MASTER UPA ACADEMY 2017 COMUNICAZIONE D’AZIENDA … · In secondo luogo, l’hub si relaziona con...

229
MASTER UPA ACADEMY 2017 COMUNICAZIONE D’AZIENDA NELLA NETWORK SOCIETY

Transcript of MASTER UPA ACADEMY 2017 COMUNICAZIONE D’AZIENDA … · In secondo luogo, l’hub si relaziona con...

MASTER UPA ACADEMY 2017

COMUNICAZIONE D’AZIENDA

NELLA NETWORK SOCIETY

INDICE

SEZIONE FONDAMENTI FONDAMENTI DI MARKETING (AVANZATO) pag. 5

Scritto da Giulia Sellitto, tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi

WEB 2.0 E NUOVI MODELLI DI BUSINESS pag. 13

Scritto da Giulia Manganelli, tratto dalla lezione di Carlo Alberto Carnevale Maffè

TRADE MARKETING pag. 21

Scritto da Fabrizio D’Ippolito, tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi

PRINCIPI DI E-COMMERCE E SOCIAL COMMERCE pag. 29

Scritto da Alessandro Casti, tratto dalla lezione di Gianluca Diegoli

INTRODUZIONE AI METODI DI RICERCHE QUALITATIVE pag. 35

Scritto da Andrea Sidoti, tratto dalla lezione di Stefano Pace

COMUNICAZIONE E PARADIGMI DEL FUTURO pag. 41

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Luisa Aschiero

SEZIONE BRAND

LA VITA SOCIALE DELLE MARCHE IN UN MONDO IPERCONNESSO pag. 51

Scritto da N.Gadaleta, tratto dalla lezione di Bernard Cova

MARKETING 2.0: IL RUOLO DEL PUNTO VENDITA NELLA pag. 57

COSTRUZIONE DELLA BRAND EQUITY

Scritto da R.Balestrero, tratto dalla lezione del Prof. Vanni Codeluppi

BRAND E IDENTITÀ DI MARCA pag, 63

Scritto da Chiara Carlini, tratto dalla lezione di Elisabetta Baldini

ITALIAN BRAND IN CHINESE. BENESSERE RELAZIONALE pag. 69

VERSO IL TURISMO ORIENTALE

Scritto da M.Gabriella Metelka, tratto dalla lezione di Paolo e Zeno Casti

PERSONAL BRANDING pag. 75

Scritto da Dianora Zacchè, tratto dalla lezione del prof. LDeonardo Bellini

SEZIONE COMUNICAZIONE

COMUNICAZIONE E CRISIS MANAGEMENT pag, 87

Scritto da M. Gabriella Metelka, tratto dalla lezione di Roberto Grandiì

PROGETTARE UNA STRATEGIA DI DIGITAL MARKETING pag. 93

Scritto da Giovanna Peroni, tratto dalla lezione di Guido Di Fraia

LOGICHE E PRINCIPI DI CONTENT MARKETING pag, 101

Scritto da Francesca Adamo, tratto dalla lezione di Guido di Fraia

DIGITAL STORYTELLING pag. 109

Scritto da Alessandro Casti, tratto dalla lezione del prof. Guido di Fraia

VISUAL DESIGN pag. 115

scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Alessandra Spagnoli

IL CONSUMO FRA DIGITALE ED ESPERIENZIALE pag. 125

Scritto da Chiara Carlini, tratto dalla lezione del Prof. Stefano Pace

CREATIVITÀ E NUOVE FORME DI COMUNICAZIONE pag. 131 PUBBLICITARIA CROSSMEDIALE

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Paolo Iabichino

SEZIONE MEDIA

MOBILE MEDIA MARKETING pag. 141

Scritto da Roberto Balestrero, tratto dalla lezione di Gianluca Diegoli

I DIVERSI CANALI SOCIAL: CARATTERISTICHE E LINGUAGGI pag. 145

Scritto da Fabrizio D’Ippolito, tratto dalla lezione di Leonardo Bellini

LE RICERCHE SUI MEDIA pag. 157

Scritto da Emanuela Bregni, tratto dalla lezione di Silvio Siliprandi

IL MEDIA PLANNING INTEGRATO pag. 165

Scritto da M. Gabriella Metelka, tratto dalla lezione di Luca Marinaro

PROGRAMMATIC BUYING AND CREATIVE pag. 171

Scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Luca Brighenti

SOCIAL MEDIA ADVERTISING pag. 177

Scritto da Emanuela Bregni, tratto dalla lezione di Leonardo Bellini

GOOGLE E IL CONSUMATORE SEMPRE CONNESSO IN MULTISCREEN pag. 183

Scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Rossella Serra

SITI WEB E PRINCIPI DI SEO pag. 187

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Andrea Testa

SEZIONE ANALISI

L’ASCOLTO DELLA RETE E LA SOCIAL MEDIA MINING pag. 197

Scritto da M.Gregis, tratto dalla lezione di Paola Nannelli

BIG DATA E VISUALIZZAZIONE TRA ANALISI E NARRAZIONE pag. 203

Scritto da N.Gadaleta, tratto dalla lezione di Paolo Ciuccarelli

SITI WEB PER IL 2.0 E WEB ANALYTICS pag. 209

Scritto da L.Cappelletti, tratto dalla lezione di A.Testa e G.Bassi

SEZIONE NORMATIVA

IL QUADRO NORMATIVO pag. 221

Scritto da Laura Cappelletti, tratto dalla lezione di Paolina Testa

S E Z I O N E F O N D A M E N T I

«Senza la base scordatevi le altezze»

INDICE

I - FONDAMENTI DI MARKETING (AVANZATO)

Scritto da Giulia Sellitto, tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi……………….….…..pag.5

2 - WEB 2.0 E NUOVI MODELLI DI BUSINESS

Scritto da Giulia Manganelli, tratto dalla lezione di Carlo Alberto Carnevale Maffè…pag13

3 -TRADE MARKETING

Scritto da Fabrizio D’Ippolito, tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi……………… .pag.21

4 - PRINCIPI DI E-COMMERCE E SOCIAL COMMERCE

Scritto da Alessandro Casti, tratto dalla lezione di Gianluca Diegoli…………....……pag.29

5 - INTRODUZIONE AI METODI DI RICERCHE QUALITATIVE

Scritto da Andrea Sidoti, tratto dalla lezione di Stefano Pace………………………pag.35

6 - COMUNICAZIONE E PARADIGMI DEL FUTURO

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Luisa Aschiero………………..……pag.41

FONDAMENTI DI MARKETING (AVANZATO)

Scritto da Giulia Sellitto, tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi

Di cosa si occupa il marketing? Il marketing si occupa di individuare i bisogni1, più o meno latenti,

dei consumatori.

Nel corso del tempo sono state date diverse definizionidi marketing, tra cui quella di Drucker del

1973:

«Lo scopo del marketing consiste nel rendere le vendite superflue. Suo scopo, infatti, è quello di

comprendere così bene il consumatore che il prodotto o servizio sia così adeguato da vendersi da

solo»

In questa definizione viene introdotto il concetto di consumatore e, anche se non viene

esplicitamente espresso, è possibile notare un’attenzione ai suoi desideri e a come i prodotti e

servizi di un’azienda possano soddisfare questi desideri.

Una seconda definizione di marketing è quella ad opera di Philip Kotler, uno dei massimi esperti

mondiali e risale al 1967:

«Processomanageriale e sociale attraverso il quale gli individui e i gruppi ottengono ciò di cui hanno

bisogno attraverso la creazione, l’offerta e lo scambio di prodotti e di servizi di valore».

In questa definizione ci sono alcune parole chiave da notare:

Il marketing è un processo, quindi come tale è composto da una serie di attività articolate

in fasi, ed è un processo di tipo manageriale, di pertinenza quindi del mondo aziendale, del

business, ma è anche un processo di tipo sociale, quindi riguarda le relazioni tra persone: in

realtà il marketing è una disciplina che permea anche un mondo più allargato, fatto di

persone e soprattutto di interazioni tra queste persone;

Il marketing ha come prima funzione e scopo il soddisfacimento dei bisogni delle persone;

Elemento importante è lo scambio: senza mercato non esiste neanche il marketing, di

conseguenza quanto più esiste concorrenza tanto più il marketing assume un peso specifico

non indifferente, in quanto diventa quel quid in più che un’azienda mette in campo per

poter vincere sulle altre;

Iprodotti/servizi dell’azienda, senza i quali non avrebbe sensonulla di quanto sopra citato

La terza ed ultima definizione di marketing può essere vista come la sintesi delle due viste in

precedenza, ed è di Kerin elaborata nel 2013:

«Il marketing è una funzione organizzativa e un insieme di processi volti a creare, comunicare e

trasferire valore ai clienti ed a gestire i rapporti con essi in modo che ciò vada a vantaggio

dell’organizzazione e dei suoi stakeholder».

1Bisogno: stato di necessità, condizione attuale in cui si trova il consumatore

Il marketing consiste dunque nel conoscere i bisogni dei clienti e offrire loro una o più risposte

che siano migliori della concorrenza.

È possibile identificare una catena del valore nel marketing, così composta:

1) Bisogni, desideri,domanda;

2) Prodotti;

3) Valore, soddisfazione, qualità;

4) Scambio, transazioni, relazioni;

5)Mercato.

BISOGNI, DESIDERI, DOMANDA

Il bisogno è lo stato di necessità attuale, quindi la condizione in cui si trova il consumatore in quel

preciso momento. Il desiderio è invece una tensione, un’aspirazione che spinge il consumatore a

volersi muovere dal suo stato attuale ad una diversa condizione. Data la capacità ed il potere di

acquisto del consumatore, la domanda è la concretizzazione del desiderio.

Quando si parla di bisogni è d’obbligo citare la piramide di Maslow2 e la sua teoria dei bisogni.

Per esemplificarla usiamo il caso di un villaggio vacanze: i bisogni fisiologici vengono soddisfatti

con buffet ricchi di cibi e bevande; il bisogno di sicurezza viene soddisfatto invece dalla

presenza di casseforti in camera, servizi di videosorveglianza, personale addetto. Il villaggio

vacanze è poi una sorta di microsocietà, dove le persone possono instaurare velocemente e

facilmente relazioni, inoltre gli animatori cercano non solo di far sentire ogni ospite importante

(bisogno di stima) ma vengono organizzati spettacoli ed eventi dove ognuno può mettere in

risalto le proprie doti, soddisfando così il proprio desiderio di autorealizzazione. Il passaggio da

un gradino all’altro avviene solo quando il precedente è stato soddisfatto e quindi la persona è

abbastanza motivata da passare al bisogno successivo.

Sebbene la piramide di Maslow sia stata un’ottima teoria sui bisogni dei consumatori, è ormai

piuttosto diffuso il pensiero che questa sia stata superata da altri modelli. Un esempio è quello

di Kenrick, che integra alcune idee che ci arrivano dallo sviluppo storico-naturale dell’uomo

con la gerarchia introdotta da Maslow4. In questa nuova piramide non ci sono più confini netti

tra i gradini, ma piuttosto vengono introdotte delle sovrapposizioni parziali perché i bisogni di

ordine superiore non sostituiscono completamente quelli dei bisogni inferiori, ma

semplicemente si aggiungono.

2La piramide di Maslow è un modello che descrive i bisogni delle persone come dei gradini di una piramide, dove il

passaggio da un gradino all’altro avviene solo quando il precedente è stato soddisfatto.

Fig1: Piramide dei bisogni di Maslow

Un secondo interessante modello sui bisogni delle persone è quello studiato da Vroom, che dà una

sorta di formula matematica:

(valore del desiderio) x (attesa di poterlo soddisfare) = motivazione

È interessante notare come Vroom introduca la parola attesa, intesa come aspettativa: il

marketing non lavora su cose reali, sui fatti, ma sulle percezioni dei consumatori.

Maslow, Vroom, Kenrick e tutti gli studiosi che nel tempo si sono occupati di teorie sui bisogni, ci

spiegano quindi cosa muove le persone (motivazione) a fare qualcosa, a compiere una scelta, ad

avere un desiderio dal loro stato di bisogno attuale.

PRODOTTI E PROCESSI DI CONSUMO

Quando acquistiamo un prodotto/servizio acquistiamo un insieme di attributi. Ad esempio se

dobbiamo acquistare una nuova automobile, valuteremo diverse caratteristiche, quali: capacità di

trasporto, economicità dei consumi, design ed estetica, sicurezza, status sociale, comfort,

performance, eco compatibilità, valori di riferimento e così via. Si potrebbe dire che tutte le

automobili offrono più o meno l’insieme di questi attributi, ciò che cambia è solo il mix, ovvero la

“quantità” di attributo che ogni azienda inserisce nell’automobile che ha prodotto. Ci saranno

alcune aziende che punteranno un po’ più sulla sicurezza (es.: Volvo), altre che invece punteranno

sullo status sociale (es.: Ferrari), altre che punteranno sull’eco-compatibilità (es.: Tesla). Ciascuno

di questi prodotti andrà poi a soddisfare le esigenze di determinati segmenti di clienti, che

ricercheranno a loro volta più sicurezza, più status sociale o più eco-compatibilità.

I prodotti possono essere sia beni tangibili che servizi intangibili, che vengono valutati sulla base di

altri criteri quali ad esempio la contemporaneità, la partecipazione diretta del cliente,

l’eterogeneità/variabilità.

I processi di consumo sono invece tutte quelle attività in cui i prodotti sono solo l’input. Pensiamo

ad esempio alla pasta Barilla: il consumo non si esaurisce con l’acquisto della pasta stessa, abbiamo

bisogno di utensili da cucina per poterla cucinare, di acqua corrente ed elettricità per cuocerla, di

un condimento, e infine, possibilmente, di qualcuno con cui mangiarla. Il processo di consumo

consiste sia nell’azione tale per cui i consumatori utilizzano i prodotti allo scopo di una mera utilità

diretta, sia nell’interazione con altre persone in cui i prodottiassumono solo un ruolo strumentale.

Inoltre, i processi di consumo possono avvenire sia in modo personale (da soli) che in modo

sociale (con altri). Incrociando queste due dimensioni si ottiene una matrice 2x2 che dà luogo a 4

variabili: il consumo come esperienza, il consumo come integrazione, il consumo come

classificazione e il consumo come gioco.

IL MARKETING PLAN

Il piano di marketing differisce dal business plan per due motivi, primo perché ne costituisce solo

una parte, secondo per la visione temporale: il marketing plan è generalmente annuale, mentre il

business plan è pluriennale (3 anni).

Fig2: le fasi del Marketing Plan

Il marketing plan è costituito da tre macrofasi (nella fig.2 in orizzontale in alto), le prime due delle

quali vanno a formare il cosiddetto Marketing Strategico:

1.analisi,

2.strategia,

3.marketing operativo.

Nella prima fase, quella di analisi, bisogna analizzare l’ambiente, la domanda e la concorrenza.

Analizzare l’ambiente significa capire il contesto in cui opera l’azienda, a diversi livelli:

- Primo livello: clienti, fornitori, trade

- Secondo livello: concorrenti, settore pubblici di riferimento

- Terzo livello: ambiente economico, sociologico, demografico, fisico, tecnologico, istituzionale.

Nell’analisi dell’ambiente uno strumento molto utile è il modello di Porter3. Negli anni ’80 Porter

introdusse un modello che aveva l’obiettivo di fare una accurata diagnosi della struttura

dell’industria di riferimento attraverso l’analisi di cinque forze competitive che possono erodere un

settore di lungo termine e di meda profittabilità. Questo modello può essere applicato a qualsiasi

livello del settore, del gruppo di aziende che usano una strategia simile, o di una singola azienda.

Il modello di Portermette in luce il fatto che esista una concorrenza diretta, dove i competitor sono

gli attori che operano nella nostra stessa industria, e una concorrenza più allargata. In questa

seconda categoria rientrano tutti quegli attori che, pur non competendo nello stesso mercato,

soddisfano in modo diverso i bisogni dei nostri clienti. Prendiamo, ad esempio, un top manager che

viaggia spesso con Ethiad per affari: la compagnia aerea avrà quindi come concorrenti diretti le

3Il Modello di Porter è un modello che permette una diagnosi della struttura dell’industria di riferimento attraverso

l’analisi di cinque forze competitive – sostituti, concorrenti diretti, nuovi entranti, acquirenti, fornitori.

varie compagnie aeree che offrono un servizio di pari livello, e come concorrenti allargati Skype,

Ovoo e tutti gli strumenti per le videochiamate, che permettono al manager di raggiungere

virtualmente i suoi interlocutori.

Per quanto riguarda la domanda, questa può essere analizzata in due modi. Un primo modo passa

attraverso i comportamenti di consumo: dati gli stimoli che l’azienda ha lanciato ai suoi

consumatori, il marketing aiuta a determinare i loro comportamenti e a capirne le motivazioni. I

comportamenti di acquisto possono essere influenzati da diversi fattori: culturali, sociali, personali,

psicologici. Un secondo modo risiede nei processi di acquisto, dove entrano in gioco i diversi ruoli

che vengono ricoperti in tale processo. Possiamo individuare una prima fase in cui un iniziatore

lancia uno stimolo, successivamente ci sarà un influenzatore che avrà un ascendentesul decisore, un

acquirente che materialmente compirà l’acquisto e infine un utilizzatore.

L’analisi della concorrenza viene condotta in diverse fasi, che comprendono: l’identificazione dei

concorrenti attraverso un’analisi di settore, l’identificazione delle loro strategie attraverso l’analisi

dei gruppi strategici, la valutazione dei punti di forza e di debolezza analizzando i fattori critici di

successo einfine una valutazione della loro capacità di reazione analizzando il loro comportamento

e il leverage finanziario. Da tutto ciò si dovrebbero ottenere due output: la scelta del gruppo

strategico e la pianificazione strategica.

Nella prima fase del Marketing Plan, l’analisi di questi tre fattori -ambiente, domanda e

concorrenza–porta alla seconda fase, quella di strategia, che ha come obiettivo centrale la

definizione del mercato obiettivo.

La fase di strategia prevede:

1. La Segmentazione4 del mercato: si divide la domanda in gruppi omogenei di clienti che

hanno uguali bisogni e uguali comportamenti; l’azienda necessita di capire a quale

segmento parlare. Tale segmentazione può essere fatta seguendo alcuni criteri: geografici

(luogo di provenienza), demografici (età, genere), psicografici (classe sociale, stile di vita,

personalità), comportamentali (di consumo, di acquisto, sensibilità alle leve del marketing),

benefici ricercati;

2. La Definizione del mercato-obiettivo, quindi la scelta di uno o più segmenti su cui

concentrarsi;

3. Il Posizionamento del prodotto secondo un definito marketing mix. Il posizionamento

avviene a seguito di due fasi consecutive fondamentali: la mappatura delle preferenze dei

consumi tramite un’analisi fattoriale e la mappatura delle percezioni attraverso la quale si

può capire dove i consumatori collocano mentalmente le diverse marche che operano nel

settore. Una volta mappate preferenze e percezioni, queste vengono sovrapposte per

capire su quali segmenti di consumatori concentrarsi e quali saranno i competitor diretti di

riferimento.

La terza fase del Marketing Plan è quella del Marketing Operativo: la componente operativa (o

tattica) del marketing ha il compito di realizzare concretamente le strategie definite nelle due fasi

4Segmentazione: suddivisione del mercato in gruppi di consumatori. All’interno dello stesso gruppo i consumatori presentano caratteristiche simili tra loro.

precedenti: mediante il marketing mix5. Il modello storico delle 4 P del marketing mix (product,

price, placemente e promotion) ora si è aggiornato con anche la P di People, vale a dire tutti gli

individui coinvolti nel business: oltre ai clienti reali e potenziali, anche i dipendenti dell’azienda (che

sono poi di fatto coloro che forniscono il servizio o assistono il cliente nella fase di vendita e post

vendita). Questo fa capire quanto sia importante assumere e formare adeguate risorse umane per

offrire ai tuoi clienti un servizio di assistenza e supporto davvero superiore: questo spesso è ciò

che determina il successo di un brand o di un prodotto meglio di ogni altra strategia.: vale a dire le

persone addette alla vendita e all’assistenza clienti che hanno un rapporto diretto col cliente e,

dunque, umanizzano il volto di un brand o un’azienda.

BIBLIOGRAFIA

Drucker, P, Manuale di management, Etas Libri, 1978

Holt, D.B. «How Consumers Consume: A Typology of Consumption Practices». Journal of

Consumer Research, Vol. 22, No. 1, pp. 1-16, 1995

Kenrick, D.T. «Renovating the Pyramid of Needs: Contemporary Extensions Built Upon Ancient

Foundations». Perspectives on Psychological Science, 5(3) 292–314. 2010

Kerin, R.A., Hartley S.W., Rudelius, W. e Pellegrini, L. «Marketing». McGraw-Hill, Milano 2014

Kotler, Marketing management, Prentice-Hall, 1967

Porter, M.E., 1991. «Towards a dynamic theory of strategy». Strategic Management Journal, Vol

12, 95-117.

5 Il marketing mix è la combinazione di strumenti operativi che un'impresa decide di utilizzare per il raggiungimento dei suoi obiettivi strategici. Secondo un modello molto utilizzato, le componenti del marketing mix possono essere

suddivise in quattro grandi categorie, dette le "quattro P": le caratteristiche del prodotto o servizio progettato per soddisfare le esigenze di un determinato gruppo (segmento) di consumatori, le politiche di prezzo adottate; il prezzo rappresenta il corrispettivo in denaro che il consumatore è disposto a pagare per fruire di un determinato bene o

servizio, la distribuzione commerciale (placement), ovvero i canali attraverso cui l'impresa porta il prodotto ai diversi target di consumatori e le attività di comunicazione (promozione) attraverso cui l'azienda cerca di far conoscere e apprezzare la propria offerta.

WEB 2.0 E NUOVI MODELLI DI BUSINESS

Scritto da Giulia Manganelli, tratto dalla lezione di Carlo Alberto Carnevale Maffè

HIRE YOUR CUSTOMER

La comunicazione nell’era digitale si trova di fronte a una sfida di innovazione organizzativa: le sue nuove

funzioni principali, infatti, consistono nel “comprare” attenzione, gestire una conversazione e progettare un

“mercato 2.0”.

A fondamento di questa affermazione, nel 2016 il premio Nobel per l’Economia è stato assegnato a Oliver

Hart e BengtHolmström6, per il loro contributo alla “teoria dei contratti”. In fondo, tutti gli scambi

economici sono contratti ed esprimono la volontà di assumere un impegno reciproco, infatti

“Customeraffiliationis a contract. Structurally incomplete, prone to conflict of interests. Yet, recurrent and resilient”7.

Nell’era digitale, comunicazione e tecnologia generano affiliazione, che si traduce nella comunità di clienti, i

quali, a differenza del ruolo passivo cui sono sempre stati soggetti, diventano i primi collaboratori

dell’azienda. In ambito comunicativo, un messaggio digitale è tecnicamente un contratto: il ruolo dei

comunicatori diventa un contributo essenziale all’organizzazione di questo complesso sistema negoziale.

Tradizionalmente, all’impresa è sempre stata affidata la produzione di lavoro, capitale e fiducia; mentre al

consumatore veniva assegnato il compito di “consumare”, al massimo di fornire un feedback positivo

(passaparola) o negativo (reclamo). Invece nella rivoluzione digitale i clienti entrano, per la prima volta, nel

processo produttivo.

Prendiamo, a titolo di esempio, il caso Airbnb. Nata come start-up nel 2008, oggi si propone come

un’affermata azienda produttrice di servizi online la cui vision è quella di effettuare un match-in tra

viaggiatori budget-minded e persone locali che desiderano affittare una stanza extra all’interno del loro

appartamento. Il fee riconosciuto ad Airbnb varia dal 6% al 12%, a seconda del costo totale del soggiorno8.

Grazie ad importanti investimenti forniti da fondi di angelinvestors9, Airbnb ha negli anni raggiunto un

upgrade del servizio, che ora si estende ad interi appartamenti e perfino castelli, yacht ed isole private. Per

facilitare l’incontro tra domanda e offerta, Airbnb ha creato anche un’applicazione mobile. Attualmente, ci

sono oltre 50.000 offerte in 8.000 diverse città in tutto il mondo; i principali competitor sono diventati

grandi intermediari come Expedia e Hotels.com.

Uno dei fondatori, Brian Chesky, in un’intervista al New York Times ha enunciato il business model alla

base del successo:

6BengtHolmström è nato nel 1949 a Helsinki in Finlandia e ha conseguito il dottorato nel 1978 presso la Stanford University negli Stati Uniti, ora insegna presso il Massachusetts Institute of Technology. Oliver Hart è del 1948, è nato

a Londra e ha conseguito il dottorato nel 1974 presso la Princeton University negli Stati Uniti, ora è docente di Economia presso l’Università di Harvard. 7La citazione è tratta dalla ricerca di Hart sui contratti “incompleti”, ed è rintracciabile nel documento prodotto al

seguente link:https://www.kva.se/globalassets/priser/ekonomi/2016/sciback_ek_en_16.pdf 8Dati raccolti dal sito ufficiale: https://www.airbnb.it. 9 Angel Investor: si può tradurre in italiano come investitore informale nel capitale di rischio d'imprese. L’aggettivo

“informale” contrappone tale figura agli investitori nel capitale di rischio di tipo “formale”, ossia i fondi di Venture Capital. Gli Angel Investor dispongono di un buon patrimonio personale e sono in grado di fornire all’impresa finanziata tramite equity, in fase di seed o start up, preziosi consigli e conoscenze tecnico-operative, oltre a una rete

di relazioni nel mondo degli affari. Il rapporto che si viene a creare tra l'Angel e l'imprenditore è spontaneo e basato sulla fiducia: da qui il ruolo “informale” di questa forma di investimento /finanziamento.

“IfeBaygrewinto a billiondollar company by allowingpeople to monetize the stuff in their home, [...] whycan’twe do

the same by lettingthemmonetizetheirhouse?”10

In questo caso il capitale, rappresentato dall’immobile, viene fornito dal cliente, le attività di gestione e

allocazione vengono svolte sulla piattaforma fornita dall’azienda e la fiducia diventa il vero oggetto dello

scambio economico.

La grande rivoluzione del web 2.0 è stata quindi quella di ridisegnare il concetto di mercato: un luogo in cui

la fiducia costituisce il bene intangibile prodotto dalla domanda. Il compito del marketing si traduce

nell’organizzare e governare questo nuovo modello. Nel mercato 2.0, i processi ROPO11 (Research Online

Purchase Offline) introducono nuovi strumenti, ad esempio il “last mile shopper marketing”: il contratto è

stato già stipulato in precedenza e la vendita diventa un mero percorso di efficienza logistica che si

completa nel retail. Nessuno, ormai, effettua acquisti senza aver consultato un sito o un social network:

questi canali aderiscono alle funzioni tipiche della vendita. Rinunciando all’idea del consumatore-monade,

adesso per acquistare si ha bisogno del consenso della nostra cerchia di amici o di follower. Nel nuovo

mercato 2.0, il “viavai” è un momento privilegiato per il marketing. Ascoltando e leggendo i commenti degli

utenti lasciati sui social o sui siti, si possono creare dei metadati12 sfruttabili per ulteriori contatti.

Inoltre, con la nuova tecnologia, è meno costoso informare il cliente sul web rispetto che in negozio: la

comunicazione online diventa quindi una scelta di convenienza economica.

In definitiva, l’affiliazione nel nuovo mercato si declina in tre passaggi. In primo luogo, i messaggi degli utenti

vengono trasformati in metadati e quindi, moneta; in secondo luogo, le comunicazioni diventano contratti e

le conversazioni, multilaterali e collettive, diventano vero e proprio scambio di moneta: è nato il

commercio 2.0, anche definito “sharing economy”13.

SHARE THE ECONOMY

Alla fine dello scorso secolo si iniziò ad intuire la nuova potenzialità del mercato 2.0. In “Cluetrain Manifesto”

fu introdotto il concetto di “mercato conversazionale”:

“A powerful global conversationhasbegun.Through the Internet, people are discovering and inventing new ways to

share relevantknowledge with blindingspeed. As a directresult, markets are gettingsmarter—and

gettingsmarterfasterthanmost companies”.14

10 Intervista apparsa nell’articolo di Wortham, J., Airbnbraises cash to expand budget-travel service, 10 novembre 2010,

https://bits.blogs.nytimes.com. 11 Processi ROPO: il termine Ropo è l'acronimo anglosassone di Research online, purchased offline. Indica il valore dei prodotti acquistati nel mondo reale ma per i quali si sono cercate informazioni navigando su internet. Tutto il retail,

dai libri agli abiti, passando per giocattoli e arredi per la casa, insieme al settore delle automobili e dei prodotticonfezionati, rappresenta circa il 75 per cento del Ropo. 12 Un metadato (dal greco μετὰ "oltre, dopo" e dal latino datum "informazione"), letteralmente "(dato) oltre un (altro) dato", è un'informazione che descrive un insieme di dati. I metadati rappresentano un metodo sistematico per la descrizione delle risorse informative e per migliorarne l'accesso e la gestione. 13Il termine ebbe origine nel 1978 e fu coniato da Marcus Felson e Joe. L. Spaeth nel loro articolo “Community Structure

and Collaborative Consumption: A routine activityapproach" pubblicato in American BehavioralScientist.Sharing Economy può tradursi, letteralmente, con “economia della condivisione” ed è un’espressione che vuole privilegiare un nuovo modello economico che parte dai reali bisogni dei consumatori. 14 Levine, R., Locke, C., Searls, D.,Weinberger, D., The Cluetrain Manifesto: The End of Business asUsual,Perseus, Cambridge, 2000.

Questo ciò che scriveva il Cluetrain Manifesto nel lontano 1999. La maggioranza dei consumatori compra

seguendo le raccomandazioni dei suoi pari e la quasi totalità controlla le recensioni online prima di

effettuare un acquisto (soprattutto se l’investimento economico è elevato). E’ quindi sempre il passaparola a

fare la differenza. Passaparola negativo che si diffonde in maniera più veloce rispetto al passaparola positivo

e la cui potenza di fuoco è moltiplicata dal web. La popolarità o l’impopolarità di un brand è decisa dal

pubblico, esattamente come succedeva nel passato, ma se una volta di fronte a qualcosa che non andava (un

messaggio pubblicitario ritenuto offensivo, un prodotto poco performante, o altro) il consumatore poteva

solo lamentarsi con amici e conoscenti, adesso porta il suo disagio su un palcoscenico molto più vasto. E il

danno per l’azienda può essere potenzialmente enorme. Questo rende fondamentale monitorare

costantemente cosa si dice del proprio brand e saper reagire just in time. Ma i consumatori non si limitano

solo al passaparola negativo. Sempre grazie alla rete, si organizzano, perché la voce di tanti è più forte (e,

diciamocelo, più pericolosa) della voce del singolo.

Nella sharing economy la razionalità del consumatore 2.0 si esplica nel “contratto comportamentale”.

Tramite social rating, reviews, referralvengono ridotte le asimmetrie informative ed esperienziali tipiche del

consumo pre-digitale, creando le basi per un impegno di medio termine in cambio di efficienza della catena

del valore d’offerta. Ciò cambia radicalmente anche il concetto di scambio di proprietà nell’atto

dell’acquisto: come osserva TravisKalanick, fondatore di Uber15, “la proprietà è un metodo inefficiente di

allocazione e accesso al portafoglio di asset. Trasparenza e condivisione funzionano molto meglio”16. In

termini microeconomici, la condivisione è più efficiente e il contratto di eccellenza del servizio è la nuova

proprietà.

Prendiamo, ad esempio, il caso Eni-Enjoy.

Fig.1: Il servizio di vehicle sharing offerto da Eni-Enjoy in varie città d’Italia, fonte: https://enjoy.eni.com/it

Enjoy è un servizio di car-sharing ideato da Eni per spostarsi comodamente in città congestionate dal

traffico, ma anche per azzerare i costi di gestione derivanti dal possesso di un’auto o uno scooter. Trovare

il veicolo più vicino è facile, consultando la mappa sul sito e sull'app, oppure noleggiando il primo che si

15Uber è un eccellente esempio di mercato conversazionale: la piattaforma ha acquisito il diritto di inserirsi nelle chat degli utenti via Whatsapp per offrire il suo servizio di trasporto. 16 La citazione è stata riportata nell’articolo di Anthony, A., TravisKalanick: Uber-capitalistwhowants to have the world in the back of hiscabs, 20 Dicembre 2014, The Guardian.

incontra per strada. La prenotazione è gratuita per i primi 15 minuti, poi viene applicata la tariffa di 10

centesimi al minuto. I veicoli sono parcheggiati nell'area di copertura del servizio e non esistono postazioni

fisse per il prelievo e la riconsegna. Come si può osservare dal successo di questa iniziativa, il cliente

rinuncia allo status di possedere un’auto, preferendo pagare solo l’effettivo utilizzo del mezzo.

HUMAN ATTENTION

In molti casi di successo dell’economia digitale il bene primario oggetto dello scambio contrattuale fra

soggetti è un bene intangibile che possiamo definire trust, fiducia: il voto di scambio è alla base del nuovo

mercato, la recensioni positive, le “cinque stelle” non sono acquistabili mediante budget pubblicitari e la

produzione del social rating è ormai un bene pubblici e non escludibile. Questo bene è essenziale al

funzionamento della sharing economy, in cui i vari attori economici (imprese digitali e utenti) utilizzano una

piattaforma tecnologica per scambiarsi messaggi e creare mercati conversazionali.

“Software alone is a commodity. Thereisnothingstoppinganyone from copying the feature set, makingitbetter,

cheaper and faster.”(Fred Wilson, fondatore di UnionSquareVentures)

Una delle best practice riconosciute a livello globale, che ora approfondiremo, è il caso Google.

Procediamo analizzando innanzitutto la catena del valore dell’azienda.

Il modello di business “HUB” o “PLATFORM”17è un riferimento importante del gigante di Mountain View,

in quanto ha rappresentato il modello più concreto di mercato multilaterale. Si tratta di una sintesi di

scambi (esternalità18same-side e cross-side) tra content provider, user e merchants (i veri clienti di Google, le

17PLATFORM MODEL: business model multilaterale focalizzato sulla creazione di valore tramite la facilitazione di transazioni tra due o più gruppi interdipendenti (solitamente consumatori e produttori), definizione in Johnson, N. L., Moazed, A., ModernMonopolies: WhatItTakes to Dominate the 21st Century Economy, 2016, St. Martin's Press.

18Si ha un’esternalità di rete quando il beneficio che un individuo trae dall’utilizzo di un bene cresce al crescere del

mercati in cui esistono questioni relative alla proprietà intellettuale, come il software, o in generale quando si parla di adozione di una nuova tecnologia. Ad esempio, la mia utilità derivante dal possedere il sistema operativo Windows

aumenta all'aumentare del numero di utilizzatori di Windows. Da un lato perche aumenta il numero di software disponibili, cioè e più probabile avere un'alta varietà di sofware per un sistema operativo popolare, dall'altro perche

aumenta il numero di individui con cui posso interagire, ad esempio scambiando files. Si possono avere esternalita di rete dirette (o same-side) quando i consumatori sono effettivamente collegati da una rete e possono comunicare tra di loro (caso del telefono, della posta elettronica); oppure possono essere indirette (cross-side), quando i consumatori

non comunicano necessariamente tra di loro (caso del sistema operativo). Inoltre la maggiore utilita puo dipendere direttamente dal fatto di avere un maggiore numero di utilizzatori (telefono, software, ecc.), o dal fatto che possono

aziende che investono in pubblicità digitale) legate in modo biunivoco al perno della piattaforma.

Identificando la tipologia e il valore degli scambi, Google ha creato le masse critiche necessarie per creare la

giusta densità degli attori intorno a un mercato.

Fig: Internet come Hub di un mercato multilaterale,

fonte http://www.slideshare.net/gmrinaldi/bird-bird-cloud-prof-carnevale-maffe

Questi scambi possono essere identificati su tre livelli. In primo luogo, l’hub riceve “attenzione umana” dagli

utenti, che ripaga con le informazioni desiderate. Il concetto di attenzione umana (human attention) si

concretizza in informazioni di profilazione degli utenti: localizzazione, preferenze, interessi ed altre variabili

che vengono scambiate come una vera e propria moneta nel mercato dell’advertising online.

In secondo luogo, l’hub si relaziona con i content provider (blogger, writer, tutti i vari creatori di contenuti

digitali) fornendo una massa critica fondamentale alla selezione dei meritevoli di attenzione umana: in un

mercato liquido, un blogger che non raggiunge un certo numero di utenti, non può sopravvivere.

In terzo luogo, l’hub crea valore con i merchantsdel web, le aziende che desiderano conquistare l’attenzione

umana degli user e che possiamo identificare come i veri clienti di Google, alla base degli alti ricavi del

colosso informatico.

In sintesi, il modello a piattaforma:

facilita una transazione tra molteplici attori (mentre nel modello lineare l’azienda possiede solo un

lato della transazione);

esistere un numero maggiore di prodotti complementari al bene quando il numero degli utilizzatori del bene stesso e elevato.

possiede le infrastrutture che rendono possibile la transazione (a differenza dell’azienda tradizionale

che possiede il prodotto o il servizio da vendere ai clienti);

crea valore aggiunto che deriva dalla massa critica di utilizzatori della piattaforma.

Come si può evincere dal grafico che segue, fornito da S&P 50019, il modello a piattaforma è cresciuto

esponenzialmente in quanto a diffusione nel giro di poche decadi. Esso ha raggiunto ben l’88.9% sul totale

delle aziende in India, l’80.8% in Cina e il 44.3% negli Stati Uniti.

La sfida che si pone nell’immediato futuro è la governance di questi flussi (i content providers non esistono se

non sono indicizzati, gli users hanno massa critica, la rilevanza è un’esternalità positiva di rete, indispensabile

al merchant che acquista advertising online). Inoltre, vi sono alcuni casi in cui lo scambio economico non

viene perfezionato (ad esempio, se l’utente non fornisce una recensione all’host di Airbnb, oppure se

l’autista di Uber contravviene ai regolamenti stradali e di circolazione), casi rinconducibili al problema del

“free-rider” nell’economia dei beni pubblici. In questo contesto, la funzione della comunicazione risiede

nell’organizzazione del mercato 2.0, costituito, come abbiamo visto, dalla domanda di fiducia e dall’offerta di

human attention.

BIBLIO/SITOGRAFIA

Anthony A., TravisKalanick: Uber-capitalistwhowants to have the world in the back of hiscabs, The Guardian, 20

Dicembre 2014. De Felice L., Marketing conversazionale. Dialogare con i clienti attraverso i social media e il Real-Time Web di Twitter, FriendFeed, Facebook, Foursquare,Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano, 2011.

19 The S&P 500 è il benchmark USA più rilevante: analizzandolo si scopre come i modelli a piattaforma danno all’indice un contributo economico sempre maggiore.

Felson M., Spaeth J. L., Community Structure and Collaborative Consumption: A routine activityapproach, 1978, in

American BehavioralScientist. Johnson N. L., Moazed, A., ModernMonopolies: WhatItTakes to Dominate the 21st Century Economy, St. Martin’s Press, New York, 2016.

Kaplan A. M., Haenlein M., Users of the world, unite! The challenges and opportunities of social media, Business Horizons, Vol. 53, Issue 1, 2010.

Levine R., Locke C., Searls D.,Weinberger D., The Cluetrain Manifesto: The End of Business asUsual,Perseus, Cambridge, 2000.

Wortham J., Airbnbraises cash to expand budget-travel service, New York Times, 10 novembre 2010.

https://www.airbnb.it.

http://www.applicoinc.com

https://bits.blogs.nytimes.com

https://enjoy.eni.com

https://www.kva.se/globalassets/priser/ekonomi/2016/sciback_ek_en_16.pdf

http://www.ilpost.it/2016/10/10/nobel-economia-2016/

http://www.slideshare.net/gmrinaldi/bird-bird-cloud-prof-carnevale-maffe

https://www.usv.com

http://www.alleywatch.com/2015/07/5-reasons-entrepreneurs-should-take-advantage-of-the-platform-business-model/

TRADE MARKETING

Scritto da Fabrizio D’Ippolito, tratto dalla lezione di Paolo Bertozzi

TRADE MARKETING:

Se il consumer marketing è «il processo sociale e manageriale finalizzato alla comprensione e alla

soddisfazione dei bisogni dei clienti finali (consumatori)», il trade marketing è «quel processo

manageriale finalizzato alla comprensione e alla soddisfazione dei bisogni dei clienti intermedi (il

trade) come parte qualificante della più generale strategia aziendale e del piano di marketing»

(Kotler, 2009).

L’obiettivo generale a cui cerca di rispondere il trade marketing è quindi conoscere in profondità i

clienti intermedi (grossisti, distributori e trade) nei loro bisogni, preferenze e criteri di valutazione,

per offrire loro delle risposte (prodotti e servizi) coerenti e migliori rispetto a quelle dei

concorrenti.

NASCITA ED EVOLUZIONE DEL TRADE MARKETING:

Si inizia a parlare di trade marketing negli anni ‘70 nei paesi anglosassoni. Le ragioni che spingono le

imprese ad introdurre il trade marketing sono:

1. Trasformazioni strutturali dei canali distributivi;

2. Mutamenti nel ruolo della distribuzione all’interno dei canali;

3. Cambiamenti nelle condotte del trade;

4. Mutamento e articolazione dei costi di gestione dei clienti e dei canali;

5. Eterogeneità della redditività delle vendite.

I canali distributivi hanno subito nel tempo cambiamenti profondi e repentini: si è passati da un

momento storico in cui la distribuzione era fatta essenzialmente di processi logistici, dove grossisti

e retail coincidevano in compiti e funzioni, ad un processo di modernizzazione dei canali

distributivi. Tale modernizzazione ha comportato una concentrazione di tanti piccoli dettaglianti

nelle filiere distributive (es. Coop) e una crescita dimensionale delle singole imprese di

distribuzione in cui le strutture organizzative diventano sempre più articolate e complesse.

Fig.1: confronto tra i primi negozi e la moderna GDO

Tali processi evolutivi hanno portato a una riduzione delle asimmetrie tra industria e distribuzione,

fino al punto che oggi alcune organizzazioni distributive diventano più grandi delle aziende di

produzione. L’avvento del digitale ha inciso fortemente anche sulle forme organizzative della

distribuzione, che può articolarsi essenzialmente in due format: online (es. yoox.com) e offline

(tipologie dei punti di vendita fisici).

Di conseguenza il trade si è organizzato in forme economiche più efficaci ed efficienti quali:

Gruppi/consorzi di acquisto: i singoli dettaglianti per poter competere con tali

organizzazioni e recuperare il potere negoziale perso, si associano in gruppi/consorzi,

costituendo una centrale che ha il compito di fare acquisti per tutti a prezzi più vantaggiosi.

Unioni volontarie dei grossisti: i grossisti, per non restare fuori da tale processo, creano

delle unioni volontarie di grossisti e costituiscono delle centrali d’acquisto.

Super centrali: forma organizzativa composta da insegne concorrenti che si uniscono per

fare acquisti, sfruttare maggiore potere negoziale e ottenere condizioni migliori.

Un’altra forma organizzativa è costituita dai consumatori che si associano facendo capo a un’unica

centrale (es. Coop con unica centrale a Bologna).

Le imprese di distribuzione sono organizzate essenzialmente su tre livelli:

Centrale;

Cedis: i magazzini logistici di distribuzione;

Pdv: costituiti dai punti di vendita al dettaglio.

Il mondo della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) è frutto dell’incrocio di due acronimi:

GD e DO. La Grande Distribuzione (GD) riguarda le catene distributive che comprendono

almeno 20 punti vendita di medio-grandi dimensioni che fanno riferimento ad un’unica società, la

quale si preoccupa di gestire centralmente gli acquisti e la distribuzione delle referenze, detta

anche “rete diretta” (Es.: Esselunga, Finiper, Il Gigante, Carrefour, Auchan, ecc.). La Distribuzione

Organizzata (DO) è rappresentata invece da strutture e gruppi i cui Punti di Vendita fanno parte di

associazioni consorziate in forma di gruppi di acquisto, nelle quali i singoli supermercati, pur

presentandosi sotto un marchio comune, mantengono la propria individualità e la conduzione

dell’esercizio (es. Crai, Sigma, Sisa, ecc…). In Italia sono presenti anche strutture “ibride” (es.

Coop e Conad) con origine e forme sociali tipiche della DO, ma con comportamenti e vincoli di

rete tipici della GD (Pellicelli 2012).

Dal punto di vista industriale cambiano quindi il potere decisionale, i tempi e i costi di gestione. Le

industrie devono sapere dov’è concentrata la capacità decisionale per poter incidere nella

negoziazione. Tale scenario evidenzia quanto sia importante conoscere l’organizzazione della

distribuzione anche da parte del reparto marketing (che troppe volte lo vive come un mondo

sconosciuto) per definire piani strategici di trade marketing.

CAMBIAMENTO DEL RUOLO DEL TRADE

Con lo sviluppo della distribuzione moderna viene meno il tradizionale rapporto di dipendenza del

commercio dall’industria. Non soltanto il distributore aumenta il proprio potere contrattuale nei

confronti del produttore (da cui ottiene migliori condizioni di acquisto), ma assume un ruolo

imprenditoriale maggiormente autonomo. Questo processo di emancipazione del settore

distributivo è ben testimoniato dal fenomeno delle “marche commerciali”, attraverso cui il

distributore si appropria di competenze e di fasi del ciclo produttivo (progettazione e marketing

dei prodotti) che nel passato costituivano prerogativa unica dell’industria di marca.

Il ricorso alle nuove tecnologie informatiche, che consente di conoscere in tempo reale gli

orientamenti e i bisogni dei consumatori, rafforza poi il potere del dettagliante: questi può infatti

non solo porsi come interlocutore adeguatamente informato dell’industria, ma anche orientare la

domanda verso quei prodotti che presentano per lui i margini più elevati.

Fig.2: il venditore ha ancora un ruolo centrale nel processo d’acquisto

Siamo ormai agli antipodi della situazione tradizionale che vedeva nel distributore un mero

intermediario di prodotti “prevenduti” dall’industria. Il rapporto risulta oggi sostanzialmente

ribaltato: non è più l’industria a influenzare la distribuzione, ma il contrario (Lecca 1999).

Il trade non si accontenta più delle sole funzioni di acquisto e progressivamente si appropria delle

funzioni del marketing. Esselunga non vende solo il bene, ma anche un servizio logistico,

informativo, commerciale ed esperienziale. La nuova frontiera del trade di offrire al consumatore

un’esperienza d’acquisto attraverso leve di marketing esperienziale, multisensoriale e ambienti

d’acquisto sempre più piacevoli e polifunzionali.

Si passa da una fase economica in cui il brand era determinante nel processo di acquisto ad

un’epoca in cui il pdv acquista sempre maggiore forza superando a volte il brand stesso. In passato

il consumatore seguiva un processo di acquisto basato sul seguente schema logico:

Oggi, in molti casi, si afferma un nuovo paradigma del processo di acquisto dove il punto di vendita

(pdv) acquista un peso rilevante. Per alcuni beni, infatti, la scelta del pdv ricopre un ruolo

prioritario rispetto alla scelta del brand.

Si viene a creare una vera e propria concorrenza tra la marca (brand loyalty) e il pdv (storeloyalty)

che possiamo misurare attraverso lo switch del pdv in relazione al prodotto/servizio da acquistare.

Generalmente la componente brand loyalty è più forte di quella storeloyalty quando entriamo in

relazione con prodotti/servizi in cui ci sono un’alta differenziazione percepita, un forte

coinvolgimento e ruolo fiduciario della marca, una frammentazione del sistema distributivo e

politiche pull. Al contrario vince la componente storeloyalty quando ci sono una bassa

differenziazione percepita, un limitato coinvolgimento della marca, una buona capacità valutativa,

una concentrazione del sistema distributivo, delle politiche push e una rilevanza dei servizi di

intermediazione.

Il trend della componente storeloyalty è in crescita e tale fenomeno va collegato anche alla perdita

di peso dei mass media che favorisce lo spostamento dell’influenza dei consumatori verso i pdv che

sono più vicini al momento decisivo dell’acquisto e rappresentano il luogo in cui avviene una

comunicazione più efficace, in quanto bidirezionale, rispetto a quella unidirezionale massmediale.

Un fenomeno che dimostra la centralità della distribuzione rispetto al brand è lo sviluppo dei

prodotti a marchio proprio (concorrenza verticale). Il punto di vendita diventa oggi il luogo in cui

si determinano le quote di mercato tra produttori in concorrenza per gli spazi di visibilità

(concorrenza orizzontale).

Per comprendere la nascita del trade marketing in Italia è importante risalire al caso Barilla-

Esselunga: nel 1984 Esselunga ridusse i prezzi della pasta Barilla usandola come prodotto civetta

per attirare un elevato numero di clienti presso i suoi pdv senza tener conto delle politiche di

BisognoAcquisizione informazioni

Scelta del brand

Scelta del punto

vendita

prezzo del produttore (Regina 2006); questa manovra ha portato ad un vero e proprio conflitto

tra produttore e distributore conclusosi, in una prima fase, con la decisione da parte di Barilla di

ritirare dagli scaffali di Esselunga i suoi prodotti.

Questa storia evidenzia quanto i distributori abbiano acquisito autonomia nella gestione delle

politiche commerciali (retailing mix: formazione degli assortimenti, pricing, sales promotion,

gestione dello spazio espositivo) e siano capaci di incidere sugli acquisti del consumatore.

Tali cambiamenti generano un impatto sull’intero marketing mix dell’industria: il venditore di

piastrelle produce un effetto completamente diverso se mostra i prodotti di vendita sul catalogo o

dal vivo (modalità espositive); nei pdv i venditori hanno una posizione privilegiata nell’orientare gli

acquisti del consumatore con politiche promozionali, di prezzo e di cross selling20 difficilmente

controllabili ed orientabili da parte dell’industria (vedi caso Esselunga-Barilla); differenziazione di

prezzi in base ai soggetti e ai prodotti (per prodotti me too21 chiederà prezzi più elevati perché

facilmente sostituibili; per prodotti altamente innovativi chiederà prezzi più bassi).

I fenomeni appena descritti hanno spostato l’ago della bilancia verso i canali distributivi che

acquistano sempre maggiore peso ed importanza, senza però eliminare la strutturale

interdipendenza esistente tra industrie e distribuzione che non possono fare a meno l’una

dell’altra.

Il trade marketing nasce quindi dalla perdita di controllo dei comportamenti delle imprese

commerciali e dalla necessità di incidere sulle politiche distributive attraverso strategie

commerciali differenziate ed efficaci per gruppi di clienti omogenei o per clienti chiave.

