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587 MATERIALI, TECNICHE E CANTIERI: PRIMI DATI DAL TERRITORIO AQUILANO di FABIO REDI È ancora presto per tirare le conclusioni di una ricerca a tutto campo e su ampia scala territoriale come quella che è stata impostata da qualche anno sul territorio aquilano e marsicano dalla cattedra di Archeologia Medievale dell’Uni- versità dell’Aquila. Gli studi esistenti (cfr. Bibliografia), ove non indirizzati semplicemente verso aspetti formali o pro- blematiche più squisitamente di tipo storico-artistico o sto- rico-architettonico, riguardano prevalentemente il ruolo ef- fettivamente svolto dai Cistercensi e dalle committenze fe- dericiana e angioina all’interno dei cantieri edili della se- conda metà del Duecento e degli inizi del Trecento. Di fronte alla corrente storiografica di cui è portavoce A.M. Romani- ni (RIGHETTI TOSTI CROCE 1983, p. 122), che vede nei Cister- censi una diretta attività di formazione delle maestranze che costituivano i principali cantieri-scuola del sec. XIII, spe- cie nell’Italia centrale, si è sviluppata un’altra tesi, rappre- sentata in prevalenza da architetti, che tende a ridimensio- nare il ruolo dei monaci cistercensi nella svolta impressa alla produzione edilizia del periodo, dalla costruzione delle grandi abbazie dell’ordine alla notevole crescita edilizia di città e castelli. In realtà, secondo questa corrente (FIORANI 1996, p. 194), i Cistercensi, più che essere portatori di tec- niche costruttive innovative e di respiro internazionale, avrebbero rivelato una più flessibile capacità di adattamen- to alle tecniche locali. La fondazione della città dell’Aquila è da attribuirsi, almeno secondo alcuni (CLEMENTI, PIRODDI 1986, pp. 9-17, CLEMENTI 1998, pp. 17-43), ormai con buona attendibilità, a un preciso programma non tanto di Federico II quanto di Corrado IV, nel 1254, ed è largamente attestata la presenza sia normanno-sveva nella ricostruzione di numerosi castel- li del territorio, sia dell’ordine cistercense nell’attività edi- lizia e di promozione e razionalizzazione dello sfruttamen- to delle risorse agro-pastorali. La città e il territorio aquilano, quindi, anche in consi- derazione della discreta documentazione archivistica, ap- paiono un interessante e praticabile osservatorio delle pro- blematiche ora esposte. La metodologia che applichiamo è, senza dubbio, quella archeologica, sia nell’analisi e interpretazione dei dati mate- riali di superficie, sia delle sequenze stratigrafiche da scavo. In città sono stati aperti gli scavi dei monasteri di S. Domenico e di S. Basilio e della basilica di Collemaggio; nel territorio aquilano sono in corso quelli della pieve di S. Paolo di Barete e della grancia cistercense di S. Maria del Monte di Paganica, e dei castelli di S. Vittorino di Amiterno, Ocre e Rocca Calascio; nella Marsica sta per concludersi lo scavo del monastero benedettino di S. Maria di Luco dei Marsi e sono in corso lo scavo dell’abbazia cistercense di S. Maria della Vittoria a Scurcola marsicana e della chiesa altomedievale di S. Potito, insistente sui ruderi della villa imperiale omonima nel comune di Ovindoli. La nostra ricerca, dunque, insieme alle altre problema- tiche che stanno all’origine degli interventi di scavo, sia urbano, sia di chiese o monasteri, sia castellano, mediante il puntuale censimento delle diverse tecniche murarie e il loro confronto incrociato in direzione urbano-rurale, mag- giore-minore, ecclesiastico-civile-militare, ha per obiettivo la verifica della effettiva incidenza delle diversità di com- mittenza e della presenza cistercense nell’edilizia dei secc. XIII e XIV a livello locale. Particolare attenzione vie- ne rivolta alla presunta dicotomia fra “cantieri poveri” e “cantieri ricchi”, cioè alla presenza e al rapporto fra mano- dopera scarsamente specializzata e altamente specializzata, fra testimonianze di tradizioni locali di produzioni autarchiche, o di villaggio, e l’introduzione di tecniche e di sistemi estrinseci, per opera di maestranze itineranti o ap- partenenti a ordini monastici d’oltralpe. 1. I MATERIALI L’Abruzzo interno non conosce edifici realizzati intera- mente con terra cruda (pisé) o con mattoni, come il versante adriatico; soltanto la produzione di laterizi per la copertura dei tetti è attestata localmente già a partire dal sec. XIV dagli Statuta civitatis Aquile, ma l’uso del mattone risulta secondario, cioè limitato a interventi successivi, come restauri o integrazioni e risarcimenti di unità stratigrafiche negative. Esistendo giaci- menti atti alla produzione di tegole, e quindi, ove richiesto, di mattoni, dobbiamo attribuire ad altre ragioni la pressoché tota- le assenza di paramenti murari di laterizi. La natura stessa del territorio, aspro e sassoso, offriva buoni motivi per la prefe- renza della pietra. Ragioni culturali, ma specialmente econo- miche, presiedettero quindi all’impiego quasi esclusivo di murature di pietra. Non a caso gli Statuti cittadini, al cap. 300, De domibus costruendis (CLEMENTI 1977, p. 197), non pren- dono in considerazione alternative all’uso della pietra. Le abi- tazioni di nuova costruzione, alte almento due canne di nove palmi e lunghe quattro canne, dovevano essere costruite «de bonis lapidibus, clace et arena»; soltanto per la copertura dei tetti era prescritto «eandem coperire de bonis tegulis seu pincis». Il legname, assai scarsamente attestato anche a causa della sua deperibilità, appare relegato ai solai e ad altre modeste sovra- strutture come i «gaifi», cioè balconate di legno chiuse o aper- te, di tradizione longobarda almeno nel termine lessicale. Del resto, ai solai di legno si preferivano le volte di pietra, almeno nei livelli abitativi o di servizio inferiori. 1.1 La pietra A seconda del tipo di costruzione che s’intendeva rea- lizzare, la pietra, quasi esclusivamente calcarea, era reperi- bile in sito, da affioramenti superficiali o da raccolta ai pie- di dei dirupi, nel greto dei torrenti, mediante spietramento dei rari e modesti appezzamenti agricoli. Si tratta, quindi, di materiale abbondante, facilmente reperibile e relativa- mente economico; ma, forse, anche, più connaturale con l’ambiente e con la cultura locale. In pratica le costruzioni di pietra, grezza o semilavorata o ridotta in conci squadrati di diversa pezzatura, non rappresentavano altro che un sur- rogato artificiale e un’amplificazione qualitativa degli atavici ripari sotto roccia o entro cavità naturali. Dobbiamo, infine, distinguere fra l’uso della pietra a secco e quello delle murature con legante di malta. 1.2 Cave e calcàre La ricerca in corso riguarda anche il reperimento e il censimento delle cave di estrazione dei materiali da costru- zione da ridurre in conci, sia da più sottili stratificazioni naturali, sia da banchi più consistenti. Uno dei monumenti che dal 1999 è oggetto di scavo archeologico da parte nostra è l’abbazia regia di S. Maria della Vittoria, nel territorio di Scurcola marsicana. Essa, come è noto, fu fatta erigere da Carlo I d’Angiò per celebrare la sua vittoria su Corradino di Svevia con la battaglia dei Piani Palentini, o di Tagliacozzo, nel 1268 (PE- SCE 1988, pp. 46-92). Per la costruzione della monumentale abbazia risulta dalle fonti che venne utilizzata la pietra calcarea delle vici- ne cave di Carce e di Montesecco. Già il toponimo della prima cava è allusivo al tipo di pietra da essa fornita e alla sua cottura per la produzione di calce. Il sito della cava di Carce è ancora ben localizzabile e si riconoscono i segni della coltivazione antica, durata fino a tempi recenti, come mostrano le tracce di una fornace settecentesca ai piedi della montagna, lungo la valle dell’Imele-Salto. È ancora riconoscibile il cammino di lizza che univa questa fornace, presso la quale avveniva il caricamento dei

