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Letteratura italiana Einaudi Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga

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Letteratura italiana Einaudi

Mastro-don

Gesualdo

di Giovanni Verga

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Edizione di riferimento:Mondadori, Milano 1973

Letteratura italiana Einaudi

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Parte prima 1I 2II 13III 30IV 58V 79VI 97VII 115Parte seconda 138I 139II 159III 173IV 188V 206Parte terza 225I 226II 244III 259IV 273Parte quarta 290I 291II 308III 321IV 332V 355

Sommario

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1Letteratura italiana Einaudi

PARTE PRIMA

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

I

Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il pae-setto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto datre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezzagamba. Tutt’a un tratto, nel silenzio, s’udì un rovinìo, lacampanella squillante di Sant’Agata che chiamava aiuto,usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuo-ri in camicia, gridando:

– Terremoto! San Gregorio Magno!Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera

dell’Alìa, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e piùa sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone bassoche tagliava l’alba nel lungo altipiano del Paradiso. Pertutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre dicani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono gravedel campanone di San Giovanni che dava l’allarme an-ch’esso; poi la campana fessa di San Vito; l’altra dellachiesa madre, più lontano; quella di Sant’Agata che par-ve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzet-ta. Una dopo l’altra s’erano svegliate pure le campanelledei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano,Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva suitetti spaventato, nelle tenebre.

– No! no! E’ il fuoco!… Fuoco in casa Trao!… SanGiovanni Battista!

Gli uomini accorrevano vociando, colle brache in ma-no. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto ilpaese, sulla collina, che formicolava di lumi, come fosseil giovedì sera, quando suonano le due ore di notte: unacosa da far rizzare i capelli in testa, chi avesse visto dalontano.

– Don Diego! Don Ferdinando! – si udiva chiamarein fondo alla piazzetta; e uno che bussava al portone conun sasso.

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Dalla salita verso la Piazza Grande, e dagli altri vico-letti, arrivava sempre gente: un calpestìo continuo discarponi grossi sull’acciottolato; di tanto in tanto un no-me gridato da lontano; e insieme quel bussare insistenteal portone in fondo alla piazzetta di Sant’Agata, e quellavoce che chiamava:

– Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti mor-ti?

Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sden-tato, si vedevano salire infatti, nell’alba che cominciava aschiarire, globi di fumo denso, a ondate, sparsi di faville.E pioveva dall’alto un riverbero rossastro, che accende-va le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portonesconquassato, col naso in aria. Tutt’a un tratto si udìsbatacchiare una finestra, e una vocetta stridula che gri-dava di lassù:

– Aiuto!… ladri!… Cristiani, aiuto!– Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Aprite, don Ferdi-

nando!– Diego! Diego!Dietro alla faccia stralunata di don Ferdinando Trao

apparve allora alla finestra il berretto da notte sudicio e icapelli grigi svolazzanti di don Diego. Si udì la voce rau-ca del tisico che strillava anch’esso:

– Aiuto!… Abbiamo i ladri in casa! Aiuto!– Ma che ladri!… Cosa verrebbero a fare lassù? –

sghignazzò uno nella folla.– Bianca! Bianca! Aiuto! aiuto!Giunse in quel punto trafelato Nanni l’Orbo, giuran-

do d’averli visti lui i ladri, in casa Trao.– Con questi occhi!… Uno che voleva scappare dalla

finestra di donna Bianca, e s’è cacciato dentro un’altravolta, al vedere accorrer gente!…

– Brucia il palazzo, capite? Se ne va in fiamme tutto ilquartiere! Ci ho accanto la mia casa, perdio! – Si mise avociare mastro-don Gesualdo Motta. Gli altri intanto,

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spingendo, facendo leva al portone, riuscirono a pene-trare nel cortile, ad uno ad uno, coll’erba sino a mezzagamba, vociando, schiamazzando, armati di secchie, dibrocche piene d’acqua; compare Cosimo colla scure dafar legna; don Luca il sagrestano che voleva dar di manoalle campane un’altra volta, per chiamare all’armi; Pela-gatti così com’era corso, al primo allarme, col pistolonearrugginito ch’era andato a scavar di sotto allo strame.

Dal cortile non si vedeva ancora il fuoco. Soltanto, ditratto in tratto, come spirava il maestrale, passavano aldi sopra delle gronde ondate di fumo, che si sperdevanodietro il muro a secco del giardinetto, fra i rami dei man-dorli in fiore. Sotto la tettoia cadente erano accatastatedelle fascine; e in fondo, ritta contro la casa del vicinoMotta, dell’altra legna grossa: assi d’impalcati, corrento-ni fradici, una trave di palmento che non si era mai po-tuta vendere.

– Peggio dell’esca, vedete! – sbraitava mastro-donGesualdo. – Roba da fare andare in aria tutto il quartie-re!… santo e santissimo!… E me la mettono poi controil mio muro; perché loro non hanno nulla da perdere,santo e santissimo!…

In cima alla scala, don Ferdinando, infagottato in unavecchia palandrana, con un fazzolettaccio legato in te-sta, la barba lunga di otto giorni, gli occhi grigiastri estralunati, che sembravano quelli di un pazzo in quellafaccia incartapecorita di asmatico, ripeteva comeun’anatra:

– Di qua! di qua!Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che tra-

ballava. Una vera bicocca quella casa: i muri rotti, scalci-nati, corrosi; delle fenditure che scendevano dal corni-cione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lostemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrug-ginito, al di sopra della porta. Mastro-don Gesualdo vo-leva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna ac-catastata nel cortile.

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– Ci vorrà un mese! – rispose Pelagatti il quale stava aguardare sbadigliando, col pistolone in mano.

– Santo e santissimo! Contro il mio muro è accatasta-ta!… Volete sentirla, sì o no?

Giacalone diceva piuttosto di abbattere la tettoia;don Luca il sagrestano assicurò che pel momento nonc’era pericolo: una torre di Babele!

Erano accorsi anche altri vicini. Santo Motta collemani in tasca, il faccione gioviale e la barzelletta semprepronta. Speranza, sua sorella, verde dalla bile, strizzan-do il seno vizzo in bocca al lattante, sputando velenocontro i Trao: – Signori miei… guardate un po’!… Ciabbiamo i magazzini qui accanto! – E se la prendeva an-che con suo marito Burgio, ch’era lì in maniche di cami-cia: – Voi non dite nulla! State lì come un allocco! Cosasiete venuto a fare dunque?

Mastro-don Gesualdo si slanciò il primo urlando super la scala. Gli altri dietro come tanti leoni per gli stan-zoni scuri e vuoti. A ogni passo un esercito di topi chespaventavano la gente. – Badate! badate! Ora sta per ro-vinare il solaio! – Nanni l’Orbo che ce l’aveva semprecon quello della finestra, vociando ogni volta: – Eccolo!eccolo! – E nella biblioteca, la quale cascava a pezzi, fu aun pelo d’ammazzare il sagrestano col pistolone di Pela-gatti. Si udiva sempre nel buio la voce chioccia di donFerdinando il quale chiamava: – Bianca! Bianca! – Edon Diego che bussava e tempestava dietro un uscio,fermando pel vestito ognuno che passava strillando an-che lui: – Bianca! mia sorella!…

– Che scherzate? – rispose mastro-don Gesualdo ros-so come un pomodoro, liberandosi con una strappata. –Ci ho la mia casa accanto, capite: Se ne va in fiamme tut-to il quartiere!

Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato;donne che portavano acqua; ragazzi che si rincorrevanoschiamazzando in mezzo a quella confusione, come fos-

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se una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta,strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancoradalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti, vociandoper udir l’eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in ariaad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di fami-glia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranaregli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va evieni che faceva ballare il pavimento.

– Ecco! ecco! Or ora rovina il tetto! – sghignazzavaSanto Motta, sgambettando in mezzo all’acqua: dellepozze d’acqua ad ogni passo, fra i mattoni smossi omancanti. Don Diego e don Ferdinando, spinti, sbalor-diti, travolti in mezzo alla folla che rovistava in ogni can-tuccio la miseria della loro casa, continuando a strillare:– Bianca!… Mia sorella!…

– Avete il fuoco in casa, capite! – gridò loro nell’orec-chio Santo Motta. – Sarà una bella luminaria con tuttaquesta roba vecchia!

– Per di qua, per di qua! – si udì una voce dal vicolet-to. – Il fuoco è lassù, in cucina…

Mastro Nunzio, il padre di Gesualdo, arrampicatosisu di una scala a piuoli, faceva dei gesti in aria, dal tettodella sua casa, lì dirimpetto. Giacalone aveva attaccatauna carrucola alla ringhiera del balcone per attinger ac-qua dalla cisterna dei Motta. Mastro Cosimo, il le-gnaiuolo, salito sulla gronda, dava furiosi colpi di scuresull’abbaino.

– No! no! – gridarono di sotto. – Se date aria al fuo-co, in un momento se ne va tutto il palazzo!

Don Diego allora si picchiò un colpo in fronte, bal-bettando: – Le carte di famiglia! Le carte della lite! – Edon Ferdinando scappò via correndo, colle mani nei ca-pelli, vociando anche lui.

Dalle finestre, dal balcone, come spirava il vento, en-travano a ondate vortici di fumo denso, che facevanotossire don Diego, mentre continuava a chiamare dietrol’uscio: – Bianca! Bianca! il fuoco!…

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Mastro-don Gesualdo il quale si era slanciato furi-bondo su per la scaletta della cucina, tornò indietro ac-cecato dal fumo, pallido come un morto, cogli occhifuori dell’orbita, mezzo soffocato:

– Santo e santissimo!… Non si può da questa par-te!… Sono rovinato!

Gli altri vociavano tutti in una volta, ciascuno dicen-do la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù letegole! – Appoggiate la scala al fumaiuolo! – MastroNunzio, in piedi sul tetto della sua casa, si dimenava alpari di un ossesso. Don Luca, il sagrestano, era corsodavvero ad attaccarsi alle campane. La gente in piazza,fitta come le mosche. Dal corridoio riuscì a farsi udirecomare Speranza, che era rauca dal gridare strappando ivestiti di dosso alla gente per farsi largo, colle unghiesfoderate come una gatta e la schiuma alla bocca: – Dal-la scala ch’è laggiù, in fondo al corridoio! – Tutti corse-ro da quella parte, lasciando don Diego che seguitava achiamare dietro l’uscio della sorella: – Bianca! Bian-ca!… – Udivasi un tramestìo dietro quell’uscio; un cor-rere all’impazzata quasi di gente che ha persa la testa.Poi il rumore di una seggiola rovesciata. Nanni l’Orbotornò a gridare in fondo al corridoio: – Eccolo! eccolo!– E si udì lo scoppio del pistolone di Pelagatti, comeuna cannonata.

– La Giustizia! Ecco qua gli sbirri! – vociò dal cortileSanto Motta.

Allora si aprì l’uscio all’improvviso, e apparve donnaBianca, discinta, pallida come una morta, annaspandocolle mani convulse, senza profferire parola, fissando sulfratello gli occhi pazzi di terrore e d’angoscia. Ad untratto si piegò sulle ginocchia, aggrappandosi allo stipi-te, balbettando:

– Ammazzatemi, don Diego!… Ammazzatemi pu-re!… ma non lasciate entrare nessuno qui!…

Quello che accadde poi, dietro quell’uscio che don

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Diego aveva chiuso di nuovo spingendo nella camerettala sorella, nessuno lo seppe mai. Si udì soltanto la vocedi lui, una voce d’angoscia disperata, che balbettava: –Voi?… Voi qui?…

Accorrevano il signor Capitano, l’Avvocato fiscale,tutta la Giustizia. Don Liccio Papa, il caposbirro, gri-dando da lontano, brandendo la sciaboletta sguainata: –Aspetta! aspetta! Ferma! ferma! – E il signor Capitanodietro di lui, trafelato come don Liccio, cacciando avan-ti il bastone: – Largo! largo! Date passo alla Giustizia! –L’Avvocato fiscale ordinò di buttare a terra l’uscio. –Don Diego! Donna Bianca! Aprite! Cosa vi è successo?

S’affacciò don Diego, invecchiato di dieci anni in unminuto, allibito, stralunato, con una visione spaventosain fondo alle pupille grige, con un sudore freddo sullafronte, la voce strozzata da un dolore immenso:

– Nulla!… Mia sorella!… Lo spavento!… Non entra-te nessuno!…

Pelagatti inferocito contro Nanni l’Orbo: – Bel lavoromi faceva fare!… Un altro po’ ammazzavo compareSanto!… – Il Capitano gli fece lui pure una bella lavatadi capo: – Con le armi da fuoco!… Che scherzate?…Siete una bestia! – Signor Capitano, credevo che fosse illadro, laggiù al buio… L’ho visto con questi occhi! –Zitto! zitto, ubbriacone! – gli diede sulla voce l’Avvoca-to fiscale. – Piuttosto andiamo a vedere il fuoco.

Adesso dal corridoio, dalla scala dell’orto, tutti porta-vano acqua. Compare Cosimo era salito sul tetto, e davacon la scure sui travicelli. Da ogni parte facevano piove-re sul soffitto che fumava, tegole, sassi, cocci di stoviglie.Burgio, sulla scala a piuoli, sparandovi schioppettate so-pra, e dall’altro lato Pelagatti, appostato accanto al fu-maiuolo, caricava e scaricava il pistolone senza miseri-cordia. Don Luca che suonava a tutto andare lecampane; la folla dalla piazza vociando e gesticolando;tutti i vicini alla finestra. I Margarone stavano a vedere

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dalla terrazza al di sopra dei tetti, dirimpetto, le figliuoleancora coi riccioli incartati, don Filippo che dava consi-gli da lontano, dirigendo le operazioni di quelli che lavo-ravano a spegnere l’incendio colla canna d’India.

Don Ferdinando, il quale tornava in quel momentocarico di scartafacci, batté il naso nel corridoio buiocontro Giacalone che andava correndo.

– Scusate, don Ferdinando. Vado a chiamare il medi-co per la sorella di vossignoria.

– Il dottor Tavuso! – gli gridò dietro la zia Macrì unaparente povera come loro, ch’era accorsa per la prima. –Qui vicino, alla farmacia di Bomma.

Bianca era stata presa dalle convulsioni: un attaccoterribile; non bastavano in quattro a trattenerla sul let-tuccio. Don Diego sconvolto anche lui, pallido come uncadavere, colle mani scarne e tremanti, cercava di ricac-ciare indietro tutta quella gente. – No!… non è nulla!…Lasciatela sola!…– Il Capitano si mise infine a far piove-re legnate a diritta e a manca, come veniva, sui vicini ches’affollavano all’uscio curiosi. – Che guardate? Che vole-te? Via di qua! fannulloni! vagabondi! Voi, don LiccioPapa, mettetevi a guardia del portone.

Venne più tardi un momento il barone Mèndola, perconvenienza, e donna Sarina Cirmena che ficcava il nasoda per tutto; il canonico Lupi da parte della baronessaRubiera. La zia Sganci e gli altri parenti mandarono ilservitore a prender notizie della nipote. Don Diego, reg-gendosi appena sulle gambe, sporgeva il capo dall’uscio,e rispondeva a ciascheduno:

– Sta un po’ meglio… E’ più calma!… Vuol esser la-sciata sola…

– Eh! eh! – mormorò il canonico scuotendo il capo eguardando in giro le pareti squallide della sala: – Mirammento qui!… Dove è andata la ricchezza di casaTrao!…

Il barone scosse il capo anche lui, lisciandosi il mento

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ispido di barba dura colla mano pelosa. La zia Cirmenascappò a dire:

– Sono pazzi! Pazzi da legare tutti e due! Don Ferdi-nando già è stato sempre uno stupido… e don Diego…vi rammentate! Quando la cugina Sganci gli aveva pro-curato quell’impiego nei mulini!… Nossignore!… unTrao non poteva vivere di salario!… Di limosina sì, pos-sono vivere!…

– Oh! oh! – interruppe il canonico, colla malizia chegli rideva negli occhietti di topo, ma stringendo le lab-bra sottili.

– Sissignore!… Come volete chiamarla: Tutti i paren-ti si danno la voce per quello che devono mandare a Pa-squa e a Natale… Vino, olio, formaggio… anche delgrano… La ragazza già è tutta vestita dei regali della ziaRubiera.

– Eh! eh!… – Il canonico, con un sorrisetto incredu-lo, andava stuzzicando ora donna Sarina ed ora il baro-ne, il quale chinava il capo, seguitava a grattarsi il mentodiscretamente, fingeva di guardare anch’esso di qua e dilà, come a dire: – Eh! eh! pare anche a me!…

Giunse in quel mentre il dottor Tavuso in fretta, colcappello in capo, senza salutar nessuno, ed entrò nellacamera dell’inferma.

Poco dopo tornò ad uscire, stringendosi nelle spalle,gonfiando le gote, accompagnato da don Ferdinando al-lampanato che pareva un cucco. La zia Macrì e il cano-nico Lupi corsero dietro al medico. La zia Cirmena chevoleva sapere ogni cosa e vi piantava in faccia quei suoiocchialoni rotondi peggio dell’Avvocato fiscale.

– Eh? Cos’è stato? Lo sapete voi? Adesso si chiamanonervi… malattia di moda… Vi mandano a chiamare perun nulla quasi potessero pagare le visite del medico! –rispose Tavuso burbero. Quindi, piantando anche lui gliocchiali in faccia a donna Sarina:

– Volete che ve la dica? Le ragazze a certa età bisognamaritarle!

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E voltò le spalle soffiando gravemente, tossendo,spurgandosi. I parenti si guardarono in faccia. Il canoni-co, per discrezione, prese a tenere a bada il barone Mèn-dola, dandogli chiacchiera e tabacco, sputacchiando diqua e di là, onde cercare di sbirciar quello che succede-va dietro l’uscio socchiuso di donna Bianca, stringendole labbra riarse come inghiottisse ogni momento: – Si ca-pisce!… La paura avuta!… Le avevano fatto credered’avere i ladri in casa!… povera donna Bianca!… E’ co-sì giovine!… così delicata!…

– Sentite, cugina! – disse donna Sarina tirando in di-sparte la Macrì. Don Ferdinando, sciocco, voleva acco-starsi per udire lui pure: – Un momento! Che maniera!– lo sgridò la zia Cirmena. – Ho da dire una parola a vo-stra zia!… Piuttosto andate a pigliare un bicchiere d’ac-qua per Bianca, che le farà bene…

Tornò a scendere Santo Motta di lassù, fregandosi lemani, coll’aria sorridente: – E’ tutta rovinata la cucina!Non c’è più dove cuocere un uovo!… Bisognerà fabbri-carla di nuovo! – Come nessuno gli dava retta, fissava involto or questo ed ora quello col suo sorriso sciocco.

Il canonico Lupi, per levarselo dai piedi, gli disse infi-ne:

– Va bene, va bene. Poi ci si penserà…Il barone Mèndola, appena Santo Motta volse le spal-

le, si sfogò infine:– Ci si penserà?… Se ci saranno i denari per pensarci!

Io gliel’ho sempre detto… Vendete metà di casa, cuginicari… anche una o due camere… tanto da tirare innan-zi!… Ma nossignore!.. Vendere la casa dei Trao?…Piuttosto, ogni stanza che rovina chiudono l’uscio e si ri-ducono in quelle che restano in piedi… Così farannoper la cucina… Faranno cuocere le uova qui in sala,quando le avranno… Vendere una o due camere:…Nossignore… non si può, anche volendo… La cameradell’archivio: e ci son le carte di famiglia!… Quella della

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processione: e non ci sarà poi dove affacciarsi quandopassa il Corpus Domini!… Quella del cucù:… Ci hannoanche la camera pel cucù, capite!

E il barone, con quella sfuriata, li piantò tutti lì, che sisganasciavano dalle risa.

Donna Sarina, prima d’andarsene, picchiò di nuovoall’uscio della nipote, per sapere come stava. Fece capo-lino don Diego, sempre con quella faccia di cartapesta, eripeté:

– Meglio… E’ più calma!… Vuol esser lasciata sola…– Povero Diego! – sospirò la zia Macrì. – La Cirmena

fece ancora alcuni passi nell’anticamera, perché nonudisse don Ferdinando il quale veniva a chiuder l’uscio,e soggiunse sottovoce:

– Lo sapevo da un pezzo… Vi rammentate la seradell’Immacolata, che cadde tanta neve?… Vidi passareil baronello Rubiera dal vicoletto qui a due passi… inta-barrato come un ladro…

Il canonico Lupi attraversò il cortile, rialzando la sot-tana sugli stivaloni grossi in mezzo alle erbacce, si voltòindietro verso la casa smantellata, per veder se potesseroudirlo, e poi, dinanzi al portone, guardando inquieto diqua e di là, conchiuse:

– Avete udito il dottore Tavuso? Possiamo parlareperché siamo tutti amici intimi e parenti… A certa età leragazze bisogna maritarle!

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II

Nella piazza, come videro passare don Diego Trao colcappello bisunto e la palandrana delle grandi occasioni,fu un avvenimento: – Ci volle il fuoco a farvi uscir di ca-sa! – Il cugino Zacco voleva anche condurlo al Caffè deiNobili: – Narrateci, dite come fu… – Il poveraccio sischermì alla meglio; per altro non era socio: poveri sì,ma i Trao non s’erano mai cavato il cappello a nessuno.Fece il giro lungo onde evitare la farmacia di Bomma,dove il dottor Tavuso sedeva in cattedra tutto il giorno;ma nel salire pel Condotto, rasente al muro, inciampò inquella linguaccia di Ciolla, ch’era sempre in cerca discandali:

– Buon vento, buon vento, don Diego! Andate da vo-stra cugina Rubiera?

Lui si fece rosso. Sembrava che tutti gli leggessero inviso il suo segreto! Si voltò ancora indietro esitante,guardingo, prima d’entrare nel vicoletto, temendo cheCiolla stesse a spiarlo. Per fortuna colui s’era fermato adiscorrere col canonico Lupi, facendo di gran risate, allequali il canonico rispondeva atteggiando la bocca al risoanche lui, discretamente.

La baronessa Rubiera faceva vagliare del grano. DonDiego la vide passando davanti la porta del magazzino,in mezzo a una nuvola di pula, con le braccia nude, lagonnella di cotone rialzata sul fianco, i capelli impolve-rati, malgrado il fazzoletto che s’era tirato giù sul naso amo’ di tettino. Essa stava litigando con quel ladro delsensale Pirtuso, che le voleva rubare il suo farro pagan-dolo due tarì meno a salma, accesa in volto, gesticolandocon le braccia pelose, il ventre che le ballava: – Non neavete coscienza, giudeo?… – Poi, come vide don Diego,si voltò sorridente:

– Vi saluto, cugino Trao. Cosa andate facendo daqueste parti?

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– Veniva appunto, signora cugina… – e don Diego,soffocato dalla polvere, si mise a tossire.

– Scostatevi, scostatevi! Via di qua, cugino. Voi nonci siete avvezzo – interruppe la baronessa. – Vedete cosami tocca a fare? Ma che faccia avete, gesummaria! Lospavento di questa notte, eh?…

Dalla botola, in cima alla scaletta di legno, si affaccia-rono due scarpacce, delle grosse calze turchine, e si udìuna bella voce di giovanetta la quale disse:

– Signora baronessa, eccoli qua.– E’ tornato il baronello?– Sento Marchese che abbaia laggiù.– Va bene, adesso vengo. Dunque, pel farro cosa fac-

ciamo, mastro Lio?Pirtuso era rimasto accoccolato sul moggio, tranquil-

lamente, come a dire che non gliene importava del farro,guardando sbadatamente qua e là le cose strane chec’erano nel magazzino vasto quanto una chiesa. Una vol-ta, al tempo dello splendore dei Rubiera, c’era stato an-che il teatro. Si vedeva tuttora l’arco dipinto a donnenude e a colonnati come una cappella; il gran palco del-la famiglia di contro, con dei brandelli di stoffa chespenzolavano dal parapetto; un lettone di legno scolpitoe sgangherato in un angolo; dei seggioloni di cuoio,sventrati per farne scarpe; una sella di velluto polverosa,a cavalcioni sul subbio di un telaio; vagli di tutte le gran-dezze appesi in giro; mucchi di pale e di scope; una por-tantina ficcata sotto la scala che saliva al palco, con lostemma dei Rubiera allo sportello, e una lanterna anticaposata sul copricielo, come una corona. Giacalone, e Vi-to Orlando, in mezzo a mucchi di frumento alti al paridi montagne, si dimenavano attorno ai vagli immensi,come ossessi, tutti sudati e bianchi di pula, cantando incadenza; mentre Gerbido, il ragazzo, ammucchiava con-tinuamente il grano con la scopa.

– Ai miei tempi, signora baronessa, io ci ho visto la

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commedia, in questo magazzino, – rispose Pirtuso persviare la domanda.

– Lo so! lo so! Così si son fatti mangiare il fatto suo iRubiera! E ora vorreste continuare!… Lo pigliate il far-ro, sì o no?

– Ve l’ho detto: a cinque onze e venti.– No, in coscienza, non posso. Ci perdo già un tarì a

salma.– Benedicite a vossignoria!– Via, mastro Lio, ora che ha parlato la signora baro-

nessa! – aggiunse Giacalone, sempre facendo ballare ilvaglio. Ma il sensale riprese il suo moggio, e se ne andòsenza rispondere. La baronessa gli corse dietro,sull’uscio, per gridargli:

– A cinque e vent’uno. V’accomoda?– Benedicite, benedicite.Ma essa, colla coda dell’occhio, si accorse che il sen-

sale si era fermato a discorrere col canonico Lupi, il qua-le, sbarazzatosi infine del Ciolla, se ne veniva su pel vi-coletto. Allora, rassicurata, si rivolse al cugino Trao,parlando d’altro:

– Stavo pensando giusto a voi, cugino. Un po’ di quelfarro voglio mandarvelo a casa… No, no, senza cerimo-nie… Siamo parenti. La buon’annata deve venire pertutti. Poi il Signore ci aiuta!… Avete avuto il fuoco incasa, eh? Dio liberi! M’hanno detto che Bianca è ancoramezza morta dallo spavento… Io non potevo lasciare,qui… scusatemi.

– Sì… son venuto appunto… Ho da parlarvi…– Dite, dite pure… Ma intanto, mentre siete laggiù,

guardate se torna Pirtuso… Così, senza farvi scorgere…– E’ una bestia! – rispose Vito Orlando dimenandosi

sempre attorno al vaglio. – Conosco mastro Lio. E’ unabestia! Non torna. Ma in quel momento entrava il cano-nico Lupi, sorridente, con quella bella faccia amabileche metteva tutti d’accordo, e dietro a lui il sensale col

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moggio in mano. – Deo gratias! Deo gratias! Lo combi-niamo questo matrimonio, signora baronessa?

Come s’accorse di don Diego Trao, che aspettavaumilmente in disparte, il canonico mutò subito tono emaniere, colle labbra strette, affettando di tenersi in di-sparte anche lui, per discrezione, tutto intento a combi-nare il negozio del frumento.

Si stette a tirare un altro po’; mastro Lio ora strillava edibattevasi quasi volessero rubargli i denari di tasca. Labaronessa invece coll’aria indifferente, voltandogli lespalle, chiamando verso la botola:

– Rosaria! Rosaria!– E tacete! – esclamò infine il canonico battendo sulle

spalle di mastro Lio colla manaccia. – Io so per chi com-prate. E’ per mastro-don Gesualdo.

Giacalone accennò di sì, strizzando l’occhio. – Non è vero! Mastro-don Gesualdo non ci ha che fa-

re! – si mise a vociare il sensale. – Quello non è il me-stiere di mastro-don Gesualdo! – Ma infine, come s’ac-cordarono sul prezzo, Pirtuso si calmò. Il canonicosoggiunse:

– State tranquillo, che mastro-don Gesualdo fa tutti imestieri in cui c’è da guadagnare.

Pirtuso il quale s’era accorto della strizzatina d’occhiodi Giacalone, andò a dirgli sotto il naso il fatto suo: –Che non ne vuoi mangiare pane, tu? Non sai che si tacenei negozi? – La baronessa, dal canto suo, mentre il sen-sale le voltava le spalle, ammiccò anch’essa al canonicoLupi, come a dirgli che riguardo al prezzo non c’era ma-le.

– Sì, sì, – rispose questi sottovoce. – Il barone Zaccosta per vendere a minor prezzo. Però mastro-don Ge-sualdo ancora non ne sa nulla.

– Ah! s’è messo anche a fare il negoziante di grano,mastro-don Gesualdo? Non lo fa più il muratore?

– Fa un po’ di tutto, quel diavolo! Dicesi pure che

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vuol concorrere all’asta per la gabella delle terre comu-nali…

La baronessa allora sgranò gli occhi: – Le terre del cu-gino Zacco:… Le gabelle che da cinquant’anni si passa-no in mano di padre in figlio?… E’ una bricconata!

– Non dico di no; non dico di no. Oggi non si ha piùriguardo a nessuno. Dicono che chi ha più denari, quel-lo ha ragione…

Allora si rivolse verso don Diego, con grande enfasi,pigliandosela coi tempi nuovi:

– Adesso non c’è altro Dio! Un galantuomo alle vol-te… oppure una ragazza ch’è nata di buona famiglia…Ebbene non hanno fortuna! Invece uno venuto dal nul-la… uno come mastro-don Gesualdo, per esempio!…

Il canonico riprese a dire come in aria di mistero par-lando piano con la baronessa e don Diego Trao sputac-chiando di qua e di là:

– Ha la testa fine quel mastro-don Gesualdo! Si faràricco ve lo dico io! Sarebbe un marito eccellente per unaragazza a modo… come ce ne son tante che non hannomolta dote.

Mastro Lio stavolta se ne andava davvero. – Dunquesignora baronessa, posso venire a caricare il grano? – Labaronessa, tornata di buon umore, rispose: – Sì ma sape-te come dice l’oste? «Qui si mangia e qui si beve; senzadenari non ci venire.»

– Pronti e contanti, signora baronessa. Grazie a Diovedrete che saremo puntuali.

– Se ve l’avevo detto! – esclamò Giacalone ansandosul vaglio. – E’ mastro-don Gesualdo!

Il canonico fece un altro segno d’intelligenza alla ba-ronessa, e dopo che Pirtuso se ne fu andato, le disse:

– Sapete cosa ho pensato? di concorrere pure all’astavossignoria, insieme a qualchedun altro… ci starei an-ch’io…

– No, no, ho troppa carne al fuoco!… Poi non vorrei

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fare uno sgarbo al cugino Zacco! Sapete bene… Siamonel mondo… Abbiamo bisogna alle volte l’uno dell’al-tro.

– Intendo… mettere avanti un altro… mastro-donGesualdo Motta, per esempio. Un capitaluccio lo ha; loso di sicuro… Vossignoria darebbe l’appoggio del no-me… Si potrebbe combinare una società fra di noi tre…

Poscia, sembrandogli che don Diego Trao stesse adascoltare i loro progetti, perchè costui aspettava il mo-mento di parlare alla cugina Rubiera, impresciuttito nel-la sua palandrana, e aveva tutt’altro per la testa il pove-raccio! il canonico cambiò subito discorso:

– Eh, eh, quante cose ha visto questo magazzino! Mirammento, da piccolo, il marchese Limòli che recitavaAdelaide e Comingio colla Margarone, buon’anima, lamadre di don Filippo, quella ch’è andata a finire poi allaSalonia. «Adelaide! dove sei?» – La scena della Certo-sa… Bisognava vedere! tutti col fazzoletto agli occhi!Tanto che don Alessandro Spina per la commozione, simise a gridare: «Ma diglielo che sei tu!…» e le buttò an-che una parolaccia… Ci fu poi la storia della schioppet-tata che tirarono al marchese Limòli, mentre stava aprendere il fresco, dopo cena; e di don Nicola Margaro-ne che condusse la moglie in campagna, e non le fecepiù vedere anima viva. Ora riposano insieme marito emoglie nella chiesa del Rosario, pace alle anime loro!

La baronessa affermava coi segni del capo, dando uncolpo di scopa, di tanto in tanto, per dividere il granodalla mondiglia. – Così andavano in rovina le famiglie.Se non ci fossi stata io, in casa dei Rubiera!… Lo vedetequel che sarebbe rimasto di tante grandezze! Io non hofumi, grazie a Dio! Io sono rimasta quale mi hanno fattomio padre e mia madre… gente di campagna, gente chehanno fatto la casa colle loro mani, invece di distrugger-la! e per loro c’è ancora della grazia di Dio nel magazzi-no dei Rubiera, invece di feste e di teatri…

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In quella arrivò il vetturale colle mule cariche.– Rosaria! Rosaria! – si mise a gridare di nuovo la ba-

ronessa verso la scaletta.Finalmente comparvero dalla botola le scarpaccie e le

calze turchine, poi la figura di scimmia della serva, sudi-cia, spettinata, sempre colle mani nei capelli.

– Don Ninì non era alla Vignazza, – disse lei tranquil-lamente. – Alessi è ritornato col cane, ma il baronellonon c’era.

– Oh, Vergine Santa! – cominciò a strillare la padro-na, perdendo un po’ del suo colore acceso. – Oh, MariaSantissima! E dove sarà mai? Cosa gli sarà accaduto almio ragazzo?

Don Diego a quel discorso si faceva rosso e pallido daun momento all’altro. Aveva la faccia di uno che vogliadire: – Apriti, terra, e inghiottimi! – Tossì, cercò il faz-zoletto dentro il cappello, aprì la bocca per parlare; poisi volse dall’altra parte, asciugandosi il sudore. Il canoni-co s’affrettò a rispondere, guardando sottecchi don Die-go Trao.

– Sarà andato in qualche altro posto… Quando si va acaccia, sapete bene…

– Tutti i vizi di suo padre, buon’anima! Caccia, giuo-co, divertimenti… senza pensare ad altro… e senza nep-pure avvertirmi!… Figuratevi, stanotte, quando le cam-pane hanno suonato al fuoco, vado a cercarlo in camerasua, e non lo trovo! Mi sentirà!… Oh, mi sentirà!…

Il canonico cercava di troncare il discorso, col viso in-quieto, il sorriso sciocco che non voleva dir nulla:

– Eh, eh, baronessa! vostro figlio non è più un ragaz-zo; ha ventisei anni!

– Ne avesse anche cento!… Fin che si marita, capi-te!… E anche dopo!

– Signora baronessa, dove s’hanno a scaricare i muli?– disse Rosaria, grattandosi il capo.

– Vengo, vengo. Andiamo per di qua. Voialtri passe-rete pel cortile, quando avrete terminato.

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Essa chiuse a catenaccio Giacalone e Vito Orlandodentro il magazzino, e s’avviò verso il portone.

La casa della baronessa era vastissima, messa insiemea pezzi e bocconi, a misura che i genitori di lei andavanostanando ad uno ad uno i diversi proprietari, sino a cac-ciarsi poi colla figliuola nel palazzetto dei Rubiera e por-re ogni cosa in comune: tetti alti e bassi; finestre d’ognigrandezza, qua e là, come capitava; il portone signorileincastrato in mezzo a facciate da catapecchie. Il fabbri-cato occupava quasi tutta la lunghezza del vicoletto. Labaronessa, discorrendo sottovoce col canonico Lupi,s’era quasi dimenticata del cugino, il quale veniva dietropasso passo. Ma giunti al portone il canonico si tirò in-dietro prudentemente: – Un’altra volta; tornerò poi.Adesso vostro cugino ha da parlarvi. Fate gli affari vo-stri, don Diego.

– Ah, scusate, cugino. Entrate, entrate pure.Fin dall’androne immenso e buio, fiancheggiato di

porticine basse, ferrate a uso di prigione, si sentiva di es-sere in una casa ricca: un tanfo d’olio e di formaggio chepigliava alla gola; poi un odore di muffa e di cantina.Dal rastrello spalancato, come dalla profondità di unacaverna, venivano le risate di Alessi e della serva cheriempivano i barili, e il barlume fioco del lumicino posa-to sulla botte.

– Rosaria! Rosaria! – tornò a gridare la baronessa intono di minaccia. Quindi rivolta al cugino Trao: – Biso-gna darle spesso la voce, a quella benedetta ragazza; per-ché quando ci ha degli uomini sottomano è un affar se-rio! Ma del resto è fidata, e bisogna aver pazienza. Cheposso farci?… Una casa piena di roba come la mia!…

Più in là, nel cortile che sembrava quello di una fatto-ria popolato di galline, di anatre, di tacchini, che si affol-lavano schiamazzando attorno alla padrona, il tanfo simutava in un puzzo di concime e di strame abbondante.Due o tre muli dalla lunga fila sotto la tettoia, allungaro-

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no il collo ragliando; dei piccioni calarono a stormi daltetto; un cane da pecoraio feroce, si mise ad abbaiare,strappando la catena; dei conigli allungavano pure leorecchie inquiete, dall’oscurità misteriosa della legnaia.E la baronessa in mezzo a tutto quel ben di Dio, disse alcugino:

– Voglio mandarvi un paio di piccioni, per Bianca…Il poveraccio tossì, si soffiò il naso, ma non trovò nep-

pure allora le parole da rispondere. Infine, dopo un la-berinto di anditi e di scalette, per stanzoni oscuri, in-gombri di ogni sorta di roba, mucchi di fave e di orzoriparati dai graticci, arnesi di campagna, cassoni di bian-cheria, arrivarono nella camera della baronessa, imbian-cata a calce, col gran letto nuziale rimasto ancora tale equale, dopo vent’anni di vedovanza, dal ramoscellod’ulivo benedetto, a piè del crocifisso, allo schioppo delmarito accanto al capezzale.

La cugina Rubiera era tornata a lamentarsi del figliuo-lo: – Tale e quale suo padre, buon’anima! Senza darsiun pensiero al mondo della mamma o dei suoi interes-si!…

Vedendo il cugino Trao inchiodato sull’uscio, rimpic-cinito nel soprabitone, gli porse da sedere: – Entrate,entrate, cugino Trao. – Il poveretto si lasciò cadere sullaseggiola, quasi avesse le gambe rotte, sudando come Ge-sù all’orto; si cavò allora il cappellaccio bisunto, passan-dosi il fazzoletto sulla fronte.

– Avete da dirmi qualche cosa, cugino? Parlate, ditepure.

Egli strinse forte le mani l’una nell’altra, dentro ilcappello, e balbettò colla voce roca, le labbra smorte etremanti, gli occhi umidi e tristi che evitavano gli occhidella cugina:

– Sissignora… Ho da parlarvi…Lei, da prima, al vedergli quella faccia, pensò che fos-

se venuto a chiederle denari in prestito. Sarebbe stata la

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prima volta, è vero: erano troppo superbi i cugini Trao:qualche regaluccio, di quelli che aiutano a tirare innanzi,vino, olio, frumento, solevano accettarlo dai parenti ric-chi – lei, la cugina Sganci, il barone Mèndola – ma lamano non l’avevano mai stesa. Però alle volte il bisognofa chinare il capo anche ad altro!… La prudenza istinti-va che era nel sangue di lei, le agghiacciò un momento ilsorriso benevolo. Poscia pensò al fuoco che avevanoavuto in casa, alla malattia di Bianca – era una buonadonna infine – don Diego aveva proprio una faccia dafar compassione… Accostò la sua seggiola a quella dilui, per fargli animo, e soggiunse:

– Parlate, parlate, cugino mio… Quel che si può fa-re… sapete bene… siamo parenti… I tempi non rispon-dono… ma quel poco che si può… Non molto… maquel poco che posso… fra parenti… Parlate pure…

Ma egli non poteva, no! colle fauci strette, la boccaamara, alzando ogni momento gli occhi su di lei, eaprendo le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Infi-ne, cavò di nuovo il fazzoletto per asciugarsi il sudore, selo passò sulle labbra aride, balbettando:

– E’ accaduta una disgrazia!… Una gran disgrazia!…La baronessa ebbe paura di essersi lasciata andare

troppo oltre. Nei suoi occhi, che fuggivano quelli lagri-mosi del cugino, cominciò a balenare la inquietudine delcontadino che teme per la sua roba.

– Cioè!… cioè!…– Vostro figlio è tanto ricco!… Mia sorella no, inve-

ce!…A quelle parole la cugina Rubiera tese le orecchie,

colla faccia a un tratto irrigidita nella maschera dei suoiprogenitori, improntata della diffidenza arcigna dei con-tadini che le avevano dato il sangue delle vene e la casamessa insieme a pezzo a pezzo colle loro mani. Si alzò,andò ad appendere la chiave allo stipite dell’uscio, frugòalquanto nei cassetti del cassettone. Infine, vedendo chedon Diego non aggiungeva altro:

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– Ma spiegatevi, cugino. Sapete che ho tanto da fa-re…

Invece di spiegarsi don Diego scoppiò a piangere co-me un ragazzo, nascondendo il viso incartapecorito nelfazzoletto di cotone, con la schiena curva e scossa daisinghiozzi ripetendo:

– Bianca! mia sorella!… E’ capitata una gran disgra-zia alla mia povera sorella!… Ah, cugina Rubiera!… voiche siete madre!…

Adesso la cugina aveva tutt’altra faccia anche lei: lelabbra strette per non lasciarsi scappar la pazienza, euna ruga nel bel mezzo della fronte: la ruga della genteche è stata all’acqua e al sole per farsi la roba – o che de-ve difenderla. In un lampo le tornarono in mente tantecose alle quali non aveva badato nella furia del continuoda fare: qualche mezza parola della cugina Macrì; lechiacchiere che andava spargendo don Luca il sagresta-no; certi sotterfugi del figliuolo. A un tratto si sentì labocca amara come il fiele anch’essa.

– Non so, cugino, – gli rispose secco secco. – Non socome ci entri io in questi discorsi…

Don Diego stette un po’ a cercare le parole, guardan-dola fisso negli occhi che dicevano tante cose, in mezzoa quelle lagrime di onta e di dolore, e poi nascose dinuovo il viso fra le mani, accompagnando col capo lavoce che stentava a venir fuori:

– Sì!… sì!… Vostro figlio Ninì!…La baronessa stavolta rimase lei senza trovar parola,

con gli occhi che le schizzavano fuori dal faccione apo-plettico fissi sul cugino Trao, quasi volesse mangiarselo;quindi balzò in piedi come avesse vent’anni, e spalancòin furia la finestra gridando:

– Rosaria! Alessi! venite qua!– Per carità! per carità! – supplicava don Diego a ma-

ni giunte, correndole dietro. – Non fate scandali, per ca-rità! – E tacque, soffocato dalla tosse, premendosi ilpetto.

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Ma la cugina, fuori di sé, non gli dava più retta. Sem-brava un terremoto per tutta la casa: gli schiamazzi dalpollaio; l’uggiolare del cane; le scarpaccie di Alessi e diRosaria che accorrevano a rotta di collo, arruffati, scal-manati, con gli occhi bassi.

– Dov’è mio figlio, infine? Cosa t’hanno detto alla Vi-gnazza? Parla, stupido! – Alessi dondolandosi ora su diuna gamba e ora sull’altra, balbettando, guardando in-quieto di qua e di là, ripeteva sempre la stessa cosa: – Ilbaronello non era alla Vignazza. Vi aveva lasciato il ca-ne, Marchese, la sera innanzi, ed era partito: – A piedi,sissignora. Così mi ha detto il fattore. – La serva, rasset-tandosi di nascosto, a capo chino, soggiunse che il baro-nello, allorché andava a caccia di buon’ora, soleva usciredalla porticina della stalla, per non svegliar nessuno: –La chiave?… Io non so… Ha minacciato di rompermi leossa… La colpa non è mia, signora baronessa!… – Co-me le pigliasse un accidente, alla signora baronessa. –Poi sgattaiolarono entrambi mogi mogi. Nella scala siudirono di nuovo le scarpaccie che scendevano a preci-pizio, inseguendosi.

Don Diego, cadaverico, col fazzoletto sulla bocca perfrenare la tosse, continuava a balbettare soffocato delleparole senza senso.

– Era lì… dietro quell’uscio!… Meglio m’avesse ucci-so addirittura… allorché mi puntò le pistole al petto… ame!… le pistole al petto, cugina Rubiera!…

La baronessa si asciugava le labbra amare come il fie-le col fazzoletto di cotone: – No! questa non me l’aspet-tavo!… dite la verità, cugino don Diego, che non me lameritavo!… Vi ho sempre trattati da parenti… E quellagatta morta di Bianca che me la pigliavo in casa giornateintere… come una figliuola…

– Lasciatela stare, cugina Rubiera! – interruppe donDiego, con un rimasuglio del vecchio sangue dei Traoalle guance.

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– Sì, sì, lasciamola stare! Quanto a mio figlio ci pen-serò io, non dubitate! Gli farò fare quel che dico io, alsignor baronello… Birbante! assassino! Sarà causa dellamia morte!…

E le spuntarono le lagrime. Don Diego, avvilito, nonosava alzare gli occhi. Ci aveva fissi dinanzi, implacabili,Ciolla, la farmacia di Bomma, le risate ironiche dei vici-ni, le chiacchiere delle comari, ed anche insistente e do-lorosa, la visione netta della sua casa, dove un uomo eraentrato di notte: la vecchia casa che gli sembrava sentirtrasalire ancora in ogni pietra all’eco di quei passi ladri:e Bianca, sua sorella, la sua figliuola, il suo sangue, chegli aveva mentito, che s’era stretta tacita nell’ombraall’uomo il quale veniva a recare così mortale oltraggioai Trao: il suo povero corpo delicato e fragile nelle brac-cia di un estraneo!… Le lagrime gli scendevano amare ecalde a lui pure lungo il viso scarno che nascondeva frale mani.

La baronessa, infine, si asciugò gli occhi, e sospirò ri-volta al crocifisso:

– Sia fatta la volontà di Dio! Anche voi, cugino Trao,dovete aver la bocca amara! Che volete: Tocca a noi cheabbiamo il peso della casa sulle spalle!… Dio sa se dellamia pelle ho fatto scarpe, dalla mattina alla sera! se mison levato il pan di bocca per amore della roba!… E poitutto a un tratto, ci casca addosso un negozio simile!…Ma questa è l’ultima che mi farà il signor baronello!…L’aggiusterò io, non dubitate! Alla fin fine non è più unragazzo! Lo mariterò a modo mio… La catena al collo,là! quella ci vuole!… Ma voi, lasciatemelo dire, doveva-te tenere gli occhi aperti, cugino Trao!… Non parlo divostro fratello don Ferdinando, ch’è uno stupido, pove-retto, sebbene sia il primogenito… ma voi che avete piùgiudizio… e non siete un bambino neppur voi! Doveva-te pensarci voi!… Quando si ha in casa una ragazza…L’uomo è cacciatore, si sa!… A vostra sorella avreste

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dovuto pensarci voi… o piuttosto lei stessa… Quasiquasi si direbbe… colpa sua!… Chissà cosa si sarà mes-sa in testa?… magari di diventare baronessa Rubiera…

Il cugino Trao si fece rosso e pallido in un momento.– Signora baronessa… siamo poveri… è vero… Ma

quanto a nascita…– Eh, caro mio! la nascita… gli antenati… tutte belle

cose… non dico di no… Ma gli antenati che fecero miofiglio barone… volete sapere quali furono?… Quelli chezapparono la terra!… Col sudore della fronte, capite?Non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poiandasse in mano di questo e di quello… capite?…

In quel mentre bussarono al portone col pesante mar-tello di ferro che rintronò per tutta la casa, e suscitòun’altra volta lo schiamazzo del pollaio, i latrati del ca-ne; e mentre la baronessa andava alla finestra, per vede-re chi fosse, Rosaria gridò dal cortile:

– C’è il sensale… quello del grano…– Vengo, vengo! – seguitò a brontolare la cugina Ru-

biera, tornando a staccare dal chiodo la chiave del ma-gazzino. – Vedete quel che ci vuole a guadagnare un tarìa salma, con Pirtuso e tutti gli altri! Se ho lavorato an-ch’io tutta la vita, e mi son tolto il pan di bocca, peramore della casa, intendo che mia nuora vi abbia a por-tare la sua dote anch’essa…

Don Diego, sgambettando più lesto che poteva dietroalla cugina Rubiera, per gli anditi e gli stanzoni pieni diroba seguitava:

– Mia sorella non è ricca… cugina Rubiera… Non hala dote che ci vorrebbe… Le daremo la casa e tutto… Cispoglieremo per lei… Ferdinando ed io…

– Appunto, vi dicevo!… Badate che c’è uno scalinorotto… Voglio che mio figlio sposi una bella dote. Lapadrona son io, quella che l’ha fatto barone. Non l’hafatta lui la roba! Entrate, entrate, mastro Lio. Lì, dalcancello di legno. E’ aperto…

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– Vostro figlio però lo sapeva che mia sorella non èricca!…– ribatteva il povero don Diego che non si risol-veva ad andarsene, mentre la cugina Rubiera aveva tantoda fare. Essa allora si voltò come un gallo, coi pugni suifianchi, in cima alla scala:

– A mio figlio ci penso io, torno a dirvi! Voi pensate avostra sorella… L’uomo è cacciatore… Lo manderòlontano! Lo chiudo a chiave! Lo sprofondo! Non tor-nerà in paese altro che maritato! colla catena al collo! velo dico io! La mia croce! la mia rovina!…

Quindi, mossa a compassione dalla disperazione mu-ta del poveraccio, il quale non si reggeva sulle gambe,aggiunse, scendendo adagio adagio:

– E del resto… sentite, don Diego… Farò anch’ioquello che potrò per Bianca… Sono madre anch’io!…Sono cristiana!… Immagino la spina che dovete averci lìdentro…

– Signora baronessa, dice che il farro non risponde alpeso, – gridò Alessi dalla porta del magazzino.

– Che c’è? Cosa dice?… Anche il peso adesso? La so-lita rinculata! per carpirmi un altro ribasso!…

E la baronessa partì come una furia. Per un po’ si udìnella profondità del magazzino un gran vocìo: sembravache si fossero accapigliati. Pirtuso strillava peggio di unagnello in mano al beccaio; Giacalone e Vito Orlandovociavano anch’essi, per metterli d’accordo, e la baro-nessa fuori di sé, che ne diceva di tutti i colori. Posciavedendo passare il cugino Trao, il quale se ne andavacolla coda fra le gambe, la testa infossata nelle spalle,barcollando, lo fermò sull’uscio, cambiando a un trattoviso e maniere:

– Sentite, sentite… l’aggiusteremo fra di noi questafaccenda… Infine cos’è stato?… Niente di male, ne soncerta. Una ragazza col timor di Dio… La cosa rimarràfra voi e me… l’accomoderemo fra di noi… Vi aiuteròanch’io, don Diego… Sono madre… son cristiana… Lamariteremo a un galantuomo…

Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

Don Diego scosse il capo amaramente, avvilito, bar-collando come un ubbriaco nell’andarsene.

– Sì, sì, le troveremo un galantuomo… Vi aiuterò an-ch’io come posso… Pazienza!… Farò un sagrificio…

Egli a quelle parole si fermò, cogli occhi spalancati,tutto tremante: – Voi!… cugina Rubiera!… No!…no!… Questo non può essere…

In quel momento veniva dal magazzino il sensale,bianco di pula, duro, perfino nella barba che gli tingevadi nero il viso anche quand’era fatta di fresco: gli oc-chietti grigi come due tarì d’argento, sotto le sopracci-glia aggrottate dal continuo stare al sole e al vento incampagna.

– Bacio le mani, signora baronessa.– Come? Così ve ne andate? Che c’è di nuovo? Non

vi piace il farro?L’altro disse di no col capo anch’esso, al pari di don

Diego Trao, il quale se ne andava rasente al muro, conti-nuando a scrollare la testa, come fosse stato colto da unaccidente, inciampando nei sassi ogni momento.

– Come? – seguitava a sbraitare la baronessa. – Unnegozio già conchiuso!…

– C’è forse caparra, signora baronessa?– Non c’è caparra; ma c’è la parola!…– In tal caso, bacio le mani a vossignoria!E tirò via, ostinato come un mulo. La baronessa, furi-

bonda, gli strillò dietro:– Sono azionacce da pari vostro! Un pretesto per

rompere il negozio… degno di quel mastro-don Gesual-do che vi manda… ora che s’è pentito…

Giacalone e Vito Orlando gli correvano dietroanch’essi scalmanandosi a fargli sentire la ragione. MaPirtuso tirava via, senza rispondere neppure, dicendo adon Diego Trao che non gli dava retta:

– La baronessa ha un bel dire… come se al caso nonavrebbe fatto lo stesso lei pure!… Ora che il barone

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Zacco ha cominciato a vendere con ribasso… Villano obaronessa la caparra è quella che conta. Dico bene, vos-signoria?

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III

La signora Sganci aveva la casa piena di gente, venutaper vedere la processione del Santo patrono: c’erano deilumi persino nella scala; i cinque balconi che mandava-no fuoco e fiamma sulla piazza nera di popolo; don Giu-seppe Barabba in gran livrea e coi guanti di cotone, cheannunziava le visite.

– Mastro-don Gesualdo! – vociò a un tratto, caccian-do fra i battenti dorati il testone arruffato. – Devo la-sciarlo entrare, signora padrona?

C’era il fior fiore della nobiltà: l’arciprete Bugno, lu-cente di raso nero; donna Giuseppina Alòsi, carica digioie; il marchese Limòli, con la faccia e la parrucca delsecolo scorso. La signora Sganci, sorpresa in quel belmodo dinanzi a tanta gente, non seppe frenarsi.

– Che bestia! Sei una bestia! Don Gesualdo Motta, sidice! bestia!

Mastro-don Gesualdo fece così il suo ingresso fra ipezzi grossi del paese, raso di fresco, vestito di panno fi-ne, con un cappello nuovo fiammante fra le mani man-giate di calcina.

– Avanti, avanti, don Gesualdo! – strillò il marcheseLimòli con quella sua vocetta acre che pizzicava. – Nonabbiate suggezione.

Mastro-don Gesualdo però esitava alquanto, intimi-dito, in mezzo alla gran sala tappezzata di damasco gial-lo, sotto gli occhi di tutti quei Sganci che lo guardavanoalteramente dai ritratti, in giro alle pareti.

La padrona di casa gli fece animo:– Qui, qui, c’è posto anche per voi, don Gesualdo.C’era appunto il balcone del vicoletto, che guardava

di sbieco sulla piazza, per gli invitati di seconda manoed i parenti poveri: donna Chiara Macrì, così umile e di-messa che pareva una serva; sua figlia donna Agrippina,

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monaca di casa una ragazza con tanto di baffi, un faccio-ne bruno e bitorzoluto da zoccolante, e due occhioni ne-ri come il peccato che andavano frugando gli uomini. Inprima fila il cugino don Ferdinando, curioso più di unragazzo, che s’era spinto innanzi a gomitate, e allungavail collo verso la Piazza Grande dal cravattone nero, alpari di una tartaruga, cogli occhietti grigi e stralunati, ilmento aguzzo e color di filiggine, il gran naso dei Traopalpitante, il codino ricurvo, simile alla coda di un canesul bavero bisunto che gli arrivava alle orecchie pelose; esua sorella donna Bianca rincantucciata dietro di lui,colle spalle un po’ curve, il busto magro e piatto, i capel-li lisci, il viso smunto e dilavato, vestita di lanetta in mez-zo a tutto il parentado in gala.

La zia Sganci tornò a dire:– Venite qui, don Gesualdo. V’ho serbato il posto per

voi. Qui, vicino ai miei nipoti.Bianca si fece in là, timidamente. Don Ferdinando,

temendo d’esser scomodato, volse un momento il capo,accigliato, e mastro-don Gesualdo si avvicinò al balco-ne, inciampando, balbettando, sprofondandosi in scuse.Rimase lì, dietro le spalle di coloro che gli stavano di-nanzi, alzando il capo a ogni razzo che saliva dalla piaz-za per darsi un contegno meno imbarazzato.

– Scusate! scusate! – sbuffò allora donna AgrippinaMacrì, arricciando il naso, facendosi strada coi fianchipoderosi, assettandosi sdegnosa il fazzoletto bianco sulpetto enorme; e capitò nel crocchio dove era la zia Cir-mena colle altre dame, sul balcone grande, in mezzo aun gran mormorìo, tutte che si voltavano a guardare ver-so il balcone del vicoletto, in fondo alla sala.

– Me l’han messo lì… alle costole, capite!… Un’inde-cenza!

– Ah, è quello lo sposo! – domandò sottovoce donnaGiuseppina Alòsi, cogli occhietti che sorridevano inmezzo al viso placido di luna piena.

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– Zitto! zitto. Vado a vedere… – disse la Cirmena, eattraversò la sala – come un mare di luce nel vestito diraso giallo – per andare a fiutare che cosa si macchinassenel balcone del vicoletto. Lì tutti sembravano sulle spi-ne: la zia Macrì fingendo di guardare nella piazza, Bian-ca zitta in un cantuccio, e don Ferdinando solo che ba-dava a godersi la festa, voltando il capo di qua e di là,senza dire una parola.

– Vi divertite qui, eh? Tu ti diverti, Bianca?Don Ferdinando volse il capo infastidito; poi veden-

do la cugina Cirmena, borbottò: – Ah… donna Sarina…buona sera! buona sera! – E tornò a voltarsi dall’altraparte. Bianca alzò gli occhi dolci ed umili sulla zia e nonrispose; la Macrì abbozzò un sorriso discreto.

La Cirmena riprese subito, guardando don Gesualdo:– Che caldo, eh? Si soffoca! C’è troppa gente questa

volta..La cugina Sganci ha invitato tutto il paese…Mastro-don Gesualdo fece per tirarsi da banda.– No, no, non vi scomodate, caro voi… Sentite piut-

tosto, cugina Macrì…– Signora! signora! – vociò in quel momento don

Giuseppe Barabba, facendo dei segni alla padrona.– No, – rispose lei, – prima deve passare la processio-

ne.Il marchese Limòli la colse a volo mentre s’allontana-

va, fermandola pel vestito: – Cugina, cugina, levatemiuna curiosità: cosa state almanaccando con mastro-donGesualdo?

– Me l’aspettavo… cattiva lingua!… – borbottò laSganci; e lo piantò lì, senza dargli retta, che se la ridevafra le gengive nude, sprofondato nel seggiolone, comeuna mummia maliziosa.

Entrava in quel punto il notaro Neri, piccolo, calvo,rotondo, una vera trottola, col ventre petulante, la risatachiassosa, la parlantina che scappava stridendo a guisa

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di una carrucola. – Donna Mariannina!… Signorimiei!… Quanta gente!… Quante bellezze!… – Poi, sco-perto anche mastro-don Gesualdo in pompa magna, fin-se di chinarsi per vederci meglio, come avesse le traveg-gole, inarcando le ciglia, colla mano sugli occhi; si fece ilsegno della croce e scappò in furia verso il balcone gran-de, cacciandosi a gomitate nella folla, borbottando:

– Questa è più bella di tutte!… Com’è vero Dio!Donna Giuseppina Alòsi istintivamente corse con la

mano sulle gioie; e la signora Capitana, che non avendoda sfoggiarne metteva in mostra altre ricchezze, al sen-tirsi frugare nelle spalle si volse come una vipera.

– Scusate, scusate; – balbettava il notaro. – Cerco ilbarone Zacco.

Dalla via San Sebastiano, al disopra dei tetti, si vedevacrescere verso la piazza un chiarore d’incendio, dal qua-le di tratto in tratto scappavano dei razzi, dinanzi allastatua del santo, con un vocìo di folla che montava a gui-sa di tempesta.

– La processione! la processione! – strillarono i ra-gazzi pigiati contro la ringhiera. Gli altri si spinsero in-nanzi; ma la processione ancora non spuntava. Il cava-liere Peperito, che si mangiava con gli occhi le gioie didonna Giuseppina Alòsi – degli occhi di lupo affamatosulla faccia magra, folta di barba turchiniccia sino agliocchi – approfittò della confusione per soffiarlenell’orecchio un’altra volta:

– Sembrate una giovinetta, donna Giuseppina! paroladi cavaliere!

– Zitto, cattivo soggetto! – rispose la vedova. – Racco-mandatevi piuttosto al santo Patrono che sta per arriva-re.

– Sì, sì, se mi fa la grazia…Dal seggiolone dove era rannicchiato il marchese

Limòli sorse allora la vocetta fessa di lui:– Servitevi, servitevi pure! Già son sordo, lo sapete.

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Il barone Zacco, rosso come un peperone, rientrò dalbalcone, senza curarsi del santo, sfogandosi col notaroNeri:

– Tutta opera del canonico Lupi!… Ora mi caccianofra i piedi anche mastro-don Gesualdo per concorrereall’asta delle terre comunali!… Ma non me le toglieran-no! dovessi vendere Fontanarossa, vedete! Delle terreche da quarant’anni sono nella mia famiglia!…

Tutt’a un tratto, sotto i balconi, la banda scoppiò inun passodoppio furibondo, rovesciandosi in piazza conun’onda di popolo che sembrava minacciosa. La signoraCapitana si tirò indietro arricciando il naso.

– Che odore di prossimo viene di laggiù!– Capite? – seguitava a sbraitare il barone Zacco –

delle terre che pago già a tre onze la salma! E gli par po-co!

Il notaro Neri, che non gli piaceva far sapere alla gen-te i fatti suoi, si rivolse alla signora Capitana scollacciatach’era un’indecenza, col pretesto che si faceva mandarei vestiti da Palermo, la quale civettava in mezzo a ungruppo di giovanotti.

– Signora Capitana! signora Capitana! Così rubate lafesta al santo! Tutti gli voltano le spalle!

– Come siete stupidi, tutti quanti! – rispose la Capita-na, gongolante. – Vado a mettermi vicino al marchese,che ha più giudizio di voi.

– Ahimè! ahimè! signora mia!…Il marchese, cogli occhietti svegli adesso, andava fiu-

tandole da presso il profumo di bergamotta tanto cheessa doveva schermirsi col ventaglio, e il vecchietto adostinarsi:

– No! no! lasciatemi fare le mie devozioni!…L’arciprete prese tabacco, si spurgò, tossì, infine si

alzò, e si mosse per andarsene, gonfiando le gote – le go-te lucenti la sottana lucente, il grosso anello lucente, tan-to che le male lingue dicevano fosse falso; mentre il mar-chese gli gridava dietro:

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– Don Calogero! don Calogero! dico per dire che dia-volo! Alla mia età…

E appena cessarono le risate alla sortita del marchese,si udì donna Giuseppina Alòsi, che faceva le sue confi-denze al cavaliere.

-… come fossi libera, capite! Le due grandi al Colle-gio di Maria; il maschio al Seminario; in casa ci ho sol-tanto l’ultimo, Sarino, ch’è meno alto di questo venta-glio. Poi i miei figliuoli hanno la roba del loro padre,buon’anima…

Donna Sarina tornò verso il balcone grande chiac-chierando sottovoce colla cugina Macrì, con delle scrol-latine di capo e dei sorrisetti che volevano dire.

– Però non capisco il mistero che vuol farne la cuginaSganci!… Siamo parenti di Bianca anche noi, alla fin fi-ne!…

– E’ quello? quello lì? – tornò a chiedere donna Giu-seppina col sorriso maligno di prima.

La Cirmena accennò di sì, stringendo le labbra sottili,cogli occhi rivolti altrove, in aria di mistero anch’essa.Infine non si tenne più:

– Fanno le cose sottomano… come se fossero dellesudicerie. Capiscono anche loro che manipolano dellecose sporche… Ma la gente poi non è così sciocca danon accorgersi… Un mese che il canonico Lupi si arra-batta in questo negozio… un va e vieni fra la Sganci e laRubiera…

– Non me lo dite! – esclamò Peperito. – Una Traoche sposa mastro-don Gesualdo!… Non me lo dite!…Quando vedo una famiglia illustre come quella scenderetanto basso mi fa male allo stomaco, in parola d’onore!

E volse le spalle soffiandosi il naso come una trom-betta nel fazzoletto sudicio, fremendo d’indignazioneper tutta la personcina misera, dopo aver saettato un’oc-chiata eloquente a donna Giuseppina.

– Chi volete che la sposi?… senza dote!… – ribatté la

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Cirmena al cavaliere ch’era già lontano. – Poi, dopoquello ch’è successo!…

– Almeno si metterà in grazia di Dio! – osservò pianola zia Macrì. La sua figliuola che stava ad ascoltare senzadir nulla, fissando in volto a chi parlava quegli occhioniardenti, scosse la tonaca, quasi avesse temuto d’insudi-ciarla fra tante sozzure, e mormorò colla voce d’uomo,colle grosse labbra sdegnose sulle quali sembrava vederfremere i peli neri, rivolta al chiarore della processioneche s’avvicinava al di sopra dei tetti della via, come unincendio:

– Santo Patrono! Guardatemi voi!– Queste sono le conseguenze!… La ragazza si era

messa in testa non so che cosa… Un disonore per tuttoil parentado!… La cugina Sganci ha fatto bene a ripa-rarvi… Non dico di no!… Ma avrebbe dovuto parlarnea noi pure che siamo parenti di Bianca al par di lei…Piuttosto che fare le cose di nascosto… Scommetto cheneppure don Ferdinando ne sa nulla…

– Ma l’altro fratello… don Diego, cosa ne dice?…– Ah, don Diego?… sarà a rovistare fra le sue cartac-

ce… Le carte della lite!… Non pensa ad altro… Creded’arricchire colla lite!… Lo vedete che non è uscito dicasa neppure per la festa… Poi forse si vergogna a farsivedere dalla gente… Tutti così quei Trao… Degli stupi-di!… gente che si troveranno un bel giorno morti di fa-me in casa, piuttosto di aprir bocca per…

– Il canonico, no! – stava dicendo il notaro mentres’avvicinavano al balcone discorrendo sottovoce col ba-rone Zacco. – Piuttosto la baronessa… offrendole unguadagno… Quella non ha puntiglio!… Del canoniconon ho paura… – E tutto sorridente poi colle signore:

– Ah!… donna Chiara!… La bella monaca che avetein casa!… Una vera grazia di Dio!…

– Eh, marchese? eh? Chi ve l’avrebbe detto, ai vostritempi?… che sareste arrivato a vedere la processione del

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santo Patrono spalla a spalla con mastro-don Gesualdo,in casa Sganci! – riprese il barone Zacco, il quale pensa-va sempre a una cosa, e non poteva mandarla giù, guar-dando di qua e di là cogli occhiacci da spiritato, ammic-cando alle donne per farle ridere.

Il marchese, impenetrabile, rispose solo:– Eh, eh, caro barone! Eh, eh!– Sapete quanto ha guadagnato nella fabbrica dei mu-

lini mastro-don Gesualdo? – entrò a dire il notaro amezza voce in aria di mistero. – Una bella somma! Ve lodico io!… Si è tirato su dal nulla… Me lo ricordo io ma-novale, coi sassi in spalla… sissignore!… Mastro Nun-zio, suo padre, non aveva di che pagare le stoppie perfar cuocere il gesso nella sua fornace… Ora ha l’impresadel ponte a Fiumegrande!… Suo figlio ha sborsato lacauzione, tutta in pezzi da dodici tarì, l’un sull’altro…Ha le mani in pasta in tutti gli affari del comune… Dico-no che vuol mettersi anche a speculare sulle terre…L’appetito viene mangiando… Ha un bell’appetito… edei buoni denti, ve lo dico io!… Se lo lasciano fare, diqui a un po’ si dirà che mastro-don Gesualdo è il padro-ne del paese!

Il marchese allora levò un istante la sua testolina discimmia; ma poi fece una spallucciata, e rispose, conquel medesimo risolino tagliente:

– Per me… non me ne importa. Io sono uno spianta-to.

– Padrone?… padrone?… quando saran morti tuttiquelli che son nati prima di lui!… e meglio di lui! Ven-derò Fontanarossa; ma le terre del comune non me le to-glie mastro-don Gesualdo! Né solo, né coll’aiuto dellabaronessa Rubiera!

– Che c’è? che c’è? – interruppe il notaro correndo albalcone, per sviare il discorso, poiché il barone non sa-peva frenarsi e vociava troppo forte.

Giù in piazza, dinanzi al portone di casa Sganci, vede-

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vasi un tafferuglio, dei vestiti chiari in mezzo alla ressa,berretti che volavano in aria, e un tale che distribuiva le-gnate a diritta e a manca per farsi largo. Subito dopocomparve sull’uscio dell’anticamera don Giuseppe Ba-rabba, colle mani in aria strangolato dal rispetto.

– Signora!… signora!…Era tutto il casato dei Margarone stavolta: donna Fifì,

donna Giovannina, donna Mita, la mamma Margarone,donna Bellonia, dei Bracalanti di Pietraperzia, niente-meno, che soffocava in un busto di raso verde, pavonaz-za, sorridente; e dietro, il papà Margarone, dignitoso,gonfiando le gote, appoggiandosi alla canna d’India colpomo d’oro, senza voltar nemmeno il capo, tenendo permano l’ultimo dei Margarone, Nicolino, il quale strillavae tirava calci perché non gli facevano vedere il santo dal-la piazza. Il papà, brandendo la canna d’India, volevainsegnargli l’educazione.

– Adesso? – sogghignò il marchese per calmarlo. –Oggi ch’è festa? Lasciatelo stare quel povero ragazzo,don Filippo!

Don Filippo lasciò stare, limitandosi a lanciare di tan-to in tanto qualche occhiataccia autorevole al ragazzoche non gli badava. Intanto gli altri facevano festa alle si-gnore Margarone: – Donna Bellonia!… donna Fifì!…che piacere, stasera!… – Perfino don Giuseppe Barab-ba, a modo suo, sbracciandosi a portar delle altre seg-giole e a smoccolare i lumi. Poi dal balcone si mise a fareil telegrafo con qualcuno ch’era giù in piazza, gridandoper farsi udire in mezzo al gran brusìo della folla: – Si-gnor barone! signor barone! – Infine corse dalla padro-na, trionfante:

– Signora! signora! Eccolo che viene! ecco don Ninì!.Donna Giuseppina Alòsi abbozzò un sorrisetto alla

gomitata che le piantò nei fianchi il barone Zacco. La si-gnora Capitana invece si rizzò sul busto – come se sboc-ciassero allora le sue belle spalle nude dalle maniche ri-gonfie.

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– Sciocco! Non ne fai una bene! Cos’è questo fracas-so? Non è questa la maniera!

Don Giuseppe se ne andò brontolando.Ma in quella entrava don Ninì Rubiera, un giovanotto

alto e massiccio che quasi non passava dall’uscio, biancoe rosso in viso, coi capelli ricciuti, e degli occhi un po’addormentati che facevano girare il capo alle ragazze.Donna Giovannina Margarone, un bel pezzo di grazia diDio anch’essa, cinghiata nel busto al pari della mamma,si fece rossa come un papavero, al vedere entrare il ba-ronello. Ma la mamma le metteva sempre innanzi lamaggiore, donna Fifì, disseccata e gialla dal lungo celi-bato, tutta pelosa, con certi denti che sembrava volesse-ro acchiappare un marito a volo, sopraccarica di nastri,di fronzoli e di gale, come un uccello raro.

– Fifì vi ha scoperto per la prima in mezzo alla fol-la!… Che folla, eh? Mio marito ha dovuto adoperare ilbastone per farci largo. Proprio una bella festa! Fifì ciha detto: Ecco lì il baronello Rubiera, vicino al palcodella musica…

Don Ninì guardava intorno inquieto. A un tratto sco-prendo la cugina Bianca rincantucciata in fondo al bal-cone del vicoletto, smorta in viso, si turbò, smarrì unistante il suo bel colorito fiorente, e rispose balbettando:

– Sissignora… infatti… sono della commissione…– Bravo! bravo! Bella festa davvero! Avete saputo far

le cose bene!… E vostra madre, don Ninì?…– Presto! presto! – chiamò dal balcone la zia Sganci. –

Ecco qui il santo!Il marchese Limòli, che temeva l’umidità della sera,

aveva afferrato la mamma Margarone pel suo vestito diraso verde e faceva il libertino: – Non c’è furia, non c’èfuria! Il santo torna ogni anno. Venite qua, donna Bello-nia. Lasciamo il posto ai giovani, noi che ne abbiamo vi-ste tante delle feste!

E continuava a biasciarle delle barzellette salate

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

nell’orecchio che sembrava arrossire dalla vergogna; di-vertendosi alla faccia seria che faceva don Filippo sulcravattone di raso; mentre la signora Capitana, per farvedere che sapeva stare in conversazione, rideva comeuna matta, chinandosi in avanti ogni momento, riparan-dosi col ventaglio per nascondere i denti bianchi, il senobianco, tutte quelle belle cose di cui studiava l’effettocolla coda dell’occhio, mentre fingeva d’andare in colle-ra allorché il marchese si pigliava qualche libertà sover-chia – adesso che erano soli – diceva lui col suo risolinosdentato di satiro.

– Mita! Mita! – chiamò infine la mamma Margarone.– No! no! Non mi scappate, donna Bellonia!… Non

mi lasciate solo con la signora Capitana… alla miaetà!… Donna Mita sa quel che deve fare. E’ grande egrossa quanto le sue sorelle messe insieme; ma sa chedeve fare la bambina, per non far torto alle altre due.

Il notaro Neri, che per la sua professione sapeva i fat-ti di tutto il paese e non aveva peli sulla lingua, do-mandò alla signora Margarone:

– Dunque, ce li mangeremo presto questi confetti pelmatrimonio di donna Fifì?

Don Filippo tossì forte. Donna Bellonia rispose chesino a quel momento erano chiacchiere: la gente parlavaperché sapeva don Ninì Rubiera un po’ assiduo con lasua ragazza:

– Nulla di serio. Nulla di positivo… – Ma le si vedevauna gran voglia di non esser creduta. Il marchese Limòlial solito trovò la parola giusta:

– Finché i parenti non si saranno accordati per la do-te, non se ne deve parlare in pubblico.

Don Filippo affermò col capo, e donna Bellonia, vistal’approvazione del marito, s’arrischiò a dire:

– E’ vero.– Sarà una bella coppia! – soggiunse graziosamente la

signora Capitana.

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Page 44: Mastro-don Gesualdoitnaro.altervista.org/wp/wp-content/uploads/2015/07/Mastro-Don-Gesualdo.pdfdo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala

Il cavaliere Peperito, onde non stare a bocca chiusacome un allocco, in mezzo al crocchio dove l’aveva pian-tato donna Giuseppina per non dar troppo nell’occhio,scappò fuori a dire:

– Però la baronessa Rubiera non è venuta!… Comeva che la baronessa non è venuta dalla cugina Sganci?

Ci fu un istante di silenzio. Solo il barone Zacco, davero zotico, per sfogare la bile che aveva in corpo, si die-de la briga di rispondere ad alta voce, quasi fossero tuttisordi:

– E’ malata!… Ha mal di testa!… – E intanto facevasegno di no col capo. Poscia, ficcandosi in mezzo allagente, a voce più bassa, col viso acceso:

– Ha mandato mastro-don Gesualdo in vece sua!… ilfuturo socio!… sissignore!… Non lo sapete? Piglieran-no in affitto le terre del comune… quelle che abbiamonoi da quarant’anni… tutti i Zacco, di padre in fi-glio!…!… Una bricconata! Una combriccola fra lorotre: Padre figliuolo e spirito santo! La baronessa non hail coraggio di guardarmi in faccia dopo questo bel tiroche vogliono farmi… Non voglio dire che sia rimasta acasa per non incontrarsi con me… Che diavolo! Ciascu-no fa il suo interesse… Al giorno d’oggi l’interesse vaprima della parentela… Io poi non ci tengo molto allanostra… Si sa da chi è nata la baronessa Rubiera!… Epoi fa il suo interesse… Sissignore!… Lo so da genteche può saperlo!… Il canonico le fa da suggeritore; ma-stro-don Gesualdo ci mette i capitali, e la baronessapoi… un bel nulla… l’appoggio del nome!… Vedremopoi quale dei due conta di più, fra il suo e il mio!… Oh,se la vedremo!… Intanto per provare cacciano innanzimastro-don Gesualdo… vedete, lì, nel balcone dove so-no i Trao?…

– Bianca! Bianca! – chiamò il marchese Limòli.– Io, zio?– Sì, vieni qua. – Che bella figurina! – osservò la si-

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gnora Capitana per adulare il marchese, mentre la giovi-netta attraversava la sala, timida, col suo vestito di lanet-ta, l’aria umile e imbarazzata delle ragazze povere.

– Sì, – rispose il marchese. – E’ di buona razza.– Ecco! ecco! – si udì in quel momento fra quelli

ch’erano affacciati. – Ecco il santo!Peperito colse la palla al balzo e si cacciò a capo fitto

nella folla dietro la signora Alòsi. La Capitana si levòsulla punta dei piedi; il notaro, galante, proponeva disollevarla fra le braccia. Donna Bellonia corse a far lamamma, accanto alle sue creature; e suo marito si con-tentò di montare su di una sedia, per vedere.

– Cosa ci fai lì con mastro-don Gesualdo? – borbottòil marchese, rimasto solo colla nipote.

Bianca fissò un momento sullo zio i grandi occhi tur-chini e dolci, la sola cosa che avesse realmente bella sulviso dilavato e magro dei Trao, e rispose:

– Ma… la zia l’ha condotto lì…– Vieni qua, vieni qua. Ti troverò un posto io.Tutt’a un tratto la piazza sembrò avvampare in un va-

sto incendio, sul quale si stampavano le finestre delle ca-se, i cornicioni dei tetti, la lunga balconata del Palazzodi Città, formicolante di gente. Nel vano dei balconi leteste degli invitati che si pigiavano, nere in quel fondoinfuocato; e in quello di centro la figura angolosa didonna Fifì Margarone, sorpresa da quella luce, più ver-de del solito, colla faccia arcigna che voleva sembrarcommossa, il busto piatto che anelava come un mantice,gli occhi smarriti dietro le nuvole di fumo, i denti soli ri-masti feroci; quasi abbandonandosi, spalla a spalla con-tro il baronello Rubiera, il quale sembrava pavonazzo aquella luce, incastrato fra lei e donna Giovannina; men-tre Mita sgranava gli occhi di bambina, per non vedere,e Nicolino andava pizzicando le gambe della gente, perficcarvi il capo framezzo e spingersi avanti.

– Cos’hai? ti senti male? – disse il marchese vedendola nipote così pallida.

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– Non è nulla… E’ il fumo che mi fa male… Non ditenulla, zio! Non disturbate nessuno!…

Di tanto in tanto si premeva sulla bocca il fazzolettinodi falsa batista ricamato da lei stessa, e tossiva, adagioadagio, chinando il capo; il vestito di lanetta le facevadelle pieghe sulle spalle magre. Non diceva nulla, stava aguardare i fuochi, col viso affilato e pallido, come stiratoverso l’angolo della bocca, dove erano due pieghe dolo-rose, gli occhi spalancati e lucenti, quasi umidi. Soltantola mano colla quale appoggiavasi alla spalliera della seg-giola era un po’ tremante e l’altra distesa lungo il fiancosi apriva e chiudeva macchinalmente: delle mani scarnee bianche che spasimavano.

– Viva il santo Patrono! Viva san Gregorio Magno! –Nella folla, laggiù in piazza, il canonico Lupi, il qualeurlava come un ossesso, in mezzo ai contadini, e gestico-lava verso i balconi del palazzo Sganci, col viso in su,chiamando ad alta voce i conoscenti:

– Donna Marianna?… Eh?… eh?… Dev’esserne con-tento il baronello Rubiera!… Baronello? don Ninì? sietecontento?… Vi saluto, don Gesualdo! Bravo! bravo!Siete lì!… – Poi corse di sopra a precipizio, scalmanato,rosso in viso, col fiato ai denti, la sottana rimboccata, ilmantello e il nicchio sotto l’ascella, le mani sudice dipolvere, in un mare di sudore: – Che festa, eh! signoraSganci! – Intanto chiamava don Giuseppe Barabba chegli portasse un bicchier d’acqua: – Muoio dalla sete,donna Marianna! Che bei fuochi, eh?… Circa duemilarazzi! Ne ho accesi più di duecento con le mie mani so-le. Guardate che mani, signor marchese!… Ah, sietequi, don Gesualdo? Bene! bene! Don Giuseppe? Chissàdove si sarà cacciato quel vecchio stolido di don Giu-seppe:

Don Giuseppe era salito in soffitta, per vedere i fuo-chi dall’abbaino, a rischio di precipitare in piazza. Com-parve finalmente, col bicchier d’acqua, tutto impolvera-

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to e coperto di ragnateli, dopo che la padrona e il cano-nico Lupi si furono sgolati a chiamarlo per ogni stanza.

Il canonico Lupi, ch’era di casa, gli diede anche unalavata di capo. Poscia, voltandosi verso mastro-don Ge-sualdo, con una faccia tutta sorridente:

– Bravo, bravo, don Gesualdo! Son contentone di ve-dervi qui. La signora Sganci mi diceva da un pezzo: l’an-no venturo voglio che don Gesualdo venga in casa mia,a vedere la processione!

Il marchese Limòli, il quale aveva salutato gentilmen-te il santo Patrono al suo passaggio, inchinandosi sullaspalliera della seggiola, raddrizzò la schiena facendo unboccaccia.

– Ahi! ahi!… Se Dio vuole è passata anche questa!…Chi campa tutto l’anno vede tutte le feste.

– Ma di veder ciò che avete visto stavolta non vel’aspettate più! – sogghignava il barone Zacco, accen-nando a mastro-don Gesualdo. – No! no! Me lo ram-mento coi sassi in spalla… e le spalle lacere!… sul pontedelle fabbriche, quest’amicone mio con cui oggi ci tro-viamo qui, a tu per tu!…

Però la padrona di casa era tutta cortesie per mastro-don Gesualdo. Ora che il santo aveva imboccato la viadi casa sua sembrava che la festa fosse per lui: donnaMarianna parlandogli di questo e di quello; il canonicoLupi battendogli sulla spalla; la Macrì che gli aveva ce-duto persino il posto; don Filippo Margarone anche luigli lasciava cadere dall’alto del cravattone complimentisimili a questi:

– Il nascer grandi è caso, e non virtù!… Venire su dalnulla, qui sta il vero merito! Il primo mulino che avetecostruito in appalto, eh? coi denari presi in prestito alventi per cento!…

– Sì signore, – rispose tranquillamente don Gesualdo.– Non chiudevo occhio, la notte.

L’arciprete Bugno, ingelosito dei salamelecchi fatti a

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un altro, dopo tutti quegli spari, quelle grida, quel fra-casso che gli parevano dedicati un po’ anche a lui, comecapo della chiesa, era riuscito a farsi un po’ di crocchioattorno pur esso, discorrendo dei meriti del santo Patro-no: un gran santo!… e una gran bella statua… I forestie-ri venivano apposta per vederla… Degli inglesi, s’era ri-saputo poi, l’avrebbero pagata a peso d’oro, ondeportarsela laggiù, fra i loro idoli… Il marchese che stavaper iscoppiare, l’interruppe alla fine:

– Ma che sciocchezze!… Chi ve le dà a bere, don Ca-logero? La statua è di cartapesta… una brutta cosa!… Itopi ci hanno fatto dentro il nido… Le gioie?… Eh! eh!non arricchirebbero neppur me, figuratevi! Vetro colo-rato… come tante altre che se ne vedono!… un fantoc-cio da carnevale!… Eh? Cosa dite?… Sì, un sacrilegio!Il mastro che fece quel santo dev’essere a casa del diavo-lo… Non parlo del santo ch’è in paradiso… Lo so, èun’altra cosa… Basta la fede… Son cristiano anch’io,che diavolo!… e me ne vanto!…

La signora Capitana affettava di guardare con insi-stenza la collana di donna Giuseppina Alòsi, nel tempostesso che rimproverava il marchese: – Libertino!… li-bertino! – Peperito s’era tappate le orecchie. L’arcipreteBugno ricominciò daccapo: – Una statua d’autore!… IlRe, Dio guardi, voleva venderla al tempo della guerracoi giacobini!… Un santo miracoloso!…

– Che c’è di nuovo, don Gesualdo? – gridò infine ilmarchese ristucco, con la vocetta fessa, voltando le spal-le all’arciprete. – Abbiamo qualche affare in aria?

Il barone Zacco si mise a ridere forte, cogli occhi cheschizzavano fuori dell’orbita; ma l’altro, un po’ storditodalla ressa che gli si faceva attorno, non rispose.

– A me potete dirlo, caro mio, – riprese il vecchiettomalizioso. – Non avete a temere che vi faccia la concor-renza, io!

Al battibecco si divertivano anche coloro che non

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gliene importava nulla. Il barone Zacco, poi, figuriamo-ci! – Eh! eh! marchese!… Voi non la fate, la concorren-za?… Eh! eh!

Mastro-don Gesualdo volse un’occhiata in giro sututta quella gente che rideva, e rispose tranquillamente:

– Che volete, signor marchese?… Ciascuno fa quelche può…

– Fate, fate, amico mio. Quanto a me, non ho di chelagnarmene…

Don Giuseppe Barabba si avvicinò in punta di piedialla padrona, e le disse in un orecchio, con gran mistero

– Devo portare i sorbetti, ora ch’è passata la proces-sione?

– Un momento! un momento! – interruppe il canoni-co Lupi, – lasciatemi lavar le mani.

– Se non li porto subito, – aggiunse il servitore, – sene vanno tutti in broda. E’ un pezzo che li ha mandatiGiacinto, ed eran già quasi strutti.

– Va bene, va bene… Bianca?– Zia…– Fammi il piacere, aiutami un po’ tu.Dall’uscio spalancato a due battenti entrarono poco

dopo don Giuseppe e mastro Titta, il barbiere di casa,carichi di due gran vassoi d’argento che sgocciolavano; ecominciarono a fare il giro degli invitati, passo passo,come la processione anch’essi. Prima l’arciprete, donnaGiuseppina Alòsi, la Capitana, gli invitati di maggior ri-guardo. Il canonico Lupi diede una gomitata al barbie-re, il quale passava dinanzi a mastro-don Gesualdo sen-za fermarsi. – Che so io?… Se ne vedono di nuoveadesso!… – brontolò mastro Titta. Il ragazzo dei Marga-rone ficcava le dita dappertutto.

– Zio?…– Grazie, cara Bianca… Ci ho la tosse… Sono invali-

do… come tuo fratello…– Donna Bellonia, lì, sul balcone! – suggerì la zia

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Sganci, la quale si sbracciava anche lei a servire gli invi-tati.

Dopo il primo movimento generale, un manovrar diseggiole per schivare la pioggia di sciroppo, erano segui-ti alcuni istanti di raccoglimento, un acciottolìo discretodi piattelli, un lavorar guardingo e tacito di cucchiai, co-me fosse una cerimonia solenne. Donna Mita Margaro-ne, ghiotta, senza levare il naso dal piatto. Barabba emastro Titta in disparte, posati i vassoi, si asciugavano ilsudore coi fazzoletti di cotone.

Il baronello Rubiera il quale stava discorrendo in uncantuccio del balcone grande naso a naso con donnaFifì, guardandosi negli occhi, degli occhi che si strugge-vano come i sorbetti, si scostò bruscamente al vedercomparire la cugina, scolorandosi un po’ in viso. DonnaBellonia prese il piattino dalle mani di Bianca, inchinan-dosi goffamente:

– Quante gentilezze!… è troppo! è troppo!La figliuola finse di accorgersi soltanto allora della

sua amica:– Oh, Bianca… sei qui?… che piacere!… M’avevano

detto ch’eri ammalata…– Sì… un po’,… Adesso sto bene…– Si vede… Hai bella cera… E un bel vestitino an-

che… semplice!… ma grazioso!…Donna Fifì si chinò fingendo d’osservare la stoffa, on-

de far luccicare i topazii che aveva al collo. Bianca rispo-se, facendosi rossa:

– E’ di lanetta… un regalo della zia…– Ah!… ah!…Il baronello ch’era sulle spine propose di rientrare in

sala: – Comincia ad esser umido… Piglieremo qualchemalanno…

– Sì!… Fifì! Fifì! – disse la signora Margarone.Donna Fifì dovette seguire la mamma, coll’andatura

cascante che le sembrava molto sentimentale, la testoli-

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na alquanto piegata sull’omero, le palpebre che batteva-no, colpite dalla luce più viva, sugli occhi illanguiditi co-me avesse sonno.

