, che lo Statuto è una barriera che non cipermette di andare indietro ma ci lascia indefinito il campo per andare avanti. Quindiquesta questione, che sarà parte essenziale del programma della democrazia, saràportata in quest’aula, sarà decisa dal consenso dei legislatori. Ma finché questo nonavvenga io vi domando che rispettiate almeno le prerogative che i claustri del vo-stro Statuto ci lasciano19, che rispettiate almeno queste prerogative e ci chiediatealmeno i denari quando dovete sperperarli. Vi potrebbero essere negati. Almenonon ci sia questa menzogna inaudita, questo pericolo per voi stessi, per le vostreistituzioni (sic!) di vedere che il popolo attribuisce tutto il danno alle assembleelegislative mentre il danno deriva unicamente da coloro che malamente ci governa-no. Il popolo italiano fu chiamato in una solenne circostanza a fare atto di sovranitàquando ebbe a pronunziare i suoi plebisciti. Da allora in poi non so che egli sia statoconsultato per compiere quegli atti di solenne sovranità perché la stessa legge elet-torale che abbiamo adesso è monca, e preclude il voto a una quantità infinita diturbe, mentre poi si parla di orizzonti democratici raggiunti”.

Non è privo d’interesse, specialmente dal nostro attuale punto di vista,soffermarci sulla letterale sequela di colpi di spillo con la quale alla riapertura della

17 Ancora il 19 giugno 1895 Imbriani avrebbe sostenuto la natura essenzialmente politica dell’indirizzo dirisposta al discorso della Corona.

18 Che tuttavia, avrebbe ricordato il Nostro già il 20 dicembre, era stata l’Italia a mettere, e non la Francia.

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Camera nel 1890 dopo le vacanze natalizie, proprio sul terreno squisitamente libe-rale dei diritti civili, armonicamente da lui prediletto accanto a quello delle più ge-lose prerogative parlamentari e statutarie. Imbriani perseguitasse il ministero e adpersonam Crispi nell’elaborazione di quella legislazione ordinaria a cui a buon di-ritto oggi si suol raccomandare il suo nome, a cominciare, il 5 febbraio, dall’ordina-mento del personale di pubblica sicurezza e del relativo regolamento, nel cui art. 40che autorizzava ad invitare a comparire “per necessità” il Nostro scorgeva il peri-colo di una prevenzione dilatata fino all’arbitrio.

“Per tutte le libertà quella individuale è la prima ed ha per unica garanzia l’au-torità giudiziaria” egli esordiva programmaticamente: e proseguiva: “Dovunque c’è ilgenerico c’è l’arbitrio. La libertà va interpretata largamente. Io non sono intollerantené restrittivo per nessuno. Una legge deve essere garanzia di libertà per tutti, comin-ciando dal prete e finendo a chi porta il berretto rosso. Ma il pericolo di questa leggesta appunto nella sanzione legale. So bene che l’opera di un ufficiale di pubblica sicu-rezza, quando fa un atto di conciliazione, è opera santa, ma quell’ufficiale per la suaopera non ha bisogno che di autorità morale… come quella che ha il rettore dell’uni-versità e il nostro presidente della Camera… Non concilierete due individui che nonsi vogliono conciliare se non li avrete convinti con la forza morale… Manette, sempremanette! Con un po’ meno di manette si regolerebbero le cose molto meglio e sicamminerebbe molto meglio… Ma voi con quest’articolo m’imponete! È dunquenella sanzione legale che io trovo la violazione della libertà”20.

La libertà come conquista incessante e diuturna, quindi, che in quantotale si concretizza, e formalizza nella legge, dall’individuo passandosi agevol-mente ai comuni quali raggruppamenti primordiali in grado di dialogare diret-tamente con lo Stato ed invece “soffocati dalla legge comunale e provinciale”che aveva mantenuto improvvidamente in vita le provincie (7 e 8 febbraio 1890),

19 Si noti che Imbriani, nonostante quest’apertura in apparenza schiettamente repubblicana, non avevamai sollevato il problema del giuramento al bene inseparabile del re e della patria, tanto cara invece, com’ènoto, a Cavallotti, e dal quale, il 5 febbraio 1890, il Nostro sembra peraltro prescindere nel commemorare dipropria iniziativa il Falleroni “che non esercitò il mandato di deputato ma ne fu rivestito”, il risultato irrecu-sabile della sovranità popolare, insomma, che trascende la mancata prestazione del giuramento e perciò ilmancato esercizio del mandato, come si era verificato, è ben noto, il 30 novembre 1882, con l’uscita spontaneadall’aula, nonostante la reiterata invocazione della forza, del neo eletto deputato di Macerata.

20 A questo punto Imbriani ricorda di essere andato più volte di persona e spontaneamente dal questore diNapoli “da gentiluomo a gentiluomo” senza che ciò gli restringesse la libertà, evocava a Zanardelli il “repri-mere non prevenire” del 1878, aveva un gustoso scambio di battute con Cripi che bofonchiava sull’eccesso dilibertà: “Ce la dà Lei la libertà o l’abbiamo conquistata noi? – L’abbiamo dalla legge – L’abbiamo conquistatanoi e perciò è diventata legge – È sancita dalla legge – Non è una largizione, è una conquista nostra” battutesulle quali, se avesse ancora frequentato la Camera, avrebbe avuto qualche cosa da dire, naturalmente, anchesotto il profilo terminologico, Silvio Spaventa, a non parlare del rigoroso ragionamento legalistico che avreb-be di lì a poco svolto Salandra quale relatore sull’autorizzazione a procedere contro Andrea Costa, e malgra-do che anche in quell’occasione Imbriani gli ricordasse che “è il Parlamento che fa le leggi”. Già il 22 febbraio1890, intanto, con una delle sue consuete alzate d’ingegno paradossali, il Nostro si era dichiarato favorevole aconcedere i pieni poteri al governo in materia di circoscrizione giudiziaria esclusivamente in caso di guerraall’Austria (sic!).

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un’evoluzione alla quale, per la verità, com’è noto, Crispi stava già pensandoper conto suo21.

Quando alle associazioni, quelle cattoliche di Napoli ed il comitato romanodella Trento e Trieste, sciolte entrambe nel corso dell’estate 1889, esse trovavano il22 febbraio successivo in Imbriani il promesso imparziale patrocinatore “perchéavrete sciolto un’associazione prima che da essa si facesse alcun atto e non l’avete,sciogliendola, deferita al potere giudiziario sotto un titolo di reato” dal momentoche “non si deve parlare di partiti sovversivi di piazza là dove è l’esercizio dellapubblica franchigia”: ed al presidente Biancheri, il quale prevedibilmente restringe-va tale esercizio nei limiti della legge, il Nostro replicava (“Noi prepariamo il terre-no per poter disfare le male leggi”) con un richiamo a quell’opinione pubblica qualeatmosfera formativa per elaborare la legislazione che già era stata al centro del suoesordio parlamentare.

E lo sarebbe stata ancor più e meglio nel viluppo inscindibile tra politicaestera e politica africana (“Io desidero sapere se vi sono ispirazioni straniere…”)allorché quest’ultima, il 5 marzo 1890, tornava all’ordine del giorno della Camera,Imbriani affiancandosi ad Achille Plebano nel denunziare le violenze e le repressio-ni dell’autorità militare, ma poi proseguendo su una via che abbiamo individuatocome particolarmente sua (“Ormai la coscienza nazionale è urtata da questa conti-nuazione di politica segreta nella quale i fatti nostri sono affidati ai segreti deglialtri… Ora, poiché questo è veramente lo spirito pubblico in un paese che vive diopinione pubblica – sic! – esso deve imporsi al governo quale che esso sia e deverichiamarlo alla giusta considerazione delle cose ed ai veri interessi del paese… Mipare davvero di essere tornato ai tempi di Augusto: allora nelle sue mani l’imperiodelle legioni, il tribunato della plebe, egli censore, egli pontefice massimo e quindi?quindi la servitù… Ma in questo modo io credo che ci avviciniamo di troppo a quelgoverno personale che sotto l’ombra di una difesa, di un’egida indiscutibile, finiràpoi per schiacciarci”).

Il ruere in servitium di tacitiana memoria ed il fantasma di Bismarck di cuinon poteva prevedersi l’imminente caduta sembravano così coniugarsi in un’allar-mante connubio su cui i tardi e precipitosi provvedimenti del ministro Miceli sulBanco di Napoli e su quello di Sicilia per eccesso illegale di circolazione gettavanol’ombra ulteriore del crack finanziario (“Siamo mezzo falliti! – gridava Imbriani –

21 Col presidente del Consiglio Imbriani aveva avuto un fatto personale tanto clamoroso quanto futileallorché, l’8 marzo 1890, lo aveva tacciato di gesuitismo quanto allo scioglimento del Consiglio comunale diTerni ed al divieto di commemorare Mazzini a Livorno, senza che Biancheri gli togliesse la parola. Costrettoalle dimissioni dalla vivacissima protesta di Crispi, il presidente della Camera era stato rieletto all’unanimità.Più consentanea invece a ciò che si dice subito dopo nel testo l’interrogazione del 15 marzo su un manifestoper Oberdan di cui la questura aveva proibito l’affissione senza che l’autorità giudiziaria lo incriminasse.Rimane a sé, invece, il 28 marzo, e nome di una democrazia radicale opportunamente contemperante l’ordinecon la libertà, l’opposizione all’ergastolo “perché non conforme allo scopo della pena”, mentre il 2 giugno1890, in un intervento che riprenderemo ad altro proposito, si compie un altro passo in direzione dei progettidi Crispi (“Se le provincie e le prefetture sono organismi fittizi ed inutili, le sottoprefetture sono addiritturaorganismi dannosi, che intralciano le amministrazioni con danno dell’erario”).

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Io veggo banche che falliscono da ogni parte, il credito sul vuoto, veggo che, se nonaveste permesso che le banche potessero emettere cinque volte più della loro riser-va, sarebbero già fallite anche la Banca Nazionale ed il Banco di Napoli!”) men-tre sullo sfondo, in un corpo a corpo significativo con Leopoldo Franchetti eRocco De Zerbi, si stagliavano polemicamente gli eroi di una nuova nazionali-tà, che sembrava far rinverdire la “famiglia di patrioti” tra le ambe abissine, ilnegus Giovanni “un nobile re che è morto combattendo nel suo paese: Auguroa tutti i re di morire in quel modo, l’auguro a me stesso”, ras Alula campioneanch’egli di una certa forma di patriottismo in quanto “sentimento che legal’uomo alla terra dove è nato”, gli abissini tutti come popolo e nazione, i quali“avevano anch’essi una civiltà loro e, quando si parla di assumere una missionedi civiltà, io rispondo che la civiltà non s’impone a cannonate, con le forche,con le bastonate”.

Matteo Renato Imbriani non prese parte distinta all’elaborazione del pattodi Roma, nel maggio 1890, quale programma del radicalismo democratico per leimminenti elezioni generali.

Egli si limitò a collaborare con Orazio Dogliotti ed Achille Majocchi allaparte militare, che del programma è quella meno personalmente ispirata da Cavallotti,il cui intervento si ravvisa potentemente in tutto il resto, e viceversa più disorganicaed anche più stancamente utopistica, dalla nazione armata alla riduzione della fer-ma con reclutamento regionale ed ordinamento territoriale quale avvio a quellaclassica soluzione del federalismo repubblicano, dalla consegna degli stabilimentimilitari all’iniziativa privata alla diminuzione nel ritmo delle costruzioni navali edalla sospensione delle opere di fortificazione.

Se peraltro questi provvedimenti militari rientrano di massima nella questio-ne finanziaria che, affrontata prestigiosamente da Vilfredo Pareto, rappresenta unadelle colonne portanti del documento, l’altra, attinente all’istanza liberale per il ri-spetto dei diritti pubblici e parlamentari, pur tipica della mentalità di Cavallotti,rispecchia temi e suggerimenti che abbiamo visto e vedremo peculiari d’Imbriani,revisione dell’art. 5 dello Statuto, garanzie al diritto d’interpellanza, convocazionedella Camera su richiesta di un decimo dei suoi membri in sessione straordinaria,abolizione del sequestro preventivo, dell’ammonizione e del domicilio coatto, ri-parazione degli errori giudiziari e così via di seguito.

Un tentativo di saggiare in Puglia la fecondità di questa tematica attraversouna commemorazione di Cairoli affidata a Bari a Bovio e ad Imbriani andò sostan-zialmente fallito: ma l’eccidio di Conselice, tre morti e venti feriti il 21 maggio189022 conferiva all’improvviso e drammaticamente una risonanza sociale naziona-le all’interpellanza tutta politica e liberale che Giovanni Bovio aveva presentato

22 Lo stesso giorno la Camera rifiutava di prendere in considerazione una vecchia proposta Crispi del1873, che Cavallotti aveva rispolverato con lunga e dettagliata relazione, e che rifletteva, stiamo per vederloancora, un argomento carissimo ad Imbriani (“Nessun deputato può, nel corso della legislatura, essere chia-mato a funzioni pubbliche retribuite con stipendi o indennità sul bilancio dello Stato”).

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intorno al comportamento della forza pubblica durante il congresso del patto diRoma, e che veniva in discussione il 26 maggio.

“Il popolo vi guarda senza speranza e voi gli restituite diffidenza” avevaconcluso Bovio col suo consueto linguaggio epigrafico, salvo presentare, dinanziall’intrattabile replica ministeriale, una mozione invitante il ministero a “rispetta-re le libertà garantite dallo Statuto” donde il compatto arroccamento della Destracon qualche interessante eccezione, Bonghi, Prinetti, Colombo, specialmente ilvecchio Desiderato Chiaves, il che suscitava sensazione, intorno al ministero me-desimo.