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MATERIALI, TECNICHE E CANTIERI:PRIMI DATI DAL TERRITORIO AQUILANO

diFABIO REDI

È ancora presto per tirare le conclusioni di una ricerca atutto campo e su ampia scala territoriale come quella che èstata impostata da qualche anno sul territorio aquilano emarsicano dalla cattedra di Archeologia Medievale dell’Uni-versità dell’Aquila. Gli studi esistenti (cfr. Bibliografia), ovenon indirizzati semplicemente verso aspetti formali o pro-blematiche più squisitamente di tipo storico-artistico o sto-rico-architettonico, riguardano prevalentemente il ruolo ef-fettivamente svolto dai Cistercensi e dalle committenze fe-dericiana e angioina all’interno dei cantieri edili della se-conda metà del Duecento e degli inizi del Trecento. Di frontealla corrente storiografica di cui è portavoce A.M. Romani-ni (RIGHETTI TOSTI CROCE 1983, p. 122), che vede nei Cister-censi una diretta attività di formazione delle maestranze checostituivano i principali cantieri-scuola del sec. XIII, spe-cie nell’Italia centrale, si è sviluppata un’altra tesi, rappre-sentata in prevalenza da architetti, che tende a ridimensio-nare il ruolo dei monaci cistercensi nella svolta impressaalla produzione edilizia del periodo, dalla costruzione dellegrandi abbazie dell’ordine alla notevole crescita edilizia dicittà e castelli. In realtà, secondo questa corrente (FIORANI1996, p. 194), i Cistercensi, più che essere portatori di tec-niche costruttive innovative e di respiro internazionale,avrebbero rivelato una più flessibile capacità di adattamen-to alle tecniche locali.

La fondazione della città dell’Aquila è da attribuirsi,almeno secondo alcuni (CLEMENTI, PIRODDI 1986, pp. 9-17,CLEMENTI 1998, pp. 17-43), ormai con buona attendibilità,a un preciso programma non tanto di Federico II quanto diCorrado IV, nel 1254, ed è largamente attestata la presenzasia normanno-sveva nella ricostruzione di numerosi castel-li del territorio, sia dell’ordine cistercense nell’attività edi-lizia e di promozione e razionalizzazione dello sfruttamen-to delle risorse agro-pastorali.

La città e il territorio aquilano, quindi, anche in consi-derazione della discreta documentazione archivistica, ap-paiono un interessante e praticabile osservatorio delle pro-blematiche ora esposte.

La metodologia che applichiamo è, senza dubbio, quellaarcheologica, sia nell’analisi e interpretazione dei dati mate-riali di superficie, sia delle sequenze stratigrafiche da scavo.

In città sono stati aperti gli scavi dei monasteri diS. Domenico e di S. Basilio e della basilica di Collemaggio;nel territorio aquilano sono in corso quelli della pieve di S.Paolo di Barete e della grancia cistercense di S. Maria delMonte di Paganica, e dei castelli di S. Vittorino di Amiterno,Ocre e Rocca Calascio; nella Marsica sta per concludersi loscavo del monastero benedettino di S. Maria di Luco deiMarsi e sono in corso lo scavo dell’abbazia cistercense diS. Maria della Vittoria a Scurcola marsicana e della chiesaaltomedievale di S. Potito, insistente sui ruderi della villaimperiale omonima nel comune di Ovindoli.

La nostra ricerca, dunque, insieme alle altre problema-tiche che stanno all’origine degli interventi di scavo, siaurbano, sia di chiese o monasteri, sia castellano, medianteil puntuale censimento delle diverse tecniche murarie e illoro confronto incrociato in direzione urbano-rurale, mag-giore-minore, ecclesiastico-civile-militare, ha per obiettivola verifica della effettiva incidenza delle diversità di com-mittenza e della presenza cistercense nell’edilizia deisecc. XIII e XIV a livello locale. Particolare attenzione vie-ne rivolta alla presunta dicotomia fra “cantieri poveri” e“cantieri ricchi”, cioè alla presenza e al rapporto fra mano-dopera scarsamente specializzata e altamente specializzata,fra testimonianze di tradizioni locali di produzioni

autarchiche, o di villaggio, e l’introduzione di tecniche e disistemi estrinseci, per opera di maestranze itineranti o ap-partenenti a ordini monastici d’oltralpe.