IL PROCESSO DI TRADE MARKETING

Il processo di trade marketing consiste nel pianificare le strategie e attività di marketing per il

mercato intermedio costituito dai piccoli e grandi distributori. Le attività di trade marketing sono

in questo caso below the line22 (volantini pubblicitari, promozioni, programmi fedeltà, raccolta

punti, co-marketing, ecc) perché veicolate dalla distribuzione che, solo in un secondo momento,

raggiungono il cliente finale.

Nella prospettiva del trade marketing, infatti, il distributore è visto come un vero e proprio cliente

da fidelizzare, del quale si devono tenere presente i bisogni.

20 Cross selling tradotto letteralmente significa "vendita incrociata" ed è una strategia di vendita di un prodotto o servizio in più rispetto a quanto richiesto dal cliente, dopo aver consolidato e confermato la vendita del primo. 21 Sono prodotti lanciati da una azienda che imita i concorrenti (letteralmente, “prodotti anch’ io”): si tratta cioè di

prodotti che non hanno significativi punti di differenza rispetto a quanto già esiste sul mercato 22Below the line (abbreviato con BTL) è un termine tecnico impiegato in pubblicità e nel marketing per indicare tutte le attività di comunicazione che riguardano un gruppo di utenti. È contrapposto a Above the line (ATL) che invece si

riferisce ad attività di comunicazione su larga scala su media tradizionali come la televisione o la radio. Il termine ha origine dall'amministrazione finanziaria: nel conto economico la linea cui si fa riferimento è quella che separa le operazioni di addizione e sottrazione tra le entrate e le voci di spesa, dal profitto lordo che è il risultato dell'attività

operativa. Sotto la linea (below the line) solitamente vengono poste le spese di bassa entità che per imprevisto, o per via della scarsa incidenza sul conto economico, possono essere aggiunte in un secondo momento pur non essendo state messe in preventivo. Nel linguaggio dei pubblicitari, dunque, il marketing e la comunicazione below the line

rientrano fra le attività a basso budget. Gli esempi più classici di questo genere di iniziative sono i flash mob e il guerrilla marketing.

Si procederà dunque ad articolare un piano di trade marketing nel seguente modo:

Analisi: trade marketing audit;

Definizione delle scelte di strategia commerciale:trade marketing strategy;

Pianificazione degli interventi e degli investimenti: planning;

Implementazione delle politiche operative:operations.

Per prima cosa si dovrà analizzare e studiare la struttura del canale e dei clienti (livello di

concentrazione, tipo di competizione nei mercati dei canali, quota di mercato canalizzata dai canali,

fatturato, numero di pdv, numero di dipendenti, organizzazione d’impresa, livello di

centralizzazione delle risorse), le condotte nei canali e dei clienti (piani di sviluppo con l’apertura di

nuovi pdv, livello di innovazione e multicanalità, competizione verso i concorrenti, verso l’azienda

e verso gli altri fornitori, livello di fidelizzazione all’azienda, assistenza al cliente, modalità

espositive, gestione logistica e amministrativa, supporto promozionale delle vendite, supporto

informativo al fornitore) e le performance dei canali e dei clienti per valutare se investire su di lui e

insieme a lui, coccolarlo o abbandonare e liberare risorse (analisi del portafoglio canale e del

portafoglio clienti: solidità dei clienti, vendite e marginalità, redditività, quote di mercato nel

canale/cliente).

Seguirà la fase di definizione delle strategie di trade marketing.

Come per i clienti dei beni di consumo, i distributori vengono segmentati in gruppi con gli stessi

bisogni e caratteristiche; la scelta del segmento-target principale costituirà per l’impresa un criterio

selettivo preferenziale che trasformerà i distributori appartenenti a quel segmento in clienti

prioritari attorno ai quali verrà elaborata un’offerta specifica.

Si tratta di un vero e proprio rapporto Business to Business con obiettivo la relazione e la

conseguente ottimizzazione delle condizioni commerciali di vendita del distributore.

Le fasi ricalcano il ciclo di vita del marketing tradizionale: si parte da un’analisi ad ampio raggio

d’azione su mercati, prodotti, canali di distribuzione e competitor, per poi passare alle attività di

pianificazione strategica interna che individua gli obiettivi da raggiungere, i target e i canali

distributivi più idonei al proprio prodotto.

Per raggiungere gli obiettivi strategici e operativi di marketing l’azienda ha a disposizione le

seguenti leve di marketing:

Condizioni di vendita in base al valore e al comportamento dei clienti attraverso azioni di:

differenziazione dei listini; termini di pagamento; sconti incondizionati in fattura (es.

“sconto canale”); canvas (attività promozionali nei confronti dei propri clienti di un

determinato canale per incrementare la propria quota o il fatturato; generalmente tali

attività sono definite nel tempo e spesso legate a forme di incentivazione delle forze di

vendita); sconti sulle quantità vendute; sconti condizionati a contro prestazione da parte

del distributore come: premi di fine anno, contributi di referenziamento di nuovi prodotti,

contributi promozionali (volantini, in shop promo), sconti per acquisti congiunti e sconti

logistici (es. sconti al distributore se effettua un pieno carico impattando sui costi logistici

dell’industria).

TradePromotions: si riferisce alle azioni di comunicazione rivolte al trade per promuovere

e pubblicizzare un’azienda o un determinato prodotto o servizio attraverso advertising e

tradecommunication (es. pubblicità e articoli sulle riviste di settore); gare di vendita

(l’azienda mette in palio un regalo, ad esempio un viaggio, che vincerà l’intermediario che

realizza più vendite); omaggi al trade; premi di vendita e prodotti.

Prodotto: l’azienda differenzia le modalità di accesso al prodotto con esclusive assolute o

temporanee rivolte ad alcuni clienti (es. nuovo i-phone) o modalità preferenziali di

approvvigionamento; contributi di lancio e referenziamento sui nuovi prodotti; promozioni

di lancio dedicate; tempi di presentazione; prodotti su misura (es. formati particolari per

canale o per insegna).

Co-marketing attraverso promozioni rivolte al consumatore in collaborazione con il punto

di vendita: co-advertising; sales promotion (above and below the line, a scaffale, su

volantino, fuori banco); merchandising e in store marketing (ambientazioni, display e

spaceallocation).

Assistenza e forza di vendita: assistenze esclusive commerciali, amministrative, sul

prodotto e di affiancamento in vendita; forza di vendita (livello e composizione del team

negoziale, numerosità di venditori e promotori per canale/cliente, qualità e competenze

delle forze di vendita, frequenza di visite).

Formazione al trade sul prodotto, sulle tecniche di vendita e sul management attraverso

corsi presso l’azienda, presso il cliente ed educational tour.

Logistica: fa riferimento alle modalità di consegna, alla frequenza di consegna, ai tempi di

consegna e al lead time (risposta al bisogno di un cliente di un prodotto in tempi brevi).

Partnership: sviluppare rapporti collaborativi con i clienti.

Category Management: in cui industria e distribuzione elaborano insieme strategie e

politiche di marketing verso il consumatore.

BIBLIOGRAFIA

Kotler P., Armstrong G., Principi di Marketing, Pearson, 2009.

Lecca S., La distribuzione commerciale, in Compagnia di San Paolo – in partnership con il Centro

Einaudi, Le prospettive dell’Italia Settentrionale nel 2000,Cesdi, 1999.

Pellicelli A. C., Marketing strategico e branding. Cases Studies, Giappichelli, 2012.

Regina P, Finocchiaro G., Easy marketing. Un metodo facile per capire il marketing ed usarlo nella vita di

tutti i giorni, Franco Angeli, 2006.

.

PRINCIPI DI E-COMMERCE E SOCIAL

COMMERCE

Scritto da Alessandro Casti, tratto dalla lezione di Gianluca Diegoli

Il commercio elettronico sta radicalmente mutando le abitudini di acquisto dei consumatori, che

percepiscono il mondo dei beni e dei servizi in modo del tutto inedito. Le imprese non possono

ignorare questo cambiamento e sono chiamate a trasformare nel profondo le loro strategie,

partendo proprio da questo nuovo consumatore, dalle sue abilità e peculiarità. In questo senso, la

possibilità di vendere online i propri beni e servizi non può essere un punto di partenza, ma il

risultato di indagini e approfondimenti.

Se nell’epoca della digital transformation23 acquistare e vendere beni e servizi tramite il web è

divenuta oramai una pratica di uso comune in molti paesi, avanzati e non, l’e-commerce

rappresenta, oggi, una sfida sempre più importante. Tuttavia, le imprese che desiderano realizzare

un loro modello di business, adatto ad un mercato che sta diventando sempre più digitale, non

possono pensare a questo tipo di commercio come ad un mero fatto tecnologico. La vera sfida,

infatti, è comprendere un nuovo modello di consumatore che, rispetto a quello di 15 anni fa,

compie percorsi di acquisto sempre più complessi e caratterizzati da nuovi touchpoint.

Il consumatore della digital transformation, infatti, ha accesso a tantissime informazioni sulle

aziende, sui loro prodotti e su quelli offerti dai loro competitor e decide, anche per acquisti di

poca entità, in modo del tutto agnostico quando e dove concludere il processo di acquisto.

Fig.1: l’e-commerce rappresenta, oggi, una sfida sempre più importante.

23 Digital Transformation: si riferisce ad un insieme di cambiamenti prevalentemente abilitato dalle nuove tecnologie ed in grado di agire in ambito culturale, organizzativo, sociale e creativo.

Appare dunque evidente che le imprese di oggi devono partire dalla figura del consumatore e dalla

tendenza alla multicanalità24per reinventare i loro modelli di business e organizzare i flussi in modo

coerente. In questo senso, l’approccio logico migliore per la realizzazione di un e-commerce sarà

quello di iniziare partendo dal prodotto e soltanto in un momento successivo determinare la

piattaforma più adeguata alla sua vendita.

IL TREND DEL MOBILE COMMERCE

Fino a pochi anni fa, alcuni dei maggiori limiti allo sviluppo del cosiddetto mobile commerce erano dovuti

alla inadeguatezza delle infrastrutture e delle interfacce, relegando, di fatto, il mobile ad un mero strumento

di webrooming25. A causa della scarsa efficienza delle reti, la tendenza era quella di un utilizzo molto

modesto delle immagini negli e-commerce, a fronte di una netta sovrabbondanza della porzione dedicata al

testo. Queste premesse rendevano l’esperienza dell’e-commerce molto impersonale. I limiti tecnologici

rendevano impossibile sviluppare efficaci strategie di content marketing26.

Oggi, invece, proprio grazie al recente miglioramento delle infrastrutture e alla sempre crescente

attenzione verso questo universo, numerose imprese investono per migliorare l’esperienza mobile e

renderla più piacevole di quella desktop, aumentando, in questo modo, i tassi di conversione anche dal

mobile. L’aumento del tempo che i consumatori trascorrono navigando da mobile è, infatti, una grande

opportunità per le imprese, che, di fatto, hanno più occasioni di raggiungere il consumatore con le loro

strategie di comunicazione.

“CHAT IS THE NEW CART”

La vastità di beni e servizi che possono essere raggiunti dai consumatori attraverso i propri device ha inciso

sulla loro percezione del tempo e delle distanze, proiettandoli in un’epoca in cui si immagina che tutto, o

quasi, sia a portata di smartphone.

Il consumatore moderno ha, infatti, modificato radicalmente le sue abitudini di acquisto e sfrutta oggi nuovi

strumenti per la conclusione del processo di acquisto.

Si pensi, ad esempio, alla possibilità di integrare nelle applicazioni dedicate al Messaging la funzione di bot27

in grado di assistere i consumatori durante tutto il processo di acquisto, contribuendo, in questo modo, a

realizzare un’esperienza sensibilmente più coinvolgente e personale.

24Multicanalità:Interazione tra impresa e clienti attraverso molteplici canali. Da un punto di vista di marketing,

multicanalità significa integrare tutti i punti di contatto (brand touchpoint) tra la marca ed il cliente superando approcci

riduzionistici di politiche distributive multicanale e strategie di comunicazione integrata. 25Webrooming.:comportamento del consumatore che acquista in negozio un prodotto controllato prima sul web. Il

consumatore si informa online sul prodotto che intenderebbe acquistare, confronta i prezzi e l’opinione che la gente

ha del brand (la cosiddetta web reputation) e poi conclude il percorso di acquisto nel punto vendita. 26 Il content marketing è una forma di marketing che prevede la creazione e la condivisione di contenuti finalizzati

all’acquisizione e al mantenimento di clienti. I contenuti possono essere di diverse forme: articoli, infografiche, video,

guide, seminari, webinar, Q&A. 27Bot: programma autonomo che nei social network fa credere all'utente di comunicare con un'altra persona umana.

Fig.2: tutto è ormai a portata di smartphone

Sulla base di queste nuove abitudini di consumo, l’e-commerce riesce a ricavarsi un ruolo sempre più

importante anche in settori del tutto inediti, come nel grocery (in questo senso anche i servizi “Esselunga a

casa” e “Coop a casa”) e nel delivery.

Il 2017 viene considerato come l'anno in cui l'e-grocery supererà la soglia dell'1% del Largo Consumo

Confezionato in Italia. Un canale che a settembre 2016 valeva 544 milioni di euro, ancora poco rispetto al

totale, ma con una costante crescita a doppia cifra (+30% rispetto a settembre 2015, dati Nielsen).

Nuove logiche corrispondono non solo a nuove figure all'interno delle aziende ma anche a nuove

competenze ancora tutte da sviluppare e a nuove metriche di misurazione. Sono ancora pochi i retailer così

evoluti da riuscire a ottimizzare il proprio sito secondo logiche di conversion rate, vale a dire riuscendo a

convertire i visitatori del sito in clienti effettivi.

ASPETTI CRITICI DELL’E-COMMERCE

Se, come si è avuto modo di illustrare nei paragrafi precedenti, la vendita online permette alle imprese di

realizzare importanti risultati, gli stessi, tuttavia, devono essere valutati alla luce delle particolari

problematiche intrinseche a questo modello di commercio.

Uno dei problemi più importanti è che l’economia di scala utilizzata nel mondo del retail non può essere

applicata a quello dell’e-commerce, nel cui ambito, per esempio, si inseriscono anche quei competitor che

non sostengono i costi legati allo stoccaggio delle merci, ma che acquistano in relazione a quanto viene

venduto in tempo reale.

Lo stoccaggio delle merci rappresenta, infatti, un grosso costo finanziario che, aggravato dalla difficoltà di

realizzare accurate previsioni di vendita, rende particolarmente difficile l’inserimento di nuove imprese sul

mercato.

Per questa ragione molte imprese si sono concentrate sulla creazione di modelli di e-commerce differenti,

come quello del cosiddetto deal28, che consente sia di evitare i costi dedicati allo stoccaggio delle merci e di

spedire solamente il venduto, sia di aumentare l’awareness.

28Modello di Ecommerce a DEAL: le cose acquistabili, ad un prezzo tendenzialmente super competitivo, lo sono solo per un periodo di tempo molto limitato, solitamente scandito da un conto alla rovescia (es.Groupon)

Una tendenza dell’e-commerce di questi ultimi anni è fornire dei servizi in abbonamento che consentono ai

consumatori di non rimanere sprovvisti di un determinato bene o servizio, e alle imprese, che agiscono

sull’inerzia dei consumatori, di riuscire a calcolare il valore dei singoli consumatori nel tempo.

Un problema legato al commercio digitale e alla sua efficienza è quello del “costo di acquisizione del

cliente”. Quando si costruisce un modello di clienti ideali (le cosiddette personas29) e si misura la loro

sensibilità al prezzo, si può riscontrare che i clienti con una elevata propensione a pagare un prezzo alto

sono anche troppo costosi da acquisire e da mantenere. Per questa ragione sono molte le imprese che, per

acquisire nuovi clienti, devono investire tempo e danaro in quantità notevole prima di vedere un pieno

ritorno sul loro investimento e che, nel frattempo, devono riuscire ad evitare che il loro business muoia.

BUDGET TREND

Uno degli aspetti che incide maggiormente sulla competitività di un’impresa in ambito digitale è la accurata

gestione del budget, che dovrà essere diviso fra tutte quelle attività che riguardano, fra le tante, la gestione

della piattaforma, lo sviluppo dei contenuti e gli investimenti in advertising.

Rispetto a quest’ultimo aspetto, una parte importante degli investimenti è tipicamente dedicata alla SEO,

anche se tuttavia oggi bisogna fare i conti con la forte inclinazione di Google a dedicare sempre più spazio

agli annunci pubblicitari.

La possibilità di accedere a questi spazi pubblicitari di fatto nuoce a tutte quelle imprese che, a causa dei

costi elevati, non possono accedere a questa opportunità. Queste ultime, infatti, anche a fronte di un’ottima

strategia di SEO, appariranno negli spazi organici di ricerca soltanto dopo gli annunci pubblicitari. Si può

immaginare quanto questa circostanza sia particolarmente gravosa quando si realizza nel corso di una

navigazione da device con schermo di piccole dimensioni, come lo smartphone, determinando, di fatto, una

migrazione dei risultati organici di ricerca dalla prima alla seconda pagina.

Per fronteggiare questo problema, la tendenza delle imprese è stata investire sempre di più nella cosiddetta

keyword advertising30, il cui pregio è riuscire a colpire il consumatore nella fase finale dell’acquisto, agendo,

pertanto, in ambito decisionale quando la conversione è molto vicina. Tuttavia, se la strategia è mal

impostata il rischio è che il guadagno di Google, a fronte di questi preziosissimi investimenti pubblicitari, sia

sensibilmente maggiore dei ricavi delle aziende dalla vendita dei prodotti sponsorizzati.

Appare evidente che intercettare un compratore e-commerce è una strategia efficace ma che, a causa dei

costi, spesso non è efficiente.

Alla riduzione degli investimenti in SEO corrisponde la tendenza ad aumentare quelli in social media adv, in

particolare negli strumenti di Facebook e Instagram. I social media, infatti, hanno il pregio di riuscire ad

agire sulla cosiddetta awareness, aumentando, di fatto, il numero di persone che entrano in contatto con il

brand e riuscendo, nello stesso momento, a mantenere il consumatore fedele allo store anche quando non

si trova nel momento dell’acquisto.

29 nel marketing le personas sono quelle figure inventate che rappresentano le diverse tipologie di utenti di una determinata azienda. La creazione di clienti fittizi permette all’azienda di avvicinarsi alla mentalità dei propri clienti reali, processo che facilita l’immedesimazione e quindi la comprensione degli obiettivi, dei desideri, delle necessità e

delle richieste delle distinte categorie di consumatori. Tuttavia, non si tratta semplicemente di ideare uno stereotipo e verificarne la compatibilità con il prodotto proposto; la persona è inventata ma deve sembrare reale, deve essere un archetipo. È necessario, dunque, approfondire la sua conoscenza, rendere la sua descrizione molto dettagliata e

specifica, darle vita anche al di fuori del suo ruolo di consumer. 30 Keyword Advertising: possibilità di acquistare all'interno di motori di ricerca alcuni spazi di visibilità (link sponsorizzati o riquadri sponsorizzati) per i quali si paga una cifra legata al numero di ingressi al proprio sito web

ottenuti attraverso tale presenza. Questa metodologia permette di raggiungere in tempi brevi elevata visibilità nei motori di ricerca.

Infine, è importante ricordare un altro strumento particolarmente efficace per le imprese, l’indirizzo e-mail,

che porta, attualmente, il 50% degli introiti di un e-commerce in buona salute. Il contatto via mail

costituisce, infatti, un canale diretto fra l’impresa e il consumatore, il quale, prima di rilasciare i propri dati e

il consenso ad essere ricontattato ha svolto valutazioni che hanno escluso quel muro di diffidenza che

separa un consumatore da un brand. L’enorme potenzialità di questo strumento sta nel poter contattare il

consumatore con dei contenuti mirati e creati sulla base delle sue preferenze e dei suoi comportamenti.

MARKETPLACE, STORE O ENTRAMBI?

L’insieme delle opportunità del commercio online e di quello offline, pone le imprese davanti alla scelta del

luogo in cui vendere. Le imprese, infatti, possono scegliere di vendere nei grandi marketplaceoppure creare

degli spazi dedicati esclusivamente al loro brand, anche online, come avviene nel mondo del retail con i

cosiddetti store monomarca. Le differenze tra vendere su un marketplace e vendere attraverso il proprio

negozio online sono molteplici. Uno storeindipendente è un potente strumento di branding, offre maggiori

margini di guadagno e permette un maggiore controllo su tutte le fasi del processo di vendita e di

marketing, ma un ecommercecomporta alti costi di sviluppo (hosting, design, logistica, customer care),

promozione (SEO, advertising, social media, digital PR) e manutenzione del portale.

Un marketplace invece, prevedendo l’inserimento dei propri prodotti all’interno di siti come Amazon ed

eBay dotati di un’audience molto ampia è una soluzione veloce e indipendente da altri canali per proporre

online il proprio catalogo di prodotti, con un costo minimo iniziale di registrazione e nessun costo di

acquisizione traffico; tuttavia bisogna sottostare alle regole del marketplace che applica restrizioni alla

vendita di determinate categorie di prodotti, si focalizza sui prodotti più che sul venditore, offre bassi

margini di guadagno e le commissioni (tra il 10 e il 20%) per ogni transazione conclusa.

La scelta del luogo in cui vendere online non può mai essere univoca, ma deve basarsi sui diversi modelli di

business a seconda dello specifico brand, entrambe le soluzioni hanno vantaggi e svantaggi, che dovranno

essere valutati dalle singole imprese, in base alle loro strategie e alle loro priorità negli investimenti.

IL CONCETTO DI BUYER PERSONA31

Alla base di una corretta strategia di marketing digitale e di un progetto di comunicazione vi è la definizione

delle “Personas”, profili di soggetti tipo che interpretano un segmento di mercato e con i quali un’impresa

vuole entrare in contatto, stringere una relazione, comunicare un messaggio o vendere un prodotto. Le

personas sono, quindi, degli identikit di soggetti molto diversi in grado di sintetizzare le caratteristiche dei

clienti attuali e potenziali e di tutti i diversi stakeholder aziendali.

Nel marketing moderno, la definizione delle Personas permette alle imprese di conoscere meglio il

pubblico, costruire un’offerta quasi su misura, in grado di risolverne i problemi dei consumatori in modo da

rendere più probabile che gli stessi ne parlino positivamente con altri.

L’occasione del cosiddetto “passaparola” è fondamentale per l’e-commerce, che ha bisogno di massimizzare

in termini di qualità la relazione con il cliente, affinché lo stesso possa farsi promotore della sua esperienza

stimolando altri consumatori verso la stessa esperienza.

31Buyer Persona: rappresentazione del cliente ideale, la cui definizione aiuta le imprese a conoscere meglio i loro attuali clienti e ad identificare quelli potenziali, rendendo più efficace il lavoro di personalizzazione dei contenuti.

Dal punto di vista aziendale, il concetto che stiamo affrontando permette di individuare efficacemente quali

strumenti utilizzare, quali attività svolgere e quali sono i luoghi digitali in cui poter trovare e interagire con il

pubblico di riferimento. Vale a dire, dove meglio allocare risorse e budget, rendendo la strategia di

marketing più efficiente ed efficace.

Data la complessità dell’argomento e la straordinaria varietà di consumatori e dei loro percorsi, si evince

che ogni singola impresa ha l’onere di considerare il vasto insieme di persone che possono comporre il suo

bacino di utenza, attuale o anche ideale e, per gli stessi, differenziare priorità e azioni.

BIBLIOGRAFIA

Antonacci F,.Conti L – “E-commerce. Marketing & vendite. Strumenti e strategie per vendere

online”, HOEPLI 2015

Diegoli G., Brambilla M.- “Mobile marketing, nuove relazioni nuovi clienti”, HOEPLI, 2016.

Diegoli G.-“Ecommerce book 2017”Ebook realizzato in collaborazione con Streetlib

INTRODUZIONE AI METODI DI RICERCHE

QUALITATIVE

Scritto da Andrea Sidoti, tratto dalla lezione di Stefano Pace

La ricerca qualitativa mira al consumer insightattraverso un metodo senz’altro non complesso a

livello di comprensione ma ben più difficile nella sua applicazione concreta. Tale approccio va

considerato come complementare a quello quantitativo, che analizza in maniera positivistica i dati

utili alle ricerche sui consumatori.

LA RICERCA QUALITATIVA

La ricerca qualitativa coinvolge una serie di metodi (interviste, focus group, etnografia,…) per i

quali occorre una lente interpretativa che è differente da quella della ricerca quantitativa, per

quanto anche la ricerca qualitativa non sia nemica dei numeri. Si tratta di due modelli

complementari che vanno necessariamente integrati per ottenere un risultato migliore.

L’approccio quantitativo viene considerato difficile da apprendere ma, una volta compreso, diviene

facile da applicare, perché codificato e metodico, sempre uguale a se stesso anche se le tecniche

statistiche che coinvolge (ad esempio ANOVA32, regressione lineare33, covarianza34) sono

ovviamente applicate a dati diverse. L’approccio qualitativo, al contrario, è molto facile da capire,

in quanto le pratiche di osservazione e ricerca sono quelle che mettiamo in atto quotidianamente

solo in maniera più strutturata e con un obiettivo di ricerca ben definito, ma è molto più

complesso da applicare: è più facile sbgliare una intervista che un questionario. Ogni

comportamento va interpretato, può essere segno di qualcosa di interessante o al contrario può

essere irrilevante: ci possono essere interpretazioni opposte. Ogni osservazione va dunque

approfondita e occorre sempre interrogare la persona per capire enomeni anche complessi ma il

difetto dell’approccio qualitativo è che rischia di farci vedere solo cose che già pensiamo di sapere

(preconcetti, pregiudizi da cui bisogna liberarsi prima di iniziare).

IL CONSUMER INSIGHT

Nella ricerca qualitativa si va alla ricerca del cosiddetto insight. Il consumer insight è una

comprensione delle motivazioni reali e profonde per cui una persona ha un determinato tipo di

comportamento di consumo. Dall’analisi dei dati raccolti, otteniamo un’intuizione che non era

presente prima di iniziare la ricerca: è in questo momento che ci accorgiamo di avere ottenuto un

32 L'analisi della varianza (ANOVA, dall'inglese Analysis of Variance) è un insieme di tecniche statistiche facenti parte della statistica inferenziale che permettono di confrontare due o più gruppi di dati confrontando la variabilità interna a

questi gruppi con la variabilità tra i gruppi. 33 La regressione formalizza e risolve il problema di una relazione funzionale tra variabili misurate sulla base di dati campionari estratti da un'ipotetica popolazione infinita. 34 In statistica e in teoria della probabilità, la covarianza di due variabili statistiche o variabili aleatorie è un numero che fornisce una misura di quanto le due grandezze varino assieme, ovvero della loro dipendenza

insight, che non emerge mai in una ricerca di tipo quantitativo. Si tratta di un elemento non

prevedibile all’inizio della propria ricerca: la ricerca qualitativa è dunque un modo di vedere il

mondo in modo diverso.

Esistono una serie di imprese che utilizzano le ricerche di tipo qualitativo (anzi alcune hanno al

loro interno unità organizzative che si occupano proprio di questo es: Intel, Xerox) perché in tutti

i settori l’aspetto qualitativo è considerato fondamentale, in maniera complementare a quello

quantitativo perché i big data, da soli, non bastano più.

La ricerca qualitativa ha tre scopi: può essere esplorativa, descrittiva oppure auto-conclusiva,

ovvero determinare un insight. Può essere molto utile per descrivere fenomeni, esplorarne di

nuovi o essere utilizzata anche in maniera autonoma senza affidarsi a dei numeri.

La ricerca qualitativa nasce all’interno della psicologia e della sociologia e raccoglie altre discipline

tipo elementi di antropologia, linguistica, semiotica ed etnografia, discipline dalla matrice olistica.

che comprendono il comportamento del consumatore in modo più sistemico.

Fig1: La ricerca qualitativa aiuta a individuare il consumer insight.

L’APPROCCIO INTERPRETATIVO DELLA RICERCA QUALITATIVA

Emerge dunque una differenza tra un approccio positivistico, paradigma della ricerca quantitativa, e

uno maggiormente interpretativo, proprio della ricerca qualitativa. In particolare, approccio

quantitativo e qualitativo possono differire in una serie di aspetti: in un caso la realtà viene essere

considerata unica e obiettiva, nell’altro può essere intesa come multipla e soggettiva (ad esempio, il

MoleskineCafé, a seconda del visitatore, può essere considerato in maniera differente: un normale

caffè di zona Brera, un coworking, un caffè letterario); nell’approccio quantitativo il linguaggio è

solitamente formale e impersonale e informatore e informant35possono lavorare in modo

indipendente, mentre quello qualitativo fa leva su un linguaggio spesso informale e personale,

poiché si fa parlare l’informant piuttosto che l’informatore stesso e i due interagiscono; mentre la

ricerca quantitativa punta all’obiettività e può essere condotta all’interno di un “laboratorio” dove

testare variabili chiave, quella qualitativa si conduce generalmente sul campo, nel contesto

naturale, per parlare con le persone nel luogo dove avviene il consumo; mentre il ricercatore con

35 L’informant è l’intervistato

approccio quantitativo lavora su esperimenti e tramite deduzione, il ricercatore che sceglie

l’approccio qualitativo opera per induzione, con un disegno di ricerca in evoluzione.

Insomma, come già spiegato, i due approcci vanno usati entrambi in maniera complementare: è

preferibile partire sempre con un approccio qualitativo, per poi integrarlo con uno di tipo

quantitativo: partire da un ambito specifico, da un problema che io scelgo e individuo, stabilire in

principio cosa sto andando a ricercare.

La ricerca qualitativa comunque non si basa su ciò che le persone dicono, ma su quanto il

ricercatore ha capito in base a quello che loro hanno detto, anche perché le persone indossano

delle maschere e spesso dicono ciò che vogliono dire. Le parole dell’intervistato non sono il

termine finale della mia ricerca, ma c’è una fase di analisi successiva, molto importante e rilevante.

Ad esempio, se il fenomeno da indagare è l’utilizzo del sapone e le ragioni di tali utilizzo e se la

risposta è: “Per sentirmi pulito, fresco, a posto” (semplice valore nominale), bisogna capire cosa

vuol dire sentirsi a posto per l’intervistato se è un sentirsi a posto con sé stessi oppure sentirsi a

posto in un contesto sociale in cui possa sentirsi accettato, se ha un valore sanitario o sociale… E

così via. Tutti elementi che deve stabilire la ricerca qualitativa.

L’intervista ha un metodo diretto, non rigidamente strutturato, per comprendere le motivazioni,

le credenze, le attitudini, le sensazioni su un determinato tema.

Ci sono tre tipi di approcci nell’intervista, che non sono definiti a priori ma dipendono

dall’intervistato, che ne adotta uno o più spontaneamente:

realismo36se l’intervistato mi dirà dati veri che sono poi quelli che sto cercando: esiste

quindi una verità a cui il ricercatore avrò accesso tramite le parole dell’intervistato. Può

avere senso per i dati anagrafici, che sono oggettivi

fenomenologico quando si vuole entrare nel vissuto della persona, capire come vede il

mondo, interpretandone il linguaggio della persona intervistata

costruttivista se la verità non esiste, la costruiscono l’intervistatore e l’intervistato. Ad

esempio: l’intervistato non sa perché si trova al MoleskineCafé, non si è mai posto la

domanda ma nel corso dell’intervista si capirà meglio i motivi della pratica di consumo

oggetto della ricerca. Tendenzialmente la ricerca qualitativa migliore è quella spostata

verso la fenomenologia e il social constructionism.

L’intervista può essere strutturata (quando si raccolgono informazioni sulla base di ipotesi da

verificare), semi-strutturata (quando si hanno in mente le linee guida, gli argomenti che si vogliono

andare a toccare, ma si lascia libera la persona intervistata di parlare di quello che ritiene più

importante: tendenzialmente è il metodo più efficace) o non strutturata (quando si sta con la

persona magari mentre si sta consumando il prodotto o utilizzando il servizio oggetto della

ricerca).

L’intervista deve iniziare stabilendo un rapporto di fiducia, con domande generali che non

riguardano aspetti controversi, senza volersi ingraziare l’intervistato, ma semplicemente facendolo

36 intervista condotta sulla base della convinzione che nella mente dell’intervistato vi sia la verità, unica e certa, che si sta ricercando.

sentire a proprio agio e non sotto esame. Occorre notare anche l’identity work37 dell’intervistato,

che tendenzialmente risponde ciò che pensa sia socialmente e convenzionalmente accettato: ecco

perché spesso i sondaggi politici falliscono e ora si tende non tanto a chiedere per chi si voterà,

ma si interrogano piuttosto certi comportamenti per poi inferire le intenzioni di voto. Si passa poi

alle Probingquestions38, domande cioè che invitano a elaborare, approfondire, espandere quanto è

stato detto dall’intervistato, andando oltre la risposta secca (“Può dirmi altro a tal proposito?

Vuole aggiungere qualcosa? Perché ha detto X? Una prospettiva alternativa farebbe pensare

che…”). L’intervistato, probabilmente, è la prima volta che riflette sul tema, quindi occorre tempo

per elaborare le proprie risposte e i propri pensieri, anche facendo pensare a voce alta l’intevistato

mentre elabora la risposta. Infine si chiede se l’intervistato desidera aggiungere qualcosa, evitando

in questa fase sempre domande su temi sensibili o controversi (nel caso sono preferibili a metà

intervista), si illustra il follow-up dell’intervista (che cosa faremo delle risposte, confrontarsi sulle

conclusioni dell’intervista e anche dell’intera ricerca, lasciare anche i propri contatti per stabilire un

rapporto), e si termina con una nota positiva, rendendosi disponibili ad ulteriori contatti e

chiedendo se l’intervistato sarà poi disponibile a dare un riscontro sui risultati dlla ricerca,

oerapire se l’insight ricavato viene confermato.

Gli elementi pratici della ricerca qualitativa, detti practicalities39, diventano anche elementi

metodologici: non essendo in ambiente di laboratorio ma in un ambiente naturale è importante

presentare la ricerca prima dell’inizio dell’intervista, illustrando obiettivi, follow-up e l’utilizzo

dell’intervista. Successivamente si può anche inviare un sommario dei risultati. Occorre poi

selezionare un contesto e un ambiente appropriato, significativo (ad esempio, se si intervista un

tassista potrà essere utile farlo proprio all’interno del suo taxi, dove può anche illustrare

all’intervistatore qualche oggetto o aspetto del proprio lavoro). È utile anche registrare l’intervista,

per analizzarla successivamente e garantire il consenso informato; inoltre l’intervistato può fare

domande, ritirare la disponibilità in qualsiasi momento.

Fig2: Elementi dell’intervista sono le probingquestions, le domande finali e le practicalities.

37 lavoro da parte dell’intervistato per rispondere in una maniera che ritiene socialmente e convenzionalmente accettata. 38 domande che invitano a elaborare, approfondire, espandere quanto è stato detto dall’intervistato, per andare oltre

la risposta secca. 39Le practicalities sono elementi pratici di un’intervista che, nell’approccio qualitativo, diventano anche elementi metodologici.

Spesso gli intervistati ricercano il contesto adatto in cui farsi riprendere e che meglio rappresenti

la loro immagine: dal tema proposto dall’intervistatore si finisce per esibire la propria storia,

ancora prima dell’inizio dell’intervista stessa ed ecco dunque emergere l’importanza del pre-

intervista e post-intervista e anche del non-detto, di quello che viene comunicato

inconsapevolmente.

Il segreto dell’individuazione dell’insight sta proprio nell’imprevedibilità di quello che emergerà nel

corso del dialogo, talvolta inconsapevolmente, nel non-detto o dai desideri della persona

intervistata che emergono al di là delle domande inizialmente previste. L’insightemerge grazie

all’intervistato, viene costruito nel corso dell’intervista e individuato anche in una successiva fase di

analisi. I tre passi sono: raccolta dati, l’analisi dei dati e la presentazione dei risultati. Anche

quest’ultima, nella ricerca qualitativa, è fondamentale; nella ricerca quantitativa, invece, i numeri

sono auto-esplicativi.

DATA ANALYSIS QUALITATIVA40

Come analizzare i dati qualitativi? Il dato qualitativo è formato essenzialmente da parole, che

compongono le interviste trascritte o le parole trovate online su un tema che interessa la mia

ricerca.

Il primo passo è accantonare pensieri personali, preconcetti e pregiudizi, deve essere il testo a

parlare. Si procede tramite il coding41, ovvero la codificazione di tipo qualitativo di un testo. Il dato

non va considerato nel suo valore nominale. Ad esempio se una persona comunica la necessità di

una sala computer, potrebbe voler dire che necessita di una connessione web, oppure di una sala

pc per la didattica scolastica, oppure di uno spazio tranquillo e luminoso dove potersi concentrare,

o di altro ancora... E’ necessario superare il valore nominale delle cose. Per capire tutto ciò si

applica appunto il coding. Occorre andare in profondità per estrarre dai dati dei risultati utili per la

mia ricerca.

Il codingè composto di tre passi: open coding (individuare determinate categorie),

axialcoding(connettere le categorie), selectivecoding (definire il fenomeno, il tema centrale, la

“storia”). Si identificano delle etichette, che classificano le risposte, si fanno dei collegamenti

all’interno del testo e da ciò emergono uno o più temi forti della ricerca. Poi sarà normale

identificare delle contraddizioni e delle incertezze da parte dell’intervistato. Di fatto in ogni

intervista emergono dei temi, magari racchiusi all’interno di alcuni poli, di alcune dicotomie

(denaro-gratis, casa privata-pubblico, passato-presente, libertà-controllo) che possono ricorrere in

diverse interviste: così diviene possibile identificare delle convinzioni o dei sentimenti comuni

40Si dice Data analysis qualitativa il metodo per analizzare i dati qualitativi. 41 Il coding è la codificazione di tipo qualitativo di un testo. Composto da tre passi: open coding (individuare

determinate categorie), axialcoding(connettere le categorie), selectivecoding (definire il fenomeno, il tema centrale, la “storia”).

riguardo un determinato tema, se ricorrenti in tutte le interviste sono sulla strada giusta per

individuare l’Insight.

Successivamente, dopo la presentazione dei risultati della ricerca e quindi dell’insight (che deve

sorprendere anche il pubblico non solo l’intervistatore), tramite i feedback dell’intervistato, ci si

può confrontare ancora una volta per tornare sull’argomento.

Fondamentale, comunque, è comprendere come il significato che si vuole raggiungere non è nelle

parole in sé, ma nella loro interpretazione. Sono tutte analisi che non è possibile fare, ovviamente,

tramite un software, come accade invece nell’approccio quantitativo.

BIBLIOGRAFIA

Belk, R. Fischer, E. Kozinets, R. “Qualitative Consumer and Marketing Research” – SAGE

Pubblications, 2012

Gunter, B. “Media ResearchMethods: MeasuringAudiences, Reactions and Impact” – SAGE

Pubblications, 2000

Molteni, L. Troilo, G. “Fare ricerca qualitativa” – EGEA, 2012

COMUNICAZIONE E PARADIGMI DEL

FUTURO

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Luisa Aschiero

CAMBIAMENTO RADICALE

Unicità, condivisione, tempestività e sostenibilità: attorno a questi temi si sviluppano i quattro

scenari paradigmatici del cambiamento elaborati da Future Concept Lab, che permettono di

costruire una piattaforma socio-culturale per analizzare le aspettative e i comportamenti dei nuclei

generazionali in chiave di comunicazione.

I paradigmi Unique& Universal, Trust &Sharing, Quick&Deep, Crucial&Sustainable definiscono quattro

macro-scenari valoriali che intercettano gli aspetti innovativi di quello che può essere definito un

radical change: un cambiamento epocale nel modo di intendere il consumo, che non può

prescindere dalla fiducia ed è orientato verso esperienze che non si possono comprare. Una sorta

di rivoluzione copernicana, che ha determinato nuovi stili e nuovi comportamenti, legati all’idea

che il valore commerciale di un prodotto dipenda da una serie di istanze ineffabili e profonde,

come la reputazione, la serietà e l’affidabilità. È come se, travolti dalla crisi economica, sia stata

avvertita la necessità di tornare all’essenziale: da qui una maggiore attenzione al consumo e alla

riduzione degli sprechi, un cambiamento nei criteri della scelta di cosa acquistare, l’attenzione alla

qualità del prodotto e la riscoperta del valore della prossimità, per recuperare la ricchezza della

relazione. I quattro paradigmi esprimono le istanze profonde che si sono manifestate con questo

cambiamento, le linee valoriali che sono emerse e che sottendono nuovi comportamenti

d’acquisto. A ogni paradigma è collegata una tendenza di comunicazione, che a sua volta rimanda a

un nucleo generazionale di consum-autori42, che nelle loro scelte e nel modo di vivere il consumo

manifestano i principi insiti in questi cambiamenti.

UNIQUE & UNIVERSAL

Il paradigma Unique& Universal coniuga unicità e universalità, permettendo di superare l’antinomia

tra locale e globale. I due termini, apparentemente antitetici, trovano la loro sintesi nelconcetto di

glocalizzazione43, una tendenza che concilia il fenomeno della globalizzazione con la valorizzazione

delle specificità del territorio: fondamentale per le aziende sarà la capacità di trasformare prodotti

locali in opzioni che abbiano un appeal universale. Aziende che si muovono in questa direzione, ad

42Consum-autore è un consumatore critico, consapevole e responsabile delle proprie scelte di consumo. 43 La localizzazione è la diffusione su scala mondiale, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, di elementi culturali, idee, stili di vita propri di realtà locali.

esempio, sono Converse, che offre ai clienti la possibilità di personalizzare un prodotto-icona

come le scarpe All-Stars, e Eataly, che nel settore alimentare ha saputo trasformare prodotti locali

in proposte universali.

Tendenza di comunicazione: UniqueDiversities

A livello comunicativo viene veicolato il messaggio che la differenza è un valore aggiunto e che

l’eccezione diventa qualcosa di positivo, da valorizzare. La diversità diventa unicità esistenziale:

siamo tutti diversi e ognuno di noi è unico, tanto nel Dna quanto nelle scelte di consumo e nei

comportamenti d’acquisto. Una tendenza incentrata sull’unicità, che non si riconosce più nelle

tradizionali logiche di segmentazione dei consumatori.

Fig.1: La diversità diventa unicità esistenziale: siamo tutti diversi e ognuno di noi è unico, tanto nel Dna quanto

nelle scelte di consumo e nei comportamenti d’acquisto.

Consum-autori: ExperTeens

Il nucleo generazionale di riferimento è quello degli ExperTeens, che comprende gli adolescenti dai

16 ai 19 anni, la fascia di età in cui la personalità si sta definendo. Le caratteristiche che li

contraddistinguono sono la conoscenza pragmatica, l’attitudine creativa, un impegno mirato e

quotidiano e la necessità di dialogo profondo. Alla ricerca costante di novità, utilizzano i social in

maniera diversificata e con diversi livelli di coinvolgimento, basso per le comunicazioni di servizio e

alto per condividere pensieri ed emozioni.

TRUST & SHARING

Il secondo paradigma si basa su due concetti da cui nel futuro sarà impossibile prescindere: fiducia

e condivisione. Due valori che si includono reciprocamente: non c’è condivisione se non c’è fiducia

e se la fiducia non porta alla condivisione resta sterile, fine a sé stessa. È pertanto fondamentale

puntare alla convergenza tra cliente e fornitore di servizi, passando dalla catena di valore alla

catena della fiducia, in cui l’utente è parte integrante del processo produttivo. I nuovi modelli di

sharing economy44 vanno proprio in questa direzione, generando valore per tutti i soggetti coinvolti,

all’interno di un ecosistema phygital45 in cui la linea di confine tra offline e online si assottiglia

sempre di più, verso una costante e progressiva integrazione delle due dimensioni, che sono facce

della stessa medaglia.

Tendenza di comunicazione: Singular call

La prima persona singolare incontra la prima persona plurale e la singolarità dell’io, amplificata

dalle tecnologie digitali, arriva a coincidere con un “noi”. Attraverso una progressiva convergenza

tra produttore e consumatore e la costante crescita del livello di engagement, tra aziende e clienti

si può instaurare un legame reale e profondo.

Consum-autori: Pro-actives

I consum-autori di riferimento per questo paradigma sono i giovani dai 25 ai 30 anni, una

generazione che sta facendo i conti con la difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, ma è

intraprendente, consapevole del proprio talento, ha voglia di viaggiare e di fare nuove esperienze.

Per i Pro Actives la relazione con la rete è funzionale e gli strumenti, online e offline, sono

apprezzati a fronte di una reale utilità. La relazione con le marche è caratterizzata da un dialogo

continuo, che può tradursi in passione e coinvolgimento o rimanere molto critico.

QUICK & DEEP

Tempestività e profondità sono i valori espressi dal terzo paradigma. In una società in cui il tempo

è diventato un elemento sempre più prezioso, la tempestività per le aziende rappresenta un valore,

in quanto indica la capacità di cogliere subito le esigenze della persona e di risolverle velocemente

e nel modo migliore. Il paradigma rimanda anche alla differenza tra tempo cronologico (kronos) e

tempo inteso come occasione felice (kairos): il tempo non si misura più in secondi, minuti e ore,

ma in occasioni felici, emozionanti, che il più delle volte sono legate a situazioni quotidiane. Da qui

la richiesta di prodotti e servizi facilmente fruibili, semplici, capaci di soddisfare le esigenze in

maniera incisiva e rapida: felicità fruitiva, immediatezza d’uso e assoluta accessibilità sono un valore

aggiunto per il consumatore. Ma la tempestività non deve inficiare sulla qualità del prodotto o del

44 La sharing economy è un modello economico basato su un insieme di pratiche di scambio e condivisione di beni

materiali, servizi o conoscenze. 45Phygital: è la crasi tra physical e digital e indica la convergenza tra il mondo fisico-analogico e quello digitale.

servizio offerto: ecco quindi l’importanza della profondità, intesa come acquisizione di competenze

e conoscenze sempre maggiori e complete, per soddisfare al meglio le richieste dei consumatori.

Fig.2: il tempo non si misura più in secondi, minuti e ore, ma in occasioni felici, emozionanti.

Tendenza di comunicazione: AlgorithmicTouch

Gli algoritmi fanno ormai parte della nostra vita quotidiana e la loro capacità di selezione e

decisione diventa sempre più raffinata. Ma esistono anche algoritmi emotivi ed empatici,

intelligenze elettroniche che coniugano il binomio tecnologia ed emozione, permettendo agli utenti

di “toccare con mano” gli effetti dell’algoritmo stesso. Calzante l’esempio del gruppo musicale dei

Massive Attack, che ha realizzato un’app che consente di sincronizzare il ritmo della musica con il

battito cardiaco di chi assiste ai suoi concerti.

Consum-autori: Pro Tasters

I giovani adulti dai 35 ai 40 anni incarnano al meglio i valori del terzo paradigma. I loro

comportamenti di consumo sono caratterizzati da edonismo quotidiano, cura raffinata,

approfondimento esperienziale e originalità ricercate: i Pro Tasters provano soddisfazione in tutto

ciò che sperimentano e amano assaporare ogni esperienza, dalla quale traggono gratificazione

culturale e sensoriale e della quale tendono a valorizzare il lato emozionale.

CRUCIAL & SUSTAINABLE

Il quarto paradigma sintetizza il bisogno di un orientamento etico, che diventa cruciale nei nuovi

modelli di business. Il concetto di sostenibilità si è allontanato dall’ecologismo militante di Green

Peace e si è avvicinato alla cultura della qualità della vita. È sempre più necessario alimentare

comportamenti finalizzati a minimizzare gli impatti negativi sull’ecosistema attraverso la riduzione

degli sprechi, grazie a una presa di coscienza collettiva relativa all’ambiente

Tendenza di comunicazione: Docu-lives

La real life, la realtà più vera e genuina, sta entrando con prepotenza nel panorama della

comunicazione e la diffusione della tendenza docu-lives attesta l’interesse delle persone verso una

realtà autentica, non filtrata né edulcorata.

Consum-autori: SingularWomen

I consum-autori di riferimento sono le SingularWomen, le donne dai 40 ai 60 anni contraddistinte

da carattere audace, approccio critico e attenzione al punto di vista differente. Le loro scelte di

consumo partono dalla consapevolezza che le marche possono veicolare un contenuto valoriale al

di là del prodotto in sé o del servizio offerto. Dal punto di vista comunicativo, sono alla ricerca di

nuovi linguaggi, filtrati da un pragmatismo intelligente e creativo.

DALLA PIRAMIDE DELLA VISIBILITÀ ALLA PIRAMIDE DELLA CREDIBILITÀ

La sintesi delle nuove linee valoriali espresse dai quattro paradigmi è rappresentata dall’evoluzione

della piramide della visibilità, che per 50 anni ha caratterizzato la società moderna del consumo,

nella piramide della credibilità, che le aziende devono provare a scalare se vogliono vincere le sfide

imposte dal cambiamento. Fondamentale tenere in considerazione le nuove logiche del

riconoscimento, che segnano il superamento definitivo della rappresentanza e della

rappresentazione: le persone non vogliono più essere rappresentate solo in termini politici o

economici, ma aspirano a essere riconosciute come consum-autori, con le loro caratteristiche

individuali e i loro specifici comportamenti di consumo, sempre più consapevoli. Pertanto le

aziende che ancora tentano di fidelizzare il cliente con le tradizionali tecniche di marketing, che

fanno leva sui concetti di visibilità, posizionamento, status e segmentazione, rischiano di affondare

se non prendono in considerazione i nuovi valori che si stanno imponendo, legati alla credibilità, al

riconoscimento, alla reciprocità e alla relazione autentica.

BIBLIOGRAFIA

Morace F., I paradigmi del futuro – Lo scenario dei trend, Nomos Edizioni, 2011

Morace F., Crescita felice – Percorsi di futuro civile, Egea, 2015

Morace F., ConsumAutori – I nuovi nuclei generazionali, Egea, 2016

Degli Esposti P., Essere prosumer nella società digitale. Produzione e consumo tra atomi e bit,

FrancoAngeli, 2015

S E Z I O N E B R A N D

«E’ più facile amare un Brand quando anche il

Brand ti ricambia»

Seth Godin

INDICE

1- LA VITA SOCIALE DELLE MARCHE IN UN MONDO IPERCONNESSO

Scritto da N.Gadaleta, tratto dalla lezione di Bernard Cova……………….....pag.4

2 - MARKETING 2.0: IL RUOLO DEL PUNTO VENDITA NELLA COSTRUZIONE

DELLA BRAND EQUITY.