Imbriani, che il 10 maggio aveva puntualmente ripresentato la sua interpel-lanza dell’anno precedente sulle condizioni economiche della Puglia, incappando,come già con Salandra, nell’indignazione dei protezionisti e degli agrari, questa voltaNiccolò Melodia, il grosso notabile di Altamura23, Imbriani, dicevamo, rivolgevapertanto una particolare lode a Chiaves per il rapporto contraddittorio da lui postotra la Corona statutaria ed i “poteri dittatoriali” del presidente del Consiglio e,proseguendo il proprio intervento del 28 maggio, il giorno prima dell’interruzioneelogiativa a Chiaves, dopo aver ironizzato sui “matrimoni di vecchi sdentati e bavosi”che seducevano Crispi con i loro “nuovi abbracciamenti” (il ralliement autoritarioe repressivo della Destra) veniva a stringere il cuore del problema, sviluppando ilconcetto di Bovio in forme che facevano ripensare al ruolo che Agostino Bertaniaveva conferito all’estrema nei confronti di Cairoli e Zanardelli ai tempi de L’Italiaaspetta.

“Noi formiamo ora – precisava infatti il Nostro – un corpo di opposizioneche spinge innanzi i ritrosi, che rivela le piaghe esistenti, che cerca di medicarle eche non aspira a nulla per sé. È in ciò la nostra forza perché il giorno in cui qualcheaspirante al potere si trova poi impotente in mezzo a quell’ingranaggio che stritolatutto, deve ritornare a ritemprarsi qui per acquistare nuove forze, nuove energie24…La nostra forza è nel pensiero ed è contro questo pensiero che si viene a muovereguerra… Vi spaventa il pensiero?… Ma se il pensiero è vero, se è giusto, vincerà, vischiaccerà e passerà sopra di voi. Se il pensiero non è giusto, se è inetto, cadrà, eallora a che paventarlo tanto?”, il liberalismo agonistico, insomma, la libera gara,significativamente affermata e quasi dovuta gridare da Imbriani tra i rumori cre-scenti della Camera.

Ma perché questa gara potesse dispiegarsi fisiologicamente, senza ostacoli,occorreva preventivamente salvaguardarne i presupposti, l’incompatibilità tra uffi-

23 “La gran massa dei miei concittadini – prorompeva Melodia – non ama di vedersi esposta al ludibriogenerale, quasi novello Lazzaro, dinanzi alla Camera ed al paese!”, un infortunio evangelico, quello del gransignore del palazzo neoclassico prospettante la cattedrale di Altamura, attesa la ben diversa sorte di Lazzaro edell’epulone nella parabola di san Luca!

24 Il riferimento è a Fortis, che in effetti dopo qualche giorno si sarebbe dimesso da sottosegretario all’In-terno ma senza affatto ritornare nell’estrema tout court, evolvendo anzi verso il radicalismo legalitario, dovelo avrebbe incontrato Giolitti.

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ci amministrativi e politici “che deve essere il sostrato di ogni ordinamento libe-ro” e che anche Cavallotti aveva inserito fra i capisaldi del patto di Roma (2 giu-gno 1890), la sottrazione degli affari della guerra25 ai militari di carriera col sotto-porre il capo di stato maggiore in quanto capo dell’esercito responsabile erevocabile dinanzi al ministro borghese investito dall’esclusiva responsabilitàpolitica (14 e 16 giugno 1890), una sorta di “privatismo onesto” in grado di re-spingere l’intervento falsamente promozionale dello Stato e del suo socialismoconcretamente burocratico (20 e 22 giugno 1890 a proposito dell’istituzione diuno specifico Credito Fondiario: “Il vostro nuovo istituto non servirà che allaspeculazione edilizia. Vi siete gettati a corpo perduto in questa speculazione epare che non ne vogliate uscire per quante dure lezioni andiate ricevendo. Persalvare questa speculazione avete consentito che la Banca Nazionale eccedessenella circolazione di 50 milioni”).

L’inevitabile inquadramento internazionale mazzinianamente auspicante unarinnovata coalizione latino-germanica contro il panslavismo purché al suo inter-no non si affermasse a sua volta il pangermanesimo e purché alla Russia come talesi affidasse una missione provvisoria di civiltà atta a frantumare l’artificiositàplurinazionale di Vienna e di Costantinopoli (16 giugno 1890) e, in politica inter-na, l’utopia altrettanto inevitabile26 dell’imposta unica progressiva, facevano dacorollari a questo primo tentativo d’applicazione del patto di Roma nei suoi prin-cipali postulati programmatici in vista delle elezioni generali, scadenza a cui face-vano da battistrada da un lato, il 27 luglio, le amministrative di Napoli, che Imbrianivinceva con un buon paio di migliaia di voti di maggioranza sulla coalizioneministeriale e nicoterina del Casale e del Napodano, salvo personalmente subitodimettersi da consigliere in ossequio all’incompatibilità più volte rivendicata, dal-l’altro, il 10 agosto, la combattutissima sconfitta, al primo collegio di Roma, delgiornalista ed esule triestino Salvatore Barzilai contro il conte Antonelli, candi-dato ministeriale e collaboratore notissimo di Crispi in campo coloniale, nono-stante la relativa imponente mobilitazione di tutta la democrazia radicale, culmi-nata al Quirino con un comizio d’Imbriani e Cavallotti sotto la presidenza diEttore Ferrari27.

25 In questo contesto Imbriani riprende i punti da lui fatti inserire nel patto di Roma, la diminuzione dellaferma in vista dell’istituzione di un tiro a segno democratico e di una guardia nazionale per l’ordine pubblicoorganizzata su base comunale come strutture in grado di “preparare in pochi mesi un ottimo soldato” madeplora altresì l’arbitrio della commissione suprema di avanzamento, propone la soppressione dei tribunalimilitari che moltiplicano i casi di recidiva e di “aspra reclusione”, stigmatizza la dipendenza dei carabinieri adun tempo dai ministri della Guerra e dell’Interno ed il loro comportamento spesso insubordinato, crudele efazioso, un rifiuto del mito su cui ci sarebbe molto da riflettere e non solo quanto ai tempi del Nostro.

26 Non a caso l’auspicio ne sarebbe tornato il 16 dicembre 1891 in riferimento ai titoli pubblici al portato-re, non più che assaggi su un terreno al quale Imbriani, e comprensibilmente, è di massima estraneo.

27 Andrebbero approfonditi in merito i rapporti tra il Nostro e “La Capitale”, il nuovo ed assai ben fattogiornale che si affiancava assai più autorevolmente al popolaresco “Messaggero” come portavoce del radicalismodemocratico a Roma.

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Il Nostro si tenne assai riservato, pur aderendo sostanzialmente a Cavallotti28

nella polemica cosiddetta dell’oro francese che contrappose quest’ultimo a Bovioed a tutta la stampa ministeriale, su iniziativa di Enrico Cernuschi, alla vigilia delleelezioni del novembre 1890, e sulla quale non abbiamo qui modo d’intrattenerci:ma è molto significativo notare che la sua candidatura fu la sola in grado di contra-stare su piano nazionale quella di Francesco Crispi eletto in quattro collegi concirca 28 mila voti complessivi rispetto ai 20 mila d’Imbriani, secondo eletto a Baridietro Bovio e davanti a Pietro Pansini e Stefano Jannuzzi nell’integrale caratteriz-zazione più o meno autenticamente radicale di quella deputazione, ma con 2317voti a Porto Maurizio dinanzi ai 12 mila del Biancheri presidente della Camera (laveneranda democrazia di Oneglia, che da Filippo Buonarroti sarebbe andata a fini-re a Giacinto Menotti Serrati, non si smentiva!), 3363 voti a Belluno rispetto ai 5747del primo eletto, il moderato Pascolato (e quindi non si può trattare soltantod’irredentismo o di populismo generico!), 2515 a San Severo contro i 4483 delcapolista Nicola Tondi, appena 475, invece, a Patti, nella Sicilia che è stata la sola, sinoti, a determinare il plebiscito crispino con i risultati di Palermo, Messina, Modicae Girgenti.

I radicali, con 364 mila voti ma soltanto una sessantina di deputati rispetto aiquattrocento con 643 mila voti (gli scherzi dell’uninominale, ancorché corretti dal-lo scrutinio di lista!) della maggioranza ministeriale, avevano perso le elezioni: mala correttezza della loro impostazione finanziaria, protagonista del patto di Roma,sembrava vistosamente confermata così dalle dimissioni, l’8 dicembre, del Giolittidal dicastero del Tesoro e dall’interim delle Finanze, come dall’accenno al “riordi-namento dei tributi” che aveva fatto spicco nel discorso della Corona quarantott’orepiù tardi e rifletteva le vedute del nuovo titolare di via Venti Settembre, BernardinoGrimaldi.

Imbriani, che il 12 aveva commemorato Alfredo Baccarini prevedibilmentelodandolo per aver abbandonato con tanta indipendenza di giudizio il potere nelmaggio 1883 alla consacrazione parlamentare del trasformismo, affrontava il 17 di-cembre la discussione sull’indirizzo di risposta non sul piano finanziario, che avrebbefatto oggetto di una sua specifica interpellanza, bensì su quello della promessa am-nistia e soprattutto della commentatissima ingerenza elettorale del clero in sensoastensionista, che aveva fatto parlare persino di abolizione delle quarentigie, ed aproposito della quale Attilio Brunialti si affiancava al Nostro nello schermeggiarecol guardasigilli Zanardelli.

L’amnistia, quanto ad essa, e nonostante i clamorosi precedenti che avevanocaratterizzato la precedente legislatura, andava sdrammatizzata e ricondotta nellesue proporzioni (“La riparazione di un’ingiustizia è cosa lodevole, ma il sollevarla

28 Attraverso un trafiletto appunto su “La Capitale” 16 novembre 1890 che, dopo aver riportato il fonda-mentale scambio di lettere iniziali tra Cernuschi e Cavallotti, così concludeva: “Noi vi diciamo apertamenteed altamente di dove questi mezzi ci vegnono: sono fonti palesi: fate voi altrettanto, diteci altrettanto voi se losapete. È una sfida che vi lanciamo in viso!”.

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ad un grande avvenimento politico e sociale parmi che sia voler dare importanzaalle piccole cose, e che sia uno dei sintomi più brutti del tempo”).

Ben altra cosa l’atteggiamento del clero, in merito a cui, pur partecipando deldiffuso abbaglio quanto al “lacido tramonto” della Chiesa in quanto tale, Imbrianiha modo d’illustrare nel modo più efficace il suo larghissimo liberalismo.

“Il papato è ridotto ad un’ombra – egli esordisce – ed il combatterlo ad ogniistante può essere un mezzo di governo ma non corrisponde alla realtà delle cose.Poiché se questo papato ha la sua forza, che non è certo materiale ma tutta morale,l’ha delle coscienze. Ora questa forza non si combatte che col pensiero, con l’istru-zione, con l’educazione, e certo non con l’imporre freno alla libertà delle manife-stazioni altrui… Se questa teocrazia il presidente del Consiglio vuol davvero com-battere, perché non propone l’abolizione della legge delle guarentigie? Questa leg-ge è una enormità nel nostro diritto pubblico perché costituisce non in nome dellasovranità nazionale, perché uno di questi sovrani non ha avuto nessun voto di po-polo e non può averlo”29.

Quanto alla questione finanziaria, che veniva in discussione il 19 dicembre189030 essa dava modo ad Imbriani tanto di apprezzare la correttezza politica per-sonale del dimissionario Giolitti (“Ha manifestato un’accortezza grande. Egli, chedeve meglio di ogni altro conoscere le condizioni della finanza e del testoro, e chene vedeva tutte le difficoltà, alla prima occasione, ha piantato il ministero senzamancare al suo programma di economie, sul quale anzi egli insisteva, ed ha detto:venga altri a questo posto e vedremo che cosa ne saprà cavar fuori. Questa condottaè correttissima e non merita che elogio. Dirò anzi che è caduto bene, in piedi”)quanto d’inquadrare l’episodio in ambito assai più vasto, dove ancora una voltal’opinione pubblica regina del parlamentarismo liberale l’avrebbe fatta da ispiratricee padrona.

“Quando il Parlamento dà un voto di fiducia – spiegava preliminarmente ilNostro con un’importante chiarificazione di costume e di prassi – non lo dà al

29 Naturalmente Crispi, riprendendo quel che fin dal 1871 aveva sostenuto insieme con Mancini senzatroppa fortuna, rivendicava tanto con Brunialti quanto con Imbriani la “sovranità unica” vigente in Italia. Lasua antica prospettiva di un diritto comune valido per tutti sarebbe stata del resto ripresa congenialmente dalNostro in un intervento 29 novembre 1895 che ricorderemo ad altro proposito (“Se non vi fosse più leggedelle guarentigie, essendoci il diritto comune per tutti, come noi vogliamo la libertà per tutti, ci troveremmoin ben altra condizione di cose, in ben altro ambiente e ben più respirabile”).

30 Imbriani aveva concluso il precedente intervento con un insolito excursus sul Senato elettivo, che pren-deva spunto dalla recente infornata di ben ottantotto padri coscritti (ma il 9 marzo 1891 avrebbe deploratoche non ne avesse fatto parte Angelo Camillo De Meis, la cui commemorazione ex abrupto costituisce un’al-tra fra le infinite spie della sensibilità tutta risorgimentale, anche nel versante culturale del termine, del No-stro). Tipica è anche la sua deplorazione che nel discorso della Corona si fosse parlato di “leggi intese albenessere degli operai” come, nel gusto post bismarckiano e dell’imminente Rerum novarum, “compito prin-cipale della prossima sessione legislativa”, senza far cenno di contadini e piccoli proprietari, non cogliendocome precisamente verso questi ultimi le recenti elezioni avessero spostato il baricentro della democraziaradicale col passaggio della leadership al suo interno da Milano all’Emilia ed al Polesine, prodromo dell’orga-nizzazione socialista del successivo decennio, un protagonismo delle campagne che col nuovo secolo (maImbriani non l’avrebbe visto) si sarebbe esteso alla Puglia.