1. I MATERIALI

L’Abruzzo interno non conosce edifici realizzati intera-mente con terra cruda (pisé) o con mattoni, come il versanteadriatico; soltanto la produzione di laterizi per la copertura deitetti è attestata localmente già a partire dal sec. XIV dagli Statutacivitatis Aquile, ma l’uso del mattone risulta secondario, cioèlimitato a interventi successivi, come restauri o integrazioni erisarcimenti di unità stratigrafiche negative. Esistendo giaci-menti atti alla produzione di tegole, e quindi, ove richiesto, dimattoni, dobbiamo attribuire ad altre ragioni la pressoché tota-le assenza di paramenti murari di laterizi. La natura stessa delterritorio, aspro e sassoso, offriva buoni motivi per la prefe-renza della pietra. Ragioni culturali, ma specialmente econo-miche, presiedettero quindi all’impiego quasi esclusivo dimurature di pietra. Non a caso gli Statuti cittadini, al cap. 300,De domibus costruendis (CLEMENTI 1977, p. 197), non pren-dono in considerazione alternative all’uso della pietra. Le abi-tazioni di nuova costruzione, alte almento due canne di novepalmi e lunghe quattro canne, dovevano essere costruite «debonis lapidibus, clace et arena»; soltanto per la copertura deitetti era prescritto «eandem coperire de bonis tegulis seu pincis».Il legname, assai scarsamente attestato anche a causa della suadeperibilità, appare relegato ai solai e ad altre modeste sovra-strutture come i «gaifi», cioè balconate di legno chiuse o aper-te, di tradizione longobarda almeno nel termine lessicale. Delresto, ai solai di legno si preferivano le volte di pietra, almenonei livelli abitativi o di servizio inferiori.

1.1 La pietraA seconda del tipo di costruzione che s’intendeva rea-

lizzare, la pietra, quasi esclusivamente calcarea, era reperi-bile in sito, da affioramenti superficiali o da raccolta ai pie-di dei dirupi, nel greto dei torrenti, mediante spietramentodei rari e modesti appezzamenti agricoli. Si tratta, quindi,di materiale abbondante, facilmente reperibile e relativa-mente economico; ma, forse, anche, più connaturale conl’ambiente e con la cultura locale. In pratica le costruzionidi pietra, grezza o semilavorata o ridotta in conci squadratidi diversa pezzatura, non rappresentavano altro che un sur-rogato artificiale e un’amplificazione qualitativa degliatavici ripari sotto roccia o entro cavità naturali.

Dobbiamo, infine, distinguere fra l’uso della pietra asecco e quello delle murature con legante di malta.

1.2 Cave e calcàreLa ricerca in corso riguarda anche il reperimento e il

censimento delle cave di estrazione dei materiali da costru-zione da ridurre in conci, sia da più sottili stratificazioninaturali, sia da banchi più consistenti.

Uno dei monumenti che dal 1999 è oggetto di scavoarcheologico da parte nostra è l’abbazia regia di S. Mariadella Vittoria, nel territorio di Scurcola marsicana.

Essa, come è noto, fu fatta erigere da Carlo I d’Angiòper celebrare la sua vittoria su Corradino di Svevia con labattaglia dei Piani Palentini, o di Tagliacozzo, nel 1268 (PE-SCE 1988, pp. 46-92).

Per la costruzione della monumentale abbazia risultadalle fonti che venne utilizzata la pietra calcarea delle vici-ne cave di Carce e di Montesecco. Già il toponimo dellaprima cava è allusivo al tipo di pietra da essa fornita e allasua cottura per la produzione di calce.

Il sito della cava di Carce è ancora ben localizzabile e siriconoscono i segni della coltivazione antica, durata fino a tempirecenti, come mostrano le tracce di una fornace settecentescaai piedi della montagna, lungo la valle dell’Imele-Salto.

È ancora riconoscibile il cammino di lizza che univaquesta fornace, presso la quale avveniva il caricamento dei

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blocchi di pietra lungo la strada reatina (S.S. 578), e la cavadi estrazione in quota.

La nostra ricerca ha restituito anche due calcare anti-che, una tardomedievale, una del sec. XVII, in occasionedegli scavi archeologici che stiamo conducendo rispettiva-mente in località Villa Imperiale presso S. Potito di Ovindolie nelle adiacenze della abbazia suburbana di S. Maria diCollemaggio. Nel primo caso la calcara taglia il muro late-rale settentrionale della chiesa altomedievale che s’impo-stò sulla rasatura dei muri di una grandiosa villa romana(REDI 2001a, p. 316).

L’impianto della calcara sembra riferibile a una fase diabbandono della chiesa altomedievale e a una operazionedi spoliazione dei marmi e dei materiali calcarei della villaancora superstiti al fine di una consistente produzione dicalce per i restauri della chiesa stessa o per l’erezione delnon distante castello normanno di S. Potito.

Dalle stratigrafie della calcara risultano evidenti le traccedi un uso ripetuto, sebbene forse concentrato in un brevelasso di tempo.

Sono numerosi, infatti, i livelli di calcinazione nel suocontenuto pluristratificato.

L’altra calcara rinvenuta nel settembre 2002 con lo sca-vo all’esterno della basilica di Collemaggio, a nord dellaregione absidale, taglia il muro laterale settentrionale di unacappella trecentesca.

La calcara in questione è da mettere in relazione moltoprobabilmente con la vicina fossa per lo spegnimento dellecalce rinvenuta in aderenza con il muro ora detto e contestualecon un livello d’uso riferibile a quello dei pilastri di contro-scarpa realizzati per rinforzare i muri perimetrali dopo il sismadel 1703. La fossa risulta scavata nella sequenza, abbastanzaravvicinata, di strati di riporto successivi ad altrettanti livellid’uso dell’aula mononave con abside a semiottagono. Unospesso strato di calce bianca fodera le pareti e il fondo dellafossa che, dalla parte opposta alla parete della basilica, versonord, era delimitata da una porta a daghe di legno, di recupero,della quale rimane l’impronta nella calce spenta superstite enella parete di terra che essa era destinata a trattenere.