Scritto da R.Balestrero, tratto dalla lezione del Prof. Vanni Codeluppi….….pag.11

3 - BRAND E IDENTITÀ DI MARCA

Scritto da Chiara Carlini Tratto dalla lezione di Elisabetta Baldini…………..pag.17

4 - ITALIAN BRAND IN CHINESE. BENESSERE RELAZIONALE VERSO IL

TURISMO ORIENTALE

Scritto da M.Gabriella Metelka Tratto dalla lezione di Paolo e Zeno Casti…pag.23

5 - PERSONAL BRANDING

Tratto dalla lezione del prof. Leonardo Bellini Scritto da Dianora Zacchè….pag.29

LA VITA SOCIALE DELLE MARCHE IN UN

MONDO IPERCONNESSO

Scritto da Nadia Gadaleta, tratto dalla lezione di Bernard Cova

LA SOCIETÀ POSTMODERNA E IL NUOVO CONSUMO

Quando si parla di Postmodernità si intende quel periodo storico iniziato dagli anni 1980quando i

nostri modi di vivere hanno cominciato ad essere influenzati dalle tecnologie e dal web. Le prime

hanno sicuramente reso la nostra vita quotidiana immediata, semplice e con l’impiego di uno

sforzo minimo. Per quanto riguarda l’avvento del Web, si potrebbe dire che esso ha cambiato le

prospettive degli individui rendendoli parte integrante di una nuova società in cui non solo è

possibile ridurre grandi distanze ma anche creare nuove realtà per dar voce ai propri pensieri.

Mike Featherstone (1991, p.3)affermavache “To speak of Postmodernity is to suggest an epochal

shift from Modernity involving the emergency of a new social totality with its own distinct

organizing principles”. Dunque, possiamo affermare anche che dopo gli anni del secondo conflitto

mondiale e la paura della Guerra Fredda, gli individui abbiano sentito il bisogno di unirsi

mentalmente per creare delle connessioni e per condividere le loro emozioni. A soddisfare questo

bisogno è giunto il web.

Le conseguenze della postmodernità sono state molteplici: il collasso delle utopie; la sfiducia nel

progresso e la nuova concezione dell’Io, il quale si ritrova da solo a confrontarsi con una

moltitudine di individui nella quale è complicato affermarsi individualmente. In questo contesto, è

divenuto centrale il ruolo degli hobby, non perché la gente abbia più tempo a disposizione, ma

piuttosto perché essi sono divenuti un modo per distinguerci e definirci nella moltitudine,

regalando all’Io un senso di appartenenza mentale e fisico.

Le conseguenze di questi cambiamenti si sono riversate in maniera decisiva sul consumo,

cambiando le vecchie leggi economiche e sociali. Oggi, infatti, non si può più parlare del consumo

come l’ultimo anello della catena economica volto alla dispersione di risorse ma bisogna

considerarlo da una nuova prospettiva esperienziale e psicologica. L’atto del consumo deve oggi

produrre a sua volta nel consumatore un’esperienza che crei un’immagine (positiva o negativa) la

quale si stabilirà nei ricordi dei consumatori. Si potrebbe affermare che il consumo oggi oscilli tra

la soddisfazione e insoddisfazione dell’individuo consumatore; tra il suo piacere e la sua rabbia;

generando nell’uno o nell’altro caso un’esperienza.

Questa nuova concezione del consumo ha portato ad una nuova percezione delle marche nelle

quali i consumatori tendono a riconoscersi e a raccogliersi richiamando quello stesso senso di

appartenenza che si ritrova negli hobbies.

LA VITA SOCIALE DELLE MARCHE

Si tratta di un nuovo fenomeno antropologico che può sintetizzarsi con Appadurai il quale afferma

che “Le marche oggi vivono la loro vita coi consumatori, volendo o no, secondo l’azienda, questo

contatto”. Come si manifesta questa vita sociale delle marche? Per rispondere a questo quesito

dobbiamo definire il concetto di marca. Essa infatti non è solo un nome o un insieme di parole che

ci ricorda un determinato oggetto, ma racchiude in se stessa un’esperienza e un mondo nel quale

un individuo si riconosce o meno. Quando parliamo di vita sociale delle marche, quindi, ci

riferiamo a dei fenomeni psico-sociali che esistono a prescindere dal volere delle aziende fondatrici

di una marca.

FENOMENI DI MARCA

Brand Verbs: oggi esistono i cosiddetti verbi di marca come to google o to skype e questa

lista si allunga di giorno in giorno. Un fenomeno, questo, alimentato con l’iperconnessione

e digitalizzazione nel caso di Google ma che già esisteva dagli anni 80’ se proviamo a

pensare che il verbo inglese to hoover deriva in realtà dalla marca della rispettiva

aspirapolvere; oppure alla campagna verbale lanciata da Vespa “Vespizzatevi. E chi Vespa

mangia le mele!”.

Brand Communities: le marche oggi sono la causa della formazione di gruppi di persone

che si riconoscono in essa (“nutellisti”, “ducatisti” ma anche “milanisti” o “interisti”). Si

tratta di club formati dalle persone stesse e non di iniziative aziendali le quali nella maggior

parte dei casi falliscono perché sentite come un’imposizione. Le persone si accomunano in

maniera spontanea, per il loro amore o passione per una marca; ad esempio Adults Fans Of

Lego: una comunità di adulti che amano la marca di costruzioni giocattolo. Ogni individuo in

una community si sente parte di un luogo sovrastrutturale.

Fig1: Lego è un’azienda con una lunga storia e tradizione che ha saputo stare al passo coi tempi., anche grazie

all’attenzione alle communities che sono sorte attorno al brand

Brand Rituals:le marche si riconoscono nei rituali. Si tratta di azioni che si compiono se si

entra in contatto con una marca. Un esempio chiarificatore è il fenomeno della Jeep Wave,

il saluto in stile militare tra coloro che sono alla guida di una Jeep. Fenomeno iniziato dai

guidatori di Jeep e non dall’azienda. Bisogna prendere in considerazione anche le giornate in

cui si festeggia una marca, come il 4 maggio per tutti i fan di Star Wars: May 4th (be with

you). Anche in Italia abbiamo il rituale della Nutella, festeggiata il 5 febbraio, iniziativa della

blogger americana Sarah Russel e ceduto in seguito all’azienda Ferrero con lo scopo di fare

beneficienza con il ricavato.

Fig2: Il 4 maggio è considerato, dai fan di Star Wars, un giorno di festa in cui celebrare la saga cinematografica,

grazie all’assonanza con la famosa citazione "May the Force be with you"

Brand Surfeits:si tratta di fenomeni che riguardano la marca in maniera indiretta. Un brand

viene quindi maneggiato dai suoi consumatori a loro piacimento. A questo proposito, un

caso da riportare è quello di SpockingFives nato in Canada e divenuto virale dopo la

scomparsa dell’attore interprete di Spock, Leonard Nimoy. I fan canadesi di Star Trek

infatti, usavano, modificare la faccia di Sir Wilfrid Lauriel in Spock. Dopo un annuncio da

parte del direttore della banca canadese in televisione, il quale chiedeva di “stop

spockingfives” il fenomeno divenne virale non solo in Canada ma si estese in altre nazioni

su altre banconote di valuta differente. Un ulteriore caso, è quello della passione per la

Ventoline, un medicinale distribuito da Glaskon per asmatici. La comunità di asmatici ama il

proprio medicinale al punto da ricrearlo su magliette, tatuaggi e torte di compleanno.

Brand Volunteers: parliamo di volontari per la marca. In generale, si tratta di gente che

dedica parte del proprio tempo al sostegno di una marca e del suo prodotto. Gruppi di

volontari possono creare dei veri movimenti fino a mettere in discussione l’autorevolezza

di un’azienda. Un caso studio esemplare è quello di Surge e dei suoi volontari. Surgeera una

bevanda alternativa prodotta per la prima volta da Coca-Cola negli anni 80’ e rimossa dal

commercio per il suo (apparente) insuccesso. Quasi trent’anni dopo tre giovani ragazzi

statunitensi nostalgici del soft drink, hanno iniziato a reclutare sul web dei volontari per

unirsi alla loro causa: riportare Surge nei supermercati. Dopo aver raggiunto i cento mila, il

movimento ha cominciato una vera e propria campagna di marketing verso Coca-Cola per

convincerli alla ri-produzione di Surge. Grazie all’utilizzo di Social Media e off line marketing

(esemplare il cartello pubblicitario davanti all’head quarter di Coca-Cola con la scritta:

“Dear Coke, wecannotbuySurge so weboughtthis”); i Surgevolunteers hanno ottenuto una

messa in commercio sperimentale on line su Amazon. Il successo ha portato Coca-cola a

rimettere la bevanda in commercio negli Stati Uniti.

La vita sociale di una marca quindi si traduce in una serie di fenomeni sociali e antropologici che la

vedono come il fulcro di azioni e rituali. In questo processo, il prodotto è semi nascosto, esso

infatti è sì una manifestazione della marca, ma quello che conta sono le emozioni e le esperienze

circostanziali di essa.

CASE STUDY. TOUGH MUDDER AND THE MUDDER NATION

ToughMudder è stato inventato da Will Dean, un giovane americano, nel 2011. Si tratta di una

percorso ad ostacoli estremi con poche regole e tante emozioni: bisogna partecipare in squadra,

superare gli ostacoli e arrivare tutti insieme alla fine del percorso. Il vincitore non esiste perché

non ha importanza chi arriva primo: dopo aver superato tutti gli ostacoli si acquista lo status di

ToughMudder, si entra nella MudderNation. L’evento si tiene in varie parti del mondo, in diversi

ambienti naturali dal deserto alla montagna. Gli ostacoli sono sempre più difficili da superare, ma

l’essere uniti è la chiave per arrivare alla fine del percorso. Per ogni evento vengono reclutati più

di mille volontari con il compito di assistere i gareggianti nelle varie fasi del percorso.

La dimensione sociale.

Per comprendere il successo di questo fenomeno, dobbiamo fare un passo indietro e tornare ai

concetti di società, lavoro e bisogni. Oggi viviamo in una società strutturata, individualista in cui

abbiamo bisogno di lavorare per soddisfare non piùi nostri bisogni primari ma per consumare le

marche.Il lavoro costituisce un luogo di sofferenza mentale che imprigiona l’individuo nella sua

interezza: lo aliena da se stesso e dagli altri. Si diventa quindi insensibili al piacere, alle emozioni e

ai rapporti sociali in generale.

ToughMudder, inteso come marca, risponde al bisogno di un’esperienza piena, totalizzante a

contatto con gli altri e con il proprio vero Io. A questo proposito, si possono individuare tre livelli

di socialità della marca. Il livello macro contiene la società post-moderna successiva al dopoguerra,

fatta di persone che lavorano senza avere la possibilità di realizzarsi come vorrebbero. Il livello

micro contiene il concetto di community discussa nel paragrafo precedente. ToughMudder ha una

comunità attorno a sé e prevede la formazione di una sotto-comunità rappresentata dalla squadra

partecipante al percorso. Il livello individuale, infine, contiene l’individuo a contatto con se stesso.

Ognuno in ToughMudder si autoafferma come eroe di se stesso perché supera davvero i propri

limiti.

La domanda.

Prendendo in considerazione il mercato, ToughMudder risponde ad una domanda, ovvero quella di

cercare un escapeda una realtà strutturata. Modello, questo, preso in considerazione

precedentemente dal sociologo Turner, il quale affermava che l’uomo da sempre ha cercato di

fuggire alla struttura con dei momenti epifanici come iSaturnalia o in seguito il Carnevale. In questo

momento, inoltre, esiste un fitstorico che permette il successo di questa marca. In particolare si

incastra perfettamente con il modello di vita dei paesi nordici di stampo anglosassone nei quali il

lavoro è al centro della propria esistenza e tende a far dimenticare la propria dimensione umana.

Un’altra componente curiosa che risponde alla domanda del mercato di oggi è quella del dolore.

Tecnicamente durante il percorso si passano una serie di prove che provocano sofferenza, eppure

questo non ferma le persone, ma li spinge a partecipare. Questo fenomeno si chiama Suspension Of

Reflexivity ovvero quando il dolore attira la nostra attenzione facendoci dimenticare il nostro stato

di persone, proprio come l’effetto di una droga sul nostro corpo. Probabilmente, è per questo

motivo che la gente tende a voler partecipare nuovamente.

Modello di consumer theory.

L’offerta di ToughMudder contiene al proprio interno l’idea di comunità che si esprime nella

partecipazione in squadra. La teoria di consumo dunque è quella di fare un’esperienza di gruppo, di

consumare insieme e di annullare persino il concetto di consumatore dal momento che non si è

consumatori di ToughMudder ma si è Mudder.

Sociologia di Consumo in ToughMudder.

Vivendo una serie di esperienze giornaliere, noiose, ripetitive e negative, siamo pronti ad

acquistare esperienze che di facciano sentire felici. Siamo pronti ad acquistare esperienze positive

per sentirci importanti per qualcosa o qualcuno. In ToughMudder, il superare gli ostacoli rende

l’individuo felice e positivo. Al contrario però, esiste una sottile linea che può trasformare

un’esperienza positiva in una negativa, nel nostro caso la si può trovare nel fallimento durante la

prova.

CASE STUDY. LOMOGRAPHY. IL RITUALE DELLA FOTOGRAFIA

Lomography è una marca di macchine fotografiche che non ha ceduto all’avvento del digitale

continuando a fabbricare apparecchi analogici. Le intenzioni dell’azienda sono state supportate

daMatthiasFiegl e Sally Bibawy che si sono riconosciuti nel 1992 nell’arte della fotografia.

Nell’eradellefotografie con gli smartphone e del multiscatto, Fieglafferma “In the end, you cannot

do the same things with mobile phones, because they havedifferent optics”. Si manifesta tra gli

appassionati il bisogno dell’analogico per ottenere la qualità. L’azienda ha aperto degli

embassystores, 35 in tutto il mondo, nei quali si può gustare il rituale attorno allo scatto di una

foto, comprare il rullino, le pellicole, la macchina fotografica. Dopo hanno anche iniziato a vendere

i loro prodotti negli store di retail Urban Outfitters che puntano ad un consumatore amante del

Vintage. Bibawy inoltre afferma che molti giovani che si accostano all’analogica lo fanno per

provare “the realthing”. L’offerta di Lomographyrisponde ad una domanda che ricerca l’autenticità

delle immagini. Nel 1992, è stata fondata la Lomographic Society International con tanto di statuto

contenente i 10 comandamenti per la community, tra cui il primo “Take yourLomo with you,

whereveryou go”. Inoltre un’altra tradizione iniziata all’inizio degli anni 90’ è stata quella di creare

una mostra fotografica collettiva ‘LomoWall’, il primo a Vienna nel 1992, che conteneva più di

mille fotografie.

Per decenni infatti le aziende hanno cercato di relazionare la marca ai consumatori fornendo

piattaforme o sistemi di fidelizzazione. Eppure, non sempre il consumatore cerca un rapporto con

la marca. Quello che ogni individuo cerca è il contatto con altri individui che condividono la stessa

passione. La marca quindi assume il compito di legare la gente che si riconosce in essa. La

comunità di marca, quindi, assume un tratto distintivo differenziandosi dal segmento di

consumatori: parliamo di persone diverse, accomunate da una stessa passione, che svolgono azioni

collettive. In questo contesto il compito di un marketer è quello di analizzare come i propri

consumatori manifestano autonomamente la loro passione per la marca, per creare una strategia

per venire loro incontro. La chiave sta forse, come nel caso di Ducati, nel creare piccoli eventi ai

quali la gente partecipa con la propria identità e la propria storia; oppure nell’includere il

consumatore nei progetti dell’azienda. In conclusione, si può affermare che nella società

contemporanea il Marketing o il Brand Management deve prestare occhi e orecchie ai consumatori

per riempire un divario tra azienda e individui.

BIBLIOGRAFIA

Appadurai A, The Social Life of Things, New School University, New York, 1988.

Cova B, Materiale didattico UPA, 2017.

Cova, B., Fuschillo, G. e Pace, S., Le Marche Siamo Noi. Navigare nella Cultura del Consumo,

Milano, Franco Angeli, 2017.

Featherstone M, Consumer Culture and Postmodernism, Sage, London, 1991.

MARKETING 2.0: IL RUOLO DEL PUNTO

VENDITA NELLA COSTRUZIONE DELLA

BRAND EQUITY

Scritto da Roberto Balestrero, tratto dalla lezione di Vanni Codeluppi

La brand equity si fonda sulla conoscenza di una marca da parte di un determinato mercato, è il

patrimonio d’immagine che la marca è riuscita a costruirsi nel corso degli anni. Anche oggi, in una

società governata dalla tecnologia, dai social media e da internet, il processo di costruzione della

brand equity non può prescindere da un fattore materiale e tangibile: il punto vendita.

Gli store sono l’evoluzione storica di botteghe, mercati, fiere, passages, grandi magazzini

ottocenteschi ed esposizioni universali. Nella Londra settecentesca, alimentata dalla repentina

crescita delle attività industriali, nasce la vetrina, primo embrione dello store odierno che oggi

viene utilizzato dai brand di tutto il mondo per comunicare i propri valori all’esterno,

coinvolgendo più sensi possibili. Il punto vendita, oggi, deve offrire un’esperienza multisensoriale in

grado di catturare il cliente, di coinvolgerlo e di trasmettere quello che il brand rappresenta.

Nel Settecento le città erano in rapida espansione, nascevano botteghe in ogni angolo. Lo spazio

interno era utilizzato come laboratorio e deposito mentre la contrattazione avveniva in strada.

L’aumentare delle botteghe poneva ai commercianti il problema di catturare l’attenzione anche dei

clienti non abituali. La vetrina introdusse il concetto di esposizione della merce verso l’esterno in

modo che i clienti potessero vedere bene i prodotti esposti. Un viaggiatore francese, in visita a

Londra nella prima metà del 1700, disse: “Quello che non abbiamo in Francia è il vetro, che è

molto bello e chiaro. Le botteghe ne sono attorniate e, di solito, si dispone la merce dietro i vetri

che la proteggono dalla polvere, offrendola agli occhi dei passanti e formando un bel vedere da

ogni lato”. La vetrina diventa il palcoscenico e, proprio come accade durante una rappresentazione

teatrale, si rappresenta uno spettacolo attraverso la messa in scena delle merci. La vetrina è

comunicazione, rappresenta un piccolo spazio che è in grado di lavorare su una dimensione molto

più ampia.

Questo modello comunicativo si è rafforzato nel tempo e si è progressivamente ampliato. In un

primo tempo si è esteso allo spazio interno della bottega, prima non frequentato dai consumatori,

e successivamente si è ingrandito esponenzialmente fino a modelli comunicativi più grandi come i

passages francesi, le gallerie, i centri commerciali, il web. L’evoluzione ha aggiunto sempre più

spettacolarità e ha portato ad avere luoghi commerciali sempre più intensi dal punto di vista

sensoriale. Cambiano le tecnologie, le illuminazioni, il design ma il modello è sempre quello della

primitiva vetrina settecentesca. Non solo i singoli spazi commerciali, grandi e non, funzionano

come enormi vetrine ma l’intero spazio della città diventa vetrina.

Analizzando storicamente i comportamenti dei brand si può notare che le stesse aziende si sono

progressivamente appropriate di uno spazio della città sia con varie forme pubblicitarie (cartelloni

ad esempio), sia costruendo i propri store instaurando uno stretto legame con la città e con la via.

Quindi si è venuta a creare una connessione tra luoghi e pubblicità.

Tutto questo ha causato un processo di progressiva “vetrinizzazione” della società che ha adottato

la stessa logica comunicativa della vetrina, producendo innovazioni in grado di suscitare l’effetto

sorpresa. Non solo le organizzazioni ma anche i singoli, oggi, devono adottare un modello di

spettacolarizzazione che deriva da quello espresso dalla vetrina. Comunicare in modo spettacolare

è un obbligo imprescindibile sia per le aziende sia per le persone.

I brand devono saper comunicare la propria identità di marca. Jean-Marie Floch, autore di “Identità

visive. Costruire l’identità a partire dai segni”, evidenziava che “l’identità di marca è insieme di

differenza e permanenza”. Differenza perché assicura il riconoscimento dell’azienda ed esprime la

sua specificità. Le marche riescono ad associare un colore al proprio nome (pensiamo al “rosso

Valentino” per esempio). Permanenza nel senso di capacità di mantenere durevoli nel tempo i

valori industriali, economici e sociali dell’azienda. I brand comunicano sempre gli stessi valori, gli

stessi elementi fondamentali e la loro stabilità nel tempo è estremamente importante affinché il

consumatore possa sempre riconoscere il brand. L’identità di marca è il punto fisso che va

comunicato utilizzando i mezzi più appropriati a seconda dell’epoca in cui ci si trova. Quello che

era spettacolare un tempo oggi difficilmente lo è, per questo motivo si adatta la comunicazione

dell’identità di marca e si traducono in chiave moderna gli elementi fondamentali, i valori che un

brand porta con sé.

Floch individuò, attraverso il suo modello greimasiano, quattro tipologie di comportamento del

consumatore:

Fig.1Le quattro tipologie di comportamento del consumatore secondo Floch, poste in un quadrato semiotico

L’individuazione di questi modelli comportamentali, per un semiotico come Floch, sottolinea

posizioni logiche da cui trarre modelli culturali che permettono di comunicare con linguaggi

differenti ai vari consumatori.

Fig2: I modelli culturali secondo Floch

Questi quattro modelli culturali sono stati applicati ad un supermercato francese e studiati.

Il consumatore “pratico” è colui che vuole trovare il prodotto velocemente, di qualità sufficiente e

sempre sullo stesso scaffale, il “critico” vuole solo qualità e prezzo, al consumatore “utopico”

piace trovarsi in qualcosa a misura d’uomo non in qualcosa di immenso e smisurato, nel mezzo del

suo ipermercato vorrebbe un luogo conviviale dove sedersi, discutere, mangiare; infine il “ludico”

è chi, all’inizio sbriga la parte utilitaristica, poi si concede un di più, gironzola nel supermercato.

L’idea era di comunicare alle varie tipologie di consumatore, rappresentando un’innovazione nel

modo in cui i negozi comunicavano. Invece di partire dai vari brand, per comunicare, si partiva dal

consumatore. Spesso però accade che i consumatori non siano pronti o preparati a ricevere la

comunicazione da parte di un brand; in questo caso la marca dovrà offrire loro elementi di crescita

per conoscerla al meglio. Successivamente vedremo come Starbucks sia un brand che istruisce i

propri clienti per far sì che riescano a vivere l’esperienza del punto vendita a 360 gradi.

L’ESPRESSIONE DELL’IDENTITÀ DI MARCA NEGLI STORE DI TUTTO IL MONDO

Louis Vuitton è un esempio di spettacolarizzazione applicata allo store retail46. A Parigi hanno un

famoso punto vendita lungo gli Champs-Elysées con un’attenzione maniacale ai segni del brand.

All’esterno il logo spicca sulla facciata del palazzo, all’interno i segni della marca sono espressi a

pavimento, a parete e ripetuti nell’arredamento. A Tokyo la spettacolarizzazione esterna viene

esaltata con lo store che si illumina in modo differente a seconda dell’orario.

Molti brand hanno collaborato e collaborano tuttora con grandi nomi dell’architettura moderna e

della progettazione per realizzare i propri store nel mondo affinché gli stessi possano diventare la

vetrina dell’azienda e possano essere ancor più espressione del legame con la città in cui vengono

aperti. Mikimoto, il “signore delle perle”, nel suo store a Tokyo ha collaborato con illustri architetti

46Retail: vendita al dettaglio

per un design degli esterni che riprendessero le perle; qui, dunque, l’architettura assume l’identità

della marca.

Altre aziende puntano sulla “personalizzazione” dell’esperienza nel punto vendita per trasmettere

la propria identità di marca. Creare spazi in cui i clienti possano esprimersi, dialogare, comunicare

e trasmettersi i valori del brand. Selfridges è un grande magazzino londinese dove è stato creato

uno spazio in cui le persone possono organizzare eventi. In Italia, Coop, a Firenze, ha puntato sul

dialogo del punto vendita con il consumatore attraverso scaffali divisi da ampi spazi che

permettono di muoversi più agevolmente, e grazie a settori con un commesso dedicato, si ricrea la

situazione del mercato. Inoltre unito al supermercato troviamo, per esempio, una libreria e

un’enoteca che dimostrano un notevole interesse nel voler coinvolgere il consumatore il più

possibile.

Esistono brand che sono riuscite a creare, nei propri store, un’esperienza coinvolgente di tutti i

sensi. Un esempio è la catena di caffè Starbucks. L’azienda nasce a Seattle nel 1971 ma soltanto

verso la fine degli anni ’80 inizia a commercializzare il caffè all’interno dei suoi punti vendita. Lo

storico amministratore delegato, Howard Schultz, a seguito di un viaggio in Italia, si innamorò della

cultura del caffè italiano e dei bar che popolano le città di tutta la penisola. Decise di portare

l’autenticità della caffetteria italiana in America, utilizzando le migliori qualità di caffè del mondo.

Starbucks oggi conta punti vendita in 67 paesi e 180.000 dipendenti. Tutti gli store sono diversi

l’uno dall’altro ma hanno in comune alcuni tratti d’identità. Entrando in uno Starbucks, tutti i sensi

vengono investiti, l’aroma e il profumo del caffè stimolano l’olfatto (per mantenerlo intatto

vendono cibi privi di odori forti e vietano ai dipendenti l’uso del profumo),i contenitori trasparenti

ed i quadri evocativi della filosofia della bevanda stimolano la vista, il suono emesso dalle macchine

del caffè o dallo sbattere del filtro l’udito, le confezioni lisce e soffici il tatto. Ogni particolare è

studiato per rendere l’esperienza totalizzante per il consumatore e per accoglierlo in un ambiente

in cui la polisensorialità del caffè viene ingigantita ed estesa allo spazio intero del punto vendita. La

dimensione conviviale della bevanda è stata standardizzata a tal punto da renderla inconfondibile in

ogni store del brand. L’azienda è riuscita ad unificare e a rendere comune, in ogni suo store, la

dimensione conviviale del caffè. Il consumatore meno esperto viene accompagnato nel viaggio di

apprendimento di tutte le sfaccettature della famosa bevanda per trasformarlo in intenditore.

In conclusione, analizzando gli store delle aziende di tutto il mondo, è intuibile che il punto vendita

conservi un’importanza fondamentale nell’espressione della brand equity e che rappresenti il luogo

in cui si esprime la forza della comunicazione che ha come obiettivo principale la customer

experience47, senza basarsi solo ed esclusivamente sul prodotto ma focalizzandosi sui valori che il

brand vuole far conoscere.

47Customer Experience: si intende il complesso di esperienze vissute da un consumatore come risultato della sua

interazione con un brand.

BIBLIOGRAFIA

David A. Aaker, “Managing brand equity. Capitalising on the value of a brand name”, Free pr , 1991

Jean M. Floch, “Semiotica, marketing e comunicazione. Dietro i segni e le strategie” , Franco Angeli

Editore, VI edizione, 2015

Jean M. Floch ,“Identità visive. Costruire l’identità a partire dai segni”, Franco Angeli Editore, III

edizione, 2016

Sandro Castaldo e Chiara Mauri, “Store management. Il punto vendita come luogo di customer

experience”, Franco Angeli Editore, IV edizione, 2017

BRAND E IDENTITÀ DI MARCA

Scritto da Chiara Carlini, tratto dalla lezione di Elisabetta Baldini

Negli ultimi due decenni, il mondo della comunicazione ha dovuto misurarsi con l’accelerazione

senza precedenti impressa dall’avvento del web 2.0 e dei social media: tutti i processi si sono

velocizzati, e, di conseguenza, anche le tempistiche di attuazione e consegna dei progetti,

costringendo gli addetti ai lavori ad operare quasi costantemente in condizioni di“urgenza”.

Se da un lato la rapidità di pensiero ed esecuzione è diventata un diktat a cui è impossibile

sottrarsi, dall’altro l’incertezza e la precarietà imperanti richiedono ai professionisti della

comunicazione una capacità di visione notevole, per scongiurare il rischio di scelte dettate dalla

fretta che nel medio/lungo termine potrebbero rivelarsi errate. Diventa dunque essenziale

possedere anche doti di empatia e di flessibilità, per superare condizionamenti e barriere, spesso

auto-imposti, che impediscono di “vedere oltre l’orizzonte”. In quest’ottica, anche il design deve

essere concepito come ricaduta di un disegno strategico a monte.

Per orientarsi in uno scenario così complesso, giova analizzare una case history di successo prima di

approfondire i concetti di identità e ruolo del brand.

IL PRIMO BRAND 2.0 DELLA STORIA

La protagonista della case history in oggetto è una realtà esistente da oltre 2000 anni, che si è

sviluppata attorno alla brand promise48di vita eterna: un valore immateriale, dunque, che nessuno ha

mai potuto verificare e a cui si crede senza avere alcuna prova oggettiva. Gli indizi sono

inequivocabili: si tratta della Chiesa Cattolica.

La Chiesa può essere definita il primo brand 2.0 della storia per diverse ragioni.

Innanzitutto, è stata la prima organizzazione multinazionale, in quanto fin dalle origini ha compreso

l’importanza di avere una rete estesa e capillare di strutture fisiche per presidiare efficacemente il

territorio, e attraverso di esse è riuscita ad avere una relazione diretta con tutti i fedeli.

48Per brand promise si intende i benefici e le esperienze che le campagne di marketing tentano di associare ad un

determinato prodotto, affinché nella mente del consumatore esso venga percepito come desiderabile e preferibile

rispetto ai prodotti concorrenti. Un esempio di brand promise nel settore alberghiero:

https://www2.deloitte.com/us/en/pages/consumer-business/articles/hotel-branding-promise.html

Inoltre, è stata in grado di creare e diffondere una simbologia potentissima, a partire da segni

semplici, immediatamente riconoscibili e facilmente riproducibili (si pensi ai significati attribuiti ad

animali quali il pesce, la colomba, l’agnello, il pavone, o ad oggetti come l’ancora).

Il più importante di tutti i segni, la croce, è stato oggetto della più portentosa delle trasformazioni:

da simbolo di morte infamante, a simbolo di redenzione e gloria eterna. Un unico segno

antropomorfo (evocativo di una persona con le braccia aperte) viene declinato in infinite modalità

espressive:

il layout delle sedi: la planimetria a croce latina delle chiese è la trasposizione

architettonica dell’elemento simbolico; grazie appunto alla forma, fin dal momento

dell’entrata si stabilisce una sorta di comunicazione subliminale tra il fedele e il

luogo di culto;

il segno della croce come segno di saluto, spesso rappresentato anche nei dipinti di

arte sacra.

Il brand behaviour indica la capacità di veicolare i contenuti e la filosofia del marchio attraverso dei

comportamenti specifici, come ad esempio l’adottare un determinato dress code. Nel caso della

Chiesa Cattolica, si pensi a come gli abiti dei frati francescani, delle suore o dei cardinali rendano

immediatamente riconoscibile il corrispondente grado di appartenenza alla categoria nel quadro

della gerarchia ecclesiastica. Il dress code è espressione diretta del modo di essere e di

comunicare.

C’è poi un rituale molto preciso che rafforza il senso di appartenenza di tutta la comunità: il Papa,

voce ufficiale dell’organizzazione, ogni domenica e ogni mercoledì invia il suo messaggio

direttamente attraverso la sua voce.

Relazione con il cliente e multisensorialità

Nel caso della Chiesa Cattolica, il fedele/cliente è al centro della relazione con il brand, che marca

con uno specifico evento ogni momento cruciale della sua vita: il battesimo, la comunione, la

cresima, il matrimonio, il funerale.

Il fedele/cliente partecipa fisicamente alle funzioni quotidiane e/o settimanali, dunque è parte

integrante delle attività che si svolgono in chiesa, ma può anche connettersi attraverso un remote

device: tale infatti può essere definito il rosario, perché funge da strumento per restare in contatto

con la comunità e coltivare la relazione con la propria fede in qualsiasi momento e da qualsiasi

parte del globo. Il rosario diventa esso stesso un segno del programma di loyalty e di engagement

del fedele/cliente, che può addirittura scegliere di averlo sempre con sé indossandolo.

La Chiesa Cattolica può infine essere considerata anche un esempio di brand multisensoriale, nel

senso che prevede rituali che coinvolgono tutti i cinque i sensi: il gusto, al momento della

comunione; l’udito, quando si ascoltano i canti liturgici; l’olfatto, quando si annusa l’incenso; il

tatto, al momento dello scambio del segno della pace.

Il concetto di identità

L’identità si compone di struttura fisica e comportamenti, ed è applicabile tanto alle persone

quanto alle organizzazioni.

Le due componenti dell’identità sono in dialogo costante tra loro, ed evolvono nel tempo. Tanto

le persone quanto le organizzazioni devono saper modificare e adattare la propria struttura fisica e

i propri comportamenti in modo da renderli “contemporanei”, pur mantenendo invariato il nucleo

fondante.

Prima di avviare il processo di cambiamento, tuttavia, è necessario avere ben chiare le risposte a

tre domande fondamentali:

Soltanto dopo aver analizzato la realtà e riflettuto sulla propria reputazione è infatti possibile

intepretare in modo corretto le proprie aspirazioni, ed intraprendere il percorso che consentirà di

concretizzarle.

Il cambiamento richiede tempi, investimenti e capacità di comunicazione.

Un esempio vincente di ri-posizionamento è quello attuato dalla società ENI, che da brand di oil

company si è successivamente “alleggerita” fino a diventare una energy company, pur rimanendo

sempre fedele alla propria storia e ai propri valori: l’innovazione, la ricerca, la solidità.

Fig I: Restyling del logo Eni del 2010

Rispetto alla prima versione del 1953, i restyling successivi del 1972, del 1998 e del 2010 hanno

reso il tradizionale simbolo del cane a quattro zampe sempre più friendly, grazie anche ad una

campagna di comunicazione49 che ha coinvolto illustratori, registi, musicisti, attori e performer.

Nel logo attuale, il font in minuscolo sta ad indicare proprio la volontà da parte dell’azienda di

essere percepita in modo meno formale e più “amichevole” dai propri clienti, fornitori, azionisti e

collaboratori.

L’IMPORTANZA DELLA DIMENSIONE VALORIALE

Tra i cambiamenti più rilevanti che hanno interessato i paradigmi e le strategie di marketing negli

ultimi anni va sicuramente citata la sempre maggiore enfasi posta sulla dimensione valoriale, ovvero

sul cliente e sulla sua sfera emotiva; una dimensione che è diventata preponderante rispetto a

quella meramente funzionale.

Il marketing cosiddetto “emozionale” mira proprio a colpire il cuore, l’emotività delle persone,

facendo loro vivere un’intensa esperienza sensoriale. Fondamentale a questo scopo è il linguaggio

usato per raccontare il brand: per riuscire a farsi notare, e ricordare, in un contesto di continuo

“bombardamento” pubblicitario come quello attuale, lo storytelling deve essere il più possibile

empatico, ma anche creativo e originale.

49https://www.eni.com/it_IT/azienda/profilo-compagnia/brand-identity.page

Non sono più le specifiche tecniche e razionali ad essere in primo piano, bensì gli elementi

emozionali, affettivi, di relazione. Si pensi al payoff50 “Connecting people” di Nokia.

La stessa dimensione valoriale associata all’identità del brand deve poi essere coerentemente

replicata negli spazi fisici (da cui la centralità del modo di pensare il retail), nei comportamenti e

nelle strategie di comunicazione:

Fig II: ì Brand Identity o Identità Aziendale è l'insieme degli aspetti e degli elementi che determinano la percezione e la

reputazione di un brand da parte del suo pubblico

3. IL RUOLO DEL BRAND

Una volta stabilito:

1. Chi siamo

2. Cosa facciamo

3. Come lo facciamo

4. Dove vogliamo andare

È possibile creare il brand character51. Il brand character è l’idea che guida lo sviluppo

dell’organizzazione, sia all’interno, sotto forma di filosofia aziendale che unisce e motiva il team, sia

all’esterno, ad esempio attraverso un payoff specifico che accompagna il logo.

50Payoff: messaggio verbale che sintetizza il posizionamento dell’azienda o del prodotto a cui si riferisce, vale a dire lo spazio occupato dal prodotto o dall'azienda nella mente del target.

Nel caso di Apple, il brand character è riconducibile al concetto di libertà; nel caso di Nike, è

centrale l’idea del fitness; nel caso di Phillips, il vastissimo range di prodotti (dagli elettrodomestici

agli strumenti utilizzati in ambito ospedaliero) è attraversato da un unico fil rouge, quello della

semplicità d’uso; nel caso della BMW, il brand character è associato all’eccellenza ingegneristica,

tanto che il logo richiama l’elica degli aerei; nel caso della CGIL, un marchio rimasto fedele a sé

stesso fin dal 1984, la solidità e la forza sono rappresentate graficamente dalla figura geometrica

del quadrato rosso.

BIBLIOGRAFIA

Balmer J.M.T., Powell S.M., Kernstock J., Brexendorf T. (Eds.), Advances in Corporate

Branding,Palgrave Macmillan, New York, 2017.

Budelmann K., Brand identity: 100 principi per il logo design e la costruzione del brand, Logos,

Modena, 2013.

Kostelijk E., Influence of Values on Consumer Behaviour -The Value Compass,Routledge, London,

2016.

Sicard M.-C., Brand Revolution: Rethinking Brand Identity, Palgrave Macmillan, New York, 2013.

Wheeler A., Designing Brand Identity: An Essential Guide for the Whole Branding Team, 4th

Edition, John Wiley&Sons, Hoboken (NJ), 2013.

51https://www.forbes.com/sites/85broads/2013/04/08/why-character-is-a-branding-essential/#785e14a47a7a

ITALIAN BRAND IN CHINESE. BENESSERE

RELAZIONALE VERSO IL TURISMO

ORIENTALE

Scritto da M.Gabriella Metelka, tratto dalla lezione di Paolo e Zeno Casti

Il termine “lusso”52 evoca significati di sontuosità e viziosità (secondo la derivazione latina del

termine), ma anche di deviazione dalla norma, in quanto rappresenta (secondo la derivazione

greca) un cambiamento dello stile di vita di un individuo. Il concetto di lusso dipende da variabili

come il tempo e lo spazio, ma anche dalla struttura economica del paese: esistono infatti, rispetto al lusso, mercati maturi (Europa, Stati Uniti, Giappone) ed emergenti53 (Cina e Russia), con diverse

percezioni del valore di un medesimo bene o servizio nei diversi contesti.

Secondo Deloitte54risulta essere italiano quasi 1/3 del lusso mondiale e l’Italia, con 29 aziende nella

Top 100, è il primo Paese per numero di aziende nel settore: siamo ormai nella seconda metà di

quello che viene definito il “decennio dei cambiamenti” (2010-2020) in cui i primi 5 anni sono stati

caratterizzati dall'esplosione della tecnologia digitale e dai consumi cinesi.

La Cina infatti, secondo ContactLab55, rappresenta circa il 16% del giro d’affari del lusso mondiale

(+10% nel 2016 vs 2015), valore destinato a crescere: i consumatori cinesi sono uno dei più

importanti clienti dell’industria del lusso globale e continueranno ad esserlo anche nel 2017, visto

anche l’aumento della classe medio-alto in tutto il Paese.

Secondo Boston Consulting56, negli 11 Paesi analizzati emerge che:

• I Millennials57 sono il presente e saranno il futuro del mercato del lusso: consumatori globali,

altamente digitalizzati, ottimisti, propensi alla raccomandazione e allo scambio di prodotti, sensibili

alla sostenibilità e poco inclini a semplici operazioni di facciata dei brand.

52Lusso: dal latino “luxus=Sovrabbondanza, eccesso nel modo di vivere” probabilmente affine all’aggettivo “luxus=slogato, storto”, è l'abitudine a consumi di elevata gamma qualitativa e costo. È uno stile di vita e di

comportamento che privilegia l'acquisto e/o il consumo di prodotti e oggetti, spesso superflui, destinati ad esempio ad ornare il proprio corpo o la propria abitazione 53Mercati Emergenti: economie non ancora pienamente sviluppate in possesso però di un grande potenziale di crescita

a fronte di investimenti il cui rischio è comunque, dati alla mano, molto elevato. In altre parole si tratta di Paesi ricchi e autonomi dal punto di vista economico ma in ritardo dal punto vista della struttura economica stessa rispetto a Paesi già sviluppati. 54 ”Gobal Powers of Luxury Goods” di Deloitte, Maggio 2016 prende in esame le 100 maggiori aziende di beni di lusso in termini di fatturato, illustra i principali trend che guidano il settore, fornisce una panoramica dell’andamento dell’economia globale, presenta le prospettive per l'economia globale ed i principali trend del mercato del lusso. 55Il report Chinese Luxury Demand Momentum: A few original data points realizzato da Contactlab in collaborazione

con Exane BNP Paribas, fornisce dati di scenario sul mercato cinese, approfondendo l’analisi del ruolo del digitale nel settore del lusso in Cina e dando una previsione sulla crescita di questo mercato per il 2017. 56True Luxury Global Consumer Insight-3°edizione2016 condotto da Boston Consulting Group per Fondazione

Altagamma,è una ricerca che analizza un campione di più di 10.000 consumatori con spesa media annuale superiore a 21.000 euro, di cui il 30% spende più di 40.000 euro annui. La ricerca ha una vasta copertura geografica e un focus su 11 paesi chiave per il settore (Italia, Francia, UK, Germania, US, Giappone, Brasile, Cina, Sud Corea, Russia, Emirati

Arabi). Include tutte le categorie del lusso: personale (abbigliamento, accessori, gioielleria e orologi, fragranze e cosmetica), esperienziale, auto e barche di lusso.

• Milano è terza nella classifica delle città preferite dai consumatori di lusso. Dopo essere stata

quinta nel 2014, quarta nel 2015, nel 2016 risulta terza nel 2016 dietro a Parigi e New York e

prima di Londra.

IL CONSUMO CINESE DEL LUSSO E MILANO

Secondo lo studio BAIN&CO per MEI.COM intitolato “Cina e consumatori cinesi nel mercato

globale del lusso”58, nel 2016 il mercato globale dei beni personali di lusso vale 249 mld di euro e la

Cina ne rappresenta il 7%, mentre i consumatori cinesi rappresentano ben il 30% del totale.Inoltre

più del 70% delle spese cinesi in lusso è effettuata all'estero.

Milano è al quinto posto delle preferenze dei cinesi che fanno acquisti di lusso all'estero, con una

spesa in lusso personale pari a circa 100 miliardi di euro nel 2015 (+43% rispetto al 2012).

I consumatori orientali preferiscono l’Europa agli Stati Uniti per una serie di fattori:

● l'elevata possibilità di scelta (per il 39% del campione rispetto al 33% degli Usa),

● la possibilità di fare acquisti nel Paese di origine di un brand (31% rispetto al 22% degli Usa),

● la migliore customer experience (30% rispetto al 20% degli Usa).

Il capoluogo lombardo viene inoltre indicato come destinazione “cool e trendy” dal 60% dei cinesi

e dal 52% di russi, brasiliani e coreani (percentuale nettamente più alta del 45% di chi proviene da

mercati maturi e del 49% del totale campione).

Il tema dell’accoglienza dei consumatori del lusso orientali va quindi affrontato e risolto in maniera

efficace, al fine di creare il benessere relazionale che fa sì che gli stranieri in Italia abbiano una esperienza positiva e la vogliano ripetere. Uno degli aspetti più critici da considerare è sicuramente

quello linguistico.

LA LINGUA CINESE ED I BRAND OCCIDENTALI

L'ideogramma59 oltre ad essere "parola" è rappresentazione grafica di un'idea e si presta quindi,

molto più dell'alfabeto, ad una comunicazione parallela: può veicolare un messaggio esplicito

(quello contenuto nella parola) ma anche uno occulto (suggerito dalle associazioni di significato a

cui può ricondurre la forma grafica dell'ideogramma). Anche nel caso di un nome inventato o non

esistente nel vocabolario cinese (come appunto quello di un marchio occidentale) è possibile

comunque associare ad esso un certo contenuto semplicemente combinando i significati delle

singole unità componenti. Oltre però al nome scritto bisogna tener conto anche della sua forma

sonora (fonetica), accertandosi che tutti i significati associabili alla parola in questione non siano

nocivi al nome stesso.

Queste particolarità della lingua cinese sono da considerarsi opportunità nella traduzione di un

marchio occidentale, ma vanno usate con consapevolezza e maestria: sia a livello grafico che

fonetico, infatti, è possibile giocare molto sulle implicazioni semantiche di un termine pilotando le

associazioni mentali e rendendole funzionali al messaggio che si vuole comunicare, ma bisogna

anche che siano adeguate ai valori di una società ancora fortemente condizionata da antichi retaggi

culturali. Per questo motivo la scelta di un nome in cinese per presentarsi e, soprattutto, per

essere conosciuti ed accettati in una realtà linguistica, culturale ed economica così diversa dalla

nostra, difficilmente può nascere da un mero lavoro di traduzione.

Il metodo più diffuso nella scelta del nome di un marchio per il mercato cinese prevede la ricerca

58 Fonte: http://www.ecommercemonitor.it/2017/09/cina-consumatori-cinesi-lusso-bainco-mei-com/ 59Ideogramma: simbolo grafico che esprime, non il suono delle parole, ma l'idea che esse rappresentano

di un compromesso tra sonorità e significato, ricercando ideogrammi che permettano di

mantenere una certa affinità con il suono del nome originale, ma che abbiano anche un significato

funzionale alla trasmissione di un messaggio sintonico con l’identità del brand: il nome del brand

deve rimanere riconoscibile come straniero, ma non estraneo perché, nonostante l’artificiosità,

rifletterà nella sua forma e nei suoi contenuti la mentalità cinese.

Nella traduzione di brand occidentali in cinese esistono 3 possibilità:

● Tradurre in base al suono del brand: per esempio

Parmalat=Pamalate (i tre ideogrammi utilizzati per questa traduzione significano per un

cinese: fazzoletto-cavallo-tirare-particolare) oppure Motorola=Motuolaola (strofinare-

sostegno-lavoro-tirare). Una scelta di questo tipo permette di mantenere quasi invariata

l'identità fonetica del nome, ma comporta una rinuncia totale al contenuto.

● Tradurre in base al significato del brand originale: per esempio

Volkswagen=Dazhongqiche ed Apple Computer=Pinguo Diannao sono traduzioni che

prediligono il significato e non l'aspetto fonetico. Una scelta di questo tipo è perfetta nel

caso di Volkswagen (macchina del popolo), in quanto ogni riferimento al popolo è ancora

oggi molto apprezzato in Cina, ma non è sempre consigliabile. Il nome Sprite per esempio,

che significa "folletto, elfo", non avrebbe avuto una connotazione molto positiva per un

cinese, perciò alla traduzione letterale si è preferito Xuebi (neve-smeraldo) che, pur

discostandosi semanticamente e foneticamente dal nome originale, rimanda al colore

verde della bottiglia ed alla freschezza della bevanda (coerentemente con il messaggio

pubblicitario degli spot pubblicitari occidentali).

● Tradurre cercando un compromesso tra il suono ed il significato del nome originale:

sono queste le traduzioni più efficaci perché riescono a dare al brand tradotto una

personalità ben definita anche per il consumatore cinese. Nella scelta degli ideogrammi che

rappresenteranno il brand in cinese, infatti, si tiene in considerazione non solo l'affinità

fonetica con il nome originale, ma anche la combinazione di ideogrammi il cui significato sia

associabile al prodotto o tali da trasmettere un messaggio su di esso. Per esempio la Nike

traduce il suo nome Naike (sopportare, superare) che richiama l'idea di poter sopportare

ogni fatica e superare ogni prova in una competizione sportiva. Anche il brand Lego in

cinese è stato tradotto Legao, ovvero "divertimento superiore", mantenendo così il

riferimento all'idea del gioco che ha un'importanza decisamente non trascurabile in

relazione al tipo di prodotto.

Per comprendere l'importanza della scelta degli ideogrammi che compongono un brand citiamo

l’esempio illustre di Coca-Cola, la cui traduzione in cinese, Kekou Kele, ha raggiunto un livello di

integrazione nella lingua tale che non è più necessario specificare il tipo di prodotto: il

termine Kele infatti si è diffuso non solo nelle traduzioni di nomi di bevande d'importazione (ad

esempio la Pepsi-Cola in cinese si chiama Baishi Kele), ma anche nei nomi di bevande di produzione

cinese diverse dalla Coca-Cola (molto diffusa nell'ultimo periodo la Feichang Kele, pubblicizzata

come "la Coca-Cola cinese"). Tuttavia, la Coca-Cola non ha sempre avuto questo nome in Cina: la

prima traduzione Kekou Kela (delizioso-potere affumicato) era foneticamente corretta ma nella sua

seconda parte dava una combinazione di caratteri non solo priva di senso, ma penalizzata dall'uso

di un ideogramma il cui significato "affumicato", associato al nome di una bevanda, non era adatto.

Quando Kela venne sostituito con l'attuale Kele (potere-divertire/divertente) non solo si trovò un

nome che permetteva al prodotto di restare riconoscibile, ma si era addirittura riusciti ad

associare al nome un messaggio, quello di una bevanda "deliziosa" che si consuma in momenti di

"divertimento"(messaggio spesso associato alle campagne pubblicitarie della Coca-Cola nei paesi

occidentali).

Fig1: il successo della occidentale bibita Coca-Cola in Cina è merito anche della traduzione del suo nome fatta

cercando un compromesso tra suono e significato

Recente invece il caso di Airbnb che, per puntare al mercato cinese, ha deciso di chiamarsi aibiying,

più pronunciabile per i viaggiatori cinesi con l’unione di 3 caratteri che significano “amore”,

“insieme” e “benvenuto” e che nelle intenzioni del brand vorrebbe dire letteralmente “benvenuti

l’un l’altro con amore” ma messi insieme suonerebbero come “osceno hotel dell’amore”, come

hanno sottolineato alcuni utenti di Weibo60.