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capo del governo ma a tutto il gabinetto, anzi molti danno quel voto di fiduciaappunto perché vi sono membri del gabinetto che per essi sono elementi di garan-zia”.

La destinazione a metà settembre 1890 di Federico Seismit Doda dalle Fi-nanze, che offre spunto formale all’interpellanza Imbriani, ha alterato il concettoappena espresso, non è stata né preceduta né ratificata da un consiglio dei mini-stri, i quali ultimi si sono acconciati a farsi semplicemente informare dal presi-dente Crispi.

Certo, Imbriani non esita ad incedere per ignes, è il re che nomina e revoca iministri a norma della lettera statutaria, ma “il regime parlamentare si fonda sulletradizioni e consuetudine e non sulla potestà regia che si vorrebbe con un nuovometodo rafforzare in nuova guisa creando nuovi pericoli”.

È l’ombra della monarchia costituzionale, insomma, che viene oggi ad inte-grare la minaccia prussiana, dopo quella del cancellierato e dei suoi poteri che unuomo del Quarantotto come Chiaves ha definito dittatoriali: e ad esse, l’abbiamodetto, il Nostro contrappone l’opinione pubblica “la quale regna sovrana, e devedettare consuetudini, usi, metodi, nell’applicazione delle norme costituzionali…Quando la rappresentanza nazionale indica alla Corona in qual parte essa debba(sic!) scegliere i suoi ministri, la Corona li sceglie e non può (sic!) mutare quei mini-stri se non riceve dalla Camera l’indicazione dei nuovi. E se li muta essi devono(sic!) immediatamente presentarsi alla Camera per ricevere la sanatoria o nuova in-dicazione, per vedere se il mutamento corrisponda o no all’indirizzo politico dellaCamera stessa… I ministri sono nella condizione di poter fare il male, quindi èdovere, è obbligo della rappresentanza nazionale d’impedir loro di far questo male…poiché essi rappresentano il fatto, e contro il fatto non c’è che l’idea, il diritto chederiva dall’idea, che possa frenarli”.

È dunque su un complesso retroterra culturale e politico, il diritto consuetu-dinario a cui lo Statuto fa esclusivamente da garanzia negativa, l’interpretazioneriduttiva della sfera in cui può esercitarsi la responsabilità ministeriale, essendo essasostanzialmente fine a se stessa nell’estrinsercazione del potere e perciò da sotto-porsi ad incessante vigilanza parlamentare alla luce di postulati e presupposti benpiù elevati, è su questo retroterra che Imbriani può concludere vaticinando, comein effetti sarebbe accaduto poco più di un mese più tardi, che “il ministero cadràcertamente sulla questione economica”, più o meno questa si collegasse alla “pocodignitosa politica estera”, in subordine, dunque, quest’ultima, in subordinel’irredentismo, anche agli occhi del Nostro, nonostante le suggestioni che le Alpiancora “povere di fatti” il “rotto mal onesto” confine orientale del discorso diSolimbergo e del banchetto di Udine, che erano costate il posto a Seismit Doda,potevano esercitare su di lui.

Ed egli era al suo posto nella memorabile e decisiva giornata delle “santememorie”, il 31 gennaio 1891, ma le sue parole, tutt’altro che all’oleografia risorgi-mentale alla Luzzatti o alla Finali, s’ispirano ancora una volta sobriamente al prin-cipio delle responsabilità collegiale del gabinetto, che appariva ancora una volta

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violato, a danno di Giolitti, tanto dalla prevaricazione di Crispi quanto dall’acquie-scenza di Grimaldi (“Parmi brutta abitudine biasimare gli atti di qualche ministroche faceva parte del gabinetto mentre i ministri rimasti tacciono e col loro silenzioquasi approvano le parole degli oratori. A me pare che ciò costituisca un predecentedei peggiori in un’assemblea politica perché conduce a qualche cosa di molto brut-to, al decadimento del parlamentarismo”).

Antonio Di Rudinì era il nuovo presidente del Consiglio ed a lui, che avevamantenuto per sé il portafoglio degli Esteri, Imbriani rivolgeva alla presentazionedel ministero, il 14 febbraio, una richiesta che non solo, rispetto all’opposizioneintransigente diffusa nelle fila radicali, rifletteva le aperture collaborazionistiche diCavallotti, fiducioso in chiave francofila nel ritorno di Nicotera a palazzo Braschi,ma le richiamava severamente nell’orbita parlamentare di modifica dello Statuto dacui il Nostro, e con lui “La Capitale”, non intendevano decampare (“Io almenoavrei voluto l’assicurazione che nessun patto sarà rinnovato, nessun nuovoconchiuso, senza che prima sia chiesta l’approvazione della rappresentanza nazio-nale”).

Non è meraviglia pertanto che il 17 marzo egli aderisse alla mozione Bonghiper la preventiva approvazione parlamentare alla proclamazione di eventuali pro-tettorati in Africa, una tematica che aveva avuto lungamente a protagonista France-sco Crispi, ora tornato da deputato a far da can da guardia ai diritti di libertà, comeImbriani avrebbe schiettamente riconosciuto allora ed in seguito31 ora, ad esempio,sulla base di sue dichiarazioni della primavera 1885 secondo la quale la questioneafricana era vulnerata alle origini per avere il governo proclamato lo stato di guerrae compromesso il bilancio senza quell’approvazione del Parlamento che sarebbestata indispensabile, quanto alla fornitura dei mezzi finanziari, anche per l’inter-vento della Corona32.

Giovanni Nicotera proponeva nel frattempo l’abolizione dello scrutinio dilista ed il ritorno all’uninominale: ed Imbriani, che si sarebbe astenuto al pari diBovio rispetto al voto favorevole di Cavallotti, pur ammettendo che lo scrutinio dilista non fosse altro che un pasticcio cucinato a quattr’occhi fra i notabili del consi-glio provinciale (e qui l’esempio di Casera) inquadrava anche il il 22 aprile 1891l’argomento in un’ampia problematica di base nazionale, avente a proprio fonda-mento, ancora una volta, il suffragio universale dei plebisciti.

31 Il 7 dicembre 1891 gli avrebbe augurato addirittura, a questo scopo, di rimanere a lungo fuori dal potere“con la parola, con l’opera e con l’esempio”.

32 In quella medesima seduta del 17 marzo 1891, a proposito d’incidenti verificatisi a Livorno, Imbriani sisoffermava sulla “inciviltà del diritto individuale vendicato sul momento”, il farsi giustizia da sé, in altreparole, prodromo del linciaggio per il quale si fa espressamente il nome di New Orléans e dell’eccidio in cuierano rimasti coinvolti gli emigrati italiani, donde il richiamo del ministro a Washington, e che tuttavia il 7dicembre successivo Imbriani, rispetto agli orrori dell’Africa, con ottocento indigeni seviziati ed uccisi, avrebbedefinito, quale risultato dell’impeto anziché della perversione, “come la luce lunare rispetto ai raggi ardentidel sole”.

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“Si tratta – egli affermava – di una riforma di cui credo che neppure la Came-ra sola si potrebbe occupare. Si tratta infatti di una di quelle leggi per le quali abbi-sognerebbe il referendum, perché si tratta di mutare il metodo con cui il popoloesercita la sua sovranità… Il collegio nazionale sarebbe il più logico, il più naturale,quello che darebbe maggiore autorità ad un Parlamento”.

Posta peraltro l’impossibilità pratica di una soluzione del genere, il Nostrosuggerisce un’alternativa forse al nostro sguardo attuale ancor più stimolante (“For-mate un nuovo ente organico nel quale siano rappresentate diverse frazioni di pro-vincie e così il collegio uninominale perderà il carattere di feudo”).

Inventare qualche cosa di nuovo che apra la strada al riordinamento am-ministrativo, dunque, una volta che la riforma Crispi è caduta con lui: ma noncerto attraverso la commissione vagheggiata da Nicotera, zeppa di senatori efunzionari (“Questa è essenzialmente una prerogativa della Camera e non cela lasceremo togliere. Noi non vogliamo che la futura rappresentanza nazio-nale sorga dalla volontà del potere esecutivo qualunque esso sia”): e perciò ilsuffragio universale maschile a tutti i ventunenni in grando di firmare all’attodel voto onde evitare quello dei morti e degli assenti e, un primo passo versocoloro che saranno gli evoluti e coscienti della predicazione e della propagan-da socialista33.

C’erano, l’abbiamo accennato in nota, ad emozionare e commuovere l’opi-nione pubblica, le rivelazioni sui massacri africani, protagonisti il tenente Livraghi,che avrebbe dato vita ad un neologismo tanto breve quanto diffuso, ed EteocleCagnassi: ma a fine aprile 1891 Imbriani avrebbe provocato addirittura la sospen-sione della seduta per la sua insistenza nel volerne sapere di più: e la proposta suae di Bovio per il ritiro a Massaua sotto la protezione della flotta o quanto menoper la commercializzazione della colonia eritrea non avrebbe incontrato migliorfortuna.

Si tornava perciò ai corollari ed agli strascichi dell’ormai ratificata riformaelettorale: e qui il Nostro, il 20 maggio, nel ribadire l’ufficio del deputato comeindirizzato essenzialmente “al sindacato assiduo, all’esame, alla critica dell’operadel potere esecutivo, al ricondurre il governo alle rette norme costituzionali, piùche al far leggi, che ordinariamente non sono buone” avanzava inattesamente unasorta di proposta di limitazione della proprietà fondiaria, un decimo a coltura in-tensiva, i nove decimi espropriati con indennizzo dallo Stato e distribuiti ai conta-dini con cedole trentennali di riscatto34 il tutto allo scopo di evitare che, col ritorno

33 Il 10 aprile 1897 Imbriani avrebbe parlato di un voto “di principio” anche agli analfabeti di 20 annipurché in grado di firmare all’atto del voto, il solito spauracchio delle intimidazioni e dei brogli.

34 È così esasperato in forma paradossale quello che sappiamo esser un caposaldo del Nostro, il Parlamen-to come controllo dialettico dell’esecutivo più che come vero e proprio potere legislativo formalisticamenteinteso e fine a sé stesso: e, quanto alla proposta di riforma fondiaria, essa sarebbe stata reiterata in più ampiocontesto il 21 marzo 1892.

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all’uninominale, “tanti che popolavano questa camera… siano i deputati del lorocollegio perché ne sono i proprietari”35.

Il rinnovo anticipato della Triplice, l’inaugurazione del monumento aGaribaldi a Nizza, i grandi scioperi metallurgici a Milano, l’assoluzione di AmilcareCipriani e degli altri principali implicati nella prima celebrazione pubblica dellafesta del lavoro, il 1° maggio 1891, a Roma, a S. Croce in Gerusalemme, con i rela-tivi violentissimi incidenti che avevano fatto da contorno, tutto ciò assestava inaccettabile equilibrio la situazione internazionale ma riproponeva in primissimopiano la questione sociale, non senza un’indiretta influenza della Rerum novarum,che induceva a collegare quella ecclesiastica nella drastica alternativa tra l’abolizio-ne delle guarentigie, sollecitata dall’estrema, e la loro qualificazione di “statutarieed immutabili” pronunziata da Di Rudinì alla Scala l’8 novembre.

Nel grande dibattito parlamentare che seguiva, e che si accentrava intorno aduna ormai inesorabile ed improcrastinabile ricomposizione delle parti politiche,Imbriani, che interveniva il 7 dicembre alla vigilia del voto, pur non potendo esclu-dere da questo processo il Crispi di cui anzi tesseva l’apologia liberale a cui si èaccennato in nota, si preoccupava di tornare ai plebisciti come unica e sola fonte dilegittimazione della sua monarchia democratica, evidentemente sottovalutandone,o ignorandone addirittura, i pericoli bonapartisti, ma soprattutto sottraendo al Par-lamento ogni possibilità costituente e circoscrivendone l’attività, come si è già vi-sto, ed una volta per sempre, al controllo dell’esecutivo.

“Io credo – spiegava infatti il Nostro – che via sia un gran pericolo nel toccaree nell’innovare il patto fondamentale dei poteri come sono costituiti. Credo che perfa ciò sia d’uopo d’un potere costituente. Oggi forse si potrà rinnovare in meglio loStatuto ma domani un Parlamento compiacente con le sue palline nere ci farà tornareindietro di molto… Sul terreno dei plebisciti io sono così forte che non me ne rimuo-verò mai, e questo è proprio il terreno della legalità, il fondamento del nostro dirittopubblico. Ché, se ne vogliono uscire i ministri o altri, peggio per loro: i Parlamentistessi che ne volessero uscire farebbero cessare la loro ragion d’essere36.