Bianca posò la mano sul braccio del cugino, il qualestava per svignarsela anche lui dal balcone, dolcemente,come una carezza, come una preghiera; tremava tutta,colla voce soffocata nella gola:

– Ninì!… Senti, Ninì!… fammi la carità!… Una pa-rola sola!… Son venuta apposta… Se non ti parlo qui èfinita per me… è finita!…

– Bada!… c’è tanta gente!… – esclamò sottovoce ilcugino, guardando di qua e di là cogli occhi che fuggiva-no. Ella gli teneva fissi addosso i begli occhi suppliche-voli, con un grande sconforto, un grande abbandonodoloroso in tutta la persona, nel viso pallido e disfatto,nell’atteggiamento umile, nelle braccia inerti che si apri-vano desolate.

– Cosa mi rispondi, Ninì?… Cosa mi dici di fare?…Vedi… sono nelle tue braccia… come l’Addolorata!…

Egli allora cominciò a darsi dei pugni nella testa,commosso, col cuore gonfio anch’esso, badando a nonfar strepito e che non sopraggiungesse nessuno nel bal-cone. Bianca gli fermò la mano.

– Hai ragione!… siamo due disgraziati!… Mia madrenon mi lascia padrone neanche di soffiarmi il naso!…Capisci? capisci?… Ti pare che non ci pensi a te?… Tipare che non ci pensi?… La notte… non chiudo oc-chio!… Sono un povero disgraziato!… La gente mi cre-de felice e contento…

Guardava giù nella piazza, ora spopolata, onde evita-re gli occhi disperati della cugina che gli passavano ilcuore, addolorato, cogli occhi quasi umidi anch’esso.

– Vedi? – soggiunse. – Vorrei essere un povero diavo-lo… come Santo Motta, laggiù!… nell’osteria di Pecu-Pecu… Povero e contento!…

– La zia non vuole?

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– No, non vuole!… Che posso farci?… Essa è la pa-drona!

Si udiva nella sala la voce del barone Zacco, che di-sputava, alterato; e poi, nei momenti ch’esso taceva, ilcicaleccio delle signore, come un passeraio, con la risati-na squillante della signora Capitana, che faceva da otta-vino.

– Bisogna confessarle tutto, alla zia!…Don Ninì allungò il collo verso il vano del balcone,

guardingo. Poscia rispose, abbassando ancora la voce:– Gliel’ha detto tuo fratello… C’è stato un casa del

diavolo!… Non lo sapevi?Don Giuseppe Barabba venne sul balcone portando

un piattello su ciascuna mano.– Donna Bianca, dice la zia… prima che si finisca-

no…– Grazie; mettetelo lì, su quel vaso di fiori…– Bisogna far presto, donna Bianca. Non ce n’è quasi

più.Don Ninì allora mise il naso nel piattello, fingendo di

non badare ad altro: – Tu non ne vuoi?Essa non rispose. Dopo un po’, quando il servitore

non era più lì, si udì di nuovo la voce sorda di lei:– E’ vero che ti mariti?– Io?…– Tu… con Fifì Margarone…– Non è vero… chi te l’ha detto?…– Tutti lo dicono.– Io non vorrei… E’ mia madre che si è messa in testa

questa cosa… Anche tu… dicono che vogliono fartisposare don Gesualdo Motta…

– Io?…– Sì, tutti lo dicono… la zia… mia madre stessa…Si affacciò un istante donna Giuseppina Alòsi, come

cercando qualcheduno; e vedendo i due giovani in fon-do al balcone, rientrò subito nella sala.

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– Vedi? vedi? – disse lui. – Abbiamo tutti gli occhiaddosso!… Piglia il sorbetto… per amor mio… per lagente che ci osserva… Abbiamo tutti gli occhi addos-so!…

Essa prese dolcemente dalle mani di lui il piattino cheaveva fatto posare sul vaso dei garofani; ma tremava cosìche due o tre volte si udì il tintinnìo del cucchiaino ilquale urtava contro il bicchiere.

Barabba corse subito dicendo:– Eccomi! eccomi!– Un momento! Un momento ancora, don Giuseppe!Il baronello avrebbe pagato qualcosa di tasca sua per

trattenere Barabba sul balcone.– Come vi tratta la festa, don Giuseppe?– Che volete, signor barone?… Tutto sulle mie spal-

le!… la casa da mettere in ordine, le fodere da togliere, ilumi da preparare… Donna Bianca, qui, può dirlo, chemi ha dato una mano. Mastro Titta fu chiamato solo peltrattamento. E domani poi devo tornare a scopare e ri-mettere le fodere…

Don Giuseppe seguitando a brontolare se ne andòcoi bicchieri vuoti. Dalla sala arrivò il suono di una sghi-gnazzata generale, subito dopo qualcosa che aveva dettoil notaro Neri, e che non si poté intender bene perché ilnotaro quando le diceva grosse abbassava la voce.

– Rientriamo anche noi, – disse il baronello. – Per al-lontanare i sospetti…

Ma Bianca non si mosse. Piangeva cheta, nell’ombra;e di tanto in tanto si vedeva il suo fazzoletto bianco sali-re verso gli occhi. – Ecco!… Sei tu che fai parlare la gen-te! – scappò detto al cugino ch’era sulle spine.

– Che te ne importa? – rispose lei. – Che te ne impor-ta?… Oramai!…

– Sì! sì!… Credi che non ti voglia più bene?…Uno struggimento, un’amarezza sconfinata venivano

dall’ampia distesa nera dell’Alìa, dirimpetto, al di là del-

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le case dei Barresi, dalle vigne e gli oliveti di Giolio, chesi indovinavano confusamente, oltre la via del Rosarioancora formicolante di lumi, dal lungo altipiano del Ca-salgilardo, rotto dall’alta cantonata del Collegio, dal cie-lo profondo, ricamato di stelle – una più lucente, lassù,che sembrava guardasse, fredda, triste, solitaria. Il ru-more della festa si dileguava e moriva lassù, verso SanVito. Un silenzio desolato cadeva di tanto in tanto, unsilenzio che stringeva il cuore. Bianca era ritta contro ilmuro, immobile; le mani e il viso smorti di lei sembrava-no vacillare al chiarore incerto che saliva dal banco delvenditore di torrone. Il cugino stava appoggiato alla rin-ghiera, fingendo di osservare attentamente l’uomo cheandava spegnendo la luminaria, nella piazza deserta, e ilgiovane del paratore, il quale correva su e giù per l’im-palcato della musica, come un gattone nero, schiodan-do, martellando, buttando giù i festoni e le ghirlande dicarta. I razzi che scappavano ancora di tratto in tratto,lontano, dietro la massa nera del Palazzo di Città, i colpidi martello del paratore, le grida più rare, stanche e avvi-nazzate, sembravano spegnersi lontano, nella vasta cam-pagna solitaria. Insieme all’acre odore di polvere che di-leguava, andava sorgendo un dolce odor di garofani;passava della gente cantando; udivasi un baccano dichiacchiere e di risate nella sala, vicino a loro, nelloschianto di quell’ultimo addio senza parole.

Nel vano luminoso del balcone passò un’ombra ma-gra, e si udì la tosserella del marchese Limòli:

– Eh, eh, ragazzi!… benedetti voialtri!… Sono venu-to a veder la festa… ora ch’è passata… Bianca, nipotemia… bada che l’aria della sera ti farà male…

– No, zio, – rispose lei con voce sorda. – Si soffoca lìdentro.

– Pazienza!… Bisogna sempre aver pazienza a questomondo… Meglio sudare che tossire… Tu, Nino, badache le signore Margarone stanno per andarsene.

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– Vado, zio.– Va, va, se no vedrai che denti! Non vorrei averli ad-

dosso neppur io!… E sì che non posso fare lo schifilto-so!… Che diavolo gli è saltato in corpo a tua madre, difarti sposare quei denti?…

– Ah… zio!…– Sei uno sciocco! Dovresti lasciarle fare il diavolo a

quattro quanto le pare e piace, a tua madre!… Sei figliounico!… A chi vuoi che lasci la roba dopo la sua morte?

– Eh… da qui a trent’anni!… Il tempo di crepare difame intanto!… Mia madre sta meglio di voi e di me, epuò campare ancora trent’anni!…

– E’ vero! – rispose il marchese. – Tua madre non sa-rebbe molto contenta di sentirsi lesinare gli anni… Ma ècolpa sua.

– Ah! zio mio!… Credetemi ch’è un brutto impic-cio!…

– Càlmati! càlmati!… Consòlati pensando a chi stapeggio di te.

S’affacciò la signora Capitana, svelta, irrequieta, guar-dando sorridente di qua e di là nella strada.

– Mio marito?… Non viene ancora?…– Il santo non è ancora rientrato – rispose don Ninì. –

Si ode subito il campanone di San Giovanni, appenagiunge in chiesa, e attacca l’altra festa.

Però la gente cominciava ad andarsene di casa Sganci.Prima si vide uscire dal portone il cavalier Peperito, chescomparve dietro la cantonata del farmacista Bomma.Un momento dopo spuntò il lanternone che precedevadonna Giuseppina Alòsi, la quale attraversò la piazza,sporca di carta bruciata e di gusci di fave e nocciuole, inpunta di piedi, colle sottane in mano, avviandosi in supel Rosario; e subito dopo, dalla farmacia, scantonò dinuovo l’ombra di Peperito, che le si mise dietro quattoquatto, rasente al muro. La signora Capitana fece udireuna risatina secca, e il baronello Rubiera confermò:

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– E’ lui!… Peperito!… com’è vero Dio!Il marchese prese il braccio di sua nipote e rientrò

con lei nella sala. In quel momento mastro-don Gesual-do, in piedi presso il balcone, discorreva col canonicoLupi. Questi perorando con calore, sottovoce, in aria dimistero, stringendoglisi addosso, quasi volesse entrargliin tasca col muso di furetto; l’altro serio, col mento nellamano, senza dire una parola, accennando soltanto colcapo di tratto in tratto. – Tale e quale come un ministro!– sogghignava il barone Zacco. Il canonico conchiusecon una stretta di mano enfatica, volgendo un’occhiataal barone, il quale finse di non accorgersene, rosso al pardi un gallo. La padrona di casa portava le mantiglie e icappellini delle signore, mentre tutti i Margarone in pie-di mettevano sossopra la casa per accomiatarsi.

– To’… Bianca!… Ti credevo già andata via!… –esclamò donna Fifì col sorriso che mordeva.

Bianca rispose soltanto con un’occhiata che sembravaattonita, tanto era smarrita e dolente; in quel tempo suocugino si dava gran moto fra le mantiglie e i cappellini, acapo basso.

– Un momento! un momento! – esclamò don Filippolevando il braccio rimastogli libero, mentre coll’altroreggeva Nicolino addormentato.

Si udiva un tafferuglio nella piazza; strilli da lontano;la gente correva verso San Giovanni, e il campanone chesuonava a distesa, laggiù.

La signora Capitana rientrò dal balcone tappandosi leorecchie colle belle mani candide, strillando in falsetto:

– Mio marito!… Si picchiano!…E si abbandonò sul canapè, cogli occhi chiusi. Le si-

gnore si misero a vociare tutte in una volta; la padronadi casa gridava a Barabba di scendere a dare il catenac-cio giù al portone; mentre donna Bellonia spingeva lesue ragazze in branco nella camera di donna Marianni-na, e il marchese Limòli picchiava sulle mani della Capi-

Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

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tana dei colpettini secchi. Il notaro Neri propose anchedi slacciarla.

– Vi pare?… – diss’ella allora balzando in piedi infu-riata. – Per chi m’avete presa, don asino?

Giunse in quel momento il Capitano, seguito da donLiccio Papa che sbraitava in anticamera, narrando l’ac-caduto, – non lo avrebbero trattenuto in cento.

– La solita storia di ogni anno! – disse finalmente il si-gnor Capitano, dopo che si fu rimesso vuotando d’unfiato un bicchier d’acqua. – I devoti di San Giovanni chedanno mano al campanone un quarto d’ora prima!…Soperchierie!… Quelli di San Vito poi che non voglionotollerare… Legnate da orbi ci sono state!

– La solita storia di ogni anno! – ripeté il canonicoLupi. – Una porcheria! La Giustizia non fa nulla per im-pedire…

Il Capitano in mezzo alla sala, coll’indice teso verso dilui, sbuffò infine:

– Sentitelo!… Perché non ci andate voi? Un altro po’facevano la festa a me pure!… Vostro marito ha corsopericolo della vita, donna Carolina!…

La signora Capitana, col bocchino stretto, giunse lemani:

– Gesummaria!… Maria Santissima del pericolo!…– Stai fresca! – borbottò il notaro voltandosi in là. –

Stai fresca davvero!… se aspetti che tuo marito vogliaarrischiare la pelle per lasciarti vedova!…

Don Ninì Rubiera cercando il cappello s’imbatté nel-la cugina, la quale gli andava dietro come una fantasima,stravolta, incespicando a ogni passo.

– Bada!… – le disse lui. – Bada!… Ci guardano!…C’è lì don Gesualdo!…

– Bianca! Bianca! Le mantiglie di queste signore! –gridò la zia Sganci dalla camera da letto dove s’era ficca-to tutto lo stormo dei Margarone.

Essa frugava in mezzo al mucchio, colle mani treman-

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ti. Il cugino era così turbato anch’esso che seguitava acercare il suo cappello lui pure. – Guarda, ce l’ho in te-sta! Non so nemmeno quello che fo.

Si guardò attorno come un ladro, mentre ciascunocercava la sua roba in anticamera, e la tirò in disparteverso l’uscio

– Senti… per l’amor di Dio!… sii cauta!… Nessunone sa nulla… Tuo fratello non sarà andato a raccontar-lo… Ed io neppure… Sai che t’ho voluto bene piùdell’anima mia!…

Essa non rispose verbo, gli occhi soli che parlavano, edicevano tante cose.

– Non guardarmi con quella faccia, Bianca!… no!…non guardarmi così… mi tradirei anch’io!…

Donna Fifì uscì col cappello e la mantiglia, stecchita,le labbra strette quasi fossero cucite; e siccome sua so-rella, giovialona, si voltava a salutare Bianca, la richiamòcon la voce stizzosa:

– Giovannina! andiamo! andiamo! – Meno male questa qui! – borbottò il baronello. –

Ma sua sorella è un castigo di Dio.La zia Sganci, accompagnando le Margarone sino

all’uscio, disse a mastro-don Gesualdo che si sprofonda-va in inchini sul pianerottolo, a rischio di ruzzolare giùper la scala:

– Don Gesualdo, fate il favore… Accompagnate imiei nipoti Trao… Già siete vicini di casa… Don Ferdi-nando non ci vede bene la sera…

– Sentite qua! sentite qua! – gli disse il canonico.Zacco non si dava pace; fingeva di cercare il lampione

nelle cassapanche dell’anticamera, per darlo da portarea mastro-don Gesualdo. – Giacché deve accompagnaredonna Bianca… una dei Trao… Non gli sarebbe passatoneppure pel capo di ricevere tanto onore… a mastro-don Gesualdo!… – Però costui non poteva udire perchéaspettava nella piazza, discorrendo col canonico. Solo

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don Liccio Papa, il quale chiudeva la marcia colla scia-boletta a tracolla, si mise a ridere: – Ah! ah!

– Che c’è? – chiese il Capitano, che dava il braccio al-la moglie infagottata. – Che c’è, insubordinato?

– Nulla; – rispose il marchese. – Il barone Zacco cheabbaia alla luna.

Poi, mentre scendeva insieme a Bianca, appoggiando-si al bastoncino, passo passo, le disse in un orecchio:

– Senti… il mondo adesso è di chi ha denari… Tutticostoro sbraitano per invidia. Se il barone avesse una fi-gliuola da maritare, gliela darebbe a mastro-don Gesual-do!… Te lo dico io che son vecchio, e so cos’è la po-vertà!…

– Eh? Che cosa? – volle sapere don Ferdinando, ilquale veniva dietro adagio adagio, contando i sassi.

– Nulla… Dicevamo che bella sera, cugino Trao!L’altro guardò in aria, e ripeté come un pappagallo: –

Bella sera! bella sera!Don Gesualdo stava aspettando, lì davanti al portone,

insieme al canonico Lupi che gli parlava sottovoce nellafaccia: – Eh? eh? don Gesualdo?… che ve ne pare? –L’altro accennava col capo, lisciandosi il mento duro dibarba colla grossa mano. – Una perla! una ragazza chenon sa altro: casa e chiesa!… Economa… non vi costerànulla… In casa non è avvezza a spender di certo!… Madi buona famiglia!… Vi porterebbe il lustro in casa!…V’imparentate con tutta la nobiltà… L’avete visto, eh,stasera?… che festa v’hanno fatto?… I vostri affari an-drebbero a gonfie vele… Anche per quell’affare delleterre comunali… E’ meglio aver l’appoggio di tutti ipezzi grossi!…

Don Gesualdo non rispose subito, sopra pensieri, acapo chino, seguendo passo passo donna Bianca ches’avviava a casa per la scalinata di Sant’Agata insieme al-lo zio marchese e al fratello don Ferdinando.

– Sì… sì… Non dico di no… E’ una cosa da pensar-

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ci… una cosa seria… Temo d’imbarcarmi in un affaretroppo grosso, caro canonico… Quella è sempre una si-gnora… Poi ho tante cose da sistemare prima di risolve-re… Ciascuno sa i propri impicci… Bisogna dormircisopra. La notte porta consiglio, canonico mio.

Bianca che se ne andava col cuore stretto, ascoltandola parlantina indifferente dello zio, accanto al fratello ta-citurno e allampanato, udì quelle ultime parole.

La notte porta consiglio. La notte scura e desolatanella cameretta misera. La notte che si portava via gli ul-timi rumori della festa, l’ultima luce, l’ultima speranza…Come la visione di lui che se ne andava insieme a un’al-tra, senza voltarsi, senza dirle nulla, senza rispondere alei che lo chiamava dal fondo del cuore, con un gemito,con un lamento d’ammalata, affondando il viso nelguanciale bagnato di lagrime calde e silenziose.

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IV

Mentre i muratori si riparavano ancora dall’acquazzo-ne dentro il frantoio di Giolio vasto quanto una chiesafacendo alle piastrelle, entrò il ragazzo che stava a guar-dia sull’uscio, addentando un pezzo di pane, colla boccapiena, vociando:

– Il padrone!… ecco il padrone!…Dietro di lui comparve mastro-don Gesualdo, bagna-

to fradicio, tirandosi dietro la mula che scuoteva le orec-chie.

– Bravi!… Mi piace!… Divertitevi! Tanto, la paga vicorre lo stesso!… Corpo di!… Sangue di!…

Agostino, il soprastante, annaspando, bofonchiando,affacciandosi all’uscio per guardare il cielo ancora nuvo-lo coll’occhio orbo, trovò infine la risposta:

– Che s’aveva a fare? bagnarci tutti?… La burrasca ècessata or ora… Siamo cristiani o porci?… Se mi cogliequalche malanno mia madre non lo fa più un altro Ago-stino, no!

– Sì, sì, hai ragione!… la bestia sono io!… Io ho lapelle dura!… Ho fatto bene a mandare qui mio fratelloper badare ai miei interessi!… Si vede!… Sta a passare iltempo anche lui giuocando, sia lodato Iddio!…

Santo, ch’era rimasto a bocca aperta, coccoloni di-nanzi al pioletto coi quattrini, si rizzò in piedi tutto con-fuso, grattandosi il capo.

Gesualdo, intanto che gli altri si davano da fare, mogimogi, misurava il muro nuovo colla canna; si arrampica-va sulla scala a piuoli; pesava i sacchi di gesso, sollevan-doli da terra: – Sangue di Giuda!… Come se li rubassi imiei denari!… Tutti quanti d’intesa per rovinarmi!…Due giorni per tre canne di muro? Ci ho un bel guada-gno in questo appalto!… I sacchi del gesso mezzi vuoti!Neli? Neli? Dov’è quel figlio di mala femmina che ha

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portato il gesso?… E quella calce che se ne va in polve-re, eh?… quella calce?… Che non ne avete coscienza dicristiani? Dio di paradiso!… Anche la pioggia a dannomio!… Ci ho ancora i covoni sull’aia!… Non si potevametter su la macina intanto che pioveva?… Su! animo!la macina! Vi do una mano mentre son qua io…

Santo piuttosto voleva fare una fiammata per asciu-gargli i panni addosso. – Non importa, – rispose lui. –Me ne sono asciugata tanta dell’acqua sulle spalle!… Sefossi stato come te, sarei ancora a trasportare del gessosulle spalle!… Ti rammenti?… E tu non saresti qua agiuocare alle piastrelle!…

Brontolando, dandosi da fare per preparare la leva, lebiette, i puntelli, si voltava indietro per lanciargli delleocchiatacce. – Malannaggia! – esclamò Santo. – Semprequella storia!… – E se ne andò sull’uscio accigliato, col-le mani sotto le ascelle, guardando di qua e di là. I ma-novali esitavano, girando intorno al pietrone enorme; ilpiù vecchio, mastro Cola, tenendo il mento sulla mano,scrollando il capo, aggrondato, guardando la macina co-me un nemico. Infine sentenziò ch’erano in pochi perspingerla sulla piattaforma: – Se scappa la leva, Dio libe-ri!… Chi si metterà sotto per dar lo scambio alle biette?Io no, com’è vero Dio!… Se scappa la leva!… mia ma-dre non lo fa più un altro mastro Cola Ventura!… Eh,eh!… Ci vorrebbero dell’altre braccia… un martinet-to… Legare poi una carrucola lassù alla travatura deltetto… poi dei cunei sotto… vedete, vossignoria, a fargirare i cunei, si sta dai lati e non c’è pericolo…

– Bravo! ora mi fate il capomastro! Datemi la stan-ga!… Io non ho paura!… Intanto che stiamo a chiac-chierare il tempo passa! La giornata corre lo stesso,eh?… Come se li avessi rubati i miei denari!… Su! daquella parte!… Non badate a me che ho la pelle dura…Via!… su!… Viva Gesù!… Viva Maria!… un altropo’!… Badate! badate!… Ah Mariano! santo diavolone,

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m’ammazzi!… Su!… Viva Maria!… La vita! la vita!…Su!… Che fai, bestia, da quella parte?… Su!… ci sia-mo! E’ nostra!… ancora!… da quella parte!… Non ab-biate paura che non muore il papa… Su!… su!… se viscappa la leva!… ancora!… se avessi tenuta cara la pel-le… ancora!… come la tien cara mio fratello Santo…santo diavolone! santo diavolone, badate!… a quest’orasarei a portar gesso sulle spalle!… Il bisogno… via!via!… il bisogno fa uscire il lupo… ancora!… su!… illupo dal bosco!… Vedete mio fratello Santo che sta aguardare?… Se non ci fossi io egli sarebbe sotto… sottola macina… al mio posto… invece di grattarsi… a spin-gere la macina… e la casa… Tutto sulle mie spalle!…Ah! sia lodato Iddio!

Infine, assicurata la macina sulla piattaforma, si misea sedere su di un sasso, trafelato, ancora tremante dalbatticuore, asciugandosi il sudore col fazzoletto di coto-ne.

– Vedete come ci si asciuga dalla pioggia? Acqua didentro e acqua di fuori! – Santo propose di passare ilfiasco in giro. – Ah?… per la fatica che hai fatto?… perasciugarti il sudore anche tu?… Attaccati all’abbevera-toio… qui fuori dell’uscio…

Il tempo s’era abbonacciato. Entrava un raggio di so-le dall’uscio spalancato sulla campagna che ora sembra-va allargarsi ridente, col paese sull’altura, in fondo, dicui le finestre scintillavano.

– Lesti, lesti, ragazzi! sul ponte, andiamo! Guada-gniamoci

tutti la giornata… Mettetevi un po’ nei panni del pa-drone che vi paga!… L’osso del collo ci rimetto in que-st’appalto!… Ci perdo diggià, come è vero Iddio!…Agostino! mi raccomando! l’occhio vivo!… La paroladolce e l’occhio vivo!… Mastro Cola, voi che siete capo-mastro!… chi vi ha insegnato a tenere il regolo in ma-no?… Maledetto voi! Mariano, dammi quassù il regolo,

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sul ponte… Che non ne avete occhi, corpo del diavo-lo!… L’intonaco che screpola e sbulletta!… Mi toc-cherà poi sentire l’architetto, malannaggia a voialtri!…Quando torna quello del gesso ditegli il fatto suo, a quelfiglio di mala femmina!… ditegli a Neli che sono delmestiere anch’io!… Che ne riparleremo poi sabato, alfar dei conti!…

Badava a ogni cosa, girando di qua e di lá, rovistandonei mucchi di tegole e di mattoni, saggiando i materiali,alzando il capo ad osservare il lavoro fatto, colla manosugli occhi, nel gran sole che s’era messo allora. – Santo!Santo! portami qua la mula… Fagli almeno questo lavo-ro, a tuo fratello! – Agostino voleva trattenerlo a man-giare un boccone, poiché era quasi mezzogiorno, un soleche scottava, da prendere un malanno chi andava per lacampagna a quell’ora. – No, no, devo passare dal Came-mi… ci vogliono due ore… Ho tant’altro da fare! Se ilsole è caldo tanto meglio! Arriverò asciutto al Came-mi… Spicciamoci, ragazzi! Badate che vi sto sempre ad-dosso come la presenza di Dio! Mi vedrete comparirequando meno ve lo aspettate! Sono del mestiere anch’io,e conosco poi se si è lavorato o no!…

Intanto che se ne andava, Santo gli corse dietro, li-sciando il collo alla mula, tenendogli la staffa. Finalmen-te, come vide che montava a cavallo senza darsene perinteso, si piantò in mezzo alla strada, grattandosi l’orec-chio: – Così mi lasci? senza domandarmi neppure se hobisogno di qualche cosa?

– Sì, sì, ho capito. I denari che avesti lunedì te li seigiuocati. Ho capito! ho capito! eccoti il resto. E divèrtitialle piastrelle, che a pagare poi ci son io… il debitore ditutti quanti!…

Brontolava ancora allontanandosi all’ambio della mu-la sotto il sole cocente: un sole che spaccava le pietreadesso, e faceva scoppiettare le stoppie quasi s’accen-dessero. Nel burrone, fra i due monti, sembrava d’entra-

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re in una fornace; e il paese in cima al colle, arrampicatosui precipizi, disseminato fra rupi enormi, minato da ca-verne che lo lasciavano come sospeso in aria, nerastro,rugginoso, sembrava abbandonato, senza un’ombra,con tutte le finestre spalancate nell’afa, simili a tanti bu-chi neri, le croci dei campanili vacillanti nel cielo caligi-noso. La stessa mula anelava, tutta sudata, nel salire lavia erta. Un povero vecchio che s’incontrò, carico di ma-nipoli, sfinito, si mise a borbottare:

– O dove andate vossignoria a quest’ora?… Avetetanti denari, e vi date l’anima al diavolo!

Giunse al paese che suonava mezzogiorno, mentretutti scappavano a casa come facesse temporale. Dal Ro-sario veniva il canonico Lupi, accaldato, col nicchio sul-la nuca, soffiando forte:

– Ah, ah, don Gesualdo!… andate a mangiare unboccone?… Io no, per mia disgrazia! Sono a boccaasciutta sino a quest’ora… Vado a celebrare la santamessa… la messa di mezzogiorno!… un capriccio diMonsignore!

– Sono salito al paese apposta per voi!…. Ho fattoquesta pettata!… E’ caldo, eh! – intanto si asciugava ilsudore col fazzoletto. – Ho paura che mi giuochinoqualche tiro, riguardo a quell’appalto delle strade comu-nali, signor canonico. Vossignoria che vi fate sentire inpaese… ci avete pensato? So poi l’obbligo mio!…

– Ma che dite?… fra di noi!… ci sto lavorando… Aproposito, che facciamo per quell’altro affare? ci avetepensato? che risposta mi date?

Don Gesualdo il quale aveva messo al passo la mula,camminandogli allato, curvo sulla sella, un po’ sbalordi-to dal gran sole, rispose:

– Che affare? Ne ho tanti!… Di quale affare parlatevossignoria?

– Ah! ah! la pigliate su quel verso?… Scusate… scu-sate tanto!…

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Il canonico mutò subito discorso, quasi non glieneimportasse neppure a lui: parlò dell’altro affare della ga-bella, che bisognava venire a una conclusione colla ba-ronessa Rubiera: – C’è altre novità… Il notaro Neri hafatto lega con Zacco… Ho paura che…

Don Gesualdo allora smontò dalla mula, premuroso,tirandola dietro per le redini, mentre andava passo pas-so insieme al prete, tutto orecchi, a capo chino e colmento in mano.

– Temo che mi cambino la baronessa!… Ho visto ilbarone a confabulare con quello sciocco di don Ninì…ieri sera, dietro il Collegio… Finsi d’entrare nella farma-cia per non farmi scorgere. Capite? un affare grosso!…Son circa cinquecento salme di terra… C’è da guada-gnare un bel pezzo di pane, su quell’asta.

Don Gesualdo ci si scaldava lui pure: gli occhi accesidall’afa che gli brillavano in quel discorso. Temeva perògli intrighi degli avversari, tutti pezzi grossi, di quelli cheavevano voce in capitolo! E il canonico viceversa, anda-va raffreddandosi di mano in mano, aggrottandosi in vi-so, stringendosi nelle spalle, guardandolo fisso di tantoin tanto, e scrollando il capo di sotto in su, come a darglidell’asino.

– Per questo dicevo!… Ma voi la pigliate su quel ver-so!… Scusate, scusatemi tanto!… Volevo con quell’affa-re procurarvi l’appoggio di un parentado che conta inpaese… la prima nobiltà… Ma voi fate l’indifferente…Scusatemi tanto allora!… Anche per dare una rispostaalla signora Sganci che ci aveva messo tanto impegno!…Scusatemi, è una porcheria…

– Ah, parlate dell’affare del matrimonio?…Il canonico finse di non dar retta lui stavolta: – Ah!

ecco vostro cognato! Vi saluto, massaro Fortunato!Burgio aveva il viso lungo un palmo, aggrottato, con

tanto di muso nel faccione pendente.– V’ho visto venire di laggiù, cognato. Sono stato ad

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aspettarvi lì, al belvedere. Sapete la notizia? Appenaquindici salme fecero le fave!… Neanche le spese,com’è vero Iddio!… Son venuto apposta a dirvelo…

– Vi ringrazio! grazie tante! Ora che volete da me? Iove l’aveva detto, quando avete voluto prendere quellachiusa!… buona soltanto per dar spine!… Volete sem-pre fare di testa vostra, e non ne indovinate una, bene-dett’uomo! – rispose Gesualdo in collera.

– Bene, avete ragione. Lascerò la chiusa. Non la vo-glio più! Che pretendete altro da me?

– Non la volete?… L’affitto vi dura altri due anni!…Chi volete che la pigli?… Non son tutti così gonzi!…

Il canonico, vedendo che il discorso si metteva per lelunghe, volse le spalle:

– Vi saluto… Don Luca il sagrestano mi aspetta… di-giuno come me sino a quest’ora! – E infilò la scaletta pelquartiere alto.

Don Gesualdo allora infuriato prese a sfogarsi col co-gnato: – E venite apposta per darmi la bella notizia?…mentre stavo a discorrere dei fatti miei… sul più bello?mi guastate un affare che stavo combinando!… I bei ne-gozi che fate voi! Chi volete che la pigli quella chiusa?

Massaro Fortunato dietro al cognato tornava a ripete-re:

– Cercando bene… troveremo chi la pigli… La terraè già preparata a maggese per quest’altr’anno… mi costaun occhio… Vostra sorella fa un casa del diavolo… nonmi dà pace!… Sapete che castigo di Dio, vostra sorella!

– Vi costa, vi costa!… Io lo so a chi costa! – brontolòGesualdo senza voltarsi. – Sulle mie spalle ricadono tut-te queste belle imprese!…

Burgio s’offese a quelle parole:– Che volete dire? Spiegatevi, cognato!… Io già lavo-

ro per conto mio! Non sto alle spalle di nessuno, io!– Sì, sì, va bene; sta a vedere ora che devo anche pre-

garvi? Come se non l’avessi sulle spalle la vostra chiu-sa… come se il garante non fossi io…

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Così brontolando tutti e due andarono a cercare Pir-tuso, che stava al Fosso, laggiù verso San Giovanni. Ma-stro Lio stava mangiando quattro fave, coll’uscio soc-chiuso.

– Entrate, entrate, don Gesualdo. Benedicite a vossi-gnoria! Ne comandate? volete restar servito? – Poi co-me udì parlare della chiusa che Burgio avrebbe volutoappioppare a un altro, di allegro che era si fece scuro inviso, grattandosi il capo.

– Eh! eh!… la chiusa del Purgatorio? E’ un affar se-rio! Non la vogliono neanche per pascolo.

Burgio s’affannava a lodarla, terre di pianura, terreprofonde, che gli avevano dato trenta salme di favequell’anno soltanto, preparate a maggese per l’annonuovo!… Il cognato tagliò corto, come uno che ha mol-ta altra carne al fuoco, e non ha tempo da perdere inutil-mente.

– Insomma, mastro Lio, voglio disfarmene. Fate voiuna cosa giusta… con prudenza!…

– Questo si chiama parlare! – rispose Pirtuso. – Vos-signoria sa fare e sa parlare… – E adesso ammiccavacoll’occhietto ammammolato, un sorrisetto maliziosoche gli errava fra le rughe della bazza irta di peli sudici.

Sulla strada soleggiata e deserta a quell’ora stavaaspettando un contadino, con un fazzoletto legato sottoil mento, le mani in tasca, giallo e tremante di febbre.Ossequioso, abbozzando un sorriso triste, facendo l’attodi cacciarsi indietro il berretto che teneva sotto il fazzo-letto: – Benedicite, signor don Gesualdo… Ho cono-sciuto la mula… Tanto che vi cerco, vossignoria! Cosafacciamo per quelle quattro olive di Giolio? Io non hodenari per farle cogliere… Vedete come sono ridot-to?… cinque mesi di terzana, sissignore, Dio ne liberivossignoria! Son ridotto all’osso… il giorno senza panee la sera senza lume… pazienza! Ma la spesa per coglierle olive non posso farla… proprio non posso!… Se le

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volete, vossignoria… farete un’opera di carità, vossigno-ria…

– Eh! eh!… Il denaro è scarso per tutti, padre mio!…Voi perché avete messo il carro innanzi ai buoi?…Quando non potete… Tutti così!… Vi mettereste sullespalle un feudo, a lasciarvi fare… Vedremo… Non dicodi no… Tutto sta ad intendersi…

E lasciò cadere un’offerta minima, seguitando ad an-darsene per la sua strada senza voltarsi. L’altro durò unpezzetto a lamentarsi, correndogli dietro, chiamando intestimonio Dio e i santi, piagnucolando, bestemmiando,e finì per accettare, racconsolato tutto a un tratto, cam-biando tono e maniera.

– Compare Lio, avete udito? affare fatto! Un buonnegozio per don Gesualdo… pazienza!… ma è detta!Quanto a me, è come se fossimo andati dal notaio! – Ese ne tornò indietro, colle mani in tasca.

– Sentite qua, mastro Lio, – disse Gesualdo tirando indisparte Pirtuso. Burgio s’allontanò colla mula discreta-mente, sapendo che l’anima dei negozi è il segreto, in-tanto che suo cognato diceva al sensale di comprarglidei sommacchi, quanti ce n’erano, al prezzo corrente.Udì soltanto mastro Lio che rispondeva sghignazzando,colla bocca sino alle orecchie: – Ah! ah!… siete un dia-volo!… Vuol dire che avete parlato col diavolo!… Sape-te quel che bisogna vendere e comprare otto giorni pri-ma… Va bene, restiamo intesi… Me ne torno a casa ora.Ho quelle quattro fave che m’aspettano.

Burgio non si reggeva in piedi dall’appetito, e si misea brontolare come il cognato volle passare dalla posta. –Sempre misteri… maneggi sottomano!

Don Gesualdo tornò tutto contento, leggendo unalettera piena di sgorbi e suggellata colla midolla di pane:

– Lo vedete il diavolo che mi parla all’orecchio! eh?M’ha dato anche una buona notizia, e bisogna che tornida mastro Lio.

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– Io non so nulla… Mio padre non m’ha insegnato afare queste cose!… – rispose Burgio brontolando. – Iofo come fece mio padre… Piuttosto, se volete venire aprendere un boccone a casa… Non mi reggo in piedi,com’è vero Dio!

– No, non posso; non ho tempo. Devo passare dal Ca-memi, prima d’andare alla Canziria. Ci ho venti uominiche lavorano alla strada… i covoni sull’aia… Non pos-so…

E se ne andò sotto il gran sole, tirandosi dietro la mu-la stanca.

Pareva di soffocare in quella gola del Petraio. Le rupibrulle sembravano arroventate. Non un filo di ombra,non un filo di verde, colline su colline, accavallate, nude,arsicce, sassose, sparse di olivi rari e magri, di fichidin-dia polverosi, la pianura sotto Budarturo come una lan-da bruciata dal sole, i monti foschi nella caligine, in fon-do. Dei corvi si levarono gracchiando da una carognache appestava il fossato; delle ventate di scirocco brucia-vano il viso e mozzavano il respiro; una sete da impazzi-re, il sole che gli picchiava sulla testa come fosse il mar-tellare dei suoi uomini che lavoravano alla strada delCamemi. Allorché vi giunse invece li trovò tutti quantisdraiati bocconi nel fossato, di qua e di là, col viso co-perto di mosche, e le braccia stese. Un vecchio soltantospezzava dei sassi, seduto per terra sotto un ombrellac-cio, col petto nudo color di rame, sparso di peli bianchi,le braccia scarne, gli stinchi bianchi di polvere, come ilviso che pareva una maschera, gli occhi soli che ardeva-no in quel polverìo.

– Bravi! bravi!… Mi piace… La fortuna viene dor-mendo… Son venuto io a portarvela!… Intanto la gior-nata se ne va!… Quante canne ne avete fatto di massic-ciata oggi, vediamo?… Neppure tre canne!… Perquesto che vi riposate adesso? Dovete essere stanchi,sangue di Giuda!… Bel guadagno ci fo!… Mi rovino

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Page 71: Mastro-don Gesualdoitnaro.altervista.org/wp/wp-content/uploads/2015/07/Mastro-Don-Gesualdo.pdfdo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala

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per tenervi tutti quanti a dormire e riposare!… Corpodi!… sangue di!…

Vedendolo con quella faccia accesa e riarsa, bianca dipolvere soltanto nel cavo degli occhi e sui capelli; degliocchi come quelli che dà la febbre, e le labbra sottili epallide; nessuno ardiva rispondergli. Il martellare ripre-se in coro nell’ampia vallata silenziosa, nel polverìo chesi levava sulle carni abbronzate, sui cenci svolazzanti, in-sieme a un ansare secco che accompagnava ogni colpo. Icorvi ripassarono gracidando, nel cielo implacabile. Ilvecchio allora alzò il viso impolverato a guardarli, congli occhi infuocati, quasi sapesse cosa volevano e liaspettasse.

Allorché finalmente Gesualdo arrivò alla Canziria,erano circa due ore di notte. La porta della fattoria eraaperta. Diodata aspettava dormicchiando sulla soglia.Massaro Carmine, il camparo, era steso bocconi sull’aia,collo schioppo fra le gambe; Brasi Camauro e Nannil’Orbo erano spulezzati di qua e di là, come fanno i canila notte, quando sentono la femmina nelle vicinanze; e icani soltanto davano il benvenuto al padrone, abbaian-do intorno alla fattoria. – Ehi? non c’è nessuno? Robasenza padrone, quando manco io! – Diodata, svegliataall’improvviso, andava cercando il lume tastoni, ancoraassonnata. Lo zio Carmine, fregandosi gli occhi, collabocca contratta dai sbadigli, cercava delle scuse.

– Ah!… sia lodato Dio! Voi ve la dormite da un can-to, Diodata dall’altro, al buio!… Cosa facevi al buio?…aspettavi qualcheduno?… Brasi Camauro oppure Nan-ni l’Orbo?…

La ragazza ricevette la sfuriata a capo chino, e intantoaccendeva lesta lesta il fuoco, mentre il suo padronecontinuava a sfogarsi, lì fuori, all’oscuro, e passava in ri-vista i buoi legati ai pioli intorno all’aia. Il camparo mo-gio mogio gli andava dietro per rispondere al caso: –Gnorsì, Pelorosso sta un po’ meglio; gli ho dato la gra-

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migna per rinfrescarlo. La Bianchetta ora mi fa la svo-gliata anch’essa… Bisognerebbe mutar di pascolo… tut-to il bestiame… Il mal d’occhio, sissignore! Io dico ch’èpassato di qui qualcheduno che portava il malocchio!…Ho seminato perfino i pani di San Giovanni nel pasco-lo… Le pecore stanno bene, grazie a Dio… e il raccoltopure… Nanni l’Orbo? Laggiù a Passanitello, dietro legonnelle di quella strega… Un giorno o l’altro se ne tor-na a casa colle gambe rotte, com’è vero Dio!… e BrasiCamauro anch’esso, per amor di quattro spighe… –Diodata gridò dall’uscio ch’era pronto. – Se non avetealtro da comandarmi, vossignoria, vado a buttarmi giùun momento…

Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di venti-quattr’ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, sedutodi faccia all’uscio, in maniche di camicia, le manicherimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenzitinelle vecchie ciabatte ch’erano anch’esse una grazia diDio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra difave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr’ova fre-sche, e due pomidori ch’era andata a cogliere tastonidietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiascopieno davanti; dall’uscio entrava un venticello frescoch’era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all’odoredei covoni nell’aia: – il suo raccolto lì, sotto gli occhi, lamula che abboccava anch’essa avidamente nella bicadell’orzo, povera bestia – un manipolo ogni strappata!Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso ilcampanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attornoall’aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allorail capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio illuccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processio-ne di lucciole che dileguava.

Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e ap-poggiò i gomiti sul deschetto:

– Tu non mangi?… Cos’hai?

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Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di unbarile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorrisodi cane accarezzato.

– Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia!Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno

della croce prima di cominciare, poi disse: – Benedicitea vossignoria!

Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capochino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, mal-grado le brinate ed il vento aspro della montagna: deicapelli di gente ricca, e degli occhi castagni, al pari deicapelli, timidi e dolci: de’ begli occhi di cane carezzevolie pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tut-to il viso supplichevole anch’esso. Un viso su cui eranopassati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali;limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l’arsuradel solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il li-vidore delle notti stanche – gli occhi soli ancora giovani,in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolatasembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto,alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole nonaveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scar-ne: delle povere mani pel suo duro mestiere!…

– Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!…Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il

padrone le porse anche il fiasco: – Te’, bevi! non aversuggezione!

Diodata, ancora un po’ esitante, si pulì la bocca coldorso della mano, e s’attaccò al fiasco arrovesciando ilcapo all’indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedevascendere quasi a ogni sorso nella gola color d’ambra; ilseno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il pa-drone allora si mise a ridere.

– Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!…Sorrise anch’essa, pulendosi la bocca un’altra volta

col dorso della mano, tutta rossa.

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– Tanta salute a vossignoria!Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su

di un covone, accanto all’uscio, colle spalle al muro, lemani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere giàalta, dietro il monte, verso Francofonte. Tutta la pianuradi Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata daun chiarore d’alba. A poco a poco, al dilagar di quelchiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare icovoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila.Degli altri punti neri si movevano per la china, e a se-conda del vento giungeva il suono grave e lontano deicampanacci che portava il bestiame grosso, mentre scen-deva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto sof-fiava pure qualche folata di venticello più fresco dallaparte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udi-vasi lo stormire delle messi ancora in piedi. Nell’aia labica alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, enell’ombra si accennavano confusamente altri covoni inmucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’ar-gento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, chediventava immenso nel buio.

– Eh? Diodata? Dormi, marmotta?…– Nossignore, no!…Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza

gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanziall’uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gliocchi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal son-no, col mento rilassato, le gambe fiacche.

– Dormivi!… Se te l’ho detto che dormivi!…E le assestò uno scapaccione come carezza.Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il

cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne avevaportate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quelmagazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane,prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto… glisembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso

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dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante voltel’aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelliche cascavano per via e morivano alle volte sotto il cari-co! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto!Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schie-na del figliuolo, con la funicella stessa della soma… Era-no dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asi-no morto al poveruomo! – Carico di famiglia! Santo chegli faceva mangiare i gomiti sin d’allora; Speranza checominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tre-dici mesi dell’anno!… – Più colpi di funicella che pane!– Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco ma-novale, a cercar fortuna… Il padre non voleva, perchéaveva la sua superbia anche lui, come uno che era statosempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere ilsangue suo al comando altrui. – Ci vollero sette anni pri-ma che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesual-do arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo… lafabbrica del Molinazzo… Circa duecento salme di gessoche andarono via dalla fornace al prezzo che volle ma-stro Nunzio… e la dote di Speranza anche, perché la ra-gazza non poteva più stare in casa… – E le dispute allor-ché cominciò a speculare sulla campagna!… – MastroNunzio non voleva saperne… Diceva che non era il me-stiere in cui erano nati. «Fa l’arte che sai!» – Ma poi,quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che avevacomprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misu-rarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi,come avesse nelle gambe la canna dell’agrimensore… Eordinava «bisogna far questo e quest’altro» per usaredel suo diritto, e non confessare che suo figlio potesseaver la testa più fine della sua. – La madre non ci arrivòa provare quella consolazione, poveretta. Morì racco-mandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo pre-diletto e Speranza carica di famiglia com’era stata lei…– un figliuolo ogni anno… – Tutti sulle spalle di Gesual-

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do, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guada-gnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne avevapassate delle giornate dure e delle notti senza chiuderocchio! Vent’anni che non andava a letto una sola voltasenza prima guardare il cielo per vedere come si mettes-se. – Quante avemarie, e di quelle proprio che devonoandar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! – Tanta car-ne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fati-che!… La coltura dei fondi, il commercio delle derrate,il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni delcognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciavatutto il danno sulle spalle di lui!… – Mastro Nunzio chesi ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del fi-gliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!… –Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, diqua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa gravedi pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rottedi stanchezza; dormendo due ore quando capitava, co-me capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una sie-pe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pez-zo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto dellamula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fos-so, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. –Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tuttiche volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo la-voro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suofratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria! – tro-vando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, ole querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi –le liti fra tutti loro quando gli affari non andavano bene.– Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fareil suo interesse. – Nel paese non un solo che non gli fos-se nemico, o alleato pericoloso e temuto. – Dover celaresempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala noti-zia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la facciachiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di

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ogni giorno; le ambagi per dire soltanto «vi saluto»; lestrette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coisorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava eminacce – la notte sempre inquieta, il domani sempregrave di speranza o di timore…

– Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padro-ne!… Hai le spalle grosse anche tu… povera Dioda-ta!…

Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta con-tenta e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col visobianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo.Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve elento per la distesa del bestiame che scendeva al torren-te, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guar-diani che lo guidavano e si spandevano lontane, nell’ariasonora. La luna ora discesa sino all’aia, stampava delleombre nere in un albore freddo; disegnava l’ombra va-gante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame;la massa inerte del camparo, steso bocconi – Nannil’Orbo, eh?… o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta die-tro la gonnella? – riprese don Gesualdo che era in venadi scherzare.

Diodata sorrise: – Nossignore!… nessuno!…Ma il padrone ci si divertiva: – Sì, sì!… l’uno o l’al-

tro… o tutti e due insieme!… Lo saprò!… Ti sorpren-derò con loro nel vallone, qualche volta!…

Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorri-so dolce e contento, allo scherzo del padrone che sem-brava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle:gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul col-lo; la bocca un po’ larga e tumida, ma giovane e fresca.

Il padrone stette un momento a guardarla così, sorri-dendo anch’esso, e le diede un altro scapaccione affet-tuoso.

– Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o perNanni l’Orbo! no!…

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– Oh, gesummaria!… – esclamò essa facendosi la cro-ce.

– Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!…Tacque un altro po’ ancora, e poi soggiunse: – Sei una

buona ragazza!… buona e fedele! vigilante sugli interes-si del padrone, sei stata sempre…

– Il padrone mi ha dato il pane, – rispose essa sempli-cemente. – Sarei una birbona…

– Lo so! lo so!… poveretta!… per questo t’ho volutobene!

A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quelbel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ri-cordi. – Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!… Neabbiamo passati dei brutti giorni!… Sempre all’erta, co-me il tuo padrone! Sempre colle mani attorno… a farqualche cosa! Sempre l’occhio attento sulla mia roba!…Fedele come un cane!… Ce n’è voluto, sì, a far questaroba!…

Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo unpezzetto, cambiando tono:

– Sai? Vogliono che prenda moglie.La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò:– Per avere un appoggio… Per far lega coi pezzi gros-

si del paese… Senza di loro non si fa nulla!… Voglionofarmi imparentare con loro… per l’appoggio del paren-tado, capisci?… Per non averli tutti contro, all’occasio-ne… Eh? che te ne pare?

Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani.Poi rispose, con un tono di voce che andò a rimescolar-gli il sangue a lui pure:

– Vossignoria siete il padrone…– Lo so, lo so… Ne discorro adesso per chiacchiera-

re… perché mi sei affezionata… Ancora non ci penso…ma un giorno o l’altro bisogna pure andarci a cascare…Per chi ho lavorato infine?… Non ho figliuoli…

Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido etutto bagnato.

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– Perché piangi, bestia?– Niente, vossignoria!… Così!… Non ci badate…– Cosa t’eri messa in capo, di’?– Niente, niente, don Gesualdo…– Santo e santissimo! Santo e santissimo! – prese a

gridare lui sbuffando per l’aia. Il camparo al rumorelevò il capo sonnacchioso e domandò:

– Che c’è?… S’è slegata la mula? Devo alzarmi?…– No, no, dormite, zio Carmine.Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile

e sottomessa:– Perché v’arrabbiate, vossignoria?… Cosa vi ho det-

to?…– M’arrabbio colla mia sorte!… Guai e seccature da

per tutto… dove vado!… Anche tu, adesso!… col pia-gnisteo!… Bestia!… Credi che, se mai, ti lascerei inmezzo a una strada… senza soccorsi?…

– Nossignore… non è per me… Pensavo a quei pove-ri innocenti…

– Anche quest’altra?… Che ci vuoi fare! Così va ilmondo!… Poiché v’è il comune che ci pensa!… Devemantenerli il comune a spese sue… coi denari di tutti!…Pago anch’io!… So io ogni volta che vo dall’esattore!…

Si grattò il capo un istante, e riprese:– Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella… Tu

stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Seivenuta al mondo da te, come Dio manda l’erba e lepiante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondocome dice il tuo nome… Diodata! Vuol dire di nessu-no!… E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelliadesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c’è pertutti! Hai trovato da vivere anche tu!… E la mia ro-ba?… me l’hanno data i genitori forse? Non mi son fattoda me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!…Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nul-la…

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In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando perl’aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ra-gazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo,le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito.

– Che vuoi? Non si può far sempre quel che si deside-ra. Non sono più padrone… come quando ero un pove-ro diavolo senza nulla… Ora ci ho tanta roba da lascia-re… Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là,per la strada… o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire chei figliuoli che avrò poi, se Dio m’aiuta, saranno nati sottola buona stella!…

– Vossignoria siete il padrone…Egli ci pensò un po’ su, perché quel discorso lo pun-

zecchiava ancora peggio di una vespa, e tornò a dire:– Anche tu… non hai avuto né padre né madre… Ep-

pure cosa t’è mancato, di’?– Nulla, grazie a Dio!– Il Signore c’è per tutti… Non ti lascerei in mezzo a

una strada, ti dico!… La coscienza mi dice di no… Ticercherei un marito…

– Oh… quanto a me… don Gesualdo!…– Sì, sì, bisogna maritarti!… Sei giovane, non puoi ri-

maner così… Non ti lascerei senza un appoggio… Titroverei un buon giovane, un galantuomo… Nanni l’Or-bo, guarda! Ti darei la dote…

– Il Signore ve lo renda…– Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti. Do-

ve andresti a finire altrimenti?… Penserò a tutto io. Hotanti pensieri pel capo!… e questo cogli altri!… Sai cheti voglio bene. Il marito si trova subito. Sei giovane…una bella giovane… Sì, sì, bella!… lascia dire a me chelo so! Roba fine!… sangue di barone sei, di certo!…

Ora la pigliava su di un altro tono, col risolino furbo ele mani che gli pizzicavano. Le stringeva con due dita ilganascino. Le sollevava a forza il capo, che ella si ostina-va a tener basso per nascondere le lagrime.

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

– Già per ora son discorsi in aria… Il bene che voglioa te non lo voglio a nessuno, guarda!… Su quel capoadesso, sciocca!… sciocca che sei!…

Come vide che seguitava a piangere, testarda, scappòa bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato.

– Santo e santissimo! Sorte maledetta!… Sempre guaie piagnistei!…

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V

Masi, il garzone, corse a svegliare don Gesualdo pri-ma dell’alba, con una voce che faceva gelare il sanguenelle vene:

– Alzatevi, vossignoria; ch’è venuto il manovale daFiumegrande e vuole parlarvi subito!…

– Da Fiumegrande?… a quest’ora?… – Mastro-donGesualdo andava raccattando i panni tastoni, al buio,ancora assonnato, con un guazzabuglio nella testa.Tutt’a un tratto gridò:

– Il ponte!… Deve essere accaduta qualche disgra-zia!… – Giù nella stalla trovò il manovale seduto sullapanchetta, fradicio di pioggia, che faceva asciugare iquattro cenci a una fiammata di strame. Appena videgiungere il padrone, cominciò a piagnucolare di nuovo:

– Il ponte!… Mastro Nunzio, vostro padre, dissech’era ora di togliere l’armatura!… Nardo vi è rimastosotto!…

Era un parapiglia per tutta la casa: Speranza, la sorel-la, che scendeva a precipizio, intanto che suo maritos’infilava le brache; Santo, ancora mezzo ubbriaco, ruz-zoloni per la scaletta della botola, urlando quasi l’accop-passero. Il manovale, a ciascuno che capitava, tornava adire:

– Il ponte!… l’armatura!… Mastro Nunzio dice chefu il cattivo tempo!…

Don Gesualdo andava su e giù per la stalla, pallido,senza dire una parola, senza guardare in viso nessuno,aspettando che gl’insellassero la mula, la quale spaventa-ta anch’essa sparava calci, e Masi dalla confusione nonriusciva a mettergli il basto. A un certo punto gli andòcoi pugni sul viso, cogli occhi che volevano schizzarglidall’orbita.

– Quando? santo e santissimo!… Non la finisci più,peste che ti venga!

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– Colpa vostra! Ve l’avevo detto! Non sono impreseper noialtri! – sbraitava la sorella in camicia, coi capelliarruffati, una furia tale e quale! Massaro Fortunato, piùcalmo, approvava la moglie, con un cenno del capo, si-lenzioso, seduto sulla panchetta, simile a una macina dimulino. – Voi non dite nulla! state lì come un allocco!

Adesso Speranza inveiva contro suo marito: – Quan-do si tratta d’aiutar voi, che pure siete suo cognato!…carico di figliuoli anche!… allora saltano fuori le diffi-coltà!… denari non ce ne sono!… i denari che si sonpersi nel ponte della malora!

Gesualdo da principio si voltò verso di lei inviperito,colla schiuma alla bocca. Poscia mandò giù la bile, e simise a canterellare mentre affibbiava la testiera dellamula: un’allegria che gli mangiava il fegato. Si fece il se-gno della croce, mise il piede alla staffa; infine di lassù, acavallo, che toccava quasi il tetto col capo, sputò fuori ilfatto suo, prima d’andarsene:

– Avete ragione! M’ha fatto fare dei bei negozi, tuomarito! La semenza che abbiamo buttato via a Donnin-ga! La vigna che m’ha fatto piantare dove non nasceneppure erba da pascolo!… Testa fine tuo marito!…M’è toccato pagarle di tasca mia le vostre belle specula-zioni! Ma son stanco, veh, di portare la soma! L’asinoquand’è stanco si corica in mezzo alla via e non va piùavanti…

E spronò la mula, che borbottava ancora; la sorellasbraitandogli dietro, dall’uscio della stalla, finché si udi-rono i ferri della cavalcatura sui ciottoli della stradic-ciuola, nel buio. Il manovale si mise a correre, affannato,zoppicando; ma il padrone, che aveva la testa come unmulino, non se ne avvide. Soltanto allorché furono giun-ti alla chiusa del Carmine, volse il capo all’udire lo scal-piccìo di lui nella mota, e lo fece montare in groppa. Ilragazzo, colla voce rotta dall’andatura della mula, ripe-teva sempre la stessa cosa:

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Page 84: Mastro-don Gesualdoitnaro.altervista.org/wp/wp-content/uploads/2015/07/Mastro-Don-Gesualdo.pdfdo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala

– Mastro Nunzio disse che era tempo di togliere l’ar-matura… Era spiovuto dopo il mezzogiorno… – No,vossignoria, disse mastro Nardo; lasciamo stare ancorasino a domani… – Disse mastro Nunzio: – tu parli cosìper papparti un’altra giornata di paga… – Io intanto fa-cevo cuocere la minestra per gli uomini… Dal monte siudiva gridare: «La piena! cristiani!…» Mentre Nardostava sciogliendo l’ultima fune…

Gesualdo, col viso al vento, frustato dalla burrasca,spronava sempre la mula colle calcagna, senza aprir boc-ca. – Eh?… Che dite, don Gesualdo?… Non risponde-te?… – Che non ti casca mai la lingua? – rispose infine ilpadrone.

Cominciava ad albeggiare prima di giungere alla Tor-retta.

Un contadino che incontrarono spingendo innanzil’asinello, pigliandosi l’acquazzone sotto la giacca di co-tonina, col fazzoletto in testa e le mani nelle tasche, volledire qualche cosa; accennava laggiù, verso il fiume, men-tre il vento si portava lontano la voce. Più in là una vec-chierella raggomitolata sotto un carrubbio si mise a gri-dare:

– Non potete passare, no!… Il fiume!… badate!…In fondo, nella nebbia del fiume e della pioggia, si

scorgeva confusamente un enorme ammasso di rovine,come un monte franato in mezzo al fiume, e sul pilonerimasto in piedi, perduto nella bruma del cielo basso,qualcosa di nero che si muoveva, delle braccia che ac-cennavano lontano. Il fiume, di qua e di là dei rottami,straripava in larghe pozze fangose. Più giù, degli uominimessi in fila, coll’acqua fino al ginocchio, si chinavano inavanti tutti in una volta, e poi tiravano insieme, con unoooh! che sembrava un lamento.

– No! no! – urlavano i muratori trattenendo pel brac-cio don Gesualdo. – Che volete annegarvi, vossignoria?

Egli non rispondeva, nel fango sino a mezza gamba,

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Page 85: Mastro-don Gesualdoitnaro.altervista.org/wp/wp-content/uploads/2015/07/Mastro-Don-Gesualdo.pdfdo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala

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andando su e giù per la riva corrosa, coi capelli che glisvolazzavano al vento. Mastro Nunzio, dall’alto del pilo-ne, gli gridava qualche cosa: delle grida che le raffichegli strappavano di bocca e sbrindellavano lontano.

– Che ci fate adesso lassù?… State a piangere il mor-to? Lasciate… lasciate andare! – gli rispose Gesualdodalla riva. Il rumore delle acque si mangiò anche le sueparole furiose. Il vecchio, in alto, nella nebbia, accenna-va sempre di no, testardo. Dell’altra gente gridava anchedalla riva opposta, sotto gli ombrelloni d’incerata, senzapotere farsi intendere, indicando verso il punto dove gliuomini tiravano in salvo delle travi. A seconda del ventogiungevano pure di lassù, donde veniva la corrente, del-le voci che sembravano cadere dal cielo, delle grida di-sperate, e un suono di corno rauco.

Gesualdo, curvo sotto l’acquazzone, sfangando sullariva, aiutava a tirare in salvo i legnami dell’armatura chela corrente furiosa seguitava a scuotere e a sfasciare. – Ame!… santo Dio!… non vedete che si porta anche quel-li?… – A un certo punto barcollò e stava per affondarenella melma spumosa che dilagava.

– Santo diavolone! Che volete lasciarvi anche la pel-le? – urlò il capomastro afferrandolo pel bavero. – Unaltro po’ strascinate me pure alla perdizione!

Egli, pallido come un morto, cogli occhi stralunati, icapelli irti sul capo, quasi colla schiuma alla bocca, ri-spondeva:

– Lasciatemi crepare! A voi non ve ne importa!… Di-te così perché voi non ci avete il sangue vostro in mezzoa quell’acqua!… Lasciatemi crepare!

Mastro Nunzio, vedendo smaniare a quel modo il suofigliuolo, voleva buttarsi a capo fitto giù nella correnteaddirittura: – Per non stare a sentir lui!… Adesso midirà ch’è tutta colpa mia!… vedrete!… Non son padro-ne di muovere un dito in casa mia… Sono padrone daburla… Allora è meglio finirla in una volta!… – E anda-va tentando l’acqua col piede.

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Page 86: Mastro-don Gesualdoitnaro.altervista.org/wp/wp-content/uploads/2015/07/Mastro-Don-Gesualdo.pdfdo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala

– Sentite! – interruppe il figliuolo con voce sorda. –Lasciatemi in pace anche voi! Io v’ho lasciato fare, voi!Avete voluto che prendessi l’appalto del ponte… pernon stare in ozio… Vedete com’è andata a finire!… Ebisogna tornare da capo, se non voglio perdere la cau-zione… Potevate starvene quieto e tranquillo a casa…Che vi facevo mancare?… Lasciatemi in pace almeno.Tanto, voi non ci avete perso nulla…

– Ah! Non ci ho perso nulla?… Sapevo bene che glie-lo avresti rinfacciato… a tuo padre!… Già non contopiù nulla io! Non so far più nulla!… Ti ho fatto quel chesei!… Come se non fossi il capo di casa!… come se nonconoscessi il mio mestiere!…

– Ah!… il vostro mestiere?… perché avevate la forna-ce del gesso?… e mi è toccato ricomprarvela due volteanche!… vi credete un ingegnere!… Ecco il bel mestie-re che sapete fare!…

Mastro Nunzio guardò infuriato il suo figliuolo, anna-spando, agitando le labbra senza poter proferire altreparole, strabuzzando gli occhi per tornare a cercare ilposto migliore da annegarsi, e infine brontolò:

– E allora perché mi trattieni?… Perché non vuoi chemi butti nel fiume? perché?

Gesualdo cominciò a strapparsi i capelli, a mordersile braccia, a sputare in cielo. Poscia gli si piantò in facciadisperato, scuotendogli le mani giunte dinanzi al viso.

– Per l’amor di Dio!… per l’anima di mia madre!…con questo po’ di tegola che m’è cascata fra capo e col-lo… capite che non ho voglia di scherzare adesso!…

Il capomastro si intromise per calmarli. – Infine quelch’è stato è stato. Il morto non torna più. Colle chiac-chiere non si rimedia a nulla. Piuttosto venite ad asciu-garvi tutti e due, che arrischiate di pigliare un malannoper giunta, così fradici come siete.

Avevano acceso un gran fuoco di giunchi e di legnarotte, nella capanna. Pezzi di travi su cui erano ancora

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Page 87: Mastro-don Gesualdoitnaro.altervista.org/wp/wp-content/uploads/2015/07/Mastro-Don-Gesualdo.pdfdo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala

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appiccicate le immagini dei santi che dovevano proteg-gere il ponte, buon’anima sua! Mastro Nunzio, il qualeperdeva anche la fede in quella disdetta, ci sputò sopraun paio di volte, col viso torvo. Tutti piangevano e si fre-gavano gli occhi dal fumo, intanto che facevano asciuga-re i panni umidi. In un canto, sotto quelle quattro tegolerotte, era buttato Nardo, il manovale che s’era rotta lagamba, sudando e spasimando. Volle mettere anch’egliuna buona parola nel malumore fra padre e figlio:

– Il peggio è toccato a me; – si lamentò, – che ora ri-mango storpio e non posso più buscarmi il pane.

Uno dei suoi compagni, vedendo che non potevamuoversi, gli ammucchiò un po’ di strame sotto il capo.Mastro Nunzio, sull’uscio, coi pugni rivolti al cielo, lan-ciava fuoco e fiamme.

– Giuda Iscariota! Santo diavolone! Doveva venireadesso questa grazia di Dio!…

Ciascheduno diceva la sua. Dei vicini, venuti per ve-dere; dei viandanti che volevano passare il fiume, easpettavano, al riparo, con la schiena alla fiammata.

– Evviva voi! Avete fatto un bel lavoro! Tanti denarispesi! I denari del comune!… Ora ci tocca aspettarechissà quanto, prima di vedere un altro ponte… Ocom’era fatto, di ricotta?

– Questi altri, adesso!… Arrivate giusto nel buon mo-mento!… Volete che faccia scendere Dio e i santi di las-sù?…– sbraitava mastro Nunzio.

Gesualdo, lui, non diceva nulla, con la faccia color diterra, seduto su di un sasso, le mani fra le cosce, penzo-loni. Quindi prese a sfogarsi col manovale.

– Guarda quella carogna! Mi lascia fuori la mula, conquesto tempo! Poltronaccio! Nemico del tuo padrone!

– Non vi disperate, vossignoria! – piagnucolò Nardodal suo cantuccio. – Finché c’è la salute, il resto è nien-te!…

Gesualdo gli lanciò addosso un’occhiata furibonda.

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– Parla bene, lui… che non ha nulla da perdere!…– No, no, vossignoria!… Non dite così, che il Signore

vi gastiga!…Mastro Nunzio, appoggiato allo stipite dell’uscio, sta-

va masticando da un po’ la sua idea, fra le gengive sden-tate. Infine la buttò fuori, rivolgendosi verso il figliuoloall’improvviso:

– E sai cos’ho da dirti? Che non ne voglio più saperedi questo ponte della disgrazia! Piuttosto faremo unmulino, coi materiali che riusciremo a mettere in sal-vo… Un affare sicuro quello…

– Un’altra adesso! – saltò su Gesualdo. – Siete am-mattito davvero? E la cauzione? Volete che ci perda an-che quella? Se lasciassi fare a voi!… Quando presi a fab-bricare dei mulini, mi toccava sentire che era la rovina…Ora che vi siete persuaso, non vorreste far altro… comese tutto il paese dovesse macinarsi le ossa notte e giorno,e le mie prima degli altri!… santo e santissimo!

La lite s’accese un’altra volta. Mastro Nunzio chestrillava e si lagnava di non esser rispettato. – Vedete sesono un fantoccio?… un pulcinella?… il capo della ca-sa… signori miei!… guardate un po’!… – Gesualdo perfinirla saltò di nuovo sulla mula, verde dalla bile, e se neandò mentre l’acqua veniva ancora giù dal cielo comeDio la mandava, col capo nelle spalle, bagnato sino alleossa, il cuore dentro più nero del cielo nuvolo che avevadinanzi agli occhi; il paese grigio e triste nella pioggiaanch’esso, lassù in cima al monte, col suono del mezzo-giorno che passava a ondate, trasportato dal vento, e sisperdeva in lontananza.

Quanti lo incontravano, conoscendo la disgrazia chegli era capitata, dimenticavano di salutarlo e tiravanovia. Egli guardava bieco e borbottava di tanto in tantofra di sé:

– Sono ancora in piedi! Mi chiamo mastro-don Ge-sualdo!… Finché sono in piedi so aiutarmi!

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Un solo, un povero diavolo, che andava per la stessastrada, gli offrì di prenderlo sotto l’ombrello. Egli rispo-se:

– Ci vuol altro che l’ombrello, amico mio! Non teme-te, che non ho paura d’acqua e di grandine, io!

Arrivò al paese dopo mezzogiorno. Il canonico Lupis’era coricato allora allora, subito dopo pranzo. – Ven-go, vengo, don Gesualdo! – gli gridò dalla finestra, sen-tendosi chiamare.

Qualcheduno che andava ancora pei fatti suoi, aquell’ora, vedendolo così fradicio, piovendo acqua co-me un ombrello, gli disse:

– Eh, don Gesualdo?… che disgrazia!…Lui duro come un sasso, col sorriso amaro sulle lab-

bra sottili e pallide, rispondeva:– Eh, cose che accadono. Chi va all’acqua si bagna, e

chi va a cavallo cade. Ma sinché non v’è uomini morti, atutto si rimedia.

I più tiravano di lungo, voltandosi per curiosità dopoch’erano passati. Il canonico comparve infine sul por-toncino, abbottonandosi la sottana.

– Eh? eh? don Gesualdo? Eccovi qua… eccoviqua!…

Don Gesualdo s’era fatta una faccia allegra per quan-to poteva, colla febbre maligna che ci aveva nello stoma-co.

– Sissignore, eccomi qua! – rispose con un sorriso checercò di fare allargare per tutta la faccia scura. – Eccomiqua, come volete voi… ai vostri comandi… Però, dite laverità, voi parlate col diavolo, eh?

Il canonico finse di non capire: – Perché? pel ponte?No, in fede mia! Mi dispiace anzi!…

– No, no, non dico pel ponte!… Ma andiamo di so-pra, vossignoria. Non son discorsi da farsi qui, in istra-da…

C’era il letto ancora disfatto nella camera del canoni-

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co; tutt’in giro alle pareti un bel numero di gabbioline,dove il canonico, gran cacciatore al paretaio, teneva isuoi uccelli di richiamo; un enorme crocifisso nero difaccia all’uscio, e sotto la cassa della confraternita, comeuna bara da morto, nella quale erano i pegni dei denaridati a prestito; delle immagini di santi qua e là, appicci-cate colle ostie, insudiciate dagli uccelli, e un puzzo damorire, fra tutte quelle bestie.

Don Gesualdo cominciò subito a sfogarsi narrando isuoi guai: il padre che si ostinava a fare di testa sua, permostrare ch’era sempre lui il capo, dopo aver dato fon-do al patrimonio… Gli era toccato ricomprargliela duevolte la fornace del gesso! E continuava a metterlo inquegli impicci!… E se lui diceva ahi! quando era co-stretto a farsi aprire la vena e a lasciarsi cavar dell’altrosangue per pagare, allora il padre gridava che gli si man-cava di rispetto. La sorella ed il cognato che lo pelavanodall’altra parte. Una bestia, quel cognato Burgio! bestiae presuntuoso! E chi pagava era sempre lui, Gesual-do!… Suo fratello Santo che mangiava e beveva alle suespalle, senza far nulla, da mattina a sera: – Col mio dena-ro, capite, vossignoria? col sangue mio! So io quel chemi costa! Quando ho lasciato mio padre nella fornacedel gesso in rovina, che non si sapeva come dar da man-giare a quei quattro asini del carico, colla sola camiciaindosso sono andato via… e un paio di pantaloni chenon tenevano più, per la decenza… senza scarpe ai pie-di, sissignore. La prima cazzuola per incominciare a fareil muratore dovette prestarmela mio zio il Mascalise… Emio padre che strepitava perché lasciavo il mestiere incui ero nato… E poi, quando presi il primo lavoro a cot-timo… gridava ch’era un precipizio! Ne ho avuto delcoraggio, signor canonico! Lo so io quel che mi costa!Tutto frutto dei miei sudori, quello che ho… E quandolo vedo a buttarmelo via, chi da una parte e chi dall’al-tra!… che volete, vossignoria! il sangue si ribella!… Ho

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taciuto sinora per aver la quiete in famiglia… per man-giare in santa pace un boccone di pane, quando torno acasa stanco… Ma ora non ne posso più! Anche l’asinoquando è stanco si corica in mezzo alla via e non va piùavanti… Voi non sapete che gastigo di Dio è Speranza,mia sorella!… Voglio finirla!… Ciascuno per casa sua.Dico bene, canonico mio?

Il canonico intanto governava i suoi uccelli di richia-mo. – Se non mi date retta, vossignoria, è inutile cheparli!

– Sì, sì, vi ascolto. Che diavolo! non ci vuole poi unsant’Agostino a capire quel che volete!… In conclusionesi tratta di salvare la cauzione, non è così? di avere qual-che aiuto dal comune?

– Sissignore… la cauzione…Poi Gesualdo gli piantò addosso gli occhi grigi e pe-

netranti, e riprese:– E un’altra cosa anche… Vi dicevo che voglio far ca-

sa da me… per conto mio… se trovo la moglie che miconviene… Ma se non mi date retta, vossignoria… allo-ra è inutile… O se fingete di non capire… Vi ricorda-te?… quel discorso che mi faceste la sera della festa delsanto Patrono?… Ma se fate le viste di non capire, per-chè sono venuto qui da voi… quando vi ho detto perprima cosa… Vi ho detto: «Eccomi qua, come voletevoi…»

– Ah!… ah!… – rispose il canonico alzando il capocome un asino che strappi la cavezza. Poi lasciò stare ilnicchio che andava spolverando attentamente, e gli fissòaddosso anche lui i suoi occhi da uomo che non si lasciamettere nel sacco.

– Sentite, don Gesualdo… questo non è discorso chevenite a farmi adesso, a questa maniera! Allora vuol direche non conoscete chi vi è amico e chi vi è nemico, be-nedetto Dio! Ho piacere che abbiate toccato con manose il consiglio che vi ho dato allora era tutt’oro! Una gio-

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vane ch’è una perla, avvezza ad ogni guaio, che l’avrestetutta ai vostri comandi, e di famiglia primaria anche!…la quale vi farebbe imparentare con tutti i pezzi grossidel paese!… Lo vedete adesso di che aiuto vi sarebbe?Avreste dalla vostra i giurati e tutti quanti. Anche perl’altra faccenda della gabella, poi, se volete entrarci in-sieme a noi…

– Sissignore – rispose Gesualdo vagamente. – Tantecose si potrebbero fare… Si potrebbe parlarne…

– Si dovrebbe parlarne chiaro, amico mio. Mi prende-te per un ragazzo? Una mano lava l’altra. Aiutami chet’aiuto, dice pure lo Spirito Santo. Voi, caro don Ge-sualdo, avete il difetto di credere che tutti gli altri sienpiù minchioni di voi. Prima fate lo gnorri, non ci sentiteda quell’orecchio, e poi, al bisogno, quando vi casca lacasa addosso, mi venite dinanzi con quella faccia.

– Sarà il caldo… saranno tutti quegli uccelli… – bal-bettò l’altro un po’ scombussolato. – Vorrei vedervi neimiei panni, signor canonico! – esclamò infine.

– Nei vostri panni… sicuro… mi ci metto! Voglio far-vi vedere e toccar con mano chi vi vuol bene o no! Ecco-mi con voi. Pensiamo a quest’affare del ponte prima… asalvare la cauzione… con un sussidio del comune. An-dremo adesso dal capitano… e dai giurati che non ci sa-rebbero contrari… Peccato che il barone Zacco abbiagià dei sospetti per l’affare della gabella!… Lasciatemipensare…

Mentre terminava di legarsi il mantello al collo anda-va raccogliendo le idee, colle sopracciglia aggrottate,guardando in terra di qua e di là.

– Ecco! Io vo prima dalla signora Sganci… no! no!non le dico nulla per adesso! qualche parola così inaria… in via accademica… Mi basta che donna Marian-na scriva due righe al capitano. Quanto alla baronessaRubiera posso dormire fra due guanciali… è come sefosse la vostra stessa persona, se mi promettete… Mabadiamo, veh!…

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E il canonico sgranò gli occhi. Don Gesualdo stese lamano verso il crocifisso.

– No, dico per l’altro affare, quello della gabella. Nonvorrei che giuocassimo a scarica barile fra di noi, carodon Gesualdo!

Costui voleva allungare la mano di nuovo; ma il cano-nico aveva già infilato l’uscio. – Voi m’aspetterete giù,nel portone. Un momento, vado e torno.

Tornò fregandosi le mani: – Ve l’avevo detto. Non civede dagli occhi donna Marianna per quella nipote! Fa-rete un affarone!

Appena fuori si imbatterono nel notaro Neri, che an-dava ad aprire lo studio, e fece il viso di condoglianza adon Gesualdo. – Brutto affare, eh? Mi dispiace! – Sottosi vedeva che gongolava. Il canonico, a tagliar corto, ri-spose lui: – Cosa da nulla… Il diavolo poi non è cosìbrutto… Rimedieremo… Abbiamo salvato i materiali…– Dopo, quando furono lontani, e il notaio con la chiavenella toppa li guardava ancora ridendo, il canonico glisoffiò nell’orecchio, a mastro-don Gesualdo:

– E’ che avete una certa faccia, caro mio!…– Io?– Sì. Non ve ne accorgete, ma l’avete! Se fate quella

faccia, tutti vi metteranno i piedi sopra per camminar-vi!… Con quella faccia non si va a chiedere un favore…Aspettatemi qui; salgo un momento dal cavalier Peperi-to. E’ una bestia; ma l’hanno fatto giurato.

Appena il canonico se ne fu andato su per la scala rot-ta e scalcinata, arrivò il cavaliere dal poderetto, montatosu di un asinello macilento, con una bisaccia piena di fa-ve dietro. Don Gesualdo per ingraziarselo lo aiutò a sca-ricar le fave, e a legar l’asino alla mangiatoia, sotto l’arcodella scaletta; ma il cavaliere parve un po’ seccato d’es-ser stato sorpreso in quell’arnese, tutto infangato, e colvestito lacero da campagna.

– Non ne facciamo nulla, – disse il canonico ritornan-

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do poco dopo. – E’ una bestia! Crede di fare il cavalieresul serio… Deve avercela con voi… Bisogna trovare lapersona. Ciolla? ohi? Ciolla? A voi dico, Ciolla! Sapetes’è in casa don Filippo? L’avete visto uscire?

Ciolla ammiccò coll’unico occhio, torcendo ancora labocca di paralitico.

– No, Canali è ancora lì, da Bomma, che l’aspetta percondurlo dalla cognata, la ceraiuola, sapete bene? E’ laloro passeggiata, dopopranzo… a trastullarsi con lei,dietro lo scaffale… Che c’è di nuovo, don Gesualdo?Andate a benedire il ponte, insieme al canonico?

Don Gesualdo si sfogò infine con lui, appuntandoglicontro le corna, con tutt’e due le mani.

– Vi stava sulla pancia quel ponte!… Come aveste do-vuto spendere di tasca vostra!…

Il canonico lo tirò per un braccio:– Andiamo, andiamo! Volete chiudere la bocca a tut-

ti gli sfaccendati?Nel salire per la stradicciuola dei Margarone incon-

trarono il marchese Limòli, che andava a fare la sua pas-seggiatina solita della sera, dal Rosario a Santa Maria diGesù, sempre solo e con l’ombrello rosso sotto il brac-cio. Il canonico, rispondendo alla scappellata cerimo-niosa del marchese, ebbe un’ispirazione.

– Aspettate, aspettate un momento!Di lì a un po’ tornò a raggiungere don Gesualdo con

tutt’altro viso.– Un gran diavolo quel marchese! Povero come

Giobbe, ma è uno che ha voce in capitolo! S’aiutano fradi loro, tutti in un gruppo!… una buona parola, alle vol-te!… fra di loro non possono dir di no… Lo lascerebbe-ro morir di fame, ma un favore non glielo negano…

Don Filippo era ancora in casa, occupato a rigar lacarta per le aste di Nicolino: – Che buon vento? chebuon vento?… – Poscia vedendo entrare anche don Ge-sualdo, dietro il canonico, calò di nuovo gli occhiali sul

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

naso. – Ho tanto da fare!… Ah, sì!… la cauzione?…Volete che il comune vi aiuti a ripescarla? Volete qual-che agevolazione per riprendere i lavori?… Vedremo…sentiremo… Se l’avete sbagliato la prima volta questoponte benedetto?… E’ un affar grave… Non so di che sitratti… Non sono informato… Da un pezzo che non mene occupo… Tanto da fare!… Non ho tempo di soffiar-mi il naso… Vedremo… sentiremo…

In quella entrò Canali, il quale veniva a cercare Mar-garone, sorpreso di non vederlo all’ora solita. Anch’essosapeva del ponte, e sembrava che si divertisse mezzomondo a prolungare le condoglianze – il veleno che gliscorreva sotto il faccione giallo: – Ahi! ahi! don Gesual-do!… Era un’impresa grossa!… Un colpo da mandareruzzoloni!… C’era troppa carne al fuoco in casa vo-stra!… – Don Filippo, ora che aveva l’appoggio, si ri-voltò anche lui: – Bisogna fare il passo secondo la gam-ba, mio caro!… Volevate pigliare il cielo a pugni… Ilposto a chi tocca, caro amico!… Non bisogna mettersiin testa di dare il gambetto a un paese intero!…

Don Gesualdo allora perse la pazienza. Si alzò di bot-to, rosso come un gallo, e aprì la bocca per sfogarsi. Mail canonico gliela tappò con una mano. – State zitto! La-sciate dire a me! Sentite qua, don Filippo!

Lo tirò per la falda nell’anticamera. Di lì a un po’rientrarono a braccetto, don Filippo tornato un pezzo dizucchero con mastro-don Gesualdo, spalancandogli ad-dosso gli occhioni di bue, quasi lo vedesse allora per laprima volta: – Vedremo!… Quanto a me… quel che sipuò fare… Ho parlato nel vostro interesse, caro donGesualdo…

Don Gesualdo, scendendo le scale, brontolava anco-ra:

– Perché dovrei averli tutti contro?… Non fo male anessuno… Fo gli affari miei…

– Eh, caro don Gesualdo! – scappò a dire infine il ca-

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nonico. – Gli affari vostri fanno a pugni con gli affari de-gli altri, che diavolo!… Apposta bisogna tirarli dalla vo-stra… Fra di loro si danno la mano… son tutti parenti…Voi siete l’estraneo… siete il nemico, che diavolo!

Il canonico si fermò su due piedi, in mezzo alla piaz-zetta, di fronte al palazzo dei Trao, alto, nero e smantel-lato, e guardando fisso don Gesualdo, cogli occhiettiacuti di topo che sembrava volessero ficcarglisi dentrocome due spilli, il viso a lama di coltello che sfuggiva daogni parte:

– Vedete?… quando sarete entrato nel campo anchevoi… Quella è la dote che vi porterebbe donna Bian-ca!… E’ denaro sonante per voi che avete le mani in tan-ti affari.

Mastro-don Gesualdo tornò a lisciarsi il mento, comequando stava a combinare qualche negozio con uno piùfurbo di lui; guardò il palazzo; guardò poi il canonico, erispose:

– Però caparra in mano, eh? signor canonico? Primavoglio vedere come la pigliano i parenti di lei.

– A braccia aperte la pigliano!… ve lo dico io! Fateconto che il fiume torni a rifarvi il ponte meglio di pri-ma, e andate a dormirci su.

Nel vicoletto lì accanto, vicino a casa sua, trovò Dio-data che stava aspettandolo colla mantellina in testa, rin-cantucciata sotto l’arco del ballatoio, poiché in casa nonla volevano, Speranza principalmente, e la tolleravanosoltanto in campagna, pei servigi grossi. Appena la ra-gazza vide il suo padrone ricominciò a piangere e a la-mentarsi, quasi fosse caduto addosso a lei il ponte: –Don Gesualdo, che disgrazia! Mi sarei contentata d’an-negarmi io piuttosto!… Son venuta a vedervi, vossigno-ria… con questa spina che dovete averci in cuore!…

– Quest’altra adesso! Perché sei venuta? Tutta bagna-ta sei!… guarda! come le bestie!… dalla Canziria fin quia piedi!… apposta per farmi il piagnisteo… Come non

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ne avessi abbastanza dei miei guai!… Ora dove vai aquest’ora?

La fece entrare nella stalla. Essa nello staccarsi dalmuro lasciò una pozza d’acqua, lì davanti all’uscio doveera stata ad aspettare. Anche lui si sentiva le ossa rotte.Per giunta, sua sorella l’accolse come un cane.

– Siete tornato dalla festa? Avete visto che bel guada-gno?

Poi si rivolse inviperita a suo marito, nera, magra alpar di un chiodo, cogli occhi di carbone, tanto di boccaaperta, quasi volesse mangiarsi la gente:

– Voi non dite nulla?… A voi non bolle il sangue?…Burgio, più pacifico, cercava di svignarsela, facendo

le spalle grosse, chinando il testone di bue.– Ecco!… Nessuno si dà pensiero dei guai che ci cà-

pitano!… Io sola mi mangio il fegato!Il fratello Gesualdo, colla bocca amara, le andava

cantando:– Lascia stare, Speranza! Lasciami stare, che ne ho

abbastanza, anche senza la tua predica!– Non volete sentire neppure la predica? Non volete

che mi lamenti? Tanti denari persi!… Che non li guada-gnate i vostri denari, voi?…

Egli per fuggire quella vespa, andava cercando in cu-cina qualcosa da mettere sotto il dente, dopo una gior-nata simile. Frugava nel cassone del pane. Speranzasempre dietro, come il gastigo di Dio.

– Fra poco, seguitando di questo passo, non ce nesarà più del pane nel cassone, no!… e non ci sarà nep-pure il cassone, non ci sarà!… La casa se ne andrà tuttaal diavolo!…

Santo, che tornava affamato dal bighellonare in piaz-za tutta la giornata, al trovare il fuoco spento diede nellefurie, come un vero animale. I ragazzi che strillavano;tutti i vicini alle finestre per godersi la scena; tanto cheGesualdo infine perse la pazienza:

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– Sapete cosa vi dico? che mi fate fare uno sproposi-to! Tante volte ve l’ho predicato!… ora lo fo sul serio,com’è vero Dio! L’asino quando non ne può più si cori-ca, e buona notte a chi resta!

E se ne andò nella stalla, mentre Speranza gli strillavadietro:

– Scappate anche? per andare a trovare Diodata? Vipare che non l’abbia vista? Mezza giornata che vi aspet-ta, quella sfacciata!…

Egli sbatacchiò l’uscio. Da prima non voleva neppurmangiare, digiuno com’era da ventiquattr’ore, con tuttiquei dispiaceri che gli empivano lo stomaco. Diodataandò a comprargli del pane e del salame, bagnata sinoalle ossa al par di lui, colla gola secca. Lì, sulla panchettadella stalla, dinanzi a una fiammata di strame, almeno siinghiottiva in pace un po’ di grazia di Dio. – Ti piace,eh, questa bella vita? Ti piace a te? – domandava eglimasticando a due palmenti, ancora imbronciato. Essastava a vederlo mangiare, col viso arrossato dalla fiam-ma, e diceva di sì, come voleva lui, con un sorriso con-tento adesso. Il giorno finiva sereno. C’era un’occhiatadi sole che spandevasi color d’oro sul cornicione del pa-lazzo dei Trao, dirimpetto, e donna Bianca la quale scio-rinava un po’ di biancheria logora, sul terrazzo che nonpoteva vedersi dalla piazza, colle mani fine e delicate, lapersona che sembrava più alta e sottile in quella vestic-ciuola dimessa, mentre alzavasi sulla punta dei piedi perarrivare alle funicelle stese da un muro all’altro.

– Vedi chi vogliono farmi sposare? – disse lui. – UnaTrao!… e buona massaia anche!… m’hanno detto la ve-rità…

E rimase a guardare, pensieroso, masticando adagioadagio. Diodata guardava anche lei, senza dir nulla, colcuore grosso. Passarono le capre belando dal vicoletto.Donna Bianca, come sentisse alfine quegli occhi fissi sudi lei, voltò il viso pallido e sbattuto, e si trasse indietrobruscamente.

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– Adesso accende il lume, – riprese don Gesualdo. –Fa tutto in casa lei. Eh, eh… c’è poco da scialarla inquella casa!… Mi piace perché è avvezza ad ogni guaio,e l’avrei al mio comando… Tu di’, che te ne pare?

Diodata volse le spalle, andando verso il fondo dellastalla per dare una manciata di biada fresca alla mula, erispose dopo un momento, colla voce roca:

– Vossignoria siete il padrone.– E’ vero… Ma veh!… che bestia! Devi aver fame an-

che tu… Mangia, mangia, poveretta. Non pensar soloalla mula.