È quindi chiaro come l’operazione di traduzione in cinese di brand occidentali sia complessa e

necessita del supporto di esperti non solo per una consulenza legale per la registrazione dei

marchi stranieri, ma soprattutto per una sempre più attenta ricerca di criteri che favoriscano la

"cinesizzazione" dei marchi e, di conseguenza, il loro inserimento nel mercato cinese, andando ben

oltre il semplice adattamento linguistico

60 Weibo è il Social Network più utilizzato in Cina

BIBLIO/SITOGRAFIA

Mattia G. “Il Neo-lusso: Marketing e consumi di qualità in tempi di crisi”, 2013, Franco Angeli

Tye S. “Luxury Market in China”, 2011, IPSOS

Mosca F. “Marketing dei beni di lusso”, 2010, Pearson Italia, Milano

Atwal G., Williams A., “Luxury Brand Marketing – The Experience Is Everything”, 2009, Journal of

Brand Management, Vol. 16, N.ro 5/6, 338-346.

corsodicineseblog.wordpress.com/2014/09/03/traduzione-in-cinese-di-marchi-occidentali/

deloitte.com/content/dam/Deloitte/it/Documents/consumer-business/160525_GPLP_Final.pdf

tuttocina.it

http://www.ecommercemonitor.it/2017/09/cina-consumatori-cinesi-lusso-bainco-mei-com/

PERSONAL BRANDING

Scritto da Dianora Zacchè, Tratto dalla lezione del prof. Leonardo Bellini

INTERROGARE LA RETE

La rete è un valido punto di partenza per poter fare una prima analisi di quelli che sono i risultati

riportati dalla ricerca del proprio nome online. Per capire qual è la propria identità “digitale”

conviene effettuare una ricerca su Google, per vedere quanto questa rispecchi la realtà. Per avere

traccia delle skill professionali, invece, si preferirà una piattaforma come LinkedIn, capace di offrire

una panoramica circa chi sono gli utenti che visualizzano il proprio profilo e chi ne sta facendo

un’analisi. Così si può capire anche se questi utenti rispondono come caratteristiche al nostro

interlocutore ideale.

Una piattaforma utile per valutare la propria influenza, invece, è Klout, piattaforma che calcola un

punteggio legato alle attività sui social, indicando anche quali sono i topic più trattati dall’utente.

Sempre LinkedIn è utile per avere un’idea più precisa relativamente il valore del proprio

professional brand. Basterà digitare l’url:

https://business.linkedin.com/sales-solutions/social-selling/the-social-selling-index-ssi#,

per vedere uno score che fotografa una dimensione qualitativa dell’impronta che abbiamo lasciato

sui social o sui canali digitali.

PERSONAL REPUTATION PLANNING

Possiamo dividere il Personal Reputation Planning in tre fasi:

- Analizzare il profilo

- Costruire il profilo

- Ottimizzare il profilo

La prima fase invita a fare una ricerca sulla rete di sé stessi, attraverso le piattaforme suggerite

precedentemente, ovvero i più grandi contenitori di informazioni di cui possiamo disporre online a

questo primo livello.

In seguito, tenendo conto dei risultati ottenuti è consigliabile costruire una propria identità online,

che aderisca il più possibile all’idea che si vuole dare di sé stessi, del proprio lavoro, delle proprie

competenze e dei propri obiettivi. Infine, per poter dare sostanza alla nostra presenza online, sarà

necessario avere un piano editoriale, dei contenuti precisi e efficaci, che siano distintivi e catturino

l’interesse degli utenti che siamo interessati ad intercettare. Per fare questo è possibile trovare

tips prendendo spunto da esempi di best practice già presenti in rete.

PERSONAL BRAND AUDIT

Come già anticipato, è essenziale creare un proprio audit, per avere percezione di quella che è la

propria presenza sui social media. Per raggiungere questa informazione ecco tre tools noti e

gratuiti per un assessment iniziale:

- Google

- Brand yourself (versione freemeum)

- My reputation

Il primo tool di ricerca servirà per fare un’auto analisi, per capire come si appare su Google, quali

informazioni personali vengono mostrate, se ci sono contenuti che preferiremmo non venissero

associati alla nostra immagine, se appaiono contenuti che potrebbero in qualche modo nuocere

alla propria reputazione personale, se vi siano contenuti non corretti o che potrebbero essere

lesivi e di cui sarebbe bene chiedere la rimozione a Google.

Per prima cosa è importante definire in che misura desideriamo che i nostri contenuti siano

pubblici a tutti e quanto invece preferiamo definire un perimetro alla visibilità o su passioni private

che non vogliamo divulgare o che in qualche modo potrebbero ledere l’immagine che stiamo

costruendo.

Lo strumento brandyourself.com offre un servizio custom, quindi chiede di inserire nome e

indirizzo, come primi dati.

Una volta effettuata la ricerca, dobbiamo analizzare i risultati: sapremo quali sono i profili social

tracciati, quanti sono i link positivi verso i propri profili, e che informazioni vengono mostrate.

FigI. Per ottimizzare la propria presenza online è necessario analizzarla tenendo conto della propria identità, della

propria presenza professionale e della propria incidenza.

Per quanto concerne il tool my reputation, gli obiettivi sono sempre quelli di analizzare,

costruire e ottimizzare la propria presenza online, in particolare sono evidenziate le azioni

consigliate che permettono di incrementare la visibilità rispetto ad alcuni selezionati social su cui si

è presenti. Si parte dall’analisi dei profili social più tracciati. Successivamente si considera quali

sono gli influencer simili, ovvero quelle persone che stanno cercando profili simili al proprio.

Per migliorare la propria immagine, invece, viene richiesta una registrazione tramite profilo

Facebook, da cui viene dedotto il livello di gradevolezza, coinvolgimento e partecipazione, e in

questo modo, possiamo capire se si sta generando interesse, il livello di attività e quanto si sta

investendo sui canali social. Sono mostrate le persone con cui si interagisce di più, che hanno

un’influenza (personal influencer) e che dunque possono contribuire alla costruzione della propria

immagine.

Dopo aver fatto una foto del proprio posizionamento, è possibile capire quali sono le parole

chiave che emergono da una ricerca relativa al proprio nome.

Al termine delle ricerche si proverà a stilare un check up dei risultati, ovvero: come si valuta il

nostro score complessivo, quali sono i canali o i profili sui quali c’è margine di miglioramento, e

come viene valutato il network degli influencer – o meglio tutte quelle persone con cui si hanno

più interazioni.

STRATEGIA DI PERSONAL BRANDING

Una volta conclusa la fase di analisi circa i propri profili e la propria presenza online, ci si può

dedicare alla costruzione vera e propria di una strategia per migliorare e ottimizzare il personal

branding.

Questa strategia punta innanzitutto a creare una storia personale, attraverso cui raccontarsi agli

altri ed evidenziare quali sono passioni, obiettivi e identità.

Possiamo riassumere il percorso in sei passaggi:

1. Scopri le tue passioni: la passione è fondamentale per raggiungere i propri obiettivi, porta a

conoscere persone che condividono gli stessi interessi e che possono essere per utili alla propria crescita.

2. Sii audace e racconta i tuoi obiettivi: è sempre consigliabile condividere i propri obiettivi e

raccontarli, insieme ai risultati ottenuti e ai traguardi prefissati per il futuro. Promuovere sé

stessi, senza vantarsene, ma condividendo ciò che pensiamo sia stato un buon risultato, è

positivo.

3. Mostra la tua personalità: trovare la propria identità comunicativa e capire che cosa rende

unici, diversi e interessanti. Si deve acquisire la capacità di generare interesse, proponendo

argomenti che migliorino la vita o che permettano agli altri di raggiungere i loro obiettivi.

La sfida vera è riuscire a creare contenuti che siano utili!

4. Racconta la tua storia: La cosa migliore per costruire il proprio personal brand è parlare di

altre persone, di eventi rilevanti, idee, non raccontare di sé.

Per presentarsi è consigliabile sfruttare metodi meno noti e un po’ freschi, come per

esempio le infografiche. A questo scopo esistono visual template che possono aiutare a

rendere il proprio CV più accattivante (per esempio: Vizualize.me, Ineedresu.me,

Resumeup, Resume by CANVA, VisualCV). Su LinkedIn si può esprimere la propria

personalità, usando la foto profilo e la foto copertina, si possono riassumere le proprie

mansioni, le realtà per le quali abbiamo si è avuta occasione di collaborare, il metodo di

lavoro, i risultati ottenuti, riportare un progetto di successo, una curiosità.

La tecnica più efficace è quella di creare un misto tra storytelling e un’analisi del proprio

percorso. Più semplicemente: partire da sé per parlare del posizionamento della realtà per

la quale si lavora dando così concretezza al proprio brand personale. Esistono diversi molti

modi per raccontare la propria storia, senza necessariamente riportarla in prima persona,

ovvero attraverso condivisioni di determinati link, attraverso raccomandazioni tramite

social come LinkedIn.

5. Crea relazioni:le relazioni portano a opportunità di business, per questo è opportuno

coltivarle, incontrando le persone off line, senza partire prevenuti, poiché non si sa mai a

priori a che cosa possano portare le relazioni sui social media.

6. Take action: ogni piccolo passo è un passo avanti, tutto inizia cominciando a scrivere,

condividere, creare relazioni. Pensare di poter ottenere notorietà con un solo video o con

pochi post è utopia.

Fig2. I Social Network non sono tutti uguali, è necessario utilizzare un linguaggio diverso su ognuno di essi.

COSTRUIRE LA PROPRIA STORIA

Uno dei punti fondamentali è sapere raccontare la propria storia, dal momento che ognuno di noi

ha uno storico che può essere interessante sia a livello personale sia a livello professionale per

coloro che entrano in contatto con noi. Le caratteristiche che contraddistinguono la propria

identità, e che devono emergere dal racconto che si fa di sé stessi, aiutano ad emergere dalla folla.

Il consiglio, dunque, è quello di provare a scrivere la propria biografia nei tre formati più comuni

sul web:

Twitter bio: 160 caratteri

Paragrafo: 100 parole

½ pagina: 250 parole

I punti chiave di ogni biografia possono essere riassunti nei seguenti:

1. Introdurre sé stessi: scrivendo che cosa diresti ad uno sconosciuto che incontri per la prima

volta. Su questo punto viene costruita la versione più breve della propria biografia.

2. Scrivere di che cosa ci si occupa: è essenziale per fare capire al prossimo di che cosa si può

discutere, su quali obiettivi ci si può confrontare.

3. Quali risultati sono stati ottenuti: ovvero se si è realizzato un progetto, piuttosto che il lancio di un prodotto. È bene non citare tutti i traguardi raggiunti ma solo i tre più significativi.

4. Scrivi in prima persona la tua storia.

5. Chiedi opinione ad amici e conoscenti: cerca il confronto per capire nello specifico dove puoi

migliorare il racconto, che cosa togliere, che cosa far risaltare.

6. Non dimenticare di aggiornare la bio con nuovi progetti, nuovi posti di lavoro, nuovi obiettivi

e traguardi.

7. Non usare frasi scontate, non offrire cose varie e generiche.

La biografia andrà successivamente articolata sui vari social media: a partire da post sul blog

personale, alle foto su Facebook e Google+, fino ai 160 caratteri di Twitter. Tutti i contenuti

andranno pianificati e distribuiti all’interno del panorama digitale illustrato, naturalmente tutti i

contenuti in questione andranno a costruire il brand personale, così da rendere la propria

presenza online davvero efficace.

Da una ricerca emerge che il 70% delle aziende ha deciso di assumere attraverso informazioni

trovate su internet, per questo è sempre più importante presentarsi in maniera adeguata

attraverso il proprio profilo online.

Su LinkedIn, il primo sito di ricerca profili, è necessario porsi seguendo alcune basilari regole, che

aiutano ad ottimizzare le probabilità di essere presi in considerazione da coloro che ricercano un

determinato profilo per un inserimento.

Partiamo dalla foto, grazie al tool Photofeeler è possibile capire se la foto che ho scelto per il cv è

giusta per l’ambiente in cui sto cercando lavoro. Si ha anche la possibilità di creare una campagna

per avere feedback circa la giusta pertinenza dell’immagine.

È fondamentale personalizzare la propria qualifica, che non è il job title, ma una frase che riassuma

la propria occupazione. Importante è mostrare la specializzazione, scrivere una value proposition e

usare parole chiave. Il riepilogo può essere di grande aiuto, descrivendo la propria fonte di

motivazione, le competenze personali, parlando di che cosa ci si può aspettare dal futuro: passioni,

aspirazioni, progetti.

Parlare delle esperienze fatte, anche se part-time, stage o collaborazioni occasionali. Senza mai

escludere i risultati, e se possibile aggiungere foto o video inerenti a ciò che si è scritto. Altri punti

a cui i recruiter attribuiscono importanza sono: le esperienze non professionali ma, per esempio,

di volontariato, se si fa parte di qualche organizzazione, se si hanno certificazioni o onorificenze di

qualche tipo. Su LinkedIn è essenziale creare un netwotk forte, di valore, che possa massimizzare

la nostra value, bene avere almeno 50 collegamenti. Saranno proprio i tuoi collegamenti a poter

confermare quelle competenze e skills che inserirai nel profilo.

Coloro che fanno parte della nostra rete, come manager, professori, compagni di classe con cui

abbiamo lavorato o collaborato a lavori di gruppo, potrebbero rendersi disponibili per scrivere una

segnalazione, che aggiunge credibilità ed è una riprova sociale al profilo.

SVILUPPARE LA STORIA

Per poter sviluppare e scrivere al meglio la propria biografia, ecco una scaletta che può essere

seguita come traccia per poter raggiungere un buon risultato:

L’inizio: Prendi tempo per definire te stesso. Prova a rispondere alle domande: da dove sei

partito? Come ci sei arrivato? Dove stai andando?

Come posso aiutarti: Può aiutare descrivere una situazione in cui si è riusciti a risolvere un

problema, si è stati di aiuto nel risolverla. Le persone desiderano leggere questo genere di

contenuto.

Il contesto emozionale: È sempre meglio scrivere storie che facciano leva sulle emozioni

delle persone, senza limitare il racconto a fatti e numeri. Gli aneddoti possono essere utili a

questo scopo, così da poter dare un’idea di come si è orientata la propria carriera a

seconda di una difficoltà o opportunità.

Mantieni la coerenza: Tenta sempre di mantenere coerenza tra la storia che scrivi e i

contenuti che scegli di inserire. Lo si può fare anche seguendo un determinato stile, dando

la forma di parabola al racconto.

Non lasciare spazio alle domande: Evitare le allusioni ti aiuterà a focalizzarti di più sul

contenuto pertinente alla storia, e non costringerà i lettori a dover intuire qualcosa di poco

chiaro. Essere chiari, trasparenti e definiti, rende lo scritto di impatto più forte e diretto.

Ricordati di te: o meglio, non farsi prendere troppo dalla storia. È bene tenere sempre a

mente il motivo principale per cui si è deciso di raccontarsi.

Mantieni l’attenzione focalizzandoti sugli altri: mai dimenticare di alimentare l’interesse e

l’attenzione generata negli altri. Ricordarsi di parlare delle altre persone, enfatizzare i loro

risultati, le loro storie. Contribuendo alla visibilità altrui e partecipando alle conversazioni

che li riguardano, si otterrà più attenzione.

Rendi la storia correlabile: Per fare in modo che la propria storia sia collegabile a quella di

altri il consiglio è di parlare, citare, fare riferimento a storie di persone a noi affini e che

possono far parte del proprio network.

Coltiva il loro interesse. A questo punto della descrizione, quasi tutti i lettori sapranno chi

siamo e di che cosa ci occupiamo. Quindi, occorre assicurarsi che capiscano qual è il

nostro grado di esperienza, quanto si è capaci nel proprio ambito lavorativo. Condividere

esempi di successo aiuto a raggiungere lo scopo, poiché si è riconosciuti nella misura in cui

sono gli altri a riconoscerlo.

Rivedi il tuo lavoro: Valuta se è stato scritto tutto in maniera chiara e scorrevole, e se così

non fosse rieditalo in base a come desideri venga letta la storia.

Ovviamente è sconsigliato scrivere e postare determinate cose, tra queste, naturalmente, foto

inopportune e compromettenti. La propria storia non deve sortire l’effetto di un annuncio di

vendita, dunque occorre porre sempre grande attenzione ai contenuti, così che non si possa

cadere in questo errore. Per evitarlo quindi, può aiutate il fatto di non parlare per primi. Ovvero

ascoltare gli altri, per aiutarli, così che vorranno fare lo stesso per noi. Il proprio programma andrà

pianificato con disciplina, se in fase di presentazione sono state fatte delle promesse ai nostri

interlocutori, queste vanno mantenute e confermate. Tutto ciò affermerà la propria leadership di

pensiero. L’altra trappola presente per chi crea un’identità online sta nel rendere chiara e netta la

divisione tra sfera personale e privata, che sono due facce della stessa medaglia, in questo caso.

Occorre stabilire a priori qual è il confine tra le due sfere, possibilmente creando elenchi di

argomenti e temi che vengono ritenuti del tutto privati e altri, invece, di interesse pubblico e

dunque condivisibili con clienti e prospect della propria azienda. La massima attenzione va dedicata

alla tipologia di argomenti trattati, individuare tra questi quali sono confidenziali, e dunque di cui è

meglio non anticipare nulla al pubblico che ci segue e quali, invece, sono pubblicabili sui social.

QUAL È LA TUA STORIA?

Tutto ciò che è stato descritto fino ad ora crea le basi per dare vita a quello che definiamo

personal branding. Nel raccontare la propria storia abbiamo capito quanto sia importante e

fondamentale avere sempre argomenti e contenuti di valore. Il modo in cui raccontarsi molto

spesso è proprio la chiave di volta che permette di essere più apprezzati di altri in rete. Trovare la

propria voce non è cosa facile, occorre capire a chi ci vogliamo rivolgere, quali argomenti sono di

nostra competenza e dunque su quali vogliamo puntare. Sempre più spesso a ripagare nel mondo

online sono trasparenza, autenticità e imagine. Tre pilastri da non perdere mai di vista, sia in fase di

costrizione della propria identità digitale, sia in fase di miglioramento e aggiornamento della stessa.

Il panorama dei social media offre molteplici scelte, tanti canali da analizzare e su cui organizzare e

tradurre in maniera diversificata i nostri contenuti. Questa multicanalità richiede uno sforzo di

coerenza, così da risultare allineati, dal post su Facebook, al video su Youtube, al link condiviso su

LinkedIn, agli articoli redatti sul proprio blog. Tutto questo porta alla costruzione del proprio

brand personale e dunque al self marketing. Solo grazie a un’organizzazione editoriale, selettiva e

che tenga conto anche di fattori come l’orario di pubblicazione, le attività ideate per coinvolgere il

nostro pubblico, la produzione di materiale che sia di interesse, porta alla piena riuscita

dell’intento. Molto utile è creare delle partnership, collaborazioni che creino una sinergia con altri

brand o professionisti del nostro stesso settore.

Per riepilogare, giunti a questo punto, possiamo sintetizzare il processo finora descritto in pochi

punti fondamentali. A partire da un’attenta analisi della propria attuale identità digitale, si andranno

a definire gli obiettivi cardine che si intendono perseguire e questo porterà a creare un piano di

personal brand e reputation online. Per poter dare sostanza alla nostra presenza online, saranno

definiti quelli che sono temi di interesse, punti di forza e di debolezza. Infine, sarà identificato e

creato un ecosistema digitale, che comprenderà blog, Linkedin, Twitter e le social platform su cui

pensiamo possa essere per noi opportuno essere presenti.

S E Z I O N E

C O M U N I C A Z I O N E

«Le persone non comprano prodotti e

servizi ma relazioni, storie e magia»

Seth Godin

INDICE

I - COMUNICAZIONE E CRISIS MANAGEMENT

Scritto da M. Gabriella Metelka, tratto dalla lezione di Roberto Grandi………...pag 5

2 - PROGETTARE UNA STRATEGIA DI DIGITAL MARKETING

Scritto da Giovanna Peroni, tratto dalla lezione di Guido Di Fraia……………...pag.11

3 - LOGICHE E PRINCIPI DI CONTENT MARKETING

Scritto da Francesca Adamo, tratto dalla lezione di Guido di Fraia…………….pag.19

4 – DIGITAL STORYTELLING

Scritto da Alessandro Casti, tratto dalla lezione del prof. Guido di Fraia...……pag,27

5 - VISUAL DESIGN

scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Alessandra Spagnoli………………pag,33

6 - IL CONSUMO FRA DIGITALE ED ESPERIENZIALE

Scritto da Chiara Carlini, tratto dalla lezione del Prof. Stefano Pace…………...pag.43

7 - CREATIVITÀ E NUOVE FORME DI COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA

CROSSMEDIALE

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Paolo Iabichino………………pag.49

COMUNICAZIONE E CRISIS MANAGEMENT

Scritto da M. Gabriella Metelka, tratto dalla lezione di Roberto Grandi

Un’impresa è in una situazione di crisi quando a causa di un evento straordinario entra in uno

stato di perturbazione interna e l'immagine che in quel momento viene percepita sia all'interno che

all'esterno non coincide con l'immagine attesa da parte dell'impresa e con l'immagine che fino allo

scoppio di quell'evento percepivano i pubblici esterni.Questo rappresenta per un’organizzazione

un danno potenzialmente enorme che può intaccare la sua reputazione, farle rischiare l’uscita dal

mercato e quindi, in casi estremi, costringerla a cessare l’attività. È, quindi, fondamentale che

l’impresa sia pronta a gestire una crisi nel migliore dei modi per poterne uscire indenne o, ancor

meglio, rafforzata.

La comunicazione in stato di crisi si attiva nell’ambito della tipologia di comunicazione d’impresa61

detta comunicazione istituzionale (o PR o Relazioni Pubbliche), che deve sempre (non solo in stato

di crisi) agire in modo integrato, coerente e sinergico, con le altre due: la comunicazione di

marketing e la comunicazione interna. Tale integrazione è necessaria perché i vari tipi di

comunicazione d’impresa sono veicolati da canali con modalità e caratteristiche differenti

(comunicati stampa, spot Tv, tweet, sito web…), perché si rivolgono a pubblici tra loro molto

diversi (costituiti da persone interne o esterne –queste ben più numerose- all’impresa) e perché

nonostante obiettivi, destinatari e canali diversi,l’impresa deve in ogni caso comunicare una

medesima identità di base.

I social media hanno resomolto più vulnerabile una impresa dal punto di vista della suareputazione:

bastano pochi minuti per creare una crisi e diffonderne il messaggio ad un numero di persone

molto maggiore di una volta. Dall’altra parte però i social media (e il customer service attraverso

essi) permettono di monitorare in tempo reale le opinioni degli utenti riguardo un brand ed

un’impresa, e rappresentano ormai uno dei canali di maggior importanza per individuare una

crisi,gestirla e arginarla, in tutte le sue sfaccettature.

Vi sono varie definizioni di crisi, accomunate dalla presenza di alcune circostanze:

61 La comunicazione d’impresa è l’attività che pianifica e gestisce sistemi di relazioni attivati dall’impresa per informare, persuadere, motivare e quindi influenzare i comportamenti dei propri interlocutori sociali e di mercato al fine di perseguire i propri obiettivi, tipicamente il miglioramento della identità e dell’immagine dell’impresa, per aumentarne la

credibilità a livello strategico ed economico.Per quanto riguarda l’impresa, si distinguono tre tipologie di comunicazione:

la comunicazione di marketing: di carattere pragmatico riguarda il prodotto o il servizio fornito dall’azienda, viene

veicolata attraverso la pubblicità ed è rivolta al maggior numero di utilizzatori finali o potenziali del prodotto o servizio;

la comunicazione istituzionale (anche detta PR o Relazioni Pubbliche): di carattere cognitivo riguarda l’impresa

come istituzione oppure azioni di lobby attuate per creare un ambiente favorevole per il prodotto/servizio dell’impresa, è veicolata attraverso le relazioni con i media o l’organizzazione di eventi, è rivolta alla collettività, ed

ha come obiettivo informare ed influenzare i destinatari promuovendo un atteggiamento favorevole nei confronti dell’azienda;

la comunicazione interna: di carattere cognitivo è formata dall’insieme di attività di comunicazione rivolte ai

pubblici interni (prima di tutti i dipendenti e poi tutti gli altri stakeholders), con l’obiettivo di aumentare il senso di appartenenza all’impresa e supportare i flussi di lavoro.

un sistema organizzativo – nel nostro caso un’impresa - entra in stato di crisi quando gli

elementi che lo compongono si trovano in una situazione di perturbazione, alterazione,

emergenza o transizione;

questa situazione contribuisce a sgretolare il rapporto di fiducia verso l’impresa, che

diventa –con vari gradi di gravità– delegittimata o non più autorevole;

l’aspetto comunicativo della crisi colpisce l’immagine dell’impresa62, delegittimata ed in crisi

di fiducia, e rischia di rendere inefficaci tutti i discorsi normalmente portati avanti;

è una situazione che assume un carattere di straordinarietà e non può essere affrontata e

gestita con gli strumenti ordinari;

l’insieme di queste circostanze richiede all’impresa una risposta immediata ed efficace anche

sul piano comunicativo; per questo tale azione deve essere preventivata in anticipo.

Nelle situazioni di crisi la percezione dell’identità63dell’impresa viene alterata ed indebolisce, se non

addirittura sgretola, la fiducia del pubblico; se una crisi viene gestita male possono volerci anni per

ristabilire la reputazione di una impresa.

Fig.1: come nel domino, una crisi non ben gestita anche in una sola delle sue fasi, rischia di peggiorare la situazione

PROCESSO DI GESTIONE DELLA CRISI

Per essere pronti e reagire velocemente una strategia ottimale di gestione della crisi prevede due

grandi macro-fasi, individuate temporalmente come: fase1 pre-crisi e fase 2 durante la crisi.

1. FASE PRE-CRISI: prima che la crisi effettivamente si verifichi è necessario:

62Immagine d’impresa: detta anche corporate image, è ciò che viene recepito dai vari pubblici di riferimento, è l’insieme di opinioni, impressioni, cognizioni, esperienze, che i vari pubblici di riferimento si formano, in modo diretto

o indiretto, in relazione all’impresa che comunica la sua identità aziendale, e si traduce in comportamenti favorevoli o meno all’impresa. 63Identità d’impresa: insieme di caratteri e valori di base necessari che rendono una impresa ciò che è, cui poi si àncora

tutto il resto, e la fanno riconoscere in ogni contesto. Tali caratteri rimangono invariati nel tempo, ma vengono interpretati e declinati (quindi rappresentati) in base alla situazione contingente (e quindi anche al periodo storico) in cui l’impresa si trova. L’impresa rimane sempre riconoscibile nei suoi elementi fondamentali ma è comunque attuale e

calata correttamente nel contesto storico e culturale in cui si trova ad operare. L’identità d’impresa coincide con l’immagine percepita di una impresa.

1.1 Definire un Crisis Management Pla64n che analizza e prevede le diverse fasi di risoluzione della

crisi e che identifica le figure che devono operare in base a ciascun rischio che l’impresa può

correre, inclusi quelli non previsti nel Crisis Management Plan. Tale piano deve, per ogni tipologia di

rischio individuato, definire procedure e di pratiche riassunte poi in un Manuale di Crisi. È

impossibile pianificare ogni scenario futuro, ma è utile esaminare l’azienda, la struttura, le persone,

i prodotti/servizi e l’ambiente in cui opera per valutare le aree di rischio significativo ed identificare

potenziali minacce. Questo perché, quando una crisi è ormai in atto, è fondamentale avere

risposte decise e pronte da dare rapidamente, dimostrando al pubblico che si sta prendendo

l’incidente sul serio. In questo contesto è utile valutare rapidamente anche la natura del feedback

degli utenti determinando se la critica si limita ad utilizzatori chiave o a consumatori che hanno un

problema contingente semplice.

1.2 Costituireun Gruppo di Crisi o Crisis Team, composto da persone con ruoli e responsabilità

specifiche. Essi sono:

-il leader riconosciuto responsabile ultimo delle decisioni da prendere e del coordinamento

del crisis team;

-il portavoce responsabile delle relazioni con l’esterno;

-un analista dati che raccolga ed elabori tutte le informazioni utili per pianificare le

comunicazioni interne ed esterne;

-l’addetto ai rapporti con la stampa;

-uno o più tecnici in grado di fornire valutazioni sulla causa della crisi;

-uno o più legali in grado di gestire le eventuali conseguenze giuridiche della crisi

1.3È poi possibile creare un sito internet da mantenere in stand by fino al momento della crisi: si

tratta di uno spazio sulla rete che rimarrà virtuale e non visibile ad alcuno fino a quando l’impresa

deciderà di attivare, tra i vari mezzi di comunicazione di massa, anche internet.

1.4 Infine, la fase di pre-crisi prevede la formazione del personale di modo che sia pronto a

fronteggiare le situazioni di crisi (crisis training) con tutta una serie di simulazioni da parte del

personale che costituisce il gruppo di Crisi.

2. DURANTE LA CRISI: quando la crisi effettivamente si determina, occorre:

2.1 Verificare prima di tutto che il fatto o la notizia che ha innescato lo stato di crisi siano reali e

realmente accaduti;

2.2 Valutare poi se siano di una gravità tale da innestare un processo di sfiducia nei confronti

dell’azienda;

2.3 Porre in atto tutte le procedure previste dal CrisisMangement Plan precedentemente creato.

64Crisis Management Plan: piano di gestione della crisi, da attivare quando l’impresa è in stato di crisi ma da redigere prima.

Abbiamo visto prima che l’attuazione del CrisisMangementPlanper essere efficace deve, in primo

luogo, individuare i diversi segmenti di pubblico colpiti dalla crisi e, in secondo luogo, comunicare

con tempestività e completezza, dopo avere posto in atto un flusso sistematico delle informazioni.

I pubblici di riferimento, sia quelli interni che quelli esterni all’impresa, devono essere segmentati in

relazione al rapporto che hanno con la crisi: chi ne è colpito direttamente, chi indirettamente, chi

ha la possibilità di influenzare l’andamento della crisi, chi ha la possibilità di influenzare la

percezione della crisi e poi l’opinione pubblica in senso generico.

Per ciascuna tipologia di pubblico vanno definiti i messaggi ed i media più efficaci, il che significa

individuare i diversi obiettivi comunicativi specifici da raggiungere.

Anche la comunicazione pubblicitaria, quando si è in uno stato di crisi, va modificata: non si può

continuare a comunicare come prima, perché, essendo cambiato il contesto,la pubblicità consueta

verrebbe interpretata in modo diverso da quello routinario.

L’obiettivo ultimodell’impresa caduta in stato di crisi è quello di riconquistarecredibilità e fiducia.

Le prime ore sono fondamentali: non bisogna perdere troppo tempo prima di agire, per questo è

importante avere già un CrisisManagement Plan pronto, completo e redatto precedentemente.

La comunicazione d’impresain situazione di crisi deve:

mostrare di comprendere le preoccupazioni di chi subisce le conseguenze della crisi

adottando una comunicazione emotivamente coinvolgente e in grado di suscitare simpatia;

rassicurare attraverso l’impegno fattivo dei rappresentanti dell’impresa (che ci devono,

come si suol dire, “mettere la faccia” senza negare o scaricare responsabilità) nella

soluzione della crisi dimostrando, nei fatti, che il concetto di responsabilità sociale

dell’impresa va applicato anche in queste occasioni;

sottolineare l’eccezionalità dell’evento e l’intenzione di individuarne le cause per fare in

modo che non si ripeta più;

ammettere le proprie responsabilità, ed eventualmente colpe, per l’accaduto, senza però

creare eccessivi allarmismi;

rassicurare fornendo informazioni complete, chiare e semplici sia sulla crisi sia su ciò che si

sta facendo per risolverla.

Fig2: avere un piano è fondamentale per prepararsi ed essere pronti a gestire le crisi

2.4 Superata in questo modo lafase contingente della crisi,è importante analizzare gli effetti della

comunicazione nei confronti dei diversi stakeholder, per poterla eventualmente migliorare in

futuro.Bisogna quindi valutare se i pubblici di riferimento considerati sono completi, se ciò che è

stato indirizzato a ciascuno di loro è stato pertinente e come è stato da loro interpretato a livello

cognitivoe pragmatico.

Essendo la reputazione l’assetintangibilepiù importante per un’impresa (ancora più della qualità del

prodotto o servizio che offre) è importante misurarlo mediante un indice apposito: il Reputation

Quote Index65, che con i moderni tool di misurazionesi può monitorare in tempo realeper tutte le

zone in cui l’impresa opera, per tutti i marchi dell’azienda e su tutti i mezzi di comunicazione

coinvolti

BIBLIOGRAFIA

Grandi R. Miani M.,“L’Impresa che comunica”, Isedi, 2006.

Norsa L., “Crisis Management: come gestire le crisi aziendali”, Simone edizioni, 2002.

Sciarelli S., “La crisi d’impresa”, Cedam, 1995

blog.advmedialab.com/crisis-management-e-social-media

65Il Reputation Quote Index è un indice che misura la reputazione di una azienda. Esso .è basato su 6 dimensioni dell’impresa, che riguardano in dettaglio:

•l’aspetto emozionale: quanto l’impresa è ammirata e rispettata •il prodotto o servizio dell’impresa: la qualità percepita, il suo livello di innovazione e affidabilità •l’aspetto finanziario: profittabilità dell’azienda, prospettive e rischio

•vision e leadership dell’impresa: forza percepita, profondità di visione, leadership dell’impresa e la sua capacità di cogliere le opportunità •l’ambiente di lavoro: come viene percepito, se ha dipendenti di qualità che vengono trattati in modo giusto

•la responsabilità sociale: impresa percepita come un buon cittadino nel suo rapporto con le comunità locali e l’ambiente

PROGETTARE UNA STRATEGIA DI DIGITAL

MARKETING

Scritto da Giovanna Peroni, tratto dalla lezione di Guido Di Fraia

Una buona strategia di marketing si mette a punto rispondendo a queste 10 domande.

“Conosci te stesso?”: per potersi comprendere una azienda deve definire la suamission66, la

suavision67e deve poi conoscerela sua reputazione68.

“Su quali media puoi contare?” o più in generale quali sono tutti i touchpoint, i punti di

contatto -digitali o meno- dell’azienda con il suo pubblico. Essi si possono classificare secondo il

modello POE69 che li distingue in tre categorie: paid, owned ed earned.

“Quali obiettivi vuoi porti?” obiettivi che si sviluppano su una gerarchia a triangolo: in cima

troviamo quelli di business, poi di marketing e infine di strategia.

Fig1: gerarchia di obiettivi aziendali

Tra gli obiettivi di business figurano l’aumento del fatturato, la crescita della quota di mercato, la

differenziazione dei prodotti, l’apertura dei nuovi mercati ola riduzione dei costi. Il marketing, al

contrario, può puntare all’aumento del numero dei clienti, all’incremento della frequenza

d’acquisto, alla crescita dello scontrino medio, alla penetrazione di nuovi target, al miglioramento

della reputazione, all’aumento della notorietà del brand e all’aumento della penetrazione sul

mercato. Gli obiettivi strategici sono solitamente integrati in quelli di marketing.

66 La Mission di una azienda descrive i valori che ne guidano l’azione, la sua ragione d’esistere ed anche in cosa si

distingue dai suoi concorrenti. 67 La Vision di una azienda si riferisce ad uno scenario futuro, quello che l’azienda vuole veder realizzato. Questo scenario futuro rispecchia i valori, gli ideali, le aspirazioni dell’azienda 68 La reputazione di una azienda è l’insieme di aspettative, percezioni e opinioni sviluppate nel tempo da clienti,

dipendenti, fornitori relative all’azienda. 69 I mezzi a pagamento (paid) sono quelli che garantiscono la presenza in un contesto determinato, come ad esempio i mezzi classici, la display adv o il paidsearch. I media di proprietà dell’azienda (owned) sono quelli su cui l’azienda ha il

completo controllo di ciò che pubblica, che devono creare un rapporto con il consumatore e diventare una sorta di punto di riferimento, un luogo controllato completamente dal brand che racconta e trasmette i propri valori creando engagement e informando allo stesso tempo, come ad esempio il sito web, le pagine social aziendali, il blog aziendale,

gli store di proprietà…). I media guadagnati (earned) sono le conversazioni generate dagli utenti ad esempio il contenuto commentato e condiviso sul sito aziendale, i “like” sui social network, le recensioni, il passaparola.

Business

Marketing

Strategia

“Come si declinano gli obiettivi in obiettivi specifici?”

Facciamo un esempio: l’obiettivo di business identificato nell’aumento del fatturato si può tradurre

nell’obiettivo di marketing di aumentare il numero dei clienti e quest’ultimo -dettagliato in obiettivi

legati alladigitalstrategy-può diventare: aumento di brand awareness70, di brand engagement71 , lead

generation72, aumento della customerretention73 e/o del customerevangelism74.

“Quali sono i tuoi pubblici?”. Nel corso del tempo si è passati dal concetto di target

sociodemografico al concetto di Personas, in quanto la società oggi è più complessa ed occorre,

per modellizzarla, riferirsi anche allo stile di vita delle persone.

Le ricerche che venivano utilizzate maggiormente in passato sono la 3SC75 di Gian Paolo Fabris,

che indaga la dimensione valoriale, e la ricerca Sinottica76 di Gabriele Calvi, che indaga la

dimensione psicologica: strumenti di ricerca potentissimi, ma di complessa applicazione e molto

dispendiosi in termini economici.

Il recente modello delle personas, è invece un modello di mappatura astratto, sia qualitativo che

quantitativo: esso costruisce identikit dettagliati di personaggi finzionali che rappresentano i

pubblici di riferimento dell’azienda o del brand. Per ogni profilo bisogna compilare nome, foto,

tratti socio-demografici, professione, obiettivi e sfide da affrontare per raggiungerli (a livello

professionale e privato), valori di riferimento, dieta mediale, canali social utilizzati. Questo

permette di creare un tipo ideale dove racchiudere gli individui con delle caratteristiche comuni.

70 Brand awareness è la capacità di un brand di essere riconosciuto dai consumatori potenziali e di essere associato a un determinato prodotto 71 Brand engagement (tradotto in italiano in “coinvolgimento”) misura il successo del messaggio aziendale condiviso con il pubblico al fine di creare “legami” forti tra il brand e i suoi utenti, fino a convertirli in clienti, o fino a far raggiungere al consumatore un livello di fiducia tale portarlo a consigliare il brand ai propri amici, attivando uno dei più

potenti mezzi del marketing: il passaparola positivo. 72 Una azione di lead generation è un'azione di marketing che consente di generare una lista di possibili clienti interessati ai prodotti o servizi offerti da un'azienda 73 La customerretention dipende dai processi che coinvolgono i consumatori e fa riferimento alla capacità dell’azienda di mantenere continue relazioni di scambio con i clienti nel lungo termine 74 Gli evangelist sono clienti che parlano spontaneamente di un determinato brand/prodotto spinti unicamente da

motivazioni intrinseche, veri e propri appassionati, insomma, o -in termini di marketing- clienti fidelizzati che hanno instaurato un forte legame con i propri lovemark. spontaneamente fedeli alla marca 75 La ricerca 3SC si basa sulla filosofia evoluzionista secondo la quale ogni società è in più o meno rapida evoluzione

verso una sempre maggiore modernità socioculturale. Essa indaga la dimensione valoriale, i comportamenti di consumo su infiniti prodotti e i comportamenti di consumo mediatico 76 La ricerca Sinottica invece prevede diecimila interviste personali all’anno, effettuate in periodi diversi per una durata

di circa 3 ore e riguarda prettamente la sfera psicologica unitamente ai comportamenti di consumo e all’esposizione ai media

Fig.2: le userpersonas sono uno strumento molto valido ed ampiamente usato per migliorare il livello di comprensione

e conoscenza della base utenti di una azienda

Questa categorizzazione è utile per comprendere e modellizzare i bisogni e gli interessi dei

pubblici di riferimento per i quali costruire poi i contenuti necessari a farli avanzare nel customer o

sales funnel(vedi Fig.3).Tale modellizzazione deriva da un’analisi approfondita dei clienti attuali e

potenziali dell’azienda, condotta tramite ricerche di mercato, informazioni dalla forza vendita e dal

customer care, dai social network, dal sistema di CRM,…solo per fare degli esempi, l’azienda deve

sfruttare al massimo tutte le sue potenzialità per conoscere a fondo il suo pubblico.

Le personas sono plurali innanzitutto perché non sono quasi mai uniche e poi perché evolvono nel

corso del tempo. Ovviamente i bisogni dei nuovi clienti sono diversi da quellidei clienti già fedeli:

ogni personas andrà quindi modellizzata in relazione alla fase del customerjourney in cui si trova.

Ecco allora che avremo: Marketing Personas che diventano Buyer o User Personas nel momento

dell’acquisto e sperabilmente si trasformano inFan o EvangelistPersonas quando ripetono e

consigliano l’acquisto. È chiaro che i contenuti della comunicazione devono variare a seconda della

relazione instaurata con la Personas nel corso del tempo.

“Come intercetto le personas?”

È possibile intercettare le personas attraverso i touchpoint, digitali e non, ad esempio: il sito

aziendale, i social network, le newsletter, le brochure, le fiere, i negozi sul territorio… ecc. In base

alla fase in cui si trova la personas (i momenti del sales funnel tipicamente distinti in Awareness,

Consideration, Acquisto, Servizio o Fidelizzazione) l’azienda dovrà intervenire con touchpoint

diversi, legati alle esigenze proprie del tipo di personas. Nella fase di Awareness per esempio una

persona a digiuno di media digitali va attivata mediante media offline (PR o media classici quali

radio, tv, stampa, cartellonistica e anche con il passaparola)

Fig.3 Punti di contatto digitali e fisici in relazione al funnel di acquisto conoscenza-fidelizzazione del marchio

La settima domanda è: “Come investo il mio budget di marketing e comunicazione?”: è

possibile puntare sul sito, investire in advertising, oppure preferire le fiere, a seconda degli obiettivi

da raggiungere e del ROI77 dei vari strumenti utili a raggiungerli. L’ottimizzazione del budget in

questi casi è sempre un obiettivo anche se non espresso: raggiungere il maggior risultato con la

minima spesa è quello che l’azienda ricerca sempre. Per questo i risultati di ogni singola azione di

marketing e comunicazione vanno misurati e tenuti sotto controllo per massimizzarli.

“Quali sono i canali giusti per le diverse personas?” È necessario portare i contenuti giusti

nel momento giusto al pubblico corretto, utilizzando il mezzo più adatto a seconda della fase del

sales funnel in cui si è, l’obiettivo che l’azienda vuole ottenere e il tipo di personas.

77ROI: Return on investment è l’indice di redditività del capitale investito o ritorno sugli investimenti; è uno degli indici

di bilancio di più frequente utilizzo nell'analisi di redditività aziendale e misura la redditività dei mezzi finanziari complessivamente impiegati nell'attività aziendale, In questo contesto indica più semplicemente la redditività dello strumento di marketing utilizzato e si calcola semplicemente mettendo a denominatore il profitto realizzato attraverso

lo strumento pianificato (tipicamente numero di pezzi venduti o i lead raccolti) e a numeratore la spesa sostenuta per esso.

Fig3: Sales funnel

Per esempio per portare una personasnella fase awareness del sales funnel, l’azienda utilizzerà i

mezzi tradizionali (tv, radio, stampa) se la personasè fruitrice di tali mezzi oppure campagne

adwords, contenuti sul sito o sulle pagine social se la personas si muove prevalentemente in

ambito digitale/social. Analogamente se la personasè alla fase purchase (di acquisto, ndr) bisogna

lavorare sul punto vendita o sul sales channel nel caso fosse digitale.

La fase purchase non è detto che sia quella finale del funnel, anzi tipicamente è seguita dalla fase di

loyalty (in cui il cliente ripete l’acquisto più volte) e da quella di advocacy/evangelism.

“Quali sono i contenuti adatti alle mie personas?”. È fondamentale produrre contenuti di

vario tipo (es: video, immagini, sondaggi, videogames, app redazionale, presentazioni, infografiche,

whitepaper, podcast…), secondo un piano editoriale78 ben studiato e definito a priori.In merito ai

contenuti bisogna anche analizzare quali sono le competenze che servono per produrli: bisogna

infatti concentrarsi sui contenuti che si è in grado di produrre a livello professionale dotandosi di

adeguate risorse umane (interne o esterne all’azienda) e di software, tralasciando quelli che

l’azienda non è in grado di produrre adeguatamente. Le competenze delle persone deputate alla

creazione di contenuti dovrebbero essere trasversali su video, testo e whitepaper: bisogna

insomma possedere una risorsa o, più tipicamente, un team di persone con buone abilità di

scrittura, traduzione, grafica, riprese e montaggio. Anche le tempistiche sono importanti perché

l’organizzazione dei processi deve essere precisa, ma deve anche saper garantire un certo margine

di tolleranza per far fronte ad eventuali ritardi e/o imprevisti.

78 Un piano editoriale è un insieme di azioni strategiche che puntano al raggiungimento di un determinato target (le personas) e di un certo obiettivo, quantitativamente e qualitativamente misurabile. È ciò che permette all’azienda e/o

al brand di trasformare la sua presenza online in uno strumento di marketing, è una guida per sapere cosa, quando e come pubblicare online, per raggiungere gli obiettivi che sono stati stabiliti come risposta alla domanda 5 di questopercorso. È necessario fare fin da subito chiarezza sui goal da raggiungere e farlo con un criterio di

consequenzialità:l’aumento delle conversioni sarà una conseguenza di una serie di micro-obiettivi posti prima, dal numero di pubblicazioni giornaliere, settimanali e mensili, al tipo di canali da utilizzare o rafforzare. Per ogni canale di comunicazione, infatti, occorre definire obiettivi e calendari specifici, risorse umane adatte e tipo di contenuti da

produrre: il piano editoriale generale alla fine comprenderà una integrazione perfetta tra social media, blog aziendale e canali offline.

Per fare arrivare i contenuti giusti alle personas giuste nel momento giusto bisogna avere

un’adeguata attenzione al cliente, utilizzare una piattaforma che permette di raccogliere i dati in

modo puntuale e aggiornato: per questo si utilizza il CRM79, metodo di indicizzazione per la

raccolta dati del consumatore.

I canali digitali hanno stravolto le logiche tradizionali della comunicazione, che non è più

monodirezionale: consentono infatti di conoscere il cliente, intercettarlo e interagire con lui in

modo radicalmente nuovo.Dal CRM tradizionale, che si basava interamente sui processi aziendali,

si è passati quindi al Social CRM, incentrato sul dialogo con il cliente.

Nel panorama mutevole e frammentato del web, l'azienda non può più fare valere la propria

leadership solo attraverso gli investimenti in comunicazione. Obiettivo primario diventa quindi

quello di saper offrire la customerexperience80 migliore. Per diffondere i propri contenuti si usa

l’advertising, utilizzando degli strumenti come Google ads, profilazione, Facebookads ed email

marketing.

Al fine di ottimizzare questo processo bisogna utilizzare lepiattaforme (che possono essere

premium, free o freemium) che generano i contenuti e li pubblicizzano.

L’ultima e decima domanda cui rispondere nella progettazione strategica è “Come si

valutano i risultati?”. In base agli obiettivi posti, vanno individuati dei KPI, degli indicatori che

devono misurare la realizzazione di tali obiettivi. Per questo motivo si dice che gli obiettivi devono

essere SMART81. Alcuni esempi di indicatori da utilizzare sono: per Youtube il numero di

visualizzazioni, per Twitter i follower e per Facebook il totale delle persone che aderiscono e i fan

di una pagina.

79 Il CustomerRelationship Management di una azienda, abbreviato in CRM, è un concetto legato alla strategia, alla comunicazione, alle persone, all'integrazione tra i processi aziendali ed alla cultura, che pone il cliente al centro

dell'attenzione. Per mantenere un contatto proficuo con la clientela occorre seguirla in ogni momento (non solo quello dell’acquisto) e per farlo è necessario inserire le loro informazioni in un database, sia quelle relative a dati anagrafici che alle interazioni che stanno avendo con l’azienda: tutto ciò deve essere registrato e analizzato

dall’azienda. Un ottimo sistema CRM comprende una serie di infrastrutture sia a livello di front office (nella relazione con l'esterno vera e propria), sia a livello di back office, per analizzare e misurare dati e i risultati raggiunti. Molti sono gli strumenti a disposizione per instaurare con il cliente un rapporto individuale, ad esempio: chat online, forum di

discussione, FAQ, indirizzo e-mail a cui rivolgersi, SMS da inviare al proprio cellulare, ticket on-line per la segnalazione di problemi o per la richiesta di assistenza, tracciamento interno di ogni comunicazione "da" e "per" il cliente, preventivi e fatture rivolte al cliente, storia dei pagamenti effettuati dal cliente, analisi della navigazione, per utenti

profilati, con l'ausilio di web analyzer, social network. 80La Customer Experience (CX) è il modo in cui i clienti percepiscono l'insieme della loro interazione con l'azienda, sia in maniera inconscia che consapevole; quindi, a realizzare la CX concorrono tutti i punti di contatto attraverso i quali

il cliente interagisce con l'azienda stessa. 81SMART in inglese significa intelligenti ma è anche l’ acronimo di: Specifici (cioè definiti e tangibili, devono esprimere chiaramente cosa, come e perché lo voglio ottenere), Misurabili (deve poter essere espresso numericamente: per

esempio “aumentare la produzione del 15%” o “ridurre le spese del 10%”), Achievable cioè Raggiungibili (realistici e commisurati alle risorse e alle capacità di cui l’azienda dispone), Rilevanti (prima di impiegare tempo, risorse e denaro, è da valutare se ne valga davvero la pena, analizzando attentamente il rapporto costi/benefici del progetto che si sta

per intraprendere )e Temporizzati (ogni obiettivo è legato ad una scadenza, e prevede tutta una serie di step di verifica, in relazione con le varie attività necessarie al compimento).

BIBLIOGRAFIA

Codeluppi V.,“Consumo e comunicazione: merci, messaggi e pubblicità nelle società

contemporanee”, Franco Angeli, 2007

DiFraia G., “Social Media Marketing: Strategie e tecniche per aziende B2B e B2C”, Hoepli editore,

2015

Manning H., Bodine K., “OutsideIn: “The Power of PuttingCustomersat the Center of Your

Business”,2012, ForresterResearch

LOGICHE E PRINCIPI DI CONTENT

MARKETING

Scritto da Francesca Adami, tratto dalla lezione di Guido di Fraia

COS’E’ IL CONTENT MARKETING?

Il Content Marketing è una tipologia di marketing che consiste nella creazione e condivisione di

contenuti rilevanti e di valore da parte delle imprese, con l’obiettivo di conquistare un target ben

definito per creare con esso una relazione solida.

Nel Content Marketing è fondamentale riconoscere l’importanza della relazione che c’è tra un

brand e il suo pubblico, poiché la prima regola da seguire per fare Content in modo efficace è

ascoltare i propri pubblici, conoscerli a fondo e imparare a soddisfare i loro bisogni o a

condizionarli verso i nostri.