35 In stretta attinenza con la polemica contro il ritorno all’uninominale, il regionalismo come tutelacorporativa di interessi locali ed il municipalismo quale negazione del partito politico, una articolazione dia-lettica possibile all’interno dell’unità, emergono come bersagli polemici nell’intervento del 13 giugno 1891contro le associazioni regionali ormai pullulanti nella capitale ed altrove, una preoccupazione unitaria cheinduceva Imbriani, pur mantenendo ferma l’istanza per la riduzione della ferma a 18 mezi ed auspicando anzil’abolizione della pena di morte nell’esercito in tempo di pace, ad avanzare qualche riserva sull’ordinamentoterritoriale pur propugnato, come si è visto, nel patto di Roma. Non a caso, del resto, il 9 luglio 1896, ilNostro si sarebbe dichiarato contrario al commissario civile in Sicilia e pertinacemente fedele al comune“quale elemento naturale, logico, fortemente organico dello Stato”: e l’unitarismo intransigente non rifuggi-va, ove del caso, e sulla traccia, del resto del mai rinnegato Garibaldi, di rivestirsi di panni monarchici se è veroche, in occasione del volgare sfregio inferto il 2 ottobre 1891 dai pellegrini clericali francesi nel Pantheon allatomba di Vittorio Emanuele, Imbriani non esitava a definire quest’ultimo, del resto in perfetta coerenza colpassato, “il più grande protagonista del risorgimento italiano”.

36 La temperie laicista di quei giorni è peraltro così accentuata che lo stesso Imbriani conclude con unaccenno, rarissimo nel suo conformismo di costume (la difesa del duello!) al matrimonio “come atto giuridicoe sociale”: e pochi giorno dopo, il 14 dicembre 1891, avrebbe chiesto al ministro Pelloux, che aveva parlato diconcubinati, la legalizzazione dei matrimoni contratti dagli ufficiali senza permesso col solo rito religiosopurché l’integrassero con l’atto civile, anche facendo a meno della dote prescritta per la sposa.

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La Costituente torna dunque a riemergere come il filo rosso, la grande in-compiuta del Risorgimento; ma per il momento c’è l’ergastolo chiesto per Livraghia Massaua, ci sono le testimonianze dei generali Orero e Fecia di Cossato sui mottidi spirito dell’insospettabile e prestigioso Antonio Baldissera intorno alla “sop-pressione tranquilla” degli indigeni.

Imbriani ne chiede l’arresto come omicida per mandato, o quanto meno lamessa in stato d’accusa presso il magistrato ordinario, Crispi e Zanardelli, al potereall’epoca dei fatti contestati, convengono con lui, l’11 dicembre 1891, quandoLivraghi è stato già assolto da parecchi giorni perché Baldissera ha ammesso tran-quillamente le proprie responsabilità nell’aver fatto torturare, bastonare e morire difame, denunzia l’eccesso di potere come un reato per definizione, ma prosegue an-che amaramente, dinanzi alla Camera che, con 246 voti contro 95, gli darà torto:“Io veggo dietro queste confessioni qualche cosa di brutto, veggo l’impunità assi-curata… Anche in guerra c’è un limite nei poteri, c’è un diritto pubblico fra lenazioni civili che certamente non è abolito solo perché ci troviamo in mezzo aibarbari, per rispetto di noi stessi, per rispetto della civiltà”.

La Costituente conduce naturaliter alla repubblica e non è meraviglia cheImbriani si discosti ora per la prima volta dal suo tenace agosticismo, in polemicaneppure velata con Cavallotti, il cui possibilismo ministeriale oltranzista lo ha ri-dotto persino a coprire Baldissera, con l’aderire al convegno romano del 13 marzo1892 in cui avrebbe esordito il giovanissimo Arturo Labriola e la repubblica sareb-be stata definita “il mezzo necessario a raggiungere l’eguaglianza e la giustizia so-ciale per il bene dell’umanità”.

Ma nel frattempo la civiltà si può e si deve difendere nelle sue innumerevoliprosaiche esigenze quotidiane, si veda come il Nostro prenda spunto da un argo-mento di più che ordinaria amministrazione, gli atti giudiziari ed i servizi di cancel-leria, per elevarsi a considerazioni di ordine generale che involgono larga parte del-la dislocazione del cittadino nel seno della società.

“La giustizia non è materia tecnica – egli osserva il 19 febbraio 1892 – è undiritto di natura, una funzione dello Stato, se volete scendere più giù, una questionedi ordine pubblico. Ora tassare, mercanteggiare questa giustizia, porla sul listinodella vostra borsa, è qualche cosa che urta il sentimento morale. La giustizia do-vrebbe essere gratuita in tutto e per tutto… Ma voi avete fatto uno dei cespiti piùforti delle vostre entrate di questa giustizia che avete avvilito in ogni modo… Voisubordinate il sentimento di giustizia al desiderio di aiutare il governo nel qualeavete fiducia. Ma se questo sentimento di benevolenza e di giustizia è davvero nel-l’animo vostro, perché non proponete una legge per dare indennità agli imputatiassolti? Questa legge deve essere il substrato di ogni ragione giuridica e politica inuno Stato libero. E se voi non la proponete la proporremo noi… Il delinquente nonè, per lo più, che uno sventurato”.

Questo Stato libero e moderno “deve fortificare l’individuo perché deve es-sere il risultato della volontà di tutti i singoli” precisa Imbriani l’8 marzo nell’op-porsi all’aumento della tassa di successione proposto da Luigi Ferrari in quanto

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immobilizzante ed isterilente la piccola proprietà, questa struttura portante dellasocietà in difesa della quale il Nostro si dichiara conservatore tra gli applausi dellaDestra e del centro, lieto della diminuzione delle entrate del lotto “perché forseindica un progresso nella moralità pubblica” (e qui sembra di leggere Giustino For-tunato) ma attento a citare dagli studi sociologici di Angelo Mosso il dato impres-sionante secondo il quale in provincia di Caltanissetta solo il 9% dei coscritti è attoal servizio militare37.

“Se la miseria è per se stessa un danno – commenta Imbriani il 21 marzo 1892– le conseguenze della miseria sono danni indefiniti”: e perciò, mettendo da parte loStato “che divora tutto”, il dazio interno sui cereali va abolito, la proprietà fondiaria,l’abbiamo visto, limitava e così pure, al terzo grado, il diritto di successione, suben-trando altrimenti il comune, che il Nostro vede sempre dinamicamente al centrodell’auspicato rinnovamento, anche sotto il proficlo economico e sociale.

Questo rinnovamento è messo in forse dalla crisi di politica finanziaria chetravaglia il governo e che induce Di Rudinì a sostituire Colombo con Luzzatti ed apresentarsi il 4 maggio alla Camera con la richiesta di pieni poteri in merito per dueanni, regia dei fiammiferi, diminuzione delle pensioni, 15 milioni di economie perriforme organiche (ma non in campo militare, con la riduzione ad otto, richiesta daColombo, dei corpi d’armata, che invece da dieci erano stati portati a dodici, e conla riduzione delle spese navali), aumento della tassa di successione.

Nulla di più contrario, quindi, agli auspici di Imbriani, che non esitava adargomentare la propria opposizione sul porro unum delle economie militari (“Fin-ché voi spenderete in armamenti continui, finché non vi sentirete il coraggio diridurre l’esercito alle semplici forze che occorrono per la difesa nazionale… nonisperate assolutamente nulla di bene per la ricostruzione dell’economia naziona-le”).

Ma la politica militare in quanto tale, e la crisi nel suo complesso, presentava-no nella circostanza un risvolto squisitamente costituzionale che il Nostro non silasciava sfuggire, l’intervento pesante e determinante della Corte attraverso il Rattazziministro della Real Casa ed il Cosenz capo dello Stato Maggiore generale, cheImbriani non manca di nominare e denunziare a tutte lettere, senza riguardi per ilsuo antico generale garibaldino, e delineando anzi la prassi che il Di Rudinì avrebbedovuto correttamente seguire invece di offrire, come aveva fatto, per vedersele ac-cettate con nuovo incarico e l’accennata sostituzione, le dimissioni dell’intero gabi-

37 Le economie militari, porro unum della Destra Lombarda più ancora che della democrazia radicale (“Laquestione militare in Italia va guardata unicamente dal lato difensivo” 26 febbraio 1892) non esimevano Imbrianidall’aggiungere polemicamente: “Per acquistare il nostro territorio anch’io ci sto, naturalmente. Ci fermere-mo alle Alpi Giulie, non abbiamo bisogno di andare più in là, dove non ci sono interessi nostri” salvo, s’inten-de, l’Adriatico che è “nostro esclusivamente nostro, e nessun altro interesse vi deve penetrare al di fuoridell’interesse italiano” come Imbriani avrebbe ribadito ancora il 29 giugno 1896, concedendo che “il Mediter-raneo lo potremo avere comune con la Francia”. Ancora il clima, diremmo, di Fortunato si respira invece il 21marzo 1892 nella lugubre descrizione della concentrazione a Crotone delle bare dei cantonieri della litoraneajonica uccisi dalla malaria.

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netto, e cioè o formazione, con uomini già pronti e disponibili, di tutta una nuovacompagnia o rinunzia all’incarico e convocazione della Camera.

Che ci fosse un grosso retroscena (“Questo parla perché è comandato daRattazzi!” era l’esclamazione assai rude del Nostro) veniva confermato indiretta-mente dall’improvvisa e violenta critica di Giolitti, prodromo comunque della sfi-ducia votata al ministero della Camera e della nomina che, con procedura del tuttoinsolita, Umberto avrebbe conferito precisamente all’ex ministro del Tesoro.

“Ho dovuto temere di assistere ad un infanticidio” era l’arguto commentod’Imbriani, il 25 maggio 1892, al ritorno del gabinetto dal Senato nell’aula diMontecitorio, dove le dichiarazioni di Giolitti erano state accolte col più profondosilenzio.

Ma non si trattava soltanto di arguzie, rese magari straziate dal parallelodel “ministro minore”, preso addirittura, ancorché indirettamente, per“ciabattino” rispetto al conte di Cavour, e fino ad un certo punto comprensibilinell’uomo del Risorgimento che non poteva che venerare Crispi ed ignorareGiolitti.

Imbriani diceva anche qualche cosa di costituzionalmente molto più se-rio, rimproverava a Giolitti di aver accettato di discutere un’interpellanza alSenato, quella assai significativa Guarneri sull’esclusione dei senatori dal nuovoministero, senza ritornare invece immediatamente alla Camera “con poca con-venienza verso questo consesso che ha le sue fonti nella sovranità diretta dellanazione”, rilevava che i ministri militari Pelloux e Saint Bon erano stati“ricomandati al loro posto contro ogni corretta procedura parlamentare” es-sendo “cosa anticostituzionale ed affatto nuova, che una responsabilità di go-verno potesse essere affidata per motivi tecnici e non politici”, osservava cheBrin agli Esteri non avrebbe fatto altro che seguire le istruzioni del segretariogenerale Malvano, deplorava che ai Lavori Pubblici tornasse Genala, l’uomodalle convenzioni ferroviarie “uno degli atti più funesti per il nostro paese”,concludeva col contrapporre la “politica nazionale” a quella “dinastica” che siriassumeva, a suo avviso, nel mantenimento della Triplice, nel ventilato ritornoal macinato e nel rifiuto delle economie militari.

L’esito incertissimo della votazione sull’odg di fiducia Baccelli, 169 sì, 160no, 38 astenuti, inducevano Giolitti, com’è noto, a dimissioni prontamente e, conogni probabilità, concretamente respinte dal re, donde, il 27 maggio, la ripresenta-zione alla Camera e la richiesta di sei mesi di esercizio provvisorio con sullo sfondolo spettro sempre più grandeggiante di elezioni generali anticipate, le prime colritorno all’uninominale.

Perciò il discorso d’opposizione d’Imbriani, il 9 giugno 1892, assume un si-gnificato particolare, la sua vasta argomentazione costituzionale coinvolgendo dinecessità obiettivamente la Corona e rimandando perciò di fatto la soluzione delproblema precisamente al voto popolare.

“Signori – egli affermava rivolgendosi ai ministri – la vostra presenza a quelposto è sotto la vostra responsabilità, di voi che avete riaccettato quel posto: ed

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ogni voto contro di voi è dato solamente ai responsabili. Difatti, se voi incostitu-zionalmente agiste, pur affermando di eseguire ordini ricevuti, voi sareste i respon-sabili, e noi avremmo il diritto di mettervi in stato d’accusa”.

Lo stesso Bonghi ha ammesso che l’art. 67 dello Statuto deve essere considera-to nello spirito e non nella lettera “perché noi non siamo soltanto un governo costitu-zionale, siamo un governo parlamentare… e non tollereremmo che fossero nominatiministri neppure persone le quali non sedessero in uno dei rami del Parlamento”.

E tuttavia il conflitto venuto in essere tra Camera e Corona non potrà averealtro giudice che il popolo, cioè la sovranità nazionale, dal momento che con i ple-bisciti “è la nazione che ha conferito la sovranità, ha delegato le funzioni di capodello Stato, non altro… La Corona deve essere moderatrice fra i partiti e deve (sic!)chiamare a costituire il potere esecutivo responsabile coloro che sono indicati dallasovranità della nazione”.

Ed Imbriani conclude auspicando per la prima volta una legislatura la cuidurata sia ridotta a solo due anni e, sul momento, negando l’esercizio provvisorio“per protestare legalmente e rimettere a posto il potere esecutivo che esce dallalegge, dallo spirito dello Statuto… un governo illegale sotto la sua responsabilità”:parole di fuoco delle quali, ovviamente, Giovanni Giolitti non avrebbe mancato diricordarsi38.

L’esclusione di Matteo Renato Imbriani dalla Camera diventava in tal modouno dei principali obiettivi delle elezioni generali del 6 e 13 novembre 1892, le pri-me governate e “manovrate” da Giolitti, nel Mezzogiorno con l’intentoprogrammatico generale di eliminare il fenomeno clientelare e notabilare Nicoteraanche a costo di rivitalizzare quello Crispi ambientalmente e sociologicamente nongran che diverso, in Terra di Bari mediante una netta correzione delle vedute daSinistra storica, per così dire, del “proconsole” locale, Pietro Nocito deputato diAcquaviva e sottosegretario alla Giustizia, correzione che non escludeva affattol’eventuale appoggio governativo a candidati schiettamente conservatori, come ap-punto nel caso di Corato, il collegio uninominale dove si presentava il Nostro, checon 1818 voti contro 1923 era battuto da Giambattista Beltrani, non senza il richie-sto ed ottenuto intervento della Banca Nazionale e dell’a noi già noto NiccolòMelodia, in quei giorni medesimi fatto senatore.