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VI

Don Luca il sagrestano andava spegnendo ad una aduna le candele dell’altar maggiore, con un ciuffetto d’er-be legato in cima alla canna, tenendo d’occhio nel tem-po istesso una banda di monelli che irrompevano di trat-to in tratto nella chiesa quasi deserta in quell’ora calda,inseguiti a male parole dal sagrestano. Donna BiancaTrao, inginocchiata dinanzi al confessionario, chinava ilcapo umile; abbandonavasi in un accasciamento desola-to; biascicando delle parole sommesse che somigliavanoa dei sospiri. Dal confessionario rispondeva pacatamen-te una voce che insinuavasi come una carezza, a lenire leangosce, a calmare gli scrupoli, a perdonare gli errori, aschiudere vagamente nell’avvenire, nell’ignoto, comeuna vita nuova, un nuovo azzurro. Il sole di sesta scap-pava dalle cortine, in alto, e faceva rifiorire le piaghe disant’Agata, all’altar maggiore, quasi due grosse rose inmezzo al petto. Allora la penitente risollevavasi ansiosa,raggiante di consolazione, aggrappandosi avidamentealla sponda dell’inginocchiatoio, con un accento più fer-vido, appoggiando la fronte sulle mani in croce per la-sciarsi penetrare da quella dolcezza. Veniva un ronzìo dimosche sonnolenti, un odor d’incenso e di cera strutta,un torpore greve e come una stanchezza dal luogo edall’ora. Una vecchia aspettava accoccolata sui gradinidell’altare, simile a una mantellina bisunta posata su diun fagotto di lavandaia, e quando destavasi borbottan-do, don Luca le dava sulla voce:

– Bella creanza! Non vedete che c’è una signora pri-ma di voi al confessionario?… quelle non sono le quat-tro chiacchiere che avete da portarci voi al tribunale del-la penitenza!… discorsi di famiglia, cara voi!… affariimportanti!

Nell’ombra del confessionario biancheggiò una mano

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che faceva il segno della croce, e donna Bianca si alzò in-fine, barcollando, chiusa nel manto sino ai piedi, col vi-so raggiante di una dolce serenità. Don Luca, vedendoche la vecchia non si risolveva ad andarsene, toccò lamantellina colla canna.

– Ehi? ehi? zia Filomena?… E’ tardi oggi, è tardi. Staper suonare mezzogiorno, e il confessore deve andarse-ne a desinare.

La vecchia levò il capo istupidito, e si fece ripeteredue o tre volte la stessa cosa, testarda, imbambolata. –Sicuro, sto per chiudere la chiesa. Potete andarvene,madre mia. Oggi?… neppure!… ci ha la trebbia al Pas-so di Cava padre Angelino. Giorni di lavoro, cara mia! –Bel bello riescì a mandarla via, borbottando, trascinan-do le ciabatte. Poi, mentre il prete infilava l’uscio dellasagrestia, don Luca dovette anche dar la caccia a queimonelli, rovesciando banchi e sedie, facendo atto di tira-re l’incensiere: – Fuori! fuori! Andate a giuocare inpiazza! – Nello stesso tempo passava e ripassava vicino adonna Bianca che si era inginocchiata a pregare dinanzialla cappella del Sacramento, sfolgorante d’oro e di co-lori lucenti da accecare, tossendo, spurgandosi, ferman-dosi a soffiarsi il naso, brontolando:

– Neppure in chiesa!… non si può raccogliersi a far leorazioni!…

Donna Bianca si alzò in piedi, segnandosi, colle lab-bra ancora piene di avemarie. Il sagrestano le rivolse laparola direttamente, mentr’essa avviavasi per uscire:

– Siete contenta, vossignoria? Un sant’uomo quel pa-dre Angelino! Confessa bene, eh? V’ha lasciata conten-ta?

Ella accennò di sì col capo, col sorriso breve, rallen-tando il passo per cortesia.

– Un bravo uomo! un uomo di giudizio! Quello sìche ve lo può dare un buon consiglio… meglio di vostrofratello don Ferdinando… ed anche di don Diego, sì!…

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Guardò intorno cogli occhi di gatto avvezzi a vedercial buio nella chiesa e su per la scala del campanile, e ag-giunse sottovoce, cambiando tono, in aria di gran miste-ro:

– Sapete che risposta gli hanno dato a don GesualdoMotta? Aveva mandato a fare la domanda formale dimatrimonio, ieri dopo pranzo, col canonico Lupi…

Bianca arrossì senza levare il capo. Il sagrestano che laguardava negli occhi bassi, seguendola passo passo, ri-prese più forte:

– Gli hanno detto di no… tale e quale come ve lo dicoadesso… Il canonico è rimasto di sale!… Nessuno si sa-rebbe aspettato quella risposta, non è vero?… il canoni-co donna Marianna, anche la baronessa vostra zia, tuttiche ci avevano posto un grande impegno!… Si sarebbemosso quel Cristo ch’è di legno, vedete! Nessunol’avrebbe creduto così duro, quel don Diego vostro fra-tello! un signore umile e buono che pareva di potersiconfessare con lui!… Non parlo di don Ferdinando,ch’è peggio di un ragazzo, poveretto!…

Egli era riuscito a fermare donna Bianca, piantando-sele dinanzi, cogli occhi lucenti, il viso acceso, abbassan-do ancora la voce nel farle una confidenza decisiva:

– Don Gesualdo sembra impazzito!… Dice che nonpuò mandarla giù! che ne farà una malattia, com’è veroIddio!… Sono andato a trovarlo alla Canziria… facevatrebbiare il grano… – Don Gesualdo, ch’è questa la ma-niera di prendersela?… Ci lascerete la pelle, vossigno-ria!… – Lasciatemi stare, caro don Luca, che so io!…dacché il canonico mi portò quella bella risposta!… –Sembra davvero malato di cent’anni!… La barba lun-ga… Non dorme e non mangia più…

In quel momento si udì uno scalpiccìo di gente dichiesa. Don Luca alzò la voce di botto, quasi parlasse aun sordo:

– Oggi padre Angelino ci ha la trebbia al Passo di Ca-

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va. Se avete qualche altro peccato da confessarvi, c’èl’arciprete Bugno sfaccendato… buono anche quello!un servo di Dio…

Però vedendo il canonico Lupi che s’avanzava versodi loro, inchinandosi a ogni altare, colla destra stillanted’acqua benedetta, il nicchio pendente dall’altra mano:

– Benedicite, signor canonico! Come va da questeparti?…

Il canonico, invece di rispondergli, si rivolse a donnaBianca con un sorriso sciocco sul muso aguzzo di furet-to color di filiggine.

– Facciamo del bene, donna Bianca! Raccomandia-moci al Signore! Vi ho vista entrare in chiesa, mentreandavo qui vicino, da don Gesualdo Motta, e ho detto:Ecco donna Bianca che fa la sua visita alle Quarant’ore,e dà il buon esempio a me, indegno sacerdote…

– Giusto… qui c’è il signor canonico!… Se avetequalche altro peccato da dirgli, donna Bianca…

– Io non posso, mi dispiace! Monsignore non mi hadata la confessione, perché sa che me ne manca il tem-po… – Indi aggiunse con un certo risolino, lisciandosi ilmento duro di barba. – Poi i vostri fratelli non vorreb-bero…

Donna Bianca, rossa come se avesse avuto sul visotutto il riflesso della cortina che velava l’altare del Croci-fisso, finse di non capire. Il canonico ripigliò, mutandoregistro:

– Ci ho tante faccende gravi sulle spalle… mie e d’al-trui… Andavo appunto da don Gesualdo per commis-sione di vostra zia. Sapete il grosso affare che hanno in-sieme, colla baronessa? -Donna Bianca fece segno di no.

– Un affare grosso… Si tratta di pigliare in affitto leterre di tutti i comuni della Contea!… Don Gesualdo hail cuore più grande di questa chiesa!… e i conquibus an-che!… Assai! assai, donna Bianca! Assai più di quel chesi crede… Uno che si farà ricco come Creso, con quellatesta fine che ha!

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Don Luca si lasciò scappare di bocca, mentre andavaspogliandosi degli abiti ecclesiastici, col viso dentro lacotta, le braccia in aria, la voce soffocata:

– Bisogna vedere quel che ha raccolto alla Canziria,bisogna vedere!

– Ah, ah! venite di lassù?– Sissignore, – rispose il sagrestano, cavando fuori il

viso rosso e imbarazzato. – Così, per fare quattro pas-si… Ci vado ogni anno per la limosina della chiesa…Don Gesualdo è devoto di sant’Agata!

– Un cuor d’oro! – interruppe il canonico. – Genero-so, caritatevole!… Peccato che…

E si diede della mano sulla bocca.– Quello che stavo dicendo a donna Bianca!… – con-

fermò don Luca, ripreso animo, cogli occhietti di nuovopetulanti.

– Basta! basta! Ciascuno dispone a suo modo in casasua! Ora vi lascio pei fatti vostri. Tanti saluti a don Die-go e a don Ferdinando!

Donna Bianca imbarazzata voleva andarsene anchelei; ma ma il sagrestano la trattenne:

– Un momento! Cosa devo dire a padre Angelino, sevolete mettervi in grazia di Dio prima della festa di sanGiovanni Battista…

Il canonico insisteva anche lui: – No, no, restate, don-na Bianca, fate gli affari vostri. – Poscia, appena egli la-sciò ricadere la portiera, uscendo, don Luca ammiccò: –E così? che devo dire a don Gesualdo, se mai lo vedo…per caso?..

Essa sembrava esitante. Seguitava ad avviarsi verso laporta della chiesa, passo passo, tenendo gli occhi bassi,come infastidita dall’insistenza del sagrestano.

– Giacché i miei fratelli hanno detto di no…– Una sciocchezza hanno detto! Avrei voluto condur-

li per mano alla Canziria, e fargli vedere se non vale tuttii vostri ritratti affumicati!… Scusatemi, donna Bian-

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ca!… parlo nell’interesse di vossignoria… I vostri fratel-li tengono al fumo perché sono vecchi… hanno i piedinella fossa, loro!… Ma voi che siete giovine, come rima-nete? Non si rovina così una sorella!… Un marito similenon ve lo manda neppure san Giuseppe padre dellaprovvidenza!… Sono pazzi a dir di no i vostri fratelli!…pazzi da legare!… Le terre della Contea se le piglieràtutte lui, don Gesualdo!… e poi le mani in pasta da pertutto. Non si mura un sasso che non ci abbia il suo gua-dagno lui… Domeneddio in terra! Ponti, mulini, fabbri-che, strade carreggiabili!… il mondo sottosopra mettequel diavolo! Fra poco si andrà in carrozza sino a Mili-tello, prima Dio e don Gesualdo Motta!… Sua moglieandrà in carrozza dalla mattina alla sera!… cammineràsull’oro colato, come è vero Dio! Anche padre Angelinovi avrà consigliato la stessa cosa che vi dico io… Non houdito nulla, per non violare il suggello della confessione,ma padre Angelino è un uomo di giudizio… vi avrà con-sigliato di prendere un buon marito… di mettervi ingrazia di Dio.

Donna Bianca lo guardò sbigottita, col mento aguzzodei Trao che sembrava convulso. Indi alzò verso il croci-fisso gli occhi umidi di lagrime, colle labbra pallide ser-rate in una piega dolorosa. Con quelle labbra senza san-gue rispose infine sottovoce:

– I miei fratelli sono padroni… tocca a loro decide-re…

Don Luca a corto d’argomenti rimase un istante quasisbalordito, piantandosi dinanzi a lei per non lasciarlascappare, soffocato da tante buone ragioni che aveva ingola, balbettando, annaspando, grattandosi rabbiosa-mente il capo, con gli occhietti scintillanti che andavanocome frugandola tutta da capo a piedi per trovare ilpunto debole, scuotendole dinanzi le mani giunte, mi-naccioso e supplichevole. Alla fine proruppe:

– Ma è giustizia, santo Dio? è giustizia far tribolare in

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tal modo un galantuomo che vi vuol tanto bene?… Dareun calcio alla fortuna?… Scusatemi, donna Bianca! ioparlo nel vostro interesse… Dovete pensarci voi! Nonsiete più sotto tutela, alla fin fine!… Mi scaldo il sangueper voi… perché sono buon servo della vostra fami-glia… una gran casata!… peccato che non sia più quelladi prima!… Ora che avreste il mezzo di far risorgere ilnome dei Trao!… Questo si chiama dare un calcio allafortuna!… si chiama essere ingrati colla divina Provvi-denza.

Essa seguitava ad andare verso la porta, irresoluta, acapo chino. Don Luca alle calcagna di lei, accalorando-si, toccando tutti i tasti, mutando tono a ogni registro: –E certe giornate, donna Bianca!… certe giornate chespuntano a casa vostra!…

Basta, scusatemi, io ne parlo perché ci bazzico sem-pre ad aiutarvi, insieme a mia moglie… E quando i vo-stri parenti si dimenticano che siete al mondo!… certegiornate d’inverno come vuol Dio!… Basta! Potreste es-ser la regina del paese, invece! pensateci bene. Don Ge-sualdo spiccherebbe di lassù il sole e la luna per farvipiacere!… Non ci vede più dagli occhi!… Sembra unpazzo addirittura.

Donna Bianca s’era fermata su due piedi, a testa alta,con una fiamma improvvisa che parve buttarle in viso laportiera sollevata in quel momento da qualcuno che en-trava in chiesa. Comparve una donna macilenta, collagonnella in cenci sollevata dalla gravidanza sugli stinchisottili, sudicia e spettinata, come se non avesse fatto al-tro in vita sua che portare avanti quel ventre – un viso dichioccia istupidita dal covare, con due occhietti tondi sudi una faccia a punta, gialla e incartapecorita, e un faz-zoletto lacero da malata, legato sotto il mento; nient’al-tro sulle spalle, da persona ch’è di casa in casa del BuonDio. Essa dalla soglia si mise a gemere, quasi avesse ledoglie:

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– Don Luca?… che non lo suonate mezzogiorno?…la pentola sta per bollire…

– Perché l’hai messa a bollire così presto? Il sole è an-cora qui, sul limitare… L’arciprete fa un casa del diavo-lo per questa faccenda di suonare mezzogiorno primadell’ora… Per stavolta… giacché è fatta… eccoti la chia-ve del campanile…

Don Luca, tenendo ancora la cotta sotto il braccio, li-tigava colla moglie, stecchito nella sottana bisuntaquant’era enorme il ventre della donna:

– Tu ci hai l’orologio lì, nella pancia!… Pensi solo amangiare!… Ci vuol la grazia di Dio!… I vicini sono an-cora tutti fuori… Ecco lì i ragazzi di Burgio!…

– Aspettano anche loro!… – piagnucolò la moglie,sempre su quel tono. – Aspettano che suonate mezzo-giorno… – E se ne andò col ventre avanti.

– I nipoti di don Gesualdo! – riprese il sagrestanoammiccando in modo significativo a donna Bianca neltornare indietro. – Stanno lì a farci la spia!… Li mandasua madre apposta comare Speranza, per sapere tuttoquello che facciamo! Tiene d’occhio la roba, colei!…quasi fosse sua!… Ci ha fatto i suoi disegni sopra!…Quando m’incontra ha l’aria di mangiarmi!…

Finse di precedere donna Bianca per sollevare la por-tiera, onde trattenerla ancora un momento: – Lui fa pro-prio compassione!… Una faccia da malato!… Mi parlòtutto il tempo di vossignoria… Dice che forse il canoni-co Lupi non avrà saputo fare l’imbasciata… che vorreb-be parlarvi… per vedere… per sentire…

Donna Bianca si fece di fuoco.– E’ innamorato, che volete farci? Innamorato come

un pazzo. Dovreste tornare a parlargliene coi vostri fra-telli. Mandargli qualche buona parola… una rispostapiù da cristiani… Verrò io stesso a prenderla, dopomezzogiorno, quando don Diego e don Ferdinando so-no in letto… col pretesto dei fiori per la Madonna… Sì?Cosa mi dite?

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Essa chinò il capo rapidamente, nel passare sotto lacortina, ed uscì fuori. Don Luca credette di scorgere chevolesse frugarsi in tasca, e seguitò, correndole dietro:

– Che fate? No! Mi offendete! Un’altra volta… piùtardi… quando potrete… Ho pensato meglio di manda-re mia moglie, a prendere la risposta di vossignoria. Nonvorrei che i vostri fratelli, vedendomi bazzicare per casa,sospettassero che mi manda il canonico…

Dopo vespro spicciò lesto lesto il servizio della chiesae corse alla Canziria: cinque miglia di salita, pazienza,per amore di don Gesualdo che se lo meritava, in verità!– Sta per cascare, don Gesualdo! Ancora essa non mi hadetto chiaro di sì, colla sua bocca; ma si vede che tenten-na, come la pera quand’è matura. Sono pratico di questecose, perché vedo tutti i giorni in chiesa delle donne chericorrono al tribunale della penitenza… prima e poi…M’ha fatto sudare una camicia!… Ma ora vi dico che lapera è matura! Un’altra crollatina, e vi casca fra le brac-cia; ve lo dico io! Dovreste correre al paese e scaldare ilferro mentre è caldo.

Però don Gesualdo non fece una gran festa all’imba-sciata amorosa che gli capitava in quel momento: – Ve-dete, don Luca, ci ho tutta la raccolta nell’aia… Sono inpiedi da stanotte… Non ho sempre il vento in tasca pertrebbiare a comodo mio!…

L’aia era vasta quanto una piazza. Dieci muli trottava-no in giro, continuamente; e dietro i muli correvanoNanni l’Orbo e Brasi Camauro, affondando nella pulasino ai ginocchi, ansanti, vociando, cantando, urlando.Da un lato, in una nuvola bianca, una schiera di contadi-ni armati di forche, colle camice svolazzanti, sembravache vangassero nel grano; mentre lo zio Carmine, in ci-ma alla bica, nero di sole, continuava a far piovere altricovoni dall’alto. Delle tregge arrivavano ogni momentodai seminati intorno, cariche d’altra messe; dei garzoniinsaccavano il grano e lo portavano nel magazzino, dove

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non cessava mai la nenia di Pirtuso che cantava «e vivaMaria!» ogni venti moggi. Tutt’intorno svolazzavanostormi di galline, un nugolo di piccioni per aria; degliasinelli macilenti abboccavano affamati nella paglia,coll’occhio spento; altre bestie da soma erano sparsequa e là; e dei barili di vino passavano di mano in mano,quasi a spegnere un incendio. Don Gesualdo sempre inmoto, con un fascio di taglie in mano, segnando il fru-mento insaccato, facendo una croce per ogni barile divino, contando le tregge che giungevano, sgridandoDiodata, disputando col sensale, vociando agli uominida lontano, sudando, senza voce, colla faccia accesa, lacamicia aperta, un fazzoletto di cotone legato al collo,un cappellaccio di paglia in testa.

– Lo vedete, don Luca, se ho tempo da perdere ades-so!… Vino qua! Date da bere a don Luca!… Sì, sì,verrò; ma quando potrò… Per ora non posso muover-mi, cascasse il mondo!… Diodata!… bada che il ventospinge la fiamma verso l’aia, santo e santissimo!… No,don Luca! non sono in collera pel rifiuto dei suoi fratel-li… Venite qua, accostatevi, ch’è inutile far sapere allagente i fatti nostri!… Ciascuno la pensa a modo suo…Poi è lei che deve risolvere… Se lei dice di sì, io per menon mi tiro indietro… Ma oggi non posso venire… eneppure domani… Be’! dopodomani!… Dopodomanidevo venire anche per l’affare della gabella, e ne discor-reremo.

Don Luca suggerì pure di far precedere due parolinescritte: – Ci abbiamo appunto mia moglie che par fattaapposta per consegnarle sottomano a donna Bianca,senza destar sospetti. Una bella letterina, con due o treparole che fanno colpo sulle ragazze! Capite, vossigno-ria? Ciolla ci ha la mano… Ne parlerei io stesso a Ciollain segretezza, senza stare a rompervi il capo, vossignoria;e vi fa fare una bella figura. Con un bottiglione di vinopoi ve lo chetate, il Ciolla.

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Don Gesualdo non volle sapere di lettera: – Non perrisparmiare il vino; ma che storie mi andate contando?Se a lei l’affare gli va, allora che bisogno c’è di tantechiacchiere.

– Basta! basta! – conchiuse don Luca. – Dicevo perpiantare meglio il chiodo. Ma voi siete il padrone.

Don Luca se ne tornò tutto contento, con un agnelloe una forma di cacio. Per prudenza mandò la moglie afare l’imbasciata, sotto un pretesto: – Circa a quel di-scorso che siete intesi con mio marito, vossignoria, diceche il confessore verrà dopodomani a prendere la rispo-sta!… Il confessore domenica aspetta la risposta!… –Don Ferdinando che aveva udito aprire il portone, com-parve in quel momento come un fantasma.

– Il confessore!… – riprese a dire la gnà Grazia senzache nessuno le domandasse nulla. – Donna Bianca vole-va confessarsi!… Oggi non può, il confessore… E do-mani neppure… Domenica piuttosto, se gli fate sapereche siete pronta…

La poveraccia, sotto quegli occhi stralunati di donFerdinando, che pareva la frugassero tutta, sospettosi,inquieti, si confondeva, balbettava, cercava le parole.Poscia, vedendo che l’altro stava zitto e non si moveva,allampanato, tacque anch’essa, e si mise a guardare inaria, a bocca aperta, colle mani sul ventre. Bianca, a ta-gliar corto, la condusse nella dispensa, per darle unagrembiata di fave. Don Ferdinando, sempre dietro, cu-cito alle loro calcagna, taciturno, guardando in ogni can-tuccio, sospettoso. Si chinò anch’esso sul mucchietto difave, covandolo colla persona, misurandolo ad occhio,palpandolo colle mani. E dopo che la sagrestana se ne fuandata, come un’anatra, reggendo il grembiule pieno sulventre enorme, si mise a brontolare:

– Troppe!… Ne hai date troppe!… Stanno per termi-nare!…La zia non ne manda altre prima di Natale!…

La sorella voleva andarsene; ma lui seguitava a cerca-

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re, a frugare, a passare in rivista la roba della dispensa:due salsicciotti magri appesi a un gran cerchio; una for-ma di cacio bucata dai topi; delle pere infracidite su diun’asse; un orciolino d’olio appeso dentro un recipienteche ne avrebbe contenuto venti cafisi; un sacco di farinain fondo a una cassapanca grande quanto un granaio; ilcestone di vimini che aspettava ancora il grano della Ru-biera.

Infine riprese:– Ci vuol l’aiuto di Dio!… Siamo tre bocche da sfa-

mare, in casa!… Ti par poco? Ci vorrebbe anche un po’di brodo per Diego… Non mi piace da qualche tem-po!… Hai visto la faccia che ha? Lo stesso viso dellabuon’anima, ti rammenti?… quando si mise a letto pernon alzarsi più! E il medico non viene neppure, perchèha paura di non esser pagato… dopo tanti denari che s’èmangiati nell’ultima malattia della buon’anima!… La ziaRubiera s’è dimenticata che siamo al mondo… ed anchela zia Sganci…

Così brontolando andava passo passo dietro alla so-rella, chinandosi a raccattar per terra le fave cadute dalgrembiule di Grazia. Poscia, come svegliandosi da unsogno, domandò:

– Tu perché non vai più dalla zia Rubiera? Avrebbemandato un paio di piccioni, sapendo che Diego non stabene… per fargli un po’ di brodo…

Bianca divenne di brace in viso, e chinò gli occhi.Don Ferdinando aspettò un momento la risposta a boc-ca aperta, battendo le palpebre. Indi tornò nella dispen-sa a riporre le fave che aveva raccolte da terra. Poco do-po essa se lo vide comparire dinanzi un’altra volta, conquell’aria sbalordita.

– Se torna la sagrestana non gli dar nulla, un’altra vol-ta! Sanguisughe sono! Le fave stanno per terminare, haivisto?… E un’altra cosa… Dovresti andare dalla ziaSganci per un po’ d’olio… in prestito… Diglielo bene

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che lo vuoi in prestito, perché noi non siamo nati perchiedere la limosina… giacché la zia non ci ha pensa-to… Fra poco saremo al buio… anche Diego che è ma-lato… tutta la notte!…

E spalancava gli occhi, accennando ancora colle manie col capo, con un terrore vago sul viso attonito. Da lon-tano si udiva di tanto in tanto la tosse che si mangiavadon Diego, attraverso agli usci, lungo il corridoio, im-placabile e dolorosa, per tutta la casa… Bianca sussulta-va ogni volta, col cuore che le scoppiava, chinandosi adascoltare, o fuggiva come spaventata, tappandosi leorecchie.

– Non ci reggo, no! Non ci reggo!…Infine Dio le diede la forza di ricomparire dinanzi a

lui, quel giorno in cui don Ferdinando le aveva dettoche il fratello stava peggio, nella cameretta sudicia,sdraiato su quel lettuccio che sembrava un canile. DonDiego non stava né peggio né meglio. Era lì, aspettandoquel che Dio mandava, come tutti i Trao, senza lagnarsi,senza cercare di fuggire il suo destino, badando solo dinon incomodare gli altri, e tenersi per sé i suoi guai e lesue miserie. Volse il capo, vedendo entrare la sorella,quasi un’ombra gli calasse sul viso incartapecorito. Po-scia le accennò colla mano di accostarsi al letto. – Stomeglio… sto meglio… povera Bianca!… Tu comestai?… Perché non ti sei fatta vedere?… perché?…

Le accarezzava il capo con quella mano scarna e sudi-cia di malato povero. Gli era rimasto sulle guance inca-vate e sparse di peli grigi un calore di fiamma.

– Povera Bianca!… son sempre tuo fratello, sai!… iltuo fratello che ti vuol tanto bene… povera Bianca!…

– Don Ferdinando mi ha detto… – balbettò essa timi-damente. – Volete un po’ di brodo?…

Il malato da prima fece segno di no, guardando inaria, supino. Poi volse il capo, fissandola cogli occhi avi-di dal fondo delle orbite che sembravano vuote, filiggi-nose. – Il brodo, dicevi? C’è un po’ di carne?…

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– Manderò dalla zia… dalla zia Sganci!… – s’affrettòad aggiungere Bianca, con una vampa improvvisa sulleguance. Sul volto del fratello era passata un’altra fiammasimile.

– No! no!… non ne voglio.Neppure il medico voleva: – No, no! Cosa mi fa il

medico?… Tutte imposture!… per spillarci dei dena-ri… Il vero medico è lassù!… Quel che vorrà Dio… Delresto mi sento meglio…

Parve migliorare realmente, di lì a qualche giorno: delbuon brodo, un po’ di vino vecchio che mandava la ziaSganci, l’aiutarono ad alzarsi da letto, ancora sconquas-sato, col fiato ai denti. Venne pure donna Marianna inpersona a fargli visita, premurosa, con un rimproveroamorevole sulla faccia buona: – Come? Siete in quellostato ed io non ne so nulla? Siamo in mezzo ai turchi?Siamo parenti, sì o no? Sempre misteri! Sempre ombro-si e selvatici, tutti voialtri Trao!… rincantucciati comegli orsi in questa tana! Un bel mattino vi troveranno bel-li e morti all’improvviso che sarà una vergogna per tuttoil parentado!… Neppure di quel negozio del matrimo-nio non me ne avete detto nulla!…

E sfilò quest’altro rosario: Erano pazzi, o cos’erano, arifiutare una domanda simile a quella?… Uno sulla stra-da di farsi riccone come don Gesualdo Motta!… – DonGesualdo! sissignori! I pazzi lasciateli stare!… Vedetebene in quale stato vi hanno ridotto!… Un cognato chepotrebbe aiutarvi in tutti i modi… che vi toglierebbe datante angustie!… Ah!… ah!…

Donna Marianna guardava intorno per la stanzacciasquallida, crollando il capo. Gli altri non fiatavano:Bianca a capo chino; don Ferdinando aspettando cheparlasse suo fratello, cogli occhi di barbagianni fissi sudi lui.

Don Diego da principio rimase attonito, brontolan-do:

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– Mastro-don Gesualdo!… Siamo arrivati fin lì!…Mastro-don Gesualdo che vuol sposare una Trao!…

– Sicuro! Chi volete che la sposi?… senza dote? Nonè più una bambina neppure lei!… E’ un tradimentobell’e buono!… Cosa farà, quando chiuderete gli occhivoi e vostro fratello?… la serva, eh? La serva della ziaRubiera o di qualchedun altro?…

Don Diego si alzò da letto come si trovava, in cami-ciuola di flanella, col fazzoletto in testa, le gambe stec-chite che gli tremavano a verga dentro le mutande logo-re: un ecceomo! Andava errando per la stanza,stralunato, facendo gesti e discorsi incoerenti, tossendo,tirando il fiato a stento, soffiandosi il naso, quasi suonas-se una tromba.

– Mastro-don Gesualdo!… Saremmo arrivati a que-sto, che una Trao sposerebbe mastro-don Gesualdo! Tuacconsentiresti, Bianca?… di’!… Tu diresti di sì?…

Bianca pallidissima, senza levare gli occhi da terra,disse di sì col capo, lentamente.

Egli agitò in aria le braccia tremanti, e non seppe piùtrovare una sola parola. Don Ferdinando non fiatavaneppur lui, atterrito che Don Diego non riuscisse a per-suader Bianca.

– Cosa volete che dica? – esclamò la zia. – Vi pare unbell’avvenire quello d’invecchiare come voialtri… fratante angustie?… Scusatemi, ne parlo perché siamo pa-renti… Fo quel che posso anch’io per aiutarvi… ma nonè una bella cosa infine neanche per voialtri… Ed ora chevi si offre la fortuna, risponderle con un calcio… Scusa-temi, io la direi una porcheria!

Tutt’a un tratto don Diego si mise a ridere, quasi col-pito da un’ispirazione, ammiccando dell’occhio, fregan-dosi le mani, con dei cenni del capo che volevano direassai.

– Va bene! va bene!… Non è che questo?… perchéora come ora siamo un po’ angustiati?… Ti pesa, di’?…

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

ti pesa questa vita angustiata, povera Bianca?… Haipaura per l’avvenire?…

Si fregò il mento peloso colla mano ischeletrita, segui-tando ad ammiccare, cercando di rendere furbo il sorri-so pallido.

– Vieni qua… Non ti dico altro!… Anche voi, zia!…Venite a vedere!…

S’arrampicò tutto tremante su di una seggiola peraprire un armadietto ch’era nel muro, al di sopra dellafinestra, e ne tirò fuori mucchi di scartafacci e di perga-mene – le carte della lite – quella che doveva essere lagran risorsa della famiglia, quando avessero avuto i de-nari per far valere le loro ragioni contro il Re di Spagna:dei volumi gialli, logori e polverosi, che lo facevano tos-sire a ogni voltar di pagina. Sul letto era pure sciorinatoun grand’albero genealogico, come un lenzuolo: l’alberodella famiglia che bagnava le radici nel sangue di un relibertino, come portava il suo stemma – di rosso, con tregigli d’oro, su sbarra del medesimo, e il motto che glori-ficava il fallo della prima autrice: Virtutem a sanguinetraho.

S’era messi gli occhiali, appoggiando i gomiti sullasponda del lettuccio, bocconi, con gli occhi che si accen-devano in fondo alle orbite livide.

– Son seicent’anni d’interessi che ci devono!… Unabella somma!… Uscirete d’ogni guaio una volta persempre!…

Bianca era cresciuta in mezzo a simili discorsi che aiu-tavano a passare i giorni tristi. Aveva veduto semprequei libracci sparsi sulle tavole sgangherate e per le se-die zoppe. Così essa non rispose. Suo fratello volse final-mente il capo verso di lei, con un sorriso bonario e ma-linconico.

– Parlo per voialtri… per te e per Ferdinando… Negodrete voialtri almeno… Quanto a me… io sono arri-vato… Te’!… te’ la chiave!… serbala tu!

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La zia Sganci, a quei discorsi, da prima scattò comeuna molla: – Caro nipote, mi sembrate un bambino! –Ma subito si calmò, col sorriso indulgente di chi vuol farcapire la ragione proprio a un ragazzo.

– Va bene!… va benone!… Intanto maritatela con losposo che vi si offre adesso, e poi, se diverrete tanti Cre-si, sarà anche meglio.

Don Diego rimase interdetto al vedere che la sorellanon prendeva la chiave, e tornò daccapo:

– Anche tu, Bianca?… Dici di sì anche tu?…Essa, accasciata sulla seggiola, chinò il capo in silen-

zio.– E va bene!… Giacché tu lo vuoi… giacché non hai

il coraggio di aspettare…Donna Mariannina seguitava a perorare la causa di

don Gesualdo, dicendo ch’era un affare d’oro quel ma-trimonio, una fortuna per tutti loro; congratulandosicon la nipote la quale fissava fuori dalla finestra, cogliocchi lucenti di lagrime; rivolgendosi financo a don Fer-dinando che guardava tutti quanti ad uno ad uno, sba-lordito; battendo sulle spalle di don Diego il quale sem-brava che non udisse, cogli occhi inchiodati sulla sorellae un tremito per tutta la persona. A un certo punto egliinterruppe la zia, balbettando:

– Lasciatemi solo con Bianca… Devo dirle due paro-le… Lasciateci soli…

Essa alzò gli occhi sbigottita, faccia a faccia col fratel-lo che sembrava un cadavere, dopo che la zia e don Fer-dinando furono usciti.

Il pover’uomo esitò ancora prima di aggiungere quelche gli restava a dire, fissando la sorella con un dolorepiù pungente e profondo. Poscia le afferrò le mani, agi-tando il capo, movendo le labbra senza arrivare a proffe-rir parola.

– Dimmi la verità, Bianca!… Perché vuoi andartenedalla tua casa?… Perchè vuoi lasciare i tuoi fratelli?…

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Lo so! lo so!… Per quell’altro!… Ti vergogni a starecon noi, dopo la disgrazia che t’è capitata!…

Continuava ad accennare del capo, con uno struggi-mento immenso nell’accento e nel viso, colle lagrimeamare che gli scendevano fra i peli ispidi e grigi dellabarba.

– Dio perdona… Ferdinando non sa nulla!… Io…io… Bianca!… Come una figliuola ti voglio bene!…Mia figlia sei… Bianca!…

Tacque sopraffatto da uno scoppio di pianto.Ella più morta che viva scosse il capo lentamente e

biascicò:– No… no… Non è per questo…Don Diego lasciò ricadere adagio adagio le mani della

sorella, quasi un abisso si scavasse fra di loro.– Allora!… Fa quello che vuoi… fa quello che vuoi…E le volse le spalle, curvo, senza aggiunger altro, stra-

scicando le gambe.

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VII

Nella casa antica dei La Gurna, presa in affitto dadon Gesualdo Motta, s’aspettavano gli sposi. Davanti al-la porta c’era un crocchio di monelli, che il ragazzo diBurgio, in qualità di parente, s’affannava a tener disco-sti, minacciandoli con una bacchettina; la scala sparsa difoglie d’arancio; un lume a quattro becchi posato sullaringhiera del pianerottolo; e Brasi Camauro, con unacacciatora di panno blù, la camicia di bucato, gli stivalinuovi, che dava l’ultimo colpo di scopa nel portone im-biancato di fresco. A ogni momento succedeva un falsoallarme. I ragazzi gridavano: – Eccoli! eccoli! – Camau-ro lasciava la scopa, e della gente si affacciava ai balconiilluminati.

Verso un’ora, di notte arrivò il marchese Limòli, fa-cendosi largo colla canna d’India. Vide il lume, vide lefoglie d’arancio e disse: – Bravo! – Ma nel salire le scale,stava per rompersi l’osso del collo, e allora scappò anchea bestemmiare:

– Che bestie!… Han fatto un mondezzaio!..Brasi corse colla scopa. – Spazzo via tutto, signor

marchese? Butto via ogni cosa?– No, no!… Adesso son passato. Non grattar troppo

colla scopa, piuttosto… Si sente l’odor di stalla.Udendo delle voci, Santo Motta che aspettava di so-

pra, vestito di nuovo, coi pantaloni a staffe e un panciot-to di raso a fiori, si affacciò nel pianerottolo, infilandosila giamberga.

– Eccomi! eccomi!… Sono qui!… Ah, signor mar-chese!… bacio le mani!…

E rimase un po’ confuso, non vedendo altri che ilLimòli.

– Servo, servo, caro don Santo!… Non baciate piùnulla… ora siamo parenti.

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

In cima alla scala comparve anche donna Sara Cirme-na, la sola di tutto il parentado della sposa che si fossedegnata di venire, con un moggio di fiori finti in testa, ilvestito di seta che aveva preso le pieghe come la carta,nel cassettone, i pendagli di famiglia che le strappavanole orecchie, seccata di aspettare da un gran pezzo in unbagno di sudore, e si mise a strillare di lassù:

– Ma che fanno? C’è qualche altra novità?– Nulla, nulla, – rispose il marchese salendo adagio

adagio.– Son uscito prima per non far vedere ch’ero solo in

chiesa, di tutti i parenti… Son venuto a dare un’occhia-ta.

Don Gesualdo aveva fatto delle spese: mobili nuovi,fatti venire apposta da Catania, specchi con le cornicidorate, sedie imbottite, dei lumi con le campane di cri-stallo: una fila di stanze illuminate, che viste così, contutti gli usci spalancati, pareva di guardare nella lente diun cosmorama.

Don Santo precedeva facendo la spiegazione, tirandoin su ogni momento le maniche che gli arrivavano allapunta delle dita.

– Come? Non c’è nessuno ancora? – esclamò il mar-chese, giunti che furono nella camera nuziale, parata co-me un altare.

Compare Santo rannicchiò il capo nel bavero di vellu-to, al pari di una testuggine.

– Per me non manca… Io son qui dall’avemaria…Tutto è pronto…

– Credevo di trovare almeno gli altri parenti… Ma-stro Nunzio… vostra sorella…

– Nossignore… si vergognano… C’è stato un casa deldiavolo! Io son venuto per tener d’occhio il trattamen-to…

E aprì l’uscio per farglielo vedere: una gran tavola ca-rica di dolci e di bottiglie di rosolio, ancora nella carta

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ritagliata come erano venuti dalla città, sparsa di garofa-ni e gelsomini d’Arabia, tutto quello che dava il paese,perché la signora Capitana aveva mandato a dire che civolevano dei fiori; quanti candelieri si erano potuti averein prestito, a Sant’Agata e nell’altre chiese. Diodata ciaveva pure messi in bell’ordine tutti i tovagliuoli arroto-lati in punta, come tanti birilli, che portavano ciascunoun fiore in cima.

– Bello! bello! – approvò il marchese. – Una cosa si-mile non l’ho mai vista!… E questi qui, cosa fanno?

Ai due lati della tavola, come i giudei del Santo Sepol-cro ci erano Pelagatti e Giacalone, che sembravano dicartapesta così lavati e pettinati.

– Per servire il trattamento, sissignore!… Mastro Tit-ta e l’altro barbiere suo compagno si son rifiutati, conun pretesto!… Vanno soltanto nelle casate nobili queipezzenti!… Temevano di sporcarsi le mani qui, loro chefanno tante porcherie!…

Giacalone, premuroso, corse tosto con una bottigliaper ciascuna mano. Il marchese si schermì:

– Grazie, figliuol mio!… Ora mi rovini il vestito, ba-da!

– Di là ci sono anche le tinozze coi sorbetti! – aggiun-se don Santo.

Ma appena aprì l’uscio della cucina, si videro fuggiredelle donne che stavano a guardare dal buco della serra-tura.

– Ho visto, ho visto, caro parente. Lasciateli stare;non li spaventate.

In quel momento si udì un baccano giù in istrada, ecorsero in tempo al balcone per vedere arrivare la car-rozza degli sposi. Nanni l’Orbo, a cassetta, col cappellosino alle orecchie, faceva scoppiettare la frusta come uncarrettiere, e vociava:

– Largo!… A voi!… Guardatevi!… – Le mule, tolteallora dall’armento, ricalcitravano e sbuffavano, tanto

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

che il canonico Lupi propose di smontare lì dov’erano, eBurgio s’era già alzato per scavalcare lo sportello. Ma lemule tutt’a un tratto abbassarono il capo insieme, e infi-larono il portone a precipizio.

– Morte subitanea! – esclamò il canonico, ricadendocol naso sui ginocchi della sposa.

Salivano a braccetto. Don Gesualdo con una spillaluccicante nel bel mezzo del cravattone di raso, le scarpelucide, il vestito coi bottoni dorati, il sorriso delle nozzesulla faccia rasa di fresco; soltanto il bavero di velluto,troppo alto, che gli dava noia. Lei che sembrava più gio-vane e graziosa in quel vestito candido e spumante, collebraccia nude, un po’ di petto nudo, il profilo angolosodei Trao ingentilito dalla pettinatura allora in moda, icapelli arricciati alle tempie e fermati a sommo del capodal pettine alto di tartaruga: una cosa che fece schiocca-re la lingua al canonico, mentre la sposa andava salutan-do col capo a destra e a sinistra, palliduccia, timida, qua-si sbigottita, tutte quelle nudità che arrossivano dimostrarsi per la prima volta dinanzi a tanti occhi e a tan-ti lumi.

– Evviva gli sposi! evviva gli sposi! – si mise a gridareil canonico, messo in allegria, sventolando il fazzoletto.

Bianca prese il bacio della zia Cirmena, il bacio dellozio marchese, ed entrò sola nelle belle stanze, dove nonera anima viva.

– Ehi? ehi? bada che perdi il marito! – le gridò dietrolo zio marchese fra le risate generali.

– Ci siamo tutti? – borbottò sottovoce donna Sarina.Il canonico si affrettò a risponder lui.– Sissignora. Poca brigata, vita beata!Dietro di loro saliva Alessi, colla berretta in mano, in-

timidito da quei lumi e da quell’apparato. Sin dall’usciosi mise a balbettare:

– Mi manda la signora baronessa Rubiera… Dice chenon può venire perchè le duole il capo… Manda a salu-tare la nipote, e don Gesualdo anche…

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– Vai in cucina, da questa parte – gli rispose il mar-chese. – Di’ che ti dieno da bere.

Don Gesualdo approfittò di quel momento per rac-comandare sottovoce a suo fratello:

– Stai attento, dinanzi a tutta questa gente!… Ti met-ti a sedere, e non ti muovi più. Come vedi fare a me, faitu pure.

– Ho capito. Lascia fare a me!La zia Cirmena si era impadronita della sposa, e aveva

assunta un’aria matronale che la faceva sembrare in col-lera. Dopo che ciascuno ebbe preso posto nella bella sa-la cogli specchi, si fece silenzio; ciascuno guardando diqua e di là per fare qualche cosa, ed ammirando coi cen-ni del capo. Alla fine il canonico credette di dover rom-pere il ghiaccio:

– Don Santo, sedetevi qua. Avvicinatevi; non abbiatetimore.

– A me? – rispose Santo che si sentiva dar del don luipure.

– Questo è tuo cognato, – disse il marchese a Bianca.Il notaro ripigliò di lì a un momento:– Guardate! guardate! Sembra lo sbarco di Cristofo-

ro Colombo!Vedevasi sull’uscio dell’anticamera un mucchio di te-

ste che si pigiavano, fra curiose e timide, quasi stesse perscoppiare una mina. Il canonico fra gli altri monelliscorse Nunzio, il nipotino di don Gesualdo, e gli fece se-gno d’entrare, ammiccandogli. Ma il ragazzo scappò viacome un selvaggio; e il canonico, sempre sorridendo,disse:

– Che diavoletto!… tutto sua madre…Il marchese, sdraiato sulla sedia a bracciuoli, accanto

alla nipote, sembrava un presidente, chiacchierando sol-tanto lui.

– Bravo! bravo!… Tuo marito ha fatto le cose be-ne!… Non ci manca nulla in questa casa!… Ci starai da

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principessa!… Non hai che a dire una parola… mostra-re un desiderio…

– Allora ditegli che vi comperi delle altre mule – ag-giunse il canonico ridendo.

– E’ vero; sei alquanto pallida… Ti sei forse spaventa-ta in carrozza?

– Sono mule troppo giovani… appena tolte dall’ar-mento… non ci sono avvezze… Ora usano dei cavalliper la carrozza – disse il canonico.

– Certamente! certamente! – si affrettò a risponderedon Gesualdo. – Appena potrò. I denari servono perspenderli… quando ci sono.

Il marchese e il canonico Lupi tenevano viva la con-versazione, don Gesualdo approvando coi cenni del ca-po; gli altri ascoltavano: la zia Cirmena con le mani sulventre e un sorrisetto amabile che faceva cascare le pa-role di bocca: un sorriso che diceva: – Bisogna pure!giacché son venuta!… Valeva proprio la pena di metter-si in gala!… – Bianca sembrava un’estranea, in mezzo atutto quel lusso. E suo marito imbarazzato anche lui, fratanta gente, la sposa, gli amici, i servitori, dinanzi a que-gli specchi nei quali si vedeva tutto, vestito di nuovo, ri-dotto a guardare come facevano gli altri se voleva sof-fiarsi il naso.

– Il raccolto è andato bene! – disse il marchese a vocepiù alta, perché gli altri lo seguissero dove voleva arriva-re. – Io ne parlo per sentita dire. Eh? eh? massaro For-tunato?…

– Sissignore, grazie a Dio!… Sono i prezzi che non di-cono!…

– Ci sarà tanto da fare in campagna! Nel paese nonc’è più nessuno.

La zia Cirmena allora non potè frenarsi:– Ho vista al balcone la cugina Sganci… credevo che

venisse, anzi!…– Chissà? chissà? Quella pioggerella ch’è caduta ha

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ridotto la strada una pozzanghera!… Io stavo per rom-permi il collo. Però dicono che fa bene alle vigne. Eh?eh? massaro Fortunato?…

– Sissignore, se vuol Dio!…– Saranno tutti a prepararsi per la vendemmia. Noi

soli no, donna Sarina! Noi beviamo il vino senza pregareDio per l’acqua!… Bisogna condurre la sposa a Giolioper la vendemmia, don Gesualdo!… Vedrai che vigne,Bianca!

– Certo!… è la padrona!… certo!…– Un momento!… – esclamò il canonico balzando in

piedi. – Mi pare di sentir gente!…Santo, che stava all’erta, cogli occhi fissi sul fratello,

gli fece segno per sapere se era ora d’incominciare iltrattamento. Ma il canonico rientrò dal balcone quasisubito, scuotendo il capo.

– No!… Son villani che tornano in paese. Oggi è sa-bato e arriva gente sino a tardi.

– Io l’avevo indovinato! – rispose la Cirmena. – Hol’orecchio fine!… Chi aspettate, voi?

– Donna Giuseppina Alòsi, per bacco!… Quella al-meno non manca mai!

– L’avrà trattenuta il cavaliere… – si lasciò scappare ilmarchese, perdendo la pazienza.

Santo, che s’era già alzato, tornò a sedere mogio mo-gio.

– Con permesso! con permesso! – disse il canonico. –Un momento! Vo e torno!

Donna Sarina gli corse dietro nell’anticamera, e si udìil canonico rispondere forte:

– No! Qui vicino… dal Capitano!…Il marchese che stava coll’orecchio teso fingeva d’am-

mirare ancora i mobili e le stanze, e tornò a dire:– Belli! belli!… Una casa signorile! Siete stati fortu-

nati di potervi cacciare nel nido dei La Gurna!… Eh!eh!… Se ne videro qui delle feste… in questo stesso luo-

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go!… Mi rammento… pel battesimo dell’ultimo LaGurna… Corradino… Adesso sono andati a stare a Sira-cusa, tutta la famiglia, dopo aver dato fondo a quel po’che rimaneva!… Mors tua vita mea!… Qui starete daprincipi!… Eh! eh!… son vecchio e la so lunga!… Cistaremmo bene anche noi, eh, donna Sarina?… eh?

Donna Sarina si dimenava sulla seggiola per tener lalingua in freno: – Quanto a me!… – disse poi – grazie aDio!… La prova è che il ragazzo La Gurna, Corradino,viene da me per la villeggiatura. Lui non ci ha colpa, po-vero innocente!

– No, no, è meglio star seduti in una bella sedia soffi-ce come questa, che andare a buscarsi il pane di qua e dilà, come i La Gurna!… quando si può buscarselo an-che!… E avere una buona tavola apparecchiata, e la car-rozza per far quattro passi dopo, e la vigna per la villeg-giatura, e tutto il resto!… La buona tavolasoprattutto!… Son vecchio, e mi dispiace che il marche-sato non possa servirsi in tavola… Il fumo è buono sol-tanto in cucina… La so lunga… C’è più fumo nella cuci-na, che arrosto sulla tavola in molte case… quelle che cihanno lo stemma più grosso sul portone… e che arric-ciano più il naso!… Se torno a nascere, voglio chiamar-mi mastro Alfonso Limòli, ed esser ricco come voi, ni-pote mio… Per godermi i miei denari fra me e me…senza invitar nessuno… no!…

– Tacete!… Sento il campanello! – interruppe donnaSarina. – E’ un pezzo che suonano mentre voi state apredicare…

Però era un tintinnìo sommesso di gente povera. San-to corse ad aprire, e si trovò faccia a faccia col sagresta-no, seguito dalla moglie, la quale portava sotto il braccioun tovagliuolo che pareva un sacco, quasi fosse venutaper lo sgombero. Al primo momento don Luca rimaseimbarazzato, vedendo il fratello di Speranza che gli ave-va mandato a dire mille improperi con suo marito Bur-

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gio; ma non si perse d’animo per questo, e trovò subitoil pretesto:

– C’è il canonico Lupi?… Mia moglie, qui, m’ha det-to ch’era montato in carrozza cogli sposi…

La gnà Grazia allora entrò svolgendo adagio adagio iltovagliuolo, e ne cavò una caraffina d’acqua d’odore,tappata con un batuffoletto di cenci.

– L’acqua benedetta!… Abbiamo pensato per donnaBianca!

E si misero ad aspettare tranquillamente, marito emoglie, in mezzo alla sala.

In quel momento tornò il canonico Lupi, rosso in vi-so, sbuffando, asciugandosi il sudore. E a prevenire ognidomanda si rivolse subito al padrone di casa, sorriden-do, coll’aria indifferente:

– Don Gesualdo… se avete intenzione di farci fare labocca dolce!… Mi pare che sia tempo!… All’alba ho dadir messa, prima d’andare in campagna.

– Vado? – saltò a dire subito Santo. – Mettiamo ma-no?

Si alzò in piedi la sposa; si alzarono dopo di lei tuttigli altri, e rimasero fermi ai loro posti, aspettando a chitoccasse aprire la marcia. Il canonico si sbracciava a fardei segni a compare Santo, e vedendo che non capiva,gli soffiò colla voce di petto, come in chiesa, allorchésbagliavasi la funzione:

– A voi!… Date braccio alla cognata!…Ma il cognato non si sentiva di fare quella parte. Infi-

ne glielo spinsero dietro a forza. Lo zio Limòli intantoera passato avanti colla sposa, e il canonico borbottòall’orecchio di don Gesualdo:

– Credereste?… fa la sdegnosa anche la Capitana! Leiche non manca mai dove c’è da leccare piatti! Fa la sde-gnosa anch’essa! Come se non si sapesse donde vienequella gran dama!… No! no! che fate?… – esclamò aun tratto slanciandosi verso compare Santo.

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Costui, persa la pazienza, quatto quatto rimboccavasile maniche del vestito. Per fortuna la cognata stava par-lando collo zio Limòli, e non se ne accorse. Il marchese,dal canto suo, era distratto, cercando di evitare Giacalo-ne e Pelagatti che volevano servirlo a ogni costo. – Fa-ranno nascere qualche guaio quei due ragazzi! – bor-bottò infine.

Anche Bianca abbozzò un sorriso a quell’uscita, e siscostarono dalla tavola tutti e due, per evitare il perico-lo.

– Non vuol nulla!… – tornò dicendo il cognato donSanto, quasi si fosse tolto un gran peso dallo stomaco. –Io, per me, gliel’ho offerto!…

– Neanche un bicchierino di perfetto amore? – entròa dire il canonico con galanteria. La zia Cirmena si misea ridere, e Santo guardò il fratello, per vedere cosa do-vesse fare.

– Eh! eh!… – aggiunse il marchese con la sua tosse-rella. – Eh! eh!…

– Qualcosa, zio?– Grazie, grazie, cara Bianca… Non ho più denti né

stomaco… Sono invalido… Sto a vedere soltanto… nonposso fare altro…

Il canonico si fece pregare un po’, e quindi trasse ditasca un fazzoletto che sembrava un lenzuolo. Intanto lazia Cirmena s’empiva il borsone che portava al braccio,dov’era ricamato un cane tutto intero, e ce n’entravadella roba! Il canonico invece, che aveva le tasche sinoal ginocchio, sotto la zimarra, delle vere bisacce, potevacacciarvi dentro tutto quello che voleva senza darenell’occhio. Bianca pure regalò con le sue mani stesseuna scatola di confetti al cognato Santo.

– Per vostra sorella e i suoi ragazzi…– Di’ che glieli manda lei stessa… la cognata… – sog-

giunse Gesualdo tutto contento, con un sorriso di grati-tudine per lei.

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Erano un po’ in disparte, mentre tutti gli altri si affol-lavano intorno alla tavola. Egli allora le disse piano, conuna certa tenerezza:

– Brava! mi piaci perché sei giudiziosa, e cerchi dimetter pace in famiglia… Non sai quel che c’è stato!…Mia sorella specialmente!… M’hanno fatto andare tuttoin veleno anche il giorno delle nozze!…

Com’essa gli ispirava confidenza, col viso buono, sta-va per sfogarsi del rimanente, senza avvedersene, quan-do la zia Cirmena venne ad interromperlo dicendogli:

– Pensate al sagrestano; è lì che aspetta con sua mo-glie.

Don Luca, vedendo arrivare tanta grazia di Dio, finsedi esser sorpreso. – Nossignore! Non siamo venuti per idolci… Non v’incomodate, vossignoria! – Sua moglieintanto andava sciorinando la tovaglia che pareva quelladell’altare. Lui invece, per dimostrare la sua gratitudine,fingeva di guardare in aria, inarcando le ciglia dalla sor-presa.

– Guarda, Grazia!… Quanta roba!… Ce ne sono sta-ti spesi dei denari qui! – Poscia, appena don Gesualdovolse le spalle, aiutò ad insaccare anche lui.

– Par d’essere appestati!… – borbottò donna Sarinache rientrava col borsone pieno insieme al canonico Lu-pi. – Neppure i suoi fratelli son venuti!… avete visto?…

– Poveretti!… poveretti!… – rispose l’altro agitandola mano dinanzi alla fronte, come a dire che coloro nonci avevano più la testa a segno. Poi si guardò intorno ab-bassando la voce: – Sembrava che piangessero il morto,quando siamo andati a prendere la sposa!… due gufi,tale e quale!… Si rintanavano di stanza in stanza, albuio… Due gufi, tale e quale!… Donna Bianca, invece,voleva fare le cose con bella maniera… almeno pei ri-guardi umani!… Infine se si è indotta a questo passo…

Fece un altro segno, coll’indice e il pollice in crocesulla bocca. E sbirciando colla coda dell’occhio che

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rientravano in sala anche Bianca e suo marito, disse for-te, come in seguito di un altro discorso, mostrando ilfazzoletto pieno: – Sono le mie propine!… frutti di sto-la…

La moglie del sagrestano, che non si era accorta dellasposa aggiunse:

– Sono ancora lì, tutti e due, dietro i vetri della fine-stra, al buio, a guardare in piazza dove non c’è nessu-no!… come due mummie addirittura!…

Donna Bianca, nel passare, udì quelle parole.– Tanta salute! – interruppe il sagrestano vedendo la

signora. – Sarà una festa per quei ragazzi, quando arri-veremo a casa!… Cinque figliuoli, donna Bianca!…

Poi, voltandosi verso la moglie che se ne andava bar-collando, con quell’altro fardello sulla pancia:

– Salute e figli maschi!… La roba ce l’avete!… Orapregheremo il Signore di darvi i figliuoli… Vogliamo ve-dervi come Grazia fra nove mesi…

Il marchese per tagliar corto l’accomiatò: – Va bene!Buona sera, caro don Luca!

Nell’altra stanza, appena furono usciti gli invitati, siudì un baccano indiavolato. I vicini, la gente di casa,Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l’Orbo, una turba fa-melica, piombò sui rimasugli del trattamento, disputan-dosi i dolciumi, strappandoseli di mano, accapigliandosifra di loro. E compare Santo, col pretesto di difendere laroba, abbrancava quel che poteva, e se lo ficcava da pertutto, in bocca, nelle tasche, dentro la camicia. Nunzio,il ragazzo di Burgio, entrato come un gatto, si era arram-picato sulla tavola, e s’arrabbattava a calci e pugni anchelui, strillando come un ossesso; gli altri monelli carponisotto. Don Gesualdo, infuriato, voleva correre col ba-stone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marcheselo fermò pel braccio!…

– Lasciateli fare… tanto!…La zia Cirmena che si era divertita almeno un po’, si

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piantò nel bel mezzo della stanza, guardando in faccia lagente, come a dire ch’era ora d’andarsene. In quel frat-tempo tornò di corsa il sagrestano, ansante, con un’ariadi gran mistero:

– C’è qui tutto il paese!… giù in istrada, che stanno avedere!… Il barone Zacco, i Margarone, la moglie diMèndola anche… tutti i primi signori del paese!… Fachiasso il vostro matrimonio, don Gesualdo!…

E se ne andò com’era venuto, frettoloso, infatuato.La zia Cirmena borbottò:– Che seccatura!… Ci fosse almeno un’altra uscita!…Il canonico invece, curioso, volle andare a vedere.Di rimpetto, alla cantonata di San Sebastiano, c’era

un crocchio di gente; si vedevano biancheggiare dei ve-stiti chiari nel buio della strada. Altri passavano lenta-mente, in punta di piedi, rasente al muro, col viso rivol-to in su. Si udiva parlare sottovoce, delle risa soffocateanche, uno scalpiccìo furtivo. Due che tornavano indie-tro dalla parte di Santa Maria di Gesù si fermarono, ve-dendo aprire il balcone. E tutti sgattaiolarono di qua edi là. Rimase solo Ciolla, che fingeva d’andare pei fattisuoi canticchiando:

…………Amore, amore, che m’hai fatto fare?

Donna Sarina e il marchese Limòli si erano avvicinatianch’essi al balcone. Quest’ultimo allora disse:

– Adesso potete andarvene, donna Sarina. Non c’èpiù nessuno laggiù!…

La zia Cirmena scattò su come una molla:– Io non ho paura, don Alfonso!… Io fo quel che mi

pare e piace!… Son qui per far da mamma a Bianca…giacché non c’è altra parente prossima. Non possiamopiantar la sposa quasi fosse una trovatella… pel decorodella famiglia almeno!…

– Ah? ah?… – sogghignava intanto il marchese.

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Donna Sarina gli ribatté sul muso, frenando a stentola voce:

– Non mi fate lo gnorri, don Alfonso!… Lo sapetemeglio di me!… Deve premere anche a voi che siete del-la famiglia… Bisogna farlo per la gente… se non perlei!… – E infilò l’uscio della camera nuziale, continuan-do a sbraitare.

– Va bene, va bene! Non andate in collera… Vuol di-re che ce ne andremo noi!… Ehi, ehi, canonico… Mipar che sarebbe tempo d’andarcene!… Un po’ di pru-denza!…

– Ah! ah!… Ah! ah! – chiocciava il canonico.– Buona notte, nipoti miei! Vi dò pure la benedizione

che non costa nulla…Bianca s’era fatta pallida come un cencio lavato. Si

alzò anche lei, con un lieve tremito nei muscoli del men-to, coi begli occhi turchini che sembravano smarriti, in-cespicando nel vestito nuovo, e balbettò:

– Zio!… sentite, zio!… – E lo tirò in disparte per par-largli sottovoce, con calore.

– Sono pazzi! – interruppe il marchese ad alta voceaccalorandosi anche lui. – Pazzi da legare! Se torno anascere, lo dirò anche a loro, voglio chiamarmi mastroAlfonso Limòli!…

– Bravo! – sghignazzò il canonico. – Mi piace quelloche dite!

– Buona notte! buona notte! Non ci pensare! Andròda loro domattina… E fra nove mesi, ricordati bene, vo-glio essere invitato di nuovo pel battesimo… il canonicoLupi ed io… noi due soli… Non ci sarà neppure biso-gno della cugina Cirmena!…

– Poca brigata, vita beata! – conchiuse l’altro.Don Gesualdo li accompagnò sino all’uscio, solletica-

to internamente dai complimenti del canonico, il qualenon finiva dal dirgli che aveva fatto le cose ammodo: –Peccato che non sieno venuti tutti gli invitati! Avrebbe-

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ro visto che spendete da Cesare. Mi sorprende per la si-gnora Sganci!… Anche la baronessa Rubiera sarebbestata contenta di vedere come le rispettate la nipote…che non siete di quelli che hanno il pugno stretto… giac-ché dovete esser soci fra poco.

– Eh! eh! – rispose don Gesualdo che si sentiva ribol-lire in quel punto i denari male spesi. – C’è tempo! c’ètempo! Ne deve passare prima dell’acqua sotto il ponteche non c’è più… Diteglielo pure, alla signora barones-sa.

– Come? come? Se era cosa intesa? Se dovete essersoci?

– I miei soci son questi qua! – ripeté don Gesualdobattendo sul taschino. – Non vorrei che la signora baro-nessa Rubiera avesse a vergognarsi d’avermi per compa-gno… diteglielo pure!

– Ha ragione! – aggiunse il marchese fermandosi ametà della scala. – Ha l’amor proprio dei suoi denari,che diavolo!… La cugina Rubiera avrebbe potuto de-gnarsi… Non si sarebbe guastato il sangue per così po-co, lei!…

– Chissà? chissà perché non è venuta?… Ci dev’esse-re qualch’altro motivo… Poi, gli affari… è un’altra co-sa… Pensateci bene!… Vi mancherà un appoggio!… Liavrete tutti nemici allora!…

– Tutti nemici… oh bella! perché?– Pei vostri denari, caspita!… Perché potete mettere

anche voi le mani nel piatto!… Poi vi siete imparentatocon loro!… Uno schiaffo, caro mio! Uno schiaffo cheavete dato a tutti quanti!

– Sapete cosa ho da dirvi? – si mise a strillare allora ilmarchese levando il capo in su. – Che se non avessi il vi-talizio della mia commenda di Malta per non crepare difame, sarei costretto a dare uno schiaffo anch’io a tuttala nobile parentela… Sarei costretto a scopar le stra-de!…

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E se ne andò borbottando.– Don Gesualdo, – disse Nanni l’Orbo facendo capo-

lino dalla cucina. – Son qui i ragazzi che vorrebbero ba-ciar la mano alla padrona… se non c’è più nessuno…

– Spicciatevi! spicciatevi! – rispose lui infastidito.Prima s’affollarono sulla soglia simili a un branco di

pecore; poscia, dopo Nanni l’Orbo, sfilarono dietro tut-ti gli altri, col sorriso goffo, il berretto in mano, le donnesalutando sino a terra come in chiesa, imbacuccate nellemantelline.

– Questa è Diodata, – disse Nanni l’Orbo. – Una po-vera orfanella che il padrone ha mantenuto per carità.

– Sissignora!… Tanta salute!… – E Diodata non sep-pe più che dire.

– Un cuore tanto fatto, don Gesualdo! – seguitò Nan-ni l’Orbo accalorandosi. – Gli ha fatto anche la dote!Domeneddio l’aiuta per questo!

Don Gesualdo andava spegnendo i lumi. Poi si voltòtutto di nuovo vestito, che Diodata non osava nemmenoalzare gli occhi su di lui, e conchiuse:

– Va bene. Siete contenti?– Sissignore, – rispose Nanni l’Orbo, guardando con

tenerezza Diodata. – Contentoni!… può dirlo anchelei!…

– E’ un pezzo che compare Nanni teneva d’occhio aquei baiocchi, per non lasciarseli sfuggire! – aggiunseBrasi Camauro. – E’ nato col berretto in testa!

– Sposa Diodata, – narrò allora alla moglie don Ge-sualdo. – La marito con lui.

Il camparo aggiunse altre informazioni, ridendo:– Si correvano dietro! Bisognava far la guardia a loro

pure!… Il padrone mi dovrebbe ancora qualche rega-luccio per quest’altra custodia che non era nel patto!…

Allora scoppiò una risata generale, perché compareCarmine era molto lepido, di solito. La ragazza, tuttauna fiamma, gli lanciò un’occhiata di bestia selvaggia.

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– Non è vero! nossignore, don Gesualdo!…– Sì! sì! e Brasi Camauro anche! e Giacalone, allorché

veniva pel carro!… Tutti d’amore e d’accordo, insie-me!…

Le risate non finivano più; Nanni l’Orbo pel primo,che si teneva i fianchi. Solo Diodata, rossa come il fuo-co, colle lagrime agli occhi, s’affannava a ripetere:

– Nossignore!… non è vero!… Come potete dirlo,compare Carmine?… non ne avete coscienza?

Donna Sarina comparve di nuovo sull’uscio, collebraccia incrociate, senza profferire una parola; soltanto ifiori che le si agitavano sul capo parlavano per lei.

– Ora basta! – conchiuse il padrone. – Andatevene,ch’è tardi.

Essi salutarono un’altra volta, inchinandosi goffa-mente, balbettando confusamente in coro, urtandosinell’uscire, e se ne andarono con un calpestìo pesante dibestiame grosso. Appena fuori cominciarono a ridere escherzare fra di loro; Brasi Camauro e Pelagatti dandosidegli spintoni; Nanni l’Orbo e compare Carmine barat-tando parolacce e ingiurie atroci, colle braccia l’uno alcollo dell’altro, come due fratelli messi in allegria dal vi-no bevuto. Una baldoria che fece ridere anche lo stessodon Gesualdo.

– Son come le bestie! – diss’egli rientrando. – Nondar retta, cara Bianca!

– Un momento! – strillò la zia Cirmena respingendo-lo colle mani, quasi egli stesse per farle violenza. – Nonpotete entrare adesso! fuori! fuori!

E gli chiuse l’uscio sul muso.Diodata risalì di corsa in quel punto, scalmanata, col-

le lagrime agli occhi.– Don Gesualdo!… Non vogliono lasciarmi andare

pei fatti miei!… Li sentite, laggiù?… compare Nanni etutti gli altri!…

– Ebbene? Che c’è? Non dev’essere tuo marito?…

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

– Sissignore… Dice per questo!… ch’è il padrone…Non mi lasciano andare in pace!… tutti quanti!

– Aspetta! aspetta, che piglio un bastone!– No! no! – gridò Nanni dalla strada. – Ce ne andia-

mo a casa. Nessuno la tocca.– Senti? Nessuno ti tocca. Vattene… Che fai adesso?Essa, stando due scalini più giù, gli aveva presa la ma-

no di nascosto, e andava baciandola come un vero caneaffezionato e fedele: – Benedicite!… benedicite!…

– Ora ricomincia il piagnisteo! – sbuffò lui. – Non houn momento di pace, questa sera!…

– Nossignore… senza piagnisteo… Tanta salute avossignoria!… e alla vostra sposa anche!… E’ che vole-vo baciarvi la mano per l’ultima volta!… Mi tremano unpo’ le gambe… Tanto bene che mi avete fatto, vossigno-ria!…

– Be’! be’!… Sta allegra tu pure!… Dev’essere ungiorno d’allegria questo!… Hai trovato un buon maritoanche tu… Il pane non te lo farà mancare… E quandoverrà la malannata, ricordati che c’è sempre il mio ma-gazzino aperto… Sei contenta anche tu? di’?

Essa rispose ch’era contenta, chinando il capo piùvolte, giacché aveva un groppo alla gola e non potevaparlare.

– Va bene! Ora vattene via contenta… e senza pensa-re ad altro, sai!… senza pensare ad altro!…

Com’essa lo guardava in un certo modo, cogli occhidolorosi che sembrava gli leggessero anche a lui il cruc-cio segreto in cuore, cominciò a gridare per non pensar-ci, quasi fosse in collera.

– E senza cercare il pelo nell’uovo!… senza pensare aquesto e a quell’altro… Il Signore c’è per tutti… Anchetu sei una povera trovatella, e il Signore ti ha aiutato!…Al caso poi, ci son qua io… Farò quello che potrò…Non ho il cuore di sasso, no!… Lo sai! Vai, vai; vattenevia contenta!…

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Ma Diodata, che gli voltava le spalle, col petto pigiatocontro la ringhiera, quasi si sentisse morire dal crepa-cuore, non poté frenare i singhiozzi che la scuotevanodalla testa ai piedi. Allora il suo padrone scappò a be-stemmiare:

– Santo e santissimo!… santo e santissimo!In quel momento comparve la zia Cirmena in cima al-

la scala, con lo scialle in testa, il borsone infilato al brac-cio, e gli occhi umidi di lagrime, come si conveniva allaparte di madre che l’era toccata quella volta.

– Eccomi qua, don Gesualdo! eccomi qua! – E stesele braccia come un crocifisso per buttargliele al collo. –Non ho bisogno di farvi la predica… Siete un uomo digiudizio… Povera Bianca!… Sono commossa, guardate!

Cercò nel borsone il fazzoletto di battista, fra la robadi cui era pieno, e si asciugò gli occhi. Poi baciò di nuo-vo lo sposo, asciugandosi anche la bocca con lo stessofazzoletto, e chiamò il servitore che aspettava giù collampione.

– Don Camillo! Accendete, ch’è ora di andarsene.Don Camillo? ehi? cosa fate? dormite?

Dalla strada rispose Ciolla, ripassando col chitarrino:

Amore, amore, che m’hai fatto fare?

E degli altri sfaccendati gli andavano dietro, facendo-gli l’accompagnamento coi grugniti.

– No! – esclamò la zia Cirmena piantandosi dinanzi alnipote, quasi ad impedirgli di fare una pazzia. – Non da-te retta… Sono ubbriachi!… canaglia che crepano d’in-vidia! Andate a trovare vostra moglie piuttosto! Ve laraccomando… non va presa come le altre… Siamo fattidi un’altra pasta… tutta la famiglia… Mi pare di lasciareil sangue mio nelle vostre mani adesso!… Non ho avutofigliuole… non ho mai provato una cosa simile!… Misento tutta sconvolta!… No! no! Non badate a me!…

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

mi calmerò… Voi, don Camillo, andate avanti col lu-me…

Egli volse le spalle. – Quante chiacchiere! Infine sia-mo marito e moglie sì o no? – Entrando nella cameranuziale trasse un sospirone.

– Ah! se Dio vuole, è finita! Ce n’è voluto… ma è fi-nita, se Dio vuole!… Non lo fo più, com’è vero Iddio, sesi ha a ricominciare da capo!…

Voleva far ridere anche la sposa, metterla un po’ dibuon umore, per star meglio insieme in confidenza, co-me dev’essere fra marito e moglie. Ma lei, ch’era sedutadinanzi allo specchio, voltando le spalle all’uscio, si ri-scosse udendolo entrare, e avvampò in viso. Indi si fecesmorta più di prima, e i lineamenti delicati parvero affi-larlesi a un tratto maggiormente.

Proprio quello che aveva detto la zia Cirmena! Unaragazza che vi basiva per un nulla, e v’imbrogliava la lin-gua e le mani. Gli seccava, ecco, quel giorno di nozzeche non gli aveva dato un sol momento buono.

– Ehi?… Perchè non dici nulla?… Cos’hai?… – Ri-mase un momento imbarazzato, senza saper che direneppure lui, umiliato nel suo bel vestito nuovo, in mez-zo ai suoi mobili che gli costavano un occhio del capo.

– Senti… s’è così… se la pigli su quel verso anchetu… Allora ti saluto e vo a dormire su di una sedia,com’è vero Dio!…

Essa balbettò qualche parola inintelligibile, un gorgo-glìo di suoni timidi e confusi, e chinò il capo ubbidiente,per cominciare a togliersi il pettine di tartaruga, collemani gracili e un po’ sciupacchiate alle estremità di ra-gazza povera avvezza a far di tutto in casa.

– Brava! brava! Così mi piaci!… Se andiamo d’accor-do come dico io, la nostra casa andrà avanti… avanti as-sai! Te lo dico io! Faremo crepare gli invidiosi… Hai vi-sto stasera, che non son voluti venire alle nozze?…Quante spese buttate via!… Hai visto che mi mangiavo

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il fegato e ridevo?… Riderà meglio chi ride l’ultimo!…Via, via, perchè ti tremano così le mani?… non sono tuomarito adesso?… a dispetto degli invidiosi!… Che pau-ra hai?… Senti!… quel Ciolla!… mi farà fare uno spro-posito!…

Essa tornò a balbettare qualche parola indistinta, chele spirò di nuovo sulle labbra smorte, e alzò per la primavolta gli occhi su di lui, quegli occhi turchini e dolci chegli promettevano la sposa amorevole e ubbidiente chegli avevano detto. Allora egli tutto contento, con un risa-ta larga che gli spianò il viso ed il cuore, riprese:

– Lascialo cantare. Non me ne importa adesso diCiolla… di lui e di tutti gli altri!… Crepano d’invidiaperché i miei affari vanno a gonfie vele, grazie a Dio!Non te ne pentirai, no, di quello che hai fatto!… Seibuona!… non hai la superbia di tutti i tuoi…

In cuore gli si gonfiava un’insolita tenerezza, mentrel’aiutava a spettinarsi. Proprio le sue grosse mani cheaiutavano una Trao, e si sentivano divenir leggere legge-re fra quei capelli fini! Gli occhi di lui si accendevanosulle trine che le velavano gli omeri candidi e delicati,sulle maniche brevi e rigonfie che le mettevano quasidelle ali alle spalle. Gli piaceva la peluria color d’oro chele fioriva agli ultimi nodi delle vertebre, le cicatrici la-sciatele dal vaccinatore inesperto sulle braccia esili ebianche, quelle mani piccole, che avevano lavorato co-me le sue, e tremavano sotto i suoi occhi, quella nucachina che impallidiva e arrossiva, tutti quei segni umilidi privazioni che l’avvicinavano a lui.

– Voglio che tu sii meglio di una regina, se andiamod’accordo come dico io!… Tutto il paese sotto i piedivoglio metterti!… Tutte quelle bestie che ridono adessoe si divertono alle nostre spalle!… Vedrai! vedrai!… Habuon stomaco, mastro-don Gesualdo!… da tenersi inserbo per anni ed anni tutto quello che vuole… e buonegambe pure… per arrivare dove vuole… Tu sei buona ebella!… roba fine!… roba fine sei!…

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

Essa rannicchiò il capo nelle spalle, simile a una co-lomba trepidante che stia per esser ghermita.

– Ora ti voglio bene davvero, sai!… Ho paura di toc-carti colle mani… Ho le mani grosse perchè ho tanto la-vorato… non mi vergogno a dirlo… Ho lavorato per ar-rivare a questo punto… Chi me l’avrebbe detto?… Nonmi vergogno, no! Tu sei bella e buona… Voglio farti co-me una regina… Tutti sotto i tuoi piedi!… questi piedi-ni piccoli! Hai voluto venirci tu stessa… con questi pie-dini piccoli… nella mia casa… La padrona!… la signorabella mia!… Guarda, mi fai dire delle sciocchezze!…

Ma essa aveva l’orecchio altrove. Pareva guardassenello specchio, lontano, lontano.

– A che pensi? ancora al Ciolla?… Vo a finire in pri-gione, la prima notte di matrimonio!…

– No! – interruppe lei balbettando, con un filo di vo-ce. – No… sentite… devo dirvi una cosa…

Sembrava che non avesse più una goccia di sanguenelle vene, tanto era pallida e sbattuta. Mosse le labbratremanti due o tre volte.

– Parla, – rispose lui. – Tutto quello che desideri…Voglio che sii contenta tu pure!…

Com’era di luglio, e faceva un gran caldo, si tolse an-che il vestito, aspettando. Ella si tirò indietro brusca-mente, quasi avesse ricevuto un urto in pieno petto; es’irrigidì, tutta bianca, cogli occhi cerchiati di nero.

– Parla, parla!… Dimmelo qui all’orecchio… qui chenessuno ci sente!…

Rideva tutto contento colla risata grossolana, nell’im-peto caldo che cominciava a fargli girare il capo, balbet-tando e anfanando, in maniche di camicia, stringendosisul cuore che gli batteva fino in gola quel corpo delicatoche sentiva rabbrividire e quasi ribellarsi; e come le sol-levava il capo dolcemente si sentì cascar le braccia. Ellasi asciugò gli occhi febbrili, col viso tuttora contrattodolorosamente.

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– Ah!… che gusto!… Aveva ragione la zia Cirme-na!…

Bel divertimento!… Dopo tanti stenti, tanti bocconiamari!… tante spese fatte!… Si dovrebbe essere cosìcontenti qui… due che si volessero bene!… Nossigno-re! neanche questo mi tocca! Neanche il giorno dellenozze, santo e santissimo!… Dimmi almeno che hai!…

– Non badate a me… Sono troppo agitata…– Ah! quel Ciolla!… ancora!… Com’è vero Dio, gli

tiro addosso un vaso di fiori adesso!… Voglio far la fe-sta anche a lui, la prima notte di matrimonio!

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PARTE SECONDA

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I

– Tre onze e quindici!… Uno!… due!…– Quattr’onze! – replicò don Gesualdo impassibile.Il barone Zacco si alzò, rosso come se gli pigliasse un

accidente. Annaspò alquanto per cercare il cappello, efece per andarsene. Ma giunto sulla soglia tornò indietroa precipizio, colla schiuma alla bocca, quasi fuori di sé,gridando:

– Quattro e quindici!…E si fermò ansante dinanzi alla scrivania dei giurati,

fulminando il suo contradittore cogli occhi accesi. DonFilippo Margarone, Peperito e gli altri del Municipioche presiedevano all’asta delle terre comunali, si parla-rono all’orecchio fra di loro. Don Gesualdo tirò su unapresa, seguitando a fare tranquillamente i suoi conti neltaccuino che teneva aperto sulle ginocchia. Indi alzò ilcapo, e ribatté con voce calma:

– Cinque onze!Il barone diventò a un tratto come un cencio lavato.

Si soffiò il naso; calcò il cappello in testa, e poi infilòl’uscio, sbraitando:

– Ah!… quand’è così!… giacch’è un puntiglio!…una personalità!… Buon giorno a chi resta!

I giurati si agitavano sulle loro sedie quasi avessero lacolica. Il canonico Lupi si alzò di botto, e corse a direuna parola all’orecchio di don Gesualdo, passandogli unbraccio al collo.

– Nossignore, – rispose ad alta voce costui. – Non hodi queste sciocchezze… Fo i miei interessi, e nulla più.

Nel pubblico che assisteva all’asta corse un mor-morìo. Tutti gli altri concorrenti si erano tirati indietro,sgomenti, cacciando fuori tanto di lingua. Allora si alzòin piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi labarba scarsa, senza badare ai segni che gli faceva da lon-

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tano don Filippo, e lasciò cadere la sua offerta, coll’ariaaddormentata di uno che non gliene importa nulla deldenaro:

– Cinque onze e sei!… Dico io!…– Per l’amor di Dio, – gli soffiò nelle orecchie il nota-

ro Neri tirandolo per la falda. – Signor barone, non fac-ciamo pazzie!…

– Cinque onze e sei! – replicò il baronello senza darretta, guardando in giro trionfante.

– Cinque e quindici.Don Ninì si fece rosso, e aprì la bocca per replicare;

ma il notaro gliela chiuse con la mano. Margarone stimògiunto il momento di assumere l’aria presidenziale.

– Don Gesualdo!… Qui non stiamo per scherzare!…Avrete denari… non dico di no… ma è una bella som-ma… per uno che sino a ieri l’altro portava i sassi sullespalle… sia detto senza offendervi… Onestamente…«Guardami quel che sono, e non quello che fui» dice ilproverbio… Ma il comune vuole la sua garanzia. Pensa-teci bene!… Sono circa cinquecento salme… Fanno…fanno… – E si mise gli occhiali, scrivendo cifre sopra ci-fre.

– So quello che fanno, – rispose ridendo mastro-donGesualdo. – Ci ho pensato portando i sassi sulle spal-le… Ah! signor don Filippo, non sapete che soddisfa-zione, essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossi-gnoria e con tutti questi altri padroni miei, a direciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse!

Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volseun’occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sini-stra, e tacque rimminchionito. Nella folla che pigiavasiall’uscio nacque un tafferuglio. Mastro Nunzio Mottavoleva entrare a ogni costo, e andare a mettere le maniaddosso al suo figliuolo che buttava così i denari. Burgiostentava a frenarlo. Margarone suonò il campanello perintimar silenzio.

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– Va bene!… va benissimo!… Ma intanto la legge di-ce…

Come seguitava a tartagliare, quella faccia gialla diCanali gli suggerì la risposta, fingendo di soffiarsi il na-so.

– Sicuro!… Chi garantisce per voi?… La legge dice…– Mi garantisco da me, – rispose don Gesualdo po-

sando sulla scrivania un sacco di doppie che cavò fuoridalla cacciatora.

A quel suono tutti spalancarono gli occhi. Don Filip-po ammutolì.

– Signori miei!… – strillò il barone Zacco rientrandoinfuriato. – Signori miei!… guardate un po’! a che siamgiunti!…

– Cinque e quindici! – replicò don Gesualdo tirandoun’altra presa. – Offro cinque onze e quindici tarì a sal-ma per la gabella delle terre comunali. Continuate l’asta,signor don Filippo.

Il baronello Rubiera scattò su come una molla, contutto il sangue al viso. Non l’avrebbero tenuto neppurele catene.

– A sei onze! – balbettò fuori di sé. – Fo l’offerta disei onze a salma.

– Portatelo fuori! Portatelo via! – strillò don Filippoalzandosi a metà. Alcuni battevano le mani. Ma donNinì ostinavasi, pallido come la sua camicia adesso.

– Sissignore! a sei onze la salma! Scrivete la mia offer-ta, segretario!

– Alto! – gridò il notaro levando tutte e due le maniin aria. – Per la legalità dell’offerta!… fo le mie riser-ve!…

E si precipitò sul baronello, come s’accapigliassero.Lì, nel vano del balcone, faccia a faccia, cogli occhi fuoridell’orbita, soffiandogli in viso l’alito infuocato:

– Signor barone!… quando volete buttare il denarodalla finestra!… andate a giuocare a carte!… giuocateviil denaro di tasca vostra soltanto!…

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Don Ninì sbuffava peggio di un toro infuriato. Pepe-rito aveva chiamato con un cenno il canonico Lupi, es’erano messi a confabulare sottovoce, chinati sulla scri-vania, agitando il capo come due galline che beccanonello stesso tegame. Era tanta la commozione che le ma-ni del canonico tremavano sugli scartafacci. Il cavalierelo prese per un braccio e andarono a raggiungere il no-taro e il baronello che disputavano animatissimi in uncanto della sala. Don Ninì cominciava a cedere, col visofloscio e le gambe molli. Il canonico allora fece segno adon Gesualdo d’accostarsi lui pure.

– No, – ammiccò questi senza muoversi.– Sentite!… C’è quell’affare della cauzione… Il ponte

se n’è andato, salute a noi!… C’è modo d’accomodarequell’affare della cauzione adesso…

– No, – ripigliò don Gesualdo. Sembrava una pietramurata. – L’affare del ponte… una miseria in confronto.

– Villano! mulo! testa di corno! – ricominciò ad in-veire il barone sottovoce.

Don Filippo, dopo il primo momento d’agitazione,era tornato a sedere, asciugandosi il sudore gravemente.Intanto che il canonico parlava sottovoce a mastro-donGesualdo, il notaro da lontano cominciò a far dei segni.Don Filippo si chinò all’orecchio di Canali. Sottomano,in voce di falsetto, il banditore replicò:

– L’ultima offerta per le terre del comune! A sei onzela salma!… Uno!… due!…

– Un momento, signori miei! – interruppe don Ge-sualdo – Chi garantisce quest’ultima offerta?

A quell’uscita rimasero tutti a bocca aperta Don Fi-lippo apriva e chiudeva la sua senza trovar parola. Infinerispose:

– L’offerta del barone Rubiera!… Eh? eh?– Sissignore. Chi garantisce pel barone Rubiera?Il notaro si gettò su don Ninì che sembrava volesse fa-

re un massacro. Peperito dimenavasi come l’avessero

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schiaffeggiato. Lo stesso canonico allibì. Margarone bal-bettava stralunato.

– Chi garantisce pel barone Rubiera?… chi garanti-sce?… -

A un tratto mutò tono, volgendola in burla: – Chi ga-rantisce pel barone Rubiera!… Ah! ah!… Oh bella!questa è grossa! – E molti, al pari di lui, si tenevano ifianchi dalle risate.

– Sissignore, – replicò don Gesualdo imperturbabile.– Chi garantisce per lui? La roba è di sua madre.

A quelle parole cessarono le risate, e don Filippo ri-cominciò a tartagliare. La gente si affollava sull’uscio co-me ad un teatro. Il canonico, che sembrava più pallidosotto la barba di quattro giorni, tirava il suo compagnopel vestito. Il notaro era riuscito a cacciare il baronellocontro il muro, mentre costui, in mezzo al baccano, vo-mitava:

– Becco!… cuor contento!… redentore!– La parola del barone! – disse infine don Filippo. –

La parola del barone Rubiera val più delle vostre dop-pie!… don… don…

– Don Filippo! – interruppe l’altro senza perdere lasua bella calma. – Ho qui dei testimoni per metter tuttonel verbale.

– Va bene! Si metterà tutto nel verbale!… Scriveteche il baronello Rubiera ha fatto l’offerta per incarico disua madre!…

– Benone! – aggiunse don Gesualdo. – Quand’è cosìscrivete pure che offro sei onze e quindici a salma.

– Pazzo! assassino! nemico di Dio! – si udì gridaremastro Nunzio nella folla dell’altra sala.

Successe un parapiglia. Il notaro e Peperito spinserofuori dell’uscio il baronello che strepitava, agitando lebraccia in aria. Dall’altro canto il canonico, convulso, sigettò su don Gesualdo, stringendoglisi addosso, seden-dogli quasi sulle ginocchia, colle braccia al collo, scon-

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giurandolo sottovoce, in aria disperata, con parole difuoco, ficcandoglisi nell’orecchio, scuotendolo pei pettidella giacca, quasi volesse strapazzarlo, per fargli sentirragione.

– Una pazzia!… Dove andiamo, caro don Gesual-do?…

– Non temete, canonico. Ho fatto i miei conti. Nonmi scaldo la testa, io.

Don Filippo Margarone suonava il campanello dacinque minuti per avere un bicchier d’acqua. I suoi col-leghi s’asciugavano il sudore anch’essi, trafelati. Solodon Gesualdo rimaneva seduto al suo posto come unsasso, accanto al sacchetto di doppie. A un certo punto,dalla baraonda ch’era nell’altra stanza, irruppe nella salamastro Nunzio Motta, stralunato, tremante di collera,coi capelli bianchi irti sul capo, rimorchiandosi dietro ilgenero Burgio che tentava di trattenerlo per la manicadella giacca, come un pazzo.

– Signor don Filippo!… sono il padre, sì o no?… co-mando io, sì o no?… Se mio figlio Gesualdo è matto!…se vuol rovinarci tutti!… c’è la forza, signor don Filip-po!… Mandate a chiamare don Liccio Papa!… – Spe-ranza, dall’uscio, col lattante al petto, che si strappava icapelli e urlava quasi l’accoppassero. – Per l’amor diDio! per l’amor di Dio! – supplicava il canonico, cor-rendo dall’uno all’altro. – I denari del ponte!… Vuole lamia rovina!… Nemico di suo padre stesso! – urlava ma-stro Nunzio. – Erano forse denari vostri? – scappò infi-ne a gridare il canonico; – non era sangue del figlio vo-stro? non li ha guadagnati lui, col suo lavoro? – Tuttiquanti erano in piedi, vociando. Si udiva Canali strillarepiù forte degli altri per chetare don Ninì Rubiera. Il ba-rone Zacco avvilito, se ne stava colle spalle al muro, e ilcappello sulla nuca. Il notaro era sceso a precipizio, fa-cendo gli scalini a quattro a quattro, onde correre dallabaronessa. Per le scale era un via vai di curiosi: genteche arrivava ogni momento attratta dal baccano che udi-

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vasi nel Palazzo di Città. Santo Motta dalla piazza addi-tava il balcone, vociando a chi non voleva saperle le pro-dezze del fratello. S’era affacciata perfino donna Ma-rianna Sganci, coll’ombrellino, mettendosi la manodinanzi agli occhi.