I trend di ricerca degli ultimi tre anni82 dimostrano una progressiva crescita di interesse per il

Content Marketing, soprattutto da parte di aziende e professionisti. Inoltre il Content Marketing

Institute Americano rileva che l’88% delle aziende BTB si dedica al Content Marketing, mentre per

il settore B2C la percentuale è al76%83ed entrambi i settori hanno in programma di aumentare in

futuro la produzione di contenuti perché evidentemente ritengono efficace l’approccio di

Content Marketing nelle loro aziende.

Per questi motivi sicuramente “Content isking” ma “Strategyis the queen” : quando viene usato il

Content Marketing nel modo giusto si arriva sempre ad una situazione favorevole per l’azienda,

quando una persona si sente soddisfatta del contenuto che la sta informando o intrattenendo ci

sono sicuramente delle ricadute positive per il brand che glielo sta fornendo ma affinché il

Content non fallisca a causa di contenuti non elaborati nel modo giusto, serve una strategia.

L’azienda, qualunque sia l’ambito di attività e il modello di business che attua, deve diventare

editrice di sé stessa, e questo significa che deve saper affiancare ad una attività tipicamente di

business, una attività editoriale vera e propria. Questo passaggio è complesso per il marketing,

che si deve quindi, per questo ambito, ripensare completamente: deve poter acquisire

competenze e risorse diverse per una attività di creazione di contenuti da rendere organica,

continuativa, strategica e quindi anche onerosa anche economicamente, in quanto va alimentata

costantemente di modo da non perdere risultati ed il posizionamento ottenuti.

82 Fonte Google Trend 83Fonti: B2B Content Marketing Benchmarks, Budgets, and Trends—North America, 2016 http://contentmarketinginstitute.com/wp-content/uploads/2015/10/2016_B2C_Research_Final.pdf

LA STRATEGIA DI CONTENT MARKETING: 5 FASI Una strategia di Content Marketing si può dividere in 5 fasi principali:

1. Ascolto dei pubblici.

Il primo passo è ascoltare i propri pubblici (sia quelli attuali che quelli potenziali), per conoscere

meglio i loro interessi, i loro bisogni e i canali attraverso cui intercettarli, dapprima

indipendentemente dai prodotti o servizi forniti dall’azienda Tali elementi rilevati dovrebbero

essere sintonici con il posizionamento del brand ed i valori espressi dai suoi prodotti o servizi, in

caso contrario non si può comunque ignorarli ma bisogna soddisfarli inventandosi delle

alternative creative che permettano al brand di rimanere allineato con i suoi valori di marca.

L'azienda dovrà riuscire quindi a progettare e produrre contenuti che si collochino esattamente

nella intersezione tra i bisogni/interessi del pubblico e l’esperienza/valori del brand.

A tale scopo l'azienda ha a disposizione numerose fonti di ascolto, sia interne ed esterne. Con

fonti interne si intende tutto ciò che il marketing mette a disposizione, per esempio rete vendite,

centralino, email di richiesta informazioni, commenti e post degli utenti sui canali social dell’azienda

etc…. Sono invece esempi di fonti esterne leconversazioni su social network, sui forum e nei

gruppi di discussione che riguardano l’azienda, i suoi prodotti e servizi e il suo settore, le chiavi di

ricerca più utilizzate per l’azienda e il suo settore, le ricerche di mercato etc.

Spesso può accadere che il dipartimento di marketing debba lavorare insieme all’area vendite per

ottenere tutte le informazioni necessarie sui pubblici e sulle aree tematiche interessanti per loro.

2. Progettazione.

La seconda fase di una strategia di content marketing consiste nel progettare concettualmente e

creativamente i contenuti più adatti ai bisogni dei pubblici di riferimento. Una volta scoperto chi

sono le personas a cui ci si vuole rivolgere, bisogna decidere le aree tematiche a cui fare

riferimento.

Una buona base da cui partire può essere il Funnel Model.84

84Il funnel model o il funnel di conversione o salesfunnel, è un modello concettuale adottato nel marketing per creare, quanto meno idealmente, il percorso dell’utente verso la generazione di una conversione. Grazie al funnel, si può verificare come un utente che entra in contatto con un’azienda e/o un prodotto può diventare dapprima un

lead, poi un prospect, ed infine un clientevero e proprio, e adottare al contempo una serie di accorgimenti e tattiche in grado di ottimizzare e velocizzare questo percorso.

Fig1: il Funnel model

A seconda della fase del funnel in cui la personas si trova, ed a seconda del tipo di personas,

bisogna utilizzare tipologie di contenuti diverse; per esempio i contenuti per fare awareness sono

diversi da quelli che una azienda deve utilizzare quando la personascui si rivolge ènella fase di

evaluation o di repeat: questo perché le persone cui rivolgersi nelle varie fasi del funnel hanno

aspettative diverse, e l’azienda deve per questo costruire contenuti di livello adatto alle loro

aspettative, che tipicamente sono maggiori quanto più la personas è in basso vale a dire in punta

nel funnel.

I contenuti servono innanzitutto a generare o rafforzare la notorietà del brand che si propone

come soggetto autorevole in grado di interessare, informare e coinvolgere. Essi possono per

esempio essere la molla motivazionale che spinge un utente a lasciare i propri recapiti per essere

ricontattato. Elaborare i contenuti su misura per i clienti in ciascuna fase d'acquisto può aiutare a

massimizzare le conversioni.

Customer service, tutorial, contenuti aggiuntivi per i clienti migliorano il loro grado di

soddisfazione e aiutano il brand nel processo di fidelizzazione, che porta quindi a ripetere (fase di

repeat nella figura sopra) l’acquisto.. Se percepiscono che il loro valore viene riconosciuto, i clienti

più fedeli possono diventare veri e propri evangelists85 del brand.

Per scoprire chi sono le personas a cui ci vogliamo rivolgere bisogna basare le nostre informazioni

sui dati che vengono raccolti attraverso tutte le attività di analisi e di ascolto (vedi fase 1) svolte

dal marketing in collaborazione con tutte le funzioni aziendali, utilizzando tutte le fonti -interne ed

esterne- a disposizione. Le personas in questo modo individuate vanno poi suddivise in tanti

gruppi diversi in base alla posizione del funnel in cui si trovano.

85 Gli evangelist sono, nel marketing, persone molto più che fidelizzate, che hanno instaurato un forte legame con il

brand, che quindi diventa un vero e proprio lovemark di cui parlano spontaneamente spinti unicamente da

motivazioni intrinseche.

Occorre quindi generare contenuti di rilievo per le diverse personasnei diversi momenti del funnel.

Le funzioni dei contenuti sono infinite, ma tra queste si possono identificare 4 tipologie principali:

Educativa/Formativa: Insegnare all’utente come usare uno strumento o un servizio (per

esempio tutorial per l'uso dei prodotti /servizi dell'azienda, FAQ, Best practices e case

studies, risultati di test condotti sui prodotti / servizi dell'azienda, elenchi di tool e risorse

utili…).

Ludico/Ricreativa: Intrattenere l’utente con contenuti divertenti e piacevoli (ad esempio

giochi di parole e aneddoti, notizie originali e bizzarre, massime, proverbi e citazioni,

advergame e giochi…)

Informativa: Fornire all’utente dati e notizie utili (ad esempio news di settore, calendario

degli eventi organizzati dall'azienda, anteprime sulle novità, esperienze del personale o dei

clienti, storia dell'azienda e dei suoi fondatori, …)

Interattiva: generare coinvolgimento, dialogo e partecipazione (ad esempio richieste dirette

di commenti e suggerimenti, contest, concorsi e attività di crowdsourcing, dibattiti su

tematiche relative al settore dell'azienda,…)

Una volta definiti sia le personas che i contenuti rivolti ad ognuna di esse, occorre scegliere con

quale format condividere i contenuti. Ogni contenuto infatti può essere veicolato mediante

molteplici format, a seconda del canale in cui lo si vuole veicolare e dellepersonas che si vogliono

intercettare. . Esempi di format utilizzabili sono: foto, testo, contest, video, infografica, app,

webinar, newsletter, videogame, whitepaper, ebook, sondaggio, presentazione, fumetto,

redazionale, etc…L'importante è che di ciascun format che si decide di utilizzare l'azienda conosca

le grammatiche e i linguaggi, in modo da ottenere un risultato professionale

Uno strumento molto efficiente per sviluppare un'ottima strategia di Content Marketing, è

la "tavola periodica del Content Marketing", creata da Chris Lake nel 201486 sulla falsariga della

tavola periodica degli elementi di DmitrijMendeleev, usata in chimica.

86 Fonte Chris Lake, eConsultancy

Fig2: la tavola periodica del content marketing di Chris Lake

La tavola illustra e suddivide il processo di gestione del Content Marketing, in 8 aree che sono

colorate in modo diverso: strategia, formato, tipo di contenuto, piattaforma (web o social) su cui

pubblicarlo, le metriche per misurarne i risultati, gli obiettivi, gli elementi che incoraggiano le

condivisioni social e la lista di controllo.

3. Produzione.

La terza fase di una strategia di content marketing consiste nel produrre concretamente i

contenuti che si sono progettati nella fase 2. La fase di produzione dei contenuti va pianificata in

ogni dettaglio e richiede una perfetta organizzazione dei tempi e delle risorse, costituite da:

Competenze: Bisogna concentrarsi sui contenuti che si è in grado di produrre con

professionalità, dotandosi di adeguate risorse di personale (interno o freelance) e software.

Tempo uomo: L'organizzazione dei processi deve essere molto precisa e saper garantire un

certo margine di tolleranza per ritardi e imprevisti.

Processi/strumenti: Per la pianificazione delle attività è necessario predisporre il piano

editoriale e il protocollo dei processi produttivi, che definisce il quadro di chi è

responsabile delle singole attività.

Esistono numerose piattaforme per la gestione dei processi collaborativi di produzione e

distribuzione dei contenuti editoriali da parte delle aziende, ad esempio tra quelle free ricordiamo

List.Ly,KuraturPulse, Pocket Google Currents, Zite, PearlTrees mentre tra quelle a pagamento le

più famose sono Curata, Percolate,Aggregage e PublishThis.

4. Disseminazione

Nella quarta fase occorre portare i contenuti ai diversi pubblici attraverso i canali più adatti a loro.

Per farlo è importante costruire un piano editoriale, che è un documento operativo in cui

vengono specificati:

I contenuti da pubblicare.

La data e l’ora della pubblicazione.

I canali da utilizzare

Le personas a cui si rivolge ogni contenuto.

La figura responsabile della pubblicazione.

A seguire, bisogna incrementare il pubblico e lo si può fare attraverso:

Influencers: l'azienda deve mappare gli influencers del proprio settore, seguirli e attivare un

dialogo con loro, in modo da invogliarli a rilanciare e diffondere i suoi contenuti.

Search: ottimizzare i contenuti sulla base delle parole chiave maggiormente utilizzate dalle

personas di riferimento sui motori di ricerca .

Syndication:fare in modo che i contenuti non siano pubblicati solo sugli spazi proprietari

dell'azienda, ma anche su altri siti, blog, canali social ecc. frequentati dalle personas di

riferimento.

Paid media: amplificare la portata dei contenuti tramite strumenti paid – SEM,

FacebookAds, tweet sponsorizzati, etc…

Bisogna essere in grado di creare contenuti giusti, da indirizzare al pubblico giusto, al momento

giusto utilizzando i canali giusti. Importante evidenziare che l’identificazione dei canali deve

avvenire in questa fase, quindi alla fine del processo e non all’inizio.

5. Misurazione dei risultati.

Nell’ultima fase avviene l’analisi dei risultati e l’ottimizzazione costante della strategia di content

marketing (infatti il processo di costruzione di una strategia è sempre circolare, dopo l’ultima fase

di misurazione dei risultati si deve ricominciare dalla fase 1 e se necessario fare modifiche).

È opportuno sottolineare che è necessario misurare le singole campagne / iniziative e non soltanto

i social media in quanto tali.Il processo di misurazione corretto è quello che mette in relazione tra

loro gli obiettivi di business, le metriche di business e le metriche dei social media. In questo

modo, tra le innumerevoli metriche per i singoli canali, si considerano solo quelle pertinenti.

BIBLIOGRAFIA

Ballardini, M. “Content Marketing” Apogeo Editore, 2016.

De Nobili F. “Content Marketing. Guida pratica alla realizzazione di contenuti per social e blog”.

Area 51 Publishing, 2016.

Mathewson J, Moran M. “Outside-in Marketing” Pearsoneducation, 2016

www.econsultancy.com

IL DIGITAL STORYTELLING

Scritto da Alessandro Casti, tratto dalla lezione di Guido di Fraia

Tutti condividono, e possono verificare ogni giorno, che la parola e il mezzo principale per

comunicare, per interagire, comprendere e farsi comprendere, per esprimere le proprie idee e i

sentimenti. In quanto tale, il linguaggio diventa il principale e il più autentico strumento per

apprendere ed evolversi, donando ad ogni soggetto la capacità di confrontarsi con gli altri, di

misurarsi con la capacita di stare e agire, di riconoscersi e farsi riconoscere, di esserci.

Da sempre, gli esseri umani si avvicinano al linguaggio usando le loro rappresentazioni e le loro

narrazioni com’è naturale che sia per chi scopre il mondo che lo circonda mediando di continuo le

proprie immagini con il contesto circostante. Una rete narrativa di cui tutti facciamo parte e che

contribuiamo con le nostre narrazioni quotidiane ad alimentare, a sostenere.

Le parole, così come le metafore, ci rappresentano, mettono a nudo il nostro stile cognitivo, i

nostri livelli emotivi, le rappresentazioni sensoriali, le cinestesie, le risposte comportamentali e

fisiologiche.

L'uomo è un narratore nativo: fin dalle prime rappresentazioni grafiche alle narrazioni medievali - e

quelle successive – la necessità era documentare la natura degli eventi e delle circostanze in cui era

immerso o per celebrare ricorrenze, o per esorcizzare paure e timori spesso legati a fenomeni

naturali di cui ignorava l'origine. Un continuum narrativo la cui funzione era mettere ordine tra le

diverse esperienze e favorirne dunque la trasmissione.

Fig1: la forma scritta è una delle forme con cui si racconta una storia

Ogni narrazione presuppone una relazione. Innanzitutto con sé stessi, attraverso la scelta che

effettuiamo sulle cose da dire e su come dirle e poi, all'esterno, con gli altri.

In questo senso la narrazione è un incontrarsi su territorio neutrale tra pensiero narrativo e

pensiero logico strettamente interconnessi per dare tridimensionalità alle narrazioni all'interno di

un contesto specifico.

La narrazione è una comunicazione d'esperienza e, nello stesso tempo, una comunicazione di

senso. Ogni narrazione vuole comunicare qualcosa, ha una direzione ben precisa e mira ad

ottenere particolari risultati. Immergere i nostri interlocutori in un universo narrativo,

coinvolgendoli in una storia credibile contestualizzata, producendo un effetto di credenza è lo

scopo del marketing narrativo che a seconda delle forme comunicative scelte (storia, fiaba, novella,

gossip, romanzo) o del mezzo comunicativo (film, fumetto, affreschi, cartelloni) produce risultati

diversi.

Lo storytelling non è semplicemente un raccontare storie ma un metodo e una skill life87.

Il termine è formato dalle due parole inglesi: “story” e “telling”. Letteralmente, il termine può

esser tradotto in italiano con le espressioni “raccontare una storia”, “comunicazione narrativa” o

anche “comunicazione creativa”.

Nella sostanza, lo storytelling è una tecnica di comunicazione che consiste nel raccontare una

storia per attirare l’attenzione di un pubblico, veicolare ad esso il messaggio che la storia vuole

raccontare e stimolare uno specifico desiderio nei lettori, persuadendoli a compiere una specifica

azione.

Si tratta certamente di una tecnica che sa rivelarsi davvero potente. Noi possiamo anche parlare e

scrivere, ma il raccontare storie attraverso lo storytelling ha spesso qualcosa in più. Perché riesce

a trasferire agli interlocutori idee e punti di vista in maniera molto diretta e coinvolgente.

Lo storytelling funziona in due sensi, verso noi stessi e verso ciò che sta all’esterno:

• è una particolare pratica che utilizziamo come strumento di esplorazione, comprensione e

relazione con sé stessi;

• è un mezzo di comunicazione che usiamo per comunicarci e per relazionarci con l’altro e

per esplorare e comprendere gli eventi.

Da questa distinzione derivano poi i numerosi obiettivi che questa tecnica è in grado di perseguire

efficacemente, in particolare:

• creazione del senso da dare alle azioni della realtà organizzativa quotidiana;

• creazione di un’identità (collettiva o individuale) che permetta di riconoscersi nella vita e

sul lavoro;

• mantenimento della memoria (collettiva o individuale) garantendo continuità di sapere e

orientamento dei comportamenti;

• orientamento dell’opinione del sociale d’impresa con delle storie e attraverso

l’identificazione e la proiezione;

• costruzione e presidio di una cultura fatta di valori e atteggiamenti che poi si riversano nel

quotidiano;

• comunicazione di progetti/attività in modo più efficace;

• esposizione di problemi cui trovare una soluzione;

• comunicazione della visione aziendale.

87Le competenze per la vita ("life skills") sono un insieme di capacità umane acquisite tramite insegnamento o

esperienza diretta che vengono usate per gestire problemi, situazioni e domande comunemente incontrate nella vita quotidiana

Con la diffusione che i social network hanno avuto negli ultimi dieci anni, soprattutto quelli che

danno ampio spazio agli elementi visivi, come Facebook, Pinterest e Instagram, si è diffusa la pratica

di “raccontare una storia attraverso le immagini”. A questo proposito, è certamente ancor più

corretto parlare di Visual Storytelling, che corrisponde a quel processo di costruzione ed

organizzazione della “narrazione di un racconto”, che fa uso delle immagini come mezzo

espressivo.

In particolare, il Visual Storytelling sfrutta il potere delle immagini per coinvolgere il pubblico ad un

livello più profondo con l’obiettivo di garantirgli un’esperienza immersiva costituita da

immedesimazione ed empatia.

Fig2: lo storytelling funziona anche su mobile, soprattutto se sviluppato tramite immagini

Sebbene l’argomento sia squisitamente visivo, non può certamente ignorarsi che il potenziale

narrativo delle immagini possa esprimersi al meglio solo nel rispetto di determinate regole e

caratteristiche (grammatica del racconto visuale). Pertanto, per avere una storia è necessario che

ci sia un personaggio con un ruolo attivo, che si verifichino alcuni avvenimenti e che siano presenti

dei co-personaggi, un antagonista e degli ambienti in cui la storia si svolge. È necessaria una trama,

un punto o più prospettive da cui far scaturire il racconto, un tempo della storia, parole ricorrenti,

parole chiave, analogie e metafore.

In questo senso lo storytelling ha un ruolo importante nella produzione di storie, traduce e

promuove le "cose" in parole, immagini, suoni e percezioni "reali", le rende "vere" e legittimate ad

esistere.

Volendoci spostare nell’ambito della comunicazione d'impresa, la tecnica del visualstorytelling

permette di mettere a fuoco le strategie per riprogettare brand, prodotto, identità e habitus

mentale aziendale.

L'azienda, i suoi beni, la sua attività, le sue risorse umane, attraverso lo storytelling fanno così

parte di un racconto che mira a coinvolgere e rendere partecipi i suoi interlocutori, interni ed

esterni. Questo è possibile attraverso la creazione di immagini/foto o video che raccontano le

attività aziendali, i servizi o alcuni particolari prodotti. Ciò a cui si deve far attenzione è creare un

vero e proprio "storyboard" come avviene per gli spot pubblicitari, con una vera pianificazione

nell'utilizzo delle immagini (didascalie e testi), completo di sequenza e narrazione, senza

dimenticare l'obiettivo. Sì, serve sempre avere un obiettivo: "Cosa voglio far capire/percepire

attraverso questa storia?" "Cosa voglio raccontare?". Nella maggior parte dei casi lo storytelling si

indirizza verso la narrazione di storie molto brevi, curate (preparate anche da specialisti di Teatro

o Cinema), e sono spesso di carattere divertente/ironico o formativo.

Come sostiene l’autrice Annette Simmons “l’obiettivo delle aziende è attivare l’immaginazione dei

clienti (consumatori), così che possano ascoltare, vedere, sentire, odorare, toccare e assaporare la

nostra storia come se fosse veramente successa a loro”.

Fig.3: la tecnologia ha amplificato la nostra voglia di raccontare e ascoltare storie

Pertanto, in un contesto di marketing, fare storytelling vuol dire fornire una visione più privata

della cultura e dei valori aziendali che si vogliono trasmettere, oltre che comunicare le promesse

che si desiderano mantenere. Significa offrire una finestra direttamente sull’anima dell’azienda e

mostrare un aspetto che le persone possono comprendere e in cui possono talvolta identificarsi.

Vengono mostrate anche le reali motivazioni che uniscono i professionisti del team che lavorano

duramente per fornire i loro servizi. In altre parole, fare storytelling è uno dei modi più efficaci per

l’azienda di costruire relazioni umane.

Proprio quest’ultimo elemento rappresenta per alcune aziende uno sforzo enorme. Si tratta,

infatti, di esporsi al pubblico in un modo inedito: mostrando anche come l’azienda affronta le

avversità quotidiane, offrendo considerazioni di valore sulle debolezze e le fragilità umane. Fare

storytelling significa imparare, pertanto, a raccontare la storia dell’azienda, come si prende cura dei

suoi clienti e li aiuta a comprendere il motivo per cui esiste e ha creato i suoi prodotti. E, infine, si

tratta di raccontare anche i propri fallimenti che, così come per ogni essere umano, sono una

prova concreta che l’azienda sta seriamente cercando di migliorare. L’abilità di rialzarsi dopo un

fallimento è una grande dimostrazione di umanità e aiuterà il brand a connettersi con i clienti ad un

livello più stretto ed intimo.

Non bisogna dimenticare che l’onestà e la trasparenza sono valori fondamentali nella definizione

della storia di un brand e nella creazione di un valido storytelling

BIBLIOGRAFIA

Annette Simmons, WhoeverTells the Best Story Wins: How to Use Your Own Stories to

Communicate with Power and Impact, 2007

VISUAL DESIGN

Scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Alessandra Spagnoli

COS’E’ IL VISUAL DESIGN?

Con il termine visual design si intende tutto ciò che è progettato per fornire un’informazione. Ma

è tutto visual design? Non esattamente. Affinché si possa definire tale, deve essere per prima cosa

consapevole e seriale. Infatti, tutti noi siamo grandi consumatori di prodotti visuali, ma pur

credendoci tali, solamente in alcuni casi ne diventiamo produttori (per fare un esempio pratico,

basta pensare alla nostra timeline di Facebook, invasa da memes, che noi crediamo di aver creato

ma che semplicemente abbiamo condiviso da un’altra pagina). Secondo Falcinelli, “tutto quello che

è progettato per essere visto secondo determinate intenzioni” è visual design.

Anche il testo viene considerato sia come forma di comunicazione che come elemento visuale di

una composizione.

Gli elementi principali che compongono un visual sono molto banali, ma non è facile interpretarli

correttamente all’interno di una comunicazione.

Ora vediamo più in dettaglio gli elementi che compongono il visual design.

L’IMMAGINE

Si dice che un’immagine valga più di mille parole; ma se l’immagine è sbagliata oppure non

perfettamente in linea con il concetto che si vuole rappresentare, è meglio non inserirla. Si parla di

immagine in senso lato anche quando ci si riferisce alle composizioni astratte e alle immagini

tipografiche (cioè quelle composte solamente da testo). Le immagini astratte sono più immediate

di un’immagine fotografica ma sono più difficili da creare perché molto è lasciato al messaggio che

si vuole veicolare. Le immagini tipografiche sono una percentuale minore, ma possono essere

estremamente efficaci.

Per la lettura e l’interpretazione di un’immagine è stato stilato un vademecum formato da tutte

quelle teorie o leggi che servono a decodificare il modo in cui il nostro cervello percepisce le

immagini:

Teoria della Gestalt: quando il nostro cervello deve guardare delle immagini e

decodificarne il significato, opera delle semplificazioni. Questa grammatica percettiva si basa

sul principio per cui “l’insieme è più della somma delle sue parti”.

La legge della chiusura o della buona continuazione: anche se togliamo parti di

alcune lettere, il nostro cervello le legge comunque. C’è comunque una differenza se la

parte coperta è quella sopra o sotto.

Legge della somiglianza e dell’esperienza passata: il cervello riconoscerà più

facilmente delle immagini già viste, o che assomiglino a qualcosa di noto.

Legge della pregnanza della forma: bisogna sempre tenere presente l’importante

rapporto tra la figura e lo sfondo. Generalmente si cerca di ottenere una stabilità tra gli

elementi anche se, alcune volte, si lavora per creare una voluta ambiguità. Questa legge

tiene conto di elementi come il punto focale (serve a catturare l’attenzione dell’osservatore

e a dargli una gerarchia per guidare la visione), e le figure retoriche visive (sono le stesse

figure retoriche letterarie come ellissi, antitesi, analogia, sineddoche, metonimia, etc…).

Esistono due categorie di immagini:

1. Immagini vettoriali: cioè immagini prodotte grazie a metodi matematici. Solitamente

sono loghi, o campiture e hanno il grosso vantaggio di essere facilmente scalabili.

2. Immagini raster88: sono le immagini composte da pixels, quindi maggiore il numero di

pixels, maggiore la definizione dell’immagine. Nel caso di queste immagini, si deve cercare

di bilanciare la risoluzione con la dimensione dell’immagine stessa. Non c’è niente di più

fastidioso di immagini con risoluzione bassa; un’immagine grande si può ridurre, ma

un’immagine piccola non si può ingrandire.

Tra i vari formati di salvataggio delle immagini, il più noto è sicuramente JPEG89. Esso, infatti, è il

migliore compromesso tra la qualità dell’immagine e la leggerezza. Per un’immagine

qualitativamente migliore, ma molto più pesante, si usa normalmente il formato TIFF90; il formato

BMP91 supporta solamente immagini RGB (le immagini adatte ai monitor per intenderci); il formato

ESP è un formato vettoriale92 mentre il PNG è l’unico che supporta lo sfondo trasparente. Esiste

anche il formato RAW, che è il formato sorgente delle immagini, molto pesante e difficile da

modificare e quindi usato solamente dagli addetti del settore.

IL COLORE

Il colore è lo strumento principale attraverso il quale possiamo catturare l’attenzione e dare una

gerarchia di interpretazione.Il codice colore esadecimale93 ci permette di identificare

correttamente la tonalità di colore utilizzata. È la stessa cosa del pantone, ma in ambiente web.

88 nella computer grafica, un’immagine raster è una struttura di dati che rappresenta generalmente una griglia di pixel, o punti di colore, che sono visibili su monitor, carta o attraverso altri mezzi. Le immagini raster sono conservate in formato digitale. 89 Jpeg: metodo di compressione irreversibile di immagini fotografiche. normalmente raggiunge un livello di compressione 10:1 con una perdita impercettibile di qualità dell’immagine. 90Tiff: tagged image file format, è il formato utilizzato per il salvataggio delle immagini raster 91Bmp: è un formato di salvataggio immagini, capace di conservare immagini bi-dimensionali monocrome o a colori, in diverse sfumature di colori. 92 la grafica vettoriale usa dei poligoni e delle strutture matematiche per rappresentare le immagini in computer grafica. 93 Il codice colore esadecimale è uno dei tre modi con cui possono essere espressi i colori in HTML. Gli altri due sono: il loro nome convenzionale e il loro codice RGB.

Fig.1: Il cerchio di itten, utilissimo per l'abbinamento dei colori, è anche noto come disco cromaticoe permette di

comprendere le relazioni tra le tonalità alla prima occhiata

Le interpretazioni dei colori sono ormai note, anche nelle loro diverse sfumature regionali, e

quindi qui ne sarà dato solamente un assaggio.

Il rosso serve a evidenziare, ma è anche il colore dell’amore, della passione e della forza se preso

in contesto positivo; ma è altrettanto il colore del sangue, della paura o del pericolo se preso in un

contesto negativo. In alcune culture, per esempio, il rosso è il colore del matrimonio. In Italia,

invece, se portato alle nozze indica l’amante dello sposo.

L’arancio si avvicina al rosso e combina i significati di rosso e giallo. È simbolo di vitalità ed energia.

Quando vira verso il marrone richiama all’immaginario della terra. In India, una tonalità di arancio

è il colore del sacro. Nella categoria degli aranci c’è anche l’oro che, però, in ambiente web viene

usato in piccole quantità perché oro e argento si ottengono solo su stampa.

Il giallo in piccole quantità attira l’attenzione. È un colore allegro e con poche interferenze con altri

colori. Se contiene una percentuale di verde allora vira verso la malattia. È sicuramente meno

ambivalente del rosso, ma necessita comunque di qualche accorgimento di utilizzo.

Il verde è un colore tranquillo e amato dai brand ecologici e bio. È il colore della calma. È un

colore sacro per l’Islam. È, però, un colore rischioso nella sua trasposizione tra schermo e carta

perché non sempre la tonalità vista sullo schermo corrisponde a quella stampata.

Il blu, o l’azzurro, sono colori molto amati perché trasmettono stabilità, professionalità, rigore e

non hanno differenze di significato nelle sue tonalità. Lavorano piuttosto bene sia su video sia su

stampa, a differenza del verde.

Il viola è il colore del lusso e dell’eleganza, anche se in alcuni casi è il colore della sfortuna. Quando

vira sui toni del chiaro, quindi del rosa, è il codice del femminile, solo negli ultimi 50 anni.

Il bianco e il nero, sono considerati colori, anche se sono talmente diffusi che si possono

considerare non colori. Il bianco è da considerare non come sfondo ma come campitura94 piena.

94In pittura,dicesi campitura la stesura uniforme del colore che serve di sfondo all'immagine rappresentata

Per decidere quali colori utilizzare all’interno di un’immagine, in quale combinazione e in quali

quantità esistono diversi metodi: sicuramente la scala monocromatica è la più facile da utilizzare,

ma si possono usare colori analoghi. Si può anche lavorare di contrasto con i colori

complementari, ma è una scelta da ponderare.

In ultima analisi si può anche usare una triade di colori. Nel caso si decida di utilizzare tre colori

diversi la proporzione migliore è la regola del 60/30/10 (come esempio si può pensare

all’abbigliamento maschile con giacca e cravatta).

Come accennato in precedenza, con la sigla RGB (Red, Green, Blue) si intende quella

combinazione di colori che indica le immagini per il monitor; mentre con la sigla CMYK (Cyan,

Magenta, Yellow, Key Black) si intende la combinazione di colori per la stampante.

IL FONT

Siamo abituati a pensare che un’immagine sia composta solamente da oggetti, ma anche il testo è

forma, e soprattutto è un elemento che deve essere impaginato all’interno della nostra immagine.

Fig2: esempi di font

Il primo font95 di scrittura a macchina risale al 1492 con l’invenzione della stampa da parte di

Gutemberg. Esso riprendeva il carattere scrittorio più leggibile che fosse mai stato prodotto: la

carolina, così chiamata poiché fu un tipo di scrittura facile da leggere e soprattutto da scrivere, che

venne commissionato da Carlo Magno. Questa scrittura è ancora oggi utilizzata nel font “Times

New Roman”.

Con l’invenzione dei computer, il bisogno di nuovi font di scrittura a macchina è aumentato e con

esso anche la nostra possibile scelta di caratteri tipografici. Al giorno d’oggi esistono centinaia di

tipi di font diversi, che crescono ogni giorno. Tutti questi font possono essere suddivisi in due

95 Font è un insieme di caratteri tipografici caratterizzati e accomunati da un certo stile grafico o intesi per svolgere una data funzione

grandi macro-categorie: i graziati (font che all’estremità possiedono allungamenti ortogonali detti

grazie) e i bastoni (font senza caratteri terminali).

Vista l’enorme quantità di font a disposizione degli utenti, è stato necessario creare delle regole

fisse per il loro uso e la loro combinazione tra di loro:

1. Non utilizzare più di due font (meglio utilizzare un font dotato di varianti al suo

interno).

2. L’Helvetica funziona sempre.

3. Mai stirare un font (l’effetto finale non sarà piacevole. Piuttosto utilizzare i font

appositi).

4. Attenzione ai testi bianchi su sfondo nero (per quanto possano andare di moda,

affaticano l’occhio del lettore e rendono più difficile leggere).

5. Attenzione agli effetti ottici, come i testi in grassetto o le cornici (a volte rendono

solamente illeggibile il testo).

C’è un’ultima cosa che è bene ricordare: esistono font disegnati per stampa (ripresi da quelli a

caratteri mobili) e font disegnati appositamente per il video.

IL LAYOUT

Il layout è la disposizione all’interno della pagina dei diversi elementi che compongono il progetto

visivo. In breve, è il rapporto tra le forme.

Quando si impaginano i diversi elementi all’interno del nostro foglio, bisogna tenere conto di

alcuni piccoli particolari: per esempio, il centro visivo non è il centro del foglio. Infatti, l’orizzonte

è leggermente più alto della media matematica.

Inoltre, tutto ciò che sta a sinistra è percepito come prima, mentre tutto ciò che sta a destra o va

verso destra è percepito come un poi. Questo modo di vedere le immagini, è ovviamente frutto

della cultura occidentale. Se si dovesse avere a che fare con la cultura orientale, invece, destra e

sinistra sarebbero invertite. Poiché le nuove generazioni sono avide consumatrici di manga cinesi e

giapponesi, i quali sono impaginati da destra a sinistra, la nostra visione secondo cui la sinistra

verrebbe prima ha perso di forza.

Sempre secondo una visione occidentale delle immagini, l’angolo in basso a sinistra è l’angolo

morto dell’immagine.

Un’immagine frontale, invece, specialmente se in primo piano, è celebrativa.

INFOGRAFICA E DATA96 VISUALIZATION

I due termini infografica97 e data visualization98 (da questo momento in poi data viz) non sono la

stessa cosa.

L’infografica lavora con una quantità di dati medio-bassa e ha un taglio informativo, una storia che

viene offerta agli utenti, più o meno codificata.

La data viz, invece, lavora con database di dati molto più grandi e quindi ha un paradigma di utilizzo

di tipo esplorativo. Restituisce un taglio a chi la legge, ma permette anche agli utenti di modificarne

i dati.

Le infografiche sono letture a scorrimento verticale, icone, testo e grafici semplici, mentre le data

viz utilizzano un dataset molto più ampio, che ha una fruizione prevalentemente digitale.

Le infografiche servono a tradurre visivamente il messaggio raccontato dai dati. Dovrebbero

essere usate solamente quando rappresentano lo strumento più efficace, perché sono elementi

piuttosto dispendiosi. Esse lavorano sul secondo livello di decodifica: cioè trasformano un

pacchetto di informazioni non strutturate in storie e le organizzano visivamente per proporle

all’utente.

Le infografiche si categorizzano secondo diversi criteri che possono essere riassunto nell’acronimo

LATCH: Location, Alphabet, Time, Category, Hierarchy.

Di questi cinque criteri, quello alfabetico è il più raro e non verrà quindi analizzato in questo

lavoro.

1. LOCATION: organizzare gli elementi nello spazio. Per esempio possiamo citare le

mappe, più o meno semplici da interpretare.

2. TIME: organizzare i dati nel tempo. Per esempio le timelines.

3. CATEGORY: organizzare gli elementi in categorie che sono significanti ma arbitrarie se

non contestualizzate.

4. HIERARCHY: organizzare gli elementi in ordine di priorità, individuandone le

classificazioni verticali.

97Infografica: è data da un insieme di informazioni che vengono proiettate in forma più grafico-visiva che testuale. 98Data visualization: è il termine generale che descrive i tentativi di aiutare le persone a capire il significato dei dati attraverso un contesto visivo.

Fig.3: esempio di infografica

Ma in che modo le aziende possono utilizzare le infografiche e le data viz?

Le data viz sono più utili per uno studio “dietro le quinte”, all’interno di un’azienda magari, mentre

per le conferenze destinate a un pubblico più o meno esperto, sono più utili le infografiche.

Per fare un esempio pratico, le bollette sono delle infografiche.

Come si costruisce una buona infografica?

Il processo di produzione di una buona infografica si divide in tre diversi passaggi:

1. Definire gli obiettivi: a partire dai numeri bisogna disegnare ciò che essi raccontano e

ciò che noi vogliamo raccontare.

2. Identificare il pubblico e il contesto: è importante sapere a chi ci stiamo rivolgendo. È

differente un’infografica per uso interno o esterno. Bisogna tenere conto anche di quanto

dobbiamo spiegare il tema. Esiste uno strumento detto la “ruota della visualizzazione” per

capire come fare una buona infografica. È importante anche inserire delle decorazione per

l’infografica. La prima infografica è considerata quella del 1869 di Charles Minard e riguarda

la campagna di Russia di Napoleone.

3. Scegliere il tipo di grafico: formfollowsfunction.

Oltre a questi tre passaggi, però, esistono anche cinque errori che devono essere

assolutamente evitati:

1. Sbagliare l’obiettivo: creare un’infografica tanto per farla, oppure crearne uno che non

ha senso.

2. Misleadinggraph : sono grafici percettivamente ingannevoli, tipo il grafico 3D. Non tutto

deve essere percettivamente accurato, perché dipende dal nostro obiettivo finale

3. Legenda imprecisa: non c’è niente di più fastidioso di una legenda che non corrisponde

al grafico.

4. Chart junk: tutto ciò che è inutile ma è presente nell’infografica.

5. L’infografica NON è fine a se stessa!

Ora che siamo arrivati in fondo a questa breve introduzione sul visual design, prima di concludere è

utile accennare brevemente ai tools che si possono usare per il lavoro. Essi si dividono in tre

categorie – free, freemium, premium – e nel mondo sempre in movimento della rete, passano

dall’una all’altra categoria con molta facilità.

Gli strumenti utilizzabili sono moltissimi e servono a aiutarci a fare, o fare direttamente al nostro

posto, tutto il lavoro di visual design. Eccone alcuni: Ease.ly – Canva – Data wrapper – Infrogr.am

(interfaccia semplice e molto funzionale) – Silk (crea dei siti attraverso cui modellare i dati) –

Tableau Public (software gratuito, molto complesso ma remunerativo) – RAW (strumento

progettato da grafici per grafici; permette di creare grafici non convenzionali) + Adobe Illustrator.

BIBLIOGRAFIA

Drucker, Johanna and McVarish, Emily, “Graphic Design History: A critical

Guide”. PearsonEducation, 2009

Jann Lawrence Pollard, Jerry James Little, “Creative Computer Tools for Artists: Using Software

to DevelopDrawings and Paintings” Watson-Guptill, 2001.

practicaltypography.com/

lucabarcellona.com/

IL CONSUMO FRA DIGITALE ED

ESPERIENZIALE

Scritto da Chiara Carlini, tratto dalla lezione di Stefano Pace

Offrire al consumatore contemporaneo un’esperienza emozionante, innovativa e memorabile, che

entri a far parte del suo vissuto: questo l’obiettivo del marketing esperienziale. L’azienda si fa

“regista di esperienze”, e il cliente diventa un consum-attore che, coinvolto in un vero e proprio

percorso sensoriale, contribuisce alla co-creazione della brand experience.

Nella società contemporanea, l’esperienza di consumo è diventata una parte imprescindibile del

vissuto dell’individuo, tanto a livello personale quanto a livello sociale. Intercettare i bisogni e le

esigenze del consumatore comporta dunque per le imprese un ripensamento delle strategie di

comunicazione in un’ottica di marketing esperienziale99, vale a dire incentrato sull’ideazione di

attività di brand engagement talmente coinvolgenti, stimolanti e spettacolari da rimanere impresse

nella memoria dell’utente e da entrare a far parte del suo vissuto.

Fig1:l’experience è l’obiettivo del marketing esperienziale

LO SVILUPPO DEL MARKETING ESPERIENZIALE

L’evoluzione del marketing verso l’approccio esperienziale è andata di pari passo con quella dei

prodotti offerti sul mercato: dalle commodities delle origini dell’industria, si è passati a beni e servizi

sempre più diversificati non solo in base alle specifiche tecniche e funzionali, ma anche al brand di

99Bernd Herbert Schmitt, professore della Columbia Business School, è considerato il padre di tale approccio,

teorizzato in Experiential marketing: How to getcustomers to sense, feel, think, act and relate to your company and brands , New York, The Free Press, 1999.

appartenenza, fino ad arrivare all’economia dell’uberizzazione100, in cui centrale è lo scambio di

prestazioni on demand. Nella fase attuale, il consumatore è talmente evoluto che non si accontenta

di godere di un servizio, ma desidera vivere un’esperienza. Se da un lato si ha la tendenza ad

attribuire a quest’esperienza un valore di straordinarietà (si pensi, ad esempio, al successo di

attività quali il climbingoilriver rafting), dall’altro sempre più consumatori dimostrano di apprezzare

anche il valore di esperienze più ordinarie e legate al vissuto quotidiano, come il semplice meditare

in un bosco, o lo scegliere un abito in boutique.

Una case history di brand experienceche valorizza proprio l’esperienza abituale è la campagna di

comunicazione ideata da Guinness in occasione della festa di San Patrizio101: il brand invita il

consumatore a replicare a casa propria il tradizionale rituale che nei pub viene “officiato” dal

barista che dopo aver versato nell’apposito bicchiere la Guinnessattende che si formi la schiuma

cremosa che ne costituisce un vero e proprio tratto distintivo. Come recita il claim “Goodthings

come to thosewhowait”, si tratta di un rituale che richiede pazienza, ma ripaga con un’esperienza

sensoriale ed emotiva unica.

Progetti esperienziali di questo tipo si possono impostare su prodotti e servizi di diversa natura,

ferma restando la necessità di considerare tutti e quattro gli stadi successivi in cui si articola la

brand experience:

1. la pre-esperienza, cioè il momento in cui il consumatore inizia a pensare ead

immaginare l’esperienza di consumo;

2. l’esperienza di acquisto, vale a dire la fase in cui il consumatore si interfaccia con

l’azienda per acquisire il prodotto o l’accesso al servizio;

3. la core experience;

4. il ricordo, la memoria.

Una case history interessante di accompagnamento esperienziale ha per protagonista la

Cooperativa edilizia di abitazione “Andria”102di Correggio (RE) e il suo progetto di costruzione del

quartiere Lamizzo a Lemizzone, frazione del paese. La cooperativa ha chiesto allo scrittore

emiliano Giuseppe Pederiali di inventarsi la storia, illustrata da Giulio Taparelli, del re longobardo

Lamizzo103, dal quale deriverebbe il nome della località. Intrecciando il tema dell’abitare con la

letteratura, l’arte e la poesia, l’approccio esperienziale attuato si è rivelato vincente tanto dal

punto di vista del rapporto personale con il cliente, rassicurato dal linguaggio onirico delle fiabe in

un momento delicato come quello dell’acquisto dell’abitazione, quanto da quello del rafforzamento

del legame con il territorio, grazie al richiamo alla storia e alla cultura locali.

I PARADIGMI DI RIFERIMENTO: IL MODELLO STATUNITENSE E IL MODELLO

EUROPEO

100Uberizzazione: passaggio da servizi e prestazioni lavorative di tipo continuativo, caratteristici dell’economia

tradizionale, ad attività che avvengono su richiesta del consumatore o cliente, su imitazione del modello della multinazionale Uber. 101 https://www.guinness.com/en/st-patricks-day/ 102 http://www.andria.it/dicono-di-noi/istituzioni/ 103 http://ricerca.gelocal.it/gazzettadireggio/archivio/gazzettadireggio/2005/06/24/EP2PO_EP204.html

Secondo il modello statunitense teorizzato da Pine e Gilmore (1999), per far sì che il consumatore

viva una vera e propria immersione nell’esperienza, occorre creare un contesto:

1. tematizzato, vale a dire concepito in modo tale che tutti gli elementi costitutivi

rimandino ad un unico concept; nel caso, ad esempio, per la Disney, il tema è

l’intrattenimento dell’intera famiglia;

2. enclavizzato: entro i suoi confini, il consumatore deve sentirsi in una sorta di mondo

parallelo, un universo a sé stante che ruota attorno al tema prescelto; si pensi, ad

esempio, agli spazi espositivi progettati dai vari brand durante la Design Week di

Milano;

3. messo in sicurezza: durante la permanenza nello spazio esperienziale, la persona non

deve mai avvertire una sensazione di pericolo, o percepire una sorta di“ansia da

surrealtà”.

Un esempio di come questo modello possa essere applicato agli spazi è l’ESPN Zone104di Chicago.

Si tratta di uno spazio disneyano concepito per riprodurre in un ambiente pubblico l’esperienza

casalinga tipica del couch potato americano, ovvero il guardare in TV per ore intere partite di

football, baseball, basket ecc. Le indagini etnografiche effettuate sui frequentatori dell’ESPN hanno

dimostrato che molti utenti fruiscono degli spazi in maniera “trasgressiva” rispetto al percorso

esperienziale originariamente pensato dal brand: ad esempio, nel gioco del tiro a segno, alcuni

fingono di sparare contro i propri amici; oppure, le persone che si siedono nella big screen room

non si limitano a guardare e commentare le partite, ma si divertono anche a scommettere sui

risultati.

Il paradigma di matrice europea si basa sul modello dell’appropriazione dell’esperienza elaborato

da Bernard Cova, Professore di Marketing alla Kedge Business School di Marsiglia e Visiting

Professor all’Università Bocconi di Milano, e da Antonella Carù, Docente Ordinario di Marketing

all’Università Bocconi di Milano.

Tale modello prevede tre fasi, che non sono lineari, bensì tendono a ripetersi:

1. la fase della nidificazione/nesting105, durante la quale il consumatore, all’interno di

uno spazio esperienziale, tende in prima istanza ad identificare elementi, simboli o

oggetti che risultano familiari;

2. la fase dell’esplorazione/exploration106, durante la quale il consumatore allarga lo

sguardo per verificare se l’elemento percepito come familiare è presente anche in altri

punti dell’esperienza;

3. la fase della marcatura/signature107, durante la quale il consumatore associa un suo

personale significato all’esperienza che sta vivendo, e in tal modo se ne appropria.

104https://disneyland.disney.go.com/dining/downtown-disney-district/espn-zone-restaurant/ 105Nidificazione:processo che indica l’identificazione da parte del consumatore di elementi già noti e familiari all’interno di un nuovo contesto esperienziale. 106Esplorazione:processo che descrive il progressivo spostamento del consumatore dal “nido”, ovvero da elementi che risultano già familiari, verso il territorio circostante, rappresentato da prodotti e attività nuove.

I VANTAGGI DI UN APPROCCIO INTEGRATO

Una case history di marketing esperienziale in cui si è cercato di integrare il modello americano con

quello europeo è la campagna di comunicazione ideata per il BNP ParibasMasters108 di tennis.

L’obiettivo perseguito era in questo caso triplice: essere innovativi rispetto al classico protocollo

wimbledoniano di partita di tennis; aumentare l’affluenza di pubblico; attrarre giocatori di livello.

Per raggiungerlo, il management ha scelto di puntare sia sull’estensione orizzontale dalla core

experience del torneo di tennis, aggiungendo elementi di entertainment quali concerti e spettacoli

pre-partita, sia sull’intensificazione dell’esperienza stessa di partita, fornendo in tempo reale su

maxi-schermi dati di approfondimento sui giocatori, e introducendo l’innovativo sistema di moviola

dell’Hawk-Eye. Questo device tecnologico si è rivelato essere anche un elemento di

intrattenimento, perché il decretare se la palla fosse in o out ha stimolato la discussione e il

dibattito tra gli spettatori, aumentando di fatto il loro coinvolgimento e la loro partecipazione.

Fig. 2: una immagine del BNP ParibasMasters di tennis

In conclusione, le case histories prese in esame corroborano la tesi secondo la quale la scelta

dell’approccio esperienziale da parte di un’azienda costituisce solo una parte della brand experience

effettiva. Affinché si possa concretamente parlare di marketing esperienziale, alla creazione di un

contesto tematizzato-enclavizzato-securizzato deve seguire un’effettiva appropriazione

dell’esperienza da parte del cliente, che è libero di deviare dal percorso originariamente ipotizzato

per lui dal brand. Configurandosi come vissuto soggettivo, la brand experience può essere virata in

moltissimi modi, perché in realtà è co-creata da coloro che vi partecipano. Sta al brand osservare

con attenzione come avviene questo processo di appropriazione dell’esperienza da parte del

107Marcatura: processo che consiste nell’attribuzione da parte del consumatore di un significato soggettivo

all’esperienza che sta vivendo 108 https://www.bnpparibasmasters.com/fr

consumatore, in modo tale da approfondire, esaltare ed incentivare gli aspetti che si sono di fatto

rivelati più efficaci nel favorire il suo coinvolgimento sensoriale ed emotivo.

BIBLIOGRAFIA

Carù A., Cova B., “Esperienza di consumo e marketing esperienziale: radici diverse e convergenze

possibili”, in Micro e Macro Marketing, n. 2, agosto 2003.

Carù A., Cova B., Pace S., “Project Success: Lessons from the Andria Case”, in European

Management Journal, vol. 22, n. 5, October 2004.

Carù A., Cova B., “Expériences de consommation et marketing expérientiel”, in RevueFrançaise de

gestion, n. 162, pp. 99-113, 2006.

Carù A., Cova B., Consuming Experience, Routledge, Oxon, 2007.

Carù A., Cova B., Pace S., “Combining Qualitative Methods in Practice: A contextualized account

of the evolution of consumer studies”, in Management Decision, Vol. 52, Issue 4, 777-793, 2014.

Pine B. J. II, Gilmore J. H., The Experience Economy, Harvard Business School Press, Boston, MA,

1999.

CREATIVITÀ E NUOVE FORME DI

COMUNICAZIONE PUBBLICITARIA

CROSSMEDIALE

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Paolo Iabichino

DALLE 4P ALLE 4E

In un’epoca di grandi e costanti trasformazioni, in cui il marketing è sempre più orientato al

consumatore, è necessario partire da un nuovo paradigma sul quale improntare la propria

strategia. Proprio in quest’ottica Brian Fetherstonhaugh, presidente e Ceo di Ogilvy& Mather, nel

2009 avanzò la proposta di trasformare le tradizionali 4P fissate da Philip Kotler, vere e proprie

pietre angolari del marketing, nelle 4E, una versione moderna e più in sintonia con le grandi novità

degli ultimi tempi.