La documentazione archivistica relativa alle fornaci dacalce non manca di offrire dati e spunti interessanti.

Per la più rapida ed efficace realizzazione delle struttu-re abitative, ecclesiastiche e mercantili della città, di recen-te fondazione, gli Statuti, al cap. 297 De calcariis faciendis(CLEMENTI 1977, p. 196), prescrivono il numero delle cal-care che ciascuna comunità, chiamata a occupare e a edifi-care uno spazio cittadino detto Locale, è tenuta ad attuare.Tralasciando in questa sede il lungo elenco delle comunitàe delle rispettive calcare, il cui numero varia a seconda del-l’importanza del castello di origine e della sua quota di par-tecipazione nell’edificazione entro l’ambito urbano, risultasignificativo il totale.

Ben 38 sono la calcare prescritte dagli Statuti e dallepostille aggiunte agli stessi (CLEMENTI 1977, p. 334), il cuialto numero evidenzia eloquentemente il fervore ediliziocittadino nella prima metà del sec. XIV.

Con ricognizioni rivolte appositamente al censimento del-le strutture ancora individuabili, è stato possibile rinvenire strut-ture produttive che insistono, molto probabilmente, nel sitodelle originarie calcare trecentesche, come quella di Lucoli.

1.3 I laterizi

Oltre al già citato capitolo degli Statuti relativo alle abita-zioni di nuova costruzione, in altri cinque troviamo prescrizio-ni riguardanti la fabbricazione dei pinci. Nel cap. 311, Depincibus (CLEMENTI, 1977, p. 203), a proposito della loro for-ma, secondo l’esemplare custodito dal Camerario, risulta chela lunghezza era di due palmi di canna di nove palmi, mentrela larghezza all’imboccatura era la metà. Seguono il disegnodi un embrice e l’obbligo per i costruttori di pinci di tenerenella officina “cancellos”, cioè i telaietti, e la forma marchiaticol sigillo cittadino. In capitoli successivi, nn. 556, 557 (CLE-

MENTI 1977, p. 320), troviamo indicato che i pinci siano bencotti e stagionati; i prezzi fissati, a migliaio, sono 3 fiorini emezzo per la produzione cittadina, 4 fiorini per quella subur-bana, a Pile, 5 per il prodotto proveniente dalla Campania. Lepostille degli Statuti cittadini, cap. 592 (CLEMENTI 1977, p. 334),concedono ai produttori di realizzare pinci di forma maggiorerispetto a quella prescritta, ma non minore rispetto alle forme eai telaietti di legno, corrispondenti alla giusta misura, dei qua-li, con inchiostro diverso, sono raffigurate le immagini. Si di-stinguono i telaietti per tegole e per embrici e la forma di legnocon impugnatura per embrici insieme con il suo prodotto.

Nel sec. XIV, quindi, all’Aquila le coperture dei tetti inlaterizio (“pinci”) erano correnti e forse avevano soppian-tato l’uso di scandole di legno e di piaste di scisto. Manca-no, tuttavia, costruzioni che facciano uso di mattoni al difuori di modeste porzioni, per di più non originali della pri-ma fase costruttiva.

1.4 Fornaci o pinciare

La ricerca toponomastica e lo spoglio sistematico delprimo Catasto spagnolo, iniziato nel 1550 (Archivio di Sta-to dell’Aquila, Archivio Civico Aquilano, Catasti, T53/1-4), hanno consentito di localizzare aree urbane o del territo-rio nelle quali concentrare l’attenzione per la ricerca di strut-ture produttive di laterizi. Oltre che in città, immediatamen-te fuori della Porta a Bazzano, è stato possibile localizzarefornaci da laterizi a Coppito (ben due), al Ponte di Pile, a S.Vittorino di Amiterno. La ricognizione di superficie che èseguita ha consentito di rinvenire le struttura superstiti della“pinciara” di Porta a Bazzano e di una delle due di Coppito,alla periferia occidentale della città, ovviamente ambeduenella versione settecentesca.

Anche nell’ipogeo della chiesa di S. Giusta di Bazzano,alla periferia orientale dell’Aquila, permangono le strutture diuna fornace, ritenuta da alcuni, forse impropriamente, di etàromana. Nella Valle del Salto, a Corvara, sono ben conservatele strutture di un’altra fornace, del sec. XVIII-XIX, nella qualerimangono ancora numerosi telaietti e sagome per la produ-zione di manufatti diversi per forma e per misure.

1.5 Il legname

Come già detto, a causa della deperibilità di questo mate-riale, non rimangono testimonianze archeologiche di strutturedi legno eccetto quelle dei “gaifi”, nella versione dei rifaci-menti postmedievali, e quelle in funzione antisismica, databilial sec. XIII-XIV, delle quali parleremo nel capitolo successivo.

È da dire, tuttavia, che per questo tipo di materiale laricerca nel territorio, a oggi, è meno avanzata rispetto allapietra e ai laterizi.

2 – LE TECNICHE

2.1 La tecnica della pietra a secco

Assai numerose nel bacino aquilano, da un primo cen-simento macroscopico e da un approfondimento della ri-cerca nel territorio di Castel del Monte, risultano le costru-zioni di pietra a secco. Nel saggio che ne è derivato (REDI2001b, pp. 47-81), ho delineato una prima tipologia di que-ste costruzioni, estremamente elementari ma assai differen-ziate, che ho definito “senza tempo”, perché così antichenelle forme e nelle tecniche da apparire opere protostori-che, in realtà riferibili non anteriormente al XVII-XVIII secolo, almeno allo stato attuale. Oltre a vari tipi dimuri di terrazzamento o di delimitazione di spazi agricoli oa semplici accumuli, sono stati analizzati i numerosi trulli o“tholoi” monocamera, con falsa cupola troncoconica a“ecfora”, che costituivano il riparo stagionale per agricol-tori o pastori. Da questi ultimi era particolarmente praticatol’uso di “camere” o “locce” dal quale derivano numerositoponimi, come S. Pio delle Camere, Cammerata, Le came-

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re, Le logge, cioè piccole grotte scavate artificialmente nel-le pendici dei monti e concluse da muri a secco negli stipitie negli architravi dei pertugi di accesso.