– Com’è vero Dio!… Io l’ho fatto e io lo disfo!… –urlava il vecchio Motta inferocito. – Largo! largo! – siudì in mezzo alla folla.

Giungeva don Giuseppe Barabba, agitando un bi-glietto in aria. – Canonico! canonico Lupi!… – Questi sispinse avanti a gomitate. – Va bene – disse, dopo di averletto. – Dite alla signora Sganci che va bene, e la servosubito.

Barabba corse a fare la stessa imbasciata nell’altra sa-la.

Quasi lo soffocavano dalla ressa. Il canonico si buscòuno strappo alla zimarra, mentre il barone stendeva lebraccia per leggere il biglietto. Canali, Barabba e donNinì litigavano fra di loro. Poscia Canali ricominciò agridare: – Largo! largo! – E s’avanzò verso don Gesual-do sorridente:

– C’è qui il baronello Rubiera che vuole stringervi lamano!

– Padrone! padronissimo! Io non sono in collera connessuno.

– Dico bene!… Che diavolo!… Oramai siete paren-ti!…

E tirando pel vestito il baronello li strinse entrambi inun amplesso, costringendoli quasi a baciarsi. Il baroneZacco corse a gettarsi lui pure nelle loro braccia, coi luc-ciconi agli occhi.

– Maledetto il diavolo!… Non sono di bronzo!…Che sciocchezza!…

Il notaro sopraggiunse in quel punto. Andò prima adare un’occhiata allo scartafaccio del segretario, e poi simise a battere le mani.

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– Viva la pace! Viva la concordia!… Se ve l’ho sem-pre detto!…

– Guardate cosa mi scrive vostra zia donna MariannaSganci!… – disse il canonico commosso, porgendo lalettera aperta a don Gesualdo. E fattosi al balcone agitòil foglio in aria, come una bandiera bianca; mentre la si-gnora Sganci dal balcone rispondeva coi cenni del capo.

– Pace! pace!… Siete tutti una famiglia!…Canali corse a prendere per forza mastro Nunzio,

Burgio, perfino Santo Motta, scamiciato, e li spinse nellebraccia dei nuovi parenti. Il canonico abbracciava anchecomare Speranza e il suo bambino. Avrebbero pianto glistessi sassi. – Per parte di moglie… siete cugini…

– E’ vero, – aggiunse don Ninì tuttora un po’ rosso inviso. – Siamo cresciuti insieme con Bianca… come fra-tello e sorella.

– Caro don Nunzio!… vi rammentate la fornace delgesso… vicino Fontanarossa?…

Il vecchio burbero fece una spallata, per levarsi d’ad-dosso la manaccia del barone Zacco, e rispose sgarbata-mente.

– Io mi chiamo mastro Nunzio, signor barone. Nonho i fumi di mio figlio.

– E perché poi? A vantaggio di chi vi fate la guer-ra?… Chi ne gode di tanto denaro buttato via?… – con-chiuse Canali infervorato.

– Pazzie! ragazzate!… Un po’ di sangue alla testa!…La giornata calda!… Un puntiglio sciocco… un malin-teso… Ora tutto è finito! Andiamo via! Non facciamoridere il paese!… – E il notaro cercava di condurli aspasso tutti quanti.

– Un momento! – interruppe don Gesualdo. – Lacandela è ancora accesa. Vediamo prima se hanno scrit-to l’ultima mia offerta.

– Come, come? Che discorsi!… Cosa vuol dire?…Torniamo da capo?… – Di nuovo s’era levato un putife-rio. – Non siamo più amici? Non siamo parenti?

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Ma don Gesualdo s’ostinava, peggio di un mulo:– Sissignore, siamo parenti. Ma qui siamo venuti per

la gabella delle terre comunali. Io ho fatta l’offerta di seionze e quindici tarì a salma.

– Villano! testa di corno!Don Filippo, in mezzo a quel trambusto, fu costretto

a sedere di nuovo sul seggiolone, sbuffando. Vuotò diun fiato il bicchiere d’acqua, e suonò il campanello. – Si-gnori miei! – vociava il segretario, – l’ultima offerta… asei onze e quindici! – Tutti se n’erano andati a discuterestrepitando nell’altra sala, lasciando solo don Gesualdodinanzi alla scrivania. Invano il canonico, inquieto, glisoffiava all’orecchio:

– Non la spuntate, no!… Si son dati l’intesa fra di lo-ro!… – A sei onze e quindici la salma!… ultima offer-ta!…

– Don Gesualdo! don Gesualdo! – gridò il notaroquasi stesse per crollare la sala.

Rientrarono nuovamente in processione: il baroneZacco facendosi vento col cappello; il canonico e Canaliragionando fra loro due a bassa voce; don Ninì, più re-stìo, in coda agli altri. Il notaro con le braccia fece ungesto circolare per radunarli tutti intorno a sé:

– Don Gesualdo!… sentite qua!Volse in giro un’occhiata da cospiratore e abbassò la

voce:– Una proposta seria! – e fece un’altra pausa signifi-

cativa. – Prima di tutto, i denari della cauzione… unabella somma!… La disgrazia volle così… ma voi non ciavete colpa, don Gesualdo… e neppure voi, mastroNunzio… E’ giusto che non li perdiate!… Accomodere-mo la cosa!… Voi, signor barone Zacco, vi rincresce dilasciare le terre che sono da quarant’anni nella vostra fa-miglia?… E va bene!… La baronessa Rubiera adessovuole la sua parte anche lei?… ha più di tremila capi dibestiame sulle spalle… E va bene anche questa! Don

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Gesualdo, qui, ha denari da spendere lui pure; vuol farele sue speculazioni sugli affitti… Benissimo! Dividete leterre, fra voi tre… senza liti, senza puntigli senza farvi laguerra a vantaggio altrui… A vantaggio di chi, poi?…del comune! Vuol dire di nessuno! Mandiamo a montel’asta… Il pretesto lo trovo io!… Fra otto giorni si ria-pre sul prezzo di prima; si fa un’offerta sola… Io no… enemmeno loro!… Il canonico Lupi!… in nome vostro,don Gesualdo… Ci fidiamo… Siamo galantuomini!Un’offerta sola sul prezzo di prima; e vi rimangono ag-giudicate le terre senza un baiocco d’aumento. Solamen-te una piccola senseria per me e il canonico… E il rima-nente lo dividete fra voi tre, alla buona… d’amore ed’accordo. Vi piace? Siamo intesi?

– Nossignore, – rispose don Gesualdo, – le terre le pi-glio tutte io.

Mentre gli altri erano contenti e approvavano coi cen-ni del capo l’occhiata trionfante che il notaro tornava avolgere intorno, quella risposta cadde come una secchiad’acqua. Il notaro per primo rimase sbalordito; indi feceuna giravolta e s’allontanò canterellando. Don Ninìscappò via senza dir nulla. Il barone stavolta finse di cal-carsi il cappello in capo per davvero. Lo stesso canonicosaltò su inviperito:

– Allora vi pianto anch’io!… Se volete rompervi lecorna, il balcone è lì, bell’e aperto!… Vi offrono deibuoni patti!… vi stendono le mani!… Io vi lascio solo,com’è vero Dio!

Ma don Gesualdo si ostinava, col suo risolino scioc-co, il solo che non perdesse la testa in quella baraonda.

– Siete una bestia! – gli disse sempre ridendo. Il cano-nico spalancò gli occhi e tornò docile a vedere quel chestava macchinando quel diavolo di mastro-don Gesual-do.

Il notaro, prudente, seppe dominarsi prima degli al-tri, e tornò indietro col sorriso sulle labbra e le tabac-chiera in mano lui pure.

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– Dunque?… le volete tutte?– Eh… eh… Cosa stiamo a farci qui dunque! – rispo-

se l’altro.Neri gli offrì la tabacchiera aperta, e riprese a voce

bassa, in tono di confidenza cordiale:– Che diavolo volete farne?… circa cinquecento sal-

me di terre!…Don Gesualdo si strinse nelle spalle.– Caro notaro, forse che voglio ficcare il naso nei vo-

stri libracci, io?– Quand’è così, don Gesualdo, state a sentire… di-

scorriamola fra di noi… Il puntiglio non conta… e nem-meno l’amicizia… Badiamo agli interessi…

A ogni frase piegava il capo ora a destra e ora a sini-stra, con un fare cadenzato che doveva essere molto per-suasivo.

– Se le volete tutte, ve le faremo pagare il doppio, edecco sfumato subito metà del guadagno… senza contarei rischi… le malannate!… Lasciateci l’osso, caro donGesualdo! tappateci la bocca… Abbiamo denti, e sap-piamo mordere! Andremo a rotta di collo noialtri e voipure!…

Don Gesualdo scrollava il capo, sogghignando, comea dire: – Nossignore! Andrete a rotta di collo voialtrisoltanto! – Seguitava a ripetere:

– Forse che io voglio cacciare il naso nei vostri scarta-facci?

Poi, vedendo che il notaro diventava verde dalla bile,volle offrirgli una presa lui.

– Vi spiego il mistero in due parole, giacché vedo chemi parlate col cuore in mano. Piglierò in affitto le terredel comune… e quelle della Contea pure… tutte quan-te, capite, signor notaro? Allora comando ai prezzi eall’annata, capite?… Ve lo dico perchè siete un amico, eperché a far quel che dico io ci vogliono molti capitali inmano, e un cuore grande quanto il piano di Santamar-

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gherita, caro notaro. Perciò spingerò l’asta sin dovevoialtri non potrete arrivare. Ma badate! a un certo pun-to, se non mi conviene, mi tiro indietro, e vi lascio ad-dosso il peso che vi rompe la schiena…

– E questa è la conclusione?…– Eh? eh? Vi piace?Il notaro si volse di qua e di là, come cercasse per ter-

ra, si calcò il cappello in capo definitivamente, e volse lespalle:

– Salute a chi rimane!… Ce ne andiamo… Non ab-biamo più nulla da fare.

Il canonico, ch’era stato ad ascoltare a bocca aperta,si strinse al socio con entusiasmo, appena rimasero soli.

– Che botta, eh? don Gesualdo! Che tomo sietevoi!… La mia mezzeria ci sarà sempre?

Don Gesualdo rassicurò il canonico con un cenno delcapo, e disse a Margarone:

– Signor don Filippo, andiamo avanti…– Io non vo niente affatto! – rispose finalmente Mar-

garone adirato. – La legge dice… Non c’è più concor-renza!… Non trovo garanzia!… Devo consultare i mieicolleghi. – E si mise a raccogliere gli scartafacci in frettae in furia.

– Ah! così si tratta?… è questa la maniera?… Va be-ne! va benone! Ne discorreremo poi, signor don Filip-po… Un memoriale a Sua Maestà!… – Il canonico colmantello sul braccio come un oratore romano, peroravala causa dell’amico minaccioso. Don Gesualdo invece,più calmo, riprese il suo denaro e il taccuino zeppo di ci-fre: – Io sarò sempre qua signor don Filippo, quandoaprite di nuovo l’asta.

– Signori miei!… guardate un po’… a che siam giun-ti! – brontolava Margarone. Per la scala del Palazzo diCittà e per tutto il paese era un subbuglio, al sentire lalotta che c’era stata per levare di mano al barone Zaccole terre del comune che da quarant’anni erano nella sua

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famiglia e il prezzo a cui erano salite. La gente si affac-ciava sugli usci per veder passare mastro-don Gesualdo.

– Guardate un po’, signori miei, a che s’era arriva-ti!… – Fresco come un bicchier d’acqua, quel mastro-don Gesualdo che se ne andava a casa, colle mani in ta-sca… In tasca aveva più denari che capelli in testa! edava da fare ai primi signori del paese! Nell’anticameraaspettava don Giuseppe Barabba, in livrea: – Signor donGesualdo, c’è di là la mia padrona a farvi visita… sissi-gnore! – Donna Mariannina in gala era seduta sul ca-napè di seta, sotto lo specchio grande, nella bella salagialla.

– Nipote mio, l’avete fatta grossa! Avete suscitatol’inferno in tutto il parentado!… Sicuro! La moglie delcugino Zacco è venuta a farmi vedere i lividori!… Sem-bra ammattito il barone!… Prende a sfogarsi con chi glicapita… Ed anche la cugina Rubiera… dice ch’è un pro-ditorio! che il canonico Lupi vi aveva messi d’amore ed’accordo, e poi tutt’a un tratto… E’ vero, nipote mio?Son venuta apposta a discorrerne con Bianca… Vedia-mo, Bianca, aiutami tu. cerchiamo d’accomodarla. Voi,don Gesualdo, le farete questo regalo, a vostra moglie.Eh? che ne dite?

Bianca guardava timidamente ora lei ed ora il marito,rannicchiata in un cantuccio del canapè, colle bracciasul ventre e il fazzoletto di seta in testa, che s’era messoin fretta onde ricevere la zia. Aprì la bocca per risponde-re qualche cosa, messa in soggezione da donna Marian-nina, la quale continuava a sollecitarla:

– Eh? che ne dici? Adesso sono anche affari tuoi.Bianca tornò a guardare il marito, e tacque imbaraz-

zata. Ma egli la tolse d’impiccio.– Io dico di no, – rispose semplicemente.– Ah? ah? Dite così?…Donna Mariannina rimase a bocca aperta lei pure un

istante.

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Poscia divenne rossa come un gallo: – Ah! dite dino?… Scusatemi… Io non c’entro. Ero venuta a parlar-ne con mia nipote, perché non vorrei liti e questioni fraparenti… Anche coi tuoi fratelli, Bianca… quel che nonho fatto per indurli… don Diego specialmente ch’è cosìostinato!… Una disgrazia… un gastigo di Dio!

– Che volete farci? – rispose don Gesualdo. – Nontutti i negozi riescono bene. Anch’io, se avessi saputo…Non parlo per la moglie che ho presa, no! Non me nepento!… Buona, interessata, ubbidiente… Glielo dicoqui, in faccia a lei… Ma quanto al resto… lasciamo an-dare!

– Dite bene, lasciamo andare. Apposta son venuta aparlare con Bianca, perché so che le volete bene. Adessosiete marito e moglie, come vuol Dio. Anch’essa è la pa-drona…

– Sissignore, è la padrona. Ma io sono il marito…– Vuol dire che ho sbagliato, – disse la Sganci punta

al vivo.– No, non avete sbagliato vossignoria. E’ che Bianca

non se ne intende, poveretta. E’ vero, Bianca, che non tene intendi, di’?

Bianca disse di sì, chinando il capo ubbidiente.– Sia per non detto. Non ne parliamo più. Ho fatto il

mio dovere da buona zia, per cercare di mettervi d’ac-cordo… Anche oggi, laggiù, al Municipio, avete vi-sto?… quello che vi feci dire dal canonico Lupi?…

– Lupus in fabula! – esclamò costui entrando come incasa propria, col cappello in testa, il mantello ondeg-giante dietro, fregandosi le mani. – Sparlavate di me,eh? Mi sussurravano le orecchie…

– Voi piuttosto, buonalana! Avete la cera di chi hapreso il terno al lotto!

– Il terno al lotto? Mi fate il contrappelo anche? Unpovero diavolo che s’arrabatta da mattina a sera!…

– Si discorreva della gabella delle terre… – disse don

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Gesualdo tranquillamente, tirando su una presa, – così,per discorrere…

– Ah! ah! – rispose il canonico; e si mise a guardare inaria. La zia Sganci osservava lei pure i mobili nuovi, vol-tando la testa di qua e di là.

– Belli! belli! Me l’aveva detto la cugina Cirmena.Peccato che non mi sentissi bene la sera del matrimo-nio…

– E gli altri pure, signora donna Mariannina! – rispo-se il canonico con una risatina. – Fu un’epidemia!…

– No! no! Posso assicurarvelo! in fede mia!… La Ru-biera, poveretta!… E anche suo figlio… Lo sento sem-pre che si lagna… – Zia, come potrei?… – Donna Ma-riannina s’interruppe. – Ma abbiamo detto di nonparlarne più. Lui però si duole di non poter venire a fareil suo dovere… Dissidi ce n’è sempre, dico io, anche trafratelli e sorelle… Ma passeranno, coll’aiuto di Dio…Sai, Bianca? tuo cugino si marita. Ora non c’è bisognodi far misteri perché tutto è combinato. Don Filippo dàla tenuta alla Salonia, trenta salme di terra! Una belladote.

Bianca ebbe un’ondata di sangue al viso, indi divennesmorta come un cencio; ma non si mosse né disse verbo.

Il canonico rispose lui invece, masticando ancoral’amaro.

– Lo sappiamo! lo sappiamo! L’abbiamo capita oggi,al Municipio!… – Infine non seppe più frenarsi, quasibruciasse a lui la ferita.

– La baronessa Rubiera ha cercato di dare il gambettoa me pure!… a me che le avevo proposto l’affare!… Si èmessa d’accordo cogli avversari! Tutti contrari!… I pa-renti della moglie schierati contro il marito!… Unoscandalo che non s’è mai visto… Hanno bandito unnuovo appalto per il ponte onde fargli perdere la cauzio-ne a questo disgraziato! Tutte le angherie!… Per la co-struzione delle nuove strade fanno venire i concorrenti

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sin da Caltagirone e da Lentini!… – Di là almeno non cicapita addosso qualche altro parente!…– ha detto il ba-rone Mèndola, colla sua stessa bocca nella farmacia.

Donna Marianna diventava di cento colori e si mor-deva le labbra per non spifferare il fatto suo. Don Ge-sualdo invece se la rideva tranquillamente, sdraiato sulsuo bel canapè soffice, e a un certo punto gli chiuse an-che la bocca colla mano al canonico.

– Lasciate stare!… Queste son chiacchiere che nonvanno al mulino. Ciascuno fa il suo interesse.

– Dico per rispondere a donna Mariannina. Voletesentirne un’altra, eh? la più bella? Si sono pure messid’accordo per vendere il grano a rotta di collo, e far ca-scare i prezzi. Una camorra! Il baronello Rubiera ha det-to che non gliene importa di perdervi cent’onze, pur difarne perdere mille a don Gesualdo che ha i magazzinipieni… Al marito di sua cugina! Vergogna! Ce n’hoventi salme anch’io, capite, vossignoria! Una birbonata!

Il canonico andava scaldandosi maggiormente di ma-no in mano, rivolto a mastro-don Gesualdo: – Bel gua-dagno avete fatto a imparentarvi con loro. Chi l’avrebbedetto… eh? L’avete sbagliata!… Scusate, donna Bianca!non parlo per voi che siete un tesoro!… Allora, caradonna Mariannina!… allora, quand’è così, muoia San-sone con tutti i Filistei.

– E lasciamoli morire, – disse la signora Sganci alzan-dosi. – Già il mondo non finirà per questo. – Come lanipote s’era alzata anch’essa dal canapè, mortificata datutti quei discorsi, colle braccia incrociate sul ventre,donna Mariannina continuò ridendo e fissandole gli oc-chi addosso: – E’ vero, Bianca che il mondo non lo la-scerai finire, tu? – Bianca tornò a farsi rossa. – Evviva!Mi congratulo. Ora che avete questa bella casa dovetefare un bel battesimo… con tutti i parenti… d’amore ed’accordo. Se no, perché li avrete spesi tanti denari?

Don Gesualdo non voleva darla vinta ai suoi nemici,

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ma dentro si rodeva, perché davvero non gli servivanogran cosa tutti quei denari spesi. – Eh, eh, – rispose conquel certo buon umore che voleva sfoggiare allora. – Pa-zienza! Serviranno per chi verrà dopo di noi, se Diovuole! – E batteva affettuosamente sulla spalla della mo-glie, amorevole e sorridente, mentre pensava pure che sei suoi figliuoli avessero avuto la stessa sorte, erano pro-prio denari buttati via, tante fatiche, i guadagni stessi,sempre con quel bel risultato! Poi, quando la zia Sgancise ne fu andata, prese a brontolare contro di Bianca, chenon si era messo il vestito buono per ricevere la zia: –Allora a che serve aver la roba? Diranno che ti tengo co-me una serva. Bel gusto spendere i denari, per non go-derne né noi né gli altri!

– Lasciamo stare queste sciocchezze, e parliamo dicose serie! – interruppe il canonico che s’era riannuvola-to in viso. – C’è un casa del diavolo. Cercano di aizzarvicontro tutto il paese, dicendo che avete le mani lunghe,e volete acchiappare quanta terra si vede cogli occhi, peraffamare la gente… Quella bestia di Ciolla va predican-do per conto loro… Vogliono scatenarci contro anche ivillani… a voi e a me, caro mio! Dicono che io tengo ilsacco… Non posso uscir di casa…

Don Gesualdo scrollava le spalle. – Ah, i villani? Neriparleremo poi, quando verrà l’inverno. Voi che pauraavete?

– Che paura ho, per… mio!… Non sapete che a Pa-lermo hanno fatto la rivoluzione.

Andò a chiudere l’uscio in punta di piedi, e tornò cu-po, nero in viso.

– La Carboneria, capite!… Anche qui hanno portatoquesta bella novità! Posso parlare giacché non l’ho avu-ta sotto il suggello della confessione. Abbiamo la sèttaanche qui!

E spiegò cos’era la faccenda: far legge nuova e buttargiù coloro che avevano comandato sino a quel giorno.

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– Una setta, capite? Tavuso, mettiamo, al posto diMargarone; e tutti quanti colle mani in pasta! Ogni villa-no che vuole il suo pezzo di terra! pesci grossi e minuta-glia, tutti insieme. Dicono che vi è pure il figlio del Re,nientemeno! il Duca di Calabria.

Don Gesualdo, ch’era stato ad ascoltare con tantod’occhi aperti, scappò a dire:

– S’è così… ci sto anch’io! non cerco altro!… E me lodite con quella faccia? Mi avete fatto una bella paura,santo Dio!

L’altro rimase a bocca aperta: – Che scherzate? Onon sapete che voglia dire rivoluzione? Quel che hannofatto in Francia, capite? Ma voi non leggete la storia…

– No, no, – disse don Gesualdo. – Non me ne impor-ta.

– Me ne importa a me: Rivoluzione vuol dire rivoltareil cesto, e quelli ch’erano sotto salire a galla: gli affamati,i nullatenenti!…

– Ebbene? Cos’ero io vent’anni fa?– Ma adesso no! Adesso avete da perdere, cristiano

santo! Sapete com’è? Oggi vogliono le terre del comu-ne; e domani poi vorranno anche le vostre e le mie! Gra-zie! grazie tante! Non ho dato l’anima al diavolo tantianni per…

– Appunto! Bisogna aiutarsi per non andare in fondoal cesto, caro canonico! Bisogna tenersi a galla, se nonvogliamo che i villani si servano colle sue mani. Li cono-sco… so fare, non dubitate.

E spiegò meglio la sua idea: cavar le castagne dal fuo-co con le zampe del gatto; tirar l’acqua al suo mulino, ese capitava d’acchiappare anche il mestolo un quartod’ora, e di dare il gambetto a tutti quei pezzi grossi chenon era riescito ad ingraziarsi neppure sposando una diloro, senza dote e senza nulla, tanto meglio…

Gli andarono in quel momento gli occhi su Biancache stava rincantucciata sul canapè, smorta in viso dalla

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paura, guardando or questo e or quello, e non osavaaprir bocca.

– Non parlo per te, sai. Non me ne pento di quel cheho fatto. Non è stata colpa tua. Tutti i negozi non riesco-no a un modo. Poi se capita di fare il bene, nel tempostesso…

Il canonico cominciava a capacitarsi, cogli occhi e labocca di traverso, pensieroso, e appoggiava anche lui ildiscorso del socio: – Non si voleva torcere un pelo a nes-suno… se si arrivava ad afferrare il mestolo un po’ ditempo… quante cose si farebbero…

– Voi dovreste farne una!… – interruppe don Ge-sualdo. – Parlare con chi ha le mani in questa faccenda,e dire che vogliamo esserci anche noi.

– Eh? Che dite?… un sacerdote!– Lasciate stare, canonico!… Poi se vi è il figlio del

Re, potete esserci anche voi!– Caspita! Al figlio del Re non gliela tagliano la testa,

se mai!– Non temete, che non ve la tagliano la testa! Già, se

è come avete detto, dovrebbero tagliarla a un paese inte-ro. Credete che non abbia fatto i miei conti, in questotempo?… Quando saremo lì, a veder quel che bolle inpentola… Bisogna mettersi vicino al mestolo… con unpo’ di giudizio… col denaro… So io quello che dico.

Bianca cominciò allora a balbettare: – Oh Signore Id-dio!… Cosa pensate di fare?… Un padre di famiglia!…– Il canonico, indeciso, la guardava turbato, quasi sen-tisse il laccio al collo. Don Gesualdo per rassicurarlosoggiunse:

– No, no. Mia moglie non sa cosa dice… Parla per so-verchia affezione, poveretta. – Poscia, mentre accompa-gnava il suo socio in anticamera, soggiunse:

– Lo vedete? Comincia ad affezionarmisi. Già i fi-gliuoli sono un gran legame. Speriamo almeno che ab-biano ad esser felici e contenti loro; giacché io… Volete

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che ve la dica, eh, canonico, come in punto di morte?Mi sono ammazzato a lavorare… Mi sono ammazzato afar la roba… Ora arrischio anche la pelle, a sentir voi!…E che ne ho avuto, eh? ditelo voi!…

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II

C’era un gran fermento in paese. S’aspettavano le no-tizie di Palermo. Bomma che teneva cattedra nella far-macia, e Ciolla che sbraitava di qua e di là. Degli arruffa-popolo stuzzicavano anche i villani con certi discorsi chefacevano spalancare loro gli occhi: Le terre del comuneche uscivano di casa Zacco dopo quarant’anni… unprezzo che non s’era mai visto l’eguale!… Quel mastro-don Gesualdo aveva le mani troppo lunghe… Se aveva-no fatto salire le terre a quel prezzo voleva dire che c’eraancora da guadagnarci su!… Tutto sangue della poveragente! Roba del comune… Voleva dire che ciascuno ciaveva diritto!… Allora tanto valeva che ciascuno si pi-gliasse il suo pezzetto!

Fu una domenica, la festa dell’Assunta. La sera innan-zi era arrivata una lettera da Palermo che mise fuoco allapolvere, quasi tutti l’avessero letta. Dallo spuntare delgiorno si vide la Piazza Grande piena zeppa di villani:un brulichìo di berrette bianche; un brontolìo minaccio-so. Fra Girolamo dei Mercenari, che era seduto all’om-bra, insieme ad altri malintenzionati, sugli scalini dinan-zi allo studio del notaro Neri, come vide passare ilbarone Zacco colla coda fra le gambe, gli mostrò la pi-stola che portava nel manicone.

– La vedete, signor barone?… Adesso è finito il tem-po delle prepotenze!… D’ora innanzi siam tutti egua-li!… – Correva pure la voce dei disegni che aveva fattofra Girolamo: lasciar la tonaca nella cella, e pigliarsi unatenuta a Passaneto, e la figliuola di Margarone in mo-glie, la più giovane.

Il notaro ch’era venuto a levar dallo studio certe carteinteressanti, dovette far di cappello a fra Girolamo perentrare: – Con permesso!… signori miei!… – Poi andòa raggiungere don Filippo Margarone nella piazzetta di

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Santa Teresa: – Sentite qua; ho da dirvi una parola!… –E lo prese per un braccio, avviandosi verso casa, segui-tando a discorrere sottovoce. Don Filippo allibbiva adogni gesto che il notaro trinciava in aria; ma si ostinava adir di no, giallo dalla paura. L’altro gli strinse forte ilbraccio, attraversando la viuzza della Masera per salireverso Sant’Antonio. – Li vedete? li sentite? Volete che cipiglino la mano, i villani, e ci facciano la festa? – Lapiazza, in fondo alla stradicciuola, sembrava un alvearedi vespe in collera. Nanni l’Orbo, Pelagatti, altri mesta-tori, eccitatissimi, passavano da un crocchio all’altro, vo-ciferando, gesticolando, sputando fiele. Gli avventori dimastro Titta si affacciavano ogni momento sull’usciodella bottega, colla saponata al mento. Nella farmacia diBomma disputavasi colle mani negli occhi. Dirimpetto,sul marciapiede del Caffè dei Nobili, don Anselmo il ca-meriere aveva schierate al solito le seggiole al fresco; manon c’era altri che il marchese Limòli, col bastone fra legambe, il quale guardava tranquillamente la folla minac-ciosa.

– Cosa vogliono, don Anselmo? Che diavolo li pigliaoggi? Lo sapete?

– Vogliono le terre del comune, signor marchese. Di-cono che sinora ve le siete godute voialtri signori, e cheadesso tocca a noi, perchè siamo tutti eguali.

– Padroni! padronissimi! Quanto a me non dico dino! Tutti eguali!… Portatemi un bicchier d’acqua, donAnselmo.

Di tanto in tanto dal Rosario o dalla via di San Gio-vanni partiva come un’ondata di gente, e un brontolìopiù minaccioso, che si propagava in un baleno. SantoMotta allora usciva dall’osteria di Pecu-Pecu, e si mette-va a vociare, colla mano sulla guancia:

– Le terre del comune!… Chi vuole le terre del comu-ne!… Uno!… due!… tre!… – E terminava con unasghignazzata.

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– Largo!… largo!… – La gente correva verso la Ma-sera. Al disopra della folla si vide il baronello Rubieracolla frusta in aria, e la testa del suo cavallo che sbuffavaspaventato. Il campiere che gli stava alle costole, armatosino ai denti, gridava come un ossesso: – Signor baro-ne!… Questa non è giornata!… Oggi ci vuol pruden-za!… – Dalla parte di Sant’Agata comparve un momen-to anche il signor Capitano, per intimorire la follaammutinata colla sua presenza. Si piantò in cima allascalinata, appoggiato alla canna d’India, don Liccio Pa-pa dietro, che ammiccava al sole, con tanto di tracollabianca attraverso la pancia. Ma vedendo quel mare diteste se la svignarono subito tutti e due. Alle finestre fa-cevano capolino dei visi inquieti, dietro le invetriate,quasi piovesse. Il palazzo Sganci chiuso ermeticamente,e don Giuseppe Barabba appollaiato sull’abbaino. Lostesso Bomma aveva sfrattato gli amici prima del solito,per timore dei vetri. Di tanto in tanto, nel terrazzo deiMargarone, al disopra dei tetti che si accavallavano ver-so il Castello, compariva la papalina e la faccia gialla didon Filippo. A mezzogiorno, appena suonò la messagrande, ciascuno se ne andò pei fatti suoi; e rimase soloa vociare Santo Motta, nella piazza deserta.

– Avete visto com’è andata a finire? – Ciolla corse adesinare lui pure. Don Liccio Papa, adesso che nonc’era più nessuno, si fece vedere di nuovo per le vie, conla mano sulla sciaboletta, guardando fieramente gli uscichiusi. Infine entrò da Pecu-Pecu, e si posero a tavolacon compare Santo.

– Avete visto com’è andata a finire? – Ciolla solevadesinare in fretta e in furia col cappello in testa e il ba-stone fra le gambe, per tornar subito in piazza a mangiarl’ultimo boccone, portandosi in tasca una manciata dilupini o di ceci abbrustoliti, d’inverno anche con lo scal-dino sotto il tabarro, bighellonando, dicendo a ciascunola sua, sputacchiando di qua e di là, seminando il terre-

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no di bucce. – Avete visto com’è andata a finire? – Face-va la prima tappa dal calzolaio, poi dal caffettiere, appe-na apriva, senza prendere mai nulla, girava a secondadell’ombra, d’inverno in senso inverso, cercando il sole.E le cose tornarono ad andare pel suo verso, al pari diCiolla. Giacinto mise fuori i tavolini pei sorbetti, donAnselmo schierò le seggiole sul marciapiede del Caffèdei Nobili. Rimanevano le ultime nuvole del temporale:dei capannelli qua e là, dinanzi alla bottega di Pecu-Pe-cu e al Palazzo di Città; gente che guardava inquieta, cu-riosi che correvano e si affollavano al più piccolo rumo-re. Ma del resto ogni cosa aveva ripreso l’aspetto solitodelle domeniche. L’arciprete Bugno che stava un’ora aleccare il sorbetto col cucchiarino; il marchese e gli altrinobili seduti in fila dinanzi al Caffè; Bomma predicandoin mezzo al solito circolo, sull’uscio della farmacia; unosciame di contadini un po’ più in là, alla debita distanza;e ogni dieci minuti la vecchia berlina del barone Mèndo-la che scarrozzava la madre di lui, sorda come una talpa,dal Rosario a Santa Maria di Gesù: le orecchie pelose estracche delle mule che ciondolavano fra la folla, il coc-chiere rannicchiato a cassetta, colla frusta fra le gambe,accanto al cacciatore gallonato, colle calze di bucato chesembravano imbottite di noci, e le piume gialle del cap-pellone della baronessa che passavano e ripassavano suquell’ondeggiare di berrette bianche.

Tutt’a un tratto accadde un fuggi fuggi: una specie dirissa dinanzi all’osteria. Don Liccio Papa cercava d’arre-stare Santo Motta, perché aveva gridato la mattina; e ilcapitano l’incitava da lontano, brandendo la canna d’In-dia: – Ferma! ferma!… la giustizia!

Ma Santo si liberò con uno spintone, e prese a correreverso Sant’Agata. La folla fischiava ed urlava dietro allosbirro che tentava d’inseguirlo. – Ahi! ahi! – disse Bom-ma ch’era salito su di una sedia per vedere. – Se non ri-spettano più l’autorità!… – Tavuso gli fece segno di ta-

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cere, mettendosi l’indice attraverso la bocca. – Sentitequa, don Bastiano! – E si misero a discorrere sottovoce,tirandosi in disparte. Dalla Maddalena scendeva lemmelemme il notaro, col bastone dietro la schiena. Bommacominciò a fargli dei segni da lontano; ma il notaro finsedi non accorgersene; accennò al Capitano che s’avviavaverso il Collegio, ed entrò in chiesa anche lui dalla portapiccola. Il Capitano passando dinanzi alla farmacia ful-minò i libertini di un’occhiataccia, e borbottò, rivolto alprincipale:

– Badate che avete moglie e figliuoli!…– Sangue di!… corpo di!… – voleva mettersi a sbrai-

tare il farmacista. In quel momento suonava la campa-nella della benedizione, e quanti erano in piazza s’ingi-nocchiarono. Poco dopo, Ciolla, che ingannava il temposgretolando delle fave abbrustolite, seduto dinanzi allabottega del sorbettiere vide una cosa che gli fece drizzarle orecchie: il notaro Neri che usciva di chiesa insieme alcanonico Lupi, e risalivano verso la Maddalena, passopasso, discorrendo sottovoce. Il notaro scrollava le spal-le, guardando sottecchi di qua e di là. Ciolla tentò diunirsi a loro, ma essi lo piantarono lì. Bomma, da lonta-no, non li perdeva di vista dimenando il capo.

– Badate a quel che fate!… Pensate alla vostra pelle!– gli disse il Capitano passandogli di nuovo accanto.

– Becco!… – voleva gridargli dietro il farmacista. –Badate a voi piuttosto!… – Ma il dottore lo spinse den-tro a forza. Ciolla era corso dietro al canonico e al nota-ro Neri per la via di San Sebastiano, e li vide ancora fer-mi sotto il voltone del Condotto, malgrado il granpuzzo, quasi al buio, che discorrevano sottovoce, gesti-colando. Appena s’accorsero del Ciolla se la svignaronoin fretta, l’uno di qua e l’altro di là. Il notaro continuò asalire per la stradicciuola sassosa, e il canonico scese ap-posta a rompicollo verso San Sebastiano, fermando ilCiolla come a caso.

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– Quel notaro… me ne ha fatta una!… Aveva il con-senso di massaro Sbrendola… un contratto bell’e buo-no… e ora dice che non si rammenta!

– Va là, va là, che non me la dai a bere! – mormoròCiolla fra di sè, appena il canonico ebbe voltate le spalle.E corse subito alla farmacia:

– Gran cose c’è per aria! Cani e gatti vanno insieme!Gran cose si preparano! – Tavuso gonfiò le gote e nonrispose. Lo speziale invece si lasciò scappare: – Lo so! loso!

E si picchiò la mano aperta sulla bocca, fulminatodall’occhiata severa che gli saettò il dottore.

Verso due ore di notte, don Gesualdo stava per met-tersi a cenare, quando venne a cercarlo in gran mistero ilcanonico, travestito da pecoraio. Bianca fu lì lì per abor-tire dallo spavento.

– Don Gesualdo siamo pronti, se volete venire; gliamici vi aspettano.

Ma gli tremava la voce al poveraccio. Lo stesso donGesualdo, al momento di buttarsi proprio in quella fac-cenda, gli vennero in mente tante brutte idee; si fece pal-lido, e gli cadde la forchetta di mano. Bianca poi si alzòconvulsa, incespicando qua e là, pigliandosela col cano-nico, che metteva in quell’impiccio un padre di famiglia.

– Se fate così!… – balbettò il canonico; – se mi fateanche la jettatura… allora, buona notte!

Don Gesualdo cercava di volgerla in ridere, colle lab-bra smorte – Bravo canonico! Adesso si vedrà se sieteun uomo!… Sono contento, vedi, Bianca! Sono conten-to d’andare magari verso il precipizio, per vedere checominci ad affezionarti a me e alla casa…

Tutto sudato, colle mani un po’ tremanti, si imba-cuccò ben bene in uno scapolare, per prudenza, e scese-ro in istrada. Non c’era anima viva. Sul terrazzo del Col-legio una mano ignota aveva spento finanche illampione dinanzi alla statua dell’Immacolata: una cosa

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da fare accapponar la pelle, quella sera! Egli allora sisentì stringere il cuore da una tenerezza insolita, pensan-do alla casa e ai parenti.

– Povera Bianca! Avete visto? E’ buona, sì, in fon-do… Non lo credevo, davvero!…

– Zitto! – interruppe il canonico. – Se vi fate conosce-re alla voce, è inutile nascondersi e sudare come bestie!

Ogni momento andava voltandosi, temendo di esserespiati. Arrivati nella via di San Giovanni videro un’om-bra che andava in su verso la piazza, e il canonico dissepiano:

– Vedete?… E’ uno dei nostri!… Va dove andiamonoi.

Era in un magazzino di Grancore, giù nelle stradic-ciuole tortuose verso San Francesco, che sembravanofatte apposta. Una casetta bassa che aveva una finestrailluminata per segnale. Si bussavano tre colpi in un certomodo alla porticina dove si giungeva scendendo tre sca-lini; si attraversava un gran cortile oscuro e scosceso, ein fondo c’era uno stanzone buio dove si capiva che sta-va molta gente a confabulare insieme dal sussurrìo che siudiva dietro l’uscio. Il canonico disse: – E’ qui! – e feceil segnale convenuto.

Tutti e due col cuore che saltava alla gola. Per fortunain quel momento giunse un altro congiurato, imbacuc-cato come loro, camminando in punta di piedi sui sassidel cortile, e ripeté il segnale istesso.

– Don Gesualdo, – disse il notaro Neri cavando il na-so da una gran sciarpa. – Siete voi? Vi ho riconosciuto alcanonico che sembra un cucco, poveraccio!

Il notaro la pigliava allegramente. Narrava che a Pa-lermo avevano fatto il pasticcio; avevano ammazzato ilprincipe di Aci e s’erano impadroniti di Castellammare:– Chi comanda adesso è un prete, certo Ascenso!

– Ah? – rispose il canonico che si sentiva in causa. –Ah?

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– Silenzio per ora!… Andiamo adagio! Sapetecom’è?… a chi deve prima attaccare il campanello algatto! E ogni galantuomo non vorrebbe mettere il piedein trappola. Ma se siamo in tanti… C’è anche il baroneZacco stasera.

– Che aspettiamo ad entrare, signori miei? – interrup-pe don Gesualdo a quella notizia, coraggioso come unleone.

Quando tornarono ad uscire, dopo un gran pezzo,erano tutti più morti che vivi. Bomma sforzavasi di fareil gradasso; Tavuso non diceva una parola; e il notarostava soprapensieri anche lui. Zacco corse ad attaccarsial braccio di don Gesualdo, quasi fossero divenuti fra-telli davvero. – Sentite, cugino, ho da parlarvi. – E segui-tarono ad andare a braccetto in silenzio.

– Ssst!… un fischio!… verso i Cappuccini!… – Il ba-rone mise mano alla pistola: tutti con un gran batticuo-re. Si udirono abbaiare dei cani. – Fermo!… – esclamòil canonico sottovoce, afferrando il braccio armato delbarone che mirava al buio, – è fra Girolamo, che nonvuol esser visto da queste parti! – Appena si udì richiu-dere l’uscio, nel vano del quale era balenata una sottanabianca, il farmacista borbottò col fiato ai denti: – L’ab-biamo scappata bella, parola d’onore! – Il barone invecestrinse forte il braccio di don Gesualdo senza dir nulla.Poi lasciò andare ciascuno per la sua strada, Bomma insu, verso la Piazza Grande, il canonico a piè della scali-nata che saliva a San Sebastiano. – Da questa parte, donGesualdo… venite con me. – E gli fece fare il giro lungopei Cappuccini, risalendo poi verso Santa Maria di Gesùper certe stradicciuole buie che non si sapeva dove met-tere i piedi. A un tratto si fermò guardando faccia a fac-cia il suo amico novello con certi occhi che luccicavanoal buio.

– Don Gesualdo, avete sentito quante belle chiacchie-re? Adesso siamo tutti fratelli. Nuoteremo nel latte e nelmiele, d’ora in poi… Voi che ci credete, eh?

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L’altro non disse né sì né no, prudente, aspettando ilseguito.

– Io no… Io non mi fido di tutti questi fratelli chenon mi ha partorito mia madre.

– Allora perché siete venuto, vossignoria?– Per non farci venire voi, caspita! Io non fo misteri.

Giuochiamo a tagliarci l’erba sotto i piedi fra di noi cheabbiamo qualcosa da perdere, ed ecco il bel risultato!Far la minestra per i gatti, e arrischiare la roba e la te-sta!… Io bado ai miei interessi, come voi… Non ho i fu-mi che hanno tanti altri… Parenti! parentissimi! quantoa me volentieri… Allora mettiamoci d’accordo piuttostofra di noi…

– Ebbene? che volete fare?– Ah? che voglio fare? La pigliate su quel verso? Mi

fate lo gnorri?… Allora sia per non detto… Ciascuno ilsuo interesse! Fratelli! Carbonari! Faremo la rivoluzio-ne! metteremo il mondo a soqquadro anche!… Io nonho paura!… – Nel calore della disputa il barone si eraaddossato all’uscio di un cortile. Un cane si mise a latra-re furiosamente. Zacco spaventato se la diede a gambecolla pistola in pugno, e don Gesualdo dietro di lui, an-sante. Prima di giungere in piazza di Santa Maria di Ge-sù, uno che andava correndo lo fermò mettendogli lamano sul petto.

– Signor don Gesualdo!… dove andate?… c’è la giu-stizia a casa vostra!

Quello che temeva il canonico! quello che temevaBianca! Egli correva al buio, senza saper dove, con unagran confusione in testa, e il cuore che voleva uscirglidal petto. Poi, udendo colui che gli arrancava dietro,con un certo rumore quasi picchiasse in terra col basto-ne, gli disse: – E tu chi sei?

– Nardo, il manovale, quello che ci lasciò la gambasul ponte. Non mi riconoscete più, vossignoria? DonnaBianca mi ha mandato a svegliare di notte.

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E narrava com’era arrivata la Compagnia d’Arme,all’improvviso, a quattr’ore di notte. Il Capitano e altriCompagni d’Arme erano in casa di don Gesualdo. Las-sù, verso il Castello, vedevansi luccicare dei lumi; c’erapure una lanterna appesa dinanzi alla porta dello stalla-tico, al Poggio, e dei soldati che strigliavano. Più in là,nelle vicinanze della Piazza Grande, si udivano di tantoin tanto delle voci: un mormorìo confuso, dei passi cherisuonavano nella notte, dei cani che abbaiavano pertutto il paese.

Don Gesualdo si fermò a riflettere: – Dove andiamo,vossignoria? – chiese Nardo. – Ci ho pensato. Non farrumore. Ah! Madonna Santissima del Pericolo! Va achiamare Nanni l’Orbo. Lo conosci? il marito di Dioda-ta?

Cominciava ad albeggiare. Ma nelle viottole fuori ma-no che avevano preso non s’incontrava ancora anima vi-va. La casuccia di Diodata era nascosta fra un mucchiodi casupole nerastre e macchie di fichi d’India, dove ilfango durava anche l’estate. C’era un pergolato sul bal-latoio, e un lume che trapelava dalle imposte logore.

– Bussa tu, se mai… – disse don Gesualdo.Diodata al vedersi comparire dinanzi il suo antico pa-

drone ansante e trafelato si mise a tremare come una fo-glia.

– Che volete da me a quest’ora?… Per l’amor di Dio!lasciatemi in pace, don Gesualdo!… Se torna mio mari-to!… E’ uscito or ora, per cogliere quattro fichi d’In-dia!… qui accanto.

– Bestia! – disse lui. – Ho altro pel capo! Ci ho la giu-stizia alle calcagna!…

– Che c’è? – chiese Diodata spaventata.Egli colla mano le fece segno di star zitta. In quel mo-

mento tornò correndo compare Nardo; la gamba di le-gno si udiva da lontano sull’acciottolato.

– Eccolo!… eccolo che viene!…

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Entrò Nanni l’Orbo, torvo, colla canna da cogliere ifichi d’India in spalla, e gli occhi biechi che fulminavanodi qua e di là. Invano Diodata, colle braccia in croce giu-rava e spergiurava.

– Padron mio! – esclamò Nanni – a che giuoco giuo-chiamo? Questa non è la maniera!…

– Bestia! – gridò infine don Gesualdo, scappandoglila pazienza. – Ho la forca dinanzi agli occhi, e tu vieni aparlarmi di gelosia!

Allo strepito accorsero i vicini – Lo vedete? – ripigliòNanni infuriato. – Che figura fo dinanzi a loro padronmio? In coscienza, quel po’ che avete dato a costei permaritarla è una miseria, in confronto della figura che mifate fare!

– Taci! Farai correre gli sbirri con quel chiasso! Chevuoi? Ti darò quello che vuoi!…

– Voglio l’onor mio, don Gesualdo! L’onor mio chenon si compra a denari!

Cominciarono ad abbaiare anche i cani del vicinato.–Vuoi la chiusa del Carmine?… un pezzo che ti fa gola!

Infine compare Nardo riuscì a metterli d’accordo sul-la chiusa del Carmine. – Corpo di Giuda! La roba serveper queste occasioni… carceri, malattie e persecuzio-ni… Voi l’avete fatta, don Gesualdo, e serve per salvarela vostra pelle…

Don Gesualdo con una faccia da funerale brontolò:– Parla! Sbraita! Hai ragione! Adesso hai ragione tu!– Considerate dunque il vostro prossimo, vossigno-

ria! La moglie da mantenere… I figli che nasceranno…Se mi tornano a casa anche gli altri… quelli che son ve-nuti prima, bisogna mantenerli come fossero miei…perché sono il marito di Diodata… La gente dirà magariche li ho messi al mondo io!…

– Basta! basta! Se t’ho detto di sì per la chiusa!– Parola di galantuomo? Davanti a questi testimoni?

Quand’è così… giacchè mi dite che siete venuto soltan-

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to per salvare la pelle, potete rimanere tutto il tempoche vi piace. Sono un buon diavolaccio, lo sapete!…

S’era fatto tardi. Compare Nanni, completamenterabbonito, propose anche di andare a vedere quel cheaccadeva fuori:

– Voi fate liberamente come se foste in casa vostra,don Gesualdo… Compare Nardo verrà con me. Al ri-torno, per segnale, busserò tre colpi all’uscio. Ma se no,non aprite neanche al diavolo.

Era un terrore pel paese: porte e finestre ancora chiu-se, Compagni d’Arme per le vie, rumore di sciabole e disperoni. Le signorine Margarone, in fronzoli e colla te-sta irta di ciambelle come un fuoco d’artificio, correva-no ogni momento al balcone. Don Filippo, tronfio e pet-toruto, se ne stava adesso seduto nel Caffè dei Nobili,insieme al Capitano Giustiziere e l’Avvocato Fiscale, fa-cendo tremare chi passava colla sola guardatura. Nellastalla di don Gesualdo dei trabanti governavano i caval-li, e il Comandante fumava al balcone, in pantofole, co-me in casa sua.

Nanni l’Orbo tornò ridendo a crepapelle. Prima dientrare però bussò al modo che aveva detto, tossì, si sof-fiò il naso, pure si trattenne un po’ a discorrere ad altavoce con una vicina che si pettinava sul ballatoio. DonGesualdo stava mangiando una insalata di cipolle, ondeprevenire qualche malattia causata dallo spavento. –Prosit! prosit, don Gesualdo! A casa vostra ci ho trova-to dei forestieri, tale e quale come voi qui da me. Il baro-ne Zacco corre ancora!… L’hanno visto prima dell’albapiù in là di Passaneto, figuratevi! a casa del diavolo!…dietro una siepe, più morto che vivo!… Sua moglie facome una pazza… Sono stato anche a cercare del notaroNeri, se s’ha a scrivere due parole della chiusa del Car-mine che date a mia moglie pei servizi prestati… Nonche non mi fidi… sapete bene… per la vita e per la mor-te. Nessuno l’ha più visto, il notaro! Dicono ch’è nasco-

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sto nel monastero di San Sebastiano… vestito da don-na… sissignore! Gli sbirri cercano da per tutto! Ma quinon avete da temere, vossignoria!… Udite? udite?

Sembrava che si divertisse a fare agghiacciare il san-gue nelle vene al prossimo suo, quel briccone! Udivasiinfatti un vocìo di comari, un correre di scarponi grossistrilli di ragazzi. Diodata s’arrampicò sino all’abbainodel granaio per vedere. Poi Nanni venne a dire:

– E’ il viatico, Dio liberi!… Va in su verso sant’Agata.Ho visto il canonico Lupi che portava il Signore… cogliocchi a terra!… una faccia da santo, com’è vero Iddio!

– Stasera, appena è scuro, mi farai trovare una caval-catura laggiù alla Masera, e mi darai qualche cosa da tra-vestirmi; – disse don Gesualdo, che sembrava più smor-to alla luce dell’abbaino.

– Perché? Non vi piace più lo stare in casa mia? Dio-data vi avrebbe fatto qualche mancanza?

– No, no… Mi pare mill’anni d’esser lontano…– Qui però non avete da temere… Gli sbirri non ven-

gono a cercarvi qui! A casa vostra piuttosto! Guardate-vi!…

Infatti Bianca la sera innanzi s’era visto capitare a treore di notte il Capitan d’Arme, un bell’uomo colla barbaa collana e i baffi alla militare, che recava il bigliettod’alloggio. Bianca, già inquieta per suo marito, non sa-pendo che fare, aveva mandato a chiamare lo zio Limòli,il quale giunse sbadigliando e di cattivo umore. Invano ilCapitan d’Arme accarezzandosi i baffi che aveva lasciatocrescere da poco, le diceva colla voce grossa:

– Non temete!… Calmatevi, bella signora!… Noi mi-litari siamo galanti col bel sesso!…

– Poi – aggiunse il marchese – questi qua sono milita-ri per modo di dire; come io ho fatto il voto di castitàperché sono cavaliere di Malta.

Il Capitano si accigliò, ma l’altro, senza accorgersenecontinuò, battendogli familiarmente sulla spalla:

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– Vi conosco, don Bastiano!… Eravate piccolo così,colle brache aperte, quando si faceva delle scappatelleinsieme a vostro padre… Allora il voto mi dava noia co-me vi dà noia adesso quella stadera che portate appesaal fianco… Bei tempi!… Bell’uomo vostro padre! Ilcuore e la borsa sempre aperti!… Don MarcantonioStangafame!… dei Stangafame di Ragusa!… una delleprime famiglie della Contea! Peccato che siate in tanti!L’avete indovinata a farvi nominare Capitan d’Arme!…Quattrocent’onze all’anno, per rispondere dei furti cam-pestri… E’ una bella somma… Vi rimane in tasca tale equale… poiché il territorio è tranquillo!… Una bagattel-la soltanto pei dodici soldati che vi tocca mantenere…due tarì al giorno per ciascuno, eh?…

– Basta, corpo di… bacco!… – gridò il Capitan d’Ar-me battendo in terra la sciabola. – Sembrami che voglia-te burlarvi di me, corpo di… bacco!

– Ehi, ehi! Adagio, signor capitano! Sono il marcheseLimòli, e ho ancora degli amici a Napoli per farvi scapi-tanare e tagliare i baffi novelli, sapete!

Capitò in quel momento il ragazzetto del sagrestanoche veniva a fare un’imbasciata di gran premura, balbet-tando, imbrogliandosi, tornando sempre a ripetere lastessa cosa rosso dalla suggezione. Il marchese, che co-minciava a farsi un po’ sordo, tendeva l’orecchio, gli fa-ceva dei versacci lo intimidiva maggiormente strillando:– Eh? che diavolo vuoi?

Ma Bianca mise un grido straziante un grido che fecerimanere lo zio a bocca aperta, e scappò per la casa cer-cando il manto, cercando qualcosa da buttarsi in capoper uscire di casa, per correre subito.

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III

Da gran tempo, ogni giorno, alla stessa ora, donnaGiuseppina Alòsi che stava al balcone facendo la calzaper aspettare la passata di Peperito, don Filippo Marga-rone mentre rivoltava la conserva di pomidoro posta adasciugare sul terrazzo, l’arciprete Bugno nell’appendereal fresco la gabbia del canarino, fin coloro che stavano asbadigliare nella farmacia di Bomma, se volgevano gliocchi in su, verso il Castello, al di sopra de’ tetti, soleva-no vedere don Diego e don Ferdinando Trao, uno dopol’altro, che facevano capolino a una finestra, guardinghi,volgevano poi un’occhiata a destra, un’altra a sinistra,guardavano in aria, e ritiravano il capo come la lumaca.Dopo qualche minuto infine aprivasi il balcone grande,stridendo, tentennando, a spinte e a riprese, e compari-va don Diego, curvo, macilento, col berretto di cotonecalcato sino alle orecchie, tossendo, sputando, tenendosiall’inferriata con una mano; e dietro di lui don Ferdi-nando che portava l’annaffiatoio, giallo, allampanato, unvero fantasma. Don Diego annaffiava, nettava, rimonda-va i fiori di Bianca; si chinava a raccattare i seccumi e lefoglie vizze; rimescolava la terra con un coccio; passavain rivista i bocciuoli nuovi, e li covava cogli occhi. DonFerdinando lo seguiva passo passo, attentissimo; acco-stava anche lui il viso scialbo a ciascuna pianta, aguzzan-do il muso, aggrottando le sopracciglia. Poscia appog-giavano i gomiti alla ringhiera, e rimanevano come duegalline appollaiate sul medesimo bastone, voltando il ca-po ora di qua e ora di là, a seconda che giungeva la muladi massaro Fortunato Burgio carica di grano, o saliva dalRosario la ragazza che vendeva ova, oppure la mogliedel sagrestano attraversava la piazzetta per andare a suo-nare l’avemaria. Don Ferdinando stava intento a contarequante persone si vedevano passare attraverso quel pez-

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zetto di strada che intravvedevasi laggiù, fra i tetti dellecase che scendevano a frotte per la china del poggio;don Diego dal canto suo seguiva cogli occhi gli ultimiraggi di sole che salivano lentamente verso le alture delParadiso e di Monte Lauro, e rallegravasi al vederloscintillare improvvisamente sulle finestre delle casipoleche si perdevano già fra i campi, simili a macchie bian-castre. Allora sorrideva e appuntava il dito scarno e tre-mante, spingendo col gomito il fratello, il quale accen-nava di sì col capo e sorrideva lui pure come unfanciullo. Poi raccontava quello che aveva visto lui: –Oggi ventisette!… ne sono passati ventisette… L’arci-prete Bugno era insieme col cugino Limòli!…

Per un po’ di giorni, verso i primi d’agosto, era venu-to soltanto don Ferdinando ad annaffiare i fiori, strasci-nandosi a stento, coi capelli grigi svolazzanti, sbrodolan-dosi tutto a ogni passo. Allorché ricomparve anche donDiego, parve di vedere Lazzaro risuscitato: tutto naso,colle occhiaie nere, seppellito vivo in una vecchia palan-drana, tossendo l’anima a ogni passo: una tosse fioca chenon si udiva quasi più, e scuoteva dalla testa ai piedi luie il fratello che gli dava il braccio, come andasse facendola riverenza a ogni vaso di fiori. E fu l’ultima volta. D’al-lora in poi s’erano viste raramente insieme le teste canu-te dei due fratelli, dietro i vetri rattoppati colla carta,cercando il sole, don Diego sputando e guardando interra ogni momento. Il giorno in cui avvenne quel para-piglia nel Palazzo di Città, che le voci si udivano sin nel-la piazzetta di Sant’Agata, apparve per un istante alla fi-nestra la cima di un berretto bianco tremolante. Maallorquando la processione di San Giuseppe si fermò di-nanzi al portone dei Trao, per l’omaggio tradizionale al-la famiglia, le finestre rimasero chiuse, malgrado il vocìodella folla. Don Ferdinando scese per comprare l’imma-gine del santo gonfio d’asma, cogli occhi arsi di sonnopiegato in due le mani nerastre tremanti così che nontrovavano quasi nel taschino i due baiocchi per l’imma-

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gine. Il procuratore di San Giuseppe, che dirigeva laprocessione, gli disse:

– Vedrete quant’è miracolosa quell’immagine! Tantasalute e provvidenza a tutti, in casa vostra!

E gli affidò anche il bastone d’argento del santo, dametterlo al capezzale del malato: un tocca e sana. Eppu-re non giovò neanche quello.

Compare Cosimo e Pelagatti, partendo per la campa-gna due ore prima dell’alba, o tornando a notte fatta, ve-devano sempre il lume alla finestra di don Diego. E il ca-ne nero dei Motta uggiolava per la piazza, come unlamento. Poi, verso nona, bussava al portone il ragazzodi don Luca, portando un bicchiere di latte. Di tanto intanto veniva don Giuseppe Barabba, con un piatto co-perto dal tovagliuolo, o il servitore del Fiscale che reca-va un fiasco di vino. A poco a poco diradarono anchequelle visite. L’ultima volta il dottor Tavuso se n’era an-dato scrollando le spalle. I ragazzi del vicinato giuocava-no tutto il giorno dietro quel portone che non si aprivapiù. Una sera, tardi, i vicini, che stavano cenando, udiro-no la voce chioccia di don Ferdinando chiamare il sagre-stano, lì dirimpetto: una voce da far cascare il pan dibocca. E subito dopo un gran colpo al portone scon-quassato, e dei passi che si allontanarono frettolosi.

Fu giusto quella notte che arrivava la Compagniad’Arme. Una baraonda per tutto il paese. Al rumore in-solito anche Don Diego aprì un istante gli occhi. Burgioche era sul ballatoio di casa sua, coll’orecchio teso versola Piazza Grande dove udivasi quel parapiglia, vedendogente nel balcone dei Trao, domandò inquieto:

– Che c’è?… Cosa succede?– Don Diego!… – rispose il sagrestano; e fece il segno

della croce, quasi massaro Fortunato avesse potuto ve-derlo al buio. – Solo come un cane!… me lo lascianosulle spalle!… Ho mandato Grazia pel dottore… a que-st’ora!…

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– Sentite, laggiù, verso la piazza?… sentite?… Chegiornata spunterà domattina, Dio liberi!…

– Basta avere la coscienza netta, massaro Fortunato.Sono stato sempre un povero diavolo!… Bacio la manodi chi mi dà pane…

– Il dottore!… quello sì!… deve avere la tremarellaaddosso a quest’ora!… E anche il canonico Lupi, dico-no!… Buona sera!… I muri hanno orecchie al buio!

Infatti il dottor Tavuso, ch’era il capo di tutti i giaco-bini del paese, e stava nascosto nella legnaia, tremandocome una foglia, vide giunta l’ultima sua ora all’udirbussare all’uscio con tanta furia.

– Li sbirri!… la Compagnia d’Arme!…Quando gli dissero che era la moglie del sagrestano,

invece, la quale veniva a cercarlo per don Diego mori-bondo, montò in furia come una bestia.

– E’ ancora vivo?… Mandatelo al diavolo!… Vengo-no a spaventarmi!… a quest’ora!… di questi tempi!…Un padre di famiglia!… Andate a chiamare i suoi paren-ti piuttosto… o il viatico, ch’è meglio!…

La zia Sganci non volle neppure aprire. Barabba ri-spose dietro il portone, chiuso con tanto di catenaccio:

– Buona donna, questi non son tempi di correre dinotte per le strade. Domattina, se Dio vuole, chi campasi rivede.

Per fortuna, Grazia non aveva di che temere; e suomarito l’avrebbe mandata senza sospetto in mezzo a unreggimento di soldati. L’andare attorno così tardi, inquella tal notte, era proprio uno sgomento. Lo stessobaronello Rubiera, che era uscito di buon’ora dalla casadei Margarone, s’era fatto accompagnare col lampione.

– Ninì! Ninì! – strillò dal balcone donna Fifì con lavocina sottile, quasi il suo fidanzato corresse a buttarsiin un precipizio.

– Non temere… no! – rispose lui con la voce grossa.All’udir gente nella piazzetta, dal portone dei Trao,

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che rimbombò come una cannonata, uscì correndo donLuca:

– Signor barone!… sta per morire vostro cugino donDiego!… solo come un cane!… Non c’è nessuno in ca-sa!…

Rimpetto al palazzo nero e triste dei Trao splendeva ilbalcone lucente dei Margarone, e in quella luce disegna-vasi l’ombra di donna Fifì, rammentandogli un’altra om-bra che soleva aspettarlo altra volta alla finestra del pa-lazzo smantellato. Don Ninì se ne andò frettoloso, acapo chino, portandosi seco negli occhi i ricordi di quel-la finestra chiusa e senza lume.

– Bella porcheria!… Me lo lasciano sulle spalle!… ame solo! – brontolò don Luca tornando nella cameradel moribondo.

Don Ferdinando stava seduto a piè del letto, senza dirnulla, simile a una mummia. Di tanto in tanto andava aguardare in viso suo fratello; guardava poi don Luca,stralunato, e tornava a chinare il capo sul petto. Alla sfu-riata del sagrestano però si rizzò all’improvviso, quasi gliavessero dato uno scossone, e domandò piano, con lavoce assonnata di uno che parli in sogno:

– Dorme?– Sì, dorme!… Andate a dormire voi pure, se vole-

te!…Ma l’altro non si mosse. Il malato da prima voleva sa-

pere ogni momento che ora fosse; poi, verso mezzanot-te, non domandò più nulla. Stava cheto, col naso controil muro, e la coperta sino alle orecchie. Grazia, di ritor-no, aveva accostato l’uscio, messo il lume accanto, sultavolino, ed era andata a dare un’occhiata a casa sua. Ilmarito si accomodò alla meglio su due sedie. Don Ferdi-nando, di tratto in tratto, si alzava di nuovo, in punta dipiedi, si chinava sul letto, simile a un uccello di malau-gurio, e tornava a domandare piano, all’orecchio di donLuca:

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– Che fa? dorme?– Sì! sì!… Andate a dormire voi pure!… andate!E l’accompagnò lui stesso in camera sua, per liberarsi

almeno da quella noia. Don Ferdinando sognava che ilcane nero dei vicini Motta gli si era accovacciato sul pet-to, e non voleva andarsene, per quanto egli cercasse disvincolarsi e di gridare. La coda del cane, lunga, lungache non finiva più, gli si era attorcigliata al collo e allebraccia, al pari di un serpente, e lo stringeva, soffocan-dolo, gli strozzava la voce in gola, quando udì un’altravoce che lo fece balzare dal letto, con una gran palpita-zione di cuore.

– Alzatevi, don Ferdinando! Questa non è ora di dor-mire!…

Don Diego pareva che russasse forte, si udiva dall’al-tra stanza; supino, cogli occhi aperti e spenti, le narici fi-ligginose: un viso che non si riconosceva più. Come donFerdinando lo chiamò prima pian piano, e tornò a chia-marlo e a scuoterlo inutilmente, gli si rizzarono quei po-chi capelli in capo, e si rivolse al sagrestano, smarrito,supplichevole:

– Che fa ora?… che fa?…– Che fa?… Lo vedete che fa!… Grazia! Grazia!– No!… Fermatevi!… Non aprite adesso!…Era giorno chiaro. Donna Bellonia in sottana stava a

spiare dalla terrazza verso la Piazza Grande per incaricodel marito, spaventata dal tramestìo che s’era udito tuttala notte nel paese; e Burgio strigliava la mula legata alportone dei Trao. Alle grida di don Luca, levò il capoverso il balcone, e domandò cosa c’era con un cenno delcapo. Il sagrestano rispose anche lui con un gesto dellamano, facendo segno di uno che se ne va.

– Chi? – domandò la Margarone che se ne accorse. –Chi? don Diego o don Ferdinando?

– Sissignora, don Diego! Lo lasciano sulle spalle a mesolo!… Corro dal dottore… almeno per la ricetta del

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viatico, che diavolo!… Signori miei! deve andarsene co-sì un cristiano, senza medico né speziale?…

Speranza cominciò dallo sgridare suo marito che ave-va legata la mula alla casa del moribondo: – Porta di-sgrazia! Ci vorrebbe quest’altra!… – Poi si diedero astrologare i numeri del lotto insieme a donna Bellonia,ch’era corsa a prendere il libro di Rutilio Benincasa.Donna Giovannina s’affacciò asciugandosi il viso; manon si vide altro che il sagrestano il quale correva a chia-mare Tavuso, lì a due passi una porticina verde, colla fu-ne del campanello legata alta perché non andassero aseccarlo di notte. Picchia e ripicchia infine la serva diTavuso gli soffiò attraverso il buco della serratura:

– O chetatevi che il dottore non esce di casa, se cascail mondo! E’ più malato degli altri, lui!

Bomma, giallo al par del zafferano, stava pestandocremor di tartaro in fondo alla farmacia, solo come unappestato. Don Luca entrò a precipizio, col fiato ai den-ti:

– Signor don Arcangelo!… don Diego Trao è in pun-to di morte. Il dottore non vuol venire… Cosa fo?

– Cosa fate?… La cassa da morto fategli, accidenti avoi! M’avete spaventato! Non è questa la maniera… og-gi che ogni galantuomo sta coll’anima sulle labbra!…Andate a chiamargli il prete piuttosto… lì, al Collegio,c’è il canonico Lupi che s’arrabatta a dir messe e mattu-tino fin dall’alba, per farsi vedere in chiesa!… Cadesempre in piedi colui! Se ne ride degli sbirri!… Io fo lospeziale! Pesto cremor di tartaro, giacché non posso pe-star altro… non posso!

Ma, vedendo passare Ciolla ammanettato come un la-dro, si morse la lingua, e chinò il capo sul mortaio. – Si-gnori miei! – sbraitava Ciolla, – guardate un po’!… ungalantuomo che se ne sta in piazza pei fatti suoi!… – ICompagni d’Arme, senza dargli retta, lo cacciavano in-nanzi a spintoni; don Liccio Papa di scorta colla sciabo-

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la sguainata, gridando: – Largo! largo alla giustizia!… –Il Capitano Giustiziere, dall’alto del marciapiede delCaffè dei Nobili, sentenziò:

– Bisogna dare un esempio! Ci pigliavano a calci dovesapete, un altro po’!… manica di birbanti!… Un paesecome il nostro, che prima era un convento di frati!… Alcastello! al castello! Don Liccio, eccovi le chiavi!…

Grazie a Dio si tornava a respirare. I ben pensanti sultardi cominciarono a farsi vedere di nuovo per le strade;l’arciprete dinanzi al caffè; Peperito su e giù pel Rosario;Canali a braccetto con don Filippo verso la casa dellaceraiuola; don Giuseppe Barabba portando a spassoun’altra volta il cagnolino di donna Marianna Sganci; lasignora Capitana poi in gala, quasi fosse la sua festa,adesso che ci erano tanti militari, colla borsa ricamata albraccio, il cappellino carico di piume, scutrettolando, ri-dendo, cinguettando, rimorchiandosi dietro don Bastia-no Stangafame, il tenente, tutti i colleghi di suo marito,il quale se ne stava a guardare da vero babbèo, colla can-na d’India dietro la schiena, mentre i suoi colleghi pas-seggiavano con sua moglie, spaccandosi come compassi,ridendo a voce alta, guardando fieramente le donne cheosavano mostrarsi alle finestre, facendo risuonare da pertutto il rumore delle sciabole e il tintinnìo degli speroni,quasi ci avessero le campanelle alle calcagna. Le ragazzeMargarone, stipate sul terrazzo, si rodevano d’invidia. –Specie il tenente ci aveva dei baffoni come code di ca-vallo, e due file di bottoni lungo il ventre che luccicava-no da lontano.

Talché in quell’aria di festa suonò più malinconico ilcampanello del viatico. Correvano anche delle voci sini-stre: – Una battaglia c’è stata!… dei condannati a mor-te!… – Uno di quelli che portavano il lanternone dietroil baldacchino disse che il viatico andava dai Trao. –Un’altra grande famiglia che si estingue! – osservò gra-vemente l’Avvocato Fiscale scoprendosi il capo. La si-

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gnora Capitana, saltellando sulla punta delle scarpetteper mostrare le calze di seta stava rimbeccando don Ba-stiano con un sorriso da far dannare l’anima:

– Lo so! lo so! giuramenti da marinaio!…Il Capitan d’Arme ammiccò a donna Bianca la quale

passava in quel momento, con un’aria che voleva dire: –Anche costei!… che colpa ci ho? – scappellandosi consoverchio ossequio. Ma quella poveretta non gli rispose.Andava quasi correndo, trafelata, col manto giù per lespalle, il viso ansioso e pallido. Donna Fifì Margarone sitirò indietro dal balcone con una smorfia, appena la videsboccare nella piazzetta dalla salita di Sant’Agata.

– Ah!… finalmente!… la buona sorella!… quanta de-gnazione!…

– Bianca! Bianca! – gridava lo zio Limòli che non po-teva tenerle dietro.

Dinanzi al portone, spalancato a due battenti, si affol-lavano i ragazzi di Burgio e di don Luca. La moglie delsagrestano ne usciva in quel momento, arruffata, gialla,senza ventre, e si mise a distribuire scappellotti a dirittae a manca:

– Via! via di qua!… Che aspettate? la festa? – Posciaentrò in chiesa frettolosa. Delle comari stavano alle fine-stre, curiose. In cima alla scala don Giuseppe Barabbaspolverava delle bandiere nere, bucate e rose dai topi,collo stemma dei Trao: una macchia rossa tutta intigna-ta. Era corsa subito la zia Macrì colla figliuola, e il baro-ne Mèndola che stava lì vicino; una va e vieni per la casa,un odor d’incenso e di moccolaia, una confusione. Infondo, attraverso un uscio socchiuso, scorgevasi l’estre-mità di un lettuccio basso, e un formicolìo di ceri accesi,funebri, nel giorno chiaro. Bianca non vide altro, inmezzo a tutti quei parenti che le si affollavano intorno,sbarrandole il passo: – No!… lasciatemi entrare!

Apparve un momento la faccia stralunata di don Fer-dinando, come un fantasma; poi l’uscio si chiuse. Delle

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braccia amiche la sorreggevano, affettuosamente, e la ziaMacrì ripeteva: – Aspetta!… aspetta!…

Tornò la moglie del sagrestano, ansante, portando deicandelieri sotto il grembiule. Suo marito, che si affacciòdi nuovo all’uscio, venne a dire:

– C’è il viatico… l’estrema unzione… Ma non sente…– Voglio vederlo!… Lasciatemi andare!– Bianca!… in questo momento!… Bianca!…– Vuoi ammazzarlo?… Una commozione!… Se ti

sente!… Non far così, via, Bianca!… Un bicchier d’ac-qua!… presto!…

Donna Agrippina corse in cucina. S’aprì l’uscio un’al-tra volta su di un luccichìo di processione. Il prete, ilbaldacchino, i lanternoni del viatico passarono comeuna visione. Il marchese, inchinandosi sino a terra, bor-bottò:

– Domine, salva me…– Amen! – rispose il sagrestano. – Ho fatto quel che

ho potuto… solo come un cane!… due volte dal medi-co!… di notte!… Anche dal farmacista!… dice che ilconto è lungo… e non ci ha l’erba di Lazzaro risuscitato,poi!…

– Perché?… perchè non mi lasciate entrare?… Cheho fatto?… – Essa tremava così che i denti facevano tin-tinnare il bicchiere, quasi fuori di sè, fissando addossoalla gente gli occhi spaventati.

– Lasciatemi! lasciatemi entrare!Lo zio marchese si affrettò a cavare il fazzoletto per

asciugarle tutta l’acqua che si era versata addosso. Il ba-rone Mèndola e la zia Macrì stavano discorrendo nel va-no del finestrone: – Una malattia lunga!… Tutti cosìquei Trao!… non c’è che fare!…

– Guarda! – esclamò il barone che stava da un po’ at-tento. – Hanno aperto un finestrino sul mio tetto… lag-giù!… quel ladro di Canali!… Fortuna che me ne sia ac-corto! Lo citerò in giudizio!… una citazione nera comela pece!…

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– Don Luca! don Luca! – si udì gridare. L’uscio sispalancò a un tratto, e comparve don Ferdinando agi-tando le braccia in aria. Don Luca corse a precipizio.Successe un momento di confusione: delle strida, dellevoci concitate, un correre all’impazzata, donna Agrippi-na che cercava l’aceto dei sette ladri, gli altri che stenta-vano a trattenere Bianca, la quale faceva come una paz-za, con la schiuma alla bocca, gli occhi che mandavanolampi, e non si riconoscevano più.

– Perchè?… perchè non volete? Lasciatemi! lasciate-mi!… lasciatemi entrare!…

– Sì! sì! – disse lo zio marchese. – E’ giusto che lo ve-da!… Lasciatela entrare.

Ella scorse un corpo lungo e stecchito nel lettucciobasso, un mento aguzzo, ispido di barba grigiastra, ri-volto in su, e due occhi glauchi, spalancati.

– Diego!… Diego!… fratello mio!…– Non fate a quel modo, donna Bianca! – disse piano

don Luca. – Se ci sente ancora, il poveretto, figurateviche spavento!…

Essa si arrestò tutta tremante, atterrita, colle mani neicapelli, guardandosi intorno trasognata. A un tratto fis-sò gli occhi asciutti ed arsi su don Ferdinando che anna-spava stralunato, quasi volesse allontanarla dal letto.

– Nulla!… nulla m’avete fatto sapere!… Non son piùnulla… un’estranea!… Fuori, dalla casa e dal cuore!…fuori!… da per tutto!

– Zitta!… – balbettò don Ferdinando mettendo il di-to tremante sulla bocca. – Poi!… poi!… Adesso taci!…Tanta gente, vedi!…

– Bianca! Bianca!… – supplicavano gli altri abbrac-ciandola, spingendola, tirandola per le vesti.

– Portatela via!… – gridò la zia Macrì dall’uscio. –Nello stato in cui è, la poveretta… succederà qualche al-tra tragedia!…

Frattanto giunse donna Sarina Cirmena, scalmanata,in un bagno di sudore.

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– L’ho saputo or ora! – balbettò lasciandosi caderesul seggiolone di cuoio in mezzo ai parenti riuniti nellagran sala. – Che volete? con quel parapiglia che c’è statonel paese! Se non era pel viatico che vidi venire da que-ste parti…

Il marchese indicò l’uscio dell’altra stanza con uncenno del capo. La zia Cirmena, accasciata sul seggiolo-ne, col fazzoletto agli occhi, piagnucolò:

– Io non ci reggo a queste scene!… Sono tutta sotto-sopra!… – E siccome continuava a interrogare cogli oc-chi or questo e or quello, donna Agrippina rispose sot-tovoce, compunta, facendo il segno della croce:

– Or ora!… cinque minuti fa!Don Giuseppe venne recando in fascio le bandiere:– Ecco!… Il falegname è avvertito.Il barone Mèndola s’alzò per andare a sentire cosa vo-

lesse.– Va bene, va bene, – disse Mèndola. – Or ora si pen-

sa a tutto. Don Luca? ehi? don Luca?Appena il sagrestano affacciò il capo all’uscio, si udi-

rono delle strida che laceravano il cuore.– Povera Bianca!… sentite?– Fa come una pazza! – confermò don Luca. – Si

strappa i capelli!…Il barone Mèndola lo interrogò dinanzi a tutti quanti:– Avete pensato a ogni cosa, eh, don Luca?– Sissignore. Il catafalco, le bandiere, tante messe

quanti preti ci sono. Ma chi paga?– Andate! andate! – interruppe vivamente la Cirmena

spingendo per le spalle il sagrestano verso la camera delmorto, dove cresceva il trambusto.

– Mi dispiace! – osservò la zia Macrì alzandosi per ve-dere dov’era arrivato il sole. – Mi dispiace che si fa tardie a casa mia non c’è nessuno per preparare un boccone.

Uscì don Luca dalla camera del morto, turbato in viso.– E’ un affar serio… Bisognerà portarla via per amore

o per forza!… Vi dico ch’è un affar serio!

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– E’ permesso? Si può?Era il vocione del cacciatore che accompagnava la ba-

ronessa Mèndola, col cappello piumato, le calze imbot-tite di noci. La vecchia, senza bisogno di udir altro, di-ritta e stecchita come un fuso, andò a prendere il suoposto fra i parenti che al suo apparire s’erano taciuti, se-duti intorno sui seggioloni antichi, col viso lungo e lemani sul ventre. La baronessa guardava intorno, gridan-do a voce alta:

– E la Rubiera? e la cugina Sganci? Ora che si fa? Bi-sogna avvertire il parentado per le esequie…

– Eccola lì! – disse donna Sarina all’orecchio dellaMacrì. – Cascasse il mondo… non manca mai!… Avetevisto il subbuglio che c’è per le strade?

La cugina rispose con un sorriso pallido, facendo se-gno che la vecchia non aveva paura di nulla perché erasorda.

– Il fatto è… – cominciò il barone.Ma in quel momento portavano Bianca svenuta, le

braccia penzoloni, donna Agrippina e il sagrestano ros-si, ansanti, e col fiato ai denti. – Quasi fosse morta! –sbuffò il sagrestano.

– Gli pesano le ossa!… – La zia Macrì consigliò: – Lì,lì, nella sua camera!…

– Il fatto è… – riprese il barone Mèndola sottovoce,tirando in disparte il cugino Limòli e donna Sarina Cir-mena, – il fatto è che bisogna concertarsi pel funerale.Adesso vedrete che spuntano fuori i parenti del cognatoMotta… Faremo un bel vedere!… al fianco di Burgio edi mastro Nunzio Motta!… Ma il marito non si può la-sciarlo fuori… E’ una disgrazia, non dico di no… ma bi-sogna sorbirsi mastro-don Gesualdo, eh?…

– Sicuro! sicuro! – rispose la zia Cirmena.Essa voleva fare qualche altra obiezione. Ma il mar-

chese Limòli disse il fatto suo:– Lasciate correre, cugina cara!… Tanto!… il morto

è morto, e non parla più.

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– Allora!… – ribatté la Cirmena diventando rossa, – èuna bella porcheria che mastro-don Gesualdo non si siafatto neppur vedere!

Mèndola uscì sul pianerottolo per dire a Barabba dicorrere a casa Sganci.

– Ci vogliono denari, – disse piano tornando indietro.– Avete sentito il sagrestano? Le spese chi le fa?

La zia Macrì finse di non udire, discorrendo sottovo-ce colla Cirmena:

– Povera Bianca!… in quello stato! Quanti mesi so-no? lo sapete?…

– Sette… devono esser sette… Insomma un affar se-rio!…

Il marchese Limòli, che discuteva insieme a Mèndolae a Barabba sui preparativi del funerale conchiuse:

– Io inviterei l’Arciconfraternita dei Bianchi trattan-dosi di una persona di riguardo…

– Sicuro… Bisogna far le cose con decoro… senza ri-sparmio!…

Ma ciascuno vogava al largo quando si parlava di an-ticipare un baiocco. Nella camera del morto durava in-tanto il contrasto fra la moglie del sagrestano, che volevafarne uscire don Ferdinando, e lui che si ostinava a ri-manere: come un guaiolare di cagnuolo, e la voce aspradella zia Grazia, la quale strillava:

– Madonna santa! non capite proprio nulla?… Sieteun ragazzo tale e quale! Il mio ragazzo avrebbe più giu-dizio di voi, guardate!

E tutt’a un tratto, in mezzo al crocchio dei parentiche discorrevano sottovoce, si vide capitare don Ferdi-nando strascicando le gambe, coi capelli arruffati, la ca-micia aperta, il viso di un cadavere anch’esso, recandouno scartafaccio che andava mostrando a tutti quanti:

– Ecco il privilegio!… Il diploma del Re Martino…Bisogna metterlo nell’iscrizione mortuaria… Bisogna farsapere che noi abbiamo diritto di esser seppelliti nelle

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tombe reali… una cum regibus! Ci avete pensato allebandiere collo stemma? Ci avete pensato al funerale?

– Sì, sì, non dubitate…Come ciascuno evitava di impegnarsi direttamente,

voltandogli le spalle, don Ferdinando andava dall’unoall’altro biascicando, colle lagrime agli occhi:

– Una cum regibus!… Il mio povero fratello!… Unacum regibus!…

– Va bene, va bene, – gli rispose il marchese Limòli. –Non ci pensate.

Il barone Mèndola, che era stato a confabulare condella gente, fuori sul pianerottolo, rientrò gesticolando:

– Signori miei!… se sapeste!… Casco dalle nuvole!… – Zitto! – gli fece segno il marchese, – zitto! Che cos’è

adesso?…Nella camera di Bianca udivasi un gran trambusto;

delle voci affannose e supplichevoli; un tramenìo comedi gente in lotta; grida deliranti di dolore e di collera;poscia un urlo che fece trasalire tutti quanti. L’uscio fusbatacchiato con impeto, e ne uscì all’improvviso il mar-chese stravolto. Un momento dopo si affacciò la zia Ma-crì gridando:

– Un medico! Presto! presto!Giungevano allora altri parenti in processione, com-

punti coi guanti neri. In mezzo al rumore delle seggiolesmosse la zia Macrì tornò a gridare:

– Presto! un medico! presto!

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IV

«Se agglomerate cerimonie tema non forman dellemie verghe non ne traligna l’ossequio. Sì che sorgentimen fallaci e più stabili le sole preci ne reputo. Il favordi un vostro sguardo è quel che anelo, e lo ambiscomercé delle melenzose mie riga.

L’ore 7 del 17.«Barone Antonino Rubiera.»

– Sicuro! – aggiunse mastro Titta che stava sull’usciodel palchetto, mentre donna Fifì compitava la letterina.– Me l’ha data lui stesso, il baronello, per consegnarla dinascosto alla prima donna. Ma, per carità! Son padre difamiglia!… Non mi fate perdere il pane.

Donna Fifì, gialla dalla bile, non rispose neppure. Dinascosto, dietro il parapetto, spiegazzava la lettera conmano febbrile. Indi la passò alla mamma che balbettava.

– Ma sentiamo… Cosa dice?…– Me ne vo, – riprese il barbiere umilmente. – Torno

sul palcoscenico perché adesso lei ammazza il primoamoroso, e devo pettinarla coi capelli giù per le spalle…Mi raccomando, donna Fifì!… Non mi tradite!…

– Ma che dice? – ripeté la mamma.Nicolino cacciò il capo fra di loro, e si buscò una pe-

data. Agli strilli accorse don Filippo, che stava passeg-giando nel corridoio, perché il palco era pieno zeppo.

– Che c’è?… Al solito! Facciamo ribellare tutto il tea-tro… soltanto noi!…

Canali cacciò anche lui il capo dentro il palchetto.– State attenti! Ora c’è la scena in cui s’ammazza-

no!…– Magari! – borbottò fra i denti Fifì.– Eh? Che cosa?– Nulla. Fifì ha mal di capo, – rispose don Filippo.

Quindi piano alla moglie: – Si può sapere che cosa c’è?

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– Si soffoca! – aggiunse Canali. – Mi fate un po’ diposto?… Guardate lassù!… quanta gente! Quasi quasimi metto in maniche di camicia.

C’era una siepe di teste. Dei contadini ritti in piedisulle panche della piccionaia, che si tenevano alle travidel soffitto per guardar giù in platea; dei ragazzi che sispenzolavano quasi fuori della ringhiera, come stesseroa rimondar degli ulivi; una folla tale che la signora Capi-tana, nel palco dirimpetto, minacciava di svenirsi ognimomento, colla boccetta d’acqua d’odore sotto il naso.

– Perché non si fa slacciare dal Capitan d’Arme? –disse Canali che aveva di tali uscite.

Il barone Mèndola, il quale stava facendo visita adonna Giuseppina Alòsi nel palco accanto, si voltò collasua risata sciocca che si udiva per tutta la sala. DonnaGiovannina si fece rossa. Mita sgranò tanto d’occhi, e lamamma spinse Canali fuori dell’uscio. Poi disse a Fifì:

– Bada! La Capitana ti guarda col cannocchiale!…– No! Non guarda me! – rispose lei facendo una spal-

lata.– Ne volete sentire una nuova? – seguitò il barone

ostinandosi a cacciare il capo nel vano dell’uscio. – C’èun casa del diavolo, dalla Capitana!… Fa sorvegliare lalocanda dov’è alloggiata la prima donna!… Suo maritostesso, poveretto!… Pare che ne abbia scoperto dellebelle!… – Il Capitan d’Arme, seccato, fu costretto arimbeccargli: – Perché non badate a quel che succede incasa vostra, caro collega?

– Ehm! ehm! – tossì don Filippo gravemente. Dallaplatea intimarono pure silenzio, giacché s’alzava il sipa-rio. Donna Bellonia allora cavò fuori gli occhiali per leg-gere il biglietto, dietro le spalle di Fifì.

– Ma che dice? Io non ci capisco niente!…– Ah, non capite?… Non me ne ha scritta mai una co-

sì bella!… l’infame! il traditore!…Il fatto è che Ciolla, il quale si piccava di letteratura,

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ci s’era stillata la quintessenza del cervello, chiusi tutti edue a quattr’occhi col baronello nella retrobottega diGiacinto. Don Filippo tornò a domandare:

– Ma che c’è? Si può sapere?– Ssst!!! – zittirono dalla platea.Si sarebbe udita volare una mosca. La prima donna,

tutta bianca fuorché i capelli, sciolti giù per le spalle, co-me l’aveva pettinata mastro Titta, faceva accapponar lapelle a quanti stavano a sentirla. Alcuni, dall’ansia, s’era-no anche alzati in piedi, malgrado le proteste di quellich’erano seduti dietro e non vedevano niente. Lo stessoCanali, commosso, si soffiava il naso come una tromba.

– Guardate! guardate!… adesso!…«Io!… io stessa!… con questa destra che tu impalma-

sti, giurandomi eterna fé!…»L’amoroso, un mingherlino che lei si sarebbe messo

in tasca, indietreggiava a passi misurati, con una manosul giustacuore di velluto, e l’altra, in atto di orrore, fra icapelli arricciati.

– Non ci reggo, no! – borbottò Canali. E scappò via,giusto nel momento che risuonavano gli applausi.

– Che comica, eh? Che talento? – esclamò don Filip-po smanacciando lui pure. – Peste!… maleducato!…

Nicolino impaurito sgambettava e cacciavasi versol’uscio a testa in giù, strillando che voleva andarsene. Unterremoto giù in platea. Tutti in piedi, vociando e strepi-tando. La prima donna ringraziava di qua e di là, dime-nando i fianchi, saettando il collo a destra e a sinistra alpari di una testuggine, mandando baci e sorrisi a tuttiquanti sulla punta delle dita, colle labbra cucite dal ros-setto, il seno che le scappava fuori tremolante ad ogniinchino.