L’opzione per Gaeta del ministeriale contrammiraglio Corsi eletto anche aSora dette modo ad Imbriani di presentarsi in quest’ultimo collegio contro Lefebvre,grosso proprietario, industriale delle carta e sindaco di Isola del Liri, che lo batté il

38 Pur avendo concentrato la sua ostilità, a parte l’aspetto costituzionale, sui progetti fiscali del ministeroGiolitti “che si vuole imporre chiedendo i quattrini: ora i quattrini non glieli vogliamo dare”, Imbriani avevavoluto poi esibire l’antriplicismo quale motivazione saliente del suo voto contrario, tanto da censurare inquella chiave il voto favorevole di Barzilai e da astenersi sul voto unanime della Camera che respingeva le sueconseguenti dimissioni. Se un suo discorso di fine giugno 1892 a Chioggia accentrato sulla decadenza delcostume parlamentare si vedano la lettere Cavallotti e l’articolo Turati rispettivamente su “Il Secolo” e sulla“Critica Sociale” 3 e 16 luglio 1892.

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26 febbraio 1893 fra tali e tante illegalità da fare annullare quasi subito la già avve-nuta proclamazione.

Mentre pertanto, il 10 aprile, Pietro Pansini, che era stato rieletto a Molfetta,denunziava alla Camera lo scioglimento dei consigli comunali della sua città e diCorato, per favorire l’elezione di Beltrani, l’attività propagandista dell’estrema siconcentrava a Sora, col corollario di un clamoroso duello fra Cavallotti e Lefebvre,con l’inevitabile commissariamento, questa volta ad Arpino, che si eraplebiscitariamente pronunziata per Imbriani, con un’infelice e declamatoria letteraaperta di quest’ultimo al “Lucifero” di Ancona che, sia pure in termini esagitati,stava ad indicare il significato e la portata della sua assenza nell’atmosfera convulsadella Banca Romana39.

La lettera appariva il 21 maggio 1893, il giorno stesso della votazione, checonferiva la vittoria ad Imbriani con 9 voti di maggioranza, un clima surriscaldatodi sopraffazione e di violenza che determinava un nuovo annullamento ed una ter-za votazione, il 9 luglio, stavolta con una più netta, e definitiva, affermazione diLefebvre, 2827 voti contro 2302.

Ma nel frattempo, per attribuzione violenta di 147 schede mediante effrazio-ne delle urne a mano armata era stata annullata l’elezione di Beltrani, il quale aven-do rinunziato alla candidatura perché i “mezzi materiali e morali atti alla lotta” nongli erano stati forniti nonostante l’intervento di Pietro Rosano presso Giolitti, il 6agosto il collegio di Corato elesse deputato senza competitori Imbriani, il quale sipreoccupò subito di scambiare infiammati messaggi di solidarietà con EdouardLockroy e la democrazia francese in occasione dell’eccidio di Aignes Mortes del 18agosto 1893 che aveva provocato in Italia, da Genova a Messina, ma con epicentri aRoma e specialmente a Napoli, un’ondata di sciovinismo di proporzioni e violenzainaudite, ed il 18 settembre, in un grande comizio dell’Aventino, non esitò ad invo-care il referendum, la Costituente e l’abolizione dell’art. 5 dello Statuto.

È dunque su una linea quanto mai intransigente ed estremista che egli rien-trava alla Camera, ma le circostanze non gli consentivano di farlo se non il 20 di-cembre 1893, l’anniversario di Oberdan, egli non mancava certo di sottolinearlo,alla presentazione del nuovo gabinetto presieduto da Francesco Crispi40.

Essa, com’è noto, si fondava sul concetto apocalittico di “spedizione di Marsalaalla rovescia” per giustificare l’eccezionalità dei provvedimenti in corso ininterrotto

39 “Una putrida bufera avvolge l’Italia. Occupa il governo una banda di malfattori che tutto credesi lecito.Prerogativa di questo governo è l’ipocrisia superata solo dall’impudenza. Sotto il peso turpissime, per difen-dersi, mentono, e colti in flagranza di menzogna cinicamente vi si drappeggiano”.

40 Pur senza uno specifico discorso Imbriani era tuttavia già intervenuto attivamente nella seduta del 23novembre 1893 in cui la commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche d’emissione, i cosiddetti Sette,aveva presentato la sua relazione con relativi documenti, che Imbriani aveva proposto di pubblicare subito,trattandosi di “questione altamente morale”, associandosi in seguito alla richiesta Cavallotti di deposito invisione negli uffici di segreteria nelle more della stampa e specificando in seguito, con l’adesione di Giolitti,che nel frattempo la relazione si sarebbe dovuta leggere immediatamente, donde la sospensione della seduta,l’agitazione e il tumulto del resoconto ufficiale, che avrebbe condotto alle dimissioni del ministero l’indomani24 novembre, dopo l’avvenuta lettura della relazione.

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di “adozione in Sicilia: ma è proprio questa pregiudiziale che veniva negata altrettan-to apoditticamente dall’unitarismo risorgimentale d’Imbriani, non senza che egli dal-l’anniversario di Oberdan avesse tratto introduttivamente spunto per deplorare l’as-senza di accenni e mutamenti alla politica estera e persino al contenuto del rinnovodella Triplice (art. 5!) nel programma di Crispi a causa del “volere occulto il quale simette in contraddizione col sentimento della nazione” (e così una sorta di costituzio-nalismo repubblicano veniva a sgretolare l’antico e ben noto lealismo del Nostro).

“L’unità d’Italia – egli affermava facendo proprio il plebiscitarismo crispinodella monarchia democratica – non può correre alcun pericolo perché ha radicinell’anima degli italiani ed è voluta dal popolo che l’ha affermata nella sua sovrani-tà”, quel popolo che peraltro non era più in grado di pagare “un centesimo” d’im-posta e non poteva né doveva che rivendicare a sé il “diritto di Stato e di popolo” di“batter moneta” attraverso l’abolizione di tutti gli istituti d’emissione e la “sovrani-tà” di una banca unica, ma non di Stato, come l’aveva realizzata Giolitti.

Ma erano i risvolti costituzionali della mancata costituzione del ministeroZanardelli, contro la quale Cavallotti aveva protestato dal collegio pugliese d’Imbriani,da Molfetta, dove si trovava per un giro propagandistico dopo averlo effettuato inCalabria, e dopo che Bonghi aveva auspicato lo scioglimento della Camera ed ungabinetto extra parlamentare, erano quei risvolti che più che mai continuavano adallarmare il Nostro (“Spero che non potranno più in Italia aver effetto certe deleterieinfluenze anticostituzionali, certe influenze che sono partite dal Palazzo, e che vi saràalmeno chi, con la propria energia, richiami all’osservanza della legge e della volontànazionale di tutti, niuno eccettuato, chiunque vive in Italia”).

Crispi garante di una costituzione alla quale è soggetto anche il re, dunque,dopo essere stato richiamato ad esserlo per l’unitarismo plebiscitario, che Imbrianiribadiva risorgimentalmente plaudendo alla requisitoria di Crispi e Cavallotti con-tro i partiti politici, che Giolitti aveva tentato di riesumare ed alla cui dialetticaFortis continuava a dichiararsi indefettibilmente fedele a nome del radicalismolegalitario, e che viceversa non erano che “fazioni… morte e seppellite nella co-scienza del paese” donde l’accoglimento fervido della patriottica “tregua di Dio”invocata dal presidente del Consiglio.

“Tempo, e non molto” era stato chiesto da lui precisamente ad Imbriani perpoter constatare i risultati sociali ed unitari dei suoi provvedimenti in Sicilia: ma iltempo si era dilatato a due mesi ed i provvedimenti si erano concretizzati nellostato d’assedio e nei tribunali militari quando, il 20 febbraio 1894, la Camera siriaprì con una pioggia d’interpellanze soprattutto sull’arresto di De Felice, conl’esposizione finanziaria di Sonnino e con l’esplicitazione da parte di Crispi (“Oggisi trattava di disfare l’Italia!”) del concetto della “Marsala alla rovescia”.

“Altro che questioni finanziarie, signori ministri! – prorompeva allora ilNostro – Qui si tratta della libertà e dei più alti interessi del paese, si tratta dellanostra sovranità! Oh, verranno le discussioni finanziarie, ed allora sarete messi almuro, ma fin da oggi dovete accettare le discussioni sulla vostra condotta antiliberalee liberticida!”

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La Camera dette torto all’oratore democratico e si dovette preliminarmenteprocedere all’esposizione del ministro del Tesoro ed alla contrastatissima sostitu-zione di Zanardelli con Biancheri alla presidenza della Camera: ma il 24 febbraio,quando cominciò il dibattito politico, Imbriani ebbe modo di far risuonare a nomedell’estrema la nota più altamente e comprensivamente drammatica, centrata sullaviolazione di una mezza dozzina di articoli dello Statuto, dalla libertà individualeall’inviolabilità del domicilio ed alla libertà di stampa, dal diritto di riunione a quel-lo dei deputati ed al principio del giudice naturale, ma specialmente sulla denunziadi uno stato di cose, di un’atmosfera che, politicamente prima ancora che social-mente, andava rendendosi irrespirabile41.

Non credo possibile la rivoluzione di fatto immediata – egli dichiara infatti –Ma se per rivoluzione vuolsi intendere quel gran movimento delle coscienze e delleidee che si svolge nell’anima della nazione con processo più o meno rapido, mainfallibile, e conduce ad un fine, che è condanna dei mali presenti, eliminazionedelle loro cause, rinnovazione di istituti corrotti, reintegrazione di diritti morali,affermazione dei diritti immutabili e supremi della sovranità nazionale, egli è evi-dente che l’Italia si trova già in questo periodo di rivoluzione”.

Il riflesso sociale di una constatazione del genere si circoscrive all’auspicio diun affratellamento umanitario di vecchio stampo democratico (“Guardiamo difrontele schiere dei sopraffattori e schiariamoci sempre con i sopraffatti, dovunque essi sitrovino!”): ma, ancora una volta, la nota che vibra in prevalenza in codestoaffratellamento è quella liberale e liberatrice, suscitata da un impulmso di reazionead un clima pesantemente avverso (“Viviamo in un ambiente che non è libero, losentiamo, abbiamo attorno qualche cosa che si sente più che non si dice, che presa-gisce ciò che può accadere di peggio”).

E perciò l’appello e l’ammonimento severo ai ministri, di gusto che si direb-be squisitamente inglese (“Guardatevi dal furore di governare, è il peggiore di tuttii furori”) e la rivendicazione accurata delle prerogative conculcate dei deputati (“Noistiamo qui in quest’aula, su questi banchi, ma ci sentiamo privi del prestigio chedovrebbe avere il rappresentante della nazione, umiliati dall’essere convocati abeneplacito del governo, di non esser capaci, con la nostra voce e con l’adempimen-to dei nostri doveri, a porre rimedio a questo stato di cose”, rimedio che, ben losappiamo, dovrebbe consistere essenzialmente nel controllo dei governanti in quantotali, del loro “mal fare” che può e deve essere presunto in chi eserciti il potere: “Nelmondo moderno non deve esistere altra sovranità che quella del diritto che sopra laforza, dell’ingegno e della scienza contro la superstizione, dei popoli sui governanti”).

41 Imbriani specifica che gli accusati non si possono scegliere il difensore, loro primo diritto, e che itribunali si sono dichiarati competenti su atti precedenti da essi qualificati reati. L’oratore nega che ci sia inatto in Sicilia lo stato di guerra, non essendovi invasione di truppe nemiche e neppure contrapposizione diforze regolari, e ricorda che anche in Boemia è stato proclamato di recente lo stato d’assedio, ma per voto delParlamento e senza l’intervento dei “tribunali giberna” (non a caso Crispi nella replica si preoccupa di confu-tare proprio la pregiudiziale sull’esistenza o meno della guerra: “L’abbiamo soffocata. C’era allora e si potevaestendere dappertutto: l’abbiamo spenta”).

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Vale la pena tuttavia di notare, al di là della sensibilità liberale e parlamentaresempre vivissima42 che, da un punto di vista strettamente culturale, la vicinanzad’Imbriani a Crispi rimane risorgimentalmente insuperabile ed intatta, si veda ilragionamento attraverso il quale lo Statuto viene presentato come semplice cornicepreliminare che il governo deve riempire con un quadro di attività propria e speci-fica, da controllare e garantire da parte del Parlamento con sullo sfondo la natioquia nata di deterministica memoria (“Anch’io riconosco che v’è una legge chedetermina le patrie, una legge naturale che determina i diritti dell’uomo alla vita ealla libertà. Ma gli Statuti non debbono essere che la proclamazione di principiinviolabili, che sono l’estrinsecazione dei diritti naturali”).

Analoga ed ovviamente assai più impegnativa osservazione può a maggiorragione farsi per il risvolto sociale del problema, che non a caso i deputati socialistiavevano voluto enfatizzare con un loro specifico documento di condanna delle vio-lazioni statutarie e liberali commesse dal governo, che Imbriani non era stato ingrado di comprendere (“Per Dio, vogliono restare in quattro!”).

Già il 24 febbraio egli si era rifatto a Giovanni Bovio per rifiutare la lotta diclasse come programma democratico “di pensiero e ideale umano” e per lasciarsiandare a definizioni moralisticamente patetiche (“C’è chi lavora e chi non fa niente.Il lavoro è il dovere della vita e chi non lavora è un essere ignobile”).