2.2 Gli apparati murari

Alcune tesi di Laurea e gli scavi archeologici attivatinegli ultimi quattro anni hanno riguardato, tra l’altro, il cen-simento e l’atlante delle tecniche murarie nei castelli di Roc-ca Calascio, S. Vittorino di Amiterno, Ocre, e nei complessiecclesiastici di S. Maria di Luco dei Marsi, S. Maria dellaVittoria, S. Maria del Monte di Paganica, S. Paolo di Barete,S. Potito di Ovindoli.

Con gli studenti dell’insegnamento di “Materiali, tec-niche ed edilizia medievali” sono iniziati quest’anno il cen-simento e l’atlante delle tecniche murarie delle principalichiese della città e delle mura urbane medievali.

Eccetto lo studio delle murature a secco già ricordato,la ricerca in atto non è in grado di fornire per adesso risulta-ti complessivi sufficientemente definitivi; tuttavia alcuneconsiderazioni specifiche e comparative possono già da oraritenersi acquisite. Esse riguardano alcune varianti, non an-cora esattamente definibili cronologicamente, sia dell’“opusincertum”, sia dell’“opus aquilanum”, sia dell’“opusquadratum”.

In questa sede ci soffermeremo sulle ultime due tecniche.L’opus aquilanum è caratterizzato da piccole bozzette

di pietra calcarea, di forma poco allungata, squadrate e spia-nate ad angoli e piani irregolari con la mazzetta e/o la mar-tellina, ma anche più regolari con strumenti a punta.

La pezzatura non ha spiccate oscillazioni dimensionaliattorno a cm 16×10, tanto da giustificare l’origine estratti-va da cava-strati piuttosto che da banchi. Gli allettamentipresentano corsi tendenti all’orizzontale e alla isodomia,letti e giunti di malta evidenti, frequentemente eccedenti espatolati, con sporadiche tracce di stilatura arrotondata. Lemura della città, realizzate a partire dal 1349, presentanoalcune varianti di questa tecnica, come in genere i lati dellechiese cittadine, databili fra il terzo quarto del sec. XIII e lametà del XIV (ANTONINI 1999).

Alcune di queste presentano sequenze di fasi costrutti-ve realizzate con varianti dello stesso tipo di apparato. Lachiesa di S. Pietro a Coppito, ad esempio, nel lato meridio-nale mostra lievissime varianti di “opus aquilanum” abba-stanza regolare, con misurazioni che oscillano fra due estre-mi: cm 21×11 e cm 11×9, con zeppe verticali. Le due va-rietà di paramento murario principali risultano realizzate infasi di crescita legate a successive esigenze funzionali edevozionali piuttosto che a un progetto unitario. Le tre ab-sidi a semiottagono, impostate trasversalmente al nucleo ori-ginario risalente anteriormente al 1250 (ANTONINI 1999,pp. 31-51), in direzione nord-sud, sono realizzate con unbuon paramento in “opus quadratum”, spianato e sagomato

Fig. 1 – Una “loccia” sulle alture di Castel del Monte, riparo tipi-co in pietre a secco.

Fig. 2 – La calcara medievale di S. Potito di Ovindoli taglia i muridella villa romana e della chiesa altomedievale; da notare gli strati dicalcinazione che invadono anche il prefurnio, a sinistra.

Fig. 3 – La fossa per lo spegnimento della calce a fianco dellabasilica di Collemaggio; da notare i resti della porta riusata per losbatacchiamento del margine terroso della fossa.

con una certa approssimazione, come le principali chiesecittadine di fine XIII metà XIV secolo: S. Giusta, S. Silve-stro, S. Domenico, ecc.

Quanto all’“opus aquilanum” in esame, altre prove dellasua durata, con solo modeste varianti, si ricavano in parti-colare dall’analisi dei muri laterali di S. Giusta, di S. Silve-stro, di S. Maria di Collemaggio nei quali sono evidentilotti di crescita della stessa fase edilizia successivi, ma an-che fasi di intervento distanti cronologicamente.

È assai frequente l’uso di paramenti più accurati nellafase originale e meno regolari, perché realizzati con mate-riali di recupero e zeppe, anche di mattoni, successivamen-te ai crolli causati dalle frequenti scosse telluriche, che, apartire dal 1315, si succedettero con una certa frequenzanel 1349, 1461, 1557, ecc.

Alcune chiese, come S. Domenico, presentano zone oparti del basamento che utilizzano grossi conci squadrati espianati con una certa approssimazione, e apparecchiati insequenze suborizzontali discontinue, con zeppe di raccor-do e agganciature che fanno supporre il recupero da struttu-re precedenti la fondazione della città, o appartenenti allaprima fase costruttiva compresa fra il 1254 e il 1316, ri-mandando, quindi, l’introduzione dell’“opus aquilanum”agli anni della rifondazione angioina o a quelli successivial terremoto dal 1349.

Del resto, anche nella grancia cistercense di S. Maria delMonte di Paganica (Campo Imperatore) le strutture della faseoriginale della chiesa, databili anteriormente al 1220, sonorealizzate con un apparato piuttosto irregolare, che fa uso dipietre squadrate di ampie dimensioni e di pietre scarsamenteregolari nei contorni, in allettamenti di malta evidenti ed ec-cedenti a differenza del regolare apparato in “opus aquilanum”

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Fig. 4 – S. Maria del Monte di Paganica, rilievo del lato meridionale; si notano i diversi apparati murari delle due fasi costruttive (ril.Ilaria Trizio).

Fig. 4a-b – S. Maria del Monte di Paganica; campionatura delle tecniche costruttive (ril. Ilaria Trizio).

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Fig. 5 – Chiesa di S. Pietro a Coppito, particolare della tecnicamuraria.

e giunti più sottili impiegato nella soprelevazione trecente-sca della navata stessa (REDI 2001c, pp. 272-275).