– Sangue di!… corpo di!… – esclamò Canali che eratornato ad applaudire. – Son maritato!… son padre difamiglia!… Ma farei uno sproposito!…

– Papà mio! papà mio! – proruppe allora donna Fifì,

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scoppiando a piangere addosso al genitore. – Se mi vole-te bene, papà mio, fatemi bastonare a dovere quellasgualdrina!…

– Eh?… – balbettò don Filippo rimasto a bocca aper-ta e con le mani in aria. – Che ti piglia adesso?

Donna Bellonia, Mita, Giovannina, tutte insieme si al-zarono per calmare Fifì, circondandola, spingendola infondo, verso l’uscio, per nasconderla. Nei palchi dirim-petto, giù in platea, vi fu un ondeggiare di teste, delle ri-sate, dei curiosi che appuntavano il cannocchiale verso ilpalchetto dei Margarone. Don Filippo, onde far cessarelo scandalo, si mise in prima fila, insieme a Nicolino, ap-poggiandosi al parapetto, salutando le signore col sorri-so a fior di labbra, mentre borbottava sottovoce:

– Stupida!… Tuo fratello, così piccolo, ha più giudi-zio di te, guarda!…

Anche nel palco accanto si udiva un tramenìo. La si-gnora Alòsi tutta affaccendata, con la boccettina d’ac-qua d’odore in mano, e il barone Mèndola voltando laschiena al teatro, scuotendo per le braccia un ragazzettobianco al par della camicia, abbandonato sulla seggiola.

– Gli è venuto male al piccolo La Gurna… – disse ilbarone Mèndola dal palco di donna Giuseppina. – Ca-pisce come uno grande!… Una seccatura!

– Come la mia Fifì… or ora!… Benedetti ragazzi! Pi-gliano tutto sul serio!…

Il fanciullo, pallido, con grandi occhi intelligenti e ti-midi, guardava ancora la scena a sipario calato. DonnaGiuseppina, dopo che il nipotino si fu riavuto alquanto,offrì per cortesia la sua boccetta d’odore ai Margarone.Don Filippo seguitò a brontolare sottovoce:

– Tale e quale come il ragazzo La Gurna che hasett’anni!… Vergogna!… Non mi ci pescate più, parolad’onore!

Ma tacque vedendo entrare Mèndola che veniva a farvisita, vestito in gala, colla giamberga verde bottiglia, i

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calzoni fior di pomo, soltanto il corvattone nero pel lut-to del cugino Trao. Andava così facendo visite da unpalco all’altro, per non pagare il posto.

– Non vi scomodate… un posticino… in un cantuc-cio… Voi, Canali, potete andare da donna Giuseppina,qui accanto, che non c’è nessuno!… No, no, in verità,nessuno!… Sarino, il suo figliuoletto, quello alto quantoil ventaglio, sapete la canzone?… e Corradino La Gur-na, il ragazzo della zia Trao… Donna Giuseppina loconduce dove va per servirle di paravento… quandoaspetta certe visite… capite? L’hanno mandato appostada Siracusa per romperci le tasche!… – Poscia, appenaCanali se ne fu andato: – Ora arriva anche Peperito!…Non mi piace giuocare a tressetti!… – E ammiccò chiu-dendo un occhio. Nessuno gli rispose. Allora vedendoquei musi lunghi, ripigliò, cambiando tono:

– Che produzione, eh? La donna specialmente!…M’ha fatto piangere come un bambino!

– Anche qui! anche qui! – rispose don Filippo, fin-gendo di volgerla in burletta.

– Ah, donna Fifì?… Allegramente, ché adesso, alterz’atto, fanno pace fra di loro. Lui è ferito soltanto. Losalva una ragazza che l’ama di nascosto, e viceversa poisi scopre esser sua sorella di latte… Una produzione chefu replicata due sere di seguito a Caltagirone… Ohi!ohi!… cos’è adesso?

Il Capitan d’Arme, dal palco dirimpetto, credendo dinon esser visto, dietro le spalle della Capitana, faceva se-gno verso di loro col fazzoletto bianco, fingendo di sof-fiarsi il naso. Mèndola nel voltarsi sorprese pure donnaGiovannina col fazzoletto al viso. Ella abbassò subito gliocchi e si fece rossa come un peperone.

– Ah! ah!… Sicuro! Una bella compagnia! Fortunache sia capitata da queste parti! La prima donna special-mente!… Sta lì, di faccia a casa mia, nella locanda diNanni Ninnarò. Bisogna vedere ogni sera, dopo la reci-

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ta!… – E terminò la frase all’orecchio di don Filippo, ilquale rispose: – Ehm!… ehm!…

– Ti dò uno sgrugno, – minacciò intanto la mammasottovoce, mangiandosi cogli occhi Giovannina. – Ti fovenire adesso il raffreddore!…

– Sicuro! – riprese il barone ad alta voce perché noncapissero le ragazze. – Padrone del campo veramente èil padre nobile, quello che avete visto col barbone bian-co. Finta che litigano ogni sera sul palcoscenico… Mapoi, a casa, bisogna vedere!… Non vi dico altro! Ho fat-to un buco apposta nell’impannata del granaio che guar-da appunto in camera sua. Però ci sono gli avventizî, idevoti spiccioli, capite? quelli che vanno a portare la lo-ro offerta… Il figlio del notaro Neri ha saccheggiato ladispensa, nel tempo che suo padre era fuggiasco… sal-sicciotti, reste di fichi secchi, pezze intere di cacio…Portava ogni giorno qualcosa in tasca… Ohi! ohi!…

La signora Capitana si disponeva ad andarsene primadel tempo. In piedi, sul davanti del palchetto, aveva tol-to con mal garbo il guardaspalle al Capitan d’Arme, el’aveva dato al tenente, il quale glielo accomodava sugliomeri nudi in barba al suo superiore, adagio adagio, fa-cendo il comodo suo, senza curarsi di tutti quegli occhiche avevano addosso. Don Bastiano Stangafame dall’al-tro lato, col ventaglio in mano, e il marito, pacifico, cheguardava e taceva. Mèndola diede una gomitata a Mar-garone, e tutti e due si misero a guardare in aria, grattan-dosi il mento. Canali osservò dal palco accanto:

– Un po’ per uno, non fa male a nessuno!…– Badate a voi piuttosto!… badate!…– Sì, sì, l’ho visto venire… Adesso scappo, prima che

giunga il cavaliere…S’imbatté col Peperito giusto sull’uscio del corridoio.– Oh, cavaliere!… Beato chi vi vede! S’era inquieti da

queste parti… parola d’onore!…– Perché? – balbettò Peperito facendosi rosso.

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– Così… Una produzione come questa che fa correretutto il paese… Si diceva… come va che il cavaliere?…

Peperito esitò alquanto, cercando la risposta, non sa-pendo se dovesse mettersi in collera, e poi gli sbattél’uscio sul muso.

– Ora fanno il quadro degli innocenti! – soggiunseCanali ridendo. – Vado in platea per vederlo di laggiù.

– Allegramente, donna Fifì! – disse poi Mèndola. –Non vi sono né morti né feriti!… Se non arriviamo a far-vi ridere in nessun modo, vuol dire…

In quella si udì nel corridoio un fruscìo di seta, e unrumore di sciabole e di speroni. Donna Giovannina sifece di brace in volto, sentendosi addosso gli occhi dellamamma. La signora Capitana spinse l’uscio del palchet-to, e mise dentro la sua testolina riccioluta e sorridente.

– No, no, non vi scomodate. Son passata un momentoa salutarvi. Un’indecenza questa produzione… Io me nevo per non sentir altro… E il vestito della donna!… ave-te visto, nel chinarsi?…

– Eh! eh!… – rispose don Filippo accennando allesue ragazze.

– Precisamente! Una mamma non potrà condurre inteatro le figliuole.

– E’ giusto! – osservò allora don Filippo. – Dovrebbeinteressarsene l’autorità…

Il tenente, che le cortesie della signora Capitana ave-vano messo in vena, aggiunse:

– Io sono l’autorità. Ora corro sul palcoscenico pervedere s’è quel che dico io… Voglio toccare con manocome san Tommaso!

Ma nessuno rise. Solo la Capitana, dandogli un col-petto sul braccio, si chinò sorridendo all’orecchio didonna Bellonia per confidarle ciò che affermava il te-nente: – Io dico di no, invece. Guardate donna Giovan-nina… E’ grassa quasi quanto la prima donna, eppurenon si vede… Un po’… sì… da vicino… forse pel bustoche stringe troppo…

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– Graziosissimo!… – borbottò il Capitan d’Arme dalcorridoio. – Elegantissimo!…

Zacco, che giungeva allora, al vedere gli uniformi sta-va per tornare indietro, tanta la paura che gli era rimastada quell’affare della Carboneria. Ma poi si fece animo,per non destar sospetti, e andò a stringere la mano a tut-ti quanti, sorridendo, giallo come un morto.

– Vengo dalla cugina Trao. E’ ancora in casa del fra-tello, poverina! Non si può muovere!… Ha voluto par-torire proprio a casa sua!… Io non ne sapevo nulla,giacché sono stato in campagna per badare ai miei inte-ressi.

– Ma che aspettano a battezzare cotesta bambina! –chiese Margarone. – L’arciprete Bugno fa un casa deldiavolo per quell’anima innocente che corre rischiod’andare al limbo.

Allora prese la parola il Capitano Giustiziere.– Aspettano il rescritto di Sua Maestà, Dio guardi…

Un’idea del marchese Limòli, per far passare il nome deiTrao ai collaterali, ora che sta per estinguersi la lineamascolina… Le carte furono nelle mie mani…

– Sì, una gran famiglia… una gran casa, – aggiunse lasignora Capitana. – Ci andai per far visita a donna Bian-ca. Ho visto anche la bambina… un bel visetto.

– Benissimo! – conchiuse Zacco. – Così mastro-donGesualdo ci ha guadagnato che neppur la sua figliuola èroba sua.

La barzelletta fece ridere. Canali che tornava colle ta-sche piene di bruciate, volle che gliela ripetessero.

– Buona sera! buona sera! Non voglio stare a sentirealtro! – esclamò la Capitana tutta sorridente, tappandosile orecchie con le manine inguantate. – No… me nevo… davvero!…

Erano tutti nel corridoio: donna Fifì masticando unsorriso fra i denti gialli; Nicolino dietro a Canali il qualedistribuiva delle bruciate; anche donna Giuseppina Alò-

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si aveva aperto l’uscio del suo palco, per non dar campoalle male lingue. Solo donna Giovannina era rimasta alsuo posto inchiodata dal viso arcigno della mamma.Don Ninì che veniva di nascosto per non destar i sospet-ti della fidanzata vestito di nero, con un mazzolino di ro-se in mano, rimase un po’ interdetto trovando tanta gen-te nel corridoio. Donna Fifì gli rivolse un’occhiataccia, etirò sgarbatamente per un braccio il fratellino che gli siarrampicava addosso onde frugargli nelle tasche. Il Ca-pitano d’Arme accarezzò il ragazzo, e disse guardandonel palco dei Margarone con certi occhi arditi:

– Che bel fanciullo!… tanto simpatico!… Una bellafamiglia!…

Donna Fifì gli rispose con un sorriso civettuolo, pro-prio sotto gli occhi del fidanzato. La Capitana rise agroanche lei; guardò donna Giovannina che aveva gli occhilucenti, e siccome Peperito stava accarezzando Corradi-no La Gurna per far la corte a donna Giuseppina, di-cendo che aveva un’aria distinta, tutta l’aria dei Trao, laCapitana aggiunse, colla vocina melata:

– E’ sorprendente l’aria di famiglia che c’è fra di loro.Avete visto come somiglia a don Ninì la bambina didonna Bianca?

– Che diavolo! – le borbottò all’orecchio Canali. –Che storie andate pescando!…

Successero alcuni istanti di silenzio imbarazzante.Zacco se ne andò canterellando. Canali annunziò chestava per cominciare l’ultimo atto. Ci fu uno scambio dibaci e di sorrisi pungenti fra le signore; e donna Fifì silasciò andare anche a stringere la mano che il Capitanole stendeva alla moda forestiera, con un molle abbando-no.

– Via, entrate un momento, – disse donna Bellonia albaronello. – Vi metterete in fondo al palco, insieme aFifì, giacché siete in lutto. Nessuno vi vedrà. Levati di lì,Giovannina.

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– Sempre così! – borbottò costei ch’era furiosa controla sorella. – Mi tocca sempre cedere il posto, a me!…

– Mamma… lascialo andare… s’è in lutto!… La com-media potrà vederla dal palcoscenico!… – sogghignòFifì.

– Io?…Ma essa gli volse le spalle. Mèndola s’era ficcato nel

palco prima di tutti gli altri, per veder la scena che avevadetto lui, e faceva la spiegazione a ogni parola. – Stateattenti!… Ora si scopre che la sorella di latte è figlia diun altro…

– Son cose che succedono! – osservò Canalidall’uscio.

– Zitto! zitto! cattiva lingua!Tutti gli occhi, anche quelli delle ragazze, si rivolsero

al baronello, il quale finse di non capire. – Se vi secca-te!… – borbottò donna Fifì, – giacchè state lì come ungrullo… volete andarvene?…

– Io?…– Ecco!… – Interruppe Mèndola trionfante. – Ec-

co!… capite?– Son maritato!… – tornò a dire Canali. – Son padre

di famiglia… Ma farei volentieri uno sproposito per laprima donna!… Anche il nome ha bello!… Aglae…

– Agli… porri!… che nome!… – sogghignò il baroneMèndola. – Io non saprei come fare… a tu per tu!…

Don Filippo tagliò corto.– E’ un’artistona… una prima donna di cartello… Al-

lora si capisce…– Sicuro, – si lasciò scappare incautamente don Ninì

per dire qualche cosa.– Ah!… Piace anche a voi?…– Certamente… cioè… voglio dire…– Dite, dite pure!… Già lo sappiamo!…Mèndola fiutò la burrasca e si alzò per svignarsela: –

Il resto lo so. Buona sera. Con permesso, don Filippo.Sentite, Canali…

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Per disgrazia la prima donna che doveva tenere gli oc-chi rivolti al cielo nel declamare: «S’è scritto lassù… dalFato…» si trovò a guardare nel palco dei Margarone.Donna Fifì allora non seppe più frenarsi:

– Già, lo sappiamo! Le agglomerate cerimonie!… lemelenzose riga!…

– Io?… le melenzose?…Ma lei scattò inferocita, quasi volesse piantargli i den-

ti in volto:– Ci vuole una faccia tosta!… Sissignore! la lettera

con le melenzose!… eccola qua!… – e gliela fregò sottoil naso, scoppiando a piangere di rabbia. Don Ninì daprima rimase sbalordito. Indi scattò su come una furia,cercando il cappello. Sull’uscio s’imbatté in don Filippo,che accorreva al rumore.

– Siete uno stupido!… un imbecille!… La bella edu-cazione che avete saputo dare a vostra figlia!… Grazie aDio, non ci metterò più i piedi a casa vostra!

E partì infuriato sbatacchiando l’uscio. Don Filippoche era rimasto a bocca aperta, appena il baronello se nefu andato, si cacciò nel palchetto, sbraitando contro lamoglie alla sua volta:

– Siete una stupida!… Non avete saputo educare lefigliuole!… Vedete cosa mi tocca sentirmi dire!… Nondovevate portarmelo in casa quel facchino!…

La rottura fece chiasso. Dopo cinque minuti non siparlava d’altro in tutto il teatro. Poco mancò che la pro-duzione non terminasse a fischi. Il capocomico se la pre-se colla prima donna, che lo guastava con le prime fami-glie del paese. Ma lei giurava e spergiurava di nonconoscerlo neanche di vista, quel barone, e gliene im-portava assai di lui. L’udirono mastro Cosimo il falegna-me e quanti erano sul palcoscenico. Don Ninì furibondoandò subito il giorno dopo a cercare Ciolla, il quale sene stava pei fatti suoi, dopo quelle ventiquattr’ore passa-te in Castello sottochiave.

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– Bella figura m’avete fatto fare colle vostre melenzo-se!… La sa a memoria tutto il paese la vostra lettera!…

– Ebbene? cosa vuol dire? Segno ch’è piaciuta, se lasanno tutti a memoria!

– E’ piaciuta un corno! Lei dice che gliene importaassai di me!

– Oh! oh!… E’ impossibile!… La lettera avrebbesfondato un muro! Vuol dire che la colpa è vostra, donNinì… Non parlo del vostro fisico… Bisognava accom-pagnarla con qualche regaluccio, caro barone! La polve-re spinge la palla! Credevate di far colpo per la vostrabella faccia?… con due baiocchi di carta rasata?…Giacché a me non mi avete dato nulla, veh!…

Invano gli amici e i parenti tentarono d’intromettersionde rappattumare i fidanzati. La mamma ripeteva: –Che vuoi farci?… Gli uomini!… Anche tuo padre!… –Don Filippo la pigliava su un altro tono: – Sciocchez-ze… scappatelle di gioventù!… Fu l’occasione… la no-vità… Le prime donne non vengono mica ogni anno…Sei una Margarone alla fin fine! Lui non cambia certouna Margarone con una comica! Poi, se perdono io chesono offeso maggiormente!…

Ma donna Fifì non si placava. Diceva che non volevasaperne più di colui, uno sciocco, un avaraccio, il baro-ne Melenzose!… Se mai, non le sarebbe mancato unpretendente cento volte meglio di lui… Andava scor-bacchiandolo con tutti, amiche e parenti. Don Ninì dal-la rabbia avrebbe fatto non so che cosa. Giurava che vo-leva spuntarla ad ogni costo, ed avere la prima donna,non fosse altro per dispetto.

– Ah! gliela farò vedere a quella strega! La polverespinge la palla!…

E mandò a regalare salsicciotti, caciocavallo, un botti-glione di vino. Empirono la tavola della locanda. Non siparlava d’altro in tutto il paese. Il barone Mèndola nar-rava che ogni sera si vedevano le Nozze di Cana dal suo

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buco. Regali sopra regali, tanto che la baronessa dovettenascondere la chiave della dispensa. Mastro Titta vennea dire infine a don Ninì:

– Non resiste più, vossignoria! Ha perso la testa, laprima donna. Ogni sera, mentre sto a pettinarla, non miparla d’altro.

– Se mi fa avere la soddisfazione che dico io!… Sottogli occhi medesimi di donna Fifì voglio avere la soddi-sfazione! Voglio farla morir tisica!

Fu una delusione il primo incontro. La signora Aglaefaceva una parte di povera cieca, e aveva il viso dipintoal pari di una maschera. Nondimeno lo accolse comeuna regina nel bugigattolo dove c’era un gran puzzo dimoccolaia e lo presentò a un omaccione, il quale stavafrugando dentro il cassone, in maniche di camicia, e nonsi voltò neppure.

– Il barone Rubiera, distinto cultore… Il signor Pal-lante celebre artista.

Poi volse un’occhiata alla schiena del celebre artistache continuava a rovistare brontolando, un’altra piùlunga a don Ninì, e soggiunse a mezza voce:

– Lo conoscevo di già!… Lo vedo ogni sera… in pla-tea!

Egli invece stava per scusarsi che in teatro non era ve-nuto a causa del lutto; ma in quella si voltò il signor Pal-lante colle mani sporche di polvere, il viso impiastriccia-to anche lui, e una vescica in testa dalla qualependevano dei capelli sudici.

– Non c’è, – disse con un vocione che sembrava veni-re di sotterra. – Te l’avevo detto!… accidenti! – E se neandò brontolando.

Ella guardò intorno in aria di mistero, colle pupillestralunate in mezzo alle occhiaie nere; andò a chiuderel’uscio in punta di piedi, e poscia si voltò verso il giova-ne, con una mano sul petto, un sorriso pallido all’angolodella bocca.

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– E’ strano come mi batte il cuore!… No… non ènulla… sedete.

Don Ninì cercò una sedia, colla testa in fiamme, ilcuore che gli batteva davvero. Infine si appollaiò sulbaule, cercando qualche frase appropriata, che facesseeffetto, mentre lei bruciava un pezzettino di sughero allafiamma del lume a olio che fumava.

Sopraggiunse un’altra visita, Mommino Neri, il qualetrovando lì Rubiera diventò subito di cattivo umore, enon aprì bocca, appoggiato allo stipite, succhiando ilpomo del bastoncino. La signora Aglae teneva sola laconversazione: un bel paese… un pubblico colto e intel-ligente… bella gioventù anche…

– Buona sera, – disse Mommino.– Ve ne andate, di già?…– Sì… Non potrete muovervi qui dentro… Siamo in

troppi…Don Ninì lo accompagnò con un sogghigno, conti-

nuando a suonare la gran cassa sul baule colle calcagna.Ella se ne avvide e alzò le spalle, con un sorriso affasci-nante, sospirando quasi si fosse levato un peso dallo sto-maco.

Il baronello gongolante incominciò. – Se sono d’inco-modo anch’io… – E cercò il cappello che aveva in ma-no.

– Oh no!… voi, no! – rispose lei con premura, chi-nando il capo.

– Si può? – chiese la vocetta fessa del tirascene dietrol’uscio.

– No! no! – ripeté la signora Aglae con tal vivacitàquasi fosse stata sorpresa in fallo.

– Si va in scena! – aggiunse il vocione del signor Pal-lante. – Spicciati!

Allora essa, levando verso don Ninì il viso rassegnato,con un sorriso triste:

– Lo vedete!… Non ho un minuto di libertà!… Sonoschiava dell’arte!…

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Don Ninì colse la palla al balzo: L’arte… una bellacosa!… Era il suo regno… il suo altare!… Tutti l’ammi-ravano!… dei cuori che faceva battere!…

– Ah! sì!… Le ho data tutta me stessa… Me le sondata tutta!…

E aprì le braccia, voltandosi verso di lui, con tale ab-bandono, come offrendosi all’arte, lì su due piedi, chedon Ninì balzò giù dal cassone.

– Badate! – esclamò lei a bassa voce, rapidamente. –Badate!…

Aveva le mani tremanti, che stese istintivamente versodi lui, quasi a farsene schermo. Poi si fregò gli occhi, re-primendo un sospiro, e balbettò come svegliandosi:

– Scusate… Un momento… Devo vestirmi…E un sorriso malizioso le balenò negli occhi.Quel seccatore di Mommino Neri era ancor lì, appog-

giato a una quinta, che discorreva col signor Pallante,già vestito da re, colla zimarra di pelliccia e la corona dicarta in testa. Stavolta toccò a don Ninì di farsi scuro inviso. Ella, come lo sapesse, socchiuse di nuovo l’uscio,sporgendo il braccio e l’omero nudi:

– Barone, se aspettate alla fine dell’atto… quei versiche desiderate leggere li ho lì, in fondo al baule.

No! nessuna donna gli aveva data una gioia simile,una vampata così calda al cuore e alla testa: né la primavolta che Bianca gli s’era abbandonata fra le braccia, tre-pidante; né quando una Margarone aveva chinato il ca-po superbo, mostrandosi insieme a lui, in mezzo al mor-morìo che suscitavano nella folla. Fu un vero accesso dipazzia. Buccinavasi persino che onde farle dei regali sifosse fatto prestare dei denari da questo e da quello. Labaronessa, disperata, fece avvertire gli inquilini di nonanticipare un baiocco al suo figliuolo se no l’avevano afar con lei. – Ah!… ah!… vedranno! Mio figlio non hanulla. Io non pago di certo!…

C’erano state scene violente fra madre e figlio. Lui

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ostinato peggio d’un mulo, tanto più che la signoraAglae non gli aveva lasciato neppur salire la scala dellalocanda. Infine gli aveva detto il perché, una sera, albuio lì sulla soglia mentre Pallante era salito avanti adaccendere il lume:

– E’ geloso!… Son sua!… sono stata sua!…Ed aveva confessato tutto, a capo chino, con la bella

voce sonora soffocata dall’emozione. Egli, un gran si-gnore diseredato dal genitore a causa di quella passionesventurata, aveva amata a lungo, pazzamente, disperata-mente: uno di quegli amori che si leggono nei romanzi;si era dato all’arte per seguirla; aveva sofferto in silenzio;aveva implorato, aveva pianto… Infine una sera… comeallora… ancora tutta fremente e palpitante delle emo-zioni che dà l’arte… la pietà… il sacrificio… non sapevaella stessa come… mentre il cuore volava lontano… so-gnando altri orizzonti… altro ideale… Ma dopo, maipiù!… mai più!… S’era ripresa!… vergognosa… penti-ta… implacabile… Egli che l’amava sempre, come pri-ma… più di prima… alla follia… era geloso: geloso ditutto e di tutti, dell’aria, del sogno, del pensiero… di luipure, don Ninì!…

– Ohè! – si udì il vocione di su la scala. – Li vuoi frittio al pomodoro?

Sul viso di lei, dolcemente velato dalla semi-oscurità,errò un sorriso angelico.

– Vedete?… Sempre così!… Sempre la stessa devo-zione!…

Ciolla che era il confidente di don Ninì gli disse poi:– Come siete sciocco! Quello lì è un… pentolaccia! Si

pappano insieme la roba che mandate voi e il figlio diNeri.

Infatti aveva incontrato spesso Mommino sul palco-scenico, ed anche dinanzi all’uscio della locanda, su egiù come una sentinella. Mommino adesso era tuttogentilezze e sorrisi per lui. Quando gli parve proprio difarci una figura sciocca, montò in collera.

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– Ah!… tu lo vuoi? – gli diss’ella infine con accentofebbrile. – Ebbene… ebbene… Se non c’è altro mezzodi provarti quanto io t’amo… Giacché bisogna perder-mi ad ogni costo… stasera… dopo la mezzanotte!…

Un odore di stalla, in quella scaletta buia, cogli scaliniunti e rotti da tutti gli scarponi ferrati del contado. Las-sù in cima, un fil di luce, e una figura bianca, che gli sioffrì intera, bruscamente, con le chiome sparse.

– Tu mi vuoi… baiadera… odalisca?…C’erano dei piatti sudici sulla tavola, un manto di da-

masco rabescato sul letto, dei garofani e un lume da not-te acceso sul canterano, dinanzi a un quadrettino dellaVergine, e un profumo d’incenso che svolgevasi da unvasetto di pomata il quale fumava per terra. All’uscioche metteva nell’altra stanza era inchiodato un bellissi-mo sciallo turco, macchiato d’olio; e dietro lo sciallo tur-co udivasi il signor Pallante che russava sulla sua gelosia.

Essa, spalancando quegli occhi neri che illuminavanola stanza, mise un dito sulle labbra, e fece segno a Rubie-ra d’accostarsi.

«Insomma l’ha stregato!» scriveva il canonico Lupi amastro-don Gesualdo proponendogli di fare un grossomutuo al baronello Rubiera. «Don Ninì è pieno di debi-ti sino al collo, e non sa più dove battere il capo… Labaronessa giura che sinchè campa lei non paga un baioc-co. Ma non ha altri eredi, e un giorno o l’altro deve la-sciargli tutto il suo. Come vedete, un buon affare, seavete coraggio…»

«Quanto?» rispose mastro-don Gesualdo. «Quantogli occorre al baronello Rubiera? S’è una cosa che si puòfare son qua io.»

Più tardi, come si seppe in paese della grossa sommache don Gesualdo aveva anticipata al barone Rubiera,tutti gli davano del matto, e dicevano che ci avrebbe

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persi i denari. Egli rispondeva con quel sorriso tuttosuo:

– State tranquilli. Non li perdo i denari. Il barone èun galantuomo… e il tempo è più galantuomo di lui.

Dice bene il proverbio che la donna è causa di tutti imali! Commediante poi!

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V

Don Ninì aveva sperato di tenere segreto il negozio.Ma sua madre da un po’ di tempo non si dava pace, ve-dendolo così mutato, dispettoso, sopra pensieri, col visoacceso e la barba rasa ogni mattina. La notte non chiu-deva occhio almanaccando dove il suo ragazzo potessetrovare i denari per tutti quei fazzoletti di seta e quelleboccettine d’acqua d’odore. Gli aveva messi alle calca-gna Rosaria ed Alessi. Interrogava il fattore e la gente dicampagna. Teneva sotto il guanciale le chiavi del magaz-zino e della dispensa. Come le parlasse il cuore, poveret-ta! Il cugino Limòli era arrivato a indicarle la signoraAglae che scutrettolava tutta in fronzoli. – La vedete? èquella lì. Che ve ne sembra, eh, di vostra nuora? Sietecontenta? – Proprio, come le avesse lasciata la jettaturadon Diego Trao, morendo!

Nei piccoli paesi c’è della gente che farebbe delle mi-glia per venire a portarvi la cattiva nuova. Una mattinala baronessa stava seduta all’ombra della stoia sul balco-ne, imbastendo alcuni sacchi di canovaccio che Rosariapoi le cuciva alla meglio, accoccolata sullo scalino, aguz-zando gli occhi e le labbra perché l’ago non le sfuggissedalle manacce ruvide voltandosi di tanto in tanto a guar-dare giù nella stradicciuola deserta.

– E tre! – si lasciò scappare Rosaria vedendo Ciollache ripassava con quella faccia da usciere, sbirciando lacasa della baronessa da cima a fondo, fermandosi ognidue passi, tornando a voltarsi quasi ad aspettare che lochiamassero. La Rubiera che seguiva da un pezzettoquel va e vieni, di sotto gli occhiali, si chinò infine a fis-sare il Ciolla in certo modo che diceva chiaro: Che fate eche volete?

– Benedicite. – Cominciò ad attaccar discorso lui. E sifermò su due piedi, appoggiandosi al muro di rimpetto,

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col cappello sull’occipite e in mano il bastone che sem-brava la canna dell’agrimensore, aspettando. La baro-nessa per rispondere al saluto gli domandò, facendo unsorrisetto agrodolce:

– Che fate lì? Mi stimate la casa? Volete comprarla?– Io no!… Io no, signora mia!…– Io no! – Tornò a dire più forte, vedendo che lei

s’era rimessa a cucire. Allora la Rubiera si chinò di nuo-vo verso la stradicciuola, cogli occhiali lucenti, ed en-trambi rimasero a guardarsi un momento così, come duebasilischi.

– Se volete dirmi qualche cosa, salite pure.– Nulla, nulla, – rispose Ciolla; e intanto s’avviava

verso il portone. Rosaria tirò la funicella e si mise a bor-bottare;

– Che vuole adesso quel cristiano? A momenti è orad’accendere il fuoco. Ma intanto si udiva lo schiamazzodegli animali nel cortile e i passi di Ciolla che saliva ada-gio adagio. Egli entrò col cappello in testa, ossequioso,ripetendo: Deo gratias! Deo gratias! lodando l’ordineche regnava da per tutto in quella casa.

– Non ne nascono più delle padrone di casa come voi,signora baronessa! Ecco! ecco! siete sempre lì, a sciu-parvi la vista sul lavoro. Ne hanno fatta della roba quellemani!… Non ne hanno scialacquata, no!

La baronessa che aspettava coll’orecchio teso comin-ciò ad essere inquieta. Intanto Rosaria aveva sbarazzatouna seggiola del canovaccio che vi era ammucchiato so-pra, e stava ad ascoltare, grattandosi il capo.

– Va a vedere se la gallina ha fatto l’uovo, – disse lapadrona. E tornò a discorrere col Ciolla, più affabile delconsueto, per cavargli di bocca quel che aveva da dire.Ma Ciolla non si apriva ancora. Parlava del tempo,dell’annata, del fermento che aveva lasciato in paese laCompagnia d’Arme, dei guai che erano toccati a lui. – Icenci vanno all’aria, signora mia, e chi ha fatto il danno

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invece se la passa liscia. Benedetta voi che ve ne state incasa, a badare ai vostri interessi. Fate bene! Avete ragio-ne! Tutto ciò che si vede qui è opera vostra. Non lo dicoper lodarvi! Benedette le vostre mani! Vostro marito,buon’anima!… via, non parliamo dei morti… le mani leaveva bucate… come tutti i Rubiera… I fondi coperti diipoteche… e la casa… Infine cos’era il palazzetto deiRubiera?… Quelle cinque stanze lì?…

La baronessa fingeva d’abboccare alle lodi, dandoglile informazioni che voleva, accompagnandolo di stanzain stanza, spiegandogli dove erano stati aperti gli usciche mettevano in comunicazione il nuovo col vecchio.

Ciolla seguitava a guardare intorno cogli occhi dausciere accennando del capo, disegnando colla cannad’India: – Per l’appunto! quelle cinque stanze lì. Tutto ilresto è roba vostra. Nessuno può metterci le unghie nel-la roba vostra finché campate… Dio ve la faccia goderecent’anni! una casa come questa… una vera reggia! va-sta quanto un convento! Sarebbe un peccato mortale, seriuscissero a smembrarvela i vostri nemici… ché ne ab-biamo tutti, nemici!…

Essa, che si sentiva impallidire, finse di mettersi a ri-dere: una risata da fargli montar la mosca al naso aquell’altro.

– Cosa? Ho detto una minchioneria? Nemici ne ab-biamo tutti. Mastro-don Gesualdo, esempigrazia!…

Quello non vorrei trovarmelo mischiato nei miei inte-ressi…

Fingeva anche lui di guardarsi intorno sospettoso,quasi vedesse da per tutto le mani lunghe di mastro-donGesualdo. – Quello, se si è messo in testa di ficcarvisi incasa… a poco a poco… da qui a cent’anni… come fa ilriccio…

La baronessa era tornata sul balcone a prendere aria,senza dargli retta, per cavargli di bocca il rimanente.Egli nicchiò ancora un poco, disponendosi ad andarse-

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ne, cavandosi il cappello per darvi una lisciatina, cercan-do la canna d’India che aveva in mano, scusandosi dellechiacchiere colle quali le aveva empito la testa sino aquell’ora.

– Che avete da fare, eh? Dovete vestirvi per andare albattesimo della figliuola di don Gesualdo? Sarà un bat-tesimo coi fiocchi… in casa Trao!… Vedete dove va aficcarsi il diavolo, che la bambina di mastro-don Gesual-do va proprio a nascere in casa Trao!… Ci saranno tuttii parenti… una pace generale… Siete parente anchevoi…

La baronessa continuava a ridere, e Ciolla le tenevadietro, tutti e due guardandosi in viso, cogli occhi soli ri-masti serii.

– No? Non ci andate? Avete ragione! Guardatevi daquell’uomo! Non vi dico altro! Vostro figlio è una be-stia!… Non vi dico altro!…

– Mio figlio ha la sua roba ed io ho la mia… Se ha fat-to delle sciocchezze mio figlio pagherà, se può pagare…Io no però! Pagherà lui, col fatto suo, con quelle cinquestanze che avete visto… Non ha altro, per disgrazia…Ma io la mia roba me la tengo per me… Son contentache mio figlio si diverta… E’ giovane… Bisogna che sidiverta… Ma io non pago, no!

– Quello che dicono tutti. Mastro-don Gesualdo cre-de d’essere furbo. Ma stavolta, se mai, ha trovato unopiù furbo di lui. Sarebbe bella che gli mantenessel’amante a don Ninì!… Gli parrebbe di fare le sue folliedi gioventù anche lui!…

La baronessa, dal gran ridere, andava tenendosi aimobili per non cadere. – Ah, ah!… questa è bella!…Questa l’avete detta giusta, don Roberto!… – Ciolla leandava dietro fingendo di ridere anche lui, spiandola disottecchi, indispettito che se la prendesse così allegra-mente. Ma Rosaria, mentre veniva a pigliar la tela, videla sua padrona così pallida che stava per chiamare aiuto.

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

– Bestia! Cosa fai? Perché rimani lì impalata? Accom-pagna don Roberto piuttosto! – Così Ciolla si persuasead andarsene finalmente, sfogandosi a brontolare collaserva:

– Com’è allegra la tua padrona! Ho piacere, sì! L’alle-gria fa buon sangue e fa vivere lungamente. Meglio! me-glio!

Rosaria, tornando di sopra, vide la padrona in unostato spaventevole, frugando nei cassetti e negli armadi,colle mani che non trovavano nulla, gli occhi che non civedevano, la schiuma alla bocca, vestendosi in tutta fret-ta per andare al battesimo del cugino Motta. – Sì, ci an-drò… Sentiremo cos’è… E’ meglio sapere la verità. – Lagente che la vedeva passare per le strade, trafelata e colcappellino di traverso non sapeva che pensare. Nellapiazzetta di Sant’Agata c’era una gran curiosità, comegiungevano gli invitati al battesimo in casa Trao, e donLuca il sagrestano che andava e veniva, coi candelieri egli arnesi sacri sotto il braccio. Speranza ogni momentosi affacciava sul ballatoio, scuotendo le sottane, piantan-dosi i pugni sui fianchi, e si metteva a sbraitare controquella bambina che le rubava l’eredità del fratello:

– Sarà un battesimo strepitoso! C’è la casa piena…tutta la nobiltà… Noi soli, no! Non ci andremo… pernon fare arrossire i parenti nobili… Non ci abbiamo chevedere, noi!… Nessuno ci ha invitati al battesimo di mianipote… Si vede che non è sangue nostro…

Anche il vecchio Motta s’era rifiutato, la mattina, al-lorché Gesualdo era andato a pregarlo di mettere l’ac-quasanta alla nipotina. Seduto a tavola – stava mangian-do un boccone – gli disse di no, levando in su il fiascoche aveva alla bocca. Poi, asciugandosi le labbra col dor-so della mano, gli piantò addosso un’occhiataccia.

– Vacci tu al battesimo della tua figliuola. E’ affartuo! Io non son nato per stare fra i signoroni… Voialtrivenite a cercarmi soltanto quando avete bisogno di

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me… per chiudere la bocca alla gente… No, no… quan-do c’è da guadagnare qualcosa non vieni a cercarmi,tu!… Lo sai? L’appalto della strada… la gabella…

Mastro Nunzio voleva snocciolare la litania dei rim-proveri, intanto che ci si trovava. Ma Gesualdo, il qualeaveva già la casa piena di gente, e sapeva che non gliavrebbe mai fatto chinare il capo se aveva detto di no, sene andò colle spalle e il cuore grossi. Non era allegroneppur lui, poveraccio, sebbene dovesse far la bocca ri-dente ai mirallegro e ai salamelecchi. Però infine conNanni l’Orbo, più sfacciato, che gli rompeva le taschechiedendogli i confetti a piè della scala, si sfogò:

– Sì!… Va a vedere!… Va a vedere come s’è storta finla trave del tetto, ora ch’è nata una bambina in questacasa!

Barabba e il cacciatore della baronessa Mèndola ave-vano dato una mano a scopare, a spolverare, a rimetterein gambe l’altare sconquassato, chiuso da tant’anninell’armadio a muro della sala grande che serviva di cap-pella. La sala stessa era ancora parata a lutto, qual’era ri-masta dopo la morte di don Diego, coi ritratti velati e glialveari coperti di drappo nero torno torno per i parentivenuti al funerale, com’era l’uso nelle famiglie antiche.Don Ferdinando, raso di fresco, con un vestito nero delcugino Zacco che gli si arrampicava alla schiena andavaficcando il naso da per tutto, col viso lungo, le bracciaciondoloni dalle maniche troppo corte, inquieto, sospet-toso, domandando a ciascuno:

– Che c’è? Cosa volete fare?– Ecco vostro cognato, – gli disse la zia Sganci entran-

do nella sala insieme a don Gesualdo Motta. – Ora do-vete abbracciarvi fra di voi, e non tenere in corpo il ma-lumore, con quella creaturina che c’è di mezzo.

– Vi saluto, vi saluto, – borbottò don Ferdinando; egli voltò le spalle.

Ma gli altri parenti che avevano più giudizio, faceva-

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no buon viso a don Gesualdo: Mèndola, i cugini Zacco,tutti quanti. Già i tempi erano mutati; il paese intero erastato sottosopra ventiquattr’ore, e non si sapeva quelche poteva capitare un giorno o l’altro. Oramai, peramore o per forza, mastro-don Gesualdo s’era ficcatonel parentado, e bisognava fare i conti con lui. Tutti per-ciò volevano vedere la bambina – un fiore, una rosa dimaggio. – La zia Rubiera abbracciava Bianca, come unamamma che abbia ritrovata la sua creatura, asciugandosigli occhi col fazzoletto diventato una spugna.

– No! Non ho peli sullo stomaco!… Non mi parevavero, dopo d’averti allevata come una figliuola!… Sonouna bestia… Son rimasta una contadina… tale e qualemia madre, buon’anima… col cuore in mano…

Bianca tutta adornata sotto il baldacchino del lettone,pallida che sembrava di cera, sbalordita da tutta quellaressa, non sapeva che rispondere, guardava la gente,stralunata, cercava di abbozzare qualche sorriso, balbet-tando. Suo marito invece faceva la sua parte in mezzo atutti quegli amici e parenti e mirallegro, col viso aperto egiulivo, le spalle grosse e bonarie, l’orecchio teso a rac-cogliere i discorsi che si tenevano intorno a lui e dietrole sue spalle. La zia Cirmena, infatuata, rispondeva a co-loro che auguravano la nascita di un bel maschiotto, piùtardi, che già le femmine sono come la gramigna, e viscopano poi la casa del bello e del buono per andare amaritarsi…

– Eh… i figliuoli bisogna pigliarseli come Dio li man-da, maschi o femmine… Se si potesse andare a sceglierlial mercato… A don Gesualdo non gli mancherebbero idenari per comprare il maschio.

– Non me ne parlate! – interruppe alla fine la zia Ru-biera – Non sapete quel che costino i maschi!… Quantidispiaceri! Lo so io!…

E continuò a sfogarsi all’orecchio di Bianca, accesasbirciando di sottecchi don Gesualdo per vedere quel

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che ne dicesse. Don Gesualdo non diceva nulla. Biancainvece, cogli occhi chini, si faceva di mille colori.

– Non lo riconosco più, no!… nemmeno io che l’hofatto!… Ti rammenti, che figliuol d’oro?… docile, amo-roso, ubbidiente… Adesso si rivolterebbe anche a suamadre, per quella donnaccia forestiera… una comme-diante, la conosci? Dicono che ha i denti e i capelli fin-ti… Deve avergli fatta qualche malìa! Commediante eforestiera, capisci!… lui non ci vede più dagli occhi…Spende l’osso del collo… La gente cattiva… i birbonianche l’aiutano… Ma io non pago, no!… Oh, questopoi, no!

– Zia! – balbettò Bianca con tutto il sangue al viso.– Che vuoi farci? E’ la mia croce! Se sapevo tanto

piuttosto…Don Gesualdo badava a chiacchierare col cugino

Zacco, tutti e due col cuore in mano, amiconi. La baro-nessa allora spiattellò la domanda che le bolliva dentro:

– E’ vero che tuo marito gli presta dei denari… sotto-mano?… L’hai visto venire qui, da lui?… Di’, che nesai?

– Certo, certo, – rispose in quel punto don Gesualdo.– I figliuoli bisogna pigliarseli come vengono. – Zacco aconferma mostrò le sue ragazze, schierate in fila cometante canne d’organo, modeste e prosperose. – Ecco! ioho cinque figliuole, e voglio bene a tutte egualmente!

– Sicuro! – rispose Limòli. – E’ per questo che nonvolete maritarle.

Donna Lavinia, la maggiore, volse indietro un’occhia-ta brutta. – Ah, siete qui? – disse il barone. – Siete sem-pre presente come il diavolo nelle litanie, voi!

Il marchese, che doveva essere il padrino, si era messala croce di Malta. Don Luca venne a dire che il canonicoera pronto, e le signore passarono in sala, con un granfruscìo di seta, dietro donna Marianna la quale portavala bambina. Dall’uscio aperto vedevasi un brulichìo di

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fiammelle. Don Ferdinando, in fondo al corridoio, fececapolino, curioso. Bianca dalla tenerezza piangeva chetacheta. Suo marito ch’era rimasto ginocchioni, come gliaveva detto la Macrì, col naso contro il muro, si alzò percalmarla.

– Zitta… Non ti far scorgere!… Dinanzi a coloro bi-sogna far buon viso…

Tutt’a un tratto scoppiò giù in piazza un crepitìo in-diavolato di mortaletti. Don Ferdinando fuggì via spa-ventato. Gli altri che assistevano al battesimo corsero albalcone coi ceri in mano. Persino il canonico in cotta estola. Era Santo, il fratello di don Gesualdo, il quale fe-steggiava a quel modo il battesimo della nipotina, scami-ciato, carponi per terra, colla miccia accesa. Don Ge-sualdo aprì la finestra per dirgli un sacco di male parole:

– Bestia!… Ne fai sempre delle tue!… Bestia!…Gli amici lo calmarono: – Poveraccio… lasciatelo fa-

re. E’ un modo d’esprimere la sua allegria…La zia Sganci trionfante gli mise sulle braccia la fi-

gliuola:– Eccovi Isabella Trao!– Motta e Trao! Isabella Motta e Trao! – corresse il

marchese. Zacco soggiunse ch’era un innesto. Le due fa-miglie che diventavano una sola. Però don Gesualdo te-nendo la bambina sulle braccia rimaneva alquanto im-broncito. Intanto don Luca, aiutato da Barabba e dalcacciatore, serviva le granite e i dolci. La zia Cirmena,che aveva portato seco apposta il nipotino La Gurna, gliriempiva le tasche e il fazzoletto. Le Zacco invece, poi-ché la maggiore, contegnosa, non aveva preso nulla, dis-sero tutte di no, una dopo l’altra, mangiandosi il vassoiocogli occhi. Don Luca incoraggiava a prendere dicendo:

– E’ roba fresca. Sono stato io stesso ad ordinarla aSanta Maria e al Collegio. Non s’è guardato a spesa.

– Diavolo! – disse Zacco, che cercava l’occasione dimostrarsi amabile. – Diavolo! Vorrei vedere anche que-

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sta!… – Gli altri facevano coro. – Ecco che risorgeva ca-sa Trao. Voleri di Dio. Quella bambina stessa che avevavoluto nascere nella casa materna. Il canonico Lupi ar-rivò anche a congratularsi col marchese Limòli il qualeaveva pensato al mezzo di non lasciare estinguere il casa-to alla morte di don Ferdinando.

– Sicuro, sicuro, – borbottò don Gesualdo. – Era giàinteso… V’avevo detto di sì allora… Quando ho dettouna parola…

E andò a deporre la figliuola fra le braccia della mo-glie che le zie si rubavano a vicenda. La baronessa Mèn-dola voleva sapere cosa dicessero. Zacco, premuroso,venne a chiedere dei confetti per don Ferdinando a cuinessuno aveva pensato.

– Sicuro, sicuro. E’ il padrone di casa.– Vedete? – osservò la zia Rubiera. – A quest’ora c’è

già pel mondo chi deve portarvi via la figliuola e la roba.Scoppiarono delle risate. Donna Agrippina torse la

bocca e chinò a terra gli occhioni che dicevano tante co-se, quasi avesse udito un’indecenza. Don Gesualdo ride-va anche lui, faceva buon viso a tutti. Alla fine arrischiòanche una barzelletta:

– E quando si marita vi lascia anche il nome deiTrao… La dote, no, non ve la lascia!…

La Rubiera che stimò il momento propizio, e non vo-leva perdere l’occasione, lo tirò a quattr’occhi vicino alletto, mentre si udivano in fondo al corridoio Mèndola edon Ferdinando i quali litigavano ad alta voce, e tutticorsero a vedere.

– Sentite don Gesualdo; io non ho peli sulla lingua.Volevo parlarvi di quello scapestrato di mio figlio. Aiu-tami tu, Bianca.

– Io, zia?…– Scusatemi, io so parlare col cuore in mano… tale e

quale come m’ha fatta mia madre… Ora che siete padreanche voi, don Gesualdo capirete quel che devo averciin cuore… che spina… che tormento!…

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Guardava ora la nipote ed ora suo marito cogli occhiacuti, col sorriso semplice e buono che le avevano inse-gnato i genitori pei negozi spinosi. Don Gesualdo stavaa sentire tranquillamente. Bianca, imbarazzata daquell’esordio, colla figliuoletta in grembo, sembrava unastatua di cera.

– Saprete le chiacchiere che corrono, di Ninì conquella comica? Bene. Di ciò non mi darei pensiero. Nonè la prima e l’ultima. Suo padre, buon’anima, era fattoanch’esso così. Ma sinora gli ho impedito di commetterequalche sciocchezza. Adesso però ci sono di mezzo i bir-boni, i cattivi compagni… Senti, Bianca, io, la mia fi-gliuola, non l’avrei data da battezzare a quel canonicolì!…

Bianca, sbigottita, muoveva le labbra smorte senza ar-rivare a trovar parole. Don Gesualdo invece aveva fattola bocca a riso, come la baronessa scappò in quell’osser-vazione. Essa, udendo che tornava gente, gli domandòinfine apertamente:

– Ditemi la verità. V’ha fatto chiedere del denaro inprestito, eh?… Gliene avete dato?

Don Gesualdo rideva più forte. Poi vedendo che labaronessa diveniva rossa come un peperone, rispose:

– Scusate… scusate… Se mai… Perché non lo do-mandate a lui?… Questa è bella!… Io non sono il con-fessore di vostro figlio…

Mèndola irruppe nella camera narrando fra le risatela scena che aveva avuta con quell’orso di don Ferdinan-do il quale non voleva venire a far la pace col cognato.La Rubiera, senza dir altro, asciugavasi le labbra col faz-zoletto ancora appiccicoso di dolciume, mentre i parentitoglievano commiato. Nell’andarsene ciascuno avevauna parola d’elogio sul modo in cui erano andate le co-se. Donna Marianna diceva alla Rubiera sottovoce cheaveva fatto bene a venire anche lei, per non dar nell’oc-chio, per far tacere le male lingue… L’altra rispose conun’occhiataccia che donna Agrippina colse al volo:

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– M’è giovata assai! Serpi sono! Non vi dico altro. Cisiam messa la vipera nella manica!… Vedrete poi…

Don Gesualdo, rimasto solo colla moglie tracannò diun fiato un gran bicchiere di acqua fresca, senza dir nul-la. Bianca disfatta in viso, quasi fosse per sentirsi male,seguiva ogni suo movimento con certi occhi che sembra-vano spaventati, stringendo al seno la bambina.

– Te’, vuoi bere? – disse lui. – Devi aver sete anche tu.Ella accennò di sì. Ma il bicchiere le tremava talmente

nelle mani che si versò tutta l’acqua addosso.– Non importa, non importa, – aggiunse il marito. –

Adesso nessuno ci vede.E si mise ad asciugare il lenzuolo col fazzoletto. Poi

tolse in braccio la bambina che vagiva, ballottandola perfarla chetare, portandola in giro per la camera.

– Hai visto, eh, che gente? che parenti affezionati?Ma tuo marito non se lo mettono in tasca, no.

Fuori, nella piazza, tutti i vicini erano affacciati pervedere uscire gli invitati. Alla finestra dei Margarone,laggiù in fondo, al di sopra dei tetti, c’era pure dell’altragente che faceva capolino ogni momento. La Rubieracominciò a salutare da lontano, col ventaglio, col fazzo-letto, mentre discorreva col marchese Limòli, talmenteaccesa che sembrava volessero accapigliarsi.

– Razze di serpi, sono! Cime di birbanti! Se lo man-giano in un boccone quello scomunicato di mio figlio!…Ma prima l’ha da fare con me! Sentite, accompagnatemiun momento dai Margarone… E’ un pezzo che non civediamo… Infine non è un motivo per romperla con deivecchi amici… una ragazzata… Voi siete un uomo am-modo… e alle volte… una parola a proposito…

Venne ad aprire donna Giovannina con tanto di mu-so. Si vedeva in fondo l’uscio del salotto buono spalan-cato; tolte le fodere ai mobili. Un’aria di cerimonia in-somma.

– Che c’è? – chiese il marchese entrando. – Cosa ac-cade?

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– Io non so nulla! – esclamò donna Giovannina laquale sembrava sul punto di scoppiare a piangere. – Cisarà gente di là, credo; ma io non ne so nulla.

– Povera bambina! povera bambina! – Il marcheseindugiava in anticamera, accarezzando la ragazza. Leaveva preso con due dita il ganascino da canonico, am-miccando con malizia, guardandosi intorno per dirlesottovoce:

– Che vuoi farci? Pazienza! Chi primo nasce primopasce. Ci sarà donna Fifì, colla mamma, a ricevere le vi-site, eh? Don Bastiano, eh? il Capitan d’Arme?…

Don Bastiano infatti era lì, nel salotto, vestito in bor-ghese, con abiti nuovi fiammanti che gli rilucevano ad-dosso, raso di fresco, seduto sul canapè accanto allamamma Margarone, come uno sposo, facendo scivolaredi tanto in tanto un’occhiata languida e sentimentaleverso la ragazza, lisciandosi i baffoni novelli che non vo-levano piegarsi. Donna Fifì, al vedere giungere la Rubie-ra, si ringalluzzì, superbiosa, tubando sottomano col fo-restiero per farle dispetto.

– Oh, oh, – disse il marchese, salutando don Bastianoch’era rimasto un po’ grullo. – Siete ancora qui? Bene!bene!

Ed incominciò a discorrere col capitano, intanto chele signore chiacchieravano tutte in una volta, doman-dandogli perché la Compagnia d’Arme fosse partita sen-za di lui, se aveva intenzione di fermarsi un pezzetto, seera contento del paese e voleva lasciare le spalline. DonBastiano si teneva sulle generali, lodando il paesaggio, ilclima, gli abitanti, sottolineando le parole con certisguardi espressivi rivolti a donna Fifì, la quale fingeva diguardare fuori dal balcone cogli occhi pieni di poesia, echinava il capo arrossendo a ciascuno di quei compli-menti, quasi fossero a lei dedicati. Il marchese domandòa un tratto che n’era di don Filippo, e gli risposero cheera uscito per condurre a spasso Nicolino.

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– Ah, bene! bene!La Rubiera si morsicava le labbra aspettando che il

cugino Limòli avviasse il discorso sul tema che sapeva.Ma intanto osservava di sottecchi le arie languide didonna Fifì, la quale sembrava struggersi sotto le occhia-te incendiarie di don Bastiano Stangafame, e non potevastar ferma sulla seggiola, col seno piatto ansante comeun mantice, e i piedini irrequieti che dicevano tante coseaffacciandosi ogni momento dal lembo del vestito. Laconversazione languiva. Si parlò del battesimo e dellagente che c’era stata. Ma ciascuno pensava intanto ai fat-ti suoi, chiacchierando del più e del meno, cercando leparole, col sorriso distratto in bocca. Solo il marchesesembrava che pigliasse un grande interesse ai discorsidel capitano, quasi non fosse fatto suo. Poi, sbirciando ilviso rosso di donna Giovannina che stava a spiaredall’uscio socchiuso, la chiamò a voce alta.

– Avanti, avanti, bella figliuola. Vogliamo vederequella bella faccia. Siamo qui noi soli, in famiglia…

La mamma e la sorella maggiore fulminarono due oc-chiataccie addosso alla ragazza, la quale rimanevasull’uscio, nascondendo le mani di serva sotto il grem-biule, vergognosa di esser stata scoperta a quel modo,vestita di casa. Limòli, senza accorgersi di nulla, doman-dava sottovoce a donna Bellonia:

– Quando la maritiamo quella bella figliuola? Primatocca alla maggiore, è naturale. Ma poi ricordatevi che cison qua io per fare il sensale… gratis et amore, ben inte-so… Siamo amici vecchi!…

Donna Bellonia andava facendogli li occhiacci, sebbe-ne il marchese fingesse di non badarci. Poi gli disse sot-tovoce:

– Cosa dite!… che idee da metterle in testa!… Anco-ra è troppo giovane… quasi quasi ha ancora il vestitocorto…

– Vedo! vedo! – rispose il marchese sbirciando le cal-

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ze bianche di donna Giovannina. Donna Fifì aveva con-dotto il capitano ad ammirare i suoi fiori sul balcone.Colse un bel garofano, l’odorò a lungo socchiudendo gliocchi, e glielo porse. – Vedo, vedo, – ripeté il vecchietto.

La Rubiera allora volle accomiatarsi, masticando unsorriso, coi fiori gialli che le fremevano sul cappellino.Intanto che le signore barattavano baci ed abbracci, ilmarchese si rivolse al capitano.

– Mi congratulo!… Mi congratulo tanto… davvero…don Bastiano.

– Perché?… Di che cosa?… – Il capitano sorpreso eimbarazzato cercava una botta di risposta. Ma l’altro gliaveva già voltato le spalle, salutava le signore con unaparola gentile per ciascuna; accarezzava paternamentedonna Giovannina che teneva ancora il broncio.

– Che c’è? che c’è? Cosa vuol dire? Le ragazze devo-no stare allegre. Hai inteso tua madre? Dice che haitempo di crescere. Su, dunque! allegra!

La Rubiera sentivasi scoppiare sotto la mantiglia; do-po che si fu voltata indietro a salutare colla mano dallastrada tutti i Margarone schierati sul terrazzino prese aborbottare:

– Avete capito, eh?– Diamine! Non ci voleva molto. Anche per la Gio-

vannina bisogna mettersi il cuore in pace…– Ma sì, ma sì! Con tanto piacere me lo metto il cuore

in pace… Una civetta!… Avete visto il giuochetto delgarofano? Saremmo stati freschi mio figlio ed io… Qua-si quasi se lo meritava! Scomunicato! Nemico di suamadre stessa!…

Lì a due passi si imbatterono in Canali, che andavadai Margarone, e aveva visto da lontano i baciamani frala strada e il terrazzo. Canali fece un certo viso, e fermòla baronessa per salutarla, menando il discorso per lelunghe, sgranandole in faccia due occhi curiosi.

– Siete stata da donna Bellonia, eh? Avete fatto bene.

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Un’amicizia antica come la vostra!… Peccato che donNinì…

La baronessa cercava di scavar terreno anch’essa, inaria disinvolta, facendosi vento e menando il can perl’aia. – Infine… delle sciocchezze… sciocchezze di gio-ventù…

– No, no, perdonate! – ribatté Canali. – Vorrei vedervoi stessa!… Un padre deve aprire gli occhi per sapere achi dà la sua creatura… Non dico per vostro figlio… Unbuon giovane… un cuor d’oro… Il male è che s’è lascia-to abbindolare… circondato da falsi amici… Di bricco-ni ce ne son sempre… Gli hanno carpito qualche fir-ma…

La baronessa lo piantò lì senz’altro. – Sentite? Vede-te? – andava brontolando col cugino Limòli. Posciapiantò anche lui che non poteva più tenerle dietro. – Visaluto, vi saluto – E corse dal notaro Neri, pallida e tra-felata, per vedere… per sentire… Il notaro non sapevanulla… nulla di positivo almeno.

– Sapete, don Gesualdo è volpe fina… Son cose que-ste che si fanno sottomano, se mai… Avranno fatto ilcontratto da qualche notaio forestiere… Il notaroSghembri di Militello dicono… Ma via… Non c’è moti-vo poi di mettersi in quello stato per una cosa simile…Avete una faccia che non mi piace.

Rosaria, ch’era a ripulire il pollaio quando la sua pa-drona era tornata a casa, udì a un tratto dal cortile unurlo spaventoso, come stessero sgozzando un animalegrosso di sopra, una cosa che le fece perdere le ciabattecorrendo a precipizio. La baronessa era ancora lì, doveaveva cominciato a spogliarsi, appoggiata al cassettone,piegata in due quasi avesse la colica, gemendo e lamen-tandosi, mentre le usciva bava dalla bocca, e gli occhi leschizzavano fuori:

– Assassino! Figlio snaturato!… No! non me la facciomangiare la mia roba!… Piuttosto la lascio ai poveri…

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ai conventi… Voglio far testamento!… Voglio far dona-zione!… Chiamatemi il notaro… subito!…

Don Ninì stava bisticciandosi colla sua Aglae, in quel-la stanzaccia di locanda che per lui era diventata un in-ferno dal momento in cui s’era messo sulle spalle il debi-to e mastro-don Gesualdo. Il letto in disordine, i vestitisudici, i capelli spettinati, le carezze stesse di lei, i mani-caretti cucinati dall’amico Pallante, gli si erano mutati inveleno, dacché gli costavano cari. Al veder giungereAlessi che veniva a chiamarlo, parlando di notaro e didonazione, si fece pallido a un tratto. Invano la primadonna gli si avvinghiò al collo, discinta, senza badare alPallante che accorreva dalla cucina né ad Alessi il qualespalancava gli occhi e si fregava le mani.

– Ninì! Ninì mio!… Non mi abbandonare in questostato!…

– Malannaggia! Lasciatemi andare… tutti quanti sie-te!… Vi pare che si scherzi!… Quella donna è capace ditutto!

Don Ninì, ripreso interamente dall’amor della roba,non si lasciò commuovere neppure dalla scena dello sve-nimento. Piantò lì dov’era la povera Aglae lunga distesasul pavimento come all’ultimo atto di una tragedia, ePallante che le tirava giù il vestito sulle calze, per correrea casa senza cappello. Colà ci fu una scena terribile framadre e figlio. Lui da prima cercava di negare; poimontò su tutte le furie, si lagnò di esser tenuto comeuno schiavo, peggio di un ragazzo, senza due tarì daspendere; e la baronessa minacciava di andare lei in per-sona dal notaro, per disporre della sua roba, cosìcom’era, in sottana, a quell’ora stessa, se non volevanomandarlo a chiamare. Don Ninì allora scese a dar tantodi chiavistello al portone, e si mise la chiave in tasca, mi-nacciando di rompere le ossa al garzone, se fiatava.

– Ah! questa è la ricompensa! – borbottò Alessi. –Un’altra volta ci vò davvero dal notaio.

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Finalmente, per amore o per forza, riescirono a met-tere in letto la baronessa, la quale si dibatteva e strillavache volevano farla morire di colpo per scialacquare lasua roba: – Mastro-don Gesualdo!… sì!… Lui se lomangia il fatto mio! – Il figliuolo colle buone e colle cat-tive tentava di calmarla: – Non vedete che state poco be-ne? Volete ammalarvi per farmi dar l’anima al diavolo?– Poi tutta la notte non chiuse occhio, alzandosi ognimomento per correre ad origliare se sua madre strillavaancora, spaventato all’idea che udissero i vicini e gli ve-nissero in casa colla giustizia e il notaro, maledicendo incuor suo la prima donna e chi gliela aveva messa fra ipiedi, turbato, se si appisolava un momento, da tantibrutti sogni: mastro-don Gesualdo, il debito, della genteche gli si accalcava addosso e gli empiva la casa, unagran folla.

Rosaria venne a bussargli all’uscio di buon mattino:– Don Ninì! signor barone! venite a vedere… La pa-

drona ha perso la parola!… Io ho paura, se vedeste…La baronessa stava lunga distesa sul letto, simile a un

bue colpito dal macellaio, con tutto il sangue al viso e lalingua ciondoloni. La bile, i dispiaceri, tutti quegli umo-ri cattivi che doveva averci accumulati sullo stomaco, legorgogliavano dentro, le uscivano dalla bocca e dal na-so, le colavano sul guanciale. E come volesse aiutarsi,ancora in quello stato, come cercasse di annaspare collemani gonfie e grevi, come cercasse di chiamare aiuto, coisuoni inarticolati che s’impastavano nella bava vischiosa.

– Mamma! mamma mia!Don Ninì atterrito, ancora gonfio dal sonno, andava

strillando per le stanze, dandosi dei pugni sulla testa,correndo al balcone e disperandosi mentre i vicini bus-savano e tempestavano che il portone era chiuso a chia-ve. Da lì a un po’, medico, barbiere, parenti, curiosi, lacasa si riempì di gente. Proprio il sogno di quella notte.Don Ninì narrava a tutti la stessa cosa, asciugandosi gli

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occhi e soffiandosi il naso gonfio quasi suonasse la trom-ba. Appena vide giungere anche il notaro Neri non simosse più dal capezzale della mamma, domandando almedico ogni momento:

– Che ve ne sembra, dottore? Riacquisterà la parola?– Col tempo, col tempo, – rispose infine il medico

seccato. – Diamine, credete che sia stato come fare unostarnuto?

Don Ninì non si riconosceva più da un giorno all’al-tro; colla barba lunga, i capelli arruffati, fisso al capezza-le della madre, oppure arrabattandosi nelle faccende dicasa. Non usciva una fava dalla dispensa senza passareper le sue mani. Tant’è vero che i guai insegnano a met-ter giudizio. Sua madre stessa glielo avrebbe detto, seavesse potuto parlare. Si vedeva dal modo in cui gliguardava le mani, col sangue agli occhi, ogni volta cheveniva a prendere le chiavi appese allo stipite dell’uscio.E anche lui, adesso che la roba passava per le sue mani,comprendeva finalmente i dispiaceri che aveva dato allapovera donna; se ne pentiva, cercava di farseli perdona-re, colla pazienza, colle cure amorevoli standole sempreintorno, sorvegliando l’inferma e la gente che veniva afarle visita, impallidendo ogni volta che la mamma ten-tava di snodare lo scilinguagnolo dinanzi agli estranei.Sentiva una gran tenerezza al pensare che la povera pa-ralitica non poteva muoversi né parlare per togliergli laroba siccome aveva minacciato.

– No, no, non lo farà! Son cose che si dicono in unmomento di collera… Vorrei vederla!… Sono infine ilsangue suo… Morirebbe d’accidente lei per la prima, sedovesse lasciare la sua roba a questo e a quello…

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PARTE TERZA

Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

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Page 229: Mastro-don Gesualdoitnaro.altervista.org/wp/wp-content/uploads/2015/07/Mastro-Don-Gesualdo.pdfdo la sua; una baraonda da sbalordire: – Buttate giù le tegole! – Appoggiate la scala

Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

I

L’Isabellina, prima ancora di compire i cinque anni,fu messa nel Collegio di Maria. Don Gesualdo adessoche aveva delle pietre al sole, e marciava da pari a paricoi meglio del paese, così voleva che marciasse la sua fi-gliuola: imparare le belle maniere, leggere e scrivere, ri-camare, il latino dell’uffizio anche, e ogni cosa come lafiglia di un barone; tanto più che, grazie a Dio, la dotenon le sarebbe mancata, perché Bianca non promettevadi dargli altri eredi. Essa dopo il parto non s’era più ri-fatta in salute; anzi deperiva sempre più di giorno ingiorno, rosa dal baco che s’era mangiati tutti i Trao, e fi-gliuoli era certo che non ne faceva più. Un vero gastigodi Dio. Un affare sbagliato, sebbene il galantuomo aves-se la prudenza di non lagnarsene neppure col canonicoLupi che glielo aveva proposto. Quando uno ha fatto laminchioneria, è meglio starsi zitto e non parlarne più,per non darla vinta ai nemici. – Nulla, nulla gli avevafruttato quel matrimonio; né la dote, né il figlio ma-schio, né l’aiuto del parentado, e neppure ciò che gli da-va prima Diodata, un momento di svago un’ora di buo-numore, come il bicchiere di vino a un pover’uomo cheha lavorato tutto il giorno, là! Neppur quello! – Unamoglie che vi squagliava fra le mani, che vi faceva gelarele carezze, con quel viso, con quegli occhi, con quel farespaventato, come se volessero farla cascare in peccatomortale ogni volta e il prete non ci avesse messo su tantodi croce prima quand’ella aveva detto di sì… Bianca nonci aveva colpa. Era il sangue della razza che si rifiutava.Le pesche non si innestano sull’olivo. Ella, poveretta,chinava il viso, arrivava ad offrirlo anzi, tutto rosso, perubbidire al comandamento di Dio, come fosse pagataper farlo…

Ma egli non si lasciava illudere, no. Era villano, ma

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aveva il naso fino di villano pure! E aveva il suo orgoglioanche lui. L’orgoglio di quello che aveva saputo guada-gnarsi, colle sue mani, tutto opera sua, quei lenzuoli ditela fine in cui dormivano voltandosi le spalle, e queibocconi buoni che doveva mangiare in punta di forchet-ta, sotto gli occhi della Trao…

Almeno in casa sua voleva comandar le feste. E seDomeneddio l’aveva gastigato giusto nei figliuoli chevoleva mettere al mondo secondo la sua legge, dandogliuna bambina invece dell’erede legittimo che aspettava,Isabella almeno doveva possedere tutto ciò che mancavaa lui, essere signora di nome e di fatto. Bianca, quasi in-dovinasse d’aver poco da vivere, non avrebbe voluto se-pararsi dalla sua figliuoletta. Ma il padrone era lui, donGesualdo. Egli era buono, amorevole, a modo suo; nonle faceva mancare nulla, medici, speziali, tale e quale co-me se gli avesse portato una grossa dote. – Bianca nonaveva parole per ringraziare Iddio quando paragonavala casa in cui il Signore l’aveva fatta entrare con quella incui era nata. Lì suo fratello stesso desiderava di giorno ilpane e di notte le coperte… Sarebbe morto di stenti se isuoi parenti non l’avessero aiutato con bella maniera,senza farglielo capire. Soltanto da lei don Ferdinandonon voleva accettare checchessia, mentre don Gesualdonon gli avrebbe fatto mancar nulla, col cuore largoquanto un mare, quell’uomo! Gli stessi parenti di leiglielo dicevano: – Tu non hai parole per ringraziare Dioe tuo marito. Lascia fare a lui ch’è il padrone, e cerca ilmeglio della tua figliuola.

Poi considerava ch’era il Signore che la puniva, chenon voleva quella povera innocente nella casa di suo ma-rito, e la notte inzuppava di lagrime il guanciale. Prega-va Iddio di darle forza, e si consolava alla meglio pen-sando che soffriva in penitenza dei suoi peccati. DonGesualdo, che aveva tante altre cose per la testa, tantiinteressi grossi sulle spalle, ed era abituato a vederla

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sempre così, con quel viso, non ci badava neppure.Qualche volta che la vedeva alzarsi più smorta, più di-sfatta del solito, le diceva per farle animo:

– Vedrai che quando avrai messo in collegio la tuabambina sarai contenta tu pure. E’ come strapparsi undente. Tu non puoi badare alla tua figliuola, colla pocasalute che hai. E bisogna che quando sarà grande ellasappia tutto ciò che sanno tante altre che sono meno ric-che di lei. I figliuoli bisogna avvezzarli al giogo da picco-li, ciascuno secondo il suo stato… Lo so io!… E non hoavuto chi mi aiutasse, io! Quella piccina è nata vestita.

Nondimeno, all’ultimo momento vi furono lagrime epiagnistei, quando accompagnarono l’Isabellina al par-latorio del monastero. Bianca s’era confessata e comuni-cata. Ascoltò la messa ginocchioni, sentendosi mancare,sentendosi strappare un’altra volta dalle viscere la suacreatura che le si aggrappava al collo e non voleva la-sciarla.

Don Gesualdo non guardò a spesa per far stare con-tenta Isabellina in collegio: dolci, libri colle figure, im-magini di santi, noci col bambino Gesù di cera dentro,un presepio del Bongiovanni che pigliava un’intera tavo-la: tutto ciò che avevano le figlie dei primi signori, la suafigliuola l’aveva; e i meglio bocconi, le primizie che offri-va il paese, le ciriegie e le albicocche venute apposta dalontano. Le altre ragazzette guardavano con tanto d’oc-chi, e soffocavano dei sospiri grossi così. La minore del-le Zacco, e le Mèndola di seconda mano, le quali dove-vano contentarsi delle cipolle e delle olive nere chepassava il convento a merenda, si rifacevano parlandodelle ricchezze che possedevano a casa e nei loro poderi.Quelle che non avevano né casa né poderi, tiravano inballo il parentado nobile, il Capitano Giustiziere ch’erafratello della mamma, la zia baronessa che aveva il cac-ciatore colle penne, i cugini del babbo che possedevanocinque feudi l’uno attaccato all’altro, nello stato di Cal-

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tagirone. Ogni festa, ogni Capo d’anno, come la piccolaIsabella riceveva altri regali più costosi, un crocifissod’argento, un rosario coi gloriapatri d’oro, un libro damessa rilegato in tartaruga per imparare a leggere, na-scevano altre guerricciuole, altri dispettucci, delle al-leanze fatte e disfatte a seconda di un dolce e di un’im-magine data o rifiutata. Si vedevano degli occhietti giàlucenti d’alterigia e di gelosia, dei visetti accesi, dei pia-gnistei, che andavano poi a sfogarsi nell’orecchio dellemamme, in parlatorio. Fra tutte quelle piccine, in tuttele famiglie, succedeva lo stesso diavoleto che mastro-don Gesualdo aveva fatto nascere nei grandi e nel paese.Non si sapeva più chi poteva spendere e chi no. Una ga-ra fra i parenti a buttare il denaro in frascherie, e unaconfusione generale fra chi era stato sempre in prima fi-la, e chi veniva dopo. Quelli che non potevano, proprio,o si seccavano a spendere l’osso del collo pel buon pia-cere di mastro-don Gesualdo, si lasciavano scapparecontro di lui certe allusioni e certi motteggi che fermen-tavano nelle piccole teste delle educande. Alla guerra in-testina pigliavano parte anche le monache, secondo lerelazioni, le simpatie, il partito che sosteneva oppure vo-leva rovesciare la superiora. Ci si accaloravano fin laportinaia, fin le converse che si sentivano umiliate di do-ver servire senz’altro guadagno anche la figliuola di ma-stro-don Gesualdo, uno venuto su dal nulla, come loro,arricchito di ieri. Le nimicizie di fuori, le discordie, lelotte d’interessi e di vanità, passavano la clausura, occu-pavano le ore d’ozio, si sfogavano fin là dentro in pette-golezzi, in rappresaglie, in parole grosse. – Sai come sichiama tuo padre? mastro-don Gesualdo. – Sai cosasuccede a casa tua? che hanno dovuto vendere una cop-pia di buoi per seminare le terre. – Tua zia Speranza filastoppa per conto di chi la paga, e i suoi figliuoli vannoscalzi. – A casa tua c’è stato l’usciere per fare il pignora-mento. – La piccola Alimena arrivò a nascondersi nella

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scala del campanile, una domenica, per vedere se era ve-ro che il padre d’Isabella portasse la berretta.

Egli trovava la sua figliuoletta ancora rossa, col pettogonfio di singhiozzi, volgendo il capo timorosa di vederluccicare dietro ogni grata gli occhietti maliziosi delle al-tre piccine, guardandogli le mani per vedere se davveroerano sporche di calcina, tirandosi indietro istintiva-mente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispi-da. Tale e quale sua madre. – Così il pesco non s’innestaall’ulivo. – Tante punture di spillo; la stessa cattiva sorteche gli aveva attossicato sempre ogni cosa giorno pergiorno; la stessa guerra implacabile ch’era stato obbliga-to a combattere sempre contro tutto e contro tutti; e loferiva sin lì, nell’amore della sua creatura. Stava zitto,non lagnavasi, perché non era un minchione e non vole-va far ridere i nemici; ma intanto gli tornavano in mentele parole di suo padre, gli stessi rancori, le stesse gelosie.Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interes-se, e va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padre,così faceva sua figlia. Così dev’essere. Si metteva il cuorein pace, ma gli restava sempre una spina in cuore. Tuttociò che aveva fatto e faceva per la sua figliuola l’allonta-nava appunto da lui: i denari che aveva speso per farlaeducare come una signora, le compagne in mezzo allequali aveva voluto farla crescere, le larghezze e il lussoche seminavano la superbia nel cuore della ragazzina, ilnome stesso che le aveva dato maritandosi a una Trao –bel guadagno che ci aveva fatto! – La piccina dicevasempre: – Io son figlia della Trao. Io mi chiamo IsabellaTrao.

La guerra si riaccese più viva fra le ragazze quando simaritò don Ninì Rubiera: – S’è vero che siete parenti,perché tuo zio non ti ha mandato i confetti? Vuol direche voialtri non vi vogliono per parenti. – L’Isabellina,che rispondeva già come una grande, ribatté:

– Mio padre me li comprerà lui i confetti. Ci siamo

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guastati coi Rubiera perché ci devono tanti denari. – Lafiglia della ceraiuola, ch’era del suo partito, aggiunsetante altre storie: – Il baronello era uno spiantato. LaMargarone non aveva più voluto saperne. Sposava don-na Giuseppina Alòsi più vecchia di lui, perché non ave-va trovato altro, per amor dei denari: tutto ciò che nar-ravasi nella bottega di sua madre, in ogni caffè, in ognispezieria, di porta in porta.

Nel paese non si parlava d’altro che del matrimoniodi don Ninì Rubiera. – Un matrimonio di convenienza!– diceva la signora Capitana che parlava sempre in pun-ta di forchetta. Cogli anni, la Capitana aveva preso an-che i vizii del paese; occupavasi dei fatti altrui ora chenon aveva da nasconderne dei propri. Allorchè incon-trava il cavalier Peperito gli faceva un certo visetto mali-zioso che la ringiovaniva di vent’anni, dei sorrisi che vo-levano indovinare molte cose, scrollando il capo,offrendosi graziosamente ad ascoltare le confidenze e glisfoghi gelosi, minacciando il cavaliere col ventaglio, co-me a dirgli ch’era stato un gran discolaccio lui, e se si la-sciava adesso portar via l’amante era segno che ci dove-vano essere state le sue buone ragioni… prima o poi…

– No! – ribatteva Peperito fuori della grazia di Dio. –Né prima né poi! Questo potete andare a dirglielo adonna Giuseppina! Se non ho potuto comandare da pa-drone non voglio servire nemmeno da comodino, capi-te?… fare il gallo di razza… capite? Su di ciò donnaGiuseppina potrà mettersi il cuore in pace!

Adesso sciorinava in piazza tutte le porcheriedell’Alòsi, che se vi mandava a regalare per miracolo unpaniere d’uva voleva restituito il paniere; e vendeva sot-tomano le calze che faceva, delle calze da serva grosseun dito, – essa gliele aveva fatte anche vedere sulla for-ma per stuzzicarlo… per strappargli ciò che faceva co-modo a lei… Ma lui, no!…

Insomma, andava raccontandone di cotte e di crude.

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Corsero anche delle sante legnate al Caffè dei Nobili.Ciolla gli stava alle calcagna per raccogliere i pettegolez-zi e portarli in giro alla sua volta. Un giorno poi fu unavera festa per lui, quando si vide arrivare in paese la si-gnora Aglae che veniva insieme al signor Pallante a fareuno scandalo contro il barone Rubiera, a riscuotere ciòche le spettava, se il seduttore non voleva vederselacomparire dinanzi all’altare. Essa giungeva apposta daModica, sputando fiele, incerettata, dipinta, carica dipiume di gallo e di pezzi di vetro, tirandosi dietro la pro-va innocente della birbonata di don Ninì, una bambinel-la ch’era un amore. Così la gente diceva che don Ninìera sempre stato un donnaiuolo, e se sposava l’Alòsi, cheavrebbe potuto essergli madre, ci dovevano essere inte-ressi gravi. Chi spiegava la cosa in un modo e chi in unaltro. Il baronello, quelli che s’affrettarono a fargli i mi-rallegro onde tirargli di bocca la verità vera, se li levò daipiedi in poche parole. La Sganci che aveva combinato ilnegozio stava zitta colle amiche le quali andavano appo-sta a farle visita. Don Gesualdo ne sapeva forse più deglialtri, ma stringevasi nelle spalle e se la cavava con similirisposte:

– Che volete? Ciascuno fa il suo interesse. Vuol direche il barone Rubiera ci ha trovato il suo vantaggio asposare la signora Alòsi.

La verità era che don Ninì aveva dovuto pigliarsil’Alòsi per salvare quel po’ di casa che don Gesualdo vo-leva espropriargli. E’ vero che adesso era diventato giu-dizioso, tutto dedito agli affari; ma sua madre, sepoltaviva nel seggiolone non lo lasciava padrone di un baioc-co; si faceva dar conto di tutto; voleva che ogni cosa pas-sasse sotto i suoi occhi; senza poter parlare, senza poter-si muovere, si faceva ubbidire dalla sua gente meglio diprima. E attaccata alla sua roba come un’ostrica, osti-nandosi a vivere per non pagare. Il debito intanto in-grossava d’anno in anno: una cosa che il povero don

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Ninì ci perdeva delle nottate intere, senza poter chiude-re occhio, alle volte: e alla scadenza, capitale e usura,rappresentavano una bella somma. Il canonico Lupi,che andò in nome del baronello a chiedere dilazione alpagamento, trovò don Gesualdo peggio di un muro: – Ache giuoco giochiamo canonico mio? Sono più di noveanni che non vedo né frutti né capitale. Ora mi serve ilmio denaro, e voglio esser pagato.

Don Ninì pel bisogno scese anche all’umiliazioned’andare a pregare la cugina Bianca, dopo tanto tempo.La prese appunto da lontano. – Tanto tempo che nons’erano visti! Lui non aveva faccia di comparirle dinanzi,in parola d’onore! Non cercava di scolparsi. Era statoun ragazzaccio. Ora aveva aperto gli occhi, troppo tardi,quando non c’era più rimedio, quando si trovava sullespalle il peso dei suoi errori. Ma proprio non poteva pa-gare in quel momento. – Son galantuomo. Ho di che pa-gare infine. Tuo marito sarà pagato sino all’ultimobaiocco. Ma in questo momento proprio non posso! Tusai com’è fatta tua zia! che testa dura! Ne abbiamo avutidei dispiaceri per quella testa dura! Ma infine non puòcampare eternamente, poveretta, com’è ridotta…

Bianca era rimasta senza fiato al primo vederlo, senzaparole, facendosi ora pallida e ora rossa. Non sapeva chedire, balbettava, sudava freddo, aveva una convulsionenelle mani che cercava di dissimulare, stirando macchi-nalmente le due cocche del grembiule. A un tratto ebbeuno sbocco di sangue.

– Cos’è? cos’è? Qualcosa alle gengive? Ti sei morsica-ta la lingua?

– No, – rispose lei. – Mi viene di tanto in tanto. L’ave-va anche don Diego, ti rammenti? Non è nulla.

– Bene, bene. Intanto fammi questo piacere; parlane atuo marito. In questo momento proprio non posso…Ma son galantuomo, mi pare!… Mia madre, da qui acent’anni, non ha a chi lasciare tutto il suo.

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Bianca cercava di scusarsi. – Suo marito era il padro-ne. Faceva tutto di testa propria, lui. Non voleva che glimettessero il naso nelle sue cose. – Allora perché sei suamoglie? – ribatté il cugino. – Bella ragione! Uno chenon era degno di alzarti gli occhi in viso!… Deve ringra-ziare Iddio e l’ostinazione di mia madre se gli è toccataquesta fortuna!… Dunque farai il possibile per indurload accordarmi questa dilazione?

– E tu cosa gli hai detto? – domandò don Gesualdotrovando la moglie ancora agitata dopo quella visita.

– Nulla… Non so… Mi son sentita male…– Bene. Hai fatto bene. Sta tranquilla che agli affari ci

penso io. Serpi nella manica sono i parenti… Hai visto?Cercano di te, solo quando ne hanno bisogno; ma delresto non gli importa di sapere se sei morta o viva. La-scia fare a me che la risposta gliela mando coll’usciere, atuo cugino…

Così era venuto quel matrimonio, ché il barone Ru-biera prima aveva messo sottosopra cielo e terra per tro-vare i denari da pagare don Gesualdo; e infine donnaGiuseppina Alòsi, la quale aveva delle belle terre al sole,aveva dato l’ipoteca. Don Gesualdo, ottenuta la sua bra-va iscrizione sulle terre, non parlò più di aver bisognodel denaro.

– Col tempo… – confidò alla moglie. – Lasciali tran-quilli. Loro non pagano né frutti né capitali, e col tempoquelle terre serviranno per la dote d’Isabella. Che te nepare? Non è da ridere? Lo zio Rubiera che pensa a met-tere insieme la dote della tua figliuola!…

Egli aveva di queste uscite buffe alle volte, da solo asolo con sua moglie, quando era contento della sua gior-nata, prima di coricarsi, mettendosi il berretto da notte,in maniche di camicia. A quattr’occhi con lei mostravasiproprio quel che era, bonaccione, colla risata larga chemostrava i denti grossi e bianchi, passandosi anche lalingua sulle labbra, quasi gustasse già il dolce del bocco-ne buono, da uomo ghiotto della roba.

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Isabella fatta più grandicella passò dal Collegio diMaria al primo educatorio di Palermo. Un altro strappoper la povera mamma che temeva di non doverla più ri-vedere. Il marito, onde confortarla, in quello stato, ledisse: – Vedi noi ci ammazziamo per fare il suo meglio,ciascuno come può, ed essa un giorno non penserà nep-pure a noi. Così va il mondo. Anzi devi metterti in testache tua figlia non puoi averla sempre vicina. Quando simarita anderà via dal paese. Qui non ce n’è uno che pos-sa sposarla, colla dote che le darò. Se ho fatto tanto perlei, voglio almeno sapere a chi lo dò il sangue mio. Ades-so che ti parlo è già nato chi deve godersi il frutto dellemie fatiche, senza dirmi neppure grazie.

Aveva il cuore grosso anche lui, poveraccio, e se sfo-gavasi a quattr’occhi colla moglie alle volte, per discor-rere non si rifiutava però a fare ciò ch’era debito suo.Andava a trovare la sua ragazza a Palermo, quando po-teva, quando i suoi affari lo permettevano, anche unavolta all’anno. Isabella s’era fatta una bella fanciulla, unpo’ gracile ancora, pallidina, ma con una grazia naturalein tutta la personcina gentile, la carnagione delicata e ilprofilo aquilino dei Trao; un fiore di un’altra pianta, inpoche parole; roba fine di signori che suo padre stessoquando andava a trovarla provava una certa suggezionedinanzi alla ragazza la quale aveva preso l’aria dellecompagne in mezzo a cui era stata educata, tutte delleprime famiglie, ciascuna che portava nell’educandatol’alterigia baronale da ogni angolo della Sicilia. Al parla-torio lo chiamavano il signor Trao. Quando volle saper-ne il perché, Isabella si fece rossa. La stessa storia delCollegio di Maria anche lì. E la sua figliuola aveva dovu-to soffrire le stesse umiliazioni a motivo del parentado.Per fortuna la signorina di Leyra, che Isabella s’era affe-zionata coi regalucci, aveva preso a difenderla a spadatratta. Essa conosceva di nome la famiglia dei Trao, unadelle prime laggiù, ove il duca suo fratello possedeva dei

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feudi. La duchessina aveva il nome e il parlare alto, seb-bene stesse in collegio senza pagare, talché le compagnelasciarono passare il Trao. Ma don Gesualdo dovette la-sciarlo passare anche lui, e farsi chiamare così, per amo-re della figliuola, quando andava a trovarla. – Vedrai co-me si è fatta bella la tua figliuola! – tornava poi a direalla moglie che era sempre malaticcia.

Essa la rivide finalmente all’uscire del collegio, nel1837, quando in Palermo cominciavano già a correre leprime voci di colèra, e don Gesualdo era corso subito aprenderla. Fu come un urto al petto per la povera ma-dre, dopo tanto tempo, quando udì fermarsi la lettigadinanzi al portone. – Figlia mia! figlia mia! – colle brac-cia stese, le gambe malferme, precipitandosi per la scala.Isabella saliva correndo, colle braccia aperte anche lei. –Mamma! mamma! – E poi avvinghiate l’una al collodell’altra, la madre sballottando ancora a destra e a sini-stra la sua creatura come quand’era piccina.

Indi vennero le visite ai parenti. Bianca era tornata inforze per portare in trionfo la sua figliuola, in casa Sgan-ci in casa Limòli, da per tutto dove era stata bambinetta,prima d’entrare in collegio, ora già fatta grande, col cap-pellino di paglia, le belle treccie bionde – un fiore. Tuttisi affacciavano per vederla passare. La zia Sganci, dive-nuta sorda e cieca, le tastò il viso per riconoscerla: – UnaTrao! Non c’è che dire. – Lo zio marchese ne lodò gliocchi, degli occhi blù che erano due stelle. «Degli occhiche vedevano il peccato», disse il marchese, il quale ave-va sempre pronta la barzelletta. Allorché la condusserodallo zio don Ferdinando, Isabella che soleva spessorammentare colle compagne la casa materna, negli sfo-ghi ingenui d’ambizione, provò un senso di sorpresa, ditristezza, di delusione al rivederla. Entrava chi volevadal portone sconquassato. La corte era angusta, ingom-bra di sassi e di macerie. Si arrivava per un sentieruolofra le ortiche allo scalone sdentato, barcollante, soffoca-

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to anch’esso dalle erbacce. In cima l’uscio cadente eraappena chiuso da un saliscendi arrugginito; e subitonell’entrare colpiva una zaffata d’aria umida e greve, untanfo di muffa e di cantina che saliva dal pavimento isto-riato col blasone, seminato di cocci e di rottami, piovevadalla vòlta scalcinata, veniva densa dal corridoio nero alpari di un sotterraneo, dalle sale buie che s’intravedeva-no in lunga fila, abbandonate e nude, per le strisce di lu-ce che trapelavano dalle finestre sgangherate. In fondoera la cameretta dello zio, sordida, affumicata, col soffit-to sconnesso e cadente, e l’ombra di don Ferdinandoche andava e veniva silenzioso, simile a un fantasma.