Ma il 13 marzo 1894, con Enrico Ferri che pretendeva espressamente di appli-care teorie socialiste alla ripartizione dei demani collettivi dell’ex Stato pontificio edera stato seccamente squalificato (“La Camera non ammette deputati socialisti”) dalpresidente Biancheri che già qualche giorno prima aveva rimproverato a CamilloPrampolini di “sollevare passioni di classe, cosa indegna del Parlamento”, il Nostro siallargava a considerazioni ben più ampie che, mutate tutte le infinite cose che sono damutare, non sarebbero dispiaciute forse, tanti anni più tardi, a Benedetto Croce, le cuiradici risorgimentali non erano poi distantissime da quelle d’Imbriani.

Riprendendo infatti la contrapposizione degli oppressi ai soverchiatori, mainquadrandola in una parabola che dalle libertà dei comuni italiani conduceva aquella inglese sulla traccia del “pensiero latino” contro le “teorie esotiche” ed ilgiacobino “monopolio della libertà e ingiustizia che conduce all’ingiustizia socia-le”, il Nostro si chiedeva: “Che cos’è questa classe borghese? È stata la classe intel-ligente, che ha sacrificato tutto per suscitare nella coscienza popolare la dignitàumana… Io comprendo altamente che cosa sia la collettività, ma questa voglio spon-tanea, altrimenti diventa tirannide… (la quale) è la formula dell’egosimo, il più spinto,il più terribile degli egoismi. Io vedo l’immediato ostacolo, l’ingiustizia diretta, esogno contro e pugno e voglio cadere combattendo contro esso”43.

42 “Io vedo un indirizzo brutto nel governo, quello di screditare ogni giorno più le istituzioni parlamen-tari per poi poterle violare o magari sopprimere” (8 marzo 1894).

43 Si ricordi a questo proposito un’apostrofe di Victor Hugo, col quale dovremo non a caso concludere il nostrodiscorso: “Communistes, votre ennemi c’est le mur mitoyen, le mien, c’est le dispotisme. J’aime mieux escalader lestrônes que la haie du voisin” e dunque la radice essenzialmente liberale in senso individualistico dell’azione politica.

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Non a caso la confutazione d’Imbriani si colloca all’interno di uno stato dicose che ormai Crispi è in grado di dominare grazie alla strabocchevole maggioran-za parlamentare che la sua impostazione unitaria, patriottica e dinastica gli ha ga-rantito.

Il discorso si sposta così all’ordinaria amministrazione nell’ambito della qua-le, dopo una serie di assaggi, l’accennato voto a vent’anni con firma del voto, ilsindaco elettivo senza restrizioni ma non responsabilità ed unicità di funzioni pernon più di due o tre anni44, un titolare borghese anche alla Marina, Imbriani,coadiuvato da Pietro Pansini, perviene il 1° maggio 1894, subito dopo essere andatoa testimoniare a favore di De Felice in Sicilia, ad un vero e proprio abbozzo costi-tuente il cui art. 16 definisce i deputati “commissari del popolo” (sic!), ne fissa ilnumero a trecento con collegio unico nazionale per il quale l’elettore può votarefino a trenta candidati, esclude stipendi ed uffici retribuitivi45, stabilisce a tre anni ladurata della legislatura col proibirne lo scioglimento prima di un biennio, prescrivela decadenza in seguito ad un’assenza protrattasi per più di un mese, sottopone lavalidità delle leggi alla ratifica del referendum, imprescindibile anche per stipulazionidi alleanze, dichiarazioni di guerra e modifiche statutarie, ammette alla discussionedei due rami del Parlamento un testo di legge proposto da un numero di cittadiniequivalente ad un quoziente per deputato46.

Ma, a parte la stretta fiscale imposta da Sonnino dopo il rimaneggiamentoministeriale dei primissimi di giugno ed il progressivo ricompattarsi della Destraintorno a Crispi, era il susseguirsi degli attentati anarchici, il 16 giugno Paolo Legacontro di lui, il 26 Sadi Carnot presidente della repubblica caduto ucciso a Lione edil 30 giugno Giuseppe Bandi, l’eminente memorialista garibaldino, a Livorno, adautorizzare l’indomani 1° luglio il presidente del Consiglio alla presentazione diprovvedimenti intesi a “punire i provocatori, gli incitatori e quelli che per mezzodella stampa fanno l’apologia di reati” che Imbriani sintomaticamente accoglievaed interpretava sotto una duplice chiave, quella pubblica e liberale che lo induceva

44 La proposta formulata l’11 aprile 1894, sarebbe stata reiterata il 5 luglio 1896 in un contesto molto piùampio ed articolato che vedremo a suo tempo.

45 Si noti che Imbriani non si pone mai il problema dell’indennità parlamentare, che pur aveva rappresen-tato uno dei postulati del patto di Roma, e, il 2 maggio 1894, affronta molto marginalmente quello dell’emi-grazione, i cui tragici esiti nel Brasile non gliene suggeriscono altro che una generica giustificazione nellecondizioni economiche del paese e nel suo sistema di alleanze, trattandosi di un fenomeno, a suo avviso,tutt’altro che necessario.

46 In una generica accentuata sensibilità costituzionale di questo periodo rientrano anche gli interventi 8maggio e 14 giugno 1894 spazianti dalla denunzia delle sevizie inferte dalla forza pubblica alla soppressionedei collegi militari passando attraverso la ventilata possibile riduzione della lista civica ad un monarca che nondovrebbe rallegrarsi per discorsi di ministri o proposte di legge “quando il Parlamento sovrano può spazzartutto, ministri e proposte” e la contrarietà manifestata a commissioni tecniche per le economie “di cui solo laCamera è giudice e che debbono essere indicate dal governo” (perciò una commissione di generali per lostudio delle riforme militari sarebbe stata giudicata da lui “un’offesa al potere legislativo” il quale avrebbeofferto al governo “l’opera di carità di seppellire i cadaveri” se esso avesse persistito nella sospensiva suiprovvedimenti finanziari Sonnino e nella proposta di commissioni di studio).

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a bollarli come “primo sdrucciolo sulla via della reazione”, quella individualistica eborghese secondo la quale, previo porto d’armi, i provvedimenti si sarebbero resisuperflui se non si fosse resa libera ed illimitata la detenzione di armi e munizioniper la difesa della famiglia e della proprietà, una sorta di Far West all’ombra degliunalienables rights.

Quando peraltro il 7 luglio i provvedimenti venivano alla ratifica parla-mentare, che l’11 sarebbe stata sancita a scrutinio segreto con 188 sì e 16 no, i trequinti della Camera istruttivamente già in vacanza, tre anni di domicilio coattocomminati a “coloro che abbiano manifestato il deliberato proposito di commet-tere vie di fatto contro gli ordinamenti sociali”, Imbriani, accantonato quest’ulti-mo aspetto, al quale, lo abbiamo visto, e non è meraviglia, non si mostrava parti-colarmente sensibile, ne prendeva spunto per un excursus latamente liberale sulleistituzioni e sul loro oculato finanziamento (“Il governo spenda bene il denaroche ha, la polizia sia buona e capace, la vita e la sostanza dei cittadini siano tutela-te, e tutto ciò senza largheggiare in denaro”) ma anche e soprattutto su quello chepoteva apparire un loro progressivo deteriorarsi (“Abbiamo anche il diritto dipretendere… la libertà del giudice popolare, conquista che noi dobbiamo difen-dere ad ogni costo perché rappresenta la coscienza del popolo che si manifesta colgiudizio di fatto”) e ciò specialmente a danno dell’esercito e della marina, tutt’al-tro che appendici del potere esecutivo, ed anzi suscettibili di discussione ininter-rotta “perché li vogliamo migliorare, non vogliamo che diventino strumenti gret-ti di casta, vogliamo che ad essi sia legata la nazione intera appunto perché nonvogliamo la lotta di classe”.

L’utopia della nazione armata, dunque, ancora una volta come ai tempi diCattaneo e secondo l’esempio americano e svizzero, quale grande strumento dieducazione civica volta a stornare lo spettro del socialismo ma anche quello del-l’accentramento fine a sé stesso (“Nulla di più temibile sulla via della reazione chei vecchi giacobini! Sempre lo stesso spirito di autoritarismo…”) ed ancora ifarneticamenti dei criminologi dottrinari alla Raffaele Garofalo invocanti ilritnorno alla tortura ed alla pena di morte (“La pena per essere efficace deve averela sanzione morale che viene dall’opinione pubblica, la quale aborre davvero daidelitti e li condanna nella sua alta coscienza […] Le leggi ordinarie debbono ba-stare a tutto e nulla deve esservi di eccezionale […] È cosa enorme perseguire,colpire chi è stato riconosciuto innocente, ché allora la reazione diventa legitti-ma… ciò che era un delitto potrà assumere carattere di lotta in nome della legalitàe della giustizia”).

Non la repressione in quanto tale, dunque, niente patrie en danger, l’indi-pendenza del potere giudiziario assicurata e garantita in modo definitivo dinanzialle esorbitanze del potere esecutivo: riconosciamo il migliore Imbriani, una voltamessa da parte la provocazione schematica della lotta di classe, e non a caso ascol-tiamo la sua voce, subito prima dello squallido scrutinio segreto al quale abbiamofatto cenno, in difesa della legge come garanzia universale e perciò tutt’altro chediscriminante: “Gli anarchici vivono nella legge e chiunque vive nella legge non

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può essere messo fuori legge a priori. Se costui commette un reato è colpito dallalegge. Questa specie d’interdetto dogmatico è qualche cosa che urta col sentimentogiuridico… Il domicilio coatto è un prodotto dell’aberrazione del senso giuridicoitaliano”.

Non a caso alla breve e concitatissima ripresa dei lavori parlamentari, neldicembre 1894, dopo lo scioglimento dei circoli socialisti e la costituzione della legaper la difesa della libertà e subito prima della presentazione del plico Giolitti e dellaproroga della sessione, tutti episodi ai quali il Nostro avrebbe preso parte con con-vulso protagonismo, lasciando depositate ben 34 interpellanze al banco della presi-denza della Camera, i suoi interventi più corposi e meditati sarebbero stati dedicatia problemi ed a principî di libertà intesi nel loro fondamento essenziale, le elezionidel quarto collegio di Palermo e di Corleone che andavano annullate, pur avendoespresso deputati protesta, per il semplice fatto di essersi tenute in regime di statod’assedio, donde la presunzione di astensioni per timore e l’impossibilità di accer-tare se e fino a che punto fosse stata menomata l’esplicazione della volontà popola-re, il senso di frustrazione che invadeva l’animo al cospetto delle esorbitanze gover-native (“Quando è possibile che vi siano degli italiani che languono nelle reclusioniper semplice reato d’opinione, che siano mandate a domicilio coatto personedegnissime, cittadini innocenti, sol perché è stata riportata una frase da qualcheagente di polizia, io mi vergogno di far parte, come cittadino e come deputato, diuno Stato simile”).

La “questione morale” che aveva provocato la proroga della sessione avreb-be avuto a suo protagonista, com’è noto, Felice Cavallotti: ma Imbriani sarebbestato prontamente ed autorevolmente al suo posto nell’adunanza che avrebbe rac-colto alla Sala Rossa di Montecitorio 180 deputati a meno di ventiquattr’ore dalladrastica decisione di Crispi, la sera di domenica 16 dicembre 1894, ed avrebbe presola parola in chiave unitaria e patriottica (“Quando un’assemblea, composta dallediverse parti politiche, trova una nota comune qual è quella che ci anima, si è certidi dire che l’ambiente parlamentare si è risanato e rappresenta il sentimento delpopolo”).

Si trattava senza dubbio di un unitarismo patriottico eccessivamente ottimi-stico ma che, proprio in quanto tale, faceva onore ad Imbriani ed alla generosità conla quale egli aveva colto il significato morale e politico dell’azione di Cavallottirispetto al feroce meridionalismo regionalistico della stampa crispina che non man-cava viceversa di far breccia nell’animo di Bovio per quanto attinente al programmadell’opposizione ed alla personalità del presidente del Consiglio.

Non si può negare tuttavia che al Nostro competesse una sorta di secondafila rispetto al leader milanese ed ai socialisti nel clima d’assieme delle elezioni ge-nerali del maggio 1895 che, superate senza difficoltà, consentivano ad Imbriani dirientrare alla Camera e di esordire il 13 giugno su una linea tanto intransigente(“Qui noi siamo riuniti per giudicare i vostri reati”) quanto sommaria nell’articola-re il giudizio, la violazione dello Statuto, la questione morale, la mancata richiestadi sanatoria per decreti legge già in esecuzione da un anno al di fuori della legittimi-

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tà costituzionale, ed in realtà, precisava Imbriani il 6 luglio, non contemplati dallalegislazione nazionale né dal regime parlamentare in genere, i cui “elementi preci-pui” essendo, e lo sappiamo, “la discussione, la pubblicità e il controllo”, il gover-no vi si sottraeva, meritando perciò di essere posto in stato d’accusa ben al di làdella presunta immaturità dell’elettorato (“Quando noi non abbiamo che leggielettorali restrittive, il suffragio ristretto col collegio uninominale, possiamo noidare al popolo la colpa se la rappresentanza nazionale non adempie ai suoi dove-ri?”).