L’opus quadratum, di varie dimensioni e di pezzaturaoscillante, anche fra cm 70×60 e 49×32 nelle absidi dellachiesa di S. Domenico e fra cm 60×32 e 44×28 nel lato,può presentare contorni meno precisi, come nel mastio diRocca Calascio, riferibile al primo periodo normanno, o untrattamento di alta e raffinata litotomia, come nella rico-struzione romanica della chiesa di S. Pietro ad Oratorio,illustre dipendenza del monastero di S. Vincenzo al Voltur-no risalente al sec. VIII, o nelle facciate e nelle absidi dinumerose chiese romaniche del territorio. Cito solo qual-che esempio assai noto come S. Maria di Bominaco, S. Mariain Valle Porclaneta, S. Pietro di Albe, ecc.

Anche le facciate, ormai trecentesche, delle principali chie-se cittadine presentano questo tipo di apparato nel quale è pres-soché costante l’uso della gradina, a dentatura più o meno fine.

Come eccezione conclusiva si pone l’arabesco geometri-co, in dicromia bianca e rosata, della facciata della basilica diCollemaggio, ormai quattrocentesca, probabilmente compre-sa fra il 1424 e il 1438 (ANTONINI 1999, pp. 191-192).

Sull’attribuzione della reintroduzione dell’”opusquadratum” nel Meridione per opera dei Normanni e per in-tervento dei monaci cistercensi esiste una copiosa bibliogra-fia (FIORANI 1996). Faccio notare, tuttavia, che l’unica chiesacittadina interamente realizzata con “opus quadratum” an-che nei lati è quella di S. Domenico, degli inizi del sec. XIV,di committenza angioina e dell’Ordine domenicano.

A noi interessa rilevare, inoltre, alcune eccezioni come ilmonastero di S. Spirito d’Ocre e la grancia di S. Maria delMonte di Paganica, databili dal 1222 e ambedue cistercensi,assolutamente prive dell’“opus quadratum” e costruite convarianti, cronologicamente differenziate, dell’“opus aquilanum”.

A proposito della distinzione fra queste due tecnichecostruttive è significativa una lettera di Carlo I d’Angiò,del 6 giugno 1278, relativa alla costruzione dell’abbaziaregia di S. Maria della Vittoria. In essa si legge che “…totumvero opus eccleise predicti monasterii de opere plano fierivolumus, exceptis cantonibus, fennestris, arteriis, arcubuset pileriis, que de opere inciso fieri faciatis» (EGIDI 1909-1910, pp. 278-280).

Si distingue nettamente fra una muratura ordinaria, abozzette squadrate con mazzetta e martellina e allettate incorsi sub-orizzontali, o a filaretto, con letti e giunti di maltaevidenti ed eccedenti, definita “opus planum”, e una tecni-ca più accurata, definita “opus incisum”, consistente in concipiù ampi e perfettamente riquadrati e spianati con subbia egradina o con polka e ascettino, disposti con scarsissimiletti e giunti di malta in corsi orizzontali e omogenei. Laprima tecnica, inoltre, chiaramente viene applicata ai muricontinui delle pareti, la seconda ai cantonali degli angoli,agli stipiti e agli archi delle finestre, alle “arterie”, forse daintendersi per lesene o semipilastri, cioè le innervature del-le pareti e delle volte, e alle ossature degli archi e dei pila-

stri. Il conseguente e immediato confronto con il dato ma-teriale superstite, per quanto ormai soltanto al livello di ru-dere, offre l’opportunità di ulteriori distinzioni. Ma primavorrei soffermare l’attenzione sulla significativa definizio-ne terminologica con la quale l’aggettivo “planum” benevidenzia la regolarità dell’apparato murario a pietre squa-drate e spianate, sia pure con una certa approssimazione,rispetto ai contorni e alle superfici irregolari dell’“opusincertum”, e l’aggettivo “incisum” sottolinea eloquentemen-te il livello di finitura superiore costituito dalla impeccabilee quasi tagliente rifilatura degli spigoli dei conci e dallaregolarissima spianatura delle superfici degli stessi, quasifossero intagliati, cioè “incisi”, con strumenti a lama o asgorbia, in una materia densa e compatta, ma poco resisten-te, anziché scalpellati a colpi di mazzuolo e scalpello in unapietra resistente, sebbene di relativamente facile lavorazio-ne, come il calcare marnoso locale.

A un’attenta osservazione dei paramenti murari supersti-ti, in effetti, risulta che l’“opus planum” dei muri continui èmolto più regolare di quello che ci aspetteremmo e impiegaconci di ampia pezzatura, squadrati e spianati a picconcelloe/o a subbia con buona precisione, mentre è semmai l’“opusincisum” che raggiunge livelli di trattamento degli spigoli edelle superfici, per mezzo di gradine e subbie o picconcellidi precisione e di piccole dimensioni, superiori alle aspettati-ve e di notevole efficacia tecnico-formale. Le osservazionirelative all’“opus planum” sono riscontrate simili nel para-mento esterno come in quello interno; quelle relative all’“opusincisum” sono evidenti nei frammenti erratici pertinenti asegmenti di ghiere di archi o di costoloni di volte o di stipitimistilinei di portali o di finestre.

2.3 Tecniche antisismiche

Di un altro particolare espediente costruttivo in funzio-ne antisismica sono state rinvenute e analizzate tecnicamentetestimonianze archeologiche in elevato. Si tratta di un sem-plice, ma razionale, presidio costituito da tralicciature dilegno inglobate a scomparsa nelle murature di pietra per lopiù a “opus incertum” o “aquilanum” nella variante più ru-stica.

Gli esemplari rinvenuti e analizzati sono costituiti dallafacciata della chiesa castellana di Ocre e dalla tribuna qua-drangolare della chiesa castellana di Rocca Calascio, am-bedue databili entro la metà del XIV secolo, ma più proba-bilmente verso la fine del XIII.

È interessante il rinvenimento dello stesso sistemaantisismico anche in alcune abitazioni civili esperibili a vi-sta nello stesso castello di Ocre, databili fra XIII e XIV se-colo, da noi analizzate puntualmente in occasione della ri-cerca archeologica iniziata nel settembre 2000 (REDI c.s.).