– Chi è?… Grazia… entra…Don Ferdinando apparve sulla soglia, in maniche di

camicia, giallo ed allampanato, guardando stupefatto at-traverso gli occhiali la sorella e la nipote. Sul lettucciodisfatto c’era ancora la vecchia palandrana di don Diegoche stava rattoppando. L’avvolse in fretta, insieme a unfagotto d’altri cenci, e la cacciò nel cassettone.

– Ah!… sei tu, Bianca?… che vuoi?…Indi accorgendosi che teneva ancora l’ago in mano, se

lo mise in tasca, vergognoso, sempre con quel gesto chesembrava meccanico.

– Ecco vostra nipote… – balbettò la sorella con untremito nella voce. – Isabella… vi rammentate?… E’ sta-ta in collegio a Palermo…

Egli fissò sulla ragazza quegli occhi azzurri e straluna-ti che fuggivano, di qua e di là, e mormorò:

– Ah!… Isabella?… mia nipote?…Guardava inquieto per la stanza, e di tanto in tanto,

come vedeva un oggetto dimenticato sul tavolino o sullaseggiola zoppa, del refe sudicio, un fazzoletto di cotoneposto ad asciugare al sole, correva subito a nasconderli.Poi si mise a sedere sulla sponda del lettuccio, fissandol’uscio. Mentre Bianca parlava, col cuore stretto, egli se-guitava a volgere intorno gli occhi sospettosi, pensando

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a tutt’altro. A un tratto andò a chiudere a chiave il cas-setto della scrivania.

– Ah!… mia nipote, dici?…Fissò di nuovo sulla giovinetta lo stesso sguardo esi-

tante, e chinò gli occhi a terra.– Somiglia a te… tale e quale… quand’eri qui…Sembrava che cercasse le parole, cogli occhi erranti

evitando quelli della sorella e della nipote, con un tremi-to leggiero nelle mani, il viso smorto e istupidito. Unistante, mentre Bianca gli parlava all’orecchio, suppli-chevole, quasi le spuntassero le lagrime, egli di curvoche era si raddrizzò così che parve altissimo, con un’om-bra negli occhi chiari un rimasuglio del sangue dei Traoche gli colorava il viso scialbo.

– No… no… Non voglio nulla… Non ho bisogno dinulla… Vattene ora, vattene… Vedi… ho tanto da fa-re…

Una cosa che stringeva il cuore. Una rovina ed un’an-gustia che umiliavano le memorie ambiziose, le fantasieromantiche nate nelle confidenze immaginarie colleamiche del collegio, le illusioni di cui era piena la bizzar-ra testolina della fanciulla, tornata in paese coll’idea dirappresentarvi la prima parte. Il lusso meschino della ziaSganci, la sua casa medesima fredda e malinconica, ilpalazzo cadente dei Trao che aveva spesso rammentatolaggiù con infantile orgoglio, tutto adesso impicciolivasi,diventava nero, povero, triste. Lì, dirimpetto, era la ter-razza dei Margarone, che tante volte aveva rammentatovasta, inondata di sole, tutta fiorita, piena di ragazze al-legre che la sbalordivano allora, bambina, collo sfoggiodei loro abiti vistosi. Com’era stretta e squallida invece,con quell’alto muro lebbroso che l’aduggiava! e comeera divenuta vecchia donna Giovannina, che rivedevaseduta in mezzo ai vasi di fiori polverosi, facendo la cal-za, vestita di nero, enorme! In fondo al vicoletto rannic-chiavasi la casuccia del nonno Motta. Allorché il babbo

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ve la condusse trovarono la zia Speranza che filava, ca-nuta, colle grinze arcigne. C’erano dei mattoni smossidove inciampavasi, un ragazzaccio scamiciato il qualelevò il capo da un basto che stava accomodando, senzasalutarli. Mastro Nunzio gemeva in letto coi reumatismi,sotto una coperta sudicia:

– Ah, sei venuto a vedermi? Credevi che fossi morto?No, no, non son morto. E’ questa la tua ragazza? Mel’hai portata qui per farmela vedere?… E’ una signorina,non c’è che dire! Gli hai messo anche un bel nome! Tuamadre però si chiamava Rosaria! Lo sai? Scusatemi, ni-pote mia, se vi ricevo in questo tugurio… Ci son nato,che volete… Spero di morirci… Non ho voluto cam-biarlo col palazzo dove pretendeva chiudermi vostro pa-dre… Io sono avvezzo ad uscir subito in istrada appenaalzato… No, no, è meglio pensarci prima. Ciascunocom’è nato. – Speranza grugniva delle altre parole chenon si udivano bene. Il ragazzaccio li accompagnò cogliocchi sino all’uscio, quando se ne andarono.

Intanto incalzavano le voci di colèra. A Catania c’erastata una sommossa. Giunse da Lentini don BastianoStangafame insieme a donna Fifì la quale pareva avessegià il male addosso, verde, impresciuttita, narrando coseche dovevano averle fatto incanutire i capelli in venti-quattr’ore. A Siracusa una giovinetta bella come la Ma-donna, la quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatro,e andava spargendo il colèra con quel pretesto, era statauccisa a furor di popolo. La gente insospettita stava avedere, facendo le provviste per svignarsela dal paese, alprimo allarme, e spiando ogni viso nuovo che passasse.

In quel tempo erano capitati due merciai che portava-no nastri e fazzoletti di seta. Andavano di casa in casa avendere la roba, e guardavano dentro gli usci e nei corti-li. Le Margarone che spendevano allegramente per azzi-marsi, quasi fossero ancora di primo pelo, fecero moltecompere; anzi non trovandosi denari spiccioli, quei ga-

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lantuomini dissero che sarebbero ripassati a prenderli ilgiorno dopo.

Invece spuntò il giorno del Giudizio Universale. Ciol-la era andato a ricorrere dal giudice che gli avevano av-velenate le galline: le portava a prova in mano, ancoracalde. Tornò in casa don Nicolino scalmanato, ordinan-do alle sorelle di sprangare usci e finestre e non apriread anima viva. Il dottor Tavuso fece chiudere anche losportello della cisterna. I galantuomini, rammentandosiil bel soggetto ch’era il Ciolla, quello ch’era stato in Ca-stello colle manette, sedici anni prima, si armarono sinoai denti, e si misero a perlustrare il paese, se mai gli tor-nava il ghiribizzo di voler pescare nel torbido. La parolad’ordine era, sparargli addosso senza misericordia alprimo allarme. I due merciai non si videro più. Prima disera cominciarono a sfilare le vetture cariche che scap-pavano dal paese. Dopo l’avemaria non andava animaviva per le strade. Giunse tardi una lettiga, che portavadon Corrado La Gurna, vestito di nero, col fazzolettoagli occhi. I cani abbaiarono tutta la notte.

Il panico poi non ebbe limiti allorché si vide scapparela baronessa Rubiera, paralitica, su di una sedia a brac-ciuoli, poiché nella portantina non entrava neppure,tanto era enorme, portata a fatica da quattr’uomini, col-la testa pendente da un lato, il faccione livido, la linguapavonazza che usciva a metà dalle labbra bavose, gli oc-chi soltanto vivi e inquieti, le mani da morta agitate daun tremito continuo. E dietro, il baronello invecchiatodi vent’anni, curvo, grigio, carico di figliuoli, colla mo-glie incinta ancora, e gli altri figli del primo letto. Empi-vano la strada dove passavano: uno sgomento. La pove-ra gente che era costretta a rimanere in paese stava aguardare atterrita. Nelle chiese avevano esposto il Sacra-mento. Tacquero allora vecchi rancori, e si videro fattorirestituire il mal tolto ai loro padroni. Don Gesualdo aprìle braccia e i magazzini ai poveri e ai parenti; tutte le sue

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case di campagna alla Canziria e alla Salonia. A Manga-lavite, dove aveva pure dei casamenti vastissimi, parlò diriunire tutta la famiglia.

– Ora corro da mio padre per cercare d’indurlo a ve-nire con noi. Tu intanto va da tuo fratello, – disse aBianca. – Fagli capire che adesso son tempi da mettereuna pietra sul passato, gli avessi fatto anche un tradi-mento… Abbiamo il colèra sulle spalle… Il sangue nonè acqua infine! Non possiamo lasciare quel povero vec-chio solo in mezzo al colèra… Mi pare che la genteavrebbe motivo di sparlare dei fatti nostri, eh?…

– Voi avete il cuore buono! – balbettò la moglie sen-tendosi intenerire. – Voi avete il cuore buono!

Ma don Ferdinando non si lasciò persuadere. Era oc-cupatissimo ad incollare delle striscie di carta a tutte lefessure delle imposte, con un pentolino appeso al collo,arrampicato su di una scala a piuoli.

– Non posso lasciar la casa, – rispose. – Ho tanto dafare!… Vedi quanti buchi?… Se viene il colèra… Biso-gna tapparli tutti…

Inutilmente la sorella tornava a pregare e scongiurare– Non mi lasciate questo rimorso, don Ferdinando!…Come volete che chiuda occhio la notte, sapendovi soloin casa?…

– Ah! ah!… – rispose lui con un sorriso ebete. – Lanotte non me lo soffiano il colèra!… Chiuderò tutte lefessure… guarda!

E tornava a ribattere: – Non posso lasciar la casa so-la… Ho da custodire le carte di famiglia…

La moglie del sagrestano, che vide uscire donna Bian-ca desolata dal portone, le corse dietro piangendo:

– Non ci vedremo più!… Tutti se ne vanno… Nonavremo per chi sonare messa e mattutino!

Anche mastro Nunzio s’era rifiutato ad andare col fi-gliuolo.

– Io mangio colle mani, figliuol mio. Arrossiresti di

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tuo padre a tavola… Sono uno zotico… Non sono damettermi insieme ai signori!… No, no! è meglio pensar-ci prima! Meglio crepar di colèra che di bile!… Poi, sai?io sono avvezzo ad esser padrone in casa mia… Sono unvillano… Non so starci sotto le scarpe della moglie, no!

Speranza mostrò Burgio allettato anche lui dalla ma-laria.

– Noi non usiamo abbandonare i nostri nel perico-lo!… Mio marito non può muoversi, e noi non ci muo-viamo!… Ecco come siam noi!… Lo sapete quello checi vuole a mantenere una famiglia intera, col marito con-finato in letto!… -

Ma non t’ho sempre detto che sarai la padrona!…Tutto quello che vuoi!… – esclamò infine Gesualdo.

– No!… Non vi ho chiesto l’elemosina!… Non accet-teremmo nulla, se non fosse pel bisogno… grazie aDio!… Poiché ci fate la carità, andremo alla Canziria…Non temete! Così la gente non potrà dire che avete ab-bandonato vostro padre in mezzo al colèra!… Voi pen-sate a mandarci le provviste… Non possiamo pascercid’erba come le bestie!… sentite… Se avete pure qualchevestito smesso di vostra figlia, di quelli proprio che nonpossono più servirle… Già lei è una signora, ma sarannosempre buoni per noi poveretti!…

I Margarone partirono subito per Pietraperzia; tuttiancora in lutto per don Filippo, morto dai crepacuoriche gli dava il genero don Bastiano Stangafame, ognivolta che gli bastonava Fifì se non mandava denari. An-nebbiavano una strada.

Il barone Mèndola, che faceva la corte alla zia Sganci,se la condusse a Passaneto, e ci prese le febbri, poveravecchia. Zacco e il notaro Neri partirono per Donfer-rante. Era uno squallore pel paese. A ventitré ore non sivedeva altri lungo la via di San Sebastiano che il marche-se Limòli, per la sua solita passeggiatina del dopopran-zo. E gli fecero sapere anzi che destava dei sospetti con

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quelle gite, e volevano fargli la festa al primo caso dicolèra.

– Eh? – disse lui. – La festa? Ci avete a pensar voial-tri, che vi tocca pagar le spese. Io fo quello che ho fattosempre, se no crepo egualmente.

E alla nipote che lo scongiurava di andar con lei aMangalavite:

– Hai paura di non trovarmi più?… No, no, non te-mere; il colèra non sa che farsene di me.

Mentre Bianca e la figliuola stavano per montare inlettiga, giunse la zia Cirmena, disperata.

– Avete visto? Tutti se ne vanno! I parenti mi voltanole spalle!… E m’è cascato addosso anche quel poveroorfanello di Corrado La Gurna… Una tragedia a casasua!… Padre e madre in una notte… fulminati dal colè-ra!… Nessuno ha il mio cuore, no!… Una povera donnasenza aiuto e che non sa dove andare!… Se mi date lachiave delle due camerette che avete laggiù a Mangalavi-te, vicino alla vostra casina!… le camere del palmento…Siete il solo parente a cui ricorrere, voi, don Gesual-do!…

– Sì, sì, – rispose lui – ma non lo dite agli altri…– Glielo dirò anzi!… Voglio rinfacciarlo a tutti quan-

ti, se campo!

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II

Quella che chiamavano la casina, a Mangalavite, eraun gran casamento annidato in fondo alla valletta. Isa-bella dalla sua finestra vedeva il largo viale alpestre fian-cheggiato d’ulivi, la folta macchia verde che segnava lagrotta dove scorreva l’acqua, le balze in cui serpeggiavail sentiero, e più in su l’erta chiazzata di sommacchi, Bu-darturo brullo e sassoso nel cielo che sembrava di smal-to. La sola pennellata gaia era una siepe di rose caninesempre in fiore all’ingresso del viale, dimenticate per in-curia.

Pei dirupi, ogni grotta, le capannuccie nascoste nelfolto dei fichidindia, erano popolate di povera gentescappata dal paese per timore del colèra. Tutt’intornoudivasi cantare i galli e strillare dei bambini; vedevansidei cenci sciorinati al sole, e delle sottili colonne di fumoche salivano qua e là attraverso gli alberi. Verso l’avema-ria tornavano gli armenti negli ovili addossati al casa-mento, branchi interi di puledri e di buoi che si racco-glievano nei cortili immensi. Tutta la notte poi era uncalpestìo irrequieto, un destarsi improvviso di muggiti edi belati, uno scrollare di campanacci, un sito di stalla edi salvatico che non faceva chiudere occhio ad Isabella.Di tanto in tanto correva una fucilata pazza per le tene-bre, lontano; giungevano sin laggiù delle grida selvagged’allarme; dei contadini venivano a raccontare il giornodopo di aver sorpreso delle ombre che s’aggiravano fur-tive sui precipizi; la zia Cirmena giurava di aver visto deirazzi solitarii e luminosi verso Donferrante. E subitospedivano gente ad informarsi se c’erano stati casi dicolèra. Il barone Zacco ch’era da quelle parti, risponde-va invece che i fuochi si vedevano verso Mangalavite.

Don Gesualdo, meno la paura dei razzi che si vedeva-no la notte, e il sospetto di ogni viso nuovo che passasse

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pei sentieri arrampicati lassù sui greppi, ci stava comeun papa fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini,le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera,sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da pa-drone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto inmezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata chesaliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia,godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltan-do i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati deisuoi mezzaiuoli. Alla moglie, che l’aria della campagnafaceva star peggio, soleva dire per consolarla: – Qui al-meno non hai paura d’acchiappare il colèra. Finché nonsi tratta di colèra il resto è nulla. – Lì egli era al sicurodal colèra, come un re nel suo regno, guardato di notte edi giorno – a ogni contadino aveva procurato il suo bra-vo schioppo, dei vecchi fucili a pietra nascosti sotto ter-ra fin dal 12 o dal 21 e teneva dei mastini capaci di divo-rare un uomo. Faceva del bene a tutti; tutti che sisarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle inquella circostanza. Grano, fave, una botte di vino gua-statosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva dalui per domandargli in prestito quel che gli occorreva.Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva datoricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle ca-panne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo. Ungiorno era arrivato persino Nanni l’Orbo con tutta lasua masnada, strizzando l’occhio, tirandolo in disparteper dirgli il fatto suo:

– Don Gesualdo… qui c’è anche roba vostra. Guar-date Nunzio e Gesualdo come vi somigliano! Quattrotumoli di pane al mese si mangiano, prosit a loro! Nonpotete chiudere loro la porta in faccia… Ne avete fattatanta della carità? E fate anche questa, che così vuolDio.

– Guarda cosa diavolo t’è venuto in mente!… Qui c’èmia moglie e mia figlia adesso!… Almeno andatevenenel palmento, e non vi fate vedere da queste parti…

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Ma tutto quel bene e quella carità gli tornavano in ve-leno per l’ostinazione dei parenti che non avevano volu-to mettersi sotto le sue ali. Se ne sfogava spesso conBianca la sera, quando chiudeva usci e finestre e si vede-va al sicuro: – Salviamo tanta gente dal colèra… Abbia-mo tanta gente sotto le ali, e soltanto il sangue nostro èdisperso di qua e di là… Lo fanno apposta… per farcistare in angustie… per lasciarci la spina dentro!… Nonparlo di tuo fratello poveraccio quello non capisce…Ma mio padre… Non me la doveva lasciare questa spi-na, lui!…

Non sapeva di quell’altro dispiacere che doveva pro-curagli la figliuola, il pover’uomo! Isabella ch’era venutadal collegio con tante belle cose in testa, che s’era imma-ginata di trovare a Mangalavite tante belle cose come al-la Favorita di Palermo, sedili di marmo, statue, fiori daper tutto, dei grandi alberi dei viali tenuti come tante sa-le da ballo, aveva provata qui un’altra delusione. Avevatrovato dei sentieri alpestri, dei sassi che facevano vacil-lare le sue scarpette, delle vigne polverose, delle stoppieriarse che l’accecavano, delle rocce a picco sparse disommacchi che sembravano della ruggine a quell’altez-za, e dove il tramonto intristiva rapidamente la sera. Poidei giorni sempre uguali, in quella tebaide; un sospettocontinuo, una diffidenza d’ogni cosa, dell’acqua che be-vevasi, della gente che passava, dei cani che abbaiavano,delle lettere che giungevano – un mucchio di pagliaumida in permanenza dinanzi al cancello per affumicaretutto ciò che veniva di fuori, – le rare lettere ricevute incima a una canna, attraverso il fumo – e per solo svago,il chiacchierìo della zia Cirmena, la quale arrivava ognisera colla lanterna in mano e il panierino della calza infi-lato al braccio. Suo nipote l’accompagnava raramente;preferiva rimanersene in casa, a far l’orso e a pensare aicasi suoi o ai suoi morti, chissà… La zia Cirmena perscusarlo parlava del gran talento che aveva quel ragazzo,

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tutto il santo giorno chiuso nella sua stanzetta, col capoin mano, a riempire degli scartafacci, più grossi di unbasto, di poesie che avrebbero fatto piangere i sassi.Don Gesualdo ci s’addormentava sopra a quei discorsi.La mamma parlava poco anche lei, sempre senza fiato,sempre fra letto e lettuccio. La sola che dovesse dar ret-ta alla zia era lei, Isabella, soffocando gli sbadigli, dopoquelle giornate vuote. Alle sue amiche di collegio, disse-minate anch’esse di qua e di là, non sapeva proprio cosascrivere. Marina di Leyra le mandava ogni settimanadelle paginette stemmate piene zeppe di avventure, diconfidenze interessanti. La stuzzicava, la interrogava,chiedeva in ricambio le sue confidenze, sembrava a ognilettera che le capitasse lì dinanzi, coi suoi occhioni su-perbi, colle belle labbra carnose, a dirle in un orecchiodelle cose che le facevano avvampare il viso, che le face-vano battere il cuore, quasi ci avesse nascosto il suo se-greto da confidarle anche lei. S’erano regalato a vicendaun libriccino di memorie, colla promessa di scrivervi so-pra tutti i loro pensieri più intimi, tutto, tutto, senza na-scondere nulla! I begli occhi azzurri d’Isabella, gli occhiche diceva lo zio Limòli, senza volerlo, senza guardareneppure, sembrava che cercassero quei pensieri. Inquella testolina che portava ancora le trecce sulle spalle,nasceva un brulichìo, quasi uno sciame di api vi recassetutte le voci e tutti i profumi della campagna, di là dalleroccie, di là da Budarturo, di lontano. Sembrava chel’aria libera, lo stormire delle frondi, il sole caldo, le ac-cendessero il sangue, penetrassero nelle sottili vene az-zurrognole, le fiorissero nei colori del viso, le gonfiasse-ro di sospiri il seno nascente sotto il pettino delgrembiule. – Vedi quanto ti giova la campagna? – dicevail babbo. – Vedi come ti fai bella?

Ma essa non era contenta. Sentiva un’inquietezzaun’uggia, che la facevano rimanere colle mani inerti sulricamo, che la facevano cercare certi posti per leggere i

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pochi libri, quei volumetti tenuti nascosti sotto la bian-cheria, in collegio. All’ombra dei noci, vicino alla sor-gente, in fondo al viale che saliva dalla casina, c’era al-meno una gran pace, un gran silenzio, s’udiva losgocciolare dell’acqua nella grotta, lo stormire dellefrondi come un mare, lo squittire improvviso di qualchenibbio che appariva come un punto nell’azzurro immen-so. Tante piccole cose che l’attraevano a poco a poco, ela facevano guardare attenta per delle ore intere una filadi formiche che si seguivano, una lucertolina che affac-ciavasi timida a un crepaccio, una rosa canina che don-dolava al disopra del muricciuolo, la luce e le ombre chesi alternavano e si confondevano sul terreno. La vincevauna specie di dormiveglia, una serenità che le veniva daogni cosa, e si impadroniva di lei, e l’attaccava lì, col li-bro sulle ginocchia, cogli occhi spalancati e fissi, la men-te che correva lontano. Le cadeva addosso una malinco-nia dolce come una carezza lieve, che le stringeva ilcuore a volte, un desiderio vago di cose ignote. Di gior-no in giorno era un senso nuovo che sorgeva in lei, daiversi che leggeva, dai tramonti che la facevano sospirare,un’esaltazione vaga, un’ebbrezza sottile, un turbamentomisterioso e pudibondo che provava il bisogno di na-scondere a tutti. Spesso, la sera, scendeva adagio adagiodal lettuccio perché la mamma non udisse, senza accen-dere la candela, e si metteva alla finestra, fantasticando,guardando il cielo che formicolava di stelle. La sua ani-ma errava vagamente dietro i rumori della campagna, ilpianto del chiù, l’uggiolare lontano, le forme confuseche viaggiavano nella notte, tutte quelle cose che le face-vano una paura deliziosa. Sentiva quasi piovere dalla lu-na sul suo viso, sulle sue mani una gran dolcezza, unagran prostrazione, una gran voglia di piangere. Le sem-brava confusamente di vedere nel gran chiarore bianco,oltre Budarturo, lontano, viaggiare immagini note, me-morie care, fantasie che avevano intermittenze luminose

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come la luce di certe stelle: le sue amiche, Marina diLeyra, un altro viso sconosciuto che Marina le facevasempre vedere nelle sue lettere, un viso che ondeggiavae mutava forma, ora biondo, ora bruno, alle volte colleocchiaie appassite e la piega malinconica che avevano lelabbra del cugino La Gurna. Penetrava in lei il sensodelle cose, la tristezza della sorgente, che stillava a goc-cia a goccia attraverso le foglie del capelvenere, lo sgo-mento delle solitudini perdute lontano per la campagna,la desolazione delle forre dove non poteva giungere ilraggio della luna, la festa delle rocce che s’orlavano d’ar-gento, lassù a Budarturo, disegnandosi nettamente nelgran chiarore, come castelli incantati. Lassù, lassù, nellaluce d’argento, le pareva di sollevarsi in quei pensieriquasi avesse le ali, e le tornavano sulle labbra delle paro-le soavi, delle voci armoniose, dei versi che facevanopiangere, come quelli che fiorivano in cuore al cuginoLa Gurna. Allora ripensava a quel giovinetto che non sivedeva quasi mai, che stava chiuso nella sua stanzetta, afantasticare, a sognare come lei. Laggiù, dietro quelmonticello, la stessa luna doveva scintillare sui vetri del-la sua finestra, la stessa dolcezza insinuarsi in lui. Che fa-ceva? che pensava? Un brivido di freddo la sorprendevadi tratto in tratto come gli alberi stormivano e le porta-vano tante voci da lontano – Luna bianca, luna bella!…Che fai, luna? dove vai? che pensi anche tu? – Si guar-dava le mani esili e delicate, candide anch’esse come laluna, con una gran tenerezza, con un vago senso di grati-tudine e quasi di orgoglio.

Poscia ricadeva stanca da quell’altezza, con la menteinerte, scossa dal russare del babbo che riempiva la casa.La mamma vicino a lui non osava neppure fare udire ilsuo respiro; come non osava quasi mostrare tutta la suatenerezza alla figliuola dinanzi al marito, timida, conquegli occhi tristi e quel sorriso pallido che voleva diretante cose nelle più umili parole: – Figlia! figlia mia!… –

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Soltanto la stretta delle braccia esili, e l’espressione deglisguardi che correvano inquieti all’uscio dicevano il re-sto. Quasi dovesse nascondere le carezze che faceva allasua creatura, le mani tremanti che le cercavano il viso,gli occhi turbati che l’osservavano attentamente. – Chehai? Sei pallida!… Non ti senti bene?

La zia Cirmena che vedeva la ragazza così gracile, co-sì pallidina, con quelle pesche sotto gli occhi, cercava didistrarla, le insegnava dei lavori nuovi, delle cornicetteintessute di fili di paglia, delle arance e dei canarini di la-na. Le contava delle storielle, le portava da leggere lepoesie che scriveva suo nipote Corrado, di nascosto, nelpanierino della calza. – Son fresche fresche di ieri. Glie-le ho prese dal tavolino ora che è uscito a passeggiare. E’ritroso, quel benedetto figliuolo. Così timido! uno cheha bisogno d’aiuto, col talento che ha, peccato! – E lesuggeriva anche dei rimedi per la salute delicata, lo sci-roppo marziale, delle teste di chiodi in una bottigliad’acqua. Si sbracciava ad aiutare in cucina, col vestitorimboccato alla cintola, a far cuocere un buon brodo diossa per sua nipote Bianca, a preparare qualche intingo-lo per Isabella che non mangiava nulla. – Lasciate fare ame. So quel che ci vuole per lei. Voialtri Trao siete tantipulcini colla luna. – Un braccio di mare quella zia Cir-mena. Una donna che se le si faceva del bene, non ci siperdeva interamente. Spesso costringeva Corrado a ve-nire anche lui la sera per tenere allegra la brigata.

– Tu che sai fare tante cose, coi tuoi libri, colle tuechiacchiere, porterai un po’ di svago. Santo Dio! se staisempre rintanato coi tuoi libri, come vuoi far conoscerei tuoi meriti? – Poi, quando lui non era presente, canta-va anche più chiaro: – Alla sua età!… Non è più unbambino… Bisogna che s’aiuti… Non può vivere sem-pre alle spalle dei parenti!… – E superbo come Luciferoper giunta, ricalcitrando e inalberandosi se alcuno cer-cava di aiutarlo, di fargli fare buona figura, se la zia s’in-

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gegnava lei di aprir gli occhi alla gente sul valore del suonipote Corrado e gli rubava gli scartafacci, e andava asciorinarli lei stessa in mezzo al crocchio dei cugini Mot-ta, compitando, accalorandosi come un sensale che favalere la merce, mentre don Gesualdo andava appiso-landosi a poco a poco, e diceva di sì col capo, sbadi-gliando, e Bianca guardava Isabella la quale teneva igrand’occhi sbarrati nell’ombra, assorta, e le si mutava aogni momento l’espressione del viso delicato, quasi delleondate di sangue la illuminassero tratto tratto. DonnaSarina tutta intenta alla lettura non si accorgeva di nulla,badava ad accomodarsi gli occhiali di tanto in tanto, chi-navasi verso il lume, oppure se la pigliava col nipote chescriveva così sottile.

– Ma che talento, eh! Come amministratore… che soio… per soprintendere ai lavori di campagna… dirigereuna fattoria, quel ragazzo varrebbe tant’oro. Il cuore midice che se voi, don Gesualdo, trovaste di collocarlo inalcuno dei vostri negozi, fareste un affare d’oro!… E…ora che non ci sente… per poco salario anche! Il giova-ne ha gli occhi chiusi, come si dice… ancora senza mali-zia… e si contenterebbe di poco! Fareste anche un’ope-ra di carità, fareste!

Don Gesualdo non diceva né sì né no, prudente, dauomo avvezzo a muovere sette volte la lingua in boccaprima di lasciarsi scappare una minchioneria. Ci pensa-va su, badava alle conseguenze, badava alla sua figliuola,anche russando, con un occhio aperto. Non voleva chela ragazza così giovane, così inesperta, senza sapere an-cora cosa volesse dire esser povero o ricco, s’avesse ascaldare il capo per tutte quelle frascherie. Lui era igno-rante, uno che non sapeva nulla, ma capiva che quellebelle cose erano trappole per acchiappare i gonzi. Glistessi arnesi di cui si servono coloro che sanno di lettereper legarvi le mani o tirarvi fuori dei cavilli in un nego-zio. Aveva voluto che la sua figliuola imparasse tutto ciò

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che insegnavano a scuola, perché era ricca, e un giorno ol’altro avrebbe fatto un matrimonio vantaggioso. Ma ap-punto perch’era ricca tanta gente ci avrebbe fatti su deidisegni. Insomma a lui non piacevano quei discorsi dellazia e il fare del nipote che le teneva il sacco conquell’aria ritrosa di chi si fa pregare per mettersi a tavo-la, di chi vuol vender cara la sua mercanzia. E le occhia-te lunghe della cuginetta, i silenzi ostinati, quel mentoinchiodato sul petto, quella smania di cacciarsi coi suoilibri in certi posti solitari, per far la letterata anche lei,una ragazza che avrebbe dovuto pensare a ridere e a di-vertirsi piuttosto…

Finora erano ragazzate; sciocchezze da riderci sopra,o prenderli a scappellotti tutt’e due, la signorina chemettevasi alla finestra per veder volare le mosche, e il ra-gazzo che stava a strologare da lontano, di cui vedevasi ilcappello di paglia al disopra del muricciuolo o della sie-pe, ronzando intorno alla casina, nascondendosi fra lepiante. – Don Gesualdo aveva dei buoni occhi. Non po-teva indovinare tutte le stramberie che fermentavano inquelle teste matte, – i baci mandati all’aria, e il sole e lenuvole che pigliavano parte al duetto – a un miglio di di-stanza, – ma sapeva leggere nelle pedate fresche, nellerose canine che trovava sfogliate sul sentiero, nell’ariaingenua di Isabella che scendeva a cercare le forbici o ilditale quando per combinazione c’era in sala il cugino,nella furberia di lui che fingeva di non guardarla, comechi passa e ripassa in una fiera dinanzi alla giovenca chevuol comprare senza darle neppure un’occhiata. Vedevaanche nella faccia ladra di Nanni l’Orbo, nel fare sospet-toso di lui, nell’aria sciocca che pigliava, quando rizzava-si fra i sommacchi, mettendosi la mano sugli occhi, perguardar laggiù, nel viale, o si cacciava carponi fra i fichid’India, o veniva a portargli dei pezzi di carta che avevatrovato vicino alla fontana, dei calcinacci scrostati dalsedile, facendo il nesci:

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– Don Gesualdo, che c’è stato vossignoria, lassù?…Alle volte… per far quattro passi… L’erba sulla spianataè tutta pesta, come ci si fosse sdraiato un asino. Ladri,no, eh?… Ho paura di quelli del colèra piuttosto.

– No… di giorno?… che diavolo!… bestia che sei!…Non temere, qui stiamo cogli occhi aperti.

E ci stava davvero, con prudenza, per evitar gli scan-dali, aspettando che terminasse il colèra per scopare lacasa, e finirla pulitamente con donna Sarina e tutti i suoisenza dar campo di parlare alle male lingue, rimbeccan-do la zia Cirmena che s’era messa a far la sapiente anchelei, a parlare col squinci e linci, tagliando corto a quellechiacchiere sconclusionate che vi tiravano gli sbadiglidalle calcagna. Un giorno, presenti tutti quanti, sputòfuori il fatto suo.

– Ah… le canzonette? Roba che non empie pancia,cari miei! – La zia Cirmena si risentì alfine: – Voi piglia-te tutto a peso e a misura, don Gesualdo! Non sapetequel che vuol dire… Vorrei vedervici!… – Egli allora,col suo fare canzonatorio, raccolse in mucchio libri egiornali ch’erano sul tavolino e glieli cacciò in grembo, adonna Sarina, ridendo ad alta voce, spingendola per lespalle quasi volesse mandarla via come fa il sensale nelconchiudere il negozio, vociando così forte che sembra-va in collera, fra le risate:

– Be’… pigliateli, se vi piacciono… Potrete camparcisu!…

Tutti si guardarono negli occhi. Isabella si alzò senzadire una parola, ed uscì dalla stanza. – Ah!… – borbottòdon Gesualdo. – Ah!…

Ma visto che non era il momento, cacciò indietro labile e voltò la cosa in scherzo:

– Anche a lei… le piacciono le canzonette. Come pas-satempo… colla chitarra… adesso che siamo in villeg-giatura non dico di no. Ma per lei c’è chi ha lavorato alsole e al vento, capite?… E se ha la testa dura dei Trao,anche i Motta non scherzano, quanto a ciò…

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– Bene, – interruppe la zia, – questo è un altro discor-so.

– Ah, vi sembra un altro discorso?– Ecco! – saltò su donna Sarina, pigliandosela a un

tratto col nipote. – Tuo zio parla pel tuo bene. Non lotrovi, un parente affezionato come lui, senti!

– Certo, certo… Voi siete una donna di giudizio, don-na Sarina, e cogliete le parole al volo.

La Cirmena allora si mise a dimostrare che un ragazzodi talento poteva arrivare dove voleva, segretario, fatto-re, amministratore di una gran casa. Le protezioni giànon gli mancavano. – Certo, certo, – continuava a ripe-tere don Gesualdo. Ma non si impegnava più oltre. Sidava da fare a rimettere le seggiole a posto, a chiudere lefinestre, come a dire: – Adesso andate via. – Però sicco-me il giovane voltava le spalle senza rispondere, con lasuperbia che avevano tutti quei parenti spiantati, donnaSarina non seppe più frenarsi, raccattando in furia i ferrida calza e gli occhiali, infilando il paniere al braccio sen-za salutar nessuno.

– Guardate s’è questa la maniera! Così si ringraziano iparenti della premura? Io me ne lavo le mani… comePilato… Ciascuno a casa sua…

– Ecco la parola giusta, donna Sarina. Ciascuno a casasua. Aspettate, che vi accompagno… Eh? eh? che c’è?

Da un pezzo, mentre discorreva, tendeva l’orecchioall’abbaiare dei cani, al diavolìo che facevano oche e tac-chini nella corte, a un correre a precipizio. Poi si udì unavoce sconosciuta in mezzo al chiacchierìo della sua gen-te. Dal cancello s’affacciò il camparo, stralunato, facen-dogli dei segni.

– Vengo, vengo, aspettate un momento.Tornò poco dopo che sembrava un altro, stravolto,

col cappello di paglia buttato all’indietro, asciugandosiil sudore. Donna Sarina voleva sapere a ogni costo cosafosse avvenuto, fingendo d’aver paura.

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– Nulla… Le stoppie lassù avran preso fuoco… V’ac-compagno. E’ cosa da nulla.

Nell’aia erano tutti in subbuglio. Mastro Nardo, sottola tettoia, insellava in fretta e in furia la mula baia di donGesualdo. Dinanzi al rastrello del giardino Nanni l’Or-bo e parecchi altri ascoltavano a bocca aperta un conta-dino di fuorivia che narrava gran cose, accalorato, gesti-colando mostrando il vestito ridotto in brandelli.

– Nulla, nulla, – ripetè don Gesualdo. – V’accompa-gno a casa vostra. Non c’è premura. – Si vedeva peròch’era turbato, balbettava, grossi goccioloni gli colavanodalla fronte. Donna Sarina s’ostinava ad aver paura,piantandosi su due piedi, frugando di qua e di là cogliocchi curiosi, fissandoli in viso a lui per scovar quel chec’era sotto: – Un caso di colèra, eh? Ce l’han portato sinqui? Qualche briccone? L’han colto sul fatto? – Infinedon Gesualdo le mise le mani sulle spalle, guardandolafissamente nel bianco degli occhi: – Donna Sarina, a chegiuoco giochiamo? Lasciatemi badare agli affari di casamia! santo e santissimo! – E la mise bel bello sulla suastrada, di là dal ponticello. Tornando indietro se la pre-se con tutta quella gente che sembrava ammutinata, co-mare Lia che aveva lasciato d’impastare il pane, sua fi-glia accorsa anche lei colle mani intrise di farina. – Chec’è? che c’è? Voi, mastro Nardo, andate avanti colla mu-la. Vi raggiungerò per via. Lì, da quella parte, pel sentie-ro. Non c’è bisogno di far sapere a tutto il vicinato se voo se rimango. E voialtri badate alle vostre faccende. Ecucitevi la bocca, ehi!… senza suonar la tromba e andarnarrando quel che mi succede, di qua e di là!…

Poi salì di sopra colle gambe rotte. Bianca appena lovide con quella faccia si impaurì. Ma egli però non ledisse nulla. Temeva che i sorci ballassero mentre nonc’era il gatto. Mentre la moglie l’aiutava a infilarsi gli sti-vali, andava facendole certe raccomandazioni: – Bada al-la casa. Bada alla ragazza. Io vo e torno. Il tempo d’arri-

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vare alla Salonia per mio padre che sta poco bene. Gliocchi aperti finché non ci son io, intendi? – Bianca daginocchioni com’era alzò il viso attonito. – Svegliati! Co-me diavolo sei diventata? Tale e quale tuo fratello donFerdinando sei! Tua figlia ha la testa sopra il cappello,te ne sei accorta? Abbiamo fatto un bel negozio a met-terle in capo tanti grilli! Chissà cosa s’immagina? E glialtri pure… Donna Sarina e tutti gli altri! Serpi nellamanica!… Dunque, niente visite, finché torno… e gliocchi aperti sulla tua figliuola. Sai come sono le ragazzequando si mettono in testa qualcosa!… Sei stata giovaneanche tu… Ma io non mi lascio menare pel naso come ituoi fratelli, sai!… No, no, chetati! Non è per rimprove-rarti… L’hai fatto per me, allora. Sei stata una buonamoglie, docile e obbediente, tutta per la casa… Non mene pento. Dico solo acciò ti serva d’ammaestramento,adesso. Le ragazze per maritarsi non guardano a nulla…Tu almeno non facevi una pazzia… Non te ne sei penti-ta neppur tu, è vero? Ma adesso è un altro par di mani-che. Adesso si tratta di non lasciarsi rubare come in unbosco…

Bianca, ritta accanto all’uscio, col viso scialbo, spa-lancò gli occhi, dove era in fondo un terror vago, unosbalordimento accorato, l’intermittenza dolorosa dellaragione annebbiata ch’era negli occhi di don Ferdinan-do.

– Ah! Hai capito finalmente! Te ne sei accorta anchetu! E non mi dicevi nulla!… Tutte così voialtre donne…a tenervi il sacco l’una coll’altra!… congiurate controchi s’arrovella pel vostro meglio!

– No!… vi giuro!… Non so nulla!… Non ci ho col-pa… Che volete da me?… Vedete come son ridotta!…

– Non lo sapevi? Cosa fai dunque? Così tieni d’oc-chio tua figlia… E’ questa una madre di famiglia?…Tutto sulle mie spalle! Ho le spalle grosse. Ho lo stoma-co pieno di dispiaceri… E sto benone io!… Ho la pelledura.

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E se ne andò col dorso curvo, sotto il gran sole, rumi-nando tutti i suoi guai. Il messo ch’era venuto a chia-marlo dalla Salonia l’aspettava in cima al sentiero, insie-me a mastro Nardo che tirava la mula zoppicando.Come lo vide da lontano si mise a gridare:

– Spicciatevi, vossignoria. Se arriviamo tardi, per di-sgrazia, la colpa è tutta mia.

Cammin facendo raccontava cose da far drizzare i ca-pelli in testa. A Marineo avevano assassinato un vian-dante che andava ronzando attorno all’abbeveratoio,nell’ora calda, lacero, scalzo, bianco di polvere, accesoin volto, con l’occhio bieco, cercando di farla in barba aicristiani che stavano a guardia da lontano, sospettosi. ACallari s’era trovato un cadavere dietro una siepe, gonfiocome un otre: l’aveva scoperto il puzzo. La sera, dovun-que, si vedevano dei fuochi d’artifizio, una pioggia dirazzi, tale e quale la notte di San Lorenzo, Dio liberi!Una donna incinta, che s’era lasciata aiutare da uno sco-nosciuto, mentre portava un carico di legna al Trimmil-lito, era morta la stessa notte all’improvviso, senza nean-che dire – Cristo aiutami – colla pancia piena di fichid’India.

– Vostro padre l’ha voluto lui stesso il colèra, sissi-gnore. Tutti gli dicevano: Non aprite se prima il solenon è alto! Ma sapete che testa dura! Il colèra ce l’haportato alla Salonia un viandante che andava intornocolla bisaccia in spalla. Di questi tempi, figuratevi! C’èchi l’ha visto a sedere, stanco morto, sul muricciuolo vi-cino alla fattoria. Poi tutta la notte rumori sul tetto e die-tro gli usci… E le macchie d’unto che si son trovate quae là a giorno fatto!… Come della bava di lumaca… Sissi-gnore!… Quella bestia dello speziale continua a predi-care di scopar le case, di pigliarsela coi maiali e colle gal-line, per tener lontano il colèra! Adesso il veleno ce loportano le bestie del Signore, che non hanno malizia!avete inteso, vossignoria?… Roba da accopparli tutti

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quanti sono, medici, preti e speziali, perché loro ognicristiano che mandano al mondo della verità si piglianododici tarì dal re! E l’arciprete Bugno ha avuto il corag-gio di predicarlo dall’altare: – Figliuoli miei, so che cel’avete con me, a causa del colèra. Ma io sono innocente.Ve lo giuro su quest’ostia consacrata! – Io non so s’erainnocente o no. So che ha acchiappato il colèra anchelui, perché teneva in casa quelle bottiglie che mandanoda Napoli per far morire i cristiani. Io non so niente. Ilfatto è che i morti fioccano come le mosche: Donna Ma-rianna Sganci, Peperito…

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III

Allorché giunsero alla Salonia trovarono che tutti glialtri inquilini della fattoria caricavano muli ed asinelliper fuggirsene. Inutilmente Bomma, che era venuto dal-la vigna, lì vicino, si sgolava a gridare:

– Bestie! s’è una perniciosa!… se ha una febbre dacavallo! Non si muore di colèra con la febbre!

– Non me ne importa s’è una perniciosa! – borbottòinfine Giacalone. – I medici già son pagati per que-sto!…

Mastro Nunzio stava male davvero: la morte gli avevapizzicato il naso e gli aveva lasciato il segno delle ditasotto gli occhi, un’ombra di filiggine che gli tingeva lenarici assottigliate, gli sprofondava gli occhi e la boccasdentata in fondo a dei buchi neri, gli velava la facciaterrea e sporca di peli grigi. Aprì quegli occhi a stento,udendo suo figlio Gesualdo che gli stava dinanzi al letto,e disse colla voce cavernosa:

– Ah! sei venuto a vedere la festa, finalmente? Santo, come un allocco, stava seduto sullo scalino

dell’uscio, senza dir nulla, coi lucciconi agli occhi. Bur-gio e sua moglie si affrettavano a insaccare un po’ di gra-no, per non morir di fame dove andavano, appenaavrebbe chiusi gli occhi il vecchio. Nel cortile c’eranoanche le mule cariche di roba. Don Gesualdo afferrò pelvestito Bomma, il quale stava per andarsene anche lui.

– Che si può fare, don Arcangelo? Comandate! Tuttoquello che si può fare, per mio padre… tutto quello cheho!… Non guardate a spesa…

– Eh! avrete poco da spendere… Non c’è nulla da fa-re… Sono venuto tardi. La china non giova più!… unaperniciosa coi fiocchi, caro voi! Ma però non muore dicolèra, e non c’è motivo di spaventare tutto il vicinato,come fanno costoro!

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Il vecchio stava a sentire, cogli occhi inquieti e sospet-tosi in fondo alle orbite nere. Guardava Gesualdo che siaffannava intorno al farmacista, Speranza la quale stril-lava e singhiozzava aiutando il marito ne’ preparatividella partenza, Santo che non si muoveva, istupidito, inipoti qua e là per la casa e nel cortile, e Bomma che glivoltava le spalle, scrollando il capo, facendo gesti d’im-pazienza. Speranza infine andò a consegnare le chiavi asuo fratello, seguitando a brontolare:

– Ecco! Mi piace che siete venuto… Così non direteche vogliamo fare man bassa sulla roba, io e mio marito,appena chiude gli occhi nostro padre…

– Non sono ancora morto, no! – si lamentò il vecchiodal suo cantuccio. Allora si alzò come una furia l’altro fi-gliuolo, Santo, con la faccia sudicia di lagrime, vociandoe pigliandosela con tutti quanti:

– Il viatico che non glielo date, razza di porci?… Chelo fate morire peggio di un cane?…

– Non sono ancora morto! – piagnucolò di nuovo ilmoribondo. – Lasciatemi morire in pace, prima!…

– Non è per la roba, no! – gli rispose il genero Burgioaccostandosi al letto e chinandosi sul malato come par-lasse a un bambino: – Anzi è per vostro amore che vo-gliamo farvi confessare e comunicare prima di chiuderegli occhi.

– Ah!… ah!… Non vi par l’ora!… Lasciatemi in pa-ce… lasciatemi!…

Giunse la sera e passò la notte a quel modo. MastroNunzio nell’ombra stava zitto e immobile, come un pez-zo di legno; soltanto ogni volta che gli facevano inghiot-tire a forza la medicina, gemeva, sputava, e lamentavasich’era amara come il veleno, ch’era morto, che non ve-devano l’ora di levarselo dinanzi. Infine, perché non loseccassero, voltò il naso contro il muro, e non si mossepiù. – Poteva essere mezzanotte, sebbene nessuno s’arri-schiasse ad aprire la finestra per guardar le stelle. – Spe-

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ranza ogni tanto s’accostava al malato in punta di piedi,lo toccava, lo chiamava adagio adagio; ma lui zitto. Poitornava a discorrere sottovoce col marito che aspettavatranquillamente, accoccolato sullo scalino, dormicchian-do. Gesualdo stava seduto dall’altra parte col mento frale mani. In fondo allo stanzone si udiva il russare di San-to. I nipoti erano già partiti colla roba, insieme agli altriinquilini e un gatto abbandonato s’aggirava miagolandoper la fattoria, come un’anima di Purgatorio: una cosache tutti alzavano il capo trasalendo, e si facevano lacroce al vedere quegli occhi che luccicavano nel buio,fra le travi del tetto e i buchi del muro; e sulla parete su-dicia vedevasi sempre l’ombra del berretto del vecchio,gigantesca, che non dava segno di vita. Poi, tre volte, siudì cantare la civetta.

Quando Dio volle, a giorno fatto, dopo un pezzo cheil giorno trapelava dalle fessure delle imposte e facevaimpallidire il lume posato sulla botte, Burgio si decisead aprire l’uscio. Era una giornata fosca, il cielo coperto,un gran silenzio per la pianura smorta e sassosa. Dei ca-solari nerastri qua e là, l’estremità del paese sulla collinain fondo, sembravano sorgere lentamente dalla caligine,deserti e silenziosi. Non un uccello, non un ronzìo, nonun alito di vento. Solo un fruscìo fuggì spaventato fra lestoppie all’affacciarsi che fece Burgio, sbadigliando estirandosi le braccia.

– Massaro Fortunato!… venite qua, venite! – chiamòin quel punto la moglie colla voce alterata.

Gesualdo chino sul lettuccio del genitore, lo chiama-va, scuotendolo. La sorella, arruffata, discinta, che sem-brava più gialla in quella luce scialba, preparavasi a stril-lare. Infine Burgio, dopo un momento, azzardò la suaopinione: – Signori miei, a me sembra morto di cent’an-ni.

Scoppiò allora la tragedia. Speranza cominciò a urlaree a graffiarsi la faccia. Santo, svegliato di soprassalto, si

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dava dei pugni in testa, fregandosi gli occhi, piangendocome un ragazzo. Il più turbato di tutti però era donGesualdo, sebbene non dicesse nulla, guardando il mor-to che guardava lui colla coda dell’occhio appannato.Poi gli baciò la mano, e gli coprì la faccia col lenzuolo.Speranza, inconsolabile, minacciava di correre al paeseper buttarsi nella cisterna, di lasciarsi morir di fame: –Cosa ci fo più al mondo adesso? Ho perso il mio soste-gno! la colonna della casa! – Quel piagnisteo durò lagiornata intera. Inutilmente il marito per consolarla lediceva che don Gesualdo non li avrebbe abbandonati.Erano tutti figli suoi, orfanelli bisognosi. Santo col visosudicio guardava or questo e or quello come aprivanobocca. – No! – s’ostinava Speranza. – E’ morto, ora, miopadre! Non c’è nessuno che pensi a noi!

Gesualdo che l’aveva lasciata sfogare un pezzo ten-tennando il capo, cogli occhi gonfi, le disse infine:

– Hai ragione!… Non ho fatto mai nulla per voial-tri!… Hai ragione di lagnarti della buona misura!…

– No, – interruppe Burgio. – No! Parole che scappa-no nel brucio, cognato.

Intanto bisognava pensare a seppellire il morto, senzaun cane che aiutasse, a pagarlo tant’oro! Un falegname,lì al Camemi, mise insieme alla meglio quattro asserelle amo’ di bara, e mastro Nardo scavò la buca dietro la casa.Poi Santo e don Gesualdo dovettero fare il resto colleloro mani. Burgio però stava a vedere da lontano, timo-roso del contagio, e sua moglie piagnucolava che non lebastava l’animo di toccare il morto. Le faceva male alcuore, sì! Dopo, asciugatisi gli occhi, rifatto il letto, ras-settata la casa, nel tempo che mastro Nardo preparava lecavalcature, e aspettavano seduti in crocchio, ella at-taccò il discorso serio.

– E ora, come restiamo intesi?Tutti quanti si guardarono in faccia a quell’esordio.

Massaro Fortunato tormentava la nappa della berretta, e

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Santo sgranò gli occhi. Don Gesualdo però non avevacapito l’antifona, col viso in aria, cercava il verbo.

– Come restiamo intesi? Perché? Di che cosa?– Per discorrere dei nostri interessi, eh? Per dividerci

l’eredità che ha lasciato quella buon’anima, tanto para-diso! Siamo tre figliuoli… Ciascuno la sua parte… se-condo vi dice la coscienza… Voi siete il maggiore, voifate le parti… e ciascuno di noi piglia la sua… Però se ciavete il testamento… Non dico… Allora tiratelo fuori, esi vedrà.

Don Gesualdo, che era don Gesualdo, rimase a boccaaperta a quel discorso. Stupefatto, cercava le parole, bal-bettava:

– L’eredità?… Il testamento?… La parte di che co-sa?…

Allora Speranza infuriò. – Come? Di questo si parla-va. Non erano tutti figli dello stesso padre? E il capodella casa chi era stato? Sinora aveva avuto le mani inpasta don Gesualdo, vendere, comprare… Ora, ciascu-no doveva avere la sua parte. Tutto quel ben di Dio,quelle belle terre, la Canziria, la Salonia stessa dove ave-vano i piedi, erano forse piovuti dal cielo? – Burgio, piùcalmo, metteva buone parole; diceva che non era quelloil momento, col morto ancora caldo. Tappava la boccaalla moglie; cacciava indietro il cognato Santo, il qualeaveva aperto tanto d’orecchi e vociava: – No, no, lascia-tela dire! – Infine volle che si abbracciassero, lì, nellastanza dove erano rimasti poveri orfanelli. Don Gesual-do era un galantuomo, un buon cuore. Non l’avrebbefatta una porcheria. – Non scappate! Sentite qua! Non èvero? Non siete un galantuomo?

– No! no! Lasciatemi sentire quello che pretendono.E’ meglio spiegarsi chiaro.

Ma la sorella non gli dava più retta, seduta su di unsasso, fuori dell’uscio, borbottando fra di sè. MassaroFortunato toccò pure degli altri tasti: il gastigo di Dio

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che avevano sulle spalle, l’ora che si faceva tarda. Intan-to mastro Nardo tirò fuori la mula dalla stalla. Rimaseroancora un pezzetto lì fuori a tenersi il broncio. Poi donGesualdo propose di condurseli tutti a Mangalavite. Ilcognato Burgio serrava l’uscio a chiave, e caricava sulbasto i pochi panni, che aveva raccolti in un fagottino.Speranza non rispose subito all’invito del fratello, sciori-nando lo scialle per accingersi alla partenza, guardandodi qua e di là, cogli occhi torvi. Infine spiattellò quel cheaveva sullo stomaco:

– A Mangalavite?… No, grazie tante!… Cosa ci ver-rei a fare… se dite che è roba vostra?… Sarebbe ancheun disturbo per vostra moglie e la figliuola… due signo-re avvezze a stare coi loro comodi… Noi poveretti ci ac-comodiamo alla meglio… Andremo alla Canziria. An-dremo piuttosto alla fornace del gesso che ha lasciatomio padre, buon’anima… Quella sì!… Colà almeno sa-remo a casa nostra. Non direte d’averla comperata coivostri guadagni la fornace del gesso!… No, no, sto zitta,massaro Fortunato! Se ne parlerà poi, chi campa. Chicampa tutto l’anno vede ogni festa. Vi saluto, don Ge-sualdo. Sarà quel che vuol Dio. Beato quel poverettoche adesso è tranquillo, sottoterra!…

Brontolava ancora ch’era già in viaggio, sballottatadall’ambio della cavalcatura, colla schiena curva, e ilvento che le gonfiava lo scialle dietro. Don Gesualdomontò a cavallo lui pure, e se ne andò dall’altra parte,col cuore grosso dell’ingratitudine che raccoglieva sem-pre, voltandosi indietro, di tanto in tanto, a guardare lafattoria rimasta chiusa e deserta, accanto alla buca anco-ra fresca, e la cavalcata dei suoi che si allontanavano infila, uno dopo l’altro, di già come punti neri nella cam-pagna brulla che s’andava oscurando. Dopo un pezzet-to, mastro Nardo che ci aveva pensato su, fece l’orazio-ne del morto:

– Poveretto! Ha lavorato tanto… per tirare su i fi-

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gliuoli… per lasciarli ricchi… Ora è sotto terra! Vi ram-mentate, vossignoria, quando è rovinato il ponte, a Fiu-megrande, e voleva annegarsi?… Ecco cos’è il mondo!Oggi a te, domani a me.

Il padrone gli rivolse un’occhiata brusca, e tagliò cor-to:

– Zitto, bestia!… Anche tu!…Potevano essere due ore di notte quando arrivarono

alla Fontana di don Cosimo, con una bella sera stellata,il cielo tutto che sembrava formicolare attorno a Budar-turo, sulla distesa dei piani e dei monti che s’accennavaconfusamente. La mula, sentendo la stalla vicina, si misea ragliare. Allora abbaiarono dei cani; laggiù in fondocomparvero dei lumi in mezzo all’ombra più fitta deglialberi che circondavano la casina, e s’udirono delle voci,un calpestìo precipitoso come di gente che corresse;lungo il sentiero che saliva dalla valle si udì un fruscìo difoglie secche, dei sassi che precipitarono rimbalzando,quasi alcuno s’inerpicasse cautamente. Poi silenzio. Aun tratto, dal buio, sul limite del boschetto, partì unavoce:

– Ehi, don Gesualdo?– Ehi, Nanni, che c’è?Compare Nanni non rispose, mettendosi a cammina-

re accanto alla mula. Dopo un momento masticò sotto-voce, quasi a malincuore:

– C’è che son qui per guardarvi le spalle!Don Gesualdo non chiese altro. Scendevano per la

viottola in fila. Nanni l’Orbo aggiunse soltanto, di lì a unpo’: – Si fece la festa, eh? – E come il padrone continua-va a tacere, conchiuse: – L’ho capito alla cera che avete,vossignoria. Mondo di guai!… L’uno dopo l’altro! –Giunti alla fontana infine disse:

– Smontiamo qui, eh? Mastro Nardo se ne andrà pelviale colle cavalcature, e noi da questa parte, per far piùpresto.

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Don Gesualdo capì subito, e non se lo fece dire duevolte. Andavano in silenzio, lungo il muro, quasi ci ve-dessero al buio. A un certo punto l’Orbo accennò dellepietre sparse per terra, una specie di breccia fra le spineche coronavano il muro, e disse piano: – Vedete, vossi-gnoria? – L’altro affermò col capo, e scavalcò il chiuso.Nanni l’Orbo coll’acciarino accese un zolfanello e anda-rono seguendo le pedate passo passo, sino alla casina.Sotto la finestra di donna Isabella l’Orbo additò in silen-zio l’erba ch’era tutta pesta, quasi ci si fossero davverosdraiati degli asini.

– I cani poi come fossero alloppiati! – osservò compa-re Nanni con quel fare misterioso. – Se non ero io, cheho l’orecchio fino… Dicevo a Diodata: Finché manca ilpadrone bisogna stare coll’orecchio teso, per guardarglile spalle… Allora ho mandato Nunzio sul ponticello,mentre io con Gesualdo arrivavo dalla parte del palmen-to… Sissignore dov’è alloggiata donna Sarina col nipo-te… Se i cani sono stati zitti, dicevo fra di me…

– Va bene. Adesso taci. Di lassù potrebbero udirti.Il giorno dopo, ricevendo le visite di condoglianza,

vestito di nero, colla barba lunga, appena donna Sarinaebbe fatto l’elogio del morto e del vivo, asciugandosi gliocchi, rimboccandosi le maniche per correre in cucinaad aiutare in quello scompiglio, don Gesualdo la fermònell’andito, senza tanti complimenti.

– Sapete, donna Sarina?… il servizio che dovreste far-mi sarebbe d’andarvene. Patti chiari e amici cari, non èvero? Ho bisogno di quelle due stanze… pei miei moti-vi. Sinora non vi ho detto nulla. Ma voi avrete ammiratola mia prudenza, eh?

La Cirmena diventò verde. S’aggiustò il vestito, sorri-dendo, pigliandola con disinvoltura: – Bene, bene. Hocapito. Una volta che vi servono quelle due stanzuccie…Se avete i vostri motivi… Anche subito, su due piedi…colèra o no!… La gente non ha da dire se me ne manda-

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te via in mezzo al colèra!… Siete il padrone. Ciascuno sai fatti di casa sua. Soltanto, se permettete, vado prima asalutare mia nipote. Non so cosa potrebbero pensare seme ne andassi zitta zitta… Le male lingue, sapete!…

Bianca non arrivava a capacitarsi: – Come? andarsenevia? nel fitto del colèra? Perché? Cos’era stato? – La ziaCirmena adduceva diversi pretesti strambi: forza mag-giore; ciascuno ha i suoi motivi; interessi gravi di casa;Corrado aveva ricevuto una lettera urgentissima. – Glirincresce anche a lui, poveretto. Gli è arrivata fra capo ecollo. S’era tanto affezionato a questi luoghi… Anchepoco fa mi diceva: – Zia, oggi è l’ultima passeggiata cheandrò a fare alla sorgente… – Don Gesualdo, fuori deigangheri, tagliò corto a quei discorsi sciocchi.

– Scusate, donna Sarina. Mia moglie non capisce piùniente… Diventano tutti così nella sua famiglia… Dove-va toccare a me!…

Isabella invece s’era fatta pallida come un cadavere.Ma non si mosse, non disse nulla, una vera Trao, col vi-so fermo e impenetrabile. Ricambiava anche gli abbraccie i saluti affettuosi della zia, sforzandosi di sorridere,con una ruga sottile fra le ciglia. Poi, quando fu sola, aun tratto, con un gesto disperato, si strappò la gorgieri-na che la soffocava, con un’onda di sangue al volto, unabbarbagliamento improvviso dinanzi agli occhi, unafitta, uno spasimo acuto che la fece vacillare, annaspan-do, fuori di sé.

Voleva vederlo, l’ultima volta, a qualunque costo,quando tutti sarebbero stati a riposare, dopo mezzogior-no, e che alla casina non si moveva anima viva. La Ma-donna l’avrebbe aiutata: – La Madonna!… la Madon-na!… – Non diceva altro, con una confusione dolorosanelle idee, la testa in fiamme, il sole che le ardeva sul ca-po, gli occhi che le abbruciavano, una vampa nel cuoreche la mordeva, che le saliva alla testa, che l’accecava,che la faceva delirare: – Vederlo! a qualunque costo!…

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Domani non lo vedrò più!… più!… più!… – Non senti-va le spine; non sentiva i sassi del sentiero fuori manoche aveva preso per arrivare di nascosto sino a lui. An-sante, premendosi il petto colle mani, trasalendo a ognipasso, spiando il cammino con l’occhio ansioso. Un uc-celletto spaventato fuggì con uno strido acuto. La spia-nata era deserta, in un’ombra cupa. C’era un muricciuo-lo coperto d’edera triste, una piccola vasca abbandonatanella quale imputridivano delle piante acquatiche, e deiquadrati d’ortaggi polverosi al di là del muro, tagliati daiviali abbandonati che affogavano nel bosco irto di sec-cumi gialli. Da per tutto quel senso di abbandono, didesolazione, nella catasta di legna che marciva in un an-golo, nelle foglie fradicie ammucchiate sotto i noci,nell’acqua della sorgente la quale sembrava gemere stil-lando dai grappoli di capelvenere che tappezzavano lagrotta, come tante lagrime. Soltanto fra le erbacce delsentiero pel quale lui doveva venire, dei fiori umili dicardo che luccicavano al sole, delle bacche verdi che sipiegavano ondeggiando mollemente, e dicevano: Vieni!vieni! vieni! Attraversò guardinga il viale che scendevaalla casina, col cuore che le balzava alla gola, le battevanelle tempie, le toglieva il respiro. C’erano lì, fra le fogliesecche, accanto al muricciuolo dove lui s’era messo a se-dere tante volte, dei brani di carta abbruciacchiati, umi-dicci, che s’agitavano ancora quasi fossero cose vive; deifiammiferi spenti, delle foglie d’edera strappate, dei vir-gulti fatti in pezzettini minuti dalle mani febbrili di lui,nelle lunghe ore d’attesa, nel lavorìo macchinale dellefantasticherie. S’udiva il martellare di una scure in lonta-nanza; poi una canzone malinconica che si perdeva las-sù, nella viottola. Che agonìa lunga! Il sole abbandonavalentamente il sentiero; moriva pallido sulla rupe brulladi cui le forre sembravano più tristi, ed ella aspettava an-cora, aspettava sempre.

– Signor don Gesualdo… Venite qua, se permette-

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te… Ho da parlarvi. – Nanni l’Orbo, continuando achiamarlo, dall’aia, affettava di non poter mettere il pie-de nel cortile, coll’aria misteriosa, finchè il padroneandò a sentire quel che diavolo volesse, dandogli unabuona strapazzata, per cominciare:

– T’ho detto tante volte di non lasciarti vedere daqueste parti! Che diavolo!… Se lo fai apposta…

– Nossignore. Appunto, vi ho chiamato qui fuori.Dobbiamo parlare da solo a solo, per quel che ho da dir-vi… Qui nel giardino. Siamo aspettati.

C’erano infatti Nunzio e Gesualdo di Diodata, vestitida festa, colle mani in tasca, e un fazzolettino nero alcollo. Compare Nanni lo fece notare al padrone. – Ilsangue è sangue. Avete da ridirci? Tutti e due… hannovoluto portare il lutto alla buon’anima di vostro padre…per rispetto, senza secondi fini… Soltanto, vossignoriapotete aiutarli senza mettere mano alla tasca… Ecco, lo-ro vorrebbero a mezzadria quel pezzo di terra ch’è sottola fontana. Sono due bravi ragazzi, laboriosi. Vi somi-gliano, don Gesualdo… Se date loro qualche agevola-zione, pensate infine che non lo fate per degli estra-nei!…

Don Gesualdo tentennava, insospettito da una parted’esser preso così alla sprovvista, e cedendo nel tempoistesso, suo malgrado, a quella certa voce interna che gliandava ripicchiando dentro tutti gli argomenti messifuori da compare Nanni per persuaderlo. – Infine cosadomandavano?… del lavoro… Lui che poteva tanto!…Un affare di coscienza!… Avrebbe fatto un buon nego-zio anche… – A un certo punto l’Orbo propose di man-dare a chiamare Diodata perché dicesse la sua. Don Ge-sualdo allora, per levarsi quella noia, per sgravio dicoscienza, come diceva quell’altro fissando i due ragaz-zoni, che seguivano passo passo colle mani in tasca, sen-za aprir bocca, si lasciò scappare: – Be’… be’, se si parlasoltanto del pezzo di terra ch’è sotto la fontana… Senon fate come il riccio che poi allarga le spine…

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– Sissignore! Che vuol dire! – saltò su compare Nan-ni pigliandolo subito in parola. – Quello solo! Mezzasalma di terra in tutto. Possiamo andare a vedere. E’ quivicino. Vi metteremo i segnali sotto i vostri occhi, giac-ché siete qui, perchè non temiate che vi si rubi… Giu-sto!… ci abbiamo anche dei testimoni, vedete… La si-gnorina, lassù, sotto il gran noce…

Don Gesualdo guardò dove diceva l’Orbo, e sisbiancò subito in viso. A un tratto, mutò cera e maniera,e congedò tutti bruscamente:

– Va bene, ne parleremo… C’è tempo. Non si pigliacosì la gente pel collo, santo e santissimo! Ho detto di sì;ora andatevene!

I due giovani sgattaiolarono mogi mogi a quella sfu-riata, mentre Nanni si cacciava fra le macchie per goder-si la scena da lontano. Don Gesualdo saliva già in frettapel viale, come avesse vent’anni, sottosopra. Isabella selo vide comparire dinanzi all’improvviso con una facciache quasi la fece tramortire dallo spavento. Egli non ledisse nulla. Se la prese per mano, come una bambina, ese la portò a casa. Lei si lasciava condurre, come unamorta, col cuore morto, senza vedere, inciampando neisassi. Solo di tanto in tanto si cacciava la mano nei capel-li, quasi sentisse lì un gran smarrimento, un gran dolore.

Bianca al vederli arrivare a quel modo si mise a trema-re come una foglia. Il marito le consegnò la figliuola conun’occhiata terribile, tentennando il capo. Ma non dissenulla. Si mise a passeggiare per la stanza, asciugandositratto tratto col fazzoletto il fiele che ci aveva in bocca.Poi aprì l’uscio di colpo e se ne andò.

Girava da per tutto come un bue infuriato, sbattendogli usci, pigliandosela con chi gli capitava. Udivasi ovun-que la sua voce che faceva tremare la casa:

– Nardo, dove sei stato sino ad ora? T’avevo detto diportarmi quelle forbici alla vigna? – Non sono rientratiancora i puledri? Me li farà storpiare quell’animale di

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Brasi! Gli darò ora il fatto suo, appena torna! – Di’, San-toro? avete terminato di mietere i sommacchi lassù?…Cosa diavolo avete fatto dunque tutta la giornata?…Appena manca un momento il padrone!… Assassini!nemici salariati!… – Martino! il lume accendi, Martino,per mungere le pecore! Mi verserai per terra tutto il lat-te, così al buio, bestia!… – Ancora non hanno acceso illume lassù! Che fanno? Recitano il rosario?… Concetta!Concetta! Siamo ancora al buio! Cosa diavolo fate? Checasa, appena volto le spalle io!… Che succederà se iochiudo gli occhi?…

Dopo un po’ di tempo tornò a bussare all’uscio delledonne, e siccome non aprivano subito lo sfondò con uncalcio. Bianca allora si rivoltò inferocita, simile a unachioccia che difende i pulcini, con un viso che nessunole aveva mai visto; il viso stralunato dei Trao, in cui gliocchi luccicavano come quelli di una pazza sul pallore ela magrezza spaventosa, coprendo col suo il corpo dellafigliuola ch’era stesa bocconi sul letto, col viso nel guan-ciale, scossa da sussulti nervosi.

– Ah! me la volete uccidere dunque? Non vi basta?Non vi basta? Me la volete uccidere?

Non si riconosceva più, tanto che lo stesso don Ge-sualdo rimase sconcertato. Ora cercava di pigliarla collebuone, vinto da uno sconforto immenso, dall’amarezzadi tanta ingratitudine che gli saliva alla gola, colle ossarotte, il cuore nero come la pece.

– Avete ragione!… Io sono il tiranno! Ho il cuore e lapelle dura, io! Sono il bue da lavoro… Se m’ammazzo alavorare è per voialtri, capite? A me basterebbe un pez-zo di pane e formaggio… Vuol dire che ho lavorato perbuttare ogni cosa in bocca al lupo… il mio sangue e lamia roba!… Avete ragione!…

Bianca volle balbettare qualche parola. Allora egli sivoltò infuriato contro di lei, con le mani in aria, la boccaspalancata. Ma non disse nulla. Guardò la figliuola che

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si era appoggiata tutta tremante alla sponda del lettuc-cio, col viso gonfio, le trecce allentate; allora lasciò cade-re le braccia e si mise a passeggiare innanzi e indietroper la camera, picchiando le mani una sull’altra, soffian-do e sbuffando, cogli occhi a terra, quasi cercasse le pa-role, cercando le maniere che ci volevano per far capirela ragione a quelle teste dure.

– Via via, Isabella!… E’ una sciocchezza, capisci!…E’ una sciocchezza guastarsi il sangue… Non voglioguastarmi il sangue… Ho tanti altri guai! Ci ho il cuoregrosso!… Vorrei che tu vedessi un po’ quanti guai ci hoin testa!… Ti metteresti a ridere, com’è vero Dio!… Ve-dresti che sciocchezza è tutto il resto!… Ancora sei gio-vane… Certe cose non le capisci… Il mondo, vedi, èuna manica di ladri… Tutti che fanno: levati di lì e dam-mi il fatto tuo… Ognuno cerca il suo guadagno… Vedi,vedi… te lo dico?… Se tu non avessi nulla, nessuno tiseccherebbe… E’ un negozio, capisci?… Il modo d’assi-curarsi il pane per tutta la vita. Uno che è povero, uomoo donna, sia detto senza offendere nessuno, s’industriacome può… Gira l’occhio intorno; vede quello che fa-rebbe al caso suo… e allora mette in opera tutti i mezziper arrivarci, ciascuno come può… Uno, poniamo, cimette il casato, e un altro quello che sa fare di meglio…le belle parole, le occhiate tenere… Ma chi ha giudizio,dall’altra parte, deve badare ai suoi interessi… Vedi co-me son sciocchi quelli che piangono e si disperano?…

Il discorso gli morì in bocca dinanzi al viso pallido eagli occhi stralunati coi quali lo guardava la figliuola.Anche la moglie non sapeva dir altro:

– Lasciatela stare!… Non vedete com’è?…– Come una sciocca è!… – gridò mastro-don Gesual-

do uscendo finalmente fuori dai gangheri. – Come unache non sa e non vuol sapere!… Ma io non sarò sciocco,no!… Io lo so quello che vuol dire!…

E se ne andò infuriato.

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IV

Cessata la paura del colèra, appena ritornato in paese,don Gesualdo s’era vista arrivare la citazione della sorel-la, autorizzata dal marito Burgio, che voleva la sua partedell’eredità paterna – di tutto ciò che egli possedeva –una bricconata; adducendo che quei beni erano stati ac-quistati coi guadagni della società, di cui era a capo ma-stro Nunzio; e che adesso voleva appropriarsi tutto lui,Gesualdo, – lui che li aveva avuti tutti quanti sulle spal-le, sino a quel giorno! che aveva dovuto chinare il capoalle speculazioni sbagliate del padre! ch’era stato laprovvidenza del cognato Burgio nelle malannate! chepagava i debiti del fratello Santo all’osteria di Pecu-Pe-cu! – anche Santo lo citava per avere la sua quota, avevafatto parte della società anche lui, quel fannullone! –Ora lo svillaneggiavano per mezzo d’usciere; gli davanodel ladro; volevano mettere i sigilli; sequestrargli la roba.Lo trascinavano fra le liti, gli avvocati, i procuratori – unsacco di spese, tanti bocconi amari, tanta perdita di tem-po, tanti altri affari che ne andavano di mezzo, i suoi ne-mici che c’ingrassavano – nei caffè e nelle spezierie nonsi parlava d’altro – tutti addosso a lui perch’era ricco, epigliando le difese dei suoi parenti che non avevano nul-la! Il notaro Neri gli faceva anche l’avvocato contrario,gratis et amore, per le questioni vecchie e nuove che era-no state fra di loro. Speranza l’aspettava sulle scale delpretorio per vomitargli addosso degli improperii, aiz-zandogli contro i figliuoli grandi e grossi inutilmente,aizzandogli contro Santo che non aveva faccia veramen-te di pigliarsela con don Gesualdo e cercava di sfuggirlo.– Siete tutti quanti dei capponi! tale e quale mio mari-to!… Io sola dovrei portare i calzoni qui! Non mi tengose non lo mando in galera, quel ladro! Venderò la cami-cia che ho indosso. Voglio il fatto mio, il sangue di mio

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padre… – Fu peggio ancora la prima volta che il giudicele diede causa persa: – Signori miei, guardate un po’!…Tutto si compra coi denari al giorno d’oggi!… Ma ricor-rerò sino a Palermo, sino al re, se c’è giustizia a questomondo!… – Il barone Zacco, siccome allora aveva in te-sta di combinare certo negozio con don Gesualdo, s’in-tromise a farla da paciere. Una domenica riunì in casasua tutti i Motta, compreso il marito di comare Speranzach’era una bestia, e non sapeva dire le sue ragioni. San-to, costretto a trovarsi faccia a faccia con suo fratellodon Gesualdo, cominciò dallo scusarsi:

– Che vuoi?… Io non ci ho colpa. Mi condusserodall’avvocato… Cosa dovevo fare?… Perché l’abbiamochiesto il consiglio dell’avvocato?… Quello che mi dicel’avvocato io fo…

Don Gesualdo si mostrava arrendevole. Non che cifosse obbligato, no! – la legge lui la conosceva. – Ma perbuon cuore. Il bene che aveva potuto fare ai suoi paren-ti l’aveva sempre fatto, e voleva continuare a farlo. Lì unbattibecco di prove e controprove che non finivano più.Speranza, che vedeva sfumare la sua parte dell’eredità sesi parlava di buon cuore, se la pigliava col marito e coifigliuoli i quali non sapevano difendersi. Anche Santostava zitto, come un ragazzo che ne ha fatta una grossa.Fortuna che c’era lei, a dire il fatto suo:

– Che volete darci, la limosina? Qualche salma di gra-no a comodo vostro, di tanto in tanto? qualche salma divino, quello che non potete vendere?

– Cosa vuoi che ti dia, l’Alìa o Donninga? Vuoi chemi spogli io per empire il gozzo a voialtri che non avetefatto nulla? Ho figli. La roba non posso toccarla…

– La roba tua?… sentite quest’altra! Allora vuol direche nostro padre buon’anima non ha lasciato nulla? E ilnegozio del gesso che avevate in comune? E quandoavete preso insieme l’appalto del ponte? Nulla è rimastoalla buon’anima? I guadagni sono stati di voi solo? per

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comprare delle belle tenute? quelle che volete appro-priarvi perché avete dei figliuoli?… C’è un Dio lassù,sentite!… Ciò che volete togliere di bocca a questi inno-centi, c’è già chi se lo mangia alla vostra barba! Andate avedere, la sera, sotto le vostre finestre, che passeggio!…

Finì in parapiglia. Il barone dovette mettersi a gridaree a fare il diavolo perché non si accapigliassero sedutastante, invece di rappacificarsi. Speranza se ne andò dauna parte ancora sbraitando, e don Gesualdo dall’altra,colla bocca amara, tormentato anche da quell’altra pul-ce che la sorella gli aveva messo nell’orecchio. Adesso,in mezzo a tanti guai e grattacapi, gli toccava pure doversorvegliare la figliuola e quell’assassino di Corrado LaGurna che la Cirmena per dispetto gli metteva fra i pie-di, lì in paese, a spese sue. Doveva tenere gli occhi aper-ti su ciascuno che andava e veniva, sulle serve, sui foglidi carta che mancavano, sulla figliuola la quale aveval’aria di chi ne cova una grossa, pallida allampanata… Cisi struggeva l’anima, la disgraziata! E lui doveva rodersiil fegato e mandar giù la bile, per non far di peggio. Unasera finalmente la sorprese alla finestra, con un tempoda lupi.

– Ah!… Continua la musica!… Che fai qui… a que-st’ora?… A prendere il fresco per l’estate? T’insegno ioa contar le stelle! Non m’hai visto ancora uscir dai gan-gheri! Gliel’insegno io a passeggiar di sera sotto le miefinestre, a certi cavalieri! Un fracco di legnate, se l’in-contro! M’hai visto finora colla bocca dolce; ma adessoti fo vedere anche l’amaro! Ti faccio arar diritto, cometiro l’aratro io!

Da quel giorno ci fu un casa del diavolo, mattina e se-ra. Don Gesualdo prese Isabella colle buone, colle catti-ve, per levarle dalla testa quella follìa; ma essa l’avevasempre lì nella ruga sempre fissa fra le ciglia, nella facciapallida, nelle labbra strette che non dicevano una paro-la, negli occhi grigi e ostinati dei Trao che dicevano in-

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vece – Sì, sì, a costo di morirne! – Non osava ribellarsiapertamente. Non si lagnava. Ci perdeva la giovinezza ela salute. Non mangiava più; ma non chinava il capo, te-starda, una vera Trao, colla testa dura dei Motta pergiunta. – Il pover’uomo era ridotto a farsi da sè l’esamedi coscienza. – Dei genitori quella ragazza aveva preso isoli difetti. Ma l’amore alla roba no! Il giudizio di capirechi le voleva bene e chi le voleva male, il giudizio di ba-dare ai suoi interessi, no! Non era neppure docile e ub-bidiente come sua madre. Gli aveva guastata ancheBianca! Anche costei, al vedere la sua creatura che di-ventava pelle e ossa, era diventata come una gatta che glisi vogliano rubare i figliuoli, col pelo irto, tale e quale –la schiena incurvata dalla malattia e gli occhi luccicantidi febbre. Gli sfoderava contro le unghie e la lingua. –Volete farla morire di mal sottile, la mia creatura? Nonvedete com’è ridotta? Non vedete che vi manca di gior-no in giorno? – L’avrebbe aiutata, sottomano, anche afare uno sproposito, anche a rompersi il collo. Avrebbetradito il marito per la sua creatura. Gli diceva: – Me nevo a stare da mio fratello! Io e la mia figliuola! Che vipare? – Cogli occhi di brace. Non l’aveva mai vista aquella maniera. Una volta, dietro al medico il quale veni-va per la ragazza, egli vide capitare una faccia che nongli piacque: una vecchia del vicinato che portava la me-dicina del farmacista, come don Luca il sagrestano e suamoglie Grazia portavano in casa Trao le sue imbasciateamorose. Era ridotto a passare in rivista le ricette delmedico e la carta delle pillole che mandava Bomma. Inun mese mutarono cinque donne di servizio. Era un tan-ghero lui, ma non era un minchione come i fratelli Trao.Teneva ogni cosa sotto chiave; non lasciava passare unbaiocco che potesse aiutare a fargli il tradimento. Era uncane alla catena anche lui, pover’uomo. Infine per to-gliersi da quell’inferno si decise a mettere Isabella inconvento, lì al Collegio di Maria, come quando era bam-

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bina, carcerata! Sua moglie ebbe un bel piangere e di-sperarsi. Il padrone era lui! – Sentite, – gli disse Biancacolle mani giunte, – io ho poco da penare. Ma lasciatemila mia figliuola, fino a quando avrò chiuso gli occhi.

– No! – rispose il marito. – Non ha neppure compas-sione di te quell’ingrata! Ci siamo ammazzati tutti perfarne un’ingrata! Ha perso l’amore ai parenti… lontanadi casa sua!

Il tradimento glielo fecero lì, al Collegio: dell’altragente beneficata da lui, la sorella di Gerbido che facevala portinaia, Giacalone che veniva a portare i regali dellazia Cirmena e faceva passare i bigliettini dalla ruota,Bomma che teneva conversazione aperta nella spezieriaper far comodo a don Corrado La Gurna, il quale met-tevasi subito a telegrafare, appena la ragazza saliva ap-posta sul campanile. Lo facevano per pochi baiocchi,per piacere, per niente, per inimicizia. Congiuravanotutti quanti contro di lui, per rubargli la figliuola e la ro-ba, come se lui l’avesse rubata agli altri. Un bel giornoinfine, mentre le monache erano salite in coro, che c’era-no le quarant’ore, la ragazza si fece aprir la porta daisuoi complici, e spiccò il volo.

Fu il due febbraio, giorno di Maria Vergine. C’era ungran concorso di devoti quell’anno alla festa, perchénon pioveva dall’ottobre. Don Gesualdo era andato inchiesa anche lui, a pregare Iddio che gli togliesse quellacroce d’addosso. Invece il Signore doveva aver voltati gliocchi dall’altra parte quella mattina. Appena tornò dallasanta Messa, quel giorno segnalato, trovò la casa sotto-sopra; sua moglie colle mani nei capelli, le serve che cor-revano di qua e di là. Infine gli narrarono l’accaduto. Fucome un colpo d’accidente. Dovettero mandare in frettae in furia pel barbiere e cavargli sangue. La gnà Lia sibuscò uno schiaffo tale da fracassarle i denti. Bianca piùmorta che viva scendeva le scale ruzzoloni, quasi perfuggirsene anche lei, dalla paura. Lui, paonazzo dalla

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collera, colla schiuma alla bocca, non ci vedeva dagli oc-chi. Non vedeva lo stato in cui era la poveretta. Volevacorrere dal giudice, dal sindaco, mettere sottosopra tut-to il paese; far venire la Compagnia d’Arme da Caltagi-rone; farli arrestare tutti e due, figliuola e complice; far-lo impiccare nella pubblica piazza, quel birbante! farlosquartare dal boia! fargli lasciare le ossa in fondo a uncarcere! – Quell’assassino! quel briccone! In galera vo-glio farlo morire!… tutti e due!…

In mezzo a quelle furie capitò la zia Cirmena, col li-bro da messa in mano, il sorriso placido, vestita di seta.

– Chetatevi, don Gesualdo. Vostra figlia è in luogo si-curo. Pura come Maria Immacolata! Chetatevi! Non fa-te scandali, ch’è peggio! Vedete vostra moglie, che parestia per rendere l’anima a Dio, poveretta! Lei è madre!Non possiamo sapere quello che ci ha nel cuore in que-sto momento! Sono venuta apposta per accomodar lafrittata. Io non ci ho il pelo nello stomaco, come tanti al-tri. Non so tener rancore. Sapete che mi sono sbracciatasempre pei parenti. Mi avete messo sulla strada… colcolèra… con un orfanello sulle spalle… Ma non impor-ta. Eccomi qua ad accomodare la faccenda. Ho il cuorebuono, tanto peggio! mio danno! Ma non so che farci!Ora bisogna pensare al riparo. Bisogna maritar quei dueragazzi, ora che il male è fatto. Non ci è più rimedio. Delresto sul giovane non avete che dire… di buona fami-glia.

Don Gesualdo stavolta le perse il rispetto addirittura,con tanto di bocca aperta, quasi volesse mangiarsela: –Con quel pezzente?… Dargli la mia figliuola?… Piutto-sto la faccio morire tisica come sua madre!… In campa-gna! in un convento! Bel negozio che mi portate!… dapari vostra!… Ci vuole una bella faccia tosta!… Mi fateridere con questa bella nobiltà… So quanto vale!… tuttiquanti siete!….

Successe un parapiglia. Donna Sarina sfoderò anche

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lei la sua lingua tagliente, rossa al pari di un gallo: – Par-late da quello che siete! Almeno dovevate tacere per ri-guardo a vostra moglie, villano! mastro-don Gesualdo!Siete la vergogna di tutto il parentado!…

– Ah! ah! la vergogna. Andate là che avete ragione aparlare di vergogna, voi!… mezzana! Ci avete tenutomano anche voi! Siete la complice di quel ladro!… Belmestiere alla vostra età! Vi farò arrestare insieme a lui,donna Sarina dei miei stivali! donna… cosa, dovrebberochiamarvi!

Sopraggiunse lo zio Limòli, nonostante i suoi acciac-chi, pel decoro della famiglia, per cercare di metter paceanche lui, colle buone e colle cattive. – Non fate scanda-li! Non strillate tanto, ch’è peggio! I panni sporchi si la-vano in casa. Vediamo piuttosto d’accomodare questopasticcio. Il pasticcio è fatto, caro mio, e bisogna dige-rirselo in santa pace. Bianca! Bianca, non far così che tirovini la salute… Non giova a nulla…

Don Gesualdo partì subito a rompicollo per Caltagi-rone. Voleva l’ordine d’arresto, voleva la Compagniad’Arme. Lo zio marchese dal canto suo provvide a quel-lo che c’era di meglio da fare, con prudenza ed accorgi-mento. Prima di tutto andò a prendere subito la nipote,e l’accompagnò al monastero di Santa Teresa, racco-mandandola a una sua parente. La gente di casa, un po’colle minacce, un po’ col denaro, furono messi a tacere.Poco dopo giunse come un fulmine da Caltagirone l’or-dine d’arresto per Corrado La Gurna. Donna SarinaCirmena, impaurita, tenne la lingua a casa anche lei.

Intanto il marchese lavorava sottomano a cercare unmarito per Isabella. Era figlia unica; don Gesualdo peramore o per forza, avrebbe dovuto darle una bella dote;e colle sue numerose relazioni era certo di procurarle unbel partito. Ne scrisse ai suoi amici; ne parlò alle perso-ne che potevano aiutarlo in simili faccende, il canonicoLupi, il notaro Neri. Quest’ultimo gli scovò finalmente

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colui che faceva al caso: un gran signore di cui il notaroamministrava i possessi, alquanto dissestato è vero neisuoi affari, ingarbugliato fra liti e debiti, ma di gran fa-miglia, che avrebbe dato un bel nome alla discendenzadi mastro-don Gesualdo. Quando si venne poi a discor-rere della dote con quest’ultimo fu un altro par di mani-che. Lui non voleva lasciarsi mangiar vivo. Neanche unbaiocco! Il suo denaro se l’era guadagnato col sudoredella fronte, la vita intera. Non gli piaceva di lasciarsiaprir le vene per uno che doveva venire da Palermo abersi il sangue suo.