Dal prodotto all’esperienza: secondo questa teoria “rivoluzionaria” la P di

productdiventa la E di experience, che si può declinare anche in entertainment e/o

engagement. Più che puntare sul prodotto in sé e sulle sue caratteristiche, per conquistare il

consumatore è fondamentale l’esperienza di marca costruita attorno al prodotto stesso,

che deve differenziarsi da quelle proposte dai competitor. Si può quindi pensare a un luogo

d’acquisto che susciti sensazioni piacevoli, oppure a un packaging particolare o a

un’ambientazione unica e indimenticabile. E se questa esperienza diventa coinvolgente a tal

punto da creare un legame duraturo, la marca si eleva a love-mark, in grado di costruire una

relazione d’amore con i consumatori, che diventano super-consumers, sentendo a tal punto

il brand vibrare dentro di sé da aderirvi totalmente, senza alcuna riserva. Le costruzioni

narrative create attorno alla marca si caricano di significati valoriali che “risuonano” nei

consumatori, i quali facendo da cassa di risonanza diffondono il messaggio che il brand

intende veicolare.

Dal prezzo allo scambio: la P di pricediventa E di exchange: se l’esperienza creata

attorno al prodotto assume un ruolo sempre più centrale, il prodotto si carica di una serie

di valori intangibili e il prezzo rappresenta anche il portato valoriale, diventando così uno

scambio di valore. Da qui una considerazione: i consumatori comprano, gli individui

scelgono. Per proteggersi da un mercato iper-competitivo che sta scardinando tutte le

logiche date per scontate, bisogna attrezzarsi con un nuovo concept, favorendo uno

scambio, non il semplice acquisto, perché nel momento in cui l’acquisto diventa una scelta

consapevole con il consumatore si instaura un legame che dura a lungo. Così come gli

attori su un palcoscenico cercano gli applausi, le marche devono cercare attenzione e

consensi dal loro pubblico, perché il consenso influisce sulla reputazione del brand e la

reputazione a sua volta influisce sul profitto.

Dal luogo d’acquisto all’ovunque: la P di placediventa E di everyplace. Mentre un tempo

lo store fisico era il luogo per eccellenza in cui veniva effettuato l’acquisto, oggi un

prodotto o un servizio possono essere venduti virtualmente ovunque e sono i

consumatori che creano i propri percorsi d’acquisto. Chi si occupa di marketing deve

quindi necessariamente comprendere l’intera gamma dei percorsi possibili per poter

intercettare le persone cogliendo ogni occasione di contatto, escogitando la strategia

migliore per ogni touch-point. Bisogna saper catturare l’attenzione dei consumatori ovunque

essi si trovino, everyplace appunto.

Dalla promozione all’evangelizzazione: La P di promotion viene superata dalla E

di evangelism. Una buona promozione, infatti, attraverso una comunicazione

creativa ed efficace, ora non è più sufficiente, in quanto si sta assistendo a un

nuovo fenomeno, quello dell’evangelizzazione: quando un brand regala

un’esperienza davvero stimolante e unica per i consumatori, questi tenderanno a

condividere il proprio entusiasmo con altri, attraverso il classico e sempre vincente

passaparola, che con i social media ha un effetto di gran lunga amplificato. Per poter fare in

modo che i propri consumatori diventino degli “evangelisti” è però necessario puntare su

contenuti che suscitino sensazioni forti. Ogni marchio dovrebbe rappresentare un tema

universale, duraturo e condiviso da molti, che sappia scatenare emozioni forti, a tal punto

che diventa inevitabile, per gli “evangelisti”, farsi portavoce del messaggio veicolato dalla

marca e diffonderlo per annettere nuovi “fedeli”.

Fig.1:i brand evangelist trasmettono, come il polline di un fiore, il messaggio del brand nel mondo

DAL CONSUMATORE DA “COLPIRE” AL CONSUMATORE DA “FAR

INNAMORARE”

I cambiamenti repentini degli ultimi tempi impongono la necessità di cambiare il modo di

rapportarsi al consumatore, verso il quale bisogna assumere un atteggiamento aperto e non di

chiusura. Dal concetto di trade-mark, che rimanda a un controllo totale dell’azienda sul proprio

brand, bisogna passare a quello di love-mark, che implica una nuova modalità di relazionarsi al

pubblico, che può appropriarsi della marca e riconcepirla in maniera personale. Le aziende che

vogliono davvero rimanere impresse nella mente, e nel cuore, del proprio target, non possono più

fare a meno della sua opinione: riprendendo una frase di David Ogilvy, fondatore dell’agenzia

Ogilvy& Mather, “Il consumatore non è uno stupido, il consumatore è tua moglie”. Non si può più

prescindere dal parere dei consumatori, da quello che pensano e dicono. È fondamentale, per le

aziende, rinunciare alla volontà di auto-celebrarsi e puntare su una nuova idea di comunicazione

che colpisca il pubblico, lo stupisca, lo faccia rimanere a bocca aperta. Per fare questo bisogna

costruire “calamite narrative”, che, appunto, attirino l’attenzione del consumatore e lo attraggano.

In quest’ottica non è nemmeno più tanto corretto utilizzare il termine target per definire i

consumatori, in quanto rimanda a una semantica belligerante, a tattiche volte a “colpire” qualcuno.

È necessario invece utilizzare una semantica affettiva, che si fondi sulla fedeltà e sul sentimento, ed

escogitare soluzioni narrative talmente emozionanti e coinvolgenti da “far innamorare” i propri

consumatori e tenerli legati a sé.

DAL MARKETING TRADIZIONALE AL CONVERSATIONAL MARKETING

Cambiare modo di pensare e di conseguenza modificare il proprio approccio strategico costringe a

rivedere il concetto di marketing, che ha subito un’evoluzione. Sono cambiate infatti le dinamiche

con cui la marca si rapporta con il consumatore: dalla logica push verso i target, tipica del

marketing tradizionale, si è passati al dialogue marketing, che si basa su un rapporto bilaterale tra

marca e target, sulla costruzione di un dialogo. Ma negli ultimi anni c’è stato un passaggio ulteriore:

dal dialogue marketing, che presuppone due attori nel processo di comunicazione, si è passati al

conversational marketing: la marca si rapporta cioè con più interlocutori, che a loro volta dialogano

tra di loro. I principi su cui si basa questo nuovo modo di concepire il marketing sono stati ben

evidenziati nelle 95 tesi (recentemente diventate 121) del “Cluetrain Manifesto” nel quale, tra gli

altri contenuti illuminanti, si afferma che i mercati sono conversazioni e che i consumatori sono

persone. Nella stessa direzione va il concetto di invertising, di cui parla Paolo Iabichino, chief

creative officer di Ogilvy& Mather nell’omonimo libro, che si contrappone al tradizionale

advertising: dalle logiche push si passa alle logiche pull, con le quali si attrae il pubblico a sé

attraverso una comunicazione pubblicitaria che sappia stupirlo.

DAL POSIZIONAMENTO DI MARCA AL PRENDERE POSIZIONE

Tornando al “Cluetrain Manifesto”, una delle tesi introduce un altro concetto fondamentale: le

aziende che vogliono stare sul mercato e posizionarsi, devono imparare a prendere posizione e a

tenere ben impresso il “perché”, ovvero le motivazioni che sottendono le loro azioni, prima

ancora del “come” o del “cosa”. Riposizionarsi, nel senso di “prendere posizione”, richiede

coraggio, perché significa schierarsi, polarizzare, portare avanti la propria convinzione, esporsi al

rischio di essere criticati, nella consapevolezza che qualsiasi presa di posizione comporta una

contro-narrazione, un pensiero contrario. L’importante è che non superi il livello di guardia, ma

possa essere tenuto sotto controllo.

BIG IDEAL: LA MARCA CREDE CHE IL MONDO SAREBBE UN POSTO

MIGLIORE SE…

Il concetto di big ideal inteso come il grande obiettivo che il marchio si pone, è all’intersezione tra

la tensione culturale, ovvero un tema, una tendenza, un fenomeno che interessa alle persone e a

cui si sentono legate, e il brand’s best-self, ovvero ciò per cui la marca potrebbe diventare famosa.

Occupandosi di un’istanza legata al suo ambito di pertinenza, la marca deve riuscire a impattare

sull’esistere delle persone, a smuovere qualcosa dentro di loro, i consumatori devono sentire la

marca “risuonare”, come se facesse vibrare le loro corde interiori. Per parafrasare il concetto di

big idealsi può considerare la frase “La marca crede che il mondo sarebbe un posto migliore se…”.

Un esempio calzante in questo senso è la campagna “Real Beauty” di Dove, azienda globalmente

conosciuta per i suoi prodotti di bellezza semplici e adatti a tutte le donne. Tutto è partito da una

ricerca che rivelava che solo il 2% delle donne crede di essere bella e che il 98% vorrebbe

cambiare una parte del proprio corpo. Dove ha preso posizione su un tema molto sentito, quello

dell’autostima femminile, e ha lanciato una campagna volta a valorizzare la bellezza vera di ogni

donna, che ha conquistato il pubblico. Ha individuato un tema universale, l’ha portato all'attenzione

di tutti e l’ha legato al proprio marchio: per Dove il mondo sarebbe un posto migliore se le donne

si sentissero belle così come sono. Partendo dal cliché della bellezza veicolato dal mondo della

moda, del cinema e della pubblicità, ha preso posizione per difendere la bellezza autentica, reale,

della donna. E proprio come un movimento politico ha creato il “manifesto della bellezza

autentica”, con una serie di call to actionfinalizzate a invogliare gli utenti, proprio come i militanti di

un partito, a combattere per il proprio ideale. E, mettendo al centro l’imperfezione attraverso un

meccanismo narrativo che rispetta il patto di verosimiglianza, ha fatto in modo che la real beauty

entrasse nell’immaginario collettivo.

LA FORMULA MAGICA PER LA CREATIVITÀ PERFETTA

Maurice Lévy, presidente e Ceo del gruppo Publicis, ha ammesso che fare il creativo

pubblicitario è diventato sempre più difficile: bisogna realizzare nuovi contenuti, trovare format

originali, escogitare un approccio narrativo che lasci il pubblico senza parole. Ma una soluzione c’è,

e consiste in una formula matematica, una sorta di prova del nove che, se soddisfatta, garantisce

una comunicazione efficace. Ecco l’equazione per una creatività perfetta: Iq + Eq +Tq + Bq = Qc. Il

quoziente creativo (Qc) deriva dalla soma di quattro variabili: il quoziente intellettivo del pubblico

(Iq), che è dotato di spirito critico, il quoziente emozionale (Eq), ossia la capacità di suscitare

emozioni (far ridere, divertire, commuovere, ma anche riflettere) e il quoziente tecnologico (Tq),

ovvero l’importanza dei nuovi strumenti tecnologici per favorire la diffusione del messaggio e le

condivisioni. Infine, la variabile tempo (Bq), ovvero bloodyquick: il tutto deve essere

maledettamente veloce, perché il tempo è diventato sempre più prezioso e un valore

fondamentale è la tempestività. Il primo elemento sintetizza lo spostamento di prospettiva della

nuova comunicazione, che prende in considerazione non solo il quoziente intellettivo di chi crea,

ma anche delle persone a cui il messaggio è rivolto. Ma affinché una comunicazione sia davvero

efficace, è necessario aggiungere il quoziente emozionale, che riesca a coinvolgere i fruitori

generando empatia e lavorando su archetipi anziché su stereotipi. Di primaria importanza anche le

nuove tecnologie, che permettono di produrre contenuti da diffondere su tutti i mezzi di

comunicazione: ormai non ha senso ragionare in termini di offline e online, in quanto si tratta di

una dicotomia superata dalla tendenza che si sta imponendo, ovvero quella di una costante e

progressiva integrazione tra tutti i media. Ultimo “ingrediente” da aggiungere alla pozione magica è

il tempo: il contenuto deve essere maledettamente veloce e immediato, essere proposto nel modo

giusto e al momento giusto. Tutte queste variabili, ben miscelate tra loro, vanno a costituire il

quoziente creativo di cui i professionisti della comunicazione oggi devono necessariamente essere

dotati per conquistare davvero il proprio pubblico.

BIBLIOGRAFIA

Carter D. P., The 4Ps are out, the 4Es are in, https://davidpaulcarter.com/2015/02/09/the-4ps-are-

out-the-4es-are-in/

Sorrentino P.,”Gli aspetti irrilevanti”, Mondadori, Milano, 2016

Roberts K., “Lovemarks - Il futuro oltre i brands”, Mondadori, Milano, 2005

Boaretto A., Pini F.M., Noci G., “Open marketing. Strategie e strumenti di marketing multicanale”,

Etas Edizioni, Milano, 2009

De Martini A.,”La comunicazione people-oriented”, Guerini e Associati, Milano, 2008

Kotler P., Kartajaya H., Setiawan I., “Marketing 3.0”, Il sole 24 ore, Milano, 2010

Yoon E., “Superconsumers: A Simple, Speedy, and SustainablePath to SuperiorGrowth”,

HarvardBusinessReview Press, Britghton, MA, 2016

Locke C., Weinberger D., Searls D., “Cluetrain manifesto- The end of business asusual”, Basic

Books, New York, 2000

Iabichino P., “Invertising. Ovvero, se la pubblicità cambia il suo senso di marci”, Guerini e

Associati, Milano, 2009

Fornaro C., Cennamo D., “Professione Brand Reporter - Brand journalism e nuovo storytelling

nell’era digitale”, Hoepli, Milano, 2017

Sinek S., “Start with Why - How greatleadersinspireeveryone to take action”, Penguin Books Ltd,

London, 2009

Cristoforetti G., Lodi G., H2H –“Human Revolution - Quarta rivoluzione industriale e innovazione

sociale”, Imprimatur editore, Reggio Emilia, 2017

Kramer B., “ThereIs No B2B or B2c: It’s Human to Human #H2h”, Purematter, San Jose, CA,

2014

Sunstein C. R., Thaler R. H., “Nudge. La spinta gentile - La nuova strategia per migliorare le nostre

decisioni su denaro, salute, felicità”, Feltrinelli, Milano, 2009

Iabichino P., Gnasso S., “Existential Marketing: I consumatori comprano - Gli individui scelgono”,

Hoepli, Milano, 2014

Morici G., “Fare marketing rimanendo brave persone- Etica e poetica del mestiere più discusso del

mondo”, Feltrinelli, Milano, 2014

S E Z I O N E M E D I A

«Il futuro dell’online è offline»

Cyriac Roeding

INDICE

I - MOBILE MEDIA MARKETING

Scritto da Roberto Balestrero, tratto dalla lezione di Gianluca Diegoli…………………….pag. 5

2 - I DIVERSI CANALI SOCIAL: CARATTERISTICHE E LINGUAGGI

Scritto da Fabrizio D’Ippolito, tratto dalla lezione di Leonardo Bellini……………………. pag. 9

3 - LE RICERCHE SUI MEDIA

Scritto da Emanuela Bregni, tratto dalla lezione di Silvio Siliprandi………………………… ..pag. 21

4 - IL MEDIA PLANNING INTEGRATO

Scritto da M. Gabriella Metelka, tratto dalla lezione di Luca Marinaro………………………pag. 29

5 - PROGRAMMATIC BUYING AND CREATIVE

Scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Luca Brighenti…………………………………pag. 35

6 - SOCIAL MEDIA ADVERTISING

Scritto da Emanuela Bregni, tratto dalla lezione di Leonardo Bellini………………………... .pag. 41

7 - GOOGLE E IL CONSUMATORE SEMPRE CONNESSO IN MULTISCREEN

Scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Rossella Serra…………………………………pag. 47

8 - SITI WEB E PRINCIPI DI SEO

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Andrea Testa…………………………….. .pag. 51

MOBILE MEDIA MARKETING

Scritto da Roberto Balestrero, tratto dalla lezione di Gianluca Diegoli

I dispositivi mobile hanno rivoluzionato il nostro modo di comunicare, hanno incrementato la

nostra capacità di ricerca, la nostra acquisizione di informazioni dalla rete. Rispetto ad un pc sono

più personal, possono essere portati ovunque, danno accesso alla rete in modo semplice e veloce,

hanno sensori, foto e videocamere, hanno sistemi di geolocalizzazione, possono essere utilizzati

per pagare, sono più fruibili per tutto ciò che è social, dalle chat alle applicazioni ed infine sono più

semplici da utilizzare.

Una buona parte del customer journey109 è trascorsa via mobile, su smartphone soprattutto. Per

questo motivo la comunicazione aziendale non può prescindere dallo sfruttamento delle

piattaforme fruibili on the go. Farlo è complicato e, come spesso accade, le aziende investono

risorse nella creazione di un’app110, replicandovi il proprio sito internet, sperando che gli utenti

scarichino ed utilizzino l’applicazione. Pensare “creo un’app e qualcuno la scaricherà" è l’errore più

grave ma anche il più comune. Il mercato delle applicazioni è molto più competitivo di quello che si

è creato anni fa con i siti web: nel nostro smartphone lo spazio è limitato e prezioso, scegliamo

con attenzione quali app scaricare, quali tenere, quali eliminare. I brand devono cercare di creare

app utili, fondamentali, abitudinarie. Il traguardo perfetto è di avere un’app che si ricolleghi ad un

bisogno fondamentale: il bisogno di comunicare o di acquistare ad esempio.

Fig1: Il 10% delle app degli store online rappresenta il 90% dei download totali.

109Customer journey si traduce in italiano come “viaggio del Cliente” e con questo termine si intende il percorso che ciascun consumatore intraprende dal primo contatto con l’azienda fino ad arrivare alla decisione di acquisto, che può

portare in seguito all’inizio e al consolidamento della relazione tra cliente e brand. La mappatura del percorso del clienteè diventata una metodologia molto efficace per offrire una customer experience positiva, tracciando e presidiando tutti i possibili touch point che il cliente potrebbe avere con l’azienda. Naturalmente conoscere il

customer journey dei propri clienti è solo il punto di partenza. La vera sfida consiste nel presidiare e ottimizzare tutti i punti di contatto, ma occorrono processi, strategie e strumenti idonei che consentano di seguire l’articolato viaggio del consumatore. 110In informatica, un'applicazione mobile (nota anche con l'abbreviazione app) è un'applicazione software dedicata ai dispositivi di tipo mobile, quali smartphone o tablet.

L’esplosione mobile ha portato con sé cambiamenti importanti sulle tipologie di contenuto da

comunicare. Via mobile il tasso di attenzione verso foto e video è di gran lunga maggiore rispetto a

quello nei confronti di un testo. I consumatori leggono molto meno, un articolo che richiede più di

5 minuti di lettura è troppo lungo per un’esperienza via mobile. Inoltre gli stimoli che gli utenti

ricevono nella loro home di Facebook o di altri social networks sono moltissimi, ma ne vengono

approfonditi pochi. Attraverso i dispositivi mobile siamo entrati nell’era della competizione

sull’attenzione delle persone, molto difficile da ottenere in un bacino così colmo di stimoli, di

informazioni, di visual, di fonti quale è il mondo mobile. Inoltre il mobile ha aiutato lo sviluppo di

nuovi modelli di business: la gig economy111 è esplosa grazie al mobile, il modello di Amazon Prime

Now, quello di Uber o di Airbnb.

EVERYTHING IS GOING MOBILE

Trascorriamo in media 120 minuti al giorno su mobile, un device che rappresenta ormai la nuova

televisione: è in grado di raggiungere una quota di utenti che internet non ha mai raggiunto su

desktop.

Il tempo impegato mobile è impiegato per l’85% su sole 5 applicazioni: Facebook, Whatsapp,

Instagram, Messenger, Google.

Fig2: Tech is going personal: la tecnologia diventa “intima”, abbiamo spazio limitato e la scelta di come riempirlo si

basa su aspetti intimi che si basano su bisogni o interessi.

Il traffico mobile ha superato quello desktop, più dell’80% del traffico sui social networks è mobile,

il 99% del traffico del settore messaging è mobile, il 30% degli acquisti online viene fatto su

dispositivi mobili. Questi dati ci dimostrano il profondo cambiamento degli ultimi anni e

l’importanza per le aziende di poter contare su siti responsive, ovvero siti che siano in grado di

adattarsi alle esperienze mobile, compatibili con differenti tipologie di schermo, differenze di pixel,

differenze di visione verticale o orizzontale. Inoltre, smartphone e tablets pongono vincoli di

progettazione: si deve cercare di avere websites e app finger-friendly. La pazienza degli utenti è

proporzionale alle dimensioni dello schermo, più è piccolo meno pazienza si ha nel fruire dei

contenuti visualizzati. Per questo motivo gli aspetti principali di ciò che l’utente si trova di fronte

111Nella gig economy si lavora on demand, solo quando c’è la necessità delle nostre competenze e delle nostre

abilità. si veda per esempio aziende come Foodora, Deliveroo etcc.

devono essere intuitivi, veloci e raggiungibili con le dita. L’unico aspetto che non è ancora

propriamente esploso sono gli acquisti tramite smartphone o tablet, questo perché, ad esclusione

di alcune piattaforme che funzionano in maniera ottimale (Amazon su tutte112), la maggior parte dei

siti in cui è possibile acquistare richiede dati sensibili (dati della carta di credito ad esempio) ad

ogni acquisto. Questo genera una frizione con l’utente ed un calo di acquisti via mobile.

Per ottenere una strategia di successo in ambito mobile, occorre capire le abitudini dell’utente

nell’utilizzo della tecnologia portatile. È necessario capire le abitudini del proprio cliente mobile:

come vive? Come posso riuscire a migliorare anche solo qualche secondo della sua vita? Bisogna

pensare alla possibilità, che si tramuta in necessità, di entrare in contatto continuativo con i clienti.

Il modello della “user persona” è valido anche in ambito mobile ma con qualche peculiarità. Le

aziende devono individuare se le loro personas sono utenti esperti o “base” della tecnologia

mobile, per quali ragioni utilizzano i loro dispositivi mobili, per quanto tempo, con quale scopo,

con chi comunicano, quali altre app utilizzano. Le risposte a queste domande forniscono dati

essenziali per costruire ex novo le app oppure modificarle nel tempo e modificare di conseguenza

il nostro marketing. Occorre, inoltre, dare risposte alle cinque situazioni che lo smartphone crea:

la situazione di voler essere intrattenuti113, il voler sapere delle cose114, voglio andare da qualche

parte, voglio fare qualcosa, voglio comprare. Le app devono anche essere studiate a fondo a livello

tecnologico per evitare che consumino eccessivamente la batteria del dispositivo o che utilizzino

troppi “dati” di connessione. Applicazioni “pesanti” sotto questi due aspetti tendono ad essere

disinstallate in fretta dagli utenti.

Un trend in sviluppo nel settore mobile è quello delle chat. Queste interfacce conversazionali sono

lo strumento più utilizzato per comunicare, più vengono utilizzate più diventano familiari. Questa

familiarità aumenta la propensione a comunicare con i brand nello stesso modo in cui si comunica

con i propri contatti telefonici. Ne deriva l’importanza di inserire all’interno delle applicazioni la

possibilità di ricevere risposte via chat anche facendo uso di bot115. Con questi strumenti si

possono realizzare programmi di customer care116 più immediati e veloci nelle risposte (riducendo il

traffico sul call center), si possono fare attività di vendita specifica per il cliente, upselling o, in

alcuni casi, di fidelity del cliente.

Il settore mobile può accompagnare il retail: gli store, oggi, possono essere mobile-ready. Il mobile

può essere molto utile per trovare il negozio guidandoci all’indirizzo esatto, l’utente può essere

guidato anche nei prezzi, nelle promozioni. Alcune catene di supermercati hanno iniziato ad

utilizzare le loro applicazioni per indicare con certezza se un determinato prodotto richiesto dal

consumatore si trova nel negozio fisico oppure in un altro della catena, localizzandolo addirittura

all’interno dello stesso store. Questo per andare incontro alle sempre maggiori esigenze di

velocità negli acquisti. Inoltre il collegamento tra app e store fisico può contribuire a conoscere i

consumatori, siamo agli inizi ma, attraverso la rete wifi, si possono tracciare i percorsi dei clienti,

112 Amazon permette di salvare i dati del proprio profilo e di poterli utilizzare anche negli acquisti via mobile, comprese le credenziali della carta di credito. Acquistare un oggetto mentre si è seduti in metropolitana dovendo

inserire dati che difficilmente si ricordano (codice di sicurezza della carta, scadenza etcc) comporta una frizione per questo tipo di processo di acquisto. 113 Il 50% del tempo trascorso su mobile è trascorso su app di intrattenimento. 114 Vi rientra anche il momento decisionale del processo di acquisto. 115 Bot si intende un software che accede alla rete nello stesso modo in cui accederebbe un utente umano: accede alle pagine web, invia messaggi in una chat etcc. Programmi di questo tipo vengono utilizzati per vari e diversi compiti e

servizi che in genere risultano essere dispendiosi, gravosi o complessi per l’utente umano. 116 Customer cara sta per Assistenza alla clientela

vedere dove si soffermano maggiormente, da che cosa sono attratti, quali cambiamenti li

colpiscono. Queste informazioni possono poi essere riutilizzate per adattare meglio il negozio

fisico alle esigenze dei propri customers.

Preparare il lancio della propria applicazione è fondamentale; occorre partire con una landing

page117, materiali cartacei o una newsletter che informino gli utenti da uno a tre mesi prima del

lancio. Nell’ultimo mese occorre fissare una data di lancio effettiva e cominciare a suscitare

curiosità negli utenti con un teaser o strumenti simili. Un paio di settimane prima del lancio

occorre rilasciare l’app sullo store dei vari sistemi operativi nei quali si vuole operare e preparare

un team tecnico di supporto. A seguito del lancio si potranno verificare gli andamenti sia tecnici

che di utilizzo, download e commenti dell’applicazione rilasciata. Promuovere l’applicazione è

altrettanto importante per ottenere buoni risultati in ambito mobile. In aggiunta ai canali classici

sui quali operare con advertising (Social Networks, Google ad esempio), i canali proprietari del

brand possono aiutarci: email, sms, banner all’apertura del sito che invitano al download

dell’applicazione. Anche il settore retail, se presente per il brand in questione, può contribuire a

far conoscere la nuova applicazione con qr code, packaging, informative all’interno del punto

vendita. Nell’appstore occorre lavorare sull’ottimizzazione del nome dell’applicazione, sulla scelta

degli screenshots, sulle keywords, sull’icona, sulla categoria di appartenenza: l’obbiettivo è giungere

nella top 25 di una categoria.

Essere efficaci anche in ambito mobile non è affatto semplice, tuttavia, i dati dimostrano quanto

questo settore sia in fortissima espansione e sia ormai diventato parte integrante delle nostre

abitudini, delle nostre vite.

BIBLIOGRAFIA

Diegoli G., Brambilla M. “Mobile marketing, nuove relazioni nuovi clienti”, HOEPLI, 2016.

Mandelli A., Accoto C. “Social mobile marketing”, Egea, 2014.

Massarotto M. “Mobile marketing, riflessioni sul nuovo rapporto tra azienda e consumatore”,

Apogeo, 2013.

117Pagina web che l’utente raggiunge dopo aver cliccato un link o un adv.

I DIVERSI CANALI SOCIAL:

CARATTERISTICHE E LINGUAGGI

Scritto da Fabrizio D’Ippolito, tratto dalla lezione di Leonardo Bellini

«Se non si conoscono i piani dei signori vicini, non si possono stringere alleanze; se non si conosce

la conformazione di monti e foreste, paesaggi pericolosi e acquitrini, non si possono muovere

eserciti... Si rifletta con cura prima di muoversi; vince chi per primo conosce le strategie dirette e

indirette» (Sun – Tzu, 1997). Qualsiasi attività senza una precisa strategia elaborata a monte ha

molte più probabilità di fallire. Lo stesso vale per il content marketing se non rappresenta la

declinazione di una content strategy.

Fig1: è fondamentale avere una strategia

In questo capitolo vedremo dunque:

1. Come sviluppare una strategia editoriale per i principali social network;

2. Come pianificare e produrre un piano editoriale per i differenti social network;

3. Come scrivere contenuti che generano engagement sui social network (social content

creation);

4. Come reperire i contenuti per i social network (social content curation).

SOCIAL MEDIA CONTENT STRATEGY: UN MODELLO PROPOSTO DA

COSCHEDULE

Sviluppare e gestire un piano di social media marketing è come gestire una squadra sportiva:

Come nello sport c’è competizione (con le altre aziende/competitor e le altre squadre);

Richiede impegno e allenamento costante;

È un gioco di squadra con altri professionisti (il grafico, il web master, il video maker così

come il medico, il fisioterapista, il coach ecc.);

Raggiungere il successo passa attraverso la costruzione di una strategia (di social media

marketing e di gioco).

Occorre mettere insieme tanti mattoncini per raggiungere il risultato. Di seguito viene presentato

un modello di costruzione della strategia di social media content proposto da CoSchedule.

Innanzitutto bisogna sottolineare che è importante definire una strategia per i contenuti social per

una serie di ragioni: per risparmiare tempo; perché permette di capire cosa fare prima e cosa fare

dopo; perché aiuta a capire cosa funziona e cosa no; perché supporta in tutte le attività che hanno

a che vedere con i social media.

Il modello definisce 7 passi essenziali nella costruzione di una strategia di contenuti social:

1. Definizione degli obiettivi;

2. Social media audit;

3. Definizione target audience;

4. Analisi dei concorrenti;

5. Definizione del tono di voce del brand;

6. Costruzione della strategia di contenuti sui social media;

7. Misurazione dei risultati.

DEFINIZIONE DEGLI OBIETTIVI

Prima di tuffarsi nell’arena dei social media è fondamentale aver definito gli obiettivi e come si

intende raggiungerli. Tornerà utile in tutti i momenti critici e di smarrimento come bussola di

orientamento. Gli obiettivi della strategia dovranno essere S.M.A.R.T118e allineati agli obiettivi di

business aziendali.

118 S.M.A.R.T è l’acronimo di Specific, Measurable, Achievable, Realistic e Time-related. Nel dettaglio:

Specific (specifico): gli obiettivi devono rappresentare un qualcosa di definito e tangibile. Iniziare un

progetto di rinnovamento delle linee produttive, ad esempio, non è un input corretto come “abbassare i tempi di produzione del prodotto X”.

Ogni obiettivo di business si tradurrà in uno specifico obiettivo 'social':

Business objectives Social objectives

Incrementare le vendite Social lead generation, social commerce

Ridurre i costi produzione e distribuzione Social media collaboration

Aumentare il livello di soddisfazione del

cliente

Social customer engagement

Migliorare l’efficacia del customer care Social media customer care

Una volta definiti gli obiettivi di business e di social media è importante tradurli in obiettivi specifici

e precisare una deadline per ognuno di essi:

Goal Deadline

Raggiungere 100 nuovi Lead tramite

Linkedin

Entro 6 mesi

Incrementare il livellod i social

engagement del 30% su Facebook e

Instagram

Entro 3 mesi

Dirottare il 30% delle chiamate al call

center verso twitter

Entro 6 mesi

Aumentare il numero di citazioni e

sentimentindex del 20% sui canali social

Entro 3 mesi

SOCIAL MEDIA AUDIT

È importante registrare i canali social su cui il brand è presente e analizzarne il comportamento -

scarsa presenza, account abbandonati, account duplicati, basso livello di interazione–per apportare

successivamente le dovute modifiche e valutare quali canali eventualmente rimuovere o unificare.

In questa fase è fondamentale essere obiettivi ed onesti nella valutazione, evitando la tentazione di

essere presenti su tutti i social media solo perché sono di tendenza o perché rappresentano le

ultime novità. È consigliabile avere all’attivo un solo canale gestito con costanza e in maniera

corretta piuttosto che essere presenti su diversi canali in modo casuale e disordinato. Le domande

Measurable (misurabile): l’obiettivo deve essere esprimibile numericamente, ad esempio “riduzione del

15%”.

Achievable (attuabile): gli obiettivi devono essere coerenti e compatibili con contesto e risorse. Serve a

capire quali azioni possono concretizzare il mio obiettivo.

Realistic (realistico): individuare i margini di realizzazione di un progetto richiede capacità e intuito,

considerando ad esempio fattori interni, risorse, settore, congiunture o fattori esterni.

Time-related (in funzione del tempo): non esiste progetto che non sia pianificato, cioè che non abbia una

determinazione cronologica con relazioni tra le attività legate ad eventi inizio e fine.

da porsi per fare un check up dei canali sono: sto postando costantemente su quel canale? I

risultati modesti che sto ottenendo sono dovuti a una esecuzione scarsa? I miei concorrenti

stanno ottenendo successo su quel canale? Ho tempo da investire per gestire correttamente

questo canale? È importante, inoltre, analizzare le caratteristiche, i linguaggi e l’utenza di ogni

canale per paragonarli con gli obiettivi di business aziendali.

Ogni social network infatti ha delle specifiche caratteristiche:

Instagram è un social adatto a brand visuali che si presta benissimo a contenuti video e immagini e

non è molto adatto a dirottare traffico sul sito internet o blog;

Facebookpermette di veicolare traffico sul sito internet/blog, è adatto a contenuti di

intrattenimento e di informazione e si presta benissimo ad ospitare testi, immagini, video e link;

Twitter è un ottimo contenitore di contenuti con taglio istituzionale e di informazione attraverso

testi, immagini e video;

LinkedIn è un network professionale molto adatto a contenuti e relazioni di lavoro attraverso

testi, link e pulse;

Pinterest come Instagram è un social adatto per contenuti in forma di immagini, video e link e

viene spesso utilizzato come fonte di ispirazione di progetti;

Google+ non è definibile social network, ma un social layer che fa da collante tra più canali. Ha il

vantaggio di favorire un posizionamento sul lato seo Google, anche se non viene molto utilizzato,

nonostante i dati di possesso siano molto elevati perché viene aperto di default ad ogni utente che

effettua la registrazione a gmail; Google+ è adatto a contenuti sotto forma di link, immagini, video e

testuali.

Dopo aver fatto questa analisi è importante rispondere alle seguenti domande:

1. Quali tipologie di contenuti sto creando?

2. Quali contenuti mancano nella mia strategia?

3. Ho bisogno di risorse aggiuntive per creare o migliorare alcuni di questi contenuti?

DEFINIZIONE DELLA SOCIAL TARGET AUDIENCE

La fase numero tre consiste nella costruzione della social media persona di riferimento per la

nostra strategia, ovvero degli identikit dettagliati di personaggi finzionali che rappresentano i

pubblici di riferimento dell’azienda/brand. Il profilo di ciascuna Personas (Di Fraia 2015) ne

conterrà il nome, la foto, i tratti socio-demografici, la professione, gli obiettivi che si pone e le

sfide che deve affrontare per raggiungerli (a livello professionale e privato), i valori di riferimento,

la dieta mediale, i canali social utilizzati. Tutto ciò serve per comprendere e modellizzare i bisogni

e gli interessi dei pubblici di riferimento da nutrire di contenuti per farli avanzare nel customer

funnel.

I tools e gli strumenti che possono facilitare tali compiti sono Xtensio.com e MakeMyPersona.com

per la costruzione della personas, gli insight di Facebook, Google analytics e Twitter analytics per

l’identificazione della target audience.

È importante ricordare che anche le stesse personas non sono sempre le stesse. Noi infatti siamo

diversi in rapporto al tipo di relazione che abbiamo con una certa persona: ci comportiamo e ci

aspettiamo comportamenti diversi in base a quanto la conosciamo. Lo stesso principio vale per i

pubblici di riferimento in rapporto all’azienda/brand. I bisogni e le aspettative di chi ancora non

conosce il brand sono diversi da quelle dei clienti più fedeli. Ogni Personas andrà quindi

modellizzata in relazione alla fase del customer journey in cui si trova. Ecco allora che avremo una

marketing personas, una buyer o user personas e una fan personas.

ANALISI DELLA CONCORRENZA

Si effettuerà poi un’analisi della concorrenza. Si procederà a fare un inventario dei principali

competitor (ad esempio i primi dieci), analizzandone la presenza online sui rispettivi siti web e i fan

e i follower su ogni singolo social media, appuntando elementi utili nella costruzione della strategia.

Uno strumento di social analytics utile ad analizzare la concorrenza è Socialbakers.com.

Una volta effettuata l’analisi della concorrenza bisogna chiedersi cosa si può fare meglio – piano

editoriale, galleria di immagini, engagement con i clienti, o in maniera differente – video virali,

infografiche, success stories, whitepaper.

Come cercare i concorrenti su ogni canale?

Innanzitutto si farà una ricerca per settore di riferimento su ogni canale: se l’azienda opera nel

settore del marketing software si cercherà in ogni canale “marketing software”. In questo modo si

potranno scoprire anche aziende che non si conoscevano, anche se non tutte saranno di rilievo

rispetto al business di interesse. Allo stesso modo si farà una ricerca per parole chiave il più

pertinenti possibili per il business di riferimento su Google registrando tutti brand e le aziende che

compaiono nella prima pagina della serp. Dopodiché si passerà ad analizzare la presenza sui social

media dei concorrenti a livello di friend/follower, engagement (commenti, sentiment, shares etc.),

frequenza dei post, social in cui sono presenti, dove sono più bravi o meno bravi. A questo punto

si farà un paragone per capire cosa poter replicare – una tattica o un contenuto da emulare

personalizzandolo –, cosa poter fare meglio (es. condividere contenuti più rilevanti per l’audience

di riferimento, curare contenuti da fonti differenti, scrivere contenuti più persuasivi e urgenti,

postare in maniera più sistematica) e in cosa ci si può differenziare (essere più creativi, andare

contro il flusso corrente senza seguire il gregge, prendere posizioni contrarie alla massa).

Fig.2: per vincere e primeggiare nel mercato è necessario conoscere a fondo i propri concorrenti

SCELTA DELLA VOCE DEL BRAND E DEL TONO

In questa fase è importante analizzare quali sono la voce e la personalità del brand. Si procederà ad

identificare 3 aggettivi che descrivono il tone of voice del brand sui social media (es. serio,

divertente, affidabile, qualificato, stringente).

Successivamente si riprenderà la social media mission aziendale con la seguente formula:

Bisognerà monitorare le discussioni dell’audience del brand sui social media per analizzare il

linguaggio che utilizza. Ci si potrà aiutare con piattaforme di social media listening (es. Blog Meter,

Social Mention, Talk Walker, Mention, Synthesio), scegliendo una serie di parole chiave relative

agli interessi dei clienti/fan/follower dell’azienda. È importante definire come l’audience aziendale

vede il brand (perché i clienti scelgono i prodotti di quel brand? Perché i lettori leggono quel

blog?).

È importante saper rispondere a queste domande per arrivare a confezionare il miglior piano

editoriale sui social media. Una volta definita la social media brand voice nel carattere, nel tono,

nello scopo e nel linguaggio utilizzato sarà utile compararla con quella dei primi 10 concorrenti allo

scopo di costruire una brand voice unica e differente rispetto alla massa. Una strategia di brand

molto efficace che alcune aziende hanno già adottato è quella di definire uno standard del brand

che comprenderà: le variazioni accettabili su come si scrivono il nostro brand e i nostri prodotti;

gli schemi di colore e grafica accettabili; la pubblicazione dei brand standard. Costituiranno una

sorta di linee guida pubbliche di utilizzo del brand.

Un modello molto utile ad analizzare e classificare la personalità del brand sui social media è quello

dei Big Five, che descrive come una persona si relaziona con il mondo.Il modello dei Big Five è un

modello psico-linguistico che include 5 dimensioni primarie: disponibilità (agreeableness);

scrupolosità (conscientiousness); estroversione (extraversion); gamma emotiva (emotionalrange);

apertura (openness) (Ricotta 2012)

SOCIAL MEDIA CONTENT STRATEGY

Arrivati a questo punto bisognerà procedere ad elaborare una strategia di contenuti da pubblicare

sui social media. Scrivere sui social è una competenza a metà tra arte e scienza che richiede

tempo, pratica ed esperienza. Di seguito verranno forniti alcune pratiche e suggerimenti da seguire

che saranno utili a facilitare tale compito.

Per prima cosa sarà bene elencare i tipi di contenuti da creare e da curare e verranno definiti gli

scopi che dovranno avere tali contenuti. I contenuti creati e curati che funzione dovranno avere?

Intrattenere? Informare? Promuovere prodotti o servizi? Promuovere contenuti quali blog, post,

e-book, landingpages, etc.? Promuovere partner? Promuovere concorsi?

Inoltre si stabilirà la frequenza di pubblicazione che dovranno avere: quali e quanti con frequenza

giornaliera? Quali e quanti con frequenza settimanale? A questo punto si elaborerà un calendario

editoriale di massima che definisce i tipi di contenuti, gli argomenti, differenzia i contenuti propri

da quelli curati e qual è lo status dei contenuti.

Per elaborare un calendario editoriale si potrà utilizzare un foglio di calcolo come excel oppure

un’app come Hootsuite. Inoltre sarà importante tenere in considerazione 5 drive:

1. Variare il tipo di contenuti da condividere durante la settimana: (video, GIFs, infografiche,

immagini, sondaggi, links a blog post o landing page);

2. Stabilire chi è l’owner del calendario che abbia il controllo ultimo sull’approvazione dei

contenuti e la schedulazione, ricordandosi comunque che la collaborazione è la chiave del

successo;

3. Codificare dei colori per rappresentare certi canali o tipologie di contenuti;

4. Pianificare almeno due settimane in avanti per rendere il contenuto un flusso continuo e

non stagnante, senza dimenticare di lasciare spazio nel calendario per aggiungere contenuto

dell’ultima ora;

5. Un calendario editoriale permette di verificare quale contenuto è stato più cliccato, più

commentato, più condiviso, quando (giorno e ora) è meglio postare e quale contenuto

funziona meglio.

Definire un calendario editoriale è una fase cruciale della strategia di content marketing. Non aver

definito e pianificato quali contenuti pubblicare, dove e per chi, compromette l’esito e l’efficacia del

content marketing.

Fig. 3: Il piano editoriale è una pianificazione della strategia che l’azienda utilizzerà durante le sue attività di web

marketing

Una buona strategia editoriale implica una varietà e alternanza dei contenuti.

Dal punto di vista strategico esistono 3 tipi di contenuti:

Contenuti Flow: è il flusso di post e di tweet. Segue l’attualità e perde velocemente valore (es.

news,tweet);

Contenuti Stock: contenuti durevoli, sono di rilievo anche per più di 1 anno (es.WhitePaper);

Contenuti Curation: è una raccolta di differenti contenuti di qualità in un unico oggetto (es. board

di Pinterest, infografiche, video).

I contenuti si classificano inoltre in:

Contenuti primari: hanno breve durata, in media tre giorni, e devono essere regolarmente

pubblicati (articoli, interviste agli esperti, recensioni, news stories, case studies);

Contenuti esplosivi: hanno lunga durata e grande impatto, possono durare anche anni e devono

essere pubblicati saltuariamente (report basati su survey, whitepapers, top ten contests, webinar

video).

La scelta dei contenuti da pubblicare dipenderà dal settore industriale e dalla tipologia di business

in cui si opera oppure si potrà applicare il modello di impostazione della distribuzione del lavoro

usato in Google, 70-20-10. Tale modello prevede che i lavoratori distribuiscano il lavoro al 70% al

core business, il 20% a pensare a innovare ciò che funziona e il 10% in progetti non correlati con il

core business. Applicando il modello di Google al piano editoriale: il 70% dei contenuti

dovrebbero essere a basso rischio; il 20% dovrebbero essere contenuti innovativi; il 10% idee ad

alto rischio, che saranno il 20% dei contenuti di domani.

Per avere canali e spunti sempre aggiornati da cui attingere contenuti da pubblicare sarà bene

avere un elenco di fonti oppure utilizzare aggregatori di contenuti come Feedly.com.

METRICHE PER MISURARE I RISULTATI

La fase finale, ma non certo la meno importante, è quella della misurazione dei risultati, che

consentirà di impostare e correggere la strategia di content marketing.

Per prima cosa bisognerà scegliere cinque/sei metriche chiave di misurazione (es. volume di

traffico, tasso di crescita, likes, engagement rate, etc.) e poi aiutarsi con Google analytics e tool di

terze parti per monitorare ed analizzare le dinamiche dei dati.

Infine bisognerà rispondere a tre fondamentali domande utili a correggere e migliorare la content

strategy:

1. Cosa ha funzionato bene nella strategia?

2. Cosa non ha funzionato affatto?

3. Cosa si potrebbe migliorare?

Mediamente il tempo di verifica delle scelte strategiche è di tre mesi.

I VANTAGGI DI UN CALENDARIO EDITORIALE

Costruire un calendario editoriale consentirà di essere più efficaci, più efficienti, più ordinati,

risparmiare tempo, definire le scadenze di pubblicazione. Ma come costruire un calendario

editoriale che funziona? Attraverso un semplice foglio di calcolo come Excel o Google Sheets,

attraverso applicazioni o tool (es. Hootsuite) o addirittura creando un calendario cartaceo.

L’impostazione di un calendario editoriale attraverso un foglio di calcolo potrà essere la seguente:

su ogni riga si potranno rappresentare i diversi social media previsti nella nostra strategia

settimanalmente e su ogni colonna i giorni della settimana. In ogni cella andranno poi inseriti i

contenuti di riferimento.

È inoltre importante conoscere la frequenza, gli orari e i giorni giusti di pubblicazione.

Studi dimostrano che il cocktail di pubblicazione perfetto sui diversi canali social è il seguente:

Facebook: 1 post al giorno dalle 13 alle 16;

Twitter: 15 tweet al giorno, non più di 1 tweet/h. con circa 7 retweet/giorno;

Pinterest: 11 pin/giorno con almeno 5 repin/giorno;

Linkedin: 1 post/giorno tra le 10 e le 11 del mattino;

Instagram: 1-2 post/giorno;

Google+: 2 post/giorno.

C’è da precisare che tali studi tengono conto dei trend europei, ma è consigliabile utilizzare tali

indicazioni per iniziare una strategia e poi aggiustare il tiro a seconda dei dati degli insight che si

ricevono.

Alcune indicazioni per i contenuti:

Innanzitutto precisiamo che le persone che parlano solo di loro non piacciono a nessuno così

come nessuno ascolta qualcuno che parla solo di un argomento. La stessa cosa accade anche per i

Brand. Se si spinge solo il proprio contenuto o se ne pubblica un solo tipo difficilmente si genererà

engagement. Questo è il motivo per cui si ha bisogno di una strategia di social content per

assicurarsi che si sta inviando un mix bilanciato di contenuti.

Ma cosa bisogna inserire a livello di contenuti? Come regola generale una strategia efficace è la

pubblicazione di 1/5 di contenuti pubblicitari del brand e dei prodotti e 4/5 di contenuti

informativi, redazionali e relazionali.

Non necessariamente tutti i contenuti dovranno contenere link a post e ogni link potrà essere

lanciato con diversi messaggi soprattutto se il post riscuote successo. Sarà bene, inoltre, mixare

content creation (contenuti di creazione propri) per rafforzare il senso di leadership, con content

curation (condivisione di contenuti terzi) per creare e rafforzare la relazione tra la nostra azienda

e altri partner del mercato nel B2B e prospect nel B2C.

È importante, inoltre, aver organizzato in maniera sistematica le fonti da cui poter attingere i

contenuti, per far questo esistono molti tools o siti aggregatori di contenuti che ci aiuteranno ad

attingere i contenuti giusti nel momento giusto, ad esempio ricordiamo: Feedly.com,

PostPlanner.com (che con 9 dollari al mese ci fa trovare contenuti più interessanti per la nostra

audiance), le liste di Twitter List (utili per organizzare temi da cui attingere contenuti affidabili),

Scoop.it (per creare e diffondere i propri contenuti), Storify.com (permette di raccontare una

storia utilizzando i social media), Curata.com (tool più professional ma a pagamento).

Non bisogna mai dimenticare di testare sempre i propri contenuti sia sul fronte della frequenza e

degli orari di pubblicazione, sia su quello della tipologia dei messaggi. I contenuti che attualmente

generano più valore sono le infografiche, i contenuti interattivi che prevedono un livello di

esperienza e partecipazione dell’audience (il contenuto più popolare e condiviso non è stato un

articolo, ma un Quiz), contenuti che evocano emozioni positive, contenuti con immagini, post con

elenchi, contenuti di attualità.

BIBLIOGRAFIA

Bellini L., Di Stasi L., Aziende di successo sui social media, Hoelpy 2014;

Di Fraia G. a cura di, Social Media Marketing, strategie e tecniche per aziende B2B e B2C, Hoelpy,

Milano, 2015;

Ricotta F., Marketing Multicanale, Pearson Paravia Brino Mondadori, 2009;

Sun-Tzu, L’arte della guerra, Arena L. V. (a cura di), Bur, 1997.

LE RICERCHE SUI MEDIA Scritto da Emanuela Bregni, tratto dalla lezione di Silvio Siliprandi

IL NUOVO CONTESTO MEDIALE: L’ERA DELLA DISINTERMEDIAZIONE

L’epoca moderna vede l’asse del potere spostato dal mezzo (o medium, in latino) alle persone, il

motivo di ciò è la moltiplicazione dell’offerta che attribuisce peso maggiore a chi l’offerta (vale a

dire la fonte dell’informazione) la deve fruire (vale a dire il ricevente): questo proprio in virtù della

legge economica per la quale quando aumenta l’offerta (le fonti) si arriva alla libera concorrenza

perfetta e chi ne trae il beneficio massimo è il consumatore. Ma l’asse si sposta anche dal

contenitore al contenuto: conta di più l’offerta in sé di chi la offre, il prodotto è più importante del

produttore.

Questo asse spostato sul consumatore fa in modo che, poiché le persone usano una strategia di

conferma119, sia difficile per il medium suggerire qualcosa di alternativo. Questo è un fenomeno

evidente sui mezzi Social: gli algoritmi lavorano proprio sulla conferma, ti porgono ciò che hai

cercato precedentemente.

Il rapido avanzamento delle nuove tecnologie, con le conseguenti influenze sul nostro modo di

comunicare e di relazionarci, costringono gli strumenti per l’analisi di mercato e per la

targettizzazione a porsi nuove domande in grado di comprendere, e adeguarsi, ai nostri

comportamenti.

I cambiamenti tecnologici che influiscono direttamente sulla nostra società sono profondi, rapidi e

diffusi, derivati dalla caduta di tutte le barriere a favore di una crescente mobilità che ci permette

di conoscere più cose di noi e del mondo che ci circonda.

Protagonista assoluto di questa trasformazione diventa la disintermediazione, una nuova cultura

antropologica che, in realtà, ha ricadute non solo a livello dei consumi e della media exposure.