Si ha insomma la sensazione che in quelle settimane potentemente e quasimuscolosamente dominate dal conflitto personale, e quindi dall’alternativa nonsoltanto politica fra Cavallotti e Crispi, il Nostro abbia voluto, o sia stato indottoa prescegliere una posizione abbastanza defilata, attenta, più che all’evolversi tem-pestoso della situazione, ai problemi di principio ed alle grandi parole d’ordine, il“via dall’Africa” ad esempio, che torna a risuonare il 26 luglio 1895 o, l’11 prece-dente, l’irredentistico rinvio del 20 settembre festa nazionale all’effettivo compi-mento dell’unità italiana, sia pure in un risvolto liberale che non ci giunge nuovo(“Non inneggiamo alla libertà del pensiero in questo momento in cui, come ita-liani, dobbiamo vergognarci di veder rinchiusi nelle luride carceri cittadini chescontano il proprio pensiero”) o ancora, il 18 luglio, la deplorazione per la man-cata amnistia “che è forse la più alta prerogativa” di un governo che invece pre-tende di negare la qualità politica, e di relegare tra i reati comuni, a pensieri edopinioni che all’opposto, proprio in quanto tali, sono atti eminentemente politi-ci47.

È proprio quest’ultimo tema significativamente d’attualità alla riapertura dellaCamera, il 26 novembre 1895, a proposito dell’eventuale grazia a Giuseppe De Fe-lice, che Imbriani tiene rigorosamente a distinguere dalle persistenti responsabilitàministeriali (“Io sono troppo osservante dalle guarentigie statutarie per toccare chinon debbo e non posso toccare, perché non si può difendere in quest’aula e perchéè irresponsabile statutariamente. Dunque la mia parola viene diretta a coloro chesono i veri responsabili”).

Ma anche l’anticlericalismo d’occasione del 20 settembre rimane d’attualitàin un clima così schiettamente illiberale, nel quale i provvedimenti di emergenzaper la Puglia ancora in crisi, credito agrario, sospensione di tributi, rinnovo dicambiali, rimangono frammentariamente e superficialmente sullo sfondo rispettoalle grandi istanze di libertà a cui il Nostro è particolarmente sensibile, con espres-sioni che anch’esse ci risultano tutt’altro che nuove (“Lasciamo tanto al Vaticanoquanto all’anarchico la piena libertà di spiegare il proprio pensiero. Il Vaticano

47 Quanto al “via dall’Africa!” si ricordi doverosamente che esso echeggiava a commento polemico deltrionfale ingresso in aula dal generale Baratieri, abbracciato dal presidente Villa, da Crispi e da Cavallotti,quasi a simboleggiare l’unità della patria intorno al condottiero vittorioso, e che il 2 luglio precedente, proprioin replica ad Imbriani che nessuno poteva sapere dove ci si sarebbe spinti “perché il decoro nazionale deveessere tutelato anche in Africa”.

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che cosa rappresenta se non una forza ed un’influenza morali? Le armi della vio-lenza s’infrangono contro di essa. È dunque con la forza morale che voi lo dovre-ste combattere, mai con le minaccie e con le violenze, come tutti i pensieri sicombattono ugualmente con la forza di pensieri migliori”: ed abbiamo già citatole riflessioni suggerite ad Imbriani, il 29 novembre successivo, dall’eventualità diun’abolizione delle guarentigie e del ritorno anche per il pontefice al diritto co-mune).

Ma nel frattempo andava obiettivamente ingrandendosi l’ombra dell’Africaa proposito della quale i rudi e prosaici interrogativi d’Imbriani, il 27 novembre(“Quanto vi costa questa passeggiata militare? In quali condizioni vi trovate ades-so? Quali sono le vostre intenzioni? Volete davvero andare a distruggere il tronod’Etiopia? Che cosa ci sostituirete? Vi lasceranno sostituire qualche altra cosa?”)precedevano di sole due settimane il drammatico ed inatteso annunzio di AmbaAlagi.

Del tutto occasionalmente, ma pur significativamente, esso veniva fornitoalla Camera dal generale Mocenni ministro della Guerra nel pomeriggio del 10 no-vembre 1895, subito dopo che Imbriani, dopo aver fatto di nuovo risalire alla per-sona di Crispi la responsabilità del metodo anticostituzionale dei decreti legge e delsuo abuso incontrollato, si era soffermato proprio sull’essenza e la gestione delleforze armate in Italia, separandole anzitutto preliminarmente dai poteri fondamen-tali dello Stato (“La questione vera è che alla Camera non vi dovrebbero esseremilitari”) ed insistendo poi sul decentramento e sulla privatizzazione di tutti glistabilimenti bellici del momento che, e qui una sintomatica citazione di Cavallotti,“il socialismo di Stato è stato sempre la base di tutte le dittature del mondo… Il mioideale sarebbe quello di chiudere le caserme” sulla base della riduzione della fermaa non più di un anno e soprattutto di un più agile governo degli stanziamenti e delloro impiego concreto (“Questo dubitare sempre, questa diffidenza continua postanella nostra amministrazione, in modo che per controllare la spesa di un centesimosi debbono spendere centinaia di lire, è cosa assolutamente contraria ad ogni buonandamento amministrativo. Dovete aver fiducia negli ufficiali, ritenerli uominid’onore: quando mancano all’onore, dovete essere irresistibilmente severi ed allon-tanarli dall’esercito”).

In tal modo, e la cronaca burrascosa precedente e susseguente ad Adua loavrebbe confermato, Imbriani si congedava da Crispi su grandi questioni costitu-zionali di principio più che su problemi particolari suscitati dall’Africa o dalla “que-stione morale” o dal fiscalismo di Sonnino e così via.

La controprova è nel fatto che, pur avendo ribadito la richiesta di vedere l’expresidente del Consiglio posto in stato d’accusa nel discorso del 17 marzo 1896 cheesamineremo tra breve (e la viva ilarità che accoglieva la richiesta era indice di bendiversi intendimenti, malgrado tutto, da parte dell’assemblea in gran maggioranzacrispina eletta l’anno precedente) solo quarantott’ore più tardi Imbriani avrebbecompianto come “miseri” gli ex ministri, proseguendo col dire, sua come per essibisognasse usare “un linguaggio più che corretto perché io non ho mai approvato

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quei procuratori che inveivano contro gli accusati”, nella circostanza in primo luo-go Oreste Baratieri “il quale mi è doppiamente sacro, e come accusato legittima-mente, e come accusatore del caduto ministero”: e qui la grande e bella conclusioneottimistica ottocentesca sul diritto di nazionalità alla Mancini48 che si sprigiona vit-torioso quale elemento di civiltà dalla catastrofe africana (“Un gran risultato per laciviltà forse l’avrete avuto, forse il sangue nostro non è stato sparso invano per laciviltà, perché quella nazione etiopica, si è riunita dinanzi al pericolo imminente, haacquistato coscienza della propria forza nell’unione e adesso non si dissolverà piùma fonderà un impero che si avvierà verso la civiltà e porterà il suo frutto nel con-tinente africano”).

Spetta a Matteo Renato Imbriani la definizione di “ministro di galantuomi-ni”, più esattamente “onesta schiera di galantuomini, con la quale il gabinetto DiRudinì è passato alla storia, o quanto meno alla cronaca parlamentare, e fu accoltoalla sua presentazione in aula, il 17 marzo 1896.

Lodato per l’amnistia generale immediatamente promulgata, il ministeroera invitato a “troncare il delitto africano” attraverso una “pace onorata” col “le-ale” Menelik (“L’Italia smarriva il sentimento dell’onore andando a sopraffare unaltro popolo, a distruggere un’altra nazionalità”) ma anche l’effettivo e prontorichiamo delle truppe e l’accennata messa in stato d’accusa del ministero Crispi,la cui richiesta il Nostro condivideva con Bovio ma non, significativamente, conCavallotti49.

Quanto all’ispirazione complessiva del gabinetto, Imbriani elogiava Di Rudinìper la chiara e sincera patina conservatrice del suo liberalismo ma deplorava chenon fosse affatto tale la circolare diramata ai prefetti all’atto di insediarsi a palazzoBraschi quale ministero dell’Interno, tutta un’insistenza inopportuna sulla maestàdella legge a tutela dell’ordine pubblico e contro le associazioni criminose.

Ma i tempi permanevano grossi, e tali da non poter essere affrontati con sem-plici aggiustamenti di combinazioni ministeriali, se è vero che già il 21 maggio,

48 Non a caso l’8 maggio 1896 Imbriani avrebbe inneggiato a Kossuth nel salutare il millennio del regnod’Ungheria, ma avrebbe anche stigmatizzato l’oppressione esercitata da quest’ultimo sulle minoranze rume-ne, così come aveva già fatto il 2 maggio 1894.

49 Essi si sarebbero tuttavia trovati uniti, il 9 maggio 1896, nel votare l’odg di fiducia Suardi Gianforteinterpretato come conferma della politica di raccoglimento (e quest’ultima, da Bovio, quale prima tappa versoil ritiro assoluto dell’Africa). Un certo influsso del clima latamente moralizzatore di quei mesi può cogliersianche nelle rinnovate folgori del Nostro contro il lotto “onta per la nazione e pel governo italiano” (5 giugno1896: giusto un anno più tardi, l’8 giugno 1897, ne avrebbe proposto senz’altro l’abolizione) che si collocanotra la richiesta di eliminazione dei coatti politici e d’introduzione del lavoro nelle colonie di domicilio coattoche ancora rimanevano aperte, con sullo sfondo la reiterata sottolineatura dell’autorità morale da conferire alfunzionario di pubblica sicurezza che “idealmente dovrebbe tendere la mano ai perseguitati, aiutare gli infelicied i sopraffatti, raddrizzare tanti torti. Invece, stornato dai suoi fini, adoperato spesso come strumento dibassa polizia e di vendetta di governo, ecco che cade in disprezzo prezzo le popolazioni e non raggiunge i suoifini” (28 maggio 1896: dove mi pare di scorgere anche un sottile riferimento al Mezzogiorno nei suoi infinitimeandri di mentalità e di costume) ed una singolare difesa della scuola classica e dello “spirito latino” controla demolizione di Niebuhr e Mommsen (26 giugno 1896) che ci fa toccar con mano quanto, magari attraversoCarducci, il Nostro fosse ancora culturalmente e risorgimentalmente vicinissimo a Francesco Crispi.

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all’indomani del rifiuto di mettere in discussione una rinnovata proposta di EttoreSacchi per la messa in stato d’accusa del ministero Crispi, Imbriani risollevava labandiera della Costituente al di là di una Camera suscettibile, come la presente,d’involuzione reazionaria e al di là dello stesso controllo parlamentare sull’esecuti-vo quale ragion d’essere del costituzionalismo liberale (“Il miglior modo perché ilParlamento funzioni consiste nella solerzia, nella sollecitudine dei deputati… Quan-do si riconosce, come io credo che sia di presente, la necessità di modificare tutta lalegge fondamentale dello Stato, allora sorge la necessità di una Costituente nomina-ta ad hoc dal popolo con plebiscito a suffragio universale”).

Le circostanze non consentivano peraltro di proseguire su questa prospetti-va di riformismo ab imis che sembrava imposta dall’atmosfera infuocata, fino ailimiti della rivoluzione e della repubblica, del biennio precedente, la politica esterasopravveniva a temperare utopismo e tecnicismo in un arduo equilibrio nei con-fronti del quale la parola d’Imbriani assumeva più la cadenza di testimonianza oaddirittura di profezia che non quella d’immediata analisi politica.

Si veda ad esempio come pochi giorni più tardi, il 25 maggio 1896, reiterandol’auspicio di una dissoluzione dell’Austria e della Turchia ad opera delle nazionalitàe di un remoto indiretto intervento della Russia, il Nostro mostri di sapersi sottrar-re a tempo e luogo all’anglomania dilagante all’interno del costituzionalismo libe-rale, di saper ben distinguere tra il liberalismo di Gladstone e l’imperialismo diChamberlain col dissociare l’Italia dall’Inghilterra la quale “non ha che un bisogno,quello cioè di soggiogare, far servire o distruggere la razza nera, invece di risolle-varla”.

Certo, quella dissoluzione implica, come abbiamo visto a suo tempo chel’Adriatico sia “esclusivamente nostro” e perciò il 2 luglio Imbriani deve annunzia-re con commosse parole il proprio distacco dalla maggioranza dell’estrema, checondivide l’odg Di San Giuliano tanto “rinunziatario” in ambito africano quantoortodosso in quello triplicista (sono con lui Barzilai e Pansini e, apoditticamente, isocialisti, ma anche la gran massa dei crispini) donde la necessità di abbandonare ilfremente linguaggio sulla “missione dell’Italia” in pro degli oppressi, da Cuba aCandia, e concentrarsi su problemi di politica interna che peraltro ancora una voltale circostanze rendevano quanto mai concreti e significativi.

Presentandosi infatti alla Camera, il 5 luglio 1896, la relazione di EdoardoPantano sull’eleggibilità del sindaco in tutti i comuni, il Nostro, condividendola,ovviamente, ma sottoponendola al suffragio universale, allargava il discorso a crite-ri di profondo rinnovamento amministrativo, il comune ampliato, eccetto che inmontagna, fino a comprendere non meno di 10 mila abitanti “per aver vita propriaed i mezzi per esercitare l’attività propria, se vogliamo l’autonomia comunale” al-trimenti, postilla duramente Imbriani, “nel comunello il sindaco elettivo sarà ilfeudatario del luogo”.

Non solo: ma egli dovrà rimanere in carica per non più di due anni, nonpotrà essere rimosso per ragione di ordine pubblico, non sarà rieleggibile per unperiodo da determinarsi, si dovrà obbligatoriamente ricorrere al Consiglio di Stato

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in caso di una sua sospensione per grave reato o abbandono dell’ufficio ma anche alparere di quel consesso per qualsiasi scioglimento di consiglio comunale, tassativa-mente proibito nel corso della campagna elettorale politica, un qualche magistratoparticolare dovendo sostituire i regi commissari “piovre e cavallette dei bilanci co-munali”, tutti temi schiettamente liberali50 che avrebbero visto coalizzati e rintuz-zarli tanto la maggioranza ministeriale quanto quella dell’estrema.