Una verifica archeologica comparativa mediante scavoè prevista nel prossimo triennio.

In attesa di una maggiore precisione cronologica vedia-mo in cosa consiste il presidio adottato.

Fig. 6 – Chiesa di S. Silvestro, particolare della tecnica muraria.

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Fig. 8a-b – Segni di cantiere in un concio dell’abbazia regia di S.Maria della Vittoria a Scurcola marsicana.

Una serie di travi di legno, spesse mediamente cm 15,squadrate o semplicemente scontornate ad ascia ma anchepressoché rotonde, sono disposte orizzontalmente, a un in-tervallo variabile, mediamente attestato intorno a cm 180,per tutta la lunghezza del muro fino agli angoli, nei qualis’incastrano o si sovrappongono a squadra, con l’ausilio dicavicchi di legno o di chiodi, con altrettante travi inseritenella muratura ortogonale dei lati dell’edificio.

Non si rilevano tracce, come invece ci aspetteremmo, diraccordi verticali o a traliccio fra livelli orizzontali successivi.

È prevista una campionatura delle essenze lignee, main particolare una raccolta di dati utili per l’impianto di unacurva dendro-cronologica.

3. CANTIERI EDILI E PRATICHE DI CANTIERE

Uno degli obiettivi principali che ci siamo posti con loscavo di S. Maria della Vittoria è quello di reperire testimo-nianze archeologiche della contrastata vicenda del suo can-tiere edile, ben documentata dai registri angioini, purtrop-po pervenuti soltanto nei regesti sopravvissuti all’incendiodegli Archivi di Napoli (EGIDI 1919-1910; PESCE 1988, pp.55-59; FALLOCCO 2000, pp. 44-54).

Quando nel 1273 Carlo I d’Angiò deliberava di dar vita algrandioso monumento che avrebbe dovuto celebrare la suavittoria su Corradino di Svevia, vennero chiamati, come è noto,architetti e supervisori angioini appartenenti al monastero ci-stercense di Le Loroux in Francia, in particolare Pierre deChaule, Simone d’Angart e Henri d’Asson, ma anche monaciitaliani, di fiducia del re, come Pietro de Oratorio, fra’ Giovanni,fra’ Giacomo, Pietro de Carrelli e l’abate di Casanova.

Le fondamenta vennero gettate nel marzo 1274 e appe-na dopo tre anni, nel luglio 1277 le strutture già realizzateerano in grado di ospitare stabilmente 20 monaci e 10 con-versi, provenienti dalle abbazie cistercensi di Le Loroux edi Citeaux, che di fatto risiedettero in S. Maria della Vitto-ria dal gennaio 1278.

È da ritenere, pertanto, che a quella data fossero utiliz-zabili almeno la regione orientale della chiesa, con gli altarie il presbiterio, e il monastero nelle sue strutture essenzialiper dare ricetto ai monaci.

Il 12 maggio 1278, alla presenza dello stesso Carlod’Angiò, avveniva la solenne consacrazione delle strutturedella chiesa fino allora edificate.

Ma i lavori erano ancora lontani dal compimento, tantoè vero che nel giugno dello stesso anno il re dava disposi-zioni di come intendeva venisse realizzato l’apparato mu-rario e nel 1280 prescriveva che fossero impostate le arma-ture delle volte. Al refettorio mancavano soltanto porte, fi-nestre e mense di legno.

L’impulso maggiore all’attività di cantiere è documen-tato fra l’aprile e il settembre 1281, quando risultano pre-senti 450 operatori e circa 350 animali da soma e da tiro.

Alla fine del 1281 mancavano da compiere soltanto la co-pertura e gli infissi delle finestre del dormitorio dei monaci.

La costruzione della chiesa sembra che fosse ultimata,poiché nel 1282 sono documentati i pagamenti degli stallilignei del coro dei monaci e di quello dei conversi, dellostagno e dei vetri multicolori impiegati per le finestre dellachiesa e del refettorio, oltre che delle tegole per le copertu-re e delle volte del monastero.

A conclusione del cantiere troviamo il pagamento deltrasporto della campana dalla chiesa dei frati Minori diAmatrice alla nostra di Scurcola.

Non sembra probabile, quindi, l’ipotesi dell’Egidi che ilavori possano essere rimasti incompiuti esistendo preven-tivi di spesa per l’inverno 1282-1283 rimasti insoluti. È pro-babile che rimanessero da compiere soltanto spese per l’ar-redo e rifiniture.

Da una lettera del 27 marzo 1281 risultano le specia-lizzazioni professionali dei lavoranti nel cantiere e il loronumero: 45 “scappatores”, cioè forse cavatori o diroz-zatori di pietre, 40 “incisores”, cioè lapicidi o finitori diconci, 27 “spuntatores”, cioè forse spianatori di conci osagomatori, 40 “macconnerii”, cioè muratori, 3 “prepa-ratori”, cioè probabilmente addetti alla selezione dei con-ci già realizzati e al loro ordinamento in corsi di ugualealtezza e in sequenza con cantonali o con altri elementida comporre in successione (cunei di archi, elementi divolte, di portali, di pilastri, di altre nervature), 8 “car-pentieri” per armature e impalcature di legno, 4 “fabbri”per ferramenta di travature o infissi e per l’appuntaturadegli scalpelli usurati, 8 “carrettieri” per trasporti vari,30 “conduttori di buoi” per il trasporto dei blocchi dipietra dalle cave, 253 “manupuli”, cioè manovali. Inte-ressanti per comprendere l’articolazione del cantiere sonoi rapporti numerici fra i diversi operatori. Quasi parita-rio risulta il numero di muratori, scappatori, incisori, dicirca 1/3 superiore a quello degli spuntatori e dei con-duttori di buoi; ma la quantità, direi, esponenziale, oltre

Fig. 7 – Il sistema antisismico a tralicciatura di legno nella mura-tura della chiesa trecentesca di Rocca Calascio.

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sei volte superiore a quella dei muratori, è rappresentatadai manovali addetti a compiti diversi.