– Di dove volete che venga dunque, dalla luna? Caromio, queste son parole al vento. Sapete com’è? Vi portoun paragone a modo vostro, per farvi intendere ragione:La grandine che vi casca nella vigna… Una disgrazia chevi capita nell’armento… Bisogna mandare alla fiera lagiovenca che si è rotte le corna, e chiudere gli occhi sulprezzo. Bisogna chinare il capo, per amore o per forza.Del resto non avete altri figliuoli… Almeno sapete difarla una signorona!…

Il marchese nel tempo istesso andava a far visita allanipotina. La pigliava colle buone, col giudizio che civuole per toccare certi tasti: – Hai ragione! Piangi pureche hai ragione! Sfogati con me che capisco queste co-se… Un brucio, una cosa che sembra di morire! Tuo pa-dre non ne capisce nulla, poveretto. E’ stato sempre inmezzo ai suoi negozi, ai suoi villani… un po’ rozzo an-che, se vogliamo… Ma ha lavorato per te, per farti ricca.Tu, col nome di tua madre, e coi quattrini di lui, puoirappresentare la prima parte anche in una grande città,quando vorrai… Non qui, in questo buco… Qui misembra di soffocare anche a me. Sono stato giovane; meli son goduti anch’io i begli anni… Appunto ti dicevo…Capisco quello che devi averci adesso nel tuo cuoricino.Quando si è giovani pare che al mondo non ci debba es-sere altro che quello… Tuo padre ha preso la via stor-

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ta… Ma se lui si ostina a non darti nulla, neanche quelgiovane, poveretto, ne ha… E allora… se ti tocca scoparla casa… se lui deve tirare il diavolo per la coda… Saràun affar serio, intendi? Vengono le quistioni, i penti-menti, i musi lunghi. I musi lunghi imbruttiscono te elui, mia cara. Perché poi? con qual costrutto? Se tuo pa-dre ha detto di no, sarà di no, che non lo sposerai. Mori-rai qui, in questa specie d’ergastolo; ci consumerai i tuoibegli anni. Corrado rimarrà in esilio, ad arbitrio dellapolizia, finché vorrà tuo padre; egli ha le braccia lungheadesso… Nemmeno a chi vuoi bene gioveresti, se ti osti-ni. Tuo cugino ha bisogno d’aver la testa quieta, di lavo-rare in pace, per guadagnarsi da vivere onestamente…Invece potresti sposare un gran signore, e s’è vero chequel giovane ti vuol tanto bene dovrebbe esser contentolui pel primo. Quello si chiama amore… Un gran signo-re, capisci! Per ora non dirne nulla colle tue compa-gne… qui nel monastero sai creperebbero d’invidia…Ma so che c’è per aria il progetto di farti sposare un gransignore. Saresti principessa o duchessa! Altro che donnatal di tali! Carrozze, cavalli, palco a teatro tutte le sere,gioielli e vestiti quanti ne vuoi…Con quel bel visetto soio quante teste farai girare in una gran città! Quando sientra in una sala di ballo, scollacciata, coperta di brillan-ti, tutti che domandano: – Chi è quella bella signora?…– E si sente rispondere: la duchessa tale o la principessatal’altra!… – Via, vieni a veder tua madre ch’è ancoraammalata, poveretta! L’ha finita quel colpo! Sai ch’è dipoca salute!… Anche tuo padre t’aspetta a braccia aper-te. E’ un buon uomo, poveraccio! Un cuor d’oro, unoche s’è ammazzato a lavorare per farti ricca!… Adessotorna a casa… Poi si vedrà…

Quando finalmente lo zio marchese condusse dai ge-nitori la pecorella smarrita, fu una scena da far piangerei sassi. Isabella cadde ginocchioni dinanzi al letto dellamamma, che trovava così mutata, singhiozzando e do-

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mandandole perdono; mentre sua madre, poveretta,passava da uno svenimento all’altro, tanta era la consola-zione. Poi arrivò don Gesualdo, e stettero zitti tuttiquanti. Egli infine prese la parola, un po’ turbato anchelui, cogli occhi gonfi, ché il sangue infine non è acqua, eil cuore non l’aveva di sasso.

– Me l’hai fatta grossa! Questa non me la meritavo. Cisiamo tolto il pan di bocca, io e tua madre, per farti ric-ca!… Vedi com’è ridotta, poveraccia?… Se chiude gliocchi è un cadavere addirittura!… Ma sei il sangue no-stro, la nostra creatura, e ti abbiamo perdonato. Oranon se ne parli più.

Però Isabella ne parlava sempre collo zio marchese,colla zia Mèndola, colla zia Macrì, con tutti i parenti; datutti cercava aiuto, fin dal suo confessore, come unapazza, desolata, lavando dal piangere le pietre del con-fessionario. Tutti le dicevano: – Che possiamo farci, setuo padre non vuole? Lui è il padrone. Lui deve metterefuori i denari della dote. Lo fa pel tuo meglio; cerca iltuo vantaggio. Tutte quante si maritano come vogliono igenitori! – Il confessore stesso tirava fuori la volontà diDio. Anche la zia Cirmena, quando aveva visto che nonera bastata nemmeno la fuga a cavare i denari della dotedalle mani di don Gesualdo, s’era stretta nelle spalle:

– Che vuoi, mia cara? Io ho fatto il possibile. Ma sen-za denari non si canta Messa. Corrado non ha nulla – tunon hai nulla neppure, se tuo padre si ostina a dir dino… Fareste un bel matrimonio! Vedi com’è andata afinire? Che quel povero giovane ci ha rimesso anche lalibertà, pel capriccio di tuo padre! Lascialo stare in pacealmeno, perché adesso alle lettere che scrive ai parentiogni giorno tutte che piangono guai e vorrebbero dena-ri, in conclusione, è un affare serio!…

Il marchese Limòli poi gliela cantava su un altro tono:– Figliuola mia, quando uno non è ricco, non può

darsi il gusto di innamorarsi come vuole. Voialtri siete

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giovani tutti e due, e avete gli occhi chiusi. Non vedetealtro che una cosa sola! Bisogna vedere anche quello cheverrà poi, la pentola da mettere al fuoco, le camice darattoppare… Sarà un bel divertimento! Tu sei nata be-ne, per parte di madre, lo so anch’io. Ma vedi tua ma-dre, cos’ha dovuto fare, e tuo zio don Ferdinando, e iostesso!… Siamo tutti nati dalla costola di Adamo, fi-gliuola mia!… Anche Corrado è della costola d’Adamo.Ma i baiocchi li tiene tuo padre! Se non vuol darvene,andrete a scopar le strade tutti e due, e dopo un mese vipiglierete pei capelli. Invece puoi fare un gran matrimo-nio sfoggiarla da gran signora, in una gran città!… Do-po, quando avrai il cuoco in cucina, la carrozza chet’aspetta e le tue buone rendite garantite nell’atto dotale,potrai darti il lusso di pensare alle altre cose…

Verso la Pasqua giunse in paese il duca di Leyra, colpretesto di dar sesto ai suoi affari da quelle parti, chè neavevano tanto di bisogno. Era un bell’uomo, magro, ele-gante un po’ calvo, gentilissimo. Si cavava il cappello an-che per rispondere al saluto dei contadini. Aveva lo stes-so sorriso e le medesime maniere cortesi per tutti iseccatori dai quali fu tosto assediato, fin dal primo gior-no. Nel paese fu l’argomento di tutti i discorsi: Quel cheaveva detto; quel che era venuto a fare; quanto tempo sisarebbe fermato lì; quanti anni aveva. Le signore asseri-vano che non dimostrava più di quarant’anni. Il giornodella processione del Cristo risuscitato ci fu il Caffè deiNobili pieno zeppo di signore. Le Zacco con certi cap-pellini che facevano male agli occhi; la signora Capitanastecchita nel suo eterno lutto che la ringiovaniva, e la fa-ceva chiamare ancora la bella vedovella – da dieci anni,dacché era morto suo marito. – Le Margarone in grangala, verdi, rosse, gialle, svolazzanti di piume, di nastri,di ricciolini diventati neri col tempo, grasse da scoppia-re, color di mattone in viso. Tutte che cicalavano, e sidavano un gran da fare per dar nell’occhio ai signori fo-restieri. Il duca s’era tirato dietro lo zio balì, onde sem-

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brar più giovane – dicevano le male lingue: un vecchiet-to grasso e rubicondo che doveva lasciargli l’eredità, eintanto faceva la corte alle signore – come non sannofarla più al giorno d’oggi! – osservò la Capitana.

Sul più bello, mentre la statua dell’Evangelista corre-va balzelloni da Gesù a Maria, e il popolo gridava: vivaDio resuscitato! capitò la carrozza nuova di don Gesual-do Motta. Lui con la giamberga dai bottoni d’oro e il so-litario al petto della camicia, la moglie in gala anche lei,poveretta, che la veste nuova le piangeva addosso, al-lampanata, ridotta uno scheletro, e la figliuola con unvestito nuovo, fatto venire apposta da Palermo. La follasi apriva per lasciarli passare, senza bisogno di spintoni.Dei curiosi guardavano a bocca aperta. Lo stesso ducadomandò chi fossero: – Ah, una Trao! Si vede subito,quantunque abbia l’aria un po’ sofferente, povera signo-ra. – Il marchese Limòli ringraziava lui, con un cennodel capo, e lo presentò alla nipote. Il duca e il balì diLeyra fecero un gruppo a parte, sul marciapiede delCaffè dei Nobili, colla famiglia di don Gesualdo e ilmarchese Limòli. Tutt’intorno c’era un cerchio di sfac-cendati.

Il barone Zacco attaccò discorso col cocchiere perscavare cosa c’era sotto. Mèndola fingeva d’accarezzare icavalli. Canali ammiccava di qua e di là: – Guardate unpo’, signori miei, che ruota è il mondo! – Nessuno bada-va più alla processione. C’era un bisbiglio in tutto ilCaffè. Don Ninì Rubiera, da lontano, col cappello in ci-ma al bastone appoggiato alla spalla, si morsicava le lab-bra dal dispetto, pensando a quel che era toccato a luiinvece, donna Giuseppina Alòsi in moglie, una mandradi figliuoli, la lite per la casa che mastro-don Gesualdovoleva acchiapparsi col pretesto del debito, dopo tantotempo… La moglie al vederlo così stralunato, cogli oc-chi fissi addosso a sua cugina, gli piantò una gomitataaguzza nelle costole.

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– Quando volete finirla?… E’ uno scandalo!… I vo-stri figliuoli stessi che vi osservano! Vergogna!

– Ma sei pazza? – rispose lui. – Diavolo! Ho altro pelcapo adesso! Non vedi che ha già i capelli bianchi? ch’èuna mummia?… Sei pazza?

Egli pure era invecchiato, floscio, calvo, panciuto, ac-ceso in viso, colle gote ed il naso ricamati di filamentisanguigni che lo minacciavano della stessa malattia disua madre. Ora si guardavano come due estranei, lui eBianca, indifferenti, ciascuno coi suoi guai e i suoi inte-ressi pel capo. Anche le male lingue, dopo tanto tempo,avevano dimenticato le chiacchiere corse sui due cugini.Però invidiavano mastro-don Gesualdo il quale era arri-vato a quel posto, e donna Bianca che aveva fatto quelgran matrimonione. La sua figliuola sarebbe arrivatachissà dove! Donna Agrippina Macrì e le cugine Zaccosaettavano occhiate di fuoco sul cappellino eleganted’Isabella, e sui salamelecchi che le faceva il duca diLeyra, inguantato, con un cravattone di raso che gli reg-geva il bel capo signorile, giocherellando con un baston-cino sottile che aveva il pomo d’oro. La signora Capita-na fece osservare a don Mommino Neri, il quale eradiventato un rompicollo, dopo la storia della prima don-na:

– E’ inutile! Basta guardarlo un momento, per sapercon chi avete da fare. Dirà magari delle sciocchezzeadesso… Ma è il modo in cui le dice!… Ogni parola co-me se ve la mettesse in un vassoio…

Il signor duca andò poi a presentare i suoi omaggi incasa Motta. Don Gesualdo si fece trovare nel salottobuono. Avevano lavorato tutto il giorno a dar aria espolverare, le serve, lui, mastro Nardo. Il signor duca,colla parlantina sciolta, discorreva un po’ di tutto, diagricoltura col padrone di casa, di mode con le signore,di famiglie antiche col marchese Limòli. Egli aveva sullapunta delle dita tutto l’almanacco delle famiglie nobili

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dell’isola. Arrivò anche a confidare che la sua era origi-naria del paese. Desiderava fare il suo dovere con donFerdinando Trao, e visitare il palazzo, che doveva essereinteressantissimo. Con la ragazza, di sfuggita, lasciò ca-dere il discorso sulle opere allora in voga; raccontò qual-che fatterello della società; narrò aneddoti del tempo incui era a Palermo la corte, la regina Carolina, gli inglesi:un mondo di chiacchiere, come una lanterna magicanella quale passavano delle gran dame, del lusso e dellefeste. Nell’andarsene baciò la mano a donna Bianca. Perle scale, dal pollaio, sull’uscio della legnaia, tutta la gen-te di casa s’affollava per vederlo passare. Dopo, la seranon si fece altro che parlare di lui, in cucina, fin le serve,e mastro Nardo, il quale sgranava gli occhi.

Il balì di Leyra e il marchese Limòli poi avevano inta-volato un altro discorso, così, a fior di labbra, tenendosisulle generali. Il giorno dopo intervenne anche il duca, ilquale confessò prima di tutto ch’era innamorato dellaragazza, un vero fiorellino dei campi, una violetta nasco-sta; e dichiarò sorridendo, che quanto al resto… d’affarivoleva dire… non se n’era occupato mai, per sua disgra-zia!… non era il suo forte, e aveva pregato il notaro Ne-ri di far lui…

Un vero usuraio, quel notaro, sottile, avido, insaziabi-le. Don Gesualdo avrebbe preferito mille volte trattare ilnegozio faccia a faccia col genero, da galantuomini. –No, no, caro suocero. Non è la mia partita. Non me neintendo. Quello che farete voialtri sarà ben fatto. Quan-to a me, il tesoro che vi domando è vostra figlia.

Però le trattative tiravano in lungo. Mastro-don Ge-sualdo cercava difendere la sua roba, vederci chiaro inquella faccenda, toccar con mano che quanto ci mettevail signor genero nell’altro piatto della bilancia fosse tuttooro colato. Il duca aveva dei gran possessi, è vero, mezzacontea; ma dicevasi pure che ci fossero dei gran pasticci,delle liti, delle ipoteche. Del notaro Neri non poteva fi-

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darsi. L’altro sensale, il marchese Limòli, non aveva sa-puto badare nemmeno ai suoi interessi. Voleva intro-mettercisi il canonico Lupi, protestando l’amicizia anti-ca. Ma lui rispose: – Vi ringrazio! Grazie tante,canonico! Mi è bastato una volta sola! Non voglio abu-sare… – Tutti miravano alla sua roba. Ci furono dei tirae molla, delle difficoltà che sorgevano a ogni passo, dellevecchie carte in cui ci si smarriva. Intanto la figliuola,dall’altra parte, aveva sempre quell’altro in testa. Scon-giurava il babbo e la mamma che non volessero sacrifi-carla. Andava a piangere dai parenti, e a supplicare chel’aiutassero: – Non posso! non posso! – Ai piedi delconfessore aprì il suo cuore, tutto! il peccato mortale incui era!… – Quel servo di Dio non capiva nulla. Badavasolo a raccomandarle di non cascarci più e le metteva ilcuore in pace coll’assoluzione. La poveretta arrivò ascappare in casa dello zio Trao, onde buttarsi nelle suebraccia.

– Zio, tenetemi qui! Salvatemi voi. Non ho altri almondo! Sono sangue vostro. Non mi mandate via!

Don Ferdinando era malato, coll’asma. Non potevaparlare, non capiva nulla, del resto. Faceva dei gesti va-ghi colla mano scarna, e chiamava in aiuto Grazia, comeun bambino, sbigottito da ogni viso nuovo che vedesse.

– Sì, tenetemi qui in luogo di Grazia. Vi servirò collemie mani. Non mi mandate via. Vogliono maritarmi perforza!… in peccato mortale!…

Il vecchio allora ebbe come un ricordo negli occhi ap-pannati, nel viso smorto e rugoso. Tutti i peli grigi dellabarba ispida parvero trasalire.

– Anche tua madre s’è maritata per forza… Diegonon voleva… Vattene, ora… se no viene tuo padre acondurti via di qua!… Vattene, vattene…

Lo zio marchese, uomo di mondo, che ne sapeva piùdi tutti sulle chiacchiere raccolte a casaccio, prese aquattr’occhi don Gesualdo:

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– Insomma, volete capirla? Vostra figlia dovete mari-tarla subito. Datela a chi vi piace; ma non c’è tempo daperdere. Avete capito?

– Eh?… Come?… – balbettò il povero padre sbian-candosi in viso.

– Sicuro!… Avete trovato un galantuomo che se la pi-glia in buona fede… Ma non potete pretendere troppoinfine da lui!…

Talchè don Gesualdo, stretto da tutte le parti, tiratopei capelli, si lasciò aprir le vene, e mise il suo nome inlettere di scatola al contratto nuziale: Gesualdo Mottasotto la firma del genero che pigliava due righe: AlvaroFilippo Maria Ferdinando Gargantas di Leyra.

Da Palermo giunsero dei regali magnifici, dei gioiellie dei vestiti che asciugarono a poco a poco le lagrimedella sposa, uno sfoggio di grandezze che la pigliava co-me una vertigine, che chiamava un pallido sorriso finsulle labbra della mamma, e che lo zio marchese andavaspampanando da per tutto. Solo don Gesualdo borbot-tava di nascosto. Si aspettavano gran cose per quellosposalizio. La Capitana mandò un espresso a Cataniadal primo sarto. Le Zacco stettero otto giorni in casa acucire. Però alle nozze non fu invitato nessuno: gli sposivestiti da viaggio, i genitori, i testimoni, quattro candelee nessun altro, nella meschina chiesetta di Sant’Agata,dove s’era maritata Bianca. Quanti ricordi per la poveramadre, la quale pregava inginocchiata dinanzi a quell’al-tare, coi gomiti sulla seggiola e il viso fra le mani! Fuoriaspettava la lettiga che doveva portarsi via gli sposi. Fuuna delusione e un malumore generale fra i parenti e intutto il paese. Dei pettegolezzi e delle critiche che nonfinivano più intorno a quel matrimonio fatto come dinascosto. Della gente era andata a far visita ai Margaro-ne e in casa Alòsi, per vedere se la sposa era rossa o pal-lida. La Capitana aveva un bel fare, un bel cercare dinon darsi vinta, dicendo che quella era la moda di spo-

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sarsi adesso. Donna Agrippina rispose che a quel modonon le pareva nemmeno un sagramento, povera Isabel-la!… La Cirmena masticava altre cose fra i denti:

– Come sua madre!… Vedrete che sarà fortunata per-ché è figlia di sua madre!…

Ciolla che vide passare dalla piazza la lettiga si mise agridare:

– Gli sposi! Ecco la lettiga degli sposi che partono! –Poi andò a confidare di porta in porta, al Caffè, nellaspezieria di Bomma:

– E’ partita anche una lettera per don Corradino LaGurna… Sicuro! Una lettera per fuori regno. Me l’hafatta vedere il postino in segretezza. Non so che dicesse;ma non mi parve scrittura della Cirmena. Avrei pagatoqualche cosa per vedere che c’era scritto…

La lettera diceva tante belle cose, per mandare giù lapillola, lei e il cuginetto che si disperava e penava lonta-no.

«Addio! addio! Se ti ricordi di me, se pensi ancora ame, dovunque sarai, eccoti l’ultima parola di Isabellache amasti tanto! Ho resistito, ho lottato a lungo, ho sof-ferto… Ho pianto tanto! ho pianto tanto!… Addio!Partirò, andrò lontano… Nelle feste, in mezzo alle pom-pe della capitale, dovunque sarò… nessuno vedrà il pal-lore sotto la mia corona di duchessa… Nessuno sapràquel che mi porto nel cuore… sempre, sempre!… Ri-cordati! ricordati!…»

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PARTE QUARTA

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I

Erano appena trascorsi sei mesi, quando sopravven-nero altri guai a don Gesualdo. Isabella minacciava disuicidarsi; il genero aveva preso a viaggiare fuori regno,e faceva temere di voler intentare causa di separazione,per incompatibilità di carattere. Altre chiacchiere giun-sero in segreto sino al povero padre, il quale corse a rot-ta di collo alla villa di Carini, dov’era confinata la du-chessa per motivi di salute. Ritornò poi invecchiato didieci anni, pigliandosela colla moglie che non capivanulla, maledicendo in cuor suo la Cirmena e tutto il pa-rentado che gli dava soltanto bocconi amari, costretto acorrer dietro al notaio per accomodare la faccenda eplacare il signor genero a furia di denari. Fu un gran col-po pel poveretto. Tacque alla moglie il vero motivo, pernon affliggerla inutilmente; tenne tutto per sè; ma non sidava pace; parevagli che la gente lo segnasse a dito; sen-tivasi montare il sangue al viso quando ci pensava, dasolo, o anche se incontrava quell’infame della Cirmena.Lui era un villano; non c’era avvezzo a simili vergogne!Intanto la figlia duchessa gli costava un occhio. Prima ditutto le terre della Canziria, d’Alìa e Donninga che leaveva assegnato in dote, e gli facevano piangere il cuoreogni qualvolta tornava a vederle, date in affitto a questoe a quello, divise a pezzi e bocconi dopo tanti stenti du-rati a metterle insieme, mal tenute, mal coltivate, lonta-ne dall’occhio del padrone, quasi fossero di nessuno. Ditanto in tanto gli arrivavano pure all’orecchio altre malenuove che non gli lasciavano requie, come tafani, comevespe pungenti; dicevasi in paese che il signor duca viseminasse a due mani debiti fitti al pari della grandine,la medesima gramigna che devastava i suoi possessi e sipropagava ai beni della moglie peggio delle cavallette.Quella povera Canziria che era costata tante fatiche a

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don Gesualdo, tante privazioni, dove aveva sentito laprima volta il rimescolìo di mettere nella terra i piedi dipadrone! Donninga per cui si era tirato addosso l’odiodi tutto il paese! le buone terre dell’Alìa che aveva cova-to dieci anni cogli occhi, sera e mattina, le buone terre alsole, senza un sasso, e sciolte così che le mani vi sprofon-davano e le sentivano grasse e calde al pari della carneviva… tutto, tutto se ne andava in quella cancrena! Co-me Isabella aveva potuto stringere la penna colle suemani, e firmare tanti debiti? Maledetto il giorno in cui leaveva fatto imparare a scrivere! Sembravagli di vederstendere l’ombra delle ipoteche sulle terre che gli eranocostate tanti sudori, come una brinata di marzo, peggiodi un nebbione primaverile, che brucia il grano in erba.Due o tre volte, in circostanze gravi, era stato costretto alasciarsi cavar dell’altro sangue. Tutti i suoi risparmi sene andavano da quella vena aperta, le sue fatiche, il son-no della notte, tutto. E pure Isabella non era felice.L’aveva vista in tale stato, nella villa sontuosa di Carini!Indovinava ciò che doveva esserci sotto, quando essascriveva delle lettere che gli mettevano addosso la feb-bre, l’avvelenavano coll’odore sottile di quei fogliettistemmati, lui che aveva fatto il cuoio duro anche allamalaria. Il signor duca invece trattava simili negozi permezzo del notaro Neri – poichè non erano il suo forte. –E alla fine, quando mastro-don Gesualdo s’impennò sulserio, sbuffando, recalcitrando, gli fece dire:

– Si vede che mio suocero, poveretto, non sa quel checi vuole a mantenere la figliuola col decoro del nomeche porta…

– Il decoro?… Io me ne lustro gli stivali del decoro!Io mangio pane e cipolle per mantenere il lustro delladuchea! Diteglielo pure al signor genero! In pochi annis’è mangiato un patrimonio!

Fu un casa del diavolo. Donna Bianca, la quale era as-sai malandata, e sputava sangue ogni mattina, fece una

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ricaduta che in quindici giorni la condusse in fin di vita.Nel paese ormai si sapeva ch’era tisica: tutti così queiTrao! una famiglia che si estingueva per esaurimento,diceva il medico. Soltanto il marito, ch’era sempre fuori,in faccende, occupato dai suoi affari, con tanti pensieri etanti guai per la testa, si lusingava di farla guarire appe-na avrebbe potuto condursela a Mangalavite, inquell’aria balsamica che avrebbe fatto risuscitare unmorto. Essa sorrideva tristamente e non diceva nulla.

Era ridotta uno scheletro, docile e rassegnata al suodestino, senza aspettare o desiderare più nulla. Soltantoavrebbe voluto rivedere la figliuola. Suo marito glieloaveva anche promesso. Ma siccome erano in dissaporecol genero non ne aveva più parlato. Isabella promettevasempre di venire, da un autunno all’altro, ma non si de-cideva mai, come avesse giurato di non metterci più ipiedi in quel paese maledetto, e se lo fosse tolto dal cuo-re interamente. A misura che le mancavano le forze,Bianca sentiva dileguare anche quella speranza, come lavita che le sfuggiva, e sfogavasi a ruminare dei progettifuturi, vaneggiando, accendendosi in viso delle ultimefiamme vitali, con gli occhi velati di lagrime che voleva-no sembrare di tenerezza ed erano di sconforto: – Faròquesto! farò quell’altro! – Faceva come quegli uccellettiin gabbia i quali provano il canto della primavera chenon vedranno. Il letto le mangiava le carni; la febbre laconsumava a fuoco lento. Adesso, quand’era presa dallatosse, si metteva ad ansare, sfinita, colla bocca aperta, gliocchi smaniosi in fondo alle occhiaie che sembravanofonde fonde, brancicando colle povere braccia stecchitequasi volesse afferrarsi alla vita.

– Bene! – sospirò infine don Gesualdo che vedeva lamoglie in quello stato. – Farò anche questa!… Pagheròanche stavolta perché il signor duca ti faccia rivedere lafigliuola!… Già son fatto per portare il carico…

Il medico andava e veniva; provava tutti i rimedi, tut-

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te le sciocchezze che leggeva nei suoi libracci; c’era unconto spaventoso aperto dal farmacista. – Almeno gio-vassero a qualche cosa! – brontolava don Gesualdo. – Ionon guardo ai denari spesi per mia moglie; ma vogliospenderli perché le giovino e le si veggano in faccia…non già per provare i medicamenti nuovi come all’ospe-dale!… Ora che si sono messi in testa ch’io sia ricco, cia-scuno se ne giova pei suoi fini…

La prima volta però che s’arrischiò a fare velatamentequeste lagnanze allo stesso medico, Saleni, un altro dot-torone ch’era peggio di Tavuso, buon’anima, gli piantòin faccia gli occhiacci, e rispose burbero:

– Allora perché mi chiamate?Dovette anche pregarlo e scongiurarlo di continuare a

fare il comodo suo, quantunque non giovasse a nulla. Lavigilia dell’Immacolata parve proprio che la poveraBianca volesse rendere l’anima a Dio. Il marito ch’eraandato ad aspettare il medico sulla scala gli disse subito:

– Non mi piace, dottore! Stasera mia moglie non mipiace!

– Eh! ve ne accorgete soltanto adesso? A me è unpezzo che non mi piace. Credevo che l’aveste capita.

– Ma che non c’è rimedio, vossignoria? Fate tutto ciòche potete. Non guardate a spesa… I denari servono inqueste occasioni!…

– Ah, adesso me lo dite? Adesso capite la ragione?Me ne congratulo tanto!

Saleni ricominciò la commedia: il polso, la lingua,quattro chiacchiere seduto ai piedi del letto, col cappel-lo in testa e il bastone fra le gambe. Poi scrisse la solitaricetta, le solite porcherie che non giovavano a nulla, ese ne andò lasciando nei guai marito e moglie. La casaera diventata una spelonca. Tutti che vogavano alla lar-ga. Finanche le serve temevano del contagio. Zacco erail solo parente che si rammentasse di loro nella disgra-zia, dacchè avevano fatto società per l’appalto dello stra-

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done, tornati amici con don Gesualdo. Egli veniva ognigiorno insieme a tutta la famiglia, la baronessa impre-sciuttita e ubbidiente, le figliuole che empivano la came-ra, stagionate, grasse e prosperose che sfidavano le can-nonate. – Lui non aveva paura del contagio!Sciocchezze!… Poi, quando si tratta di parenti!… Quel-la sera aveva sentito dire in piazza che la cugina Biancastava peggio ed era giunto più presto del solito. – Per di-strarre un po’ don Gesualdo lo tirò nel vano del balco-ne, e cominciò a parlargli dei loro negozi.

– Volete ridere adesso? Il cugino Rubiera dirà all’astaper gli altri due tronchi di strada!… Sissignore! quellabestia!… Eh? eh? che ne dite?… Lui che non ha potutopagarvi ancora i denari della prima donna?… C’è l’in-ferno a causa vostra con la moglie che non vuol pagaredel suo!… I figliuoli sì, glieli ha portati in dote!… ma idenari vuol tenerseli per sé! E’ predestinato quel poverodon Ninì!… E sapete chi comparisce all’asta, eh? voletesaperlo?… Canali, figuratevi!… Canali che fa l’appalta-tore in società col barone Rubiera!… Ora s’è svegliata intutti quanti la fame del guadagno!… Eh?… Non avevoragione di dire?… Non ridete?…

Ma l’amico non gli dava retta, inquieto, coll’orecchiosempre teso dall’altra parte. Indi si alzò e andò a vederese Bianca avesse bisogno di qualche cosa. Essa non ave-va bisogno di nulla, guardando fisso con quegli occhi dicreatura innocente, recandosi alla bocca di tanto in tan-to il fazzoletto che ricacciava poi sotto il guanciale insie-me alla mano scarna. Le cugine Zacco stavano sedute ingiro dinanzi al letto, colle mani sul ventre. La mammaper rompere il silenzio balbettò timidamente:

– Sembra un po’ più calma… da che siam qui noi…Le figliuole a quelle parole guardarono tutte insieme,

e approvarono col capo.Il barone s’accostò al letto lui pure, dimostrando mol-

to interesse per l’ammalata:

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– Sì, sì, non c’è confronto!… l’occhio è più sveglio;anche la fisonomia è più animata… Si capisce!… uden-do discorrere intorno a lei… Bisogna distrarla, tenerleun po’ di conversazione… Per fortuna siete in buonemani. Il dottore sa il fatto suo. Poi, quando si hanno deimezzi!… quando non manca nulla! Ne conosco tanti al-tri invece… ben nati… di buona famiglia… cui mancadi giorno il pane e di notte la coperta!… vecchi e malati,senza medico né speziale…

Si chinò all’orecchio di don Gesualdo e spifferò il re-sto. Bianca l’udì o l’indovinò, con gli occhi luminosi chefissavano in volto la gente, e cavò di sotto il guanciale lamano scarna e pallida che sembrava quella di una bam-bina, per far segno al marito d’avvicinarsi. Don Gesual-do s’era chinato su di lei e accennava di sì col capo. Ilbarone vedendo che non era più il caso di misteri parlòchiaro:

– Non verrà! Don Ferdinando è diventato proprio unragazzo. Non capisce nulla, poveretto!… Bisogna com-patirlo. Diciamola qui, fra noi parenti… Che gli sarebbemancato?… Un cognato con tanto di cuore, come que-sto qui!…

L’inferma agitò di nuovo in aria quella mano che par-lava da sola.

– Eh? Che dice? Cosa vuole? – domandò il barone.Donna Lavinia, la maggiore delle ragazze, s’era alzata

premurosa per servirla in quel che occorresse. DonnaMarietta, l’altra sorella, tirò invece il papà per la falda.Bianca s’era chiusa in un silenzio che le affilò come uncoltello il viso smunto, sì che il barone stesso se ne avvi-de e mutò discorso.

– Domeneddio alle volte ci allunga i giorni per farciprovare altri guai… Parlo della baronessa Rubiera, po-veretta! Eh?… Vivere per vedersi disfare sotto i propriocchi la roba che s’è fatta!… senza poter dire una parolané muovere un dito… eh?… eh? Suo figlio è una bestia.

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La nuora gli conta i bocconi che mangia!… Com’è veroIddio! Non vede l’ora di levarsela dai piedi!… E lei, no!non vuole andarsene! Vuol vivere apposta per vederecome farà suo figlio a togliersi dal collo il debito e donGesualdo… Eh? Ho parlato or ora con vostro maritodei gran progetti che ha don Ninì pel capo…

Don Gesualdo stava zitto, sopra pensieri. Poi, sicco-me il barone aspettava la risposta della cugina Bianca,col risolino fisso in bocca, brontolò:

– No, non c’è tanto da ridere… Dietro il paraventodev’essere anche il canonico Lupi.

Zacco rimase interdetto: – Quel briccone? quell’intri-gante?… Come lo sapete?… Chi ve l’ha detto?…

– Nessuno. E’ un’idea mia. Ma vedrete che non m’in-ganno. Del resto non me ne importa nulla! Ho altro pelcapo adesso!

Ma il barone non si dava pace: – Che? Non ve ne im-porta? Grazie tante! Sapete cosa dicono pure? Che vo-gliono levarci di mano le terre del comune!… Diconoche stavolta hanno trovato il modo e la maniera… e chené voi né io potremo rimediarci, capite?…

Don Gesualdo si strinse nelle spalle. Sembrava chedavvero non gliene importasse nulla di nulla adesso. Ilbarone a poco a poco andò calmandosi, in mezzo al co-ro dei suoi che mormoravano sottovoce contro il cano-nico.

– Un intrigante!… un imbroglione!… Non si fa nullain paese che non voglia ficcarci il naso lui!… – DonnaMarietta, più prudente, tirò il babbo per la falda un’al-tra volta.

– Scusate! scusate! – aggiunse lui. – Si chiacchiera perdire qualche cosa… per distrarre l’ammalata… Non sisa di che parlare… Sapete voi cosa vanno narrando purei malintenzionati come Ciolla?… che fra otto giorni sifarà la rivoluzione… per spaventare i galantuomini… Virammentate, nel ventuno, eh? don Gesualdo?

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– Ah?… Che volete?… La rivoluzione adesso l’ho incasa!…

– Capisco, capisco… Ma infine, non mi pare…La baronessa, che parlava al bisogno, si rivolse a don

Gesualdo, con quella faccia di malaugurio, chiedendoglise alla duchessa avessero scritto di sua madre che era inquello stato… Bianca aveva l’orecchio fino degli amma-lati gravi. – No! no! Non c’è premura! – interruppeZacco. Intanto donna Lavinia si era alzata per andare aprendere un bicchier d’acqua. Come si udì suonare ilcampanello dell’uscio voleva anche correre a vedere chifosse.

– Una spada a due mani! – esclamò sottovoce il baro-ne, quasi facesse una confidenza, e sorridendo di com-piacimento. – Una ragazza che in casa vale un tesoro…Giudiziosa!… Per sua cugina Bianca poi si butterebbenel fuoco!… – La mamma sorrideva lei pure discreta-mente. In quella sopraggiunse la serva ad annunziareche c’era il barone Rubiera con la moglie.

– Lui? Ci vuole una bella faccia tosta!… – saltò su ilbarone cercando il cappello che teneva in testa. – Ve-drete che viene a parlarvi di ciò che v’ho detto! Non ciavete un’altra uscita?… per non vederlo in faccia, quellabestia!…

La sua famiglia toglieva commiato in fretta e in furiaal pari di lui, cercando gli scialli, rovesciando le seggiole,urtandosi fra di loro, quasi don Ninì stesse per irrompe-re a mano armata nella camera. La povera inferma,smarrita in quel parapiglia, si lasciò sfuggire con un filodi voce:

– Per l’amor di Dio… Non ne posso più!– No… Non potete farne a meno, cugina mia!… So-

no parenti anch’essi!… Vedrete che vengono apposta,onde approfittare dell’occasione… Finta di farvi una vi-sita… Piuttosto ce ne andremo noi… E’ giusto… Chiprima arriva al mulino…

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Ma i Rubiera non spuntavano ancora. Don Gesualdoandò nell’anticamera, dove seppe dalla serva che aspet-tavano nel salotto, come avevano sentito che c’erano iZacco…

– Meglio! – osservò il barone. – Vuol dire che deside-ra parlarvi a quattr’occhi, don Ninì!… Allora noi non cimoviamo. Restiamo a far compagnia alla cugina, intantoche voi fate gli affari vostri… Sentiremo poi cosa è venu-to a dirvi quello sciocco!

La serva aveva portato un lumicino nel salotto, e inquella semioscurità don Ninì sembrava addirittura enor-me, infagottato nel cappotto, con la sciarpa di lana sinoalle orecchie una zazzera sulla nuca che non tagliava si-no a maggio. Donna Giuseppina invece s’era aggobbita,aveva il viso floscio e grinzoso nel cappuccio rotondo, icapelli di un grigio sudicio mal pettinati, lisciati in frettacon le mani e fermati dal fazzoletto di seta che portavalegato sotto il mento, le mani corrose e nere, delle manidi buona massaia con le quali gesticolava per difenderegli interessi del marito, agitandosi nel cappottino semi-nato di pillacchere, che la copriva tutta quanta, mo-strando in tutta la persona l’incuria e la trascuragginedella signora ricca che non ha bisogno di parere, dellamoglie che ha cessato di far figliuoli e non deve neppurepiacere al marito. E sulla bocca sdentata teneva fisso unsorriso di povera, il sorriso umile di chi viene a sollecita-re un favore, mentre don Ninì cercava le parole, girandoil cappellaccio fra le mani, con quella sciarpa sino al na-so che gli dava un aspetto minaccioso. La moglie gli feceanimo con un’occhiata, e cominciò lei:

– Abbiamo sentito che la cugina sta male… Siam cor-si subito con Ninì… Infine siamo parenti… dello stessosangue… Le questioni… gl’interessi… si sa, in tutte lefamiglie… Ma ogni cosa deve mettersi da banda in certeoccasioni… Anche Ninì… poveretto, non si dava pa-ce… Diceva sempre… Infine vorrei sapere perché…

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Don Ninì approvava coi gesti e con tutta la personache aveva lasciato cadere sul canapè facendolo scric-chiolare; e subito intavolò il discorso per cui erano ve-nuti – sua moglie volle assolutamente che il cugino se-desse in mezzo, fra due fuochi. – Abbiamo quell’affaredel nuovo appalto, caro don Gesualdo. Perché dobbia-mo farci la guerra fra di noi, dico io? a vantaggio al-trui?… giacchè infine siamo parenti!…

– Sicuro! – interruppe la moglie. – Siamo venuti perquesto… Come sta la cugina?

– Come Dio vuole!… Come ci avessi il gastigo di Diosulle spalle!… Non ho testa di pensare agli affari ades-so…

– No, no, non voglio che ci pensiate… Appunto dice-vo… dovreste rimettervene a una persona di fiducia…Salvo l’interesse, ben inteso…

Don Ninì a un tratto si fece scuro in viso, cacciandosiall’indietro appuntandogli in faccia gli occhi sospettosi:

– Ditemi un po’ vi fidate voi di Zacco? Eh? vi fidate?Don Gesualdo malgrado il malumore che aveva in

corpo, mosse la bocca a riso, come a dire che non si fi-dava di nessuno.

– Bene! Se sapeste che roba è quell’uomo!… Ciò chediceva di voi, prima!… prima di essere pane e cacio convoi!… Che roba gli scappava di bocca!…

Donna Giuseppina, con le gote gonfie, stringeva lelabbra, quasi per non lasciarselo scappare neppur lei.

– Infine, lasciamo andare! Chiacchiera non macina almulino… E’ parente anche lui!… Dunque torniamo anoi. Perché ci facciamo la guerra? Perché facciamo cam-pare giudici ed avvocati alle nostre spalle? Cosa sonoquesti malumori fra parenti? Per quella miseria che videvo? Sì, una miseria! Per voi è una presa di tabacco…

– Scusate, scusate, anche per voi…Allora interloquì donna Giuseppina, contando mise-

rie, una famiglia numerosa, sua suocera, la baronessa,finché viveva lei…

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– Scusate… Non c’entra… E’ che i denari servono,sapete… I miei denari li ho dati a vostro marito.

Don Ninì prese a scusarsi, dinanzi alla moglie. Cer-to… i denari se li era fatti prestare… in un momento cheaveva persa la testa… Quando si è giovani… sarebbemeglio tagliarsela la testa, alle volte… Voleva pagare…col tempo… sino all’ultimo baiocco, senza liti, senza al-tre spese… appena chiudeva gli occhi sua madre… Maera giusto inasprirgli contro la baronessa, santo Dio?Farle commettere qualche bestialità?…

– Ah? – disse don Gesualdo. – Ah? – E guardò donnaGiuseppina come per chiedere perché non pagasse lei.

Don Ninì imbarazzato guardava ora lui ed ora la mo-glie. Essa infine interloquì, troncandogli la parola conun segno del fazzoletto che aveva tirato fuori dalla bor-sa.

– Non è questo soltanto… L’affare delle terre… Nonglie ne avete ancora parlato al cugino don Gesualdo?…

– Sì… l’affare delle terre comunali…– Lo so, – rispose don Gesualdo. – L’affitto scade in

agosto. Chi vorrà dire all’asta, poi…– No! no!… né voi né io ce le mangeremo.– Legge nuova! – interruppe donna Giuseppina con

un sorriso agro. – Le terre non si dànno più in affitto! Ilcomune le dà a censo… ai più poveri… Un bocconcinoper ciascuno… Saremo tutti possidenti nel paese, da quia un po’!… Non lo sapete?

Don Gesualdo drizzò le orecchie, mettendo da parteun momento i suoi guai. Indi abbozzò un sorriso svo-gliato.

– Come è vero Dio! – soggiunse il barone Rubiera. –Ho visto il progetto, sì, al palazzo di città! Dicono che ilcomune ci guadagna, e ciascuno avrà il suo pezzo di ter-ra.

Allora don Gesualdo cavò fuori la tabacchiera, fiu-tando un agguato.

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

– Cioè? cioè?– Don Gesualdo! – chiamò la serva dall’uscio. – Un

momento, vossignoria…– Fate, fate pure il comodo vostro! – disse donna

Giuseppina. – Non abbiamo premura. Aspetteremo.– La padrona! Vuol parlare con vossignoria!– Eh? Che vogliono? Che dicono? – L’assalirono su-

bito i Zacco appena don Gesualdo entrò nella stanzadell’inferma. – Son io che ho mandato a chiamarvi, –disse il barone col sorriso furbo.

Ma lui non rispose, chino sulla moglie, la quale s’aiu-tava cogli occhi e con quella povera mano pallida e scar-na che diceva per lei:

«No!… Non vi mettete con colui… se volete darmiretta una volta sola… Non vi mettete insieme con miocugino Rubiera, voi!… Guardate che vi parlo in puntodi morte!…»

Aveva la voce afonica, gli occhi che penetravano, cosìlucenti e fissi. Zacco che si era chinato anche lui sul lettoper udire, esclamò trionfante:

– Benedetta! parla come una che vede al di là! Nonfareste nulla di buono con quell’uomo! Una bestia! Unabanderuola! Ciò che vi dice vostra moglie in un momen-to come questo è vangelo, don Gesualdo! Ricordatevibene! Io mi farei scrupolo a non darle retta, in parolad’onore!…

– E donna Giuseppina? Finta, maligna!… – aggiunsela Zacco. – Ha abbreviato i giorni della suocera! Nonvede l’ora di levarsela dagli occhi!

– Andate, andate a sentire il resto. Qui ci siamo noi.Andateci pure, se no vi restano lì fino a domani!

Don Ninì stava ancora seduto sul canapè, sbuffandodal caldo nella sciarpa di lana, col cappello in testa; edonna Giuseppina si era alzata per osservare al buio legalanterie disposte in bell’ordine sui mobili: il servizioda caffè, i fiori di carta sotto le campane di cristallo,

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l’orologio che segnava sempre la stessa ora. Vedendodon Gesualdo di ritorno gli disse subito:

– Vi ha fatto chiamare il barone Zacco? Non c’eramotivo… Qui non si fanno misteri…

– Non si fanno misteri! – ripigliò il marito. – Si trattadi metterci d’accordo… tutti i bene intenzionati… Se èbene intenzionato anche lui… quel signore!…

– Ma, – osservò don Gesualdo. – se la cosa è come di-te, io non saprei che farci… Cosa volete da me?

Donna Giuseppina si era perfino trasformata in volto,appuntando in faccia a questo e a quello gli occhi comedue spilli, masticando un sorriso con la bocca nera. Cac-ciò indietro del tutto il marito, e si prese tutto per sé ilcugino Motta.

– Sì, il rimedio c’è!… c’è! – E stette un po’ a guardar-lo fisso per fare più colpo. Poscia, tenendo stretta laborsa fra le mani gli si accostò con una mossa dei fian-chi, in confidenza:

– Si tratta di far prendere le terre a gente nostra…sottomano… – disse il barone.

– No! no!… Lasciate che gli spieghi io… Le terre delcomune devono darsi a censo, eh? a pezzi e a bocconiperché ogni villano abbia la sua parte? Va bene! Lascia-moli fare. Anzi, mettiamo avanti, sottomano, degli altripretendenti… dei maestri di bottega, della gente chenon sa cosa farsene della terra e non ne caverà neppure idenari del censo. Ci hanno tutti lo stesso diritto, non èvero? Allora, con un po’ di giudizio, anticipando a que-sto e a quello una piccola somma… Loro falliscono incapo all’anno, e noi ci pigliamo la terra in compenso delcredito. Avete capito? Bisogna evitare per quanto si puòche ci mettano mano i villani. Quelli non se lo lascianoscappare mai più il loro pezzetto di terra. Ci lasciano leossa piuttosto!

Don Gesualdo si alzò di botto, colle narici aperte, lafaccia rianimata a un tratto, e si mise a passeggiare per la

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stanza. Poi, tornando in faccia ai due che s’erano alzatipure, sorpresi:

– Questa non viene da voi! – esclamò. – Questa èbuona! Questa so di dove viene!

– Ah! ah! capite? vedete?… – rispose il barone trion-fante. – Prima di tutto bisogna tappare la bocca a Nannil’Orbo… Col giudizio… con un po’ di denaro… senzafar torto a nessuno, ben inteso!… La giustizia…

– Voi che ci avete mano… Quello è un imbroglione,un arruffapopolo… capace di aizzarci contro tutto ilpaese. Voi che ci avete mano dovreste chiudergli la boc-ca.

Don Gesualdo tornò a sedersi, pentito d’essersi la-sciato trasportare dal primo movimento, grattandosi ilcapo.

Ma il barone Zacco, che stava di là coll’orecchio teso,non seppe più frenarsi.

– Scusate, scusate, signori miei! – disse entrando. – Sedisturbo… se avete da parlare in segreto… Me ne vo…– E si mise a sedere lui pure, col cappello in testa.

Tacquero tutti, ciascuno sbirciando sottecchi il com-pagno, don Ninì col naso dentro la sciarpa, sua mogliecolle labbra strette. Infine disse che le rincresceva tantodella malattia di Bianca. – Proprio! c’è un lutto nel pae-se. Ninì è un pezzo che mi predica: Giuseppina mia,dobbiamo andare a vedere come sta mia cugina… Gl’in-teressi sono una cosa, ma la parentela poi è un’altra…

– Dunque, – riprese don Gesualdo, – questa bellapensata di pigliarci sottomano le terre del comune chil’ha fatta?

Allora non fu più il caso di fingere. Donna Giuseppi-na tornò a discorrere del fermento che c’era in paese,della rivoluzione che minacciavano. Il barone Zacco siagitò, facendo segno col capo a don Gesualdo.

– Eh? eh? Cosa vi ho detto or ora?…– Infine… – conchiuse donna Giuseppina, – è meglio

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parlarci chiaro e darci la mano tutti quelli che abbiamoda perdere…

E tornò su quella birbonata di sminuzzare le terre delcomune fra i più poveri, in tante briciole, un pizzico perciascuno, che non fa male a nessuno!… Essa rideva cosìche le ballava il ventre dalla bile.

– Ah??? – esclamò il barone pavonazzo in viso, e co-gli occhi fuori dell’orbita. – Ah??? – E non disse altroDon Gesualdo rideva anche lui.

– Ah? voi ridete, ah?– Cosa volete che faccia? Non me ne importa nulla, vi

dico!Donna Giuseppina rimase stupefatta: – Come!…

voi!… – Quindi lo tirò in disparte, vicino al canteranodov’era l’orologio fermo, parlandogli piano, con le maninegli occhi. Don Gesualdo stava zitto, lisciandosi ilmento, con quel risolino calmo che faceva schiattare lagente. I due baroni da lontano tenevano gli occhi fissi sudi lui, come due mastini. Infine egli scosse il capo.

– No! no! Ditegli al canonico Lupi che denari non nemetto fuori più per simili pasticci. Le terre se le pigli chivuole… Io ho le mie…

Gli altri gli si rivoltarono contro tutti d’accordo, vo-ciando, eccitandosi l’un l’altro. Zacco, adesso che avevacapito di che si trattava, scalmanavasi più di tutti: – Unapensata seria! Da uomo con tanto di barba! Il migliormodo per evitare quella birbonata di dividere fra i nulla-tenenti i fondi del comune!… Capite?… Allora vuol di-re che il mio non è più mio, e ciascuno vuole la sua par-te!… – Don Gesualdo, duro, scrollava il capo; badava aripetere: – No! no! non mi ci pigliano! – Tutt’a un trattoil barone Zacco afferrò don Ninì per la sciarpa e lo spin-se verso il canapè quasi volesse mangiarselo, sussurran-dogli nell’orecchio:

– Volete sentirla? Volete che ve la canti? E’ segno chequello lì ci ha il suo fine per farci rimaner tutti quantisiamo con tanto di naso!… Lo conosco!…

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Le signore Zacco allo strepito s’erano affacciatesull’uscio dell’anticamera. Successe un istante d’imba-razzo fra i parenti. Zacco e don Ninì si calmarono dibotto, tornando cerimoniosi.

– Scusate! scusate! La cugina Bianca crederà chissàcosa, al sentirci gridare… per nulla poi!… – Zacco sorri-deva bonariamente, con la faccia ancora infocata. DonNinì s’avvolgeva di nuovo la sciarpa al collo. Sua moglie,col sorriso amabile lei pure, tolse commiato.

– Tanti saluti a donna Bianca… Non vogliamo distur-barla… Speriamo che la Madonna abbia a fare il mira-colo… – Don Ninì con la bocca coperta grugnì anchelui qualche parola che non potè udirsi. – Un momento.Vengo con voi, – esclamò Zacco. – E fingendo di cerca-re il cappello e la canna d’India s’accostò a don Gesual-do nel buio dell’anticamera.

– Sentite… Fate male, in parola d’onore! Quella èuna proposta seria!… Fate male a non intendervi col ba-rone Rubiera!…

– No, non voglio impicci!… Ho tanti altri fastidi pelcapo!… Poi, mia moglie ha detto di no. Avete udito voistesso.

Il barone stava per montare in furia davvero!– Ah!… vostra moglie?… Le date retta quando vi ac-

comoda! – Ma cambiò tono subito. – Del resto fatevoi!… Fate voi, amico mio!… Aspettate, don Ninì. Ve-niamo subito. – Sua moglie non la finiva più. Sembravache non potesse staccarsi dal letto dell’ammalata, rincal-zando la coperta, sprimacciandole il guanciale, metten-dole sotto mano il bicchier d’acqua e le medicine, con lafaccia lunga, sospirando, biasciando avemarie. Volevapure che restasse la sua ragazza ad assistere la notte, semai. Donna Lavinia acconsentiva di tutto cuore, dando-si da fare anche essa, premurosa, impadronendosi giàdelle chiavi, vigilando su tutto, come una padrona.

– No!… – mormorò Bianca con la voce rauca. –

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No!… Non ho bisogno di nessuno!… Non voglio nes-suno!…

Li seguiva per la camera con l’occhio inquieto, so-spettoso, diffidente, con un certo tono di rancore nellavoce cavernosa. Sforzavasi di mostrarsi più forte, solle-vandosi a stento sui gomiti tremanti, cogli omeri appun-tati che sembravano forare la camiciuola da notte. Po-scia, appena le Zacco se ne furono andate, ricaddesfinita, facendo segno al marito d’accostarsi.

– Sentite!… sentite!… Non le voglio più!… Non lefate venir più quelle donne… Si son messe in testa didarvi moglie… come se fossi già morta.

E col capo seguitava a far segno di sì, di sì, che nons’ingannava, col mento aguzzo nell’ombra della golainfossata, mentr’egli, chino su di lei, le parlava come auna bimba sorridendo, con gli occhi gonfi però.

– Vi portano in casa la Lavinia… Non vedono l’orache io chiuda gli occhi… – Lui protestava di no che nongliene importava nulla della Lavinia, che non voleva piùrimaritarsi, che ne aveva visti abbastanza dei guai. E lapoveretta stava ad ascoltarlo tutta contenta, cogli occhilustri che penetravano fin dentro, per vedere se dicessela verità.

– Sentite… ancora… un’altra cosa…Accennava sempre con la mano, poichè la voce le

mancava, quella voce che sembrava venire da lontano,gli occhi che si velavano a quando a quando di un’om-bra. Aveva fatto anche uno sforzo per sollevarsi, ondepassargli un braccio al collo, come non le restasse chelui per attaccarsi alla vita, agitando il viso che si era affi-lato maggiormente, quasi volesse nasconderglielo in pet-to, quasi volesse confessarsi con lui. Dopo un momentoallentò le braccia, col volto rigido e chiuso, colla vocemutata:

– Più tardi… Vi dirò poi… Ora non posso…

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II

Adesso tutto andava a rotta di collo per don Gesual-do; la casa in disordine; la gente di campagna, lontanodagli occhi del padrone, faceva quel che voleva; le stesseserve scappavano ad una ad una, temendo il contagiodella tisi; persino Mena, l’ultima che era rimasta pel bi-sogno, quando parlarono di farle lavare i panni dell’am-malata che la lavandaia rifiutavasi di portare al fiume, te-mendo di perdere le altre pratiche, disse chiaro il fattosuo:

– Don Gesualdo, scusate tanto, ma la mia pelle valequanto la vostra che siete ricco… Non vedete com’è ri-dotta vostra moglie?… Mal sottile è, Dio liberi! Io hopaura, e vi saluto tanto.

Dopo che s’erano ingrassati nella sua casa! Ora tuttil’abbandonavano quasi rovinasse, e non c’era neppurechi accendesse il lume. Sembrava quella notte alla Salo-nia, in cui aveva dovuto mettere colle sue mani il padrenel cataletto. Né denari né nulla giovava più. Allora donGesualdo si scoraggiò davvero. Non sapendo dove dardi capo, pensò agli amici antichi, quelli che si ricordanonel bisogno, e mandò a chiamare Diodata per dare unamano. Venne invece il marito di lei, sospettoso, guar-dandosi intorno, badando dove metteva i piedi, sputac-chiando di qua e di là:

– Quanto a me… anche la mia pelle, se la volete, donGesualdo!… Ma Diodata è madre di famiglia, lo sape-te… Se le capita qualche disgrazia, Dio ne liberi voi eme… Se piglia la malattia di vostra moglie… Siamo po-vera gente… Voi siete tanto ricco; ma io non avrei nep-pure di che pagarle il medico e lo speziale…

Insomma le solite litanie, la solita giaculatoria per ca-vargli dell’altro sangue. Finalmente, dopo un po’ di tirae molla, s’accordarono sul compenso. Gli toccava chiu-

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dere gli occhi e chinare il capo. Nanni l’Orbo, tutto con-tento del negozio che aveva fatto, conchiuse:

– Quanto a noi siete padrone anche della nostra pelle,don Gesualdo. Comandateci pure, di notte e di giorno.Vo a pigliare mia moglie e ve la porto.

Ma Bianca soffriva adesso di un altro male. Non vole-va vedersi Diodata per casa. Non pigliava nulla dalle suemani. – No!… tu, no!… Vattene via! Che sei venuta afare, tu? – Irritavasi contro quegli affamati che venivanoa mangiare alle sue spalle. Come s’affezionasse anche al-la roba, in quel punto; come si risvegliasse in lei un ran-core antico, una gelosia del marito che volevano rubarle,quella cattiva gente venuta apposta a chiuderle gli occhi,a impadronirsi di tutto il suo. Era diventata tale e qualeuna bambina, sospettosa irascibile, capricciosa. Si lagna-va che le mettessero qualche cosa nel brodo, che le cam-biassero le medicine. Ogni volta che si udiva il campa-nello dell’uscio c’era una scena. Diceva che mandavanovia la gente per non fargliela vedere.

– Ho sentito la voce di mio fratello don Ferdinan-do!… E’ arrivata una lettera di mia figlia, e non hannovoluto darmela!… – Il pensiero della figlia era un altrotormento. Isabella stava anch’essa poco bene, lontanotanto, un viaggio che l’avrebbe rovinata per sempre,scriveva suo marito. Del resto sapevano da un pezzo co-me Bianca si strascinasse fra letto e lettuccio, e nonavrebbero mai creduto la catastrofe così prossima. In-tanto la povera madre non sapeva darsi pace, e se la pi-gliava con don Gesualdo e con tutti quanti le stavano vi-cino. Ci voleva una pazienza da santi. Aveva un bel diresuo marito:

– Guarda!… Cosa diavolo ti viene in mente ades-so!… Anche la gelosia ti viene in mente!… – Essa avevacerte occhiate nere che non le aveva mai visto. Con certosuono che non le aveva mai udito nella voce rauca, essagli diceva:

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– Mi avete tolto mia figlia… anche adesso che sono inquesto stato!… Ve lo lascio per scrupolo di coscien-za!… – Oppure gli rinfacciava di averle messo fra i piediquell’altra gente… Oppure non rispondeva affatto, colviso rivolto al muro, implacabile.

Nanni l’Orbo s’era installato come un papa in casa didon Gesualdo. Mangiava e beveva. Veniva ogni giorno aempirsi la pancia. Diodata badava a quel che c’era da fa-re, e lui correva in piazza a spassarsela, a confabulare co-gli amici, a dir che ci voleva questo e si doveva farquell’altro, a difendere la causa della povera gente nellaquistione di spartirsi i feudi del comune, ciascuno il suopezzetto, come voleva Dio, e quanti figliuoli ogni galan-tuomo aveva sulle spalle, tante porzioni! Egli conoscevaanche per filo e per segno tutti i maneggi dei pezzi gros-si che cercavano appropriarsi le terre. Una volta attaccòuna gran discussione su quest’argomento con Canali, eandò a finire a pugni, adesso che non era più il tempodelle prepotenze e ognuno diceva le sue ragioni.

Il giorno dopo mastro Titta era andato da Canali a ra-dergli la barba, allorché suonarono il campanello e Ca-nali andò a vedere colla saponata al mento. Mentre affi-lava il rasoio, mastro Titta allungò il collo per semplicecuriosità, e vide Canali il quale parlava nell’anticameracon Gerbido, una faccia tutti e due da far tendere l’orec-chio a chiunque. Canali diceva a Gerbido: – Ma ti fidipoi? – E Gerbido rispose: – Oh!!! – Nient’altro.

Canali tornò a farsi la barba, tranquillo come nullafosse, e mastro Titta non ci pensò più. Soltanto la sera,non sapeva egli stesso il perché… un presentimento, ve-dendo Gerbido appostato alla cantonata della Masera,colla carabina sotto!… Gli tornarono in mente le paroledi poco prima.

– Chissà per chi è destinata quella pillola, Dio libe-ri!… – pensò fra di sé.

Già i tempi erano sospetti, e la gente s’era affrettata a

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casa prima che suonasse l’avemaria. Più in là incontran-do Nanni l’Orbo, che stava da quelle parti, il cuore glidisse che Gerbido aspettasse appunto lui.

– Che fate a quest’ora fuori, compare Nanni? – glidisse mastro Titta. – Venitevene a casa piuttosto, che fa-remo la strada insieme…

– No, mastro Titta, devo passare qui dal tabaccaio, epoi vo un momento a vedere Diodata, che è ad assisterela moglie di don Gesualdo.

– Fatemi questo piacere, compare Nanni! Venite acasa piuttosto! Il tabacco ve lo darò io, e da vostra mo-glie ci andrete domani. Non son tempi d’andare per lestrade a quest’ora!… Credete a me!…

L’altro la voltava in burla; diceva di non aver pauralui, che gli rubassero i denari che non aveva… L’aspet-tava sua moglie con un piatto di maccheroni… e tantealtre cose… Per un piatto di maccheroni, Dio liberi, cilasciò la pelle!

Appena mastro Titta udì il rumore della schioppetta-ta, due minuti dopo, disse fra sé: – Questa è compareNanni che se l’è presa.

Don Gesualdo quel giorno aveva avuto degli altri di-spiaceri. Speranza mandava l’usciere giusto quando sa-peva di fargli dare l’anima al diavolo. Non gli lasciavanorequie da anni ed anni, e gli avevano fatto incanutire icapelli con quella lite. Anche Speranza ci si era ridottasimile a una strega; ci s’era mangiata la chiusa e la vigna,stuzzicata da ciascuno che avesse avuto da dire con suofratello. Andava vituperandolo da per tutto. L’aspettavaapposta nella strada per vomitargli addosso delle ingiu-rie. Gli aizzava contro i figliuoli, poiché il marito nonvoleva guastarsi il sangue – era buono soltanto per por-tarsi la pancia a spasso nel paese, lui – e lo stesso Santo,allorchè aveva bisogno di denari, voltava casacca e simetteva dalla parte di Gesualdo, a sputare contro di leigli stessi improperi che aveva diretto al fratello: unabanderuola che girava a seconda del vento.

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

– E’ una vera bricconata, vedete, don Camillo! Mi ti-rano di queste sassate giusto mentre sono nei guai sinoal collo. Ho seminato bene e raccolgo male da tuttiquanti, vedete!

Don Camillo si strinse nelle spalle.– Scusate, don Gesualdo. Io fo l’ufficio mio. Perché

vi siete guastato col canonico Lupi?… Per l’appalto del-lo stradone!… per una cosa da nulla… Quello è un ser-vo di Dio che bisogna tenerselo amico… Ora soffia nelfuoco coi vostri parenti… Non voglio dir male di nessu-no; ma vi darà da fare, caro don Gesualdo!

E don Gesualdo stava zitto; curvava le spalle adessoche ciascuno gli diceva la sua, e chi poteva gli tirava lasassata. Come sapevasi che sua moglie stava peggio, ilmarchese Limòli era venuto a visitare la nipote, e ci ave-va condotto pure don Ferdinando, tutti e due a braccet-to, sorreggendosi a vicenda. – La morte e l’ignorante, –osservavano quanti li incontravano a quell’ora per lestrade, col fermento che c’era nel paese; e si facevano lacroce vedendo ancora al mondo don Ferdinando, conquella palandrana che non teneva più insieme. I duevecchi s’erano messi a sedere dinanzi al letto, col mentosul bastone, mentre don Gesualdo faceva la storia dellamalattia, e il cognato gli voltava la schiena senza dir nul-la, rivolto alla sorella, la quale guardava or questo ed oraquell’altro, poveretta, con quegli occhi che volevano farfesta a tutti quanti, allorché s’udì un vocìo per la strada,gente che correva strillando, quasi fosse scoppiata la ri-voluzione che s’aspettava. Tutt’a un tratto si udì bussareal portone e una voce che gridava:

– Comare Diodata, aprite! Correte, subito! Andate avedere, che vostro marito si è presa una schioppetta-ta!… lì, nella farmacia!…

Diodata corse così come si trovava, a testa scoperta,urlando per le strade. In un momento la casa di don Ge-sualdo fu tutta sottosopra. Venne anche il barone Zac-

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co, sospettoso, inquieto, masticando le parole, guardan-dosi dinanzi e di dietro prima d’aprir bocca.

– Avete visto? E’ fatta! Hanno ammazzato il marito diDiodata!

Don Gesualdo allora si lasciò scappare la pazienza.– Che ci posso fare io? Mi mancava anche questa!

Che diavolo volete da me?– Ah, cosa potete farci?… Scusate! Credevo che do-

veste ringraziarmi… se vengo subito ad avvertirvi… pelbene che vi voglio… da amico… da parente…

Intanto sopraggiungeva dell’altra gente. Zacco alloraandava a vedere chi fosse, socchiudendo l’uscio dell’an-ticamera. Ogni momento si udiva sbattere il portone,tanti scossoni per la povera ammalata. A un certo puntoZacco venne a dire, tutto stravolto:

– A Palermo c’è un casa del diavolo… La rivoluzio-ne… Vogliono farla anche qui… Quel briccone di Nan-ni l’Orbo doveva farsi ammazzare giusto adesso!…

Don Gesualdo continuava a stringersi nelle spalle, co-me uno che non gliene importa nulla oramai, tutto perla poveretta ch’era in fin di vita. Dopo un po’ giunserola moglie e le figlie del barone Zacco, vestite di casa, co-gli scialli giù pel dorso, le facce lunghe, senza salutarnessuno. Si vedeva ch’era finita. La baronessa andava aparlare ogni momento sottovoce col marito. Donna La-vinia s’impadronì delle chiavi. A quella vista don Ge-sualdo si sbiancò in viso. Non ebbe il coraggio neppuredi chiedere s’era giunta l’ora. Soltanto, cogli occhi lustriinterrogava tutti quanti, ad uno ad uno.

Ma gli rispondevano con delle mezze parole. Il baro-ne allungava il muso, sua moglie alzava gli occhi al cielo,colle mani giunte. Le ragazze, già prese dal sonno, stava-no zitte sedute nella stanza accanto a quella dov’eral’ammalata. Verso mezzanotte, come la poveretta s’erachetata a poco a poco, don Gesualdo voleva mandarli ariposare.

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

– No, – disse il barone, – non vi lasceremo solo questanotte.

Allora don Gesualdo non fiatò più, giacchè non c’erapiù speranza. Si mise a passeggiare in lungo e in largo, acapo chino, colle mani dietro la schiena. Di tanto in tan-to si chinava sul letto della moglie. Poi tornava a passeg-giare nella stanza vicina, borbottava fra di sè, scrollava ilcapo, si stringeva nelle spalle. Infine si rivolse a Zacco,colla voce piena di lagrime:

– Io direi di mandare a chiamare i suoi parenti… eh?don Ferdinando… Che ne dite voi?

Zacco fece una smorfia.– I suoi parenti?… Ah, va be-ne… Come volete… Domani… a giorno fatto…

Ma il pover’uomo non seppe più frenarsi, le parole glicuocevano dentro e sulle labbra.

– Capite?… Neanche farle vedere la figliuola per l’ul-tima volta! E’ un porco, quel signor duca! Tre mesi chescrive oggi verremo e domani verremo! Come se avessedovuto campar cent’anni quella poveretta! Dice bene ilproverbio: Lontano dagli occhi e lontano dal cuore. Ciha rubato la figlia e la dote, quell’assassino!

E continuò a sfogarsi così per un pezzo colla mogliedi Zacco, che era mamma anche lei, e accennava di sì,sforzandosi di tenere aperti gli occhi che le si chiudeva-no da soli. Egli, che non sentiva nè il sonno nè nulla, tor-nava a brontolare:

– Che notte! che nottata eterna! Com’è lunga questanotte,

Domeneddio! Appena spuntò il giorno aprì il balcone per chiamare

Nardo il manovale, e mandarlo da tutti i parenti, chèBianca, poveretta, stava assai male, se volevano vederla.Per la strada c’era un via vai straordinario, e laggiù inpiazza udivasi un gran sussurro. Mastro Nardo, al ritor-no, portò la notizia.

– Hanno fatto la rivoluzione. C’è la bandiera sul cam-panile.

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Don Gesualdo lo mandò al diavolo. Gliene importavaassai della rivoluzione adesso! L’aveva in casa la rivolu-zione adesso! Ma Zacco procurava di calmarlo.

– Prudenza, prudenza! Questi son tempi che ci vuolprudenza, caro amico.

Di lì a un po’ si udì bussare di nuovo al portone. DonGesualdo corse in persona ad aprire, credendo che fosseil medico o qualchedun’ altro di tutti coloro che avevamandato a chiamare. Invece si trovò di faccia il canoni-co Lupi, vestito di corto, con un cappellaccio a cencio, eil baronello Rubiera che se ne stava in disparte.

– Scusate, don Gesualdo… Non vogliamo disturbar-vi… Ma è un affare serio… Sentite qua…

Lo tirò nella stalla onde dirgli sottovoce il motivo percui erano venuti. Don Ninì da lontano, ancora imbron-cito, approvava col capo.

– S’ha da fare la dimostrazione, capite? Gridare chevogliamo Pio Nono e la libertà anche noi… Se no ci pi-gliano la mano i villani. Dovete esserci anche voi. Nondiamo cattivo esempio, santo Dio!

– Ah? La stessa canzone della Carboneria? – saltò sudon Gesualdo infuriato. – Vi ringrazio tanto, canonico!Non ne fo più di rivoluzioni! Bel guadagno che ci abbia-mo fatto a cominciare! Adesso ci hanno preso gusto, eogni po’ ve ne piantano un’altra per togliervi i denari ditasca. Oramai ho capito cos’è: Levati di lì, e dammi ilfatto tuo!

– Vuol dire che difendete il Borbone? Parlate chiaro.– Io difendo la mia roba, caro voi! Ho lavorato… col

mio sudore… Allora… va bene… Ma adesso non ho piùmotivo di fare il comodo di coloro che non hanno e nonposseggono…

– E allora ve la fanno a voi, capite! Vi saccheggiano lacasa e tutto!

Il canonico aggiunse che veniva nell’interesse di colo-ro che avevano da perdere e dovevano darsi la mano, in

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quel frangente, pel bene di tutti… Se no, non ci avrebbemesso i piedi in casa sua… dopo il tiro che gli aveva gio-cato per l’appalto dello stradone…

– Scusate! Giacché volete fare il sordo… Sapete cheavete tanti nemici! Invidiosi… quel che volete… Intantonon vi guardano di buon occhio… Dicono che sietepeggio degli altri, ora che avete dei denari. Questo è iltempo di spenderli, i denari, se volete salvar la pelle!

A quel punto prese la parola anche don Ninì:– Lo sapete che ci accusano di aver fatto uccidere

Nanni l’Orbo… per chiudergli la bocca… Voi pel pri-mo!… Mi dispiace che m’hanno visto venire con miamoglie, l’altra sera…

– Già, – osservò il canonico, – siamo giusti. Chi pote-va avere interesse che compare Nanni non chiacchieras-se tanto?… Una bocca d’inferno, signori miei! La storiadi Diodata la sa tutto il paese. Ora vi scatenano controanche i figliuoli… vedrete, don Gesualdo!

– Va bene, – rispose don Gesualdo. – Vi saluto. Nonposso lasciar mia moglie in quello stato per ascoltar levostre chiacchiere. – E volse loro le spalle.

– Ah, – soggiunse il canonico andandogli dietro super le scale. – Scusate, non ne sapevo nulla. Non crede-vo che fossimo già a questo punto…

Giacché erano lì non potevano fare a meno di salireun momento a veder donna Bianca, lui e il baronello.Don Ninì si fermò all’uscio col cappello in mano, senzadire una parola, e il canonico, che se ne intendeva, dopoun po’ fece cenno col capo a don Gesualdo, come a dir-gli di sì, ch’era ora.

– Io me ne vo, – disse don Ninì rimettendosi il cap-pello. – Scusatemi tanto, io non ci reggo.

C’era già don Ferdinando Trao al capezzale, comeuna mummia, e la zia Macrì, la quale asciugava il viso al-la nipote con un fazzoletto di tela fine. Le Zacco eranopallide della nottata persa, e donna Lavinia non si regge-

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va più in piedi. Sopraggiunse il marchese Limòli insiemeal confessore. Donna Agrippina allora li mise fuori tuttiquanti. Don Gesualdo, dietro a quell’uscio chiuso, sisentiva un gruppo alla gola, quasi gli togliessero primadel tempo la sua povera moglie.

– Ah!… – borbottò il marchese. – Che commedia,povera Bianca! Noi restiamo qui per assistere ogni gior-no alla commedia, eh, don Ferdinando!… Anche lamorte s’è scordata che ci siamo al mondo noi!…

Don Ferdinando stava a sentire, istupidito. Trattotratto guardava timidamente di sottecchi il cognato cheaveva gli occhi gonfi, la faccia gialla e ispida di peli, e fa-ceva atto d’andarsene, impaurito.

– No, – disse il marchese. – Non potete lasciare la so-rella in questo punto. Siete come un bambino, caspita!

Entrò in quel mentre il barone Mèndola, col fiato aidenti, cominciando dallo scusarsi a voce alta:

– Mi dispiace… Non ne sapevo nulla… Non crede-vo… – Poi, vedendosi intorno quei visi e quel silenzio,abbassò la voce e andò a finire il discorso in un angolo,all’orecchio del barone Zacco. Costui tornava a parlaredella nottata che avevano persa: le sue ragazze senzachiudere occhio, Lavinia che non si reggeva in piedi.Don Gesualdo guardava è vero stralunato di qua e di là,ma si vedeva che non gli dava retta. In quella tornò aduscire il prete, strascicando i piedi, con una commozio-ne che gli faceva tremar le labbra cadenti, povero vec-chio.

– Una santa!… – disse al marito. – Una santa addirit-tura!

Don Gesualdo affermò col capo, col cuore gonfio an-che lui. Bianca ora stava supina, cogli occhi sbarrati, ilviso come velato da un’ombra. Donna Agrippina prepa-rava l’altare sul comò, con la tovaglia damascata e i can-delieri d’argento. A che gli giovava adesso avere i cande-lieri d’argento? Don Ferdinando andava toccando ogni

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cosa, proprio come un bambino curioso. Infine si piantòritto dinanzi al letto, guardando la sorella che stava fa-cendo i conti con Domeneddio in quel momento, e simise a piangere e a singhiozzare. Piangevano tutti quan-ti. In quell’istante fece capolino dall’uscio donna SarinaCirmena, scalmanata, col manto alla rovescia, esitante,guardando intorno per vedere come l’avrebbero accolta,cominciando diggià a fregarsi gli occhi col fazzoletto ri-camato.

– Scusate! Perdonate! Io non ci ho il pelo nello sto-maco… Ho sentito che mia nipote… Il cuore l’ho qui,di carne!… L’ho tenuta come una figliuola!… Bian-ca!… Bianca!…

– No, zia! – disse donna Agrippina. – S’aspetta il via-tico. Non la disturbate adesso con pensieri mondani…

– E’ giusto, – disse donna Sarina. – Scusatemi, donGesualdo.

Dopo che si fu comunicata, Bianca parve un po’ piùcalma. L’affanno era cessato, e arrivò a balbettare qual-che parola. Ma aveva una voce che s’udiva appena.

– Vedete? – disse donna Agrippina. – Vedete, ora chesi è messa in grazia di Dio!… Alle volte il Signore fa ilmiracolo. – Le misero sul petto la reliquia della Madon-na. Donna Agrippina si tolse il cingolo della tonaca perficcarglielo sotto il guanciale. La zia Cirmena portavaesempi di guarigioni miracolose: tutto sta ad avere fedenei santi e nelle reliquie benedette: il Signore può farquesto ed altro. Lo stesso don Gesualdo allora si mise apiangere come un bambino.

– Anche lui! – borbottò donna Sarina, fingendo diparlare all’orecchio della Macrì. – Anche lui, il cuorenon l’ha cattivo in fondo. Non capisco però come Isa-bella non sia venuta… duchessa o no!… Mamme ne ab-biamo una sola!… Se bisognava fare tante storie per ar-rivare a questo bel risultato…

– E’ un porco!… un infame!… un assassino! – se-

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guitò a brontolare don Gesualdo, stralunato, colle lab-bra strette, gli occhi accesi che pareva un pazzo.

– Eh? che cosa? – domandò la Cirmena.– Ssst! ssst! – interruppe donna Agrippina.Il barone Mèndola si chinò all’orecchio di Zacco per

dirgli qualche cosa. L’altro scosse il testone arruffato egonfio due o tre volte. La baronessa approfittò del buonmomento per indurre don Gesualdo a pigliare un po’ diristoro dalle mani stesse di Lavinia. – Sì, un po’ di bro-do, due giorni che non apriva bocca il pover’uomo!…

Come passarono nella stanza accanto, che dava sullastrada, si udì da lontano un rumore che pareva del marein tempesta. Mèndola narrò allora quello che aveva vistonel venire.

– Sissignore! Hanno messo la bandiera sul campanile.Dicono ch’è il segno di abolire tutti i dazi e la fondia-

ria. Perciò or ora faranno la dimostrazione. Il procacciadelle lettere ha portato la notizia che a Palermo l’hannogià fatta… e anche in tutti i paesi lungo la strada. Sicchésarebbe una porcheria a non farla anche qui da noi…Infine cosa può costare? La banda, quattro palmi dimussolina… Guardate!… guardate!…

Dalla via del Rosario spuntava una bandiera tricolorein cima a una canna, e dietro una fiumana di gente chevociava e agitava braccia e cappelli in aria. Di tanto intanto partiva anche una schioppettata. Il marchese,ch’era sordo come una talpa, domandò:

– Eh? Che c’è?Il finimondo c’era! Don Gesualdo rimase colla chic-

chera in mano. S’udì in quel punto una forte scampanel-lata all’uscio, e Zacco corse a vedere. Dopo un momentosporse il capo dall’uscio dell’anticamera, e chiamò a vo-ce alta:

– Marchese! Marchese Limòli!Rimasero a discutere sottovoce nell’altra stanza. Pare-

va che il barone mettesse buone parole con un terzo che

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era arrivato allora, e il marchese andasse scaldandosi. –No! no! è una porcheria! – In quella rientrò Zacco, so-lo, col viso acceso.

– Sentite, don Gesualdo!… Un momento… una pa-rolina…

La folla era giunta lì, sotto la casa; si vedeva la bandie-ra all’altezza del balcone, quasi volesse entrare. Si udiva-no degli urli: viva, morte.

– Un momento! – esclamò allora Zacco, mettendo daparte ogni riguardo. – Affacciatevi un momento, donGesualdo! Fatevi vedere, se no succede qualche diavo-lo!…

C’era il canonico Lupi, che portava il ritratto di PioNono, il baronello Rubiera, giallo come un morto, sven-tolando il fazzoletto, tant’altra gente, tutti gridando:

– Viva!… abbasso!… morte!…Don Gesualdo, accasciato sulla seggiola, colla chic-

chera in mano, seguitava a scrollare il capo, a stringersinelle spalle, pallido come la camicia, ridotto un verocencio. Il marchese assolutamente voleva sapere cosacercasse quella gente, laggiù: – Eh? che cosa?

– Vogliono la vostra roba! – esclamò infine il baroneZacco fuori dei gangheri. Il marchese si mise a ridere di-cendo: – Padroni! padronissimi! – In quel momentopassò di furia donna Agrippina Macrì, colla tonaca co-lor pulce che le sbatteva dietro, e nella camera della mo-ribonda si udì un gran trambusto, seggiole rovesciate,donne che strillavano. Don Gesualdo s’alzò di botto, va-cillando, coi capelli irti, posò la chicchera sul tavolino, esi mise a passeggiare innanzi e indietro, fuori di sé, pic-chiando le mani l’una sull’altra e ripetendo:

– S’è fatta la festa!… s’è fatta!

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III

Giunse poco dopo una lettera d’Isabella la quale nonsapeva nulla ancora della catastrofe, e fece piangere glistessi sassi. Il duca scrisse anche lui – un foglietto conuna lista nera larga un dito, e il sigillo stemmato, pur es-so nero, che stringeva il cuore – inconsolabile per la per-dita della suocera. Diceva che alla duchessa s’era dovutonascondere la verità per consiglio degli stessi medici, vi-sto che sarebbe stato un colpo di fulmine, malaticciacom’era anch’essa, giusto alla vigilia di mettersi in viag-gio per andare a vedere sua madre!… Terminava chie-dendo per lei qualche ricordo della morta, una bazzeco-la, una ciocca di capelli, il libro da messa, l’anellinonuziale che soleva portare al dito…

Al notaro poi scrisse per chiedere se la defunta,buon’anima, avesse lasciati beni stradotali. – Si seppepoi da don Emanuele Fiorio, l’impiegato della posta, ilquale scovava i fatti di tutto il paese, giacché il notaronon rispose neppure, e solo con qualche intimo, bronto-lone come s’era fatto coll’età, andava dicendo:

– Mi pare che il signor duca sia ridotto a cercare la lu-na nel pozzo, mi pare!

La povera morta se n’era andata alla sepoltura in fret-ta, fra quattro ceri, nel subbuglio della gente ammutina-ta che voleva questo, e voleva quell’altro, stando in piaz-za dalla mattina alla sera, a bociare colle mani in tasca ela bocca aperta, aspettando la manna che doveva piove-re dal campanile imbandierato. Ciolla ch’era diventatoun pezzo grosso alfine, con una penna nera nel cappelloe un camiciotto di velluto che sembrava un bambino, aquell’età, passeggiava su e giù per la piazza, guardandodi qua e di là come a dire alla gente: – Ehi! badate a voiadesso! – Don Luca, portando la croce dinanzi alla bara,ammiccava gentilmente, per farsi strada fra la folla, e

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sorrideva ai conoscenti, come udiva lungo la via tuttiquei gloria che recitava la gente alle spalle di mastro-donGesualdo.

– Un brigante! un assassino! uno che s’era arricchito,mentre tanti altri erano rimasti poveri e pezzenti peggiodi prima! uno che aveva i magazzini pieni di roba, emandava ancora l’usciere in giro per raccogliere il debi-to degli altri. – A strillare più forte erano i debitori ches’erano mangiato il grano in erba prima della messe. Glirinfacciavano pure di essere il più tenace a non voler chegli altri si pigliassero le terre del comune, ciascuno il suopezzetto. Non si sapeva donde fosse partita l’accusa; maormai era cosa certa. Lo dicevano tutti: il canonico Lupiarmato sino ai denti, il barone Rubiera colla cacciatoradi fustagno, come un povero diavolo. Essi erano conti-nuamente in mezzo ai capannelli, alla mano e bonaccio-ni, col cuore sulle labbra: – Quel mastro-don Gesualdosempre lo stesso! aveva fatto morire la moglie senzaneppure chiamare un medico da Palermo! Una Trao!Una che l’aveva messo all’onore del mondo! A che l’eragiovato essere tanto ricca? – Il canonico si lasciava sfug-gire dell’altro ancora, in confidenza: Le stesse messe insuffragio dell’anima avevano lesinato alla poveretta! –Lo so di certo. Sono stato in sagrestia. Se non ha cuoreneppure pel sangue suo!… Non mi fate parlare, chè do-mattina devo dir messa! – Nobili e plebei, passato il pri-mo sbigottimento, erano diventati tutti una famiglia.Adesso i signori erano infervorati a difendere la libertà;preti e frati col crocifisso sul petto, o la coccarda di PioNono, e lo schioppo ad armacollo. Don Nicolino Mar-garone s’era fatto capitano, cogli speroni e il berrettogallonato. Donna Agrippina Macrì preparava filacce eparlava d’andare al campo, appena cominciava la guer-ra. La signora Capitana raccoglieva per la compera deifucili, vestita di tre colori, il casacchino rosso, la gonnel-la bianca, e un cappellino calabrese colle penne verdi

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ch’era un amore. Le altre dame ogni giorno portavanosassi alle barricate, fuori porta, coi canestrini ornati dinastri e la musica avanti. Sembrava una festa, mattina esera, con tutte quelle bandiere, quella folla per le strade,quelle grida di viva e di abbasso, ogni momento, loscampanìo, la banda che suonava, la luminaria più tardi.Le sole finestre che rimanessero chiuse erano quelle didon Gesualdo Motta. Lui il solo che se ne stesse rintana-to come un lupo, nemico del suo paese, adesso che cis’era ingrassato, lagnandosi continuamente che veniva-no a pelarlo ogni giorno, la commissione per i poveri, ilprestito forzoso la questua pei fucili!… Lui lo metteva-no in capo lista, lo tassavano il doppio degli altri. Glitoccava difendersi e litigare. I signori del Comitato chetornavano stanchi di casa sua, dopo un’ora di tira e mol-la, ne contavano delle belle. Dicevano che non capivapiù niente, uno stupido, l’ombra di mastro-don Gesual-do, un cadavere addirittura, che stava ancora in piediper difendere i suoi interessi, ma la mano di Dio arriva,tosto o tardi!

Intanto i villani e gli affamati che stavano in piazzadalla mattina alla sera, a bocca aperta, aspettando lamanna che non veniva, si scaldavano il capo a vicenda,discorrendo delle soperchierie patite, delle invernate distenti, mentre c’era della gente che aveva i magazzinipieni di roba, dei campi e delle vigne!… Pazienza i si-gnori, che c’erano nati… Ma non si davano pace, pen-sando che don Gesualdo Motta era nato povero e nudoal par di loro. – Se lo rammentavano tutti povero brac-ciante. – Speranza, la stessa sua sorella predicava lì, difaccia alla bandiera inalberata sul Palazzo di Città,ch’era giunto alfine il momento di restituire il mal tolto,di farsi giustizia colle proprie mani. Aizzava contro allozio i suoi figliuoli che s’erano fatti grandi e grossi, e ca-paci di far valere le loro ragioni, se non fossero stati duecapponi, come il genitore, che s’era acquetato subito,

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quando il cognato aveva mandato un gruzzoletto, allor-ché Bianca stava male, dicendo che voleva fare la pacecon tutti quanti, e dei guai ne aveva anche troppi. Gia-calone, a cui don Gesualdo aveva fatto pignorar la mulapel debito del raccolto, l’erede di Pirtuso, che litigavaancora con lui per certi denari che il sensale s’era porta-ti all’altro mondo, tutti coloro che gli erano contro perun motivo o per l’altro, soffiavano adesso nel fuoco, di-cendone roba da chiodi, raccontando tutte le porcheriedi mastro-don Gesualdo, sparlandone in ogni bettola ein ogni crocchio, stuzzicando anche gli indifferenti, conquella storia delle terre comunali che dovevano spartirsifra tutti quanti, delle quali ciascuno aspettava il suo pez-zetto, di giorno in giorno, e ancora non se ne parlava, echi ne parlava lo facevano uccidere a tradimento, pertappargli la bocca… Si sapeva da dove era partito il col-po! Mastro Titta aveva riconosciuto Gerbido, l’anticogarzone di don Gesualdo, mentre fuggiva celandosi il vi-so nel fazzoletto. Così tornò a galla la storia di Nannil’Orbo il quale s’era accollata la ganza di don Gesualdocoi figliuoli, dei poveri trovatelli che andavano a zappa-re nei campi del genitore per guadagnarsi il pane, e glibaciavano le mani per giunta, come quella bestia di Dio-data che a chi gli dava un calcio rispondeva grazie.

Dài e dài erano arrivati a scatenargli contro anche lo-ro, una sera che li avevano tirati in quelle chiacchiereall’osteria, e i due ragazzacci non possedevano neppuredi che pagar da bere agli amici. Don Gesualdo si videcomparire a quell’ora Nunzio, il più ardito. – Il nomedel nonno, sì glielo aveva dato; ma la roba no! – Per po-co non s’accapigliarono, padre e figlio. Si fece un grangridare, una lite che durò mezz’ora. Accorse anche Dio-data, coi capelli per aria, vestita di nero. Nunzio, ubbria-co fradicio, pretendeva il fatto suo lì su due piedi, e glie-ne disse di tutte le specie, a lei e a lui. Lo zio Santo, ches’era accomodato col fratello, dopo la morte della co-

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gnata, aiutandolo a passar l’angustia, mangiando e be-vendo alla sua barba, afferrò la stanga per metter pace.Il povero don Gesualdo andò a coricarsi più morto chevivo.

In mezzo a tanti dispiaceri s’era ammalato davvero.Gli avvelenavano il sangue tutti i discorsi che sentiva fa-re alla gente. Don Luca il sagrestano, il quale gli s’eraficcato in casa, quasi fosse già l’ora di portargli l’oliosanto, pretendeva che don Gesualdo dovesse aprire imagazzini alla povera gente, se voleva salvare l’anima e ilcorpo. Lui ci aveva cinque figliuoli sulle spalle, cinquebocche da sfamare, e la moglie sei. Mastro Titta,quand’era venuto a cavargli sangue, gli cantò il resto,colla lancetta in aria:

– Vedete? Se non mettono giudizio, certuni, va a finirmale, stavolta! La gente non ne può più! Sono qua-rant’anni che levo pelo e cavo sangue, e sono ancoraquello di prima, io!