Tutte le ricerche sui media, anche quelle passate, sono medium centriche, danno cioè un potere

enorme al mezzo dimenticandosi della relazione, filone molto poco esplorato, ma per poter

comprendere i nuovi comportamenti del consumatore risulta fondamentale, innanzitutto,

approfondire il contesto nel quale si colloca: il nostro ambiente iperconnesso deriva

dall’abbattimento dei muri e della barriere, perché anche grazie ad internet (ma non solo) non

esistono più confini o vincoli: le persone ormai sanno che la stessa cosa può essere fatta in più

modi diversi e mettono in discussione quelli vecchi. Il web in questo contesto è un acceleratore

dell’aumento delle risorse a disposizione delle persone, perché ha accelerato l’annullamento delle

barriere di accesso alle informazioni. La crescita di autonomia delle persona porta ad una

autonomia di giudizio e ad una crisi delle sovrastrutture istituzionali quali famiglia, religione,

aziende, ma ha fatto sorgere anche nuovi bisogni prima impensabili.

119 in psicologia indica un fenomeno cognitivo umano per il quale le persone tendono a muoversi entro un ambito

delimitato da loro convinzioni acquisite

Di fronte alla consapevolezza di questo cambiamento viene da chiedersi: che relazione intercorre

fra le persone e i mezzi di comunicazione?

Fino a una ventina di anni fa le persone ritenevano che i mezzi di comunicazione avessero il potere

di manipolare le persone: la storia insegna che chi ha avuto il controllo degli strumenti di

comunicazione, e la mente corre subito ai regimi totalitari, ha saputo impedire un rovesciamento

inevitabile e desiderato dal popolo. Gli strumenti hanno senza dubbio un grande potere, ma più nel

porre attenzione su qualcosa, che nell’indirizzare definitivamente.

Sicuramente attribuire la colpa agli strumenti di comunicazione è più facile che evitare di

ammettere che anche noi abbiamo la nostra parte di colpa in questa relazione. Una comunicazione,

di qualsiasi tipo essa sia, instaura infatti un’inevitabile relazione fra due soggetti, e di conseguenza si

parla di concorso di colpa, di interazione fra le due parti in gioco. Proprio come avviene nei

rapporti amorosi e amicali, si parla di comunicazione nel momento in cui i soggetti in atto sono

almeno due.

In alcuni momenti il peso dei media è stato maggiore o minore. Nell’epoca nella quale viviamo le

persone hanno acquistato un grande potere a scapito dei media: ora infatti, più che in qualsiasi

altra epoca storica, sono persone come noi ad avere la nostra fiducia, più che le aziende (in

quest’ottica dobbiamo ad esempio leggere fenomeni come quello del fashion blogger) e questo è

senza dubbio un processo che deriva dall’allargamento dell’offerta dal conseguente peso maggiore

di chi di questa deve fruire, come detto prima.

In questo contesto è la natura stessa dell’uomo a porsi come ulteriore ostacolo all’azione dei

media. Noi infatti guardiamo la realtà come scienziati ingenui, guidati dalle euristiche120: modi di

agire che plasmano il nostro comportamento indirizzandolo verso ciò che è sempre la scelta più

semplice. È proprio l’euristica della conferma a determinare quanto per l’essere umano il

cambiamento è faticoso e implica sacrifici. A differenza dello scienziato infatti, il cui modo di agire

si basa sulla disconferma, la persona sarà indirizzata sempre verso ciò che già conosce, che ha già

sperimentato e di cui ha conferma.

Le ricerche condotte sui media negli ultimi anni non hanno saputo tenere conto di questo modo

d’agire dell’uomo, mostrando sempre una visione medium centrica focalizzata solo sui social. Non

si considera che nella sopracitata 'era della disintermediazione' le persone assumono il valore di

nuovi protagonisti. Gli individui consapevoli dell’avere più risorse collettive in continuo

aggiornamento possono sceglierne un numero elevato per crescere nella loro individualità. Più

cultura e informazione aumentano la possibilità di relazionarsi provocando un aumento della

personalizzazione e dell’autonomia a scapito delle istituzioni.

Fra queste risorse individuiamo quelle per agire (che comprendono la mobilità sul territorio, il

denaro e la salute), ma altrettanto importanti sono le risorse per pensare (tra queste

l’innalzamento del livello di istruzione, la possibilità di interagire e dialogare con altre persone e

con le altre culture che la nuova mobilità del mondo offre).

Il massimo valore delle risorse per agire e per pensare si coglie nell’interazione reciproca fra esse.

E’ quindi, ancora una volta, la natura sociale dell’uomo ad emergere con forza: quello che siamo si

capisce nello scambio. Per questo motivo la variabile relazionale si definisce sufficiente e

necessaria, mentre le risorse per agire e pensare sono solo sufficienti. Inseriti in un contesto di

120Si dice euristico un procedimento non rigoroso, di carattere intuitivo, che permette di giungere a un risultato.

vuoto e solitudine noi ci perdiamo. Nella relazione reciproca possiamo comprendere le nostre

scelte ed essere arricchiti e messi in discussione da quelle degli altri.

Si tratta di una interazione che si verifica non solo per somiglianza, ma ugualmente per

opposizione, sia nei confronti dei nostri conoscenti, sia nei confronti di persone che incontriamo

per la strada e con le quali magari non abbiamo neanche modo di parlare.

Noi viviamo di interazioni continue.

George Herbert Mead, fondatore dell’interazionismo simbolico121, sottolinea la centralità dei

processi interpersonali tramite i quali gli individui si rapportano con il modo di agire e pensare

degli altri traendo da esso una linea di condotta da seguire. Alla luce di questo si comprende come

nel nostro modo di relazionarci agli altri, sia per analogia che per differenza, scegliamo nuovi modi

di fare.

Comprensibile da tutti risulta essere il semplice esempio che coinvolge tutti i ragazzi in età

adolescenziale quando si tratta dell’orario del coprifuoco: nel momento in cui comincia a uscire da

solo l’adolescente si relaziona con i suoi coetanei e con le regole imposte loro, compiendo così

per similitudine e differenza un confronto con quanto la famiglia ha imposto per lui. Sarà così allora

che il giovane, che ad esempio si trova a dover tornare a casa tutte le sere entro mezzanotte, nel

momento in cui si relazionerà con i suoi coetanei ai quali è permesso di tornare alle due, si

opporrà alle regole della casa, dando così inizio a un conflitto. La famiglia passa allora dal luogo

naturale della regola, dove non si percepisce nemmeno che di regole si tratta, a luogo di conflitto,

perché basato su norme. Questo stesso meccanismo così immediato non vale solo per

l’adolescenza, ma per tutte le età e i contesti. Quando le persone si aprono al mondo trovano per

analogia e per differenza nuovi modi di agire che modificano i loro precedenti comportamenti.

IL RUOLO DELLA RACCOLTA DEI DATI

Il contesto descritto descrive una grande trasformazione che, oltre al mondo dei media, coinvolge

inevitabilmente anche il modo di comunicare delle aziende. Oggi più che mai, le aziende hanno

bisogno di sistemi informativi integrati per ottimizzare l’azione, ridurre l’incertezza e aumentare

flessibilità ed efficacia nel raggiungere i target.

In modo particolare quella che stiamo vivendo si può definire come l’epoca del marketing one to

one, con consumatori mobili e veicoli di comunicazione che li raggiungono lì dove i consumatori si

trovano. Perché questo accada, la prima necessità del mercato diventa l’ottimizzazione dei

segmenti di target, così da indirizzarsi a una personas sempre più specifica. Immediatamente

connessa a questa se ne colloca una seconda, che prevede per le aziende un investimento nei

mezzi di comunicazione. Per ultima non può mancare un’accurata verifica dei risultati, sempre

secondo la targettizzazione compiuta in precedenza.

Qual è in questo contesto il ruolo che le aziende come GfkEurisko compiono nel rispondere a

questi tre grandi bisogni che le aziende sentono come urgenti per poter interagire con crescente

potere che le personas vantano in questa era di larga scelta?

121 L’interazionismo simbolico è un approccio teorico di ambito sociale che identifica l’uomo come una creatura sociale che scopre se stesso nel rapporto con gli altri.

Le indagini che coinvolgono il panorama delle ricerche di mercato si focalizzano sull' analisi delle

attitudini, delle motivazioni e delle modalità d’acquisto. Si elaborano così dei sistemi informativi

che integrano fra loro tre fasi e si mostrano così capaci di generare un valore aggiunto per il

marketing e la comunicazione.

Per fare questo Gfk elabora affidabili e costantemente aggiornate metodologie di ricerca che negli

anni l'hanno resa leader nel settore. Questa lunga esperienza si è tradotta nel sistema sinottico

TSSP (Total Single Source Panel) che costituisce la piattaforma integrata fra individui e media

secondo tre specifiche di ricerca.Cresce il bisogno di misurare in modo puntuale ed oggettivo

l’esposizione multi e cross mediale dei focus target, a cui Gfk risponde con i Media Consumption

Data. A questo si aggiunge la necessità di integrare le informazioni sui target con i big data delle

aziende così da avere un’accurata panoramica della personas alla quale l’azienda deve indirizzarsi.

Con i Consumer Data GfK il consumatore viene conosciuto nei suoi svariati ambiti di consumo122.

Per svolgere questa analisi Gfk compie, dal 2003, un ascolto delle tracce di 12 mila individui, 8 dei

quali online. La rilevazione dei dati è suddivisa in 3 wave di 4.000 persone rappresentativi della

popolazione dai quattordici anni di età, coinvolti per 3,5 mesi per un totale di 12.000 interviste

ogni anno. Ripetendo la rilevazione su 3 campioni gemelli, la rotazione del meter consente di

coprire l'intero anno e di coinvolgere 12.000 individui totali. Tra questi vi sono anche 8000 utenti

online, che costituiscono una quota rappresentativa dei soggetti internauti.

Con l'obiettivo di consentire la più approfondita conoscenza possibile dell'individuo, vengono

rilevate oltre 1.500 variabili descrittive che si declinano in caratteristiche socio-demografiche e in

profili valoriali, come i sogni, le ambizioni e le soddisfazioni della propria vita. A questo si aggiunge

una catalogazione degli stili, orientamenti, atteggiamenti, attitudini e criteri di scelta che tiene

conto di diversi ambiti come la cura della persona, i viaggi, gli interessi e i consumi.

Per quanto riguarda la rilevazione delle scelte di acquisto e di consumo è stata implementata la

verifica dell'oggettivo comportamento di acquisto della maggior parte dei prodotti e delle marche

del largo consumo, attraverso la lettura del codice EAN, che garantisce la massima precisione in

termini di caratterizzazione dei prodotti.

La rilevazione dei prodotti acquistati avviene per ogni singola spesa, giornalmente, il che consente

di riferirsi precisamente all’effettivo periodo nel quale l’acquisto è stato effettuato e di catalogare il

panelista secondo le quantità di prodotto acquistato. Visto che per alcuni specifici mercati è

importante conoscere chi sarà il consumatore finale del prodotto acquistato, ogni volta che il

lettore registra l'acquisito vengono registrate anche le persone della famiglia che consumeranno

effettivamente il prodotto. Altrettanto importante risulta capire le quantità di prodotto

consumate, ragione per cui periodicamente vengono somministrati dei questionari riferiti ai

prodotti consumati.

GLI STRUMENTI PER LA RACCOLTA DI DATI

Gli strumenti scelti daGfkEurisko per la raccolta di informazioni sono appositamente brevettati e

affidati ai panelisti. Il primo è il dialogatore, dato in dotazione ai membri del campione e con il

quale, tramite brevi questionari settimanali, vengono misurate le informazioni relative al profilo

122 www.gfkeurisko.it

dell'individuo, alla sua psicografia, ai consumi fuori casa e alle sezioni che riguardato i possessi o

servizi che contemplano specifici approfondimenti. Lo strumento risulta comodo per misurare,

oltre agli spostamenti fuori casa, anche l’esposizione alla stampa quotidiana, periodica, e al cinema.

I tool di sound capturinge sound matchingassicurano una raccolta dati estremamente precisa per

TV e Radio. La rilevazione ha la durata di un minuto e viene inviata a GfkEurisko tramite un

sistema wirless in tempo reale.

LEOtrace, rileva passivamente i dati di navigazione Internet sul PC Domestico.

Per i rivelamenti mobile è disponibile l’app da istallare sul proprio smartphone o tablet. Questi

strumenti registrano la navigazione brower e quella app annotando tutte le URL delle pagine

visitate dal panelista con i propri strumenti

Fig.I: Fondamentale il processo di ascolto per una targhettizzazione sempre più mirata.

I vantaggi della Sinottica TSSP compiuta da GfkEuriskoconsistono nell’avere a disposizione unampio

campione di partenza, così daavere modo di leggere ed analizzare un maggior numero di fenomeni

avendo al tempo stesso dati di altissima qualità, affidabili e imparziali capaci di condurre a una

targettizzazione del consumatore. Tutte le informazioni rilevate dai tools di Sinottica TSSP si

riferiscono a un solo individuo, proprio secondo la logica Single Source, catalogando per esso

tendenze di consumi e multi-crossmedialita' completa.

SFATIAMO DEI MITI

I processi compiuti da Gfk nella misurazione dei consumi mettono in luce numerosi erronei miti

legati all’utilizzo dei media.

Il primo mito riguarda il web, definito in precedenza come motore delcambiamento. Generalmente si crede

che l’utilizzo assiduo di internet si limiti alle nuove generazioni. I dati testimoniano invece che cresce la

cultura della connettività anche tra gli individui dai 35 ai 49 anni e, anche se in misura minore, presso gli

over 50. Quello che fanno online la gnerazione dei millennials123 e gli over 50 ormai si assomiglia, non c’è

più molta diversità di comportamento online perché quando una generazione è digitalizzata le classi di età si

avvicinano, la variabile età è meno rilevante nel definire chi si è: oggi, online, ci si porta dietro quello che si

è indipendentemente dall’età che si ha, la vera comunanza tra generazioni si crea grazie alla digitalizzazione.

Nonostante questa evidenza gli spazi pubblicitari si vendono ancora identificando target di età, e questo

appare un controsenso.

I dati testimoniano come il primo luogo nel quale gli utenti cercano una risposta ai loro problemi

sia internet. Il browser assume il ruolo di medico per decifrare i nostri sintomi, dizionario per

tutto ciò per cui necessitiamo una risposta, e portale per acquisti di ogni tipo. Il risultato è che

internet viene vissuto come un diritto civile, al pari di acqua ed elettricità, con un limitato 6% della

popolazione che ritiene che una connettività costante sia un bene superfluo.

Fig2: Il social diventa metalinguaggio che attraversa le generazioni

L’aumento dell’utilizzo di internet a vari livelli si connette a un declino della stima e della credibilità

riservata alle istituzioni. La disintermediazione consente il raggiungimento di un' autonomia di

giudizio che inevitabilmente prescinde da coloro i quali prima erano la fonte principale di questo

giudizio: l’istituzione ecclesiastica, politica e la stessa famiglia. La perdita di centralità mina la

legittimità delle istituzioni sociali con una riduzione della loro presenza nella vita quotidiana.

É così quindi che dal 2001 al 2016 i dati indicano una diminuzione del 25% dei votanti alle elezioni

nazionali e una necessità crescente da parte degli individui di percepire che il proprio voto possa

incidere, portare a un cambiamento. Allo stesso modo per quanto riguarda l’istituzione religiosa si

riscontra una diminuzione del 20% degli osservanti alle funzioni religiose, e un conseguente

raddoppio di separazioni e divorzi su tutto il territorio nazionale, sempre dal 2000 al 2016. La

situazione non va meglio per quanto riguarda le marche. I consumatori fedeli a un brand sono

diminuiti del 30% con un favorevole nuovo interesse per le nuove marche, che si attesta al 35%.

Nell’era della disintermediazione sono le persone ad aver preso il posto delle istituzione. Il 62%

degli intervistati da Gfk Eurisko afferma di affidarsi per le decisioni di acquisto al passaparola di

amici e conoscenti, piuttosto che confidare nelle marche.

Il secondo mito da sfatare si riferisce alla sensazione di semplificazione che i canalimediali

sembrano produrre.

123 I Millennials sono la generazione di utenti (denominata anche Generazione Y) nati tra il 1980 ed il 2000, i quali attualmente si trovano nella fascia d'età 18-38 anni.

La sensazione generale che gli individui hanno della società è di un luogo complesso ricco di

continui stimoli e ruoli, da affrontare cercando ordine e riferimenti. Per affrontare un ambiente del

genere sembrerebbe che sia necessario raccogliere sempre più informazioni, avere sempre più

capacità di multitasking e questo produce attesa e aspettative negli individui. In una società mobile

e dinamica come quella attuale l’empowerment delle persone si rivela nelle sue stesse pericolose

fragilità e incompiutezze, ma affinchè la disintermediazione diventi sinonimo di crescita,

opportunità e forza, occorre far crescere la consapevolezza individuale della posta in gioco mentre

si esercita la capacità di orientare, rassicurare, sintetizzare, decomplessificare: a questo sono

chiamati a contribuire le istituzioni, le aziende, gli operatori culturali ed i cosumatori stessi dano

meno enfasi all’autorevolezza e più alla conoscenza, al rispetto, all’interazione ed al

coinvolgimento.

BIBLIO/SITOGRAFIA

Corbetta P, La ricerca sociale. Metodologie e tecniche (vol. I-II), Il Mulino, Bologna 2003

Gfk.com

Linkiesta. manuale-per-sopravvivere-alla-disintermediazione.it

IL MEDIA PLANNING INTEGRATO

Scritto da M. Gabriella Metelka, tratto dalla lezione di Luca Marinaro

IL RUOLO DELLA MEDIA AGENCY

Strutturare un’azione di comunicazione efficace oggi implica una gestione sempre più integrata e

paritetica di diversi canali ed è per questo che le agenzie media e quelle di comunicazione hanno

dovuto concentrare al loro interno professionalità e specializzazioni che prima agivano in modo

indipendente: la verticalità deve essere sempre maggiore e l’agenzia deve saper fornire al cliente

anche servizi che esulano dal suo core business, diventando così un vero e proprio problem solver

per il cliente.

Fig1: I media su cui opera una media agency sono quelli classici, quali ad esempio la stampa, la radio o la televisione ma

anche i new media quali Internet, i social network, le community…

L’attività principale di un’agenzia media è quella di acquistare gli spazi pubblicitari: essa fa da

facilitatore dell’incontro tra la domanda (da parte delle aziende clienti o advertiser124)e l’offerta di

spazi pubblicitari (da parte dei media owner125), guadagnando da entrambi i lati: dall’advertiser infatti

il centro media riceve dei fee (che possono essere fissi o variare in base all’investimento

pubblicitario pianificato e/o ai risultati ottenuti) come compenso della sua attività mentre dai media

owner riceve i diritti di negoziazione o AVB126.

124Advertiser è tipicamente l’inserzionista: una azienda che ha interesse a comunicare e pubblicizzare il suo prodotto o

brand. 125Media owner è un editore che raggiunge la sua audience mediante una attività editoriale, e che ha spazi pubblicitari da mettere a disposizione per la vendita pubbliitaria 126AVB sta per Agency Volume Bonus e sono il premio che il entro media riceve dai media owner per l’ammontare totale dei volumi di investimenti generati dall’agenzia nella sua totalità, quindi considerandone tutti i clienti. In pratica un centro media riceve dall’advertiser l’incarico di preparare un media plan e viene pagato per studiare la soluzione

più conveniente per il cliente. In molti casi però il centro media si accorda per ricevere del denaro anche dai media owner: in altre parole, il centro media riceve spesso denaro da entrambi i lati della catena. Per il centro media, quindi,

Per rendere trasparente l’attività del centro media le aziende clienti possono prevedere e inserire

in contratto la possibilità di controllo tramite audit; si può poi anche prevedere di destinare

all’azienda cliente una parte (o addirittura il 100%) degli AVB.

Se quello che si chiede ad una agenzia creativa è lo studio e la realizzazione di una campagna

pubblicitaria, tipicamente ciò che viene richiesto all’agenzia media dall’azienda cliente è un

buying127, mediante il quale acquistare spazi in cui fare apparire la campagna pubblicitaria..

La pianificazione media tradizionale, quella che si implementava fino a poco tempo fa, aveva come

obiettivo il raggiungimento della copertura graduale del target con una frequenza definita ottimale,

ma ora, con l’avvento del digitale e con il complicarsi e l’intensificarsi dei punti di contatto, anche

questa disciplina ha bisogno di rinnovarsi.

Anche la stessa agenzia media ha dovuto rinnovarsi, ampliando la sua offerta di servizi

all’advertiser: software sviluppati ad hoc per il cliente, ricerche di mercato, modellistica memoriale,

produzione e gestione di contenuti, adserving, programmatic buying, real time bidding e altri.

Legato al programmatic buying l’agenzia media può fornire anche un servizio di controllo degli

spazi erogati.

IL MERCATO DELLA COMUNICAZIONE

Il mondo della comunicazione può essere inteso come un mercato che, globalmente, ha una

portata di 8.5milioni di euro ed è in crescita anno su anno, di cui circa la metà è, in Italia,

concentrata sul mezzo televisivo, seguito dal digital con un 26% nel 2016128 e poi dalla stampa.

La distribuzione degli investimenti pubblicitari è tendenzialmente proporzionale al consumo dei

mezzi: in Italia si spende molto in Tv perché essa raggiunge la maggior parte della popolazione, è -si

dice- il mezzo che offre la maggior copertura sulla maggior parte dei target, anche se si osserva un

lento ma graduale spostamento verso i video online a scapito della TV lineare129, che nel 2016 ha

diminuito di un punto la sua copertura e di 7 minuti il consumo giornaliero, mentre le piattaforme

non lineari lo hanno aumentato di 34 minuti vs 2015.

Il consumo in multitasking sta crescendo e più del 70% delle persone dichiara di usare altri device

quando guarda la TV: è per questo motivo che il ricordo delle campagne TV (a parità di

investimenti) è calato: è più difficile lasciare il segno e questo fenomeno non riguarda solo i break

pubblicitari ma anche la fruizione di tutti i programmi.

La TV si sta modificando con offerte “Over The Top” di consumo di video mediante altre

piattaforme. Ne esistono a 3 forme: quella finanziata dalla pubblicità (AVOD130), quella finanziata

dagli abbonamenti (SVOD131) e quelle a pagamento per il singolo contenuto (TVOD132).

oltre all’interesse del cliente entra in gioco anche un altro fattore: da quali media owner gli vengono pagati i diritti di negoziazione più altie questo può generare conflitti di interessi. Non c’è niente di illegale in questo sistema, che è

vigente solo in Italia. 127Buying è, in ambito media, una struttura di prezzi, espressi mediante sconti sui prezzi di listino o costi per GRP o per contatto, concessi sugli spazi pubblicitari acquistati dai vari media owner. Tale struttura di prezzi viene concessa

dal media owner all’advertiser grazie all’azione del suo centro media, che si impegna ad ottenerli (ed in base a questo può ottenere o meno il suo fee variabile, se questo è uno dei parametri stabilito per ottenerlo) 128Questi ed i successivi sono tutti dati stimati e fornitici da Publicis Media 129Il modo tradizionale di fruire la TV, infatti, detto ora lineare o broadcasting, non è più unico, ed il consumo non lineare della TV on line/on demand è in crescita soprattutto sui target più acculturati e giovani. Tuttavia la TV online fa ancora fatica a fornire coperture esclusive: non aggiunge contatti che non siano già stati raggiunti con la TV

tradizionale. 130AVOD sta per Advertising Video On Demand

L’offerta della Tv è frammentata: una volta –parliamo del 2001– con 2 soli player televisivi (si

parlava allora di duopolio Rai e Mediaset) si raccoglieva più del 90% di share ed il media planning

era focalizzato sulla scelta del miglior punto-ora per raggiungere il target.

A partire dallo switch off133 dalla Tv analogica, avvenuto a partire dal 2008, la concentrazione è

calata e i primi 6 canali raggiungono ora poco più del 50% di share. È molto più complicato quindi

oggi per il pianificatore media raggiungere il proprio target e fare l’80% di copertura: lo si può fare

pianificando tutti i canali (non solo i maggiori 6 come una volta), ma comunque bisogna fare i conti

con una ridotta attenzione da parte del pubblico.

Tutti i mezzi pubblicitari in realtà si stanno digitalizzando, non solo la televisione: con i Video On

Line non abbiamo un tema di maggiore copertura (nonostante il successo dal punto di vista degli

investimenti pubblicitari), ma per la stampa le copie lette non subiscono una duplicazione tra chi

legge la copia cartacea e chi la legge in formato digitale, anche se questo non sta aiutando il mezzo

stampa in termini di raccolta di investimenti pubblicitari aggiuntivi. Inoltre sia per la stampa

quotidiana che per quella periodica si sta osservando un deciso calo delle diffusioni (anche

considerando la somma tra copie cartacee e copie digitali), che ha provocato un calo anche degli

investimenti pubblicitari ed una difficoltà per il settore. Per il settore della stampa il mercato

rimane concentrato in mano a RCS e Manzoni.

Passando al mezzo radio, esso resta territorio di elezione per raggiungere chi è in autoe la sua

fruizione è rimasta sostanzialmente stabile negli ultimi anni, con nuove modalità di fruizione

mediante piattaforme di aggregatori che hanno più successo sul target giovani (stiamo parlando

delle app per l’ascolto della musica) soprattutto per i trailing millennnials (la parte di target

millennials più giovane). Mediamond è la concessionaria più importante, con una share del 28% nel

2016, seguito da Rai Pubblicità con il 12%.

LE METRICHE MEDIA

Una azienda che investe in pubblicità lo fa per avere dei ritorni sugli investimenti, il ROI. Quando

un advertiser pianifica (mediante il suo centro media) una campagna pubblicitaria ottiene 4 effetti, a

ciascuno dei quali corrispondono variabili misurabili per quantificarne il ritorno e valutarne le

performance.

131SVOD sta per Subscription Video On Demand, per esempio PremiumPlay, Netflix,Sky 132 TVOD sta per Transaction Video On Demand, per esempio Itunes. 133 Lo switch off è un termine che riguarda il processo di transizione alla televisione digitale, vale a dire il processo di

passaggio dalla televisione analogica alla televisione digitale. Si tratta di una vera e propria rivoluzione nella tecnologia usata per la telediffusione che dalla fine del XX secolo si sta realizzando in tutto il mondo. In Italia, lo spegnimento totale della storica televisione analogica terrestre è avvenuto il 4 luglio 2012.Lo switch-off è il termine che identifica

proprio la fase terminale della transizione alla televisione digitale in cui avviene lo spegnimento della televisione analogica.

Fig2: Come la maggior parte del lavoro di marketing anche quello media si bassa quotidianamante sulla misura ed il

monitoraggio di indicatori specifici.

1° effetto:esposizione alla comunicazione: misurata tradizionalmente da contatti (lordi o

netti), impression, GRP134, copertura, frequenza.

I contatti lordi (o impression nel mondo digital) misurano quante volte un annuncio è stato visto,

indipendentemente dal numero di persone esposte. I contatti netti invece esprimono il numero di

persone esposte all’annuncio almeno una volta. I GRP sono i contatti lordi in rapporto all’entità del

target. La copertura o “reach” percentuale misura la percentuale di target esposta alla campagna

pubblicitaria ed equivale al rapporto tra contatti netti ed entità del target espresso in percentuale.

La frequenza o OTS135 è il numero medio di volte che un individuo è esposto al messaggio.

L’avvento del digitale permette di misurare anche le azioni: il numero di click, il CTR136, il Cost Per

Click (CPC) e molte altre. Ad articolare ulteriormente questo insieme di metriche si aggiungono le

metriche social, tipiche di ogni singolo canale social su cui l’adverstiser decide di essere presente.

2° effetto:risposta cognitiva: relativa a cosa ricorda del marchio o della pubblicità chi è entrato

in contatto con la campagna pubblicitaria. Il ricordo viene rilevato classicamente tramite

interviste al target (telefoniche, one to one o anche condotte con questionario online, se ha senso

per il target) e misurato in termini di Brand e Advertising Awareness (vale a dire il ricordo del

Brand e della Pubblicità), Riconoscimento (della comunicaione) e Ricordo attinente (di alcuni

elementi della comunicazione.

3° effetto: risposta affettivache le persone danno, per capire se la campagna pubblicitaria è

stata in grado di spostare l’opinione e/o di modificare il percepito della marca. E’ relativo al

riconoscimento valoriale ed è anche questo rilevato tramite interviste condotte pre e post

campagna pubblicitaria con focus sugli attributi di immagine che gli intervistati danno al brand

(Brand Image, Brand Equity) e sull’intenzione all’acquisto (Intention To Buy), che ci porta al 4°

effetto o grado di risposta

134 GRPs sta per Gross Rating Points 135 OTS sta per Opportunity To See 136 CTR sta per Click Through Rate: quanto acquisti vengono fatti rispetto ai click registrati

4° effetto: risposta comportamentale: misura se e quanto la campagna pubblicitaria ha fatto

vendere, e si misura in termini di vendite (sell out), di rotazioni, di market share... tutti indicatori

che però, nel breve periodo, sono difficilmente correlabili alla sola campagna pubblicitaria

(soprattutto in caso di prodotti o brand presenti da tempo sul mercato, mentre la correlazione è

un po’ più facile nel caso di lancio di nuovi prodotti o brand): per questo si ricorre alla modellistica

econometrica. Se infatti il ricordo è influenzato primariamente dalla comunicazione, ed è ad esso

correlabile abbastanza intuitivamente, le vendite sono influenzate da tutte le leve del marketing

mix (prezzo, promozione, distribuzione…) non solo dell'azienda cliente ma anche da quelle dei

suoi competitor. Le vendite poi sono anche influenzate da fenomeni stagionali e macroeconomici.

Per questo è necessario isolare il contributo della sola pubblicità sulle vendite identificando il

contributo di ogni fattore che influenza le vendite, quantificando anche una baseline, che

rappresenta la parte strutturale della risposta comportamentale.

STRATEGIA DI COMUNICAZIONE INTEGRATA

Quando una azienda vuole comunicare deve studiare strategicamente e poi pianificare una

strategia di comunicazione integrata.

Si parte dal posizionamento che l’azienda vuole ottenere, da cui deve derivare cosa comunicare

(la campagna di comunicazione, alla base della cui realizzazione deve esserci una strategia creativa)

e dove farlo (compito della strategia media); infine la strategia di comunciazione integrata deve

prevedere anche una temporizzazione (ossia definire quando voglio comunicare, per quante volte,

per quanto tempo e quando misurare i risultati).

L’agenzia media è presente in tutte queste fasi della strategia di comunicazione integrata, tranne in

quello della strategia creativa, che però deve prevedere un momento di condivisione: non è raro

infatti che la creatività, anche se media neutral137, possa essere comunque legata al mezzo su cui

veicolarla o meglio che possa venire amplificata da esso.

Considerando il modello media POE138, la strategia di comunicazione integrata deve coprire tutti

e tre gli ambiti media (sia quelli paid quindi, che quelli owned e earned) e lavorare sapientemente

anche sulle interazioni tra essi.

Molto spesso ci si riferisce agli investimenti pubblicitari destinati alle tradizionali forme di

comunicazione con l’espressione above the line, per distinguerli dagli stanziamenti cosiddetti below

the line dedicati ad altre azioni, come promozioni e merchandising.

La gestione della comunicazione integrata si sviluppa lungo 4 direttrici:

137Vale a dire creata in modo neutrale rispetto al mezzo pubblicitario su cui poi verrà veicolata, l’idea creativa è quindi

legata al brand e creata indipendentemente dal mezzo ma deve essere veicolata su ogni canale in modo coerente e sinergico 138POE model è il Modello Paid, Owned, Earned Media. Nel media mix dell’impresa, i paid media sono gli spazi

pubblicitari che possono essere acquistati secondo le tradizionali logiche di media buying, o secondo quelle più recenti

del programmatic buying. Gli owned media sono i canali di comunciazione di cui l’azienda è proprietaria (es: il sito web

istituzionale, il corporate blog, la brand page o fan page sui social network, …). I media guadagnati (earned media)

rappresentano tutte le occasioni di visibilità che derivano da una spontanea attività della rete: ad esempio, i commenti

positivi nei blog e nei forum o le condivisioni sui social media.

1.Consumer pathway: identifica le diverse finalità della comunicazione e definisce la consumer

experience in grado di determinarne il successo

2.Touchpoint ROI tracker: misura l’efficacia di ogni singolo punto di contatto, identificando punti

di forza e di debolezza del media mix pianificato

3. Brand experience map: definisce l’architettura del piano media, sintetizzando il potenziale influenzante e

la brand association per ogni singolo touch point

4.Modellistica econometrica: per misurare i risultati

BIBLIOGRAFIA

Boaretto A., Noci G,, Pini F. “Marketing Reloaded, leve e strumnti per la cocreazione di strumenti

multicanale”, Milano, Il Sole 24 Ore, 2007

Bonori V. , Tassinari G. “come misurare il ritorno della pubblicità.Manuale delle tecniche più

avanzate di comunicazione, pianificazione pubblicitaria e verifica dei risultati, Il Sole 24 Ore editore,

2007

Meroni V. “Pianificare la pubblicità. Manuale delle tecniche più avanzate di comunicazione,

pianificazione pubblicitaria e verifica dei risultati”, Franco Angeli editore, 2003

PROGRAMMATIC139 BUYING AND CREATIVE Scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Luca Brighenti

Uno dei concetti fondamentali della comunicazione d’impresa nella network society è l’acquisizione

di dati; essa è diventata così importante da essere paragonata alla corsa all’oro.

I dati sono la chiave fondamentale per comprendere il funzionamento di questo mondo e perciò,

maggiore è il loro numero migliore sarà la nostra comprensione.

Ma come si raccolgono questi dati? E soprattutto, ne esistono di vari tipi?

Esistono sicuramente varie categorie di dati, che possono essere raccolte in tre distinti blocchi:

Dati di prima parte: cioè quei dati di proprietà (del brand), che sono utilizzabili per le campagne

pubblicitarie.

Dati di seconda parte: cioè tutti quei dati che sono generati dalle campagne pubblicitarie.

Dati di terza parte: cioè quei dati forniti da terzi (da terze parti).

Se per le prime due categorie di dati è facile comprenderne l’origine, è necessario approfondire

maggiormente da dove vengono i dati di terza parte.

Il mondo digitale è composto da una miriade di dati che vengono raccolti attraverso diverse fonti.

I dati online degli utenti possono essere raccolti sui browser (come Chrome, Safari, Mozilla

FireFox, etc.) e sulle app. Browser e app hanno diversi metodi di tracciamento degli utenti: i primi

utilizzano i cookies mente le app usano i cosiddetti identifiers, che per Apple sono definiti “IDFA”

mentre per i sistemi Android “AAID”.

Possiamo, per esempio, scoprire le pagine viste140 dagli utenti, oppure il numero di utenti attivi141 in

un dato periodo per un dato luogo (numero di utenti unici che hanno iniziato sessioni sul tuo sito

o nella tua app) ma anche il numero di utenti unici142 (persone non replicate, rappresenta una visita

al sito non duplicata. Es. se lo stesso visitatore accede ad un contenuto sul tuo sito 5 volte nello

stesso giorno da 2 computer/browser diversi, verranno conteggiate 5 visite totali e 2 visitatori

unici).

Qual è davvero il numero di utenti a cui ci possiamo rivolgere? Quello che segue è un set di

numeri rlevanti per il caso italiano.

139 Programmatic: Automazione di acquisto e vendita di spazi e annunci pubblicitari sui media attraverso piattaforme tecnologiche (che sono programmatic buying and programmatic selling). 140 Pagine viste: Sono le pagine richieste e visualizzate dall’utente. Cliccando refresh e ricaricando la stessa pagina essa

conta come due pagine. 141 Utenti attivi (unique audience USA// active audience EU): Sono tutti coloro che hanno una connessione e si collegano al web. 142 Utenti unici: è un dato che rappresenta il singolo dispositivo/browser da cui avviene la visita, conteggiato entro un certo limite di tempo (sulla base del numero IP e del cookie rilasciato dal browser durante la sessione di lettura).

Per tutti questi dati, bisogna tenere conto di un importante fattore: l’Italia è il secondo paese

europeo con la connessione internet più lenta, con davanti a sé solamente la Grecia (dato 2016).

Per quanto riguarda, invece, l’utilizzo dei mezzi di comunicazione quelli che seguono sono i dati

sempre per il panorama italiano.

Infine, un ultimo ma importante set di dati è quello relativo all’uso dello smartphone. Mark

Zuckenberg, il fondatore di Facebook, ha profetizzato che, entro il 2025, gli smartphone non

esisteranno più. Nel frattempo, però, il loro utilizzo ha di gran lunga soppiantato quello del pc.

Per quanto importanti possano essere i numeri, però, c’è una cosa che non bisogna mai

dimenticare: l’obbiettivo più importante del marketing sono gli utenti. Essi infatti sono quelli che

hanno rivoluzionato il marketing perché sono loro a dettare legge su come essere ingaggiati.

Ed è proprio da questa rivoluzione nel modo di ingaggiare i clienti che nasce il data driven

advertisement, in cui si utilizzano i dati ricevuti dagli utenti per scegliere i banner da mettere in

mostra. Ed è proprio sulla scelta dei banner da mettere in mostra che si consuma la battaglia più

importante. Infatti, lo scopo maggiore del marketing al giorno d’oggi è quello di essere top of

mind del cliente – bisogna tenere presente che, normalmente, si riescono a elencare solamente

quattro brands per prodotto senza esitare.

Se nella old customer journey si partiva dall’awareness, per arrivare alla loyalty, passando per interest,

consideration e purchase, nella new customer journey, invece, si parte da una considerazione iniziale

che serve a farci comprare e l’obiettivo del brand e farsi ricomprare.

Il nuovo customer journey si basa su un loyalty loop.

Quindi, le sfide del marketing oggi sono soprattutto due:

1. Inviare il messaggio giusto alla persona giusta.

2. Ridurre la dispersione del budget.

Per questo motivo serve il data driven advertisement, che ci permette di comprare la nostra

audience, lasciando perdere la parte di contenuto che verrà quindi targettizzata specificatamente

sul pubblico prescelto, invece che essere genericamente mostrata ad un pubblico fin troppo ampio.

Infatti, nella maniera tradizionale, per comprare i banner non si andava a targettizzare l’audience,

non si chiedevano all’editore le informazioni sul pubblico. Questi banner erano fatti per categoria

verticale.

Oggi, invece, la gran quantità di dati ha permesso a ciascun utente di visualizzare una pubblicità

diversa a seconda della sua posizione geografica, del suo sesso, della sua età e della sua

appartenenza sociale o lavorativa. In parole semplici: prima la comunicazione era one-to-many,

adesso invece è diventata one-to-one.

Prima di entrare nel complesso mondo della vendita degli spazi pubblicitari, bisogna chiarire alcuni

concetti base.

La comunicazione pubblicitaria oggi si svolge su vari canali: da un lato troviamo la televisione, con i

suoi spot pubblicitari, che ci serve per fare una comunicazione di copertura143. Anche le pubblicità

cartacee sui tabelloni in città servono allo stesso scopo.

Dall’altro troviamo tutto il mondo online, che si articola in diversi formati che vanno dai video (su

Facebook, su YouTube, etc…) ai banners144presenti nei siti. La storia dei banners comincia nel 1994

quando il primo banner raggiunse una CTR (Click To Rate, cioè il numero di click ricevuti dal

banner per il numero di impressions145) del 78%, un record mai più eguagliato considerato che ad

oggi la CTR di un banner si aggira into allo 0,0…%

Per calcolare l’efficacia di un banner si usano alcuni indicatori standard: da un lato abbiamo le page

views(cioè il numero di pagine caricate), dall’altro abbiamo le impressions (cioè il numero di

banners che si caricano per una data pagina). Bisogna tenere presente che un banner si carica

solamente se è nello spazio visualizzato sullo schermo. Se dovessero esistere banners che si

possono vedere solamente mediante uno scroll down essi non si caricherebbero fino a che lo scroll

down non venisse effettuato e quindi le impressions verrebbero contate solamente se l’utente

andasse effettivamente fino in fondo alla pagina.

Questo significa che i primi due scroll down costano molto più degli altri e che il prezzo dei banners

decresce mano a mano che aumenta il numero degli scroll down.

Il numero di impressions caricate per ogni singola pagina determina il valore di un editore e il suo

CTR permette di calcolarne il guadagno. Infatti un inserzionista paga quello che viene chiamato

CPM (Cost per Mille impressions) cioè paga per ogni mille impressions i cui costi, bisogna ricordarlo,

variano a seconda della loro ubicazione nell’alberatura della pagine (site structure).

143Si parla di copertura o reach, nell’ambito del media planning, con riferimento alla copertura netta che esprime il numero di individui al netto delle duplicazioni raggiunti da un dato medium in rapporto all’entità del target group di riferimento. 144Con banners si intendono quegli spazi all’interno delle pagine web (che possono essere statici o dinamici) in cui

sono racchiuse le pubblicità. 145Impression: è ogni singolo caricamento di un banner.

Con il termine eCPM (effective cost per mille) si intende il denominatore comune di tutti i modelli

di prezzo con cui il buyer può acquistare e si basa solo sulle impressions vendute.

È l’indicatore che serve per calcolare quanto l’editore ci guadagna. Si calcola come insieme tra

branding e performance. L’editore sa quante ads ha inviato e quante sono state monetizzate.

Ma come si comprano queste impressions? Fino a qualche tempo fa, l’editore metteva a

disposizione degli spazi che l’inserzionista andava a comprare. Adesso il principio è rimasto lo

stesso, ma si è deciso di automatizzare il percorso creando quindi una nuova branca detta:

programmatic.

Il Programmatic non è altro che l’automazione di acquisto e vendita di spazi e annunci pubblicitari

sui media attraverso piattaforme tecnologiche (che sono programmatic buying and programmatic

selling). In altre parole non è altro che l’automazione del processo di vendita degli spazi pubblicitari.

Il programmatic viene integrato con il traditional reservation (il modo di prenotare spazi

tradizionale).

Utilizzando il metodo tradizionale un brand comprava solamente gli spazi, mentre con il

programmatic compra i dati.

Il Programmatic buying è l’automazione di chi compra pubblicità (DSP: Demand Side Platform);

mentre il Programmatic selling è l’automazione di chi vende spazi (SSP: Sell Side Platform).

Questi due processi si incontrano ad un tavolo chiamato Adexchange146.

Le piattaforme di adexchange gestiscono l’invenduto attraverso aste in tempo reale chiamate Real

Time Bidding (RTB)147.

Il RTB è un protocollo tecnologico che permette di negoziare ogni singolo spazio media attraverso

un’asta in tempo reale per cui i prezzi sono determinati dalla competizione della domanda e dalle

regole stabilite dall’offerta. È un modo per comprare i dati. Ogni volta che apriamo una pagina, nel

momento di apertura della pagina l’editore fa uscire dei dati su di noi e in quel momento che si

caricano i banner vengono pagati in tempo reale perché in quel millisecondo si tiene un’asta. Si

parla proprio di comprare un utente.

C’è, però, un concetto fondamentale da tenere a mente: il programmatic NON è real time bidding.

146 Adexchange: Sono piattaforme che gestiscono le impressions invendute in tempo reale. 147 Real Time Bidding (RTB): si tratta di un protocollo tecnologico che permette di negoziare ogni singolo spazio media

attraverso un’asta in tempo reale per cui i prezzi sono determinati dalla competizione della domanda e dalle regole

stabilite dall’offerta.

Fig.

Esiste anche il concetto di programmatic creative che altro non è che l’insieme di tecnologie

pubblicitarie che permettono di aggiungere velocità, scalabilità e automazione al processo creativo.

Attraverso il programmatic creative è possibile manipolare il contenuto di ogni annuncio

pubblicitario in maniera automatizzata in modo da inviare il messaggio più rilevante per ogni

singolo utente. La tecnologia è particolarmente utile per generare un grande volume di annunci.

La creatività programmatica comprende anche unità creative dinamiche di annunci (dynamic

creative) che vengono adattate durante la fase di on-air della campagna a contenuti personalizzati

secondo il tipo di spettatore. Molte di queste unità dinamiche vengono solitamente ottimizzate in

maniera automatizzata.

La creatività è più impattante su un’audience piuttosto che su un’altra.

Esistono due metodologie di programmatic creative e ognuna con flussi di lavoro e applicazioni

differenti:

1. Creative Management Platform (CMP), cioè quei sistemi di progettazione, produzione e gestione di

creatività maniera efficiente e flessibile; Questi strumenti di progettazione consentono anche la

creazione di annunci dinamici ottimizzati (DCO – Dynamic Creative Optimization).

2. DCO o Dynamic Creative Optimization sono singole unità di annunci dinamici, basate su regole

dettate dal tipo di audience che viene targhettizzato, e che vengono ottimizzate dalle piattaforme

tecnologiche in base al tipo di utente.

La DCO e le piattaforme di gestione CMP alla fine hanno lo stesso scopo: entrambi cercano di

creare più opportunità per massimizzare l'impatto della creatività sull’utente, attraverso il metodo

programmatic, quindi automatizzato e regolato dalle piattaforme tencologiche, e tradizionale (o

diretto).

Creatività digitale e gestione dei dati danno la possibilità di fornire i messaggi sempre più

personalizzati, secondo logiche di marketing ben precise.

Perché bisogna sempre tenere a mente che un buon storytelling e un buon contenuto sono sempre

la chiave vincente!

SITOGRAFIA

www.blog.makethunder.com/

www.digiday.com/

www.exchangewire.com/

www.adage.com/

www.thedrum.com/

www.adexchanger.com/

www.engage.it

www.clickz.com/

www.mediapost.com/

SOCIAL MEDIA ADVERTISING

Scritto da Emanuela Bregni, tratto dalla lezione di Leonardo Bellini

Quali le opportunità offerte dai Social Media per la pianificazione di una campagna pubblicitaria

integrata? La premessa è ben chiara: ad obiettivi diversi devono corrispondere attività di social

advertising ad hoc sulla base del canale social che si intende utilizzare. Facebook, Instagram,

Twitter e LinkedIn, i quattro principali social network, appaiono come un blocco compatto e

imprescindibile per ciascun brand che spesso, proprio per questo motivo, non riesce a sfruttare al

meglio le peculiarità di ognuno di essi.

Il primo punto da cui partire per iniziare a impostare una campagna di social media advertising per

il proprio brand è l’analisi della situazione attuale tramite l’utilizzo degli strumenti di analytics. Ci si

chiede allora: le campagne pubblicitarie funzionano? Arrivano al target che si desidera raggiungere

veicolando il corretto messaggio?

Fig.1: : Ogni campagna social deve tenere conto delle specifiche della piattaforma

Google funziona bene per dare risposta a una domanda, a un bisogno manifesto, evidente.

Facebook al contrario permette di far emergere una domanda latente, indirizzandosi a un pubblico

più ampio e variegato. Per comprendere nello specifico lo scarto e come scegliere il mezzo più

utile alla propria campagna, occorre tenere conto di 6 fattori:

1.Obiettivi

2.Target e Audience

3. Offerta Messaggio Collocazione

4.Definizione delle Targeting Options

5.Budget

6.Metriche e Analytics

Analizziamoli nel dettaglio

1. OBIETTIVI:

Gli obiettivi di un brand nel rivolgersi al mondo esterno possono essere variegati a seconda del

periodo durante il quale si trova a progettare la campagna. Potrà dunque essere necessario

sviluppare, separatamente o nello stesso momento, awareness, loyalty, o in alternativa aumentare

le interazioni sulle pagine social e sulla landing page, ottimizzare la copertura e accrescere la rich.

Per comodità possiamo dividere questi obiettivi in cinque macroaree:

Brand awareness, farsi conoscere.

Interest, generare e incrementare interesse e attenzione verso il proprio brand.

Lead generation, acquisire contatti qualificati.

Creare social engagement

Vendere, sia tramite l’e-commerce, sia offline.

Partendo da questi obiettivi, vanno considerate le caratteristiche peculiari di ogni social network,

che consentono di mettere a punto meglio la campagna.

I Facebook Ads148 consentono di raggiungere una grande varietà di obiettivi: addirittura 11,

riconducibili a tre tematiche: notorietà, considerazione e conversione.

Quando quindi diventa opportuno utilizzare Facebook per una campagna di advertising?

La sua forza si attua soprattutto nel BtC: si può sfruttarlo ad esempio per incrementare un

business locale che presenta negozi fisici con vendita diretta al consumatore, così come per

promuovere un’attività manifatturiera che propone pezzi unici. Facebook come strumento di

media advertising è utile se si può contare su persone che entrano in ufficio/negozio, e se si vuole

vendere direttamente al consumatore un prodotto unico ed emozionale.

Twitter Ads149 può essere usato per scegliere di impostare la propria campagna di comunicazione

allo scopo di fare community building. Anche in questo caso, come nel precedente di Facebook, le

proposte si possono ridurre a tre macro aree:

1. Brand awareness con incremento di followers verso la pagina e una maggiore interazione

nei confronti dei post proposti.

2. Lead generation, ossia incremento di coloro che già conoscono il brand.

3. Social engagement che prevede un’interazione con i tweet e con l’app.

Una campagna Twitter, ad esempio, è uno strumento efficace per la promozione di una banca

online e permette di facilitare la costumer journey dei clienti.

Linkedin Ads150, per la natura stessa del social network a cui fa riferimento, ha obiettivi che ben si

sposano con un business BtB. Si può utilizzare LinkedIn per la programmazione della campagna

social nel momento in cui si desidera costruire la propria immagine aziendale, sfruttando una

audience che va oltre i follower, o nel caso in cui si desideri generare e aumentare le informazioni

e i contatti di qualità rispetto ai potenziali clienti. “Deliver the right content to the right people and

boost quality leads. Done and done”.

148 Facebook ads è la piattaforma pubblicitaria su facebook, uno strumento a pagamento messo a disposizione da Facebook che ci permette di mostrare annunci circa prodotti o servizi a persone che per età, interessi, posizione geografica o eventi specifici rientrano nei nostri target di riferimento 149 Twitter ads è la piattaforma pubblicitaria di Twitter 150 Linkedin Ads è la piattaforma pubblicitaria di Linkedin

Ognuno di questi social network ha dunque degli obiettivi mirati e identificabili, che vanno tenuti in

considerazione anche in base al tipo di pubblico al quale si vuole indirizzare la propria

comunicazione.

2. TARGET E AUDIENCE

L’individuazione del target è essenziale per capire a chi ci si vuole rivolgere con una campagna

social. Innanzitutto è necessario considerare il tipo di mercato, prendendone in considerazione

ampiezza, fattori critici e tipologia.