Lo scavo archeologico degli anni 2000-2002 all’inter-no della navata meridionale, nelle prime due campate a par-tire dalla facciata, ha restituito indicazioni stratigrafiche sulleprocedure di costruzione di questa parte della chiesa dallascavo delle fondazioni all’elevazione dei muri.

I dati che emergono riguardo alla fondazione dell’edificiomostrano che le operazioni preliminari all’impianto dei murinon si limitarono allo scavo delle fosse, in cavo libero, bensìanche a uno sbancamento del terreno all’interno della chiesaper oltre m 1,50 dallo spiccato delle riseghe superiori, allo scopodi predisporre un invaso in cui riversare le scorie di lavorazio-ne dei conci. Esse, insieme con malta magra, avevano la fun-zione di formare una platea pavimentale, compatta perché bencostipata e omogenea, capace di staccare la pavimentazionedalla risalita dell’umidità e di saldare le fosse di fondazione siadei muri perimetrali, sia dei pilastri, sia dei setti di collega-mento tracciati a graticola. Le fondazioni dei muri e dei pila-stri sono realizzate in tre passaggi tecnici successivi:a) fossa con gettata di malta tenace e grossi scapoli in essacostipati, collegamenti a graticola per mezzo di setti murarirealizzati allo stesso modo e complanari, riempimento degliinvasi intermedi e copertura della prima risega mediante pla-tea di scapoli minuti, malta magra e brecciolino con terra rossa;b) spiccato dei muri e dei pilastri con paramento in “opusplanum” e secondo riempimento, di terra e pietrisco, nelquale sono alloggiate le sepolture;c) copertura con strato di malta di calce farinosa e massettopavimentale in corrispondenza dello spiccato dei muri.

Nell’area di scavo, sbancata dalla Soprintendenza aiBAP dell’Abruzzo precedentemente al nostro interventostratigrafico, non rimangono tracce delle buche di palo deiponteggi per l’elevazione dei muri.

Sul piano superiore dei conci che compongono leinnervature a semipilastro del muro perimetrale meridiona-le e di alcuni erratici che ne proseguivano, a forma di semi-colonna, l’ordito in elevato, rimangono particolari segni diguida, riferibili alla fase di cantiere, consistenti in croci o intriangoli, ma anche in tracciati lineari, a doppio solco pa-rallelo, realizzati con strumento a punta sottile guidato daun righello a stecca. Questi segni sono indicativi dell’alli-neamento di separazione fra la parte dell’elemento destina-ta a essere immorsata nel sodo murario dei perimetrali del-l’edificio e la parte programmata in aggetto rispetto a essi.

In particolare la faccia superiore di uno dei conci costi-tutivi del perimetrale meridionale, destinata a essere rico-perta dal concio superiore, reca significativi, e in parte enig-matici, segni di cantiere interpretabili probabilmente cometracciati di progettazione della trilobatura delle polifore darealizzare nei perimetrali stessi. Come negli esemplari giàricordati, le linee, a doppio solco parallelo, sono realizzatea mano libera con uno strumento a punta sottile.

Il motivo graffito raffigura un arco ogivale, in posizio-ne centrale rispetto a un arco di raccordo esterno a piencentro, affiancato a sinistra da un altro arco ogivale di mi-nore ampiezza, a destra da un arco rampante che forma conquello centrale il tipico motivo a tre lobi. A destra, un altroarco ogivale a forma di scudetto perché capovolto rispettoai precedenti, interseca l’arco rampante. Non è accertabilese possa trattarsi, come riterrei, dello schizzo di progettodella vetrata, o del calcolo di una ripartizione geometrica.

L’ogiva include, infatti, tre circoli: tangenti i due infe-riori, secante quello superiore, scompartiti diversamente: aquadrati quello inferiore sinistro, a triangolo capovolto quel-lo inferiore destro; quello superiore sembra non conservaresegni di partizione.

Altri segni particolari di cantiere abbiamo rinvenuto nelportale rinascimentale del monastero di S. Maria a Luco deiMarsi, nel quale dal 1999 stiamo effettuando uno scavo stra-tigrafico. Si tratta di particolari chiavi di riferimento per la

messa in opera dei segmenti d’arco componenti il fornice diaccesso agli ambienti monastici. I segni incisi su ciascun ele-mento sono rappresentati dalle sigle SI, SII, SIII, S4, S5, S6,nella metà a destra e DI, DII, …, …, …, nella metà a sinistra,oltre al cuneo di chiave, apparentemente privo di incisioniben leggibili. La posizione dei cunei segnati con la S e diquelli segnati con la D, apparentemente invertita secondo lalogica dell’osservatore, evidenzia che il riferimento all’assedi simmetria non riguarda la destra o la sinistra del portale, odi chi guarda, bensì la direzione della curvatura dei singolielementi dell’arco: a destra, infatti, sono situati quelli che sivolgono a sinistra, e viceversa.

La progressione numerica inoltre, procede dalle imposteverso la chiave dell’arco. I piedritti delle imposte, tuttavia, re-cano la sigla S VI quella di destra, è abrasa quella di sinistra.

Un altro cantiere che abbiamo iniziato a indagare è quellodi S. Maria di Collemaggio, riguardo al quale esistono docu-menti di riferimento, ma anche un complesso dibattito legatoalla presenza dei Templari e a misteriose coincidenze esoteriche.

Lo scavo, finora limitato all’esterno della zona absida-le, nel versante settentrionale, oltre alle tardive tracce dicantiere già dette (calcara e fossa per lo spegnimento dellacalce settecentesche) non ha fornito, per adesso, risposteparticolarmente risolutive.

Anche dai primi risultati dello scavo condotto negli ulti-mi due anni entro l’ex monastero di S. Domenico in L’Aqui-la non emergono dati di rilievo su particolari pratiche di can-tiere, né sono state individuate tracce di strutture corrispon-denti alla presunta presenza di un palazzo costruito per vole-re di Carlo d’Angiò come sua residenza cittadina anterior-mente alla edificazione del monastero domenicano.

Ma la ricerca archeologica non è ancora terminata.

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