Don Gesualdo, malato, giallo, colla bocca sempreamara, aveva perso il sonno e l’appetito; gli erano venutidei crampi allo stomaco che gli mettevano come tanticani arrabbiati dentro. Il barone Zacco era il solo amicoche gli fosse rimasto. E la gente diceva pure che dovevaaverci il suo interesse a fargli l’amico, qualche disegno intesta. Veniva a trovarlo sera e mattina, gli conduceva lamoglie e le figliuole, vestiti di nero tutti quanti, che an-nebbiavano una strada. Gli lasciava la sua ragazza percurarlo: – Lavinia ci ha la mano apposta, per far decotti.– Lavinia è un diavolo, per tener d’occhio una casa. –Lasciate fare a Lavinia che sa dove metter le mani. –Dall’altro canto poi faceva il viso brusco se Diodata ave-va la faccia di farsi vedere ancora lì, da don Gesualdo,con il fazzoletto nero in testa, carica di figliuoli, di giàcanuta e curva come una vecchia: – No, no, buona don-na. Non abbiamo bisogno di voi! Badate ai fatti vostripiuttosto, ché qui la cuccagna è finita. – Poscia in confi-

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denza spifferava anche delle paternali all’amico. – Chediavolo ne fate di quella vecchia?… Non vi conviene dilasciarvela bazzicar fra i piedi colei, ora ch’è vedova!…Dopo che l’avete avuta in casa anche da zitella… Ilmondo, sapete bene, ha la lingua lunga! Poi, quell’altrastoria… la morte di suo marito… E’ vero che se lo meri-tava!… Ma infine è meglio chiudere la bocca alla gen-te!… Del resto, non avete bisogno di nulla, ora che ciabbiamo qui la mia ragazza.

Lui stesso si faceva in quattro a disporre e a ordinarenella casa del cugino don Gesualdo, a ficcare il naso intutti i suoi affari, a correre su e giù con le chiavi dei ma-gazzini e della cantina. Gli consigliava pure di mettere afrutto il denaro contante, se ce ne aveva in serbo, casomai le faccende s’imbrogliassero peggio.

– Datelo a mutuo, col suo bravo atto dinanzi notaio…un po’ per uno, a tutti coloro che gridano più forte per-ché non hanno nulla da perdere, e minacciano adesso discassinarvi i magazzini e bruciarvi la casa. Taceranno,per adesso. Poi, se arrivano a pigliarsi le terre del comu-ne, voi ci mettete subito una bella ipoteca. Le cose nonpossono andare sempre a questo modo. I tempi torne-ranno a cambiare, e voi ci avrete messo sopra le unghie atempo.

Ma lui non voleva sentir parlare di denaro. Dicevache non ne aveva, che suo genero l’aveva rovinato, chepreferiva riceverli a schioppettate, quelli che venivano abruciargli la casa o a scassinargli i magazzini. Era diven-tato una bestia feroce, verde dalla bile, la malattia stessagli dava alla testa. Minacciava: – Ah! La mia roba? Vo-glio vederli! Dopo quarant’anni che ci ho messo a far-la… un tarì dopo l’altro!… Piuttosto cavatemi fuori ilfegato e tutto il resto in una volta, ché li ho fradici daidispiaceri… A schioppettate! Voglio ammazzarne primauna dozzina! A chi ti vuol togliere la roba levagli la vita!

Perciò aveva armato Santo e mastro Nardo, il vecchio

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manovale, con sciabole e carabine. Teneva il portonesbarrato, due mastini feroci nel cortile. Dicevasi che incasa sua ci fosse un arsenale; che la sera ricevesse Canali,il marchese Limòli, dell’altra gente ancora, per congiu-rare, e un bel mattino si sarebbero trovate le forche inpiazza, e appesi tutti coloro che avevano fatta la rivolu-zione. I pochi amici perciò l’avevano abbandonato, on-de non esser visti di cattivo occhio. E Zacco correvadavvero un brutto rischio continuando ad andare da luie a condurgli tutta la famiglia. – Peccato che con voi ci sirimette il ranno e il sapone! – gli disse però più di unavolta. Sua moglie infine, vedendo che non si veniva auna conclusione con quell’uomo, lasciò scoppiare labomba, un giorno che don Gesualdo s’era appisolato sulcanapè, giallo come un morto, e la sua ragazza gli facevada infermiera, messa a guardia accanto alla finestra.

– Scusatemi, cugino! Sono madre, e non posso più ta-cere, infine… Tu, Lavinia, vai di là, chè ho da parlarecol cugino don Gesualdo… Ora che non c’è più la miaragazza, apritemi il cuore, cugino mio… e ditemi chiarola vostra intenzione… Quanto a me ci avrei tanto piace-re… ed anche il barone mio marito… Ma bisogna par-larci chiaro…

Il poveraccio spalancò gli occhi assonnati, ancora di-sfatto dalla colica: – Eh? Che dite? Che volete? Io non vicapisco.

– Ah! Non mi capite? Allora che ci sta a far qui la miaLavinia? Una zitella! Siete vedovo finalmente, e gli annidel giudizio li dovete anche avere, per pigliare una riso-luzione, e sapere quel che volete fare!

– Niente. Io non voglio far niente. Voglio stare in pa-ce, se mi ci lasciano stare…

– Ah? Così? Stateci pure a comodo vostro… Ma in-tanto non è giusto… capite bene!… Sono madre…

E stavolta, risoluta, ordinò alla figliuola di prendere ilmanto e venirsene via. Lavinia obbedì, furibonda anche

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lei. Tutt’e due, uscendo da quella casa per l’ultima volta,fecero tanto di croce sulla soglia. – Una galera, quellabaracca! La povera cugina Bianca ci aveva lasciato le os-sa col mal sottile! – Zacco la sera stessa andò a far visitaal barone Rubiera, invece di annoiarsi con quel villanodi mastro-don Gesualdo che passava la sera a lamentar-si, tenendosi la pancia, all’oscuro, per risparmiare il lu-me.

– Mi volete, eh? cugino Rubiera… donna Giuseppi-na…

Don Ninì era uscito per assistere a certo conciliaboloin cui si trattavano affari grossi. Intanto che aspettava, ilbarone Zacco volle fare il suo dovere colla baronessamadre, ch’era stato un pezzo senza vederla. La trovònella sua camera, inchiodata nel seggiolone di faccia alletto matrimoniale, accanto al quale era ancora loschioppo del marito, buon’anima, e il crocifisso che gliavevano messo sul petto in punto di morte, imbacuccatain un vecchio scialle, e colle mani inerti in grembo. Ap-pena vide entrare il cugino Zacco si mise a piangere ditenerezza, rimbambita: delle lagrime grosse e silenzioseche si gonfiavano a poco a poco negli occhi torbidi, escendevano lentamente giù per le guance floscie. – Be-ne, bene, mi congratulo, cugina Rubiera! La testa è sa-na! Conoscete ancora la gente! – Essa voleva narrarglianche i suoi guai, biasciando, sbuffando e imbroglian-dosi, con la lingua grossa e le labbra pavonazze, spu-manti di bava. Il barone, affettuoso, tendeva l’orecchio,si chinava su di lei. – Eh? Che cosa? Sì, sì, capisco! Ave-te ragione, poveretta! – In quella sopraggiunse la nuorainfuriata. – Non si capisce una maledetta! – osservòZacco. – Deve essere un purgatorio per voialtri parenti.– La paralitica fulminò un’occhiata feroce, rizzando piùche poteva il capo piegato sull’omero, mentre donnaGiuseppina la sgridava come una bimba, asciugandole ilmento con un fazzoletto sudicio. – Che avete? che vole-

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te? stolida!… Vi rovinate la salute!… E’ proprio unacreaturina di latte, Dio lodato! Non bisogna credere aquello che dice! Ci vuole una pazienza da santi a durarlacon lei!… – La suocera adesso spalancava gli occhi,guardandola atterrita, rannicchiando il capo nelle spalle,quasi aspettando di essere battuta: – Vedete? Santa pa-zienza!

– Ve l’ho detto, – conchiuse il barone. – Avete il pur-gatorio in terra, per andarvene diritto in paradiso.

Indi giunse don Ninì a prendere le chiavi della canti-na. Trovando il cugino fece un certo viso sciocco.

– Ah… cugino!… che c’è di nuovo? Vostra mogliesta bene?… Qui, da me, lo vedete… guai colla pala!Che c’è, mammà? i soliti capricci? Permettetemi, cuginoZacco, devo scendere giù un momento…

Le chiavi stavano sempre lì, appese allo stipitedell’uscio. La paralitica li accompagnava cogli occhi,senza poter pronunziare una parola, sforzandosi più chepotesse di girare il capo a ogni passo che faceva il fi-gliuolo, con delle chiazze di sangue guasto che le ribolli-vano a un tratto nel viso cadaverico. Zacco allora comin-ciò a snocciolare il rosario contro di mastro-donGesualdo. – Signore Iddio, me ne accuso e me ne pento!L’ho durata fin troppo con colui! Mi pareva una bruttacosa abbandonarlo nel bisogno… in mezzo a tutti i suoinemici… Non fosse altro per carità cristiana… Ma via! ètroppo… Neanche i suoi parenti possono tollerarlo,quell’uomo! Figuratevi! neanche quello stolido di donFerdinando!… Si contenta di non uscire più di casa purdi non essere costretto a mettere il vestito nuovo che gliha mandato a regalare il cognato… Sin che campa, aveteinteso? Quello è un uomo di carattere! Infine sono stan-co, avete capito? Non voglio rovinarmi per amore dimastro-don Gesualdo. Ho moglie e figliuoli. Dovreiportarmelo appeso al collo come un sasso per annegar-mi?

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– Ah!… ve l’avevo detto io! Vediamo, via, in coscien-za! Cosa era mastro-don Gesualdo vent’anni fa?… Oraci mette i piedi sul collo, a noialtri! Vedete, signori miei,un barone Zacco che gli lustra le scarpe e s’inimica coiparenti per lui!

L’altro chinava il capo, contrito. Confessava che ave-va errato, a fin di bene, per impedirgli di far dell’altromale, e cercare di cavarne quel poco di buono che si po-teva. Una volta, in vita, si può sbagliare…

– L’avete capita finalmente? Avete visto chi aveva ra-gione di noi due?

La moglie gli chiuse la parola in bocca con una gomi-tata: – Lasciatelo parlare. E’ lui che deve dire ciò chevuole adesso da noi… quel ch’è venuto a fare…

– Bene! – conchiuse Zacco con una risata bonaria. –Son venuto a fare il Figliuol Prodigo, via! Siete conten-ti?

Donna Giuseppina era contenta a bocca stretta. Suomarito guardò prima lei, poi il cugino Zacco, e non sep-pe che dire.

– Bene, – riprese Zacco un’altra volta. – So che stase-ra quei ragazzi vogliono fare un po’ di chiasso per lestrade. Ci avete appunto in mano le chiavi della cantinaper tenerli allegri. Badate che non ho peli sulla lingua, sea qualcuno salta in mente di venire a seccarmi sotto lemie finestre. Ci ho molta roba anch’io nello stomaco, enon voglio aver dei nemici a credenza, come mastro-donGesualdo!…

Marito e moglie si guardarono negli occhi.– Son padre di famiglia! – tornò a dire il barone. –

Devo difendere i miei interessi… Scusate… Se giochia-mo a darci il gambetto fra di noi!…

Donna Giuseppina prese la parola lei, scandolezzata:– Ma che discorsi son questi?… Scusatemi piuttosto

se metto bocca nei vostri affari. Ma infine siamo paren-ti…

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– Questo dico io. Siamo parenti! Ed è meglio stareuniti fra di noi… di questi tempi!…

Don Ninì gli stese la mano: – Che diavolo!… chesciocchezze!… – Quindi si sbottonò completamente,guardando ogni tanto sua moglie: – Venite in teatroquesta sera, per la cantata dell’inno. Fatevi vedere insie-me a noialtri. Ci sarà anche il canonico. Dice che non fapeccato, perché è l’inno del papa… Discorreremo poi…Bisogna metter mano alla tasca, amico mio. Bisognaspendere e regalare. Vedete io?

E agitava in aria le chiavi della cantina. La vecchia,che non aveva perduto una parola di tutto il discorso,sebbene nessuno badasse a lei, si mise a grugnire in unacollera ostinata di bambina, gonfiando apposta le venedel collo per diventar pavonazza in viso. Ricominciò ilbaccano: nuora e figliuolo la sgridavano a un tempo; leicercava di urlar più forte, agitando la testa furibonda.Accorse anche Rosaria, col ventre enorme, le mani sudi-ce nella criniera arruffata e grigiastra, minacciando laparalitica lei pure:

– Guardate un po’! E’ diventata cattiva come un asi-no rosso! Cosa gli manca, eh? Mangia come un lupo!

Rosaria non la finiva più su quel tono. Il barone Zac-co pensò bene di accomiatarsi in quel frangente.

– Dunque, stasera, alla cantata.

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IV

C’era un teatrone, poiché s’entrava gratis. Lumi, can-tate, applausi che salivano alle stelle. La signora Aglaeera venuta apposta da Modica, a spese del comune, perdeclamare l’inno di Pio Nono ed altre poesie d’occasio-ne. Al vederla vestita alla greca, con tutta quella graziadi Dio addosso, prosit a lei, don Ninì Rubiera, nellacommozione generale, si sentiva venire le lagrime agliocchi, e smanacciava più forte degli altri, borbottandofra di sé:

– Corpo di!… E’ ancora un bel pezzo di donna!…Fortuna che non ci sia mia moglie qui!…

Ma i rimasti fuori, che spingevano senza poter entra-re, partirono finalmente a strillare viva e morte per con-to proprio; e quanti erano in teatro, al baccano, usciro-no in piazza, lasciando la prima donna e il signorPallante a sbracciarsi da soli, colle bandiere in mano. Inun momento si riunì una gran folla, che andava ingros-sando sempre al par di un fiume.

Udivasi un gridìo immenso, degli urli che nel buio enella confusione suonavano minacciosi. Don NiccolinoMargarone, Zacco, Mommino Neri, tutti i bene inten-zionati, si sgolavano a chiamare «fuori i lumi!» per ve-derci chiaro, e che non nascessero dei guai.

La folla durò un pezzo a vociare di qua e di là. Indi sirovesciò come un torrente giù per la via di San Giovan-ni. Dinanzi all’osteria di Pecu-Pecu c’era un panchettinocon dei tegami di roba fritta che andò a catafascio – pe-tronciani e pomidoro sotto i piedi. Santo Motta, che sta-va lì di casa e bottega, strillava come un ossesso, veden-do andare a male tutta quella roba.

– Bestie! animali! Che non ne mangiate grazia diDio? – Quasi pestavano anche lui, nella furia. Giacalonee i più infervorati proposero di sfondar l’uscio della

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chiesa e portare il santo in processione, per far più col-po. Sì e no. – Bestemmie e sorgozzoni, lì all’oscuro, sulsagrato. Mastro Cosimo intanto s’era arrampicato sulcampanile e suonava a distesa. Le grida e lo scampanìogiungevano sino all’Alìa, sino a Monte Lauro, come del-le folate di uragano. Dei lumi si vedevano correre nelpaese alto, – un finimondo. A un tratto, quasi fosse cor-sa una parola d’ordine, la folla s’avviò tumultuando ver-so il Fosso, dietro coloro che sembravano i caporioni.Mèndola, don Nicolino, lo stesso canonico Lupi ches’era cacciato nella baraonda a fin di bene, strillavanoinutilmente: – Ferma! ferma! – Il barone Zacco, nonavendo più le gambe di prima, faceva piovere delle le-gnate, a chi piglia piglia, per far intender ragione agli or-bi.

– Ehi? Che facciamo?… Adagio, signori miei!.. Noncominciamo a far porcherie! In queste cose si sa dove sicomincia e non si sa…

Come molti avevano messo orecchio al discorso disfondar usci e far la festa a tutti i santi, la marmaglia orapigiavasi dinanzi ai magazzini di mastro-don Gesualdo.Dicevasi ch’erano pieni sino al tetto. – Uno ch’era natopovero come Giobbe, e adesso aveva messo superbia, edera nemico giurato dei poveretti e dei liberali! – Coi sas-si, coi randelli – due o tre s’erano armati di un pietrone edavano sulla porta che parevano cannonate. Si udiva lavocetta stridula di Brasi Camauro il quale piagnucolavacome un ragazzo:

– Signori miei! Non c’è più religione! Non voglionopiù sapere né di cristi né di santi! Vogliono lasciarci cre-pare di fame tutti!

All’improvviso dal frastuono scapparono degli urli dafar accapponare la pelle. Santo Motta malconcio e in-sanguinato, rotolandosi per terra, riescì a far fare un po’di largo dinanzi all’uscio del magazzino. Allora i galan-tuomini, vociando anche loro, spingendo, tempestando,

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cacciarono indietro i più riottosi. Il canonico Lupi, ag-grappato alla inferriata della finestra, tentava di farsiudire:

-… maniera?… religione!… la roba altrui!… il SantoPadre!… se cominciamo… – Altre grida rispondevanodalla moltitudine: -… eguali… poveri… tirare pei pie-di!… bue grasso!… – Giacalone, onde aizzar la folla,spinse avanti i due bastardi di Diodata ch’erano nellacalca, schiamazzando: -… don Gesualdo!… se c’è giu-stizia!… abbandonati in mezzo a una strada!… se ne la-gna anche Domeneddio!… andare a fare i conti conlui!…

Dalla piazza di Santa Maria di Gesù, dalle prime casedi San Sebastiano, i vicini, spaventati, videro passareuna fiumana di gente, una baraonda, delle armi che luc-cicavano, delle braccia che si agitavano in aria, delle fac-ce accese e stravolte che apparivano confusamente al lu-me delle torce a vento. Usci e finestre si chiudevano confracasso. Si udivano da lontano strilli e pianti di donne,voci che chiamavano: – Maria Santissima! Santi cristia-ni!…

Don Gesualdo era in letto malato, quando udì bussa-re alla porticina del vicoletto che pareva volessero but-tarla giù. Poi il rombo della tempesta che sopravveniva.La sera stessa un’anima caritatevole era corsa a prevenir-lo: – Badate, don Gesualdo! Ce l’hanno con voi perchésiete borbonico. Chiudetevi in casa! – Lui, che avevatanti altri guai, s’era stretto nelle spalle. Ma al vedereadesso che facevano sul serio, balzò dal letto così comesi trovava, col fazzoletto in testa e il cataplasma sullostomaco, infilandosi i calzoni a casaccio, mettendo daparte i suoi malanni, a quella voce che gli gridava:

– Don Gesualdo!… presto!… scappate!…Una voce che non l’avrebbe dimenticata in mille an-

ni! Arruffato, scamiciato, cogli occhi che luccicavano,simili a quelli di un gatto inferocito, nella faccia verde di

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bile, andava e veniva per la stanza, cercando pistole ecoltellacci, risoluto a vender cara la pelle almeno. Ma-stro Nardo e quei pochi di casa che gli erano rimasti af-fezionati pel bisogno si raccomandavano l’anima a Dio.Finalmente il barone Mèndola riescì a farsi aprire l’usciodel vicoletto. Don Gesualdo, appostato alla finestra colfucile, stava per fare un subisso.

– Eh! – gridò Mèndola entrando trafelato. – Tirate adammazzarmi, per giunta? Questa è la ricompensa?

L’altro non voleva sentir ragione. Tremava tutto dallacollera.

– Ah! così? A questo punto siamo arrivati, che un ga-lantuomo non è sicuro neppure in casa? che la roba suanon è più sua? Eccomi! Cadrà Sansone con tutti i Fili-stei, però! Lo stesso lupo, quando lo mettono colle spal-le al muro!… – Zacco, e due o tre altri benintenzionatich’erano sopravvenuti intanto, sudavano a persuaderlo,vociando tutti insieme:

– Che volete fare? Contro un paese intero? Siete im-pazzito? Bruceranno ogni cosa! Cominciano di qua laStrage degli Innocenti! Ci farete ammazzare tutti quan-ti!

Lui s’ostinava, furibondo, coi capelli irti:– Quand’è così!… Giacché pretendono metterci le

mani in tasca per forza!… Giacchè mi pagano a questomodo!… Ho fatto del bene… Ho dato da campare atutto il paese… Ora gli fo mangiar la polvere, al primoche mi capita!…

Proprio! Era risoluto di fare uno sterminio. Per fortu-na irruppe nella stanza il canonico Lupi, e gli si buttòaddosso senza badare al rischio, spingendolo e sbatac-chiandolo di qua e di là, finché arrivò a strappargli dimano lo schioppo. – Che diavolo! Colle armi da fuoconon si scherza! – Aveva il fiato ai denti, il cranio rosso epelato che gli fumava come quando era giovane, e bal-bettava colla voce rotta:

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– Santo diavolone!… Domeneddio, perdonatemi! Mifate parlare come un porco, don asino! Siamo qui persalvarvi la vita, e non ve lo meritate! Volete far mettere ilpaese intero a sacco e fuoco? Non m’importa di voi, be-stia che siete! Ma certe cose non bisogna lasciarle inco-minciare neppure per ischerzo, capite? Neppure a unnemico mortale! Se coloro che sinora si sfogano a grida-re, pigliano gusto anche a metter mano nella roba altrui,siamo fritti!

Il canonico era addirittura fuori della grazia di Dio.Gli altri davano addosso ancor essi su quella bestia te-starda di mastro-don Gesualdo che risicava di compro-metterli tutti quanti; lo mettevano in mezzo; lo spinge-vano verso il muro; gli rinfacciavano l’ingratitudine; lostordivano. Il barone Zacco arrivò a passargli un braccioal collo, in confidenza, confessandogli all’orecchioch’era con lui, contro la canaglia; ma pel momento ci vo-leva prudenza, lasciar correre, chinare il capo. – Dite disì… tutto quello che vogliono, adesso… Non c’è lì il no-taio per mettere in carta le vostre promesse… Un po’ dimaniera, un po’ di denaro… Meglio dolor di borsa chedolor di pancia…

Don Gesualdo, seduto su di una seggiola, asciugan-dosi il sudore colla manica della camicia, non diceva piùnulla, stralunato. Giù al portone intanto il barone Ru-biera, don Nicolino, il figlio di Neri, si sbracciavano acalmare i più riottosi.

– Signori miei… Avete ragione… Si farà tutto quelloche volete… Abbiamo la bocca per mangiare tutti quan-ti… Viva! viva!… Tutti fratelli!… Una mano lava l’al-tra… Domani… alla luce del sole. Chi ha bisogno vengaqui da noi… Ora è tardi, e siamo tutti d’un colore… bir-banti e galantuomini… Ehi! ehi, dico!…

Don Nicolino dovette afferrare pel collo un tale chestava per cacciarsi dentro il portone socchiuso, approfit-tando della confusione e della ressa che facevasi attornoa una donna la quale strillava e supplicava:

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– Nunzio! Gesualdo! Figliuoli miei!… Che vi fannofare?… Nunzio… Ah Madonna santa!…

Era Diodata, la quale aveva sentito dire che i suoi ra-gazzi erano nella baraonda, a gridare viva e morte con-tro don Gesualdo anche loro, ed era corsa colle mani neicapelli. – Madonna santa! che vi fanno fare!… – Zacco emastro Nardo portarono giù intanto dei barili pieni, eaiutavano a metter pace mescendo da bere a chi ne vole-va, mentre il canonico di lassù predicava:

– Domani! Tornate domani, chi ha bisogno… Adessonon c’è nessuno in casa… Don Gesualdo è fuori, incampagna… ma col cuore è anch’esso qui, con noial-tri… per aiutarvi… Sicuro… Ciascuno ha da avere il suopezzo di pane e il suo pezzo di terra… Ci aggiustere-mo… Tornate domani…

– Domani, un corno! – brontolò di dentro don Ge-sualdo. – Mi pare che vossignoria aggiustate ogni cosa aspese mie, canonico!

– Volete star zitto! Volete farmi fare la figura di bu-giardo?… Se ho detto che non ci siete, per salvarvi lapelle…

Don Gesualdo tornò a ribellarsi:– Perchè? Che ho fatto? Io sono in casa mia!…– Avete fatto che siete ricco come un maiale! – gli

urlò infine all’orecchio il canonico che perse la pazienza.Gli altri allora l’assaltarono tutti insieme, colle buone,colle cattive, dicendogli che se i rivoltosi lo trovavano lì,della casa non lasciavano pietra sopra pietra; pigliavanoogni cosa; neanche gli occhi per piangere gli lasciavano.Finché lo indussero a scappare dalla parte del vicoletto.Mèndola corse a bussare all’uscio dello zio Limòli.

Al baccano, il marchese, oramai sordo come una tal-pa, s’era buttato un ferraiuolo sulle spalle, e stava a ve-dere dietro l’invetriata del balcone, in camicia, colloscaldino in mano e i piedi nudi nelle ciabatte, quando glicapitò quella nespola fra capo e collo. Ci volle del bello

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e del buono a fargli capire ciò che volevano da lui aquell’ora, mastro-don Gesualdo più morto che vivo, glialtri che gli urlavano nell’orecchio, uno dopo l’altro:

– Vogliono fargli la festa… a vostro nipote don Ge-sualdo… Bisogna nasconderlo…

Egli ammiccava, colle palpebre floscie e cascanti, ac-cennando di sì, mentre abbozzava un sorriso malizioso.

– Ah?… la festa?… a don Gesualdo?… E’ giusto! E’venuto il vostro tempo, caro mio… Siete il campionedella mercanzia!…

Ma finalmente, al sentire che invece volevano accop-parlo, mutò registro, fingendo d’essere inquieto, collavocetta fessa:

– Che?… Lui pure? Cosa vogliono dunque?… Doveandiamo di questo passo?

Mèndola gli spiegò che don Gesualdo era il pretestoper dare addosso ai più denarosi; ma lì non sarebberovenuti a cercarne dei denari. Il vecchio accennava di noanche lui, guardando intorno, con quel sorrisetto agrosulla bocca sdentata.

Erano due stanzacce invecchiate con lui, nelle qualiogni sua abitudine aveva lasciato l’impronta: la macchiad’unto dietro la seggiola su cui appisolavasi dopo pran-zo, i mattoni smossi in quel breve tratto fra l’uscio e la fi-nestra, la parete scalcinata accanto al letto dove solevaaccendere il lume. E in quel sudiciume il marchese cistava come un principe, sputando in faccia a tutti quantile sue miserie.

– Scusate, signori miei, se vi ricevo in questa topaia…Non è pel vostro merito, don Gesualdo… La bella pa-rentela che avete presa, eh?…

Sul vecchio canapè addossato al muro, puntellandolocogli stessi mattoni rotti, improvvisarono alla meglio unletto per don Gesualdo che non stava più in piedi, men-tre il marchese continuava a brontolare:

– Guardate cosa ci capita! Ne ho viste tante! Ma que-sta qui non me l’aspettavo…

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Pure gli offrì di dividere con lui la scodella di latte incui aveva messo a inzuppare delle croste di pane.

– Son tornato a balia, vedete. Non ho altro da offrirvia cena. La carne non è più pei miei denti, né per la miaborsa… Voi sarete avvezzo a ben altro, amico mio…Che volete farci? Il mondo gira per tutti, caro don Ge-sualdo!…

– Ah! – rispose lui. – Non è questo, no, signor mar-chese. E’ che lo stomaco non mi dice. L’ho pieno di ve-leno! Un cane arrabbiato ci ho.

– Bene, – dissero gli altri. – Ringraziate Iddio. Quinessuno vi tocca.

Fu un colpo tremendo per mastro-don Gesualdo.L’agitazione, la bile, il malanno che ci aveva in corpo…La notte passò come Dio volle. Ma il giorno dopo,all’avemaria, tornò Mèndola intabarrato, col cappellosugli occhi, guardandosi intorno prima d’infilar l’uscio.

– Un’altra adesso! – esclamò entrando. – Vi hannofatto la spia, don Gesualdo! E vogliono stanarvi anchedi qua per costringervi a mantenere ciò che ha promessoil canonico… Ciolla in persona… l’ho visto laggiù a farsentinella…

Il marchese, ch’era tornato arzillo e gaio fra tutto quelparapiglia, aguzzando l’udito, ficcandosi in mezzo peracchiappar qualche parola, corse al balcone.

– Sicuro! Eccolo lì col camiciotto, come un bambi-no… Vuol dire che si torna indietro tutti!…

Don Gesualdo s’era alzato sbuffando, gridandoch’era meglio finirla, che correva giù a dargliela lui, lapromessa, al Ciolla! E giacchè lo cercavano, era lì, pron-to a riceverli!…

– Certo, certo, – ripeteva il marchese. – Se vi cercanovuol dire che hanno bisogno di voi. Di me non vengonoa cercare sicuro! Vogliono farvi gridare viva e morte in-sieme a loro? E voi andateci! Viva voi che avete da farligridare!

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– No! So io quello che vogliono! – ribattè don Ge-sualdo imbestialito.

– Scusate, non si tratta soltanto di voi adesso, – os-servò Mèndola. – E’ che dietro di voi ci siamo tutto ilpaese!…

Sopraggiunse il canonico, grattandosi il capo, impen-sierito della piega che pigliava la faccenda. Durava labaldoria. Una bella cosa per certa gente! Quei bricconis’erano legate al dito le parole di pace ch’egli si era la-sciato sfuggire in quel frangente, e stavano in piazza tut-to il giorno ad aspettare la manna dal cielo: – M’avetemesso in un bell’imbroglio, voi, don Gesualdo!

A quell’uscita del canonico successe un altro batti-becco fra loro due: – Io, eh?… Io!… Son io che ho pro-messo mari e monti?

– Per chetarli, in nome di Dio! Parole che si dicono,si sa! Avrei voluto vedervi, dinanzi a quelle facce scomu-nicate!

Il marchese si divertiva: – Senti senti! Guarda guar-da!

– Insomma, – conchiuse Mèndola, – queste son chiac-chiere, e bisogna pigliar tempo. Intanto voi levatevi dimezzo, causa causarum! In fondo a una cisterna, in unbuco, dove diavolo volete, ma non è la maniera di com-promettere tanti padri di famiglia, per causa vostra!

– In casa Trao! – suggerì il canonico. – Vostro cogna-to vi accoglierà a braccia aperte. Nessuno sa che c’è an-cora lui al mondo, e non verranno a cercarvi sin lì. – Ilmarchese approvò anch’esso: – Benissimo. E’ una bellapensata! Cane e gatto chiusi insieme… – Don Gesualdos’ostinava ad opporsi.

– Allora, – esclamò il canonico, – io me ne lavo le ma-ni come Pilato. Anzi vado a chiamarvi Ciolla e tuttiquanti, se volete!…

Don Gesualdo era ridotto in uno stato che di lui nefacevano quel che volevano. A due ore di notte, per cer-

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te stradicciuole fuori mano, andarono a svegliare Graziache aveva la chiave del portone, e al buio, tentoni, arri-varono sino all’uscio di don Ferdinando.

– Chi è? – si udì belare di dentro una voce asmatica. –Grazia, chi è?

– Siamo noi, don Gesualdo, vostro cognato…Nessuno rispose. Poi si udì frugare nel buio. E a un

tratto don Ferdinando si chiuse dentro col paletto, e simise ad ammonticchiare sedie e tavolini dietro l’uscio,continuando a strillare spaventato:

– Grazia! Grazia!– Corpo del diavolo! – esclamò Mèndola. – Qui si fa

peggio! Quella bestia farà correre tutto il paese!Il canonico rideva sotto il naso, scuotendo il capo.

Grazia intanto aveva acceso un mozzicone di candela, eli guardava in faccia ad uno ad uno, allibbita, battendole palpebre.

– Che volete fare, signori miei? – azzardò infine timi-damente. Don Gesualdo, che non si reggeva più in pie-di, pallido e disfatto, proruppe in tono disperato:

– Io voglio tornarmene a casa mia!… a qualunque co-sto… Sono risoluto!…

– Nossignore! – interruppe il canonico. – Qui siete incasa vostra. C’è la quota di vostra moglie. Ah, caspita!Avete avuto pazienza sino adesso… Ora basta!… Lì,nella camera di donna Bianca. Il letto è ancora tal quale.

Mèndola s’era messo di buon umore, mentre prepara-vano la stanza. Frugava da per tutto. Andava a cacciareil naso nell’andito oscuro, dietro l’usciolino. Trovavadelle barzellette, ricordando le vecchie storie. Quanticasi! Quante vicende! – Chi ve lo avrebbe detto, eh, donGesualdo? – Lo stesso canonico Lupi si lasciò sfuggireun sorrisetto.

– Intanto che siete qui, potete fare le vostre medita-zioni sulla vita e sulla morte, per passare il tempo. Checommedia, questo mondaccio! Vanitas vanitatum!

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Don Gesualdo gli rivolse un’occhiata nera, ma non ri-spose. Ci aveva ancora dello stomaco per chiudervi den-tro i suoi guai e le sue disgrazie, senza farne parte agliamici, per divertirli. Si buttò a giacere sul letto, e rimasesolo al buio coi suoi malanni, soffocando i lamenti, man-dando giù le amarezze che ogni ricordo gli faceva salirealla gola. D’una cosa sola non si dava pace, che avrebbepotuto crepare lì dove era, senza che sua figlia ne sapes-se nulla. Allora, nella febbre, gli passavano dinanzi agliocchi torbidi Bianca, Diodata, mastro Nunzio, degli al-tri ancora, un altro sé stesso che affaticavasi e s’arrabat-tava al sole e al vento, tutti col viso arcigno, che gli spu-tavano in faccia: – Bestia! bestia! Che hai fatto? Ben tistia!

A giorno tornò Grazia per aiutare un po’, sfinita, an-sando se smuoveva una seggiola, fermandosi ogni mo-mento per piantarsi dinanzi a lui colle mani sul ventreenorme, e ricominciare le lagnanze contro i parenti didon Ferdinando che le lasciavano quel poveretto sullespalle, lesinandogli il pane e il vino. – Sissignore, l’han-no tutti dimenticato, lì nel suo cantuccio, come un canemalato!… Ma io il cuore non mi dice… Siamo stati sem-pre vicini… buoni servi della famiglia… una gran fami-glia… Il cuore non mi dice, no!

Dietro di lei veniva una masnada di figliuoli che met-tevano ogni cosa a soqquadro. Poi sopraggiunse Speran-za strepitando che voleva vedere suo fratello, quasi eglistesse per rendere l’anima a Dio.

– Lasciatemi entrare! E’ sangue mio infine! Ora ch’èin questo stato mi rammento solo di essere sua sorella. –Lei, il marito, i figliuoli. Mise a rumore tutto il vicinato.Don Gesualdo lasciò il letto sbuffando. Non lo avrebbe-ro tenuto le catene.

– Voglio tornare a casa mia! Che ci sto a fare qui?Tanto, lo sanno tutti!…

A gran stento lo indussero ad aspettare la sera. E do-

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po l’avemaria, quatti quatti, Burgio e tutti i parenti l’ac-compagnarono a casa. Speranza volle restare a guardiadel fratello, giacché trovavasi tanto malato, e per mira-colo quella notte non gli avevano messo ogni cosa a sac-co e ruba.

– Non vuol dire se siamo in lite. Al bisogno si vede ilcuore della gente. Gli interessi sono una cosa, e l’amoreè un’altra. Abbiamo litigato, litigheremo sino al giornodel Giudizio, ma siamo figli dello stesso sangue! – Pro-testò che l’avrebbe tenuto meglio delle pupille dei pro-pri occhi, lui e la sua roba. Gli schierò dinanzi al lettomarito e figliuoli che giravano intorno sguardi cupidi, ri-petendo:

– Questo è il sangue vostro! Questi non vi tradisco-no! – Lui, combattuto, stanco, avvilito, non ebbe nean-che la forza di ribellarsi.

Così, a poco a poco, gli si misero tutti quanti alle co-stole. I nipoti scorazzando per la casa e pei poderi, spa-droneggiando, cacciando le mani da per tutto. La sorel-la, colle chiavi alla cintola, frugando, rovistando,mandando il marito di qua e di là, pei rimedi, e a cogliererbe medicinali. Come massaro Fortunato si lagnava dinon aver più le gambe di vent’anni per affacchinarsi aquel modo, essa lo sgridava:

– Che volete? Non lo fate per amore di vostro cogna-to? Carcere, malattie e necessità si conosce l’amistà.

Lei non aveva suggezione di Ciolla e di tutti gli altridella sua risma. Una volta che Vito Orlando pretese divenire a fare una sbravazzata, colla pistola in tasca, perliquidare certi conti con don Gesualdo, essa lo inseguìgiù per le scale buttandogli dietro una catinella d’acquasporca. Lo stesso canonico Lupi aveva dovuto mettersila coda fra le gambe, e non era tornato a fare il generosocolla roba altrui, ora che Ciolla e i più facinorosi eranopartiti a cercar fortuna in città, con bandiere e trombet-te. Il canonico, onde chetare gli altri, aveva preso il ri-

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piego di sortire in processione, colla disciplina e la coro-na di spine; e così gli altri si sfogavano in feste e qua-rant’ore, mentre lui andava predicando la fratellanza el’amore del prossimo.

– Però un baiocco non lo mette fuori! – sbraitava co-mare Speranza. – E questo va bene. Ma se torna a fare ilcamorrista, qui da noi, lo ricevo come va… tal quale Vi-to Orlando!

Intanto la casa di don Gesualdo era messa a sacco eruba egualmente. Vino, olio, formaggio, pezze di telaanche, sparivano in un batter d’occhio. Dalla Canziria eda Mangalavite giungevano fattori e mezzadri a reclama-re contro i figliuoli di massaro Fortunato Burgio che co-mandavano a bacchetta, e saccheggiavano i poderi dellozio, quasi fosse già roba senza padrone. Lui, poveraccio,confinato in letto, si rodeva in silenzio; non osava ribel-larsi al cognato e alla sorella; pensava ai suoi guai. Ciaveva un cane, lì nella pancia, che gli mangiava il fegato,il cane arrabbiato di San Vito martire, che lo martirizza-va anche lui. Inutilmente Speranza, amorevole, cercavaerbe e medicine, consultava Zanni e persone che aveva-no segreti per tutti i mali. Ciascuno portava un rimedionuovo, dei decotti, degli unguenti, fino la reliquia e l’im-magine benedetta del santo, che don Luca volle provarecolle sue mani. Non giovava nulla. L’infermo badava aripetere:

– Non è niente… un po’ di colica. Ho avuto dei di-spiaceri. Domani mi alzerò…

Ma non ci credeva più neppur lui, e non si alzava mai.Era ridotto quasi uno scheletro, pelle e ossa; soltanto ilventre era gonfio come un otre. Nel paese si sparse lavoce che era spacciato: la mano di Dio che l’agguantavae l’affogava nelle ricchezze. Il signor genero scrisse daPalermo onde avere notizie precise. Parlava anche d’af-fari da regolare, e di scadenze urgenti. Nella poscrittac’erano due righe sconsolate d’Isabella, la quale non si

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era ancora riavuta dal gran colpo che aveva ricevuto po-co prima. Speranza, che era presente mentre il fratellos’inteneriva sulla lettera, sputò fuori il veleno:

– Ecco! Ora vi guastate il sangue, per giunta! Potre-ste andarvene all’altro mondo… solo e abbandonato,come uno che non ha nè possiede!… Chi vi siete trovatoaccanto nel bisogno, ditelo? Vostra figlia vi manda sol-tanto belle parole… Suo marito però va al sodo!

Don Gesualdo non rispose. Ma di nascosto, rivoltoverso il muro, si mise a piangere cheto cheto. Sembravadiventato un bambino. Non si riconosceva più. AllorchèDiodata, sentendo ch’era tanto malato, volle andare a vi-sitarlo e a chiedergli perdono per la mancanza che gliavevano fatto i suoi ragazzi, la notte della sommossa, ri-mase di stucco al vederlo così disfatto, che puzzava disepoltura, e gli occhi che a ogni faccia nuova diventava-no lustri lustri.

– Signor don Gesualdo… son venuta a vedervi per-ché mi hanno detto che siete in questo stato… Doveteperdonare… a quegli screanzati che vi hanno offeso…Ragazzi senza giudizio… Si son lasciati prendere in mez-zo, senza sapere quello che facessero… Dovete perdo-nare per amor mio, signor don Gesualdo!…

E si vedeva che parlava sincera, la poveretta, con quelviso, mandando giù, per nasconderle, le lagrime che aogni parola le tornavano agli occhi, cercando di pigliar-gli la mano per baciargliela. Egli faceva un gesto vago, escuoteva il capo, come a dire che non gliene importava,oramai. In quella sopravvenne Speranza, e fece una par-taccia a quella sfacciata che veniva a tentarle il fratello infin di vita, per cavargli qualcosa, per pelarlo sino all’ulti-mo. Una sanguisuga. Ci s’era ingrassata alle spalle di lui!Non le bastava? Ora calavano i corvi, all’odor del carna-me. Il malato chiudeva gli occhi per sfuggire quel sup-plizio, e agitavasi nel letto come al sopraggiungere diun’altra colica. Talché Diodata se ne andò senza poterlo

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salutare, a capo chino, stringendosi nella mantellina.Speranza tornò al fratello, tutta amorevole e sorridente.

– Per assistervi adesso ci avete qui noi… Non vi lasce-remo solo, non temete,.. Tutto ciò che avete bisogno…Comandate. Che ne fareste adesso di quella strega? Vimangerebbe anima e corpo. Neanche il viatico potrestericevere, con quello scandalo in casa!

Lei lo assisteva meglio di una serva, e lo curava conamore, senza guardare a spesa né a fatiche. Vedendo chenulla giovava, arrivò a chiamare il figlio di Tavuso, ilquale tornava fresco fresco da Napoli, laureato in medi-cina, – un ragazzotto che non aveva ancora peli al mentoe si faceva pagare come un principe. – Però don Gesual-do gli disse il fatto suo, al vedergli metter mano alla pen-na per scrivere le solite imposture:

– Don Margheritino, io vi ho visto nascere! A me scri-vete la ricetta? Per chi mi pigliate, amico caro!

– Allora, – ribattè il dottorino infuriato, – allora fatevicurare dal maniscalco! Perché mi avete fatto chiamare?– Prese il cappello, e se ne andò.

Ma siccome il malato soffriva tutti i tormenti dell’in-ferno, nella lusinga che qualcheduno trovasse il rimedioche ci voleva, per non far parlare anche i vicini che li ac-cusavano di avarizia, dovettero chinare il capo a code-sto, chinare il capo a medici e medicamenti. Il figlio diTavuso, Bomma quanti barbassori c’erano in paese, tut-ti sfilarono dinanzi al letto di don Gesualdo. Arrivava-no, guardavano, tastavano, scambiavano fra di loro certeparolacce turche che facevano accapponar la pelle, e la-sciavano detto ciascuno la sua su di un pezzo di carta –degli sgorbi come sanguisughe. Don Gesualdo, sbigotti-to, non diceva nulla, cercava di cogliere le parole a volo;guardava sospettoso le mani che scrivevano. Soltanto,per non buttare via il denaro malamente, prima di spe-dire la ricetta, prese a parte don Margheritino, e gli feceosservare che aveva un armadio pieno di vasetti e boc-

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cettine, comperati per la buon’anima di sua moglie. –Non ho guardato a spesa, signor dottore. Li ho ancoralì, tali e quali. Se vi pare che possano giovare adesso…

Non gli davano retta neppur quando tornava a bal-bettare, spaventato da quelle facce serie: – Mi sento me-glio. Domani mi alzo. Mandatemi in campagna che gua-rirò in ventiquattr’ore. – Gli dicevano di sì, percontentarlo, come a un bambino. – Domani, doman l’al-tro. – Ma lo tenevano lì, per smungerlo, per succhiargliil sangue, medici, parenti e speziali. Lo voltavano, lo ri-voltavano, gli picchiavano sul ventre con due dita, gli fa-cevano bere mille porcherie, lo ungevano di certa robache gli apriva dei vescicanti sullo stomaco. C’era di nuo-vo sul cassettone un arsenale di rimedi, come negli ulti-mi giorni di Bianca, buon’anima. Egli borbottava, ten-tennando il capo. – Siamo già ai medicamenti checostano cari! Vuol dire che non c’è più rimedio. – Il de-naro a fiumi, un va e vieni, una baraonda per la casa, ta-vola imbandita da mattina a sera. Burgio, che non c’eraavvezzo, correva a mostrare la lingua ai medici, come ve-nivano pel cognato; Santo non usciva più nemmeno perandare all’osteria; e i nipoti, quando tornavano dai po-deri, si pigliavano pei capelli: liti e quistioni fra di loroche facevano a chi più arraffa, degli strepiti che arrivava-no fin nella camera dell’infermo, il quale tendeva l’orec-chio, smanioso di sapere quello che facevano della suaroba, e anche lui si metteva a strillare dal letto:

– Lasciatemi andare a Mangalavite. Ci ho tutti i mieiinteressi alla malora. Qui mi mangio il fegato. Lasciate-mi andare, se no crepo!

Ci aveva come una palla di piombo nello stomaco,che gli pesava, voleva uscir fuori, con un senso di penacontinuo; di tratto in tratto, si contraeva, s’arroventava emartellava, e gli balzava alla gola, e lo faceva urlare co-me un dannato, e gli faceva mordere tutto ciò che capi-tava. Egli rimaneva sfinito, anelante, col terrore vago di

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un altro accesso negli occhi stralunati. Tutto ciò che in-goiava per forza, per aggrapparsi alla vita, i bocconi piùrari, senza chiedere quel che costassero, gli si mutavanoin veleno; tornava a rigettarli come roba scomunicata,più nera dell’inchiostro, amara, maledetta da Dio. E in-tanto i dolori e la gonfiezza crescevano: una pancia chele gambe non la reggevano più. Bomma, picchiandovisopra, una volta disse: – Qui c’è roba.

– Che volete dire, vossignoria? – balbettò don Ge-sualdo, balzando a sedere sul letto, coi sudori freddi ad-dosso.

Bomma lo guardò bene in faccia, accostò la seggiola,si voltò di qua e di là per vedere s’erano soli.

– Don Gesualdo, siete un uomo… Non siete più unragazzo, eh?

– Sissignore, – rispose lui con voce ferma, calmatosi aun tratto, col coraggio che aveva sempre avuto al biso-gno. – Sissignore, parlate.

– Bene, qui ci vuole un consulto. Non avete mica unaspina di fico d’India nel ventre! E’ un affare serio, capi-te! Non è cosa per la barba di don Margheritino o diqualcun altro… sia detto senza offenderli, qui in confi-denza. Chiamate i migliori medici forestieri, don Vin-cenzo Capra, il dottor Muscio di Caltagirone, chi vole-te… Denari non ve ne mancano…

A quelle parole don Gesualdo montò in furia: – I de-nari!… Vi stanno a tutti sugli occhi i denari che ho gua-dagnato!… A che mi servono… se non posso comprareneanche la salute?… Tanti bocconi amari m’hanno da-to… sempre!…

Ma però volle stare a sentire la conclusione del di-scorso di Bomma. Alle volte non si sa mai… Lo lasciò fi-nire, stando zitto, tenendosi il mento, pensando ai casisuoi. Infine volle sapere:

– Il consulto? Che mi fa il consulto?Bomma perse le staffe: – Che vi fa? Caspita! Quello

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che vi può fare… Almeno non si dirà che vi lasciate mo-rire senza aiuto. Io parlo nel vostro interesse. Non me neviene nulla in tasca… Io fo lo speziale… Non è affarmio… Non me ne intendo. Vi ho curato per amicizia…– Come l’altro tentennava il capo, diffidente, col sorrisofurbo sulle labbra smorte, il farmacista mise da bandaogni riguardo. – Morto siete, don minchione! A voi di-co!

Allora don Gesualdo volse un’occhiata lenta e tenacein giro, si soffiò il naso, e si lasciò andar giù sul letto su-pino. Di lì a un po’, guardando il soffitto, aggiunse conun sospiro:

– Va bene. Facciamo il consulto.La notte non chiuse occhio. Tormentato da un’an-

sietà nuova, con dei brividi che lo assalivano di tratto intratto, dei sudori freddi, delle inquietudini che lo face-vano rizzare all’improvviso sul letto coi capelli irti, guar-dando intorno nelle tenebre, vedendo sempre la facciaminacciosa di Bomma, tastandosi, soffocando i dolori,cercando d’illudersi. Parevagli di sentirsi meglio infatti.Voleva curarsi, giacché era un affar serio. Voleva guari-re. Ripeteva le parole stesse dello speziale: denari neaveva; s’era logorata la vita apposta; non li aveva guada-gnati per far la barba al signor genero; perché se li go-dessero degli ingrati che lo lasciavano crepare lontano:Lontano dagli occhi, lontan dal cuore! Il mondo è fattocosì, che ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Il mulinosuo, di lui, era di riacquistare la salute, coi suoi denari.C’erano al mondo dei buoni medici che l’avrebbero fat-to guarire, pagandoli bene. Allora asciugavasi quel su-dore d’agonia, e cercava di dormire. Voleva che i mediciforestieri che aspettava il giorno dopo gli trovassero mi-glior cera; contava le ore; gli pareva mill’anni che fosse-ro lì dinanzi al suo letto. La stessa luce dell’alba gli face-va animo. Poi, allorché udì le campanelle della lettigache portava il Muscio e don Vincenzo Capra si sentì

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slargare il cuore tanto fatto. Si tirò su svelto a sedere sulletto come uno che si senta proprio meglio. Salutò quel-la brava gente con un bel sorriso che doveva rassicurareanche loro, appena li vide entrare.

Essi invece gli badarono appena. Erano tutti orecchiper don Margheritino che narrava la storia della malattiacon gran prosopopea; approvavano coi cenni del capodi tanto in tanto; volgevano solo qualche occhiata di-stratta sull’ammalato che andavasi scomponendo in vol-to, alla vista di quelle facce serie, al torcer dei musi, allalunga cicalata del mediconzolo che sembrava recitassel’orazione funebre. Dopo che colui ebbe terminato diciarlare s’alzarono l’uno dopo l’altro, e tornarono a pal-pare e a interrogare il malato, scrollando il capo, concerto ammiccare sentenzioso, certe occhiate fra di loroche vi mozzavano il fiato addirittura. Ce n’era uno spe-cialmente, dei forestieri, che stava accigliato e pensiero-so, e faceva a ogni momento uhm! uhm! senza aprirbocca. I parenti, la gente di casa, dei vicini anche, percuriosità, si affollavano all’uscio, aspettando la sentenza,mentre i dottori confabulavano a bassa voce fra di loroin un canto. A un cenno dello speziale, Burgio e sua mo-glie andarono a sentire anch’essi, in punta di piedi.

– Parlate, signori miei! – esclamò allora il pover’uo-mo pallido come un morto. – Sono io il malato, infine!Voglio sapere a che punto sono.

Il Muscio abbozzò un sorriso che lo fece più brutto. Edon Vincenzo Capra, in bel modo, cominciò a spiegarela diagnosi della malattia: Pylori cancer, il pyrosis deigreci. Non s’avevano ancora indizii d’ulcerazione; l’ade-sione stessa del tumore agli organi essenziali non eracerta; ma la degenerescenza dei tessuti accusavasi giàper diversi sintomi patologici. Don Gesualdo, dopo ave-re ascoltato attentamente, riprese:

– Tutto questo va benone. Però ditemi se potete gua-

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rirmi, vossignoria. Senza interesse… pagandovi secondoil vostro merito…

Capra ammutolì da prima e si strinse nelle spalle.– Eh, eh… guarire… certo… siamo qui per cercar di

guarirvi… – Il Muscio, più brutale, spifferò chiaro etondo il solo rimedio che si potesse tentare: l’estirpazio-ne del tumore, un bel caso, un’operazione chirurgicache avrebbe fatto onore a chiunque. Dimostrava il mo-do e la maniera, accalorandosi nella proposta, accompa-gnando la parola coi gesti, fiutando già il sangue cogliocchi accesi nel faccione che gli s’imporporava tutto,quasi stesse per rimboccarsi le maniche e incominciare;tanto che il paziente spalancava gli occhi e la bocca, e ti-ravasi indietro per istinto; e le donne, atterrite, scappa-rono a gemere e a singhiozzare.

– Madonna del Pericolo! – cominciò a strillare Spe-ranza. – Vogliono ammazzarmi il fratello… squartarlovivo come un maiale!

– Chetatevi! – balbettò lui passandosi un lembo dellenzuolo sulla faccia che grondava goccioloni. Gli altrimedici tacevano e approvavano più o meno la propostadel dottor Muscio per cortesia. Don Gesualdo, visto chenessuno fiatava, ripigliò a dire:

– Chetatevi!… Si tratta della mia pelle… devo dir lamia anch’io… Signori miei… sono un uomo… Non so-no un ragazzo… Se dite ch’è necessaria… questa opera-zione… Se dite che è necessaria… Sissignore… si farà…Però, lasciatemi dir la mia…

– E’ giusto. Parlate.– Ecco… Una cosa sola.. Voglio sapere prima se mi

garantite la pelle… Siamo galantuomini… Mi fido divoi… Non è un negozio da farsi a occhi chiusi. Vogliovederci chiaro nel mio affare…

– Che discorsi son questi! – interruppe il Muscio di-menandosi sulla seggiola. – Io fo il chirurgo, amico mio.

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

Io fo il mio mestiere, e non m’impiccio a far scommesseda ciarlatano! Credete di trattare col Zanni, alla fiera?

– Allora non ne facciamo nulla, – rispose don Gesual-do. E gli voltò le spalle. – Andate là, Bomma, che m’ave-te dato un bel consiglio!

Speranza, premurosa, vide giunta l’ora di rivolgersi aisanti, e si diede le mani attorno a procurar reliquie e im-magini benedette. Neri pensò che si doveva avvertire su-bito la figliuola e il genero del pericolo che correva donGesualdo. Lui non dava più retta. Diceva che di santi edi reliquie ne aveva un fascio, lì nell’armadio di Bianca,insieme alle altre medicine. Non voleva veder nessuno.Giacché era condannato, voleva morire in pace, senzaoperazioni chirurgiche, lontano dai guai, nella sua cam-pagna. S’attaccava alla vita mani e piedi, disperato. Neaveva passate delle altre; s’era aiutato sempre da sé, neimali passi. Coraggio ne aveva e aveva il cuoio duro an-che. Mangiava e beveva; si ostinava a star meglio; si alza-va dal letto due o tre ore al giorno; si trascinava per lestanze, da un mobile all’altro. Infine si fece portare aMangalavite, col fiato ai denti, mastro Nardo da un latoe Masi dall’altro che lo reggevano sul mulo – un viaggioche durò tre ore, e gli fece dire cento volte: – Buttateminel fosso, ch’è meglio.

Ma laggiù, dinanzi alla sua roba, si persuase che erafinita davvero, che ogni speranza per lui era perduta, alvedere che di nulla gliene importava, oramai. La vignametteva già le foglie, i seminati erano alti, gli ulivi in fio-re, i sommacchi verdi, e su ogni cosa stendevasi unanebbia, una tristezza, un velo nero. La stessa casina, col-le finestre chiuse, la terrazza dove Bianca e la figliuolasolevano mettersi a lavorare, il viale deserto, fin la suagente di campagna che temeva di seccarlo e se ne stavaalla larga, lì nel cortile o sotto la tettoia, ogni cosa glistringeva il cuore; ogni cosa gli diceva: Che fai? chevuoi? La sua stessa roba, lì, i piccioni che roteavano a

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stormi sul suo capo, le oche e i tacchini che schiamazza-vano dinanzi a lui… Si udivano delle voci e delle cantile-ne di villani che lavoravano. Per la viottola di Licodia, infondo, passava della gente a piedi e a cavallo. Il mondoandava ancora pel suo verso, mentre non c’era più spe-ranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradiciache deve cascare dal ramo, senza forza di muovere unpasso sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uo-vo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastona-re anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avreb-be voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dioche aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la suaroba se ne andasse con lui, disperata come lui. MastroNardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese,più morto che vivo.

Di lì a qualche giorno arrivò il duca di Leyra, chiama-to per espresso, e s’impadronì del suocero e della casa,dicendo che voleva condurselo a Palermo e farlo curaredai migliori medici. Il poveretto, ch’era ormai l’ombradi sé stesso, lasciava fare; riapriva anzi il cuore alla spe-ranza; intenerivasi alle premure del genero e della fi-gliuola che l’aspettava a braccia aperte. Gli pareva chegli tornassero già le forze. Non vedeva l’ora d’andarse-ne, quasi dovesse lasciare il suo male lì, in quella casa ein quei poderi che gli erano costati tanti sudori, e che glipesavano invece adesso sulle spalle. Il genero intanto oc-cupavasi col suo procuratore a mettere in sesto gli affari.Appena don Gesualdo fu in istato di poter viaggiare, lomisero in lettiga e partirono per la città. Era una giorna-ta piovosa. Le case note, dei visi di conoscenti che si vol-tavano appena, sfilavano attraverso gli sportelli della let-tiga. Speranza, e tutti i suoi, in collera dacché era venutoil duca a spadroneggiare, non si erano fatti più vedere.Ma Nardo aveva voluto accompagnare il padrone sinoalle ultime case del paese. In via della Masera si udì gri-dare: – Fermate! fermate! – E apparve Diodata, ché vo-

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leva salutare don Gesualdo l’ultima volta, lì, davanti ilsuo uscio. Però, giunta vicino a lui, non seppe trovare leparole, e rimaneva colle mani allo sportello, accennandocol capo.

– Ah, Diodata… Sei venuta a darmi il buon viag-gio?… – disse lui. Essa fece segno di sì, di sì, cercandodi sorridere, e gli occhi le si riempirono di lagrime.

– Povera Diodata! Tu sola ti rammenti del tuo padro-ne…

Affacciò il capo allo sportello, cercando forse degli al-tri, ma siccome pioveva lo tirò indietro subito.

– Guarda che fai!… sotto la pioggia… a capo scoper-to!… E’ il tuo vizio antico! Ti rammenti, eh, ti rammen-ti?

– Sissignore, – rispose lei semplicemente, e continua-va ad accompagnare le parole coi cenni del capo. – Sissi-gnore, fate buon viaggio, vossignoria.

Si staccò pian piano dalla lettiga, quasi a malincuore,e tornò a casa, fermandosi sull’uscio, umile e triste. DonGesualdo s’accorse allora di mastro Nardo che l’avevaseguìto sin lì, e mise mano alla tasca per regalargli qual-che baiocco.

– Scusate, mastro Nardo… non ne ho… sarà perun’altra volta, se torniamo a vederci, eh?… se torniamoa vederci… – E si buttò all’indietro, col cuore gonfio ditutte quelle cose che si lasciava dietro le spalle, la viotto-la fangosa per cui era passato tante volte, il campanileperduto nella nebbia, i fichi d’India rigati dalla pioggiache sfilavano di qua e di là della lettiga.

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V

Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo,allorché fu in casa della figliuola. Era un palazzone cosìvasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi etappeti che non si sapeva dove mettere i piedi – sin dalloscalone di marmo – e il portiere, un pezzo grosso addi-rittura, con tanto di barba e di soprabitone, vi squadra-va dall’alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevateuna faccia che non lo persuadesse, e vi gridava dietrodal suo gabbione: – C’è lo stoino per pulirsi le scarpe! –Un esercito di mangiapane, staffieri e camerieri, chesbadigliavano a bocca chiusa, camminavano in punta dipiedi, e vi servivano senza dire una parola o fare un pas-so di più, con tanta degnazione da farvene passar la vo-glia. Ogni cosa regolata a suon di campanello, con uncerimoniale di messa cantata – per avere un bicchierd’acqua, o per entrare nelle stanze della figliuola. Lostesso duca, all’ora di pranzo, si vestiva come se andassea nozze.

Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s’era fattoanimo per contentare la figliuola, e s’era messo in galaanche lui per venire a tavola, legato e impastoiato, conun ronzìo nelle orecchie, le mani esitanti, l’occhio in-quieto, le fauci strette da tutto quell’apparato, dal came-riere che gli contava i bocconi dietro le spalle, e di cuiogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi atradimento e togliervi la roba dinanzi. L’intimidiva purela cravatta bianca del genero, le credenze alte e scintil-lanti come altari, e la tovaglia finissima, che s’aveva sem-pre paura di lasciarvi cadere qualche cosa. Tanto chemacchinava di prendere a quattr’occhi la figliuola, e dir-le il fatto suo. Il duca, per fortuna, lo tolse d’impiccio,dicendo ad Isabella, dopo il caffè, col sigaro in bocca e ilcapo appoggiato alla spalliera del seggiolone:

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– Mia cara, d’oggi innanzi credo che sarebbe megliofar servire papà nelle sue stanze. Avrà le sue ore, le sueabitudini… Poi, col regime speciale che richiede il suostato di salute…

– Certo, certo, – balbettò don Gesualdo. – Stavo perdirvelo… Sarei più contento anch’io… Non voglio esse-re d’incomodo…

– No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modopiacere, caro mio.

Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suoce-ro. Gli riempiva il bicchierino; lo incoraggiava a fumareun sigaro; lo assicurava infine che gli trovava miglior ce-ra, da che era arrivato a Palermo, e il cambiamentod’aria e una buona cura l’avrebbero guarito del tutto.Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasigiudizioso; cercava il modo e la maniera d’avere il piace-re di tenersi il suocero in casa un pezzo, senza timoreche gli affari di lui andassero a rotta di collo… Una pro-cura generale… una specie d’alter ego… Don Gesualdosi sentì morire il sorriso in bocca. Non c’era che fare. Ilgenero, nel viso, nelle parole, sin nel tono della voce, an-che quando voleva fare l’amabile e pigliarvi bel bello,aveva qualcosa che vi respingeva indietro, e vi faceva ca-scar le braccia, uno che avesse voluto buttargliele al col-lo, proprio come a un figlio, e dirgli:

– Te’! per la buona parola, adesso! Pazienza il resto!Fai quello che vuoi!

Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla fi-gliuola. Ci si sentiva a disagio col signor genero; temevasempre che ripigliasse l’antifona dell’alter ego. Gli man-cava l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiederequasi licenza al servitore che faceva la guardia in antica-mera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene ap-pena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in unquartierino al pian di sopra, poche stanze che chiamava-no la foresteria, dove Isabella andava a vederlo ogni

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mattina, in veste da camera, spesso senza neppure met-tersi a sedere, amorevole e premurosa, è vero, ma in cer-to modo che al pover’uomo sembrava d’essere davveroun forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pare-va non avesse chiuso occhio neppur lei. Aveva una certaruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che a lui, vecchioe pratico del mondo, non andavan punto a genio.Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le braccia, strettastretta, e chiederle piano in un orecchio: – Cos’hai?…dimmelo!… Confidati a me che dei guai ne ho passatitanti, e non posso tradirti!…

Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Sta-va chiusa, parlava di rado anche della mamma, quasi ilchiodo le fosse rimasto lì, fisso… accusando lo stomacopeloso dei Trao, che vi chiudevano il rancore e la diffi-denza, implacabili!

Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone eanche le lagrime, che gli si gonfiavano grosse grosse den-tro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i giorni malin-conici dietro l’invetriata, a veder strigliare i cavalli e la-vare le carrozze, nella corte vasta quanto una piazza.Degli stallieri, in manica di camicia e coi piedi nudi neglizoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiac-chiere e degli strambotti coi domestici, i quali perdeva-no il tempo alle finestre, col grembialone sino al collo, oin panciotto rosso, strascicando svogliatamente unostrofinaccio fra le mani ruvide, con le barzellette sguaia-te, dei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben petti-nati che sembravano togliersi allora una maschera. Icocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare,col sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchetteattillate, discorrendo di tanto in tanto col guardaporto-ne che veniva dal suo casotto a fare una fumatina, accen-nando con dei segni e dei versacci alle cameriere che sivedevano passare dietro le invetriate dei balconi, oppurefacevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù del-

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le parolacce e delle risate di male femmine con certi visida Madonna. Don Gesualdo pensava intanto quanti beidenari dovevano scorrere per quelle mani; tutta quellagente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sul-la dote che egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga, lebelle terre che aveva covato cogli occhi tanto tempo, se-ra e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte,e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, toglien-dosi il pane di bocca: le povere terre nude che bisognavaarare e seminare; i mulini, le case, i magazzini che avevafabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sassodopo l’altro. La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto,tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi avrebbe po-tuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimè, po-vera roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor du-ca, lui, quando usciva di casa, a testa alta, col sigaro inbocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano,fermavasi appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, osse-quiato come il Santissimo Sagramento, le finestre sichiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tuttia capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonatoin mano, ritto dinanzi alla sua vetrina, gli stallieri immo-bili accanto alla groppa delle loro bestie, colla strigliaappoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signoro-ne, piegato in due a passare la rivista e prendere gli ordi-ni: una commedia che durava cinque minuti. Dopo, ap-pena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e labaraonda, dalle finestre, dalle arcate del portico chemetteva alle scuderie, dalla cucina che fumava e fiam-meggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bian-co, quasi il palazzo fosse abbandonato in mano a un’or-da famelica, pagata apposta per scialarsela sino al toccodella campana che annunziava qualche visita – un’altrasolennità anche quella. – La duchessa certi giorni si met-teva in pompa magna ad aspettare le visite come un’ani-ma di purgatorio. Arrivava di tanto in tanto una carroz-

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za fiammante; passava come un lampo dinanzi al porti-naio, che aveva appena il tempo di cacciare la pipa nellafalda del soprabito e di appendersi alla campana; delledame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sottol’alto vestibolo, e dopo dieci minuti tornavano ad uscireper correre altrove a rompicollo; proprio della gente chesembrava presa a giornata per questo. Lui invece passa-va il tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare,con l’amore e la sollecitudine del suo antico mestiere,quel che erano costate le finestre scolpite, i pilastri mas-sicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quellestoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e in-ghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la semen-te, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza darfrutto, sempre più affamati, sempre più divoranti, similia quel male che gli consumava le viscere. Quante cose sisarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buonicolpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pa-gati! Delle fattorie, dei villaggi interi da fabbricare…delle terre da seminare, a perdita di vista… E un eserci-to di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a mon-tagne, del denaro a fiumi da intascare!… Allora gli sigonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavanosu quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senzascendere mai giù sino alle finestre. Pensava alle stradepolverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lun-go le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare isolchi!… Oramai!… oramai!…

Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo inces-sante della città negli orecchi, lo scampanìo di tantechiese che gli martellava sul capo, consumato lentamen-te dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordereil guanciale, a volte, per non seccare il domestico chesbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, ilcambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medici-na indovinata, per sbaglio, avevano fatto il miracolo, gli

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avevano fatto credere di potersi guarire. Dopo era rica-duto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Pa-lermo avevano saputo trovar rimedio a quella malattiascomunicata! tal quale come i medici ignoranti del suopaese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’unodopo l’altro, dei dottoroni che tenevano carrozza, e sifacevano pagare anche il servitore che lasciavano in anti-camera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavanoquasi avessero da fare con un ragazzo o un contadino.Lo mostravano agli apprendisti come il zanni fa vederealla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con duecode, facendo la spiegazione con parole misteriose. Ri-spondevano appena, a fior di labbra, se il povero diavo-lo si faceva lecito di voler sapere che malattia covava incorpo, quasi egli non avesse che vederci, colla sua pelle!Gli avevano fatto comperare anch’essi un’intera farma-cia: dei rimedi che si contavano a gocce, come l’oro, de-gli unguenti che si spalmavano con un pennello e apri-vano delle piaghe vive, dei veleni che davano dellecoliche più forti e mettevano come del rame nella bocca,dei bagni e dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senzaforza di muovere il capo, vedendo già l’ombra dellamorte da per tutto.

– Signori miei, a che giuoco giuochiamo? – voleva di-re. – Allora, se è sempre la stessa musica, me ne torno almio paese…

Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo la-sciavano sfogare, se pretendeva di sapere come li spen-deva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d’essereall’ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezio-ne anche del genero che veniva ad accompagnare i pezzigrossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra di lo-ro, voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspetta-va a bocca aperta una parola di vita o di morte. Oppuregli facevano l’elemosina di una risposta che non dicevaniente, di un sorrisetto che significava addirittura – Ar-

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rivederci in Paradiso, buon uomo! – C’erano persino diquelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero offe-si. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa digrave, al viso stesso che facevano i medici, alle alzate dispalle scoraggianti, alle lunghe fermate col genero, e alborbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera.Infine non si tenne più. Un giorno che quei signori tor-navano a ripetere la stessa pantomima, ne afferrò unoper la falda, prima d’andarsene.

– Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato,infine! Non sono un ragazzo. Voglio sapere di che sitratta, giacché si giuoca sulla mia pelle!

Colui invece cominciò a fare una scenata col duca,quasi gli si fosse mancato di rispetto in casa sua. Ci volledel bello e del buono per calmarlo, e perché non pian-tasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Ge-sualdo udì che gli dicevano sottovoce: – Compatitelo…Non conosce gli usi… E’ un uomo primitivo… nello sta-to di natura… – Sicché il poveraccio dovette mandar giùtutto, e rivolgersi alla figliuola, per sapere qualche cosa.

– Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?… E’una malattia grave, di’?…

E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, mal-grado che tentasse di cacciarle indietro, infuriò. Non vo-leva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi eandarsene via da quella casa maledetta.

– Non dico per te… Hai fatto di tutto… Non mimanca nulla… Ma io non ci sono avvezzo, vedi… Mipar di soffocare qui dentro…

Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuoreglielo diceva, al povero padre. Sembrava che fossero inperfetto accordo, marito e moglie; discorrevano cortese-mente fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passavaquasi sempre una mezz’oretta nel salottino della mogliedopo pranzo; andava a darle il buon giorno ogni matti-na, prima della colazione; per i Morti, a Natale, per la

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festa di Santa Rosalia, e nella ricorrenza del suo onoma-stico o dell’anniversario del loro matrimonio, le regalavadei gioielli, ch’essa aveva fatto ammirare al babbo, inprova del bene che le voleva il marito.

– Ah, ah… capisco… dev’essere costata una bellasomma!… però non sei contenta… si vede benissimoche non sei contenta….

Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto,un’altra ansietà mortale, che non la lasciava neppurequand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorchéudiva un passo all’improvviso, o suonava ad ora insolitala campana che annunziava il duca; e dei pallori mortali,certi sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rim-provero. Alcune volte l’aveva vista giungere correndo,pallida, tremante come una foglia, balbettando dellescuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai,aveva udito un’agitazione insolita nel piano di sotto, de-gli usci che sbattevano, la voce della cameriera che stril-lava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzarespaventato sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non glivolle dir nulla; sembrava anzi che le sue domande l’infa-stidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quellacasa, ciascuno chiudendosi in corpo i propri guai, il du-ca col sorriso freddo, Isabella con la buona grazia che leaveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappetisoffocavano ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinan-zi a lui, marito e moglie, così tranquilli, che nessunoavrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva fred-do nella schiena.

Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza deisuoi guai. Il peggio di tutti stava lui che aveva la mortesul collo. Quand’egli avrebbe chiuso gli occhi tutti gli al-tri si sarebbero data pace, come egli stesso s’era data pa-ce dopo la morte di suo padre e di sua moglie. Ciascunotira l’acqua al suo mulino. Ne aveva data tanta dell’ac-qua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata, tutti

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gli altri… un vero fiume. Anche lì, in quel palazzo dicuccagna, era tutto opera sua; e intanto non trovava ri-poso fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume;soffocava fra i cortinaggi e le belle stoffe di seta che glitoglievano il sole. I denari che spendeva per far andarela baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tene-vano dietro l’uscio a contargli i sospiri, insino al cuocoche gli preparava certe brode insipide che non riusciva amandar giù, ogni cosa l’attossicava; non digeriva piùneanche i bocconi prelibati, erano tanti chiodi nelle suecarni.

– Mi lasciano morir di fame, capisci! – lagnavasi collafigliuola, alle volte, cogli occhi accesi dalla disperazione.– Non è per risparmiare… Sarà della roba buona… Mail mio stomaco non c’è avvezzo… Rimandatemi a casamia. Voglio chiuder gli occhi dove son nato!

L’idea della morte ora non lo lasciava più; si tradivanelle domande insidiose, nelle occhiate piene di sospet-to, anche nella preoccupazione affannosa di dissimularlain vari modi. Adesso non aveva più suggezione di nessu-no, e afferrava chi gli capitava per domandare:

– Voglio sapere la verità, signori cari… Per regolare lemie cose… i miei interessi… – E se cercavano di rassicu-rarlo, dicendogli che non c’era nulla di grave… di se-rio… pel momento… egli tornava ad insistere, ad ap-puntare gli occhi, furbo, per scavar terreno: – E’ che hotanto da fare laggiù, al mio paese, signori miei… capi-te!… Non posso mica darmi bel tempo, io!… Bisognache pensi a tutto, se no c’è la rovina!…

Poi spiegava di dove gli era venuto quel male: – Sonostati i dispiaceri!… i bocconi amari!… ne ho avuti tanti!Vedete, me n’è rimasto il lievito qui dentro!… – Era tor-nato diffidente. Temeva che non vedessero l’ora di le-varselo di torno, per risparmiar la spesa e impadronirsidel fatto suo. Cercava di rassicurar tutti quanti, col sor-riso affabile:

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– Non guardate a spesa… Posso pagare… Mio gene-ro lo sa… Tutto ciò che occorre… Non saranno denaripersi… Se campo, ne guadagno ancora tanti dei dena-ri… – Cogli occhi lucenti, cercava d’ingraziarsi la sua fi-gliuola stessa. Sapeva che la roba, ahimè, mette l’infernoanche fra padri e figli. La pigliava in parola. Balbettava,accarezzandola come quand’era bambina, spiandola disottecchi intanto, col cuore alla gola:

– Qui cosa mi manca? Ho tutto per guarire… Tuttoquello che ci vorrà spenderemo, non è vero?

Ma il male lo vinceva e gli toglieva ogni illusione. Inquei momenti di scoraggiamento il pover’uomo pensavaa voce alta:

– A che mi serve?… a che giova tutto ciò?… Neppurea tua madre è giovato!

Un giorno venne a fargli visita l’amministratore delduca, officioso, tutto gentilezze come il suo padronequando apparecchiavasi a dare la botta. S’informò dellasalute; gli fece le condoglianze per la malattia che tiravain lungo. Capiva bene, lui, un uomo d’affari come donGesualdo… che dissesto… quanti danni… le conse-guenze… un’azienda così vasta… senza nessuno che po-tesse occuparsene sul serio… Infine offrì d’incaricarsenelui… per l’interesse che portava alla casa… alla signoraduchessa… Del signor duca era buon servo da tanti an-ni… Sicché prendeva a cuore anche gli interessi di donGesualdo. Proponeva d’alleggerirlo d’ogni carico… fin-ché si sarebbe guarito… se credeva… investendolo perprocura…

A misura che colui sputava fuori il veleno, don Ge-sualdo andava scomponendosi in viso. Non fiatava, sta-va ad ascoltarlo, cogli occhi bene aperti, e intanto rumi-nava come trarsi d’impiccio. A un tratto si mise a urlaree ad agitarsi quasi fosse colto di nuovo dalla colica, qua-si fosse giunta l’ultima sua ora, e non udisse e non potes-se più parlare. Balbettò solo, smaniando:

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– Chiamatemi mia figlia! Voglio veder mia figlia! Ma appena accorse lei, spaventata egli non aggiunse

altro. Si chiuse in sè stesso a pensare come uscire dalmalo passo, torvo, diffidente, voltandosi in là per non la-sciarsi scappare qualche occhiata che lo tradisse. Soltan-to ne piantò una lunga lunga addosso a quel galantuomoche se ne andava rimminchionito. Infine, a poco a poco,finse di calmarsi. Bisognava giuocar d’astuzia per uscireda quelle grinfie. Cominciò a far segno di sì e di sì colcapo, fissando gli occhi amorevoli in volto alla figliuolaallibbita, col sorriso paterno, il fare bonario;

– Sì… voglio darvi in mano tutto il fatto mio… per al-leggerirmi il carico… Mi farete piacere anzi… nello sta-to in cui sono… Voglio spogliarmi di tutto… Già ho po-co da vivere… Rimandatemi a casa mia per fare laprocura… la donazione… tutto ciò che vorrete… Lì co-nosco il notaro… so dove metter le mani… Ma prima ri-mandatemi a casa mia… Tutto quello che vorrete,poi!…

– Ah, babbo, babbo! – esclamò Isabella colle lagrimeagli occhi.

Ma egli sentivasi morire di giorno in giorno. Non po-teva più muoversi. Sembravagli che gli mancassero leforze d’alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglie-vano il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottoma-no, prigioniero. Sbuffava, smaniava, urlava di dolore edi collera. E poi ricadeva sfinito, minaccioso, collaschiuma alla bocca, sospettando di tutto, spiando primale mani del cameriere se beveva un bicchiere d’acqua,guardando ciascuno negli occhi per scoprire la verità,per leggervi la sua sentenza, costretto a ricorrere agli ar-tifizii per sapere qualcosa di quel che gli premeva.

– Chiamatemi quell’uomo dell’altra volta… Portate-mi le carte da firmare… E’ giusto, ci ho pensato su. Bi-sogna incaricare qualcuno dei miei interessi, finchè gua-risco…

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Ma adesso coloro non avevano fretta; gli prometteva-no sempre, dall’oggi al domani. Lo stesso duca si strinsenelle spalle: come a dire che non serviva più. Un terrorepiù grande, più vicino, della morte lo colse a quell’indif-ferenza. Insisteva, voleva disporre della sua roba, comeper attaccarsi alla vita, per far atto d’energia e di vo-lontà. Voleva far testamento, per dimostrare a sè stessoch’era tuttora il padrone. Il duca finalmente, per chetar-lo, gli disse che non occorreva, poiché non c’erano altrieredi… Isabella era figlia unica…

– Ah?… – rispose lui. – Non occorre… è figlia uni-ca?…

E tornò a ricoricarsi, lugubre. Avrebbe voluto rispon-dergli che ce n’erano ancora, degli eredi nati prima dilei, sangue suo stesso. Gli nascevano dei rimorsi, collabile. Faceva dei brutti sogni, delle brutte facce pallide eirose gli apparivano la notte; delle voci, degli scossoni lofacevano svegliare di soprassalto, in un mare di sudore,col cuore che martellava forte. Tanti pensieri gli veniva-no adesso, tanti ricordi, tante persone gli sfilavano di-nanzi: Bianca, Diodata, degli altri ancora: quelli nonl’avrebbero lasciato morire senza aiuto! Volle un altroconsulto, i migliori medici. Ci dovevano essere dei me-dici pel suo male, a saperli trovare, a pagarli bene. Il de-naro l’aveva guadagnato apposta, lui! Al suo paese gliavevano fatto credere che rassegnandosi a lasciarsi apri-re il ventre… Ebbene, sì, sì!

Aspettava il consulto, il giorno fissato, sin dalla matti-na, raso e pettinato, seduto nel letto, colla faccia color diterra, ma fermo e risoluto. Ora voleva vederci chiaro neifatti suoi. – Parlate liberamente, signori miei. Tutto ciòche si deve fare si farà!

Gli batteva un po’ il cuore. Sentiva un formicolìo co-me di spasimo anticipato tra i capelli. Ma era pronto atutto; quasi scoprivasi il ventre, perchè si servissero pu-re. Se un albero ha la cancrena addosso, cos’è infine? Si

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taglia il ramo! Adesso invece i medici non volevano nep-pure operarlo. Avevano degli scrupoli, dei ma e dei se.Si guardavano fra di loro e biasciavano mezze parole.Uno temeva la responsabilità; un altro osservò che nonera più il caso… oramai… Il più vecchio, una faccia dimalaugurio che vi faceva morire prima del tempo, com’èvero Dio, s’era messo già a confortare la famiglia, dicen-do che sarebbe stato inutile anche prima, con un male diquella sorta…

– Ah… – rispose don Gesualdo, fattosi rauco a untratto. – Ah… Ho inteso…

E si lasciò scivolare pian piano giù disteso nel letto,trafelato. Non aggiunse altro, per allora. Stette zitto a la-sciarli finire di discorrere. Soltanto voleva sapere s’eravenuto il momento di pensare ai casi suoi. Non c’era piùda scherzare adesso! Aveva tanti interessi gravi da la-sciare sistemati… – Taci! taci! – borbottò rivolto alla fi-gliuola che gli piangeva allato. Colla faccia cadaverica,cogli occhi simili a due chiodi in fondo alle orbite livide,aspettava la risposta che gli dovevano, infine. Non c’erada scherzare!

– No, no… C’è tempo. Simili malattie durano anni eanni… Però… certo… premunirsi… sistemare gli affaria tempo… non sarebbe male…

– Ho inteso, – ripetè don Gesualdo col naso fra le co-perte. – Vi ringrazio, signori miei.

Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una speciedi rancore, qualcosa che gli faceva tremare le mani e lavoce, e trapelava dagli occhi socchiusi. Fece segno al ge-nero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al letto, a quattr’oc-chi, da solo a solo.

– Finalmente… questo notaro… verrà, sì o no? Devofar testamento… Ho degli scrupoli di coscienza… Sissi-gnore!… Sono il padrone, sì o no?… Ah… ah… stai adascoltare anche tu?…

Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto,

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col viso fra le materasse, singhiozzando e disperandosi.Il genero lo chetava dall’altra parte. – Ma sì, ma sì,quando vorrete, come vorrete. Non c’è bisogno di fardelle scene… Ecco in che stato avete messo la vostra fi-gliuola!…

– Va bene! – seguitò a borbottare lui. – Va bene! Hocapito!

E volse le spalle, tal quale suo padre, buon’anima.Appena fu solo cominciò a muggire come un bue, colnaso al muro. Ma poi se veniva gente, stava zitto. Cova-va dentro di sé il male e l’amarezza. Lasciava passare igiorni. Pensava ad allungarseli piuttosto, a guadagnarealmeno quelli, uno dopo l’altro, così come venivano, pa-zienza! Finché c’è fiato c’è vita. A misura che il fiato gliandava mancando, a poco a poco, acconciavasi pure aisuoi guai; ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grosse, eavrebbe tirato in lungo, mercé la sua pelle dura. Allevolte provava anche una certa soddisfazione, fra sé e sé,sotto il lenzuolo, pensando al viso che avrebbero fatto ilsignor duca e tutti quanti, al vedere che lui aveva la pelledura. Era arrivato ad affezionarsi ai suoi malanni, liascoltava, li accarezzava, voleva sentirseli lì, con lui, pertirare innanzi. I parenti ci avevano fatto il callo anch’es-si; avevano saputo che quella malattia durava anni edanni, e s’erano acchetati. Così va il mondo, pur troppo,che passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per lasua via e bada agli affari propri. Non si lamentava nep-pure; non diceva nulla, da villano malizioso, per nonsprecare il fiato, per non lasciarsi sfuggire quel che nonvoleva dire; solamente gli scappavano di tanto in tantodelle occhiate che significavano assai, al veder la figliuo-la che gli veniva dinanzi con quella faccia desolata, e poiteneva il sacco al marito, e lo incarcerava lì, sotto i suoiocchi, col pretesto dell’affezione, per covarselo, pel ti-more che non gli giuocasse qualche tiro nel testamento.Indovinava che teneva degli altri guai nascosti, lei, e alle

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volte aveva la testa altrove, mentre suo padre stava collamorte sul capo. Si rodeva dentro, a misura che peggiora-va; il sangue era diventato tutto un veleno; ostinavasisempre più, taciturno, implacabile, col viso al muro, ri-spondendo solo coi grugniti, come una bestia.

Finalmente si persuase ch’era giunta l’ora, e s’appa-recchiò a morire da buon cristiano. Isabella era venutasubito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomiti, esi rizzò a sedere sul letto. – Senti, – le disse, – ascolta…

Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli oc-chi fissi sulla figliuola, e accennava col capo. Essa gliprese la mano e scoppiò a singhiozzare.

– Taci, – riprese, – finiscila. Se cominciamo così nonsi fa nulla.

Ansimava perchè aveva il fiato corto, ed anche perl’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitavaad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato.Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime.Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò una crocein aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti,prima d’andarsene.

– Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, sin-

ghiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarez-zavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente,senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:

– Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamotempo inutilmente. – Poi gli venne una tenerezza. – Tidispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…

La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi,s’erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle lab-bra. – Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potu-to… come ho potuto… Quando uno fa quello chepuò…

Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guar-dandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò

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stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei ca-pelli fini.

– Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle

ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosiche dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cer-cato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte,per ricacciarli indietro, e cambiò discorso.

– Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo inchiacchiere, adesso…

Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava lemani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che glipareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiu-dere gli occhi.

– Ma no, parliamone! – insisteva lui. – Sono discorsiserii. Non ho tempo da perdere adesso. – Il viso gli siandava oscurando, il rancore antico gli corruscava negliocchi. – Allora vuol dire che non te ne importa nulla…come a tuo marito…

Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capochino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti cre-pacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tuttiquei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteg-gerla, di difenderla: – Piuttosto farti tagliare la mano,vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmaredelle carte!… Lui non sa cosa vuol dire! – Spiegava quelche gli erano costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, lipassava tutti in rassegna amorosamente; rammentavacome erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco,le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva mi-nutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive.Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accen-deva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrimeagli occhi: – Mangalavite, sai… la conosci anche tu… cisei stata con tua madre… Quaranta salme di terreni, tut-ti alberati!… ti rammenti… i belli aranci?… anche tua

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madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimigiorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 on-ze! E la Salonia… dei seminati d’oro… della terra che famiracoli… benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le os-sa!…

Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come unbambino.

– Basta, – disse poi. – Ho da dirti un’altra cosa… Sen-ti…

La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime pervedere l’effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fecesegno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino cheesitava e cercava le parole.

– Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei la-sciare qualche legato a delle persone verso cui ho degliobblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te che seiricca… Farai conto di essere una regalìa che tuo padre tidomanda… in punto di morte… se ho fatto qualcosaanch’io per te…

– Ah, babbo, babbo!… che parole! – singhiozzò Isa-bella.

– Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non vo-lesse…

Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso perleggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle in-tendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel se-greto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gliparve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’al-tro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola.E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre doman-de, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, eleggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse in-dovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tiran-dosi indietro, chiudendosi in sè, superba, coi suoi guai eil suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta,com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta.Allentò le braccia, e non aggiunse altro.

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– Ora fammi chiamare un prete, – terminò con un al-tro tono di voce. – Voglio fare i miei conti con Dome-neddio.

Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternativedi meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse ariaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peg-giorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo adormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniareprima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci,si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine,seccato da quella canzone che non finiva più, andò son-nacchioso a vedere che c’era.

– Mia figlia! – borbottò don Gesualdo con una voceche non sembrava più la sua. – Chiamatemi mia figlia!

– Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, – rispose ildomestico, e tornò a coricarsi.

Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso,nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udi-va un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto,dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse,una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava lapelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furi-bondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce.

– Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passarmattana! Che cerca?

Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffaresupino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in fac-cia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare adormire gli andò via a un tratto.

– Ohi! ohi! Che facciamo adesso? – balbettò grattan-dosi il capo.

Stette un momento a guardarlo così, col lume in ma-no, pensando se era meglio aspettare un po’, o scenderesubito a svegliare la padrona e mettere la casa sottoso-pra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col re-

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spiro più corto, preso da un tremito, facendo solo ditanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fis-si e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto.La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le pri-me campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, epicchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a ve-stirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortinedel letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere unaboccata d’aria, fumando.

Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato,alzò il capo verso la finestra.

– Mattinata, eh, don Leopoldo?– E nottata pure! – rispose il cameriere sbadigliando.

– M’è toccato a me questo regalo!L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di

nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio sen’era andato, grazie a Dio.

– Ah… così… alla chetichella?… – osservò il porti-naio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne.

Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e volle-ro andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto siriempì di gente in manica di camicia e colla pipa in boc-ca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla fi-nestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nellastanza accanto.

– Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; nonvi mangiamo mica… E neanche lui… non vi mette più lemani addosso di sicuro…

– Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… –Ha cessato di penare.

– Ed io pure, – soggiunse don Leopoldo.Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date

quel cristiano – uno che faceva della notte giorno, e nonsi sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. – Pa-zienza servire quelli che realmente son nati meglio dinoi… Basta, dei morti non si parla.

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Giovanni Verga - Mastro-don Gesualdo

– Si vede com’era nato… – osservò gravemente il coc-chiere maggiore. – Guardate che mani!

– Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vede-te cos’è nascer fortunati… Intanto vi muore nella batti-sta come un principe!…

– Allora, – disse il portinaio, – devo andare a chiudereil portone?

– Sicuro, eh! E’ roba di famiglia. Adesso bisogna av-vertire la cameriera della signora duchessa.

Mastro don Gesualdo – Giovanni Verga

Fine

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