Questo stato di cose si riproponeva il 9 luglio a proposito dell’innovazionepiù notevole dell’epoca in campo amministrativo, il commissario civile in Sicilia,che Imbriani combatteva sia per l’illegalità del decreto che lo istituiva sia soprattut-to per il suo carattere introduttivo al ventilato ordinamento del Mezzogiorno in tregrandi regioni, una soluzione contrastata non soltanto in nome dell’unitarismodinastico privilegiato dai crispini ma anche e specialmente in difesa del comune“questo elemento naturale, logico, fortemente organico allo Stato” come sappiamoda sempre carissimo ad Imbriani.

E poiché nei giorni successivi il ministro Di Rudinì si sarebbe dovutoricomporre a causa delle dimissioni del generale Ricotti suo “capo morale” e delColombo per la mancata riduzione di due corpi d’armata, l’opposizione del No-stro non poteva il 21 luglio che venir fortemente confermata, e ribadita vistosamen-te dal voto alla riapertura della Camera, il 1° dicembre 1896, allorché, dopo averlodato il trattato di Addis Abeba, egli presentava, di concerto col socialista GregorioAgnini, una mozione per il ritiro assoluto dall’Africa, che l’assemblea respingevacon 184 voti contro 26.

La convergenze obiettiva con i socialisti non si limitava del resto alla politicacoloniale se è vero che l’8 dicembre Imbriani era a fianco di Filippo Turati nel de-nunziare una serie di pesanti ingerenze governative nel campo della libertà di riu-nione e nel presentare la relativa mozione, rigettata dalla solita massiccia maggio-ranza che vedeva ora automaticamente affratellati, su posizioni di conservazioneautoritaria e borghese, moderati e crispini, nonostante che Di Rudinì motteggiassesu Imbriani più conservatore di lui in quanto individualista, una formula che ilNostro non poteva ovviamente che raccogliere, accettare e sviluppare ma, ancorauna volta, in senso schiettamente liberale.

Pochi giorni più tardi, il 15 dicembre, la circolare del guardasigilli Costa perlo scioglimento dei circoli socialisti e delle camere del lavoro parve far rivivere igiorni più torbidi dell’autoritarismo crispino: e davanti ai socialisti e ad Imbriani,che il 18 e il 19 dicembre avevano chiamato in causa in proposito lo stesso istitutomonarchico, Cavallotti, pur tenacemente vicino al ministero, non poteva fare a menodi riconoscere su “Il Secolo” che la “questione sollevata da Imbriani ritrova nellecondizioni tristi del paese e della coscienza pubblica base ed eco, di cui gli amici

50 È appena il caso di ricordare se e quanto essi sarebbero stati d’attualità durante tutto il periodo giolittiano(a parte le applicazioni che il Nostro aveva già avuto modo di subirne ad opera dell’uomo di Dronero) tantoda costituire uno dei principali obiettivi riformistici da parte del primo ministero Sonnino.

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delle istituzioni dovrebbero preoccuparsi per primi” e non certamente sulla lineadel Torniamo allo Statuto che non a caso Sidney Sonnino avrebbe firmato sul nu-mero di capodanno della “Nuova Antologia”.

La crisi di Candia, nel febbraio 1897, sopravvenne a rinsaldare la rinnovatasolidarietà all’interno dell’estrema, il romanticismo garibaldino, la difesa del dirittodi nazionalità, l’interpretazione e l’ispirazione dello spirito pubblico, tutte direttri-ci mediante le quali, attraverso le elezioni generali del 21 marzo 1897 e la conse-guente eliminazione totale e definitiva del crispismo come temibile forza parlamen-tare, riusciva a riproporsi egemonicamente, nonostante l’ormai dichiarata, ed al-trettanto irreversibile, scissione repubblicana dal complesso dell’estrema sinistra, econ essa quella di Giovanni Bovio, la convergenza prestigiosa tra Cavallotti edImbriani, presentatore, quest’ultimo, all’apertura dei lavori della nuova Camera, l’8aprile, dell’interpellanza “circa quella nefasta politica che conduce a far commette-re dall’Italia risorta atti di violenza inconcepibile contro la madre Grecia, calpe-stando il diritto delle genti ed il principio di nazionalità”.

E l’interpellanza sarebbe stata illustrata, tra il 9 e l’11 aprile, da un seguitod’interventi, fino alla machiavelliana “necessità della guerra” in quanto “cozzo san-guinoso d’idee” per il quale si scomodava insolitamente Hegel, che ancora una vol-ta le circostanze avrebbero reso emblematicamente gli ultimi di Matteo RenatoImbriani51 e che conviene perciò leggere con larghezza ed unitariamente, tanto nel-lo slancio tribunizio e nel calore eccezionale di convinzione, quanto nelle conside-razioni più propriamente ed acutamente politiche, la fictio dell’equilibrio europeo edel conseguente intervento armato in ardua dialettica col movimento delle nazio-nalità, la nuova Santa Alleanza dell’imperialismo come degenerazione del liberalismoe perciò economico – finanziaria anziché ideologico – militare, l’anticipazione del-l’argomento interventista sull’articolazione eterogenea dell’Intesa quale alternativapreferibile alla compattezza organica degli Imperi Centrali, ed in essa, nella suaprospettiva latamente internazionalista e mazziniana, l’apertura a ciò che nel 1897era, e vent’anni dopo coerentemente sarebbe stato, Leonida Bissolati.

“Io non so dove voi vogliate condurre l’Italia, se vi siete messi in mente di

51 Il 15 maggio 1897 Imbriani aderiva alla mozione di Errico De Marinis per il ritiro assoluto dall’Africache la settimana successiva sarebbe stata respinta dalla Camera con 242 voti contro 140 (“Il principio siaaffermato nettamente dinanzi al paese affinché esso sappia ciò che deve fare, dove deve andare, e non abbial’ambiguità e il caos dinanzi a sé”) ed il 14 giugno si soffermava ancora polemicamente sulla protezione accor-data dagli inglesi alla schiavitù a Zanzibar e sulla situazione del Benadir, in cui il nostro Antonio Cecchi si eralasciato coinvolgere (“L’Inghilterra ci trarrà l’utile suo, noi non ci troviamo alcun utile, noi ci troviamo sem-pre nelle situazioni le più dubbie, le più antipatiche, senza ritrarne alcun utile, anzi, non ricavandone che ildanno e le beffe. E tutto ciò per proteggere una speculazione, una società antipaticamente indiziata… Se laciviltà europea si deve affermare così barbaramente io rinunzio a questo movimento di civiltà”). Ma non sitrascuri l’altrettanto costante difesa dei diritti civili dell’individuo in quanto tale (“Si usano contro i detenutimodi assolutamente incivili e molti di essi ricevono la morte sotto diverse forme”16 giugno 1897 a commentodell’impressionante lettera del militare Pasquale Torres ergastolano a S. Stefano sulle sevizie subite) né latenace polemica contro la “macchina” burocratica in quanto tale, che arriva, il 1° luglio 1897, a proporrel’abolizione dei tribunali sostituiti dalla pretura a fine conciliativo in ogni comune, dall’arbitrato in manieracivile e dai giurati in quella penale.

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Matteo Imbriani alla Camera per la difesa dei diritti civili e delle libertà statutarie

dilaniarla e di annullarla. Se volete che questa Italia, potente di un solo forte pensie-ro, banditrice al mondo del suo diritto, una volta, ed invocata da tutti gli oppressi,se volete che questa Italia sia maledetta dai popoli, aspettatevi che venga una giusti-zia la quale vi commini quella tale Nemesi che è sempre infallibile quando giusta-mente percuote. Voi, la guerra che volevate evitare, l’avrete, perché sarà guerra san-ta, giusta, ulatrice di tanti obbrobri, che sarà seguita dal cozzo dei due imperi che sitrovano dietro la Grecia, e questa tempesta purificatrice e santa, dilaniando e di-struggendo i due imperi barbari d’Europa, il turco e l’austriaco, farà le vendettedella civiltà vera… Quando voi avrete posta questa nuova lega di prepotenti che èstata chiamata il prodromo degli Stati Uniti d’Europa dal ministro degli affari esteri(scil. Emilio Visconti Venosta) a base della vostra condotta nell’azione internazio-nale, potrà accadere che un giorno sia menomata la vostra stessa indipendenza, l’in-dipendenza di tutti i popoli. Imperocché questa nuova tirannide di governi, strettiinsieme da interessi non confessabili, vi ridurrà un giorno a premere su tutti gli Statiminori d’Europa ed a rapire ad ognuno di essi l’indipendenza, se non si adattano adesser servi vostri. Inoltre avverrà infallantemente lo scoppio del dissidio tra voi, perl’urto dei contrastanti interessi. E voi, che non siete i più forti, che avrete perduto laforza morale, che attigevate dai principî e dalle idee, rimarrete schiavi e distrutti… Oamici socialisti, io che non mi sono mai sentito secondo ad alcuno di voi nel volerela giustizia sociale applicata nella sua integrità, io qui apertamente sono lieto diriconoscere anco una volta quel che sempre affermate, che i socialisti italiani nonsono secondi ad alcuno nell’amore della patria, nel riconoscimento del diritto dinazionalità e del principio d’indipendenza”.

Felice Cavallotti che, lo abbiamo visto, dalla crisi di Candia era stato condot-to a riavvicinarsi ad Imbriani alla luce della comune camicia rossa, che questoriavvicinamento aveva ribadito e consolidato attraverso un nuovissimo repubblica-nesimo etico (la “invisibile forza” che sembrava trattenere a mezzo “un’opera chevoleva essere onestamente riparatrice” nell’intervento sull’indirizzo di risposta aldiscorso della Corona 13 aprile 1897), che a metà maggio aveva riscoperto la fratel-lanza d’armi con i socialisti, nella circostanza Oddino Morgari, col denunziare allaCamera il caso dell’operaio Romeo Frezzi di Jesi, arrestato, percosso e conseguen-temente deceduto nelle carceri di Roma in seguito all’attentato Acciarito contro ilre, e subito dopo con l’aderire finalmente all’abbandono totale dell’Africa, ed infi-ne in settembre col sottoscrivere il manifesto per l’abolizione del domicilio coatto,Cavallotti era l’uomo designato da tutta una vita ad interpretare i sentimenti dellaCamera e soprattutto della pubblica opinione allorché l’assemblea unanime, il 30settembre 1897, alla riapertura della sessione, respingeva le dimissioni presentate daImbriani in seguito alla tragedia di Siena52.

52 Imbriani, che il 21 marzo 1897 era stato eletto anche ad Andria, soverchiando il conservatorismoclericaleggiante di Ceci e lo pseudoprogressismo di Spagnoletti, sarebbe stato confermato il 3 giugno 1900deputato di Corato con un formalismo unanime quanto mai discutibile.

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Raffaele Colapietra

“Molti discorsi che si fanno qui dentro – affermava il leader milanese, incon-sapevole di stare anticipando di soli tre mesi il proprio personale epicedio – nonvalgono l’insegnamento che parlerà da quel seggio vuoto53, quotidiano ricordo, nelleore del dovere, dell’abnegazione con cui egli lo intese e lo concepì… Anche quelliche si lamentavano della frequenza delle sue parole oggi ne sentono il desiderio:perché quell’uomo non è stato cercato dalla sventura e non l’ha trovata per caso, fuesso che andò a cercarla, per aver troppo chiesto a sé medesimo nel seguire il senti-mento del proprio dovere”.

E torniamo convulsamente a quel seggio per ascoltare le parole che MatteoRenato Imbriani ne fa echeggiare in esordio al discorso del 29 novembre 1895 chegià abbiamo incontrato a proposito della ventilata abolizione delle guarentigie edella funzione che in merito può e deve esercitare la tribuna parlamentare, le cuidiscussioni “unico mezzo che ancor resta al paese per iscoprire una qualche parte diverità, hanno la loro grande utilità: non pei risultati e pei voti che si danno quidentro ma perché illuminano il paese”.

Ebbene, questa funzione esercita in nome di un principio generale che non acaso è posto in cima all’intervento, ed in forza di esso: “La libertà e la verità hannoquesto di eccellente, che tutto ciò che si fa per esse o contro di esse loro riesceegualmente utile”.

Queste parole non sono d’Imbriani ma di Victor Hugo, la prefazione diHernani, tutta fitta contesta di motti e sentenze che al tribuno napoletano doveva-no essere parimenti familiari (“En revolution, tout mouvement fait avancer… Leromantisme… n’est… que le libéralisme en littérature… Le libéralisme littéraire nesera par moins populaire que le libéralisme politique… Dans les lettres comme dansla société, point d’étiquette, point d’anarchie: des lois. Ni talons rouges, ni bonnetsrouges”).

La prefazione reca la data del 9 marzo 1830, il dramma era andato in scena il25 febbraio, in primissima linea nella meticolosa organizzazione Gautier, Dumas,Balzac, Berlioz, i più bei nomi della gioventù romantica francese: giusto cinquemesi più tardi, le trois glorieuses, una data capitale nella storia del liberalismo euro-peo: Imbriani era il tardo epigono superstite, che dava la mano al nascente sociali-smo attraverso la democrazia garibaldina, di quei romantici e di quei liberali.

53 Si ricordi che il seggio, poi ceduto al comune di Corato, era emblematicamente il n. 1 della Camera, cheera stato di Garibaldi, al culmine della “montagna” dell’estrema sinistra, quasi a simboleggiare un trait d’unionfra Montecitorio e il paese.