A partire da questa analisi è possibile ricavare dati relativi al proprio pubblico, che potrà di

conseguenza essere più o meno specifico, globale o locale. La tipologia dell’azienda determina il

target specifico al quale ci si rivolge e soprattutto permette di capire se il cliente finale è il

consumatore o un altro brand. Infine, per la programmazione di una campagna di social media

advertising occorre saper individuare il percorso che i clienti fanno per giungere all’azienda, dalla

conoscenza all’acquisto, così da rivolgersi ad essi nell’esatto momento nel quale è utile avere un

contatto. Dove si trovano i miei clienti? Quali sono i social network più frequentati dalla mia target

audience? Quali sono lo scopo e l’atteggiamento dei miei possibili clienti quando sono su quel

social network? Quale “cappello” indossano in quel momento?

L’identificazione della propria target audience tramite un analisi quanti-qualitativa consente di

realizzare una campagna più efficace. Facebook, rispetto a Google, può avere una forza maggiore,

grazie alla sua capacità di raggiungere un pubblico infinito, costituito potenzialmente da tutte le

persone iscritte. Quanti uomini, ad esempio, cercano la parola rasoio sul browser? La fascia di

popolazione che utilizza questo prodotto è molto ampia e costituita dai ragazzi dai 14 anni in su:

attraverso Facebook Ads posso raggiungerla con facilità.

Quali sono gli strumenti che posso utilizzare nel momento in cui voglio realizzare un’analisi della

mia target audience? Ognuno dei tre social network mette a disposizione tool specifici per

l’individuazione di determinate specifiche del mio pubblico.

4. Facebook Audience insights tool. Questo strumento permette di analizzare le

caratteristiche demografiche della custom audience e i suoi interessi.

5. Twitter Audience Insights individua gli interessi del mio pubblico.

6. LinkedIN Advertising analizza ad esempio il livello di istruzione e lo stato familiare della

costumer audience dei propri contatti su LinkedIN.

Poter usufruire di queste informazioni permette di creare messaggi più pertinenti e di identificare

i segmenti di pubblico a cui il brand può rivolgersi.

3, OFFERTA/MESSAGGIO/COLLOCAZIONE

Una volta definito il social funnel del proprio business occorre concentrarsi su un’analisi degli

strumenti e dei canali social che la propria audience sta già utilizzando e di quelli verso i quali si

desidera indirizzarla maggiormente. Gli sforzi vanno ordinati e organizzati in base al proprio

compito.

Prendendo a riferimento il funnel del percorso di acquisto si può collocare ogni social network a

un determinato livello. L’obiettivo di awareness permette di costituire e accrescere la propria

audience. A questo scopo Facebook, Twitter e LinkedIn hanno la possibilità di promuovere

account e prodotti del brand. Sul fronte dell’engagement le campagne di social advertising hanno

un ruolo attivo nel coinvolgimento del target e possono agire in ottica di lead generation. Anche la

fase di Conversion, in fondo al funnel, può essere presidiata dai social, che indirizzano verso

offerte e website.

Non esiste solo un solo percorso o canale per arrivare alla vendita, non basta un buon

posizionamento organico, in quanto il processo di acquisto a volte è molto lungo e complesso e

influenzato da diversi fattori sia online che offline. Alcuni clienti visiteranno il sito prima di

acquistare ne negozio, mentre altri faranno esattamente il contrario guardando prima i prodotti

nel negozio fisico per poi acquistarli sul sito internet.

4. TARGETING OPTIONS

Le persone visualizzano annunci accattivanti di continuo, ma spesso mostrati al target sbagliato.

Chi decide l’acquisto? Il pubblico è pronto per il passo che sto compiendo? Il cliente è allineato alla

mia visione del brand?

“Right Message to the right audience at the right time”. Far visualizzare i propri annunci alla audience

sbagliata significa sprecare tempo, denaro ed energie.

L’audience giusta si raggiunge nel momento in cui si riconosce nel problema al quale sto cercando

una soluzione. Ci si deve dunque chiedere:

7. Sto puntando a semplicità ed education?

8. Sto dando maggiore sofisticatezza e controllo per l’utente?

9. Il pubblico a cui mi rivolgo è in linea con il mio posizionamento e approccio strategico?

Queste domande servono per identificare la posizione del funnel nella quale il proprio cliente si

trova. Così come se incontrassi una ragazza in un bar e al primo appuntamento le chiedessi di

sposarla, nonostante si dimostrasse essere la donna della mia vita, sul momento non potrebbe

accettare la mia proposta, allo stesso modo lo scopo del brand è guidare la propria audience verso

di sé.

Per conoscere e targettizzare una lista di clienti che conoscono/utilizzano i prodotti del proprio

brand, si può utilizzare Facebook Custom audience, che consente di inserire i propri clienti

tramite telefono e mail così da matchare i dati con Facebook e identificare il proprio target.

Questo strumento diventa fondamentale nel momento di retargeting, per stimolare il ritorno di un

cliente verso le proprie pagine. Se invece l’obiettivo diventa il raggiungimento di un nuovo

pubblico, è possibile usare Lookalike audience, che consente di raggiungere persone con interessi

e comportamenti affini ai propri fan o clienti. Altre tecniche di monitoraggio indirizzate al

retargeting possono essere la costumer list, app activity e l’analisi del traffico del sito tramite

l’inserimento dello java script nella programmazione del proprio sito internet, per monitorare le

visite e le azione compiute.

5. BUDGET/TARIFFAZIONE

Il costo di una campagna dipende dalla dimensione dell’audience e dal tipo di bidding. Per definire il

budget si valuta una copertura giornaliera o complessiva, considerando così l’intera copertura della

campagna a seconda che quest’ultima abbia un termine stabilito o no e sia stata fissata o meno una

stima totale.

6. METRICHE/ANALYTICS

La regola numero 1 per ottenere risultati è misurare tutto per poi ottimizzare il processo

utilizzando quello che funziona meglio e che mi costa meno.

Il numero di impression, views e reach dà indicazione del successo ottenuto in fase di awareness.

L’accrescimento dell’engagement e dei clic, del numero di friend, member e audience testimoniano

la visibilità e il livello di interesse che il brand suscita. Sales, revenue e conversion sono l’obiettivo

finale da raggiungere e hanno a che vedere con la fase più stretta del funnel, quella della vendita.

Si può basare la reportistica per la misura delle campagne sulla base di:

Analisi dei risultati in base alle performance.

Analisi dei risultati in base al placement

Analisi dei risultati in base all’audience

Fig.2: Una misurazione completa di tutti i social network permette di ottenere il massimo da ognuno di essi.

PERCHÈ LE CAMPAGNE FALLISCONO?

Un’attenta valutazione di questi step può aiutare nella programmazione di campagne di social

media advertising efficaci, evitando campagne fallimentari perché:

Non riflettono il customer journey

Non sono rilevanti, il quality score è basso

Non sono scalabili

Non c’è corrispondenza tra messaggio e mercato.

BIBLIOGRAFIA

Bellini L. “Guida operativa ai social in banca. Strategie, tattiche e soluzioni per fare business”,

Bancaria Editrice, Milano 2015.

Bellini L. “Aziende di successo sui social media. Creare valore e generare business”, Bancaria

Editrice, Milano 2014.

Ciarlini R. “Le armi della persuasione”, Giunti Editore, Milano 2013.

GOOGLE E IL CONSUMATORE SEMPRE

CONNESSO IN MULTISCREEN

Scritto da Sara Orfali, tratto dalla lezione di Rosella Serra

Organize the world’s information and make it universally accessible and useful. Questa è la missione di

Google. Per portarla a termine, il colosso americano sta cambiando il mondo, trasformandolo da

mobile-first ad AI151-first.

Questo cambiamento è stato reso possibile negli ultimi anni da tre fattori:

Tutti i devices sono una commodity per un consumatore che vive sempre online.

Le piattaforme sono aumentate.

La capacità di raccogliere e archiviare dati con il cloud è diventata la norma.

Un diretto risultato della virata di Google verso un mondo AI-first è stata la creazione di Google

Voice, definito dalla stessa azienda come “the ultimate conversational assistant”. È una

personalizzazione della macchina, necessaria non solo per dare risposte al consumatore sul

mondo, ma anche su se stesso.

Il mondo, e con esso le multinazionali informatiche, si sta muovendo verso un’ottica di macchine

nelle vesti di personal assistant.

Per adempiere al meglio il suo compito, però, Google Voice si deve appoggiare sul prodotto di

punta di Google: la Search.

Secondo uno dei fondatori di Google, Larry Page, la search engine perfetta è quella che

“understands exactly what you mean and gives you back exactly what you want”.

Il futuro della Search può essere riassunto in queste tre parole: Answer, Converse, Anticipate.

Gli attuali obiettivi della Search sono:

4. Direct response: Il motto è be there. La Search si autoprofila sulla base dell’interesse,

poiché soltanto chi è interessato va davvero a cliccare l’annuncio. Siccome Google ha tolto

gli annunci nella parte destra della pagine, quelli che sono rimasti in cima devono essere

molto più rilevanti di prima.

5. Insight: An insight is a credible and novel finding.

Se la Search è uno dei prodotti di punta di Google il video, e quindi YouTube, è uno dei driver in

continua espansione. Contatta 24 milioni di italiani almeno una volta al mese. YouTube è da anni la

piattaforma video di riferimento per tutti i target.

151 AI sta per Artificial Intelligence, vale a dire la disciplina appartenente all'informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software

capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana.

Il dato interessante è che le audience su YouTube stanno crescendo, mentre sulla TV sono in calo.

Questo succede perché le persone contattate sono sempre di più ma la loro attenzione è sempre

più scarsa. Per questo motivo, il mantra di Google è “attentive reach”.

YouTube è molto attento alla qualità dei contenuti che veicola e a proporre una pubblicità che

rispetti i consumatori; nel corso degli anni ha costruito una library infinita di contenuti che hanno a

che fare con la musica, il food e l'entertainment in generale.

Fig1: I numeri di YouTube Italia

Da un lato questa piattaforma video si sta sostituendo alla TV tradizionale, ma dall’altro si sta

sviluppando una fortissima commistione tra YouTube e la tv. Infatti, YouTube è diventato in grado

di targettizzare la propria audience anche in base ai programmi della TV. Secondo le nuove

ricerche di mercato: “the living room is the fastest growing screen”.

Proprio per questo motivo, e per integrare maggiormente lo schermo TV e la piattaforma di

YouTube, si stanno cercando nuovi modelli di business: un esempio è la trasformazione della

piattaforma YouTube, che diventa a pagamento (per ora solo negli USA, a 35$ il mese) e offre

contenuti esclusivi senza pubblicità, simile al servizio offerto da Amazon TV.

Un altro esempio è YouTubeRed, che permette di fruire dei contenuti di YouTube in maniera

molto più personalizzata. Si può fruire dei contenuti anche offline e senza pubblicità. Anche il

servizio Red è a pagamento.

YouTube è anche entrato nel mondo dei bambini con la piattaforma YouTube Kids, che propone

programmi di interesse esclusivo per i bambini.

Poiché YouTube è diventato un canale così apprezzato, e sulla buona strada per sostituire

definitivamente la TV, deve essere dotato di una pubblicità qualitativamente buona e, soprattutto,

di una buona tecnologia per riconoscere la viewability, l’audibility, il watchtime e l’engagement. La

misurazione di questi parametri è reso possibile grazie ad Active view, un sistema di statistiche che

definisce una pubblicità qualitativamente buona quando occupa almeno il 50% dello schermo per

più di 2s di view.

Come già detto, il principale competitor di YouTube oggi è la TV (il 45% degli utenti lo usa tutti i

giorni, e il 25% lo usa in alternativa alla tv), anche se la piattaforma internet offre, rispetto al

piccolo schermo, un servizio cross-gender, cross-age, cross-education and highly penetrated.

Nel suo ruolo di competitor, YouTube ha anche incominciato a essere preferito da tutti coloro

che, stanchi della TV, hanno deciso di migrare verso altre piattaforme. In special modo, su

YouTube si radunano i TLV (TVLightViewers), cioè coloro che guardano la TV tra 0 e 3 ore al

giorno.

Siccome una delle ragioni dell’abbandono della televisione è proprio la tendenza di questo mezzo

verso le broad commercial strategies, YouTube utilizza un advanced targeting per espandere la

propria reach, renderla più impattante e migliorare i propri risultati, con updates in tempo reale. A

differenza di quanto avviene con la TV, tramite YouTube è possibile contattare una reach che sia

qualificata e interessata ai contenuti che vengono veicolati.

I dati sui risultati di questa pianificazione, però, non sono facili da trovare, in quanto YouTube non

si pianifica in Audiweb giornalmente, ma solo mensilmente.

Però, sono presenti in Kubik, un tool di pianificazione pubblicitaria di YouTube e TV.

Anche per quanto riguarda la pubblicità, la piattaforma di YouTube offre migliore visibilità e una

maggiore concentrazione dell’attenzione degli utenti. Infatti, in tv per ogni break ci sono 12 spot e

quindi le aziende si devono contendere i posti migliori (il primo e l’ultimo) per poter essere

ricordati. Su You Tube, invece, non ci sono problemi di affollamento perché c’è un unico

commercial.

In termini di pubblicità, dalla fine del 2017, YouTube ha introdotto una novità: non sarà più

possibile comprare un ad di 30 secondi non skippabile ed è in arrivo un nuovo formato da 6

secondi.

Queste nuove regole hanno messo in evidenza la necessità di creare una “YouTube branded

strategy”: infatti, non ci sono più consumatori ma audience che vogliono sentirsi raccontare delle

storie.

É essenziale, quindi, avere una strategia di contenuto che soddisfi la propria audience. Questa

strategia si può dividere in tre fasi:

1. Fare la TV+: quindi mandare in onda la stessa pubblicità della tv su YouTube.

2. Made for YouTube: contenuti creati apposta per la piattaforma.

3. Branded content con youtubers: ovvero contenuti che prevedono il coinvolgimento degli

ambassador della piattaforma.

Con l’obbligo di inserire la dicitura “Skip Ad” dopo 5 secondi, si auto-seleziona l’audience e ci si

può permettere di far arrivare il proprio messaggio solamente a chi è davvero interessato.

Le regole da seguire quando si mette a punto video pubblicitario per YouTube sono:

Get attention in 5 seconds.

Take time to tell your story.

Make your video interactive.

Create a clear call to action.

Una volta selezionata l’audience, è possibile quindi creare una branded content strategy in 3

fasi:

1. Content creation: ispire, educate, entertain.

2. Content strategy.

3. Content distribution.

All’interno di questa strategia si possono suddividere i contenuti in tre grandi categorie:

Hero: contenuti emozionali.

Help: contenuti funzionali.

Hub: contenuti che creino un appuntamento (web series).

L’ultima cosa che bisogna tenere presente prima di lanciare la propria campagna pubblicitaria è: “A

viral video IS NOT a strategy”.

BIBLIO / SITOGRAFIA

Russel P., YouTube Marketing: GrowyourYoutube Channel to 100,000 Subscribers in the first 6

Months, 2017.

Wedmore J.,The YouTube marketing book, 2012.

https://assistant.google.com/

https://www.youtube.com/

SITI WEB PER IL 2.0 E PRINCIPI DI SEO

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Andrea Testa

Conoscere le fasi del funnel152 e capire quale strategia adottare per ognuna con l’obiettivo di

produrre conversioni, nella consapevolezza che per rendere efficace e funzionale un piano di

marketing è necessaria l’interpretazione costante dei dati: queste le basi per costuire un sito web

nel modo più corretto. E’ necessario poi analizzare le modalità di navigazione degli utenti e

delineare i loro percorsi di acquisto per ottimizzare la visibilità in rete, migliorare le performance

di un sito web e posizionare gli annunci pubblicitari online nel posto e nel momento giusto,

sfruttando le potenzialità di strumenti come Google AdWords.

IL FUNNEL CONTEMPORANEO DEL MARKETING

Il funnel tradizionale, che consente di suddividere il percorso di acquisto del consumatore in step,è

composto essenzialmente da quattro fasi: l’awareness (in cui il prospect inizia a conoscere il brand),

la consideration (il probabile acquirente prende in considerazione il brand e comincia a informarsi),

l’intent (il possibile cliente ha ormai intenzione di comprare e si attiva per procedere con

l’acquisto) e la purchase (l’acquisto vero e proprio). Nel funnel contemporaneo, invece, si aggiunge

l’interest tra l’awareness e la consideration: l’interesse è infatti una discriminante fondamentale per

procedere nelle successive fasi del funnel e riveste un ruolo centrale anche nella stesura della

strategia di marketing.

FASE 1 di Awareness

La fase più alta è rappresentata dall’awareness, ovvero dalla consapevolezza. In questo

stadio del funnel bisogna consentire al prospect, ovvero al probabile consumatore, di

conoscere le caratteristiche e qualità del brand/prodotto/servizio, raggiungendolo nelle sue

fasi di navigazione. L’attività da mettere in campo è principalmente push (attraverso tv,

radio, cartelloni pubblicitari, banner, newsletter…) e la comunicazione deve essere il più

possibile a largo spettro.

FASE 2 di Interest

La seconda fase, quella dell’interesse, implica una prima domanda da parte del prospect, che

si sta informando. Questo livello del funnel corrisponde alla fase ZMOT (zero moment of

truth): catechizzando il prospect, il suo funnel sarà influenzato dalle informazioni che gli

vengono fornite. Una fase che non può essere ampia come quella di awareness, in quanto il

152 Nell’ambito del marketing, la parola funnel si trova associata ad un sacco di termini: purchase funnel, sales funnel e conversion funnel, solo per citare i più noti. In parole povere, stiamo parlando di un imbuto dove dall’alto arrivano le visite degli utenti, e da sotto escono – o almeno dovrebbero uscire – vendite e conversioni. In linea teorica, il modello

del funnel è applicabile alla quasi totalità dei siti web, ma è soprattutto valido per gli ecommerce, le landing page, le squeeze page o comunque i siti e le pagine che cercano di trasformare un semplice visitatore in un cliente.

brand deve effettuare una prima scrematura e individuare chi è interessato, per poi

educarlo. L’attività di marketing, pertanto, è sia push che pull.

FASE 3 di Consideration

Nella fase della considerazione il prospect già conosce il brand e le sue qualità, ma non ha

ancora deciso se fidarsi e per questo raffina la ricerca, inizia a documentarsi e prende in

considerazione vari elementi per completare la propria educazione. Si tratta di una fase

intermedia in cui inizia l’attività di nurturing da parte del brand, che “coccola” e “imbocca”

il prospect iniziando a fornirgli le certezze di cui ha bisogno per prepararlo alla fase bassa

dell’acquisto. L’attività è push e pull.

Fig1: il Lead Nurturing è parte integrante di una strategia di marketing di successo, rappresenta il processo di

costruzione di relazioni con i potenziali clienti su più canali comunicativi.

FASE 4 di Intent

Ormai il prospect ha intenzione di procedere con l’acquisto ed è a un passo dal diventare

cliente. In questa fase si prosegue con l’attività di nurturing. L’attività di marketing è

primariamente pull.

FASE 5 di Purchase

Sciolti tutti i dubbi e abbandonate le resistenze, il prospect è pronto all’acquisto e diventa

cliente. Questa fase finale è definibile come “brandizzata”: quando nasce il cliente

valorizzare il brand diventa determinante. L’attività di marketing da adottare è tipicamente

pull. Infine arriva il word of mouth: fidelizzare il cliente favorisce il passaparola e il

consumatore diventa una sorta di ambasciatore del brand.

COME MISURARE I RISULTATI DI UNA CAMPAGNA DI MARKETING?

Le attività di marketing e di comunicazione messe in atto nelle varie fasi del funnel sono finalizzate

al raggiungimento di un risultato, che deve essere percepibile concretamente, ovvero misurabile.

ROI

Inevitabile parlare di ROI, cioè della misurazione del ritorno dell’investimento. Il ROI (return on

investment) è il calcolo più “famoso” per analizzare in percentuale se il piano e il metodo di lavoro

adottati stanno funzionando, in quanto permette di comprendere, partendo da spesa e incasso,

quanto è il guadagno effettivo. Il ROI si ottiene dal rapporto tra utile derivato e capitale investito,

dove per utile derivato si intende il reddito complessivo dell’operazione meno il capitale investito.

Il ROI diventa positivo a partire da numeri percentuali sopra lo 0,00%.

Fig2:l’obiettivo da raggiungere è, alla fine, quasi sempre di tipo economico

ROAS

Le piattaforme di digital marketing, però, non lavorano a ROI, bensì a ROAS (return on advertising

spend). È fondamentale comprendere la differenza tra ROI e ROAS perché influenza i piani di

marketing: il ROI è un completo ritorno sull’investimento, mentre il ROAS è il ritorno solo sulla

spesa pubblicitaria. Si ottiene dal rapporto tra valore delle vendite e spesa pubblicitaria, dove per

valore delle vendite si intende l’incasso complessivo derivante dall’azione pubblicitaria. Nel calcolo

del ROAS un valore inferiore al 100% significa che l’investimento è stato negativo (il ROAS è

positivo solo quando è superiore al 100%).

Quanti e quali clic ci vogliono per raggiungere un obiettivo?

Quanti e quali sono i clic che si evolvono in conversioni? Mentre fino a poco tempo fa il merito

della conversione era attribuito all’ultimo clic, ora si è compreso che questo tipo di misurazione

restituisce un’immagine incompleta e potrebbe tralasciare informazioni importanti sul percorso dei

clienti. Ogni clic ha la sua importanza nel processo di acquisto: a fronte di un’offerta sempre più

vasta e di una maggiore complessità, l’utente vuole essere rinfrancato e cerca sempre più

informazioni, raffinando la ricerca. Il percorso di acquisto, pertanto, diventa più lungo, ed è

fondamentale valutare l’importanza di ogni clic considerando la fase del funnel in cui l’utente si

trova. Per questo, da un modello “ultimo clic” si passa a un modello “in base alla posizione”. La

piattaforma Google Analytics permette di misurare vendite e conversioni, ma offre anche dati

aggiornati su come i visitatori sono “atterrati” sul sito aziendale, come si comportano all’interno

del sito stesso e come è possibile incentivarli a tornare. Attraverso la canalizzazione multicanale è

possibile analizzare il percorso completo dell’utente verso la conversione, usufruendo di

informazioni utili per capire come agire al meglio nelle varie fasi del funnel. Questo strumento

permette infatti di guardare alle interazioni sui diversi media digitali e mostrare come questi canali

interagiscono per creare vendite e conversioni, consentendo di prendere decisioni di marketing

fondamentali. L’attribuzione indica il peso dei singoli canali di accesso al sito web e in che modo

hanno contribuito al processo di conversione. Il modello di attribuzione, che serve a determinare

qual è il clic più importante nel processo che porta il clic stesso a diventare una conversione, può

essere cambiato manualmente (ultima interazione, ultimo clic non diretto, ultimo clic AdWords,

prima interazione, sulla base della posizione…). Sulla piattaforma Google AdWords, dal menù

conversioni è possibile scegliere il modello di attribuzione, verificando la probabilità che ha ogni

canale di portare al raggiungimento di un obiettivo.Tutto il comparto di attribuzione e il

raggiungimento del ROAS esaltano il processo di conversione, potenziando i canali al fine di

raggiungere il maggior numero di obiettivi e garantendo una costante di ritorno sulla spesa

pubblicitaria. In questo senso è molto importante considerare i Kpi (key performance indicator): gli

indicatori chiave di prestazione indicano quali sono i passaggi più importanti per raggiungere

l’obiettivo.

COME ATTIVARE L’ANNUNCIO GIUSTO NEL MOMENTO GIUSTO E NEL

POSTO GIUSTO

In che modo il brand può garantirsi che i propri annunci vengano attivati nel posto giusto e nel

momento giusto, anche differenziandoli in base alla fase del funnel in cui si trova il potenziale

consumatore? Google AdWords, servizio online di advertising che permette di inserire spazi

pubblicitar iall’interno delle pagine di ricerca di Google, mette a disposizione varie modalità.

Attraverso le “parole chiave” il banner comparirà nelle pagine dei siti web che contengono quelle

parole. È un metodo che permette potenzialmente di intercettare gli utenti interessati a quelle

determinate parole. Il “posizionamento” consente invece di selezionare i siti web sui quali dovrà

comparire l’annuncio. Optando invece per la modalità “argomenti”, i banner compariranno sui siti

che trattano le tematiche selezionate, anche suddivise in macro e micro-categorie. È anche

possibile scegliere l’utente al quale proporre il banner in base ai “dati demografici”, come sesso,

fasce d’età e stato parentale. Gli utenti di un sito possono inoltre essere inseriti in elenchi per il re-

marketing e suddivisi in liste in base alle categorie che hanno visitato e ai loro “interessi”: ciò

permette di creare banner ad hoc per determinati tipi audience. Se si lavora per “argomenti” si

intercettano gli utenti che si trovano su siti che parlano di quel determinato tema, se invece si

lavora per interessi non si considera dove l’utente si trova, ma lo si segue a prescindere nei suoi

percorsi di navigazione. Lavorando per “affinità”, invece, si possono ottenere segmenti di pubblico

interessati a un determinato prodotto o servizio, selezionando tra le macro-categorie che

AdWords mette a disposizione. L’affinità può anche essere “personalizzata”, ovvero è possibile

creare un target specifico che non compare tra i segmenti di AdWords, lavorando per concetti:

questo consente agli inserzionisti di creare segmenti di pubblico che siano maggiormente

personalizzati per i loro brand. Se si inserisce un dominio concorrente AdWords analizzerà anche

gli utenti che hanno un comportamento simile a quello dei visitatori dei siti web dei competitor.

Infine, AdWords offre la possibilità di analizzare “segmenti di pubblico in-market”, che permettono

di trovare i clienti che eseguono ricerche di prodotti e valutano seriamente la possibilità di

acquistare prodotti o servizi simili a quelli offerti dal brand, quindi utenti che hanno manifestato

una maggiore propensione all’acquisto o addirittura prossimi alla conversione. È anche possibile

scegliere su quali siti proprio non si vuole che compaia il banner: AdWords mette infatti a

disposizione categorie di siti che possono essere rimosse se si pensa che abbiano contenuti che

contrastano con il messaggio o il portato valoriale del brand.

QUERY E PAROLE CHIAVE

I banner da inserire sui siti web vengono selezionati da un algoritmo che, tra le tante variabili, tiene

conto delle parole chiave ricercate dall’utente. Così facendo verranno mostrati annunci pertinenti

agli scopi dell’utente, migliorando anche l’investimento da parte delle aziende che fanno advertising

online tramite questo strumento. La corrispondenza è il modo con cui una parola chiave partecipa

all’attivazione di un annuncio, in seguito alla query, ovvero la ricerca in Google, di un utente: la

query è la ricetta, la parola chiave è l’ingrediente. La corrispondenza delle parole chiave può essere

generica (la parola chiave attiva l’annuncio quando avviene un’assonanza semantica e correlata);

generica modificata (utilizzando come marcatore il segno “+”, la parola chiave attiva l’annuncio

quando le parole contrassegnate dal segno “+” sono presenti); frase (quando la frase viene inserita

tra virgolette, la parola chiave attiva l’annuncio quando la query presenta le parole in quell’esatto

ordine, possono esserci parole davanti o dietro ma non in mezzo alla frase); esatta (se la frase

viene inserita tra parentesi quadre, l’annuncio viene attivato quando la query è scritta esattamente

come la parola chiave, senza alcuna parola davanti o dietro); inversa (usando come marcatore il

segno “-”, la parola chiave impedisce l’attivazione dell’annuncio se nella query è presente la parola

“negativa”). Google AdWords permette anche di sapere quali query hanno attivato gli annunci.

Ovviamente, per valutare se è utile fare pubblicità online con parole chiave, bisogna considerare,

sulla base dei risultati che ogni chiave restituisce, le potenzialità della chiave stessa.

QUALCHE CENNO SU GOOGLE CORRELATE

Google Correlate non è Google Trends. Non offre quindi altri termini di ricerca basati sul

significato semantico della chiave usata per l'interrogazione, ma restituisce grafici simili magari

riferiti a termini che non c’entrano nulla con la parola chiave. Trends mette in relazione semantica

e ideologia, quindi data una parola chiave ci si aspetta una risposta logica di affinità. Correlate,

invece, mette in relazione il pattern temporale, permettendo di capire quali ricerche vengono

effettuate nello stesso momento in cui si cerca la parola chiave presa in considerazione (ma anche

in un momento precedente). Correlate mette in relazione, fornisce abbinamenti e suggerimenti,

permettendo di trovare opportunità, ma non è detto che tutti i risultati che offre possono o

devono essere usati: i dati offerti devono essere analizzati, metabolizzati e rielaborati. Correlate

può essere utilizzato per qualsiasi chiave, ma l’importante è non domandarsi cosa c’entrano le

parole chiave trovate con quella di riferimento, bensì come si potrebbero correlare tra loro.

BIBLIOGRAFIA

Di Fraia G., Testa A., I segreti di Google AdWords – Guida avanzata per ottimizzare le

performance e moltiplicare i profitti, Hoepli, 2013

Marshall P., Todd B., Google AdWords - La guida definitiva - Come raggiungere 100 milioni di

persone in 10 minuti, Hoepli, 2013

Tampieri M., Funnel marketing formula, Mondadori, 2017

Testa A., Fare business col digital marketing – Guida di base agli strumenti del marketing digitale e

al loro utilizzo per ottimizzare il traffico verso i propri presidi web e social, Epc Editore, 2015

00

S E Z I O N E A N A L I S I

«Data is the new gold»

INDICE

1 - L’ASCOLTO DELLA RETE E LA SOCIAL MEDIA MINING

Scritto da M.Gregis, tratto dalla lezione di Paola Nannelli…………………… . . pag.5

2 - BIG DATA E VISUALIZZAZIONE TRA ANALISI E NARRAZIONE

Scritto da N.Gadaleta, tratto dalla lezione di Paolo Ciuccarelli……………… .pag.11

3 - SITI WEB PER IL 2.0 E WEB ANALYTICS

Scritto da L.Cappelletti, tratto dalla lezione di A.Testa e G.Bassi………………pag.17

L’ASCOLTO DELLA RETE

E LA SOCIAL MEDIA MINING

Scritto da Monica Gregis, tratto dalla lezione di Paola Nannelli

Ascoltare la rete per comprendere i bisogni delle persone, coglierne i desideri e quindi elaborare

una strategia di comunicazione adatta alle loro esigenze, ma anche per monitorare costantemente

se il piano comunicativo funziona, se ha raggiunto efficacemente gli obiettivi prefissati e -nel caso-

intervenire con gli opportuni aggiustamenti. Sono gli obiettivi del social media mining, che consiste

nell’estrarre e analizzare dati e informazioni dalle piattaforme social per pianificare una strategia di

comunicazione efficace, non stabilita aprioristicamente, ma plasmata e adattata ai bisogni e ai

desideri degli utenti.

Fig1: L’ascolto è necessario per ottenere la fiducia dei nostri interlocutori, anche negli ambienti digitali

“ASCOLTARE” I SOCIAL PER COMPRENDERE I BISOGNI DELLE PERSONE

Come conoscere i bisogni delle persone nel mondo digitale? I sistemi di social media listening

rispondono proprio a questa domanda, permettendo di comprendere quello che desiderano gli

utenti attraverso l’ascolto delle loro conversazioni sui social, analizzando i loro post e commenti.

Un vero e proprio cambiamento di metodo: il primo passo non è più, infatti, l’elaborazione di una

strategia per ogni mezzo di comunicazione con l’intento di raggiungere i potenziali consumatori,

bensì l’ascolto del mercato sui social per costruire successivamente una strategia che risponda il

più possibile alle sue esigenze. La conoscenza degli utenti, infatti, detta l’efficacia della campagna

comunicativa: più si ascoltano i loro bisogni e si comprende che cosa desiderano, più si traggono

elementi utili per l’elaborazione della strategia.

WHY?

Per ascoltare i social si utilizzano degli appositi strumenti di ricerca e analisi, delle piattaforme

come Blogmeter che permettono di scandagliare, filtrare e analizzare contenuti, post e commenti.

Prima di iniziare ad ascoltare è però necessario avere bene in mente perché lo si sta facendo, qual

è lo scopo che si vuole raggiungere. Prima ancora delle domande “What?” e “How?” è infatti

importante rispondere alla domanda “Why?”, che l’antropologo ed esperto di marketing Simon

Sinek pone al centro della sua teoria del “Golden Circle”, rappresentata da tre cerchi concentrici

che appunto contengono, dall’esterno all’interno, le domande “What?”, “How?” e “Why?”.Per

Sinek ogni organizzazione o persona sa cosa fa, molti sanno come la fanno, ma pochi sanno

perchélofanno.I leader, invece, pensano, agiscono e comunicano dall’interno verso l’esterno, dal

“perché” al “cosa”.In questo senso è fondamentaleascoltare i social media avendo bene in mente

qual è l’obiettivo dell’ascolto. Analizzare i social permette di capire come rispondere al meglio ai

bisogni degli utenti e, nel caso di lamentele o commenti negativi,consente di aggiustare il tiro e

correre ai ripari prima che sia troppo tardi. Con l’avvento dei social media, infatti, le aziende

possono conoscere molto meglio i loro consumatori, raccogliere suggerimenti, ma anche ricevere

critiche. Ad ogni modo, se vogliono raggiungere il loro scopo non possono prescindere

dall’ascoltare quello che dicono le persone, dagli argomenti che più le fanno discutere e verso i

quali mostrano maggiore interesse.

LE FASI DELL’ASCOLTO

Il terreno più fertile in cui raccogliere dati e informazioni e su cui fare ricerca è quello dei social

media perché permettono l’interazione degli utenti e facilitano la creazione e lo scambio dei

contenuti generati. “Ascoltare” i social permette di analizzare la reputazione online, comprendere

la percezione di un brand, un prodotto, un tema o un personaggio, misurare il ritorno delle attività

di social media marketing, profilare e segmentare i fans e coinvolgere e supportare i consumatori sui

social network. Come si procede? Il work flow si compone di quattro fasi: ascolto, selezione,

classificazione e analisi.

1) Ascolto: attraverso l’attività di social web miningsi prendono in considerazione i contenuti

sui social;

2) Selezione: con il machinelearning si filtrano i dati necessari, effettuando una sorta di

scrematura per concentrarsi sugli elementi di effettivo interesse;

3) Classificazione: consiste in un’analisi più approfondita dei messaggi, finalizzata a inserire i

contenuti in specifiche categorie;

4) Analisi: l’ultimo step prevede una riflessione sui dati raccolti, per utilizzarli al meglio

all’interno della strategia di marketing.

Il social media listening o social media monitoring153 è l’attività sistematica e pianificata di ascolto del

passaparola sui social media, per comprendere e misurare quando, quanto e come gli utenti

parlano di un’azienda, brand, personaggio, settore o tema. Può avvenire in tre modalità:

153 Il social media listening viene spesso chiamato anche social media monitoring, ma non sono esattamente la stessa cosa. Il social monitoring rappresenta in realtà il primo step della strategia di social listening, quella in cui si raccolgono

1) L’ascolto storico consiste nel recuperare i dati in un preciso intervallo temporale;

2) L’ascolto on track permettedi valutare i messaggi raccolti in un certo periodo (ad esempio

di mese in mese) e di fare delle comparazioni;

3) L’ascolto real time consiste nell’analizzare i contenuti in tempo reale.

Nell’effettuare un’attività di social media listening è fondamentale il metodo: la prima fase consiste

nell’ascolto, poi si procede con la classificazione dei dati raccolti e successivamente con l’analisi,

per poi tenere in considerazione i risultati nel momento in cui si procede con una nuova fase di

ascolto, in un circolo virtuoso che consente di tenere sempre monitorati i contenutisui social e di

adattare di volta in volta le strategie di comunicazione.Capire chi parla dell’oggetto di analisi e su

quali social ne parla permette di intervenire tempestivamente e apportare delle modifiche sulla

base del feedback del mercato. E per proporre sempre contenuti interessanti alla propria audience

è fondamentale ascoltarla di continuo, perché gli interessi, i bisogni e le aspettative cambiano nel

tempo.

Fig2: l’adozione di uno strumento di social media listeningpermette di ottenere feedback in tempo reale per

migliorare i processi di business e lo sviluppo del bene o del servizio.

Nel processo di ascolto le fonti, vale a diresocial network, blog, forum, newsgroup, siti di

contentsharing (come YouTube) e di Question&Answering (come Yahoo!Answers) da cui si

traggono i contenuti, assumono una grande rilevanza ed è importante che il “paniere” venga

continuamente arricchito per garantire la completa copertura di fonti rilevanti per l’ascolto

specifico.

Bisogna tenere sempre presente che ogni settore merceologico ha delle fonti specifiche, per cui è

impossibile prescindere dalle caratteristiche di ogni settore per capire quali sono le fonti in cui si

possono trovare i contenuti più rilevanti. Importante, poi, la costruzione di una tassonomia

d’analisi, attraverso l’identificazione dei brand, dei prodotti, dei temi da sottoporre all’analisi,

l’individuazione delle keyword più adatte a isolare i messaggi su un tema, brand o prodotto e la

configurazione delle query di ricerca con gli operatori booleani (AND, OR, NOT). Bisogna

prevedere eventuali misspelling (a volte gli utenti non scrivono correttamente le parole) e

semplicemente i dati relativi alle mention, i like, il sentiment, le condivisioni, etc…per ottenere una lista di dati che indicano il social media engagement del tuo brand. Quando parliamo di social listening ci stiamo riferendo a un passaggio successivo, nel quale vengono portate avanti azioni di analisi volte ad identificare modelli di diffusione del

contenuto, tracciare l’evoluzione del sentiment, identificare gli influencer, indagare a fondo i risultati e i temi che stanno ottenendo le migliori performance, per migliorare la propria strategia.

aggiornare costantemente con neologismi e nuovi hashtag, oltre che gestire omonimi, sinonimi e

ambiguità linguistiche (come nel caso di “Tre”, “Dove” e “Star”).

La classificazione dei messaggi può avvenire in automatico, ma non tutto si può automatizzare e

l’intervento dell’analista è spesso fondamentale. È proprio l’analista, infatti, che deve comprendere

quale tool è più opportuno utilizzare in base all’oggetto di analisi e agli obiettivi prefissati. Il tool di

social media analytics permette di misurare le performance della presenza social (Facebook,

Twitter,

Instagram…) e di confrontare l’engagement che è in grado di suscitare con un benchmark di

riferimento.Attraverso il tool di social analytics è possibile analizzare la concorrenza e identificare

best practice, valutare le performance di profili social nel tempo, identificare gli utenti più attivi e

gli influencer e individuare i post e i tweet più engaging del settore.

QUANTE E QUALI ANALISI?

Il social listening permette di valutare la brandpresence, di effettuare topicanalysis, sentimentanalysis,

emotionanalysis, analisi delle fonti e analisi degli autori.

La brandpresence può essere rilevata in termini di share of buzz (quanto se ne parla?) e

trend temporale. La share of buzz, una sorta di “quota di mercato” trasferita all’ambito

social, è determinata dal numero di citazioni e post sull’oggetto di analisi, da confrontare

con quello dei concorrenti; l’analisi del trend temporale permette invece di capire che tipo

di impatto può avere nel tempo una campagna on e off line;

La topicanalysis comprende lo share of topic(permette di capire quali sono le tematiche più

discusse e le conversazioni più dibattute e come è posizionato il brand rispetto a una

categoria), e il conceptcloud (permette di focalizzare i concetti più ricorrenti sull’oggetto di

analisi);

Lasentimentanalysispermette di capire in che modo le persone parlano dell’oggetto di analisi:

se ne parla bene, male o in tono neutro? Ci sono delle domande? Quali sono i topic più

critici e quali i punti di forza?

L’emotionanalysissi focalizza invece sulle emozioni manifestate dagli utenti sull’oggetto

dell’analisi: quali le emozioni suscitate? Qual è il portato di valori che il soggetto aggiunge?

Ci sono criticità in termini emotivi? A volte è necessario procedere con sub-analisi per

target e/o per fonte;

L’analisi delle fonti permette di capire dove gli utenti parlano dell’oggetto di analisi (share of

buzz per dominio): se ne parla sui social, sui blog, sui forum? Il passaparola è concentrato in

pochi luoghi o diffuso nel web?

L’analisi degli autori permette di individuare i clienti che parlano con maggiore assiduità sui

social dell’oggetto di analisi e di identificare gli influencers.

TIPS & TRICKS SULL’ASCOLTO DELLA RETE E LE SFIDE PER IL FUTURO

Ecco qualche suggerimento e trucco su come ascoltare al meglio la rete:

Individuare l’owner dell’ascolto: chi utilizzerà e beneficerà dell’ascolto? Per esempio il

marketing (per analizzare i bisogni del consumatore), le public relationship (per conoscere

la reputazione dell’azienda, del brand, dei prodotti…), il customerrelationship management

(per un avere un feedback dopo il lancio di nuovi prodotti o servizi o per individuare

eventuali problemi o lamentele), le risorse umane (per l’employerbranding ovvero la

reputazione che un’azienda si costruisce come luogo di lavoro) etc.

Stabilire quandorealizzare l’ascolto (Prima? Durante? Dopo?)

Definire l’oggettodell’ascolto (in funzione degli obiettivi di ricerca, dipendenti a loro volta

dagli obiettivi aziendali) e fissare un termine di paragone(competitors, benchmark di

settore…)

Decidere quali lingue/paesie quali mercatimonitorare (non sempre a un mercato

corrisponde una sola lingua e a una lingua corrisponde un solo mercato)

Trovare il budget (toolgratuiti o a pagamento?)

Definire il tipo di analisi(qualitativa o quantitativa?)

Fissare il tipo di impegnointerno (chi eseguirà l’analisi?)

L’ascolto della rete è in continua evoluzione e soggetto a un progressivo perfezionamento. Alcune

delle prossime sfide dell’ascolto sui social sono il real time monitoring e il real time marketing:

approcci al mercato che fanno leva sulla capacità aziendale di rispondere tempestivamente a eventi

e stimoli esterni, siano essi prevedibili o meno, attraverso strumenti che permettono di capire in

tempo reale cosa è rilevante e quindi di “cavalcare l’onda” offrendo un prodotto o un servizio

adatto a soddisfare quel determinato bisogno in quel determinato momento.Un’altra delle leve su

cui si dovrà puntare sempre di più è rappresentata dall’analisi della rete per individuare gli

influencers più adatti per un determinato settore.

INFLUENCER MARKETING

Il ruolo degli influencer sta assumendo un’importanza sempre maggiore, in quanto le persone

tendono a dare più credito a quello che dicono gli altri rispetto a quello che viene comunicato dal

brand: i consumatori, infatti, non si fidano più tanto della pubblicità, quanto delle altre persone,

purché, ovviamente, risultino credibili. La comunicazione più efficace, infatti, rimane sempre il

wordofmouth, il passaparola: non c’è niente di più convincente di quello che ci viene assicurato da

qualcuno che consideriamo affidabile. Proprio per questo l’influencer non va considerato alla

stregua di un testimonial, perché altrimenti si cade sempre nell’advertising tradizionale e non ci si

può avvalere degli aspetti vincenti di una strategia di Influencer Marketing. Proprio per la sempre

crescente importanza attribuita agli influencers, i criteri della loro scelta sono diventati nel tempo

sempre più complessi e sofisticati, esattamente come quelli della scelta di una pianificazione o

attività di comunicazione classica, con alcuni parametri specifici. Individuare l’influencer giusto, con

le caratteristiche più adeguate al messaggio che si intende veicolare, è quindi fondamentale per

centrare gli obiettivi che ci si è prefissati all’inizio della campagna. È necessario avere ben chiaro lo

scopo che si vuole raggiungere con una campagna di Influencer Marketing, per poi definire le metriche d’azione (actionablemetrics) dalle quali derivare da un lato i key performance indicatore

dall’altro i parametri di rilevanza degli influencers, scartando quelle che vengono definite le metriche

di vanità (vanitymetrics). Le vanitymetrics sono quegli indicatori che instillano un falso senso di

sicurezza, ma non rispondono a domande chiave o consentono di prendere decisioni (per esempio

il numero dei fan di una pagina o di un profilo), sono numeri che indicano un interesse verso un

contenuto, ma non sono sufficienti per indirizzare la pianificazione della strategia di comunicazione.

Le actionablemetrics, invece, consentono di prendere decisioni in maniera consapevole. Nella scelta

dell’influencer “giusto” bisogna considerare una serie di elementi, tra cui il settore di influenza,

l’ampiezza e la geografia dell’audience, la tipologia di audience, le piattaforme social attive, la

credibilità e rilevanza, le relazioni che ha instaurato e i contenuti che condivide.

BIBLIOGRAFIA

Di Fraia G., Social media marketing - Manuale di comunicazione aziendale 2.0, Hoepli, 2011

Zaccone E., Social media monitoring- Dalle conversazioni alla strategia, Dario Flaccovio Editore,

2015

Marmo R., Social media mining- Estrarre e analizzare informazioni dai social media, Hoepli, 2016

Cipolletta E., Social media analytics - Capire e misurare le conversazioni in rete, Apogeo, 2017

BIG DATA E VISUALIZZAZIONE

TRA ANALISI E NARRAZIONE

Scritto da Nadia Gadaleta, tratto dalla lezione di Paolo Ciuccarelli

Il tema della lettura e interpretazione dei Big Data154 si sta espandendo e riguarda sempre più non

solo ambiti tecnologico-scientifici ma anche altri contesti non allenati all’interpretazione di una tale

mole di dati.

Un buon esempio sono le infografiche presenti nelle bollette oppure alcune App di fitness per

monitorare il progresso personale. Oggi è fondamentale rappresentare i dati creando una

visualizzazione semplice ma precisa per trasmettere il pensiero che si nasconde dietro di essi: per

questo motivo si parla di data experience155.

Il bisogno di nuove forme di rappresentazioni di dati ha portato la tecnologia e la statistica ad

accostarsi al design, materia percepita come creativa e fuori da schemi prettamente scientifici.

Eppure, se provassimo a pensare al mondo in cui viviamo come a un qualcosa di complesso, in cui,

tuttavia, tutto è in connessione con il resto nello stesso sistema naturale, capiremmo come due

discipline agli antipodi possano essere connesse tra loro. Basterebbe immaginare una mole di dati

come se fosse un materiale grezzo e senza forma: il design assumerebbe il compito di dare forma

sensata e visibile ad esso; esattamente come accade quando uno scultore crea figure levigate da

ceppi di legno.

Dunque spetta al design l’arduo compito di rappresentare la complessità dando vita ad una nuova

disciplina: il design della comunicazione, che attraverso l’elaborazione dei dati riesce non solo a

rappresentarli ma anche a dar loro delle differenti sfumature di significato. Il design rende i

fenomeni visibili, accessibili e utilizzabili per una audience più ampia. Come il design, anche il dato,

inteso come materiale, ha assunto diverse accezioni.

NeelieKroese, vice presidente della Commissione Europea per la Digital Agenda, ha dichiarato che

“data is gold”; affermazione che, tuttavia, suggerisce una visione troppo preziosa per il dato e

probabilmente statica, dal momento che l’oro non possiede particolari potenziali. L’azienda Cisco,

ha

154Si parla di big data quando un insieme grande e complesso di dati richiede la definizione di nuovi strumenti e metodologie per estrapolare, gestire e processare informazioni in un tempo ragionevole 155Fenomeno che si sta affermando negli ultimi anni, si tratta di una rappresentazione di dati che tende a creare un’esperienza davanti agli occhi dell’osservatore.

invece affermato che i dati sono “the new oil” riferendosi al fatto che grazie ai dati si possono

ricavare preziose informazioni, inoltre, proprio come il petrolio, i dati possono essere utilizzati in

diversi contesti per svariate funzioni. IBM, invece, ha definito i Big Data come una risorsa naturale,

anche se, in questo caso, sarebbe giusto chiedersi fino a che punto un dato può essere definito

‘naturale’ dal momento che si tratta del risultato di una serie di processi costruiti artificialmente.

Probabilmente, una definizione che rimanda al dato come materiale grezzo dalle buone potenzialità

è l’affermazione di Tim Berners-Lee “raw data now”: i Big Data sono un ammasso grezzo di

materiale in attesa di elaborazione.

Fig 1: i big data ormai sono ovunque

Per comprendere in modo più approfondito la concezione dei Big Data nella realtà odierna e la

funzione che il design della comunicazione156 assume nel renderli interpretabili, bisogna partire da

tre premesse che guardano oltre il presente spiegando l’importanza dei dati e la loro storia. A

queste tre premesse seguono dieci pilastri: i primi sono diretta conseguenza delle tre premesse

mentre, man mano che si va verso il decimo, si esprimono nuove prospettive che guardano al

futuro e ai risultati che si potrebbero raggiungere attraverso la ricerca.

LE TRE PREMESSE DEL DESIGN DELLA COMUNICAZIONE

156Il design della comunicazione (in inglese communication design) è quella branca del design che si riferisce agli ambiti in cui l'ideazione dei contenuti discende in buona parte dalla loro comunicabilità visuale.Il termine si è reso necessario perché il campo della progettazione grafica, con l'esplosione dei nuovi media, ha di fatto costretto molti operatori della comunicazione visiva (graphic designer, art director ecc.) ad estendere le loro competenze per poter progettare

in modo più funzionale l'interfaccia e il contenuto sottostante.

Prima Premessa: La visualizzazione dei dati conta.

La visualizzazione dei dati quindi conta non solo in ambito scientifico o tecnologico, ma sta

assumendo oggi una dimensione sempre più ampia influenzando ad esempio determinate figure

lavorative come i giornalisti, che si impegnano nell’interpretazione dei dati per scrivere articoli.

Dunque, chi opera nel campo della visualizzazione dei dati deve pensare a rendere comprensibili

nel miglior modo possibile una serie di numeri: il significato di un dato non è quindi fissato a priori

e ma viene costruito e il data mining è solo un pezzo del processo.

Seconda Premessa: La visualizzazione dei dati conta (bis). Le motivazioni.

Il primo motivo è l’efficienza dell’elemento visivo: la vista riesce nella più piccola unità di tempo a

passare al cervello un maggior numero di informazioni rispetto ad altri sensi. Grazie alla vista, il

cervello possiede una potenzialità di analisi notevole e autonoma. Il secondo motivo è

l’effettività: la mente cerca un senso nelle figure visualizzate. Esattamente la stessa idea che sta

alla base dell’invenzione delle costellazioni: un insieme disordinato di stelle (dati) che trovano

ordine in un disegno (costellazioni).

Terza Premessa: It’s a very long story.

I grafici non sono un’invenzione moderna e ce lo dimostrano alcuni manoscritti del Trecento. In

seguito, grazie a Cartesio e al suo sistema, quei grafici hanno trovato un punto di riferimento e

sono diventati contestualizzabili. I primi grafici a torta o a barre sono stati utilizzati in Francia e

Regno Unito nella seconda metà del Settecento da Minard e Playfair, che sono considerati padri di

questa disciplina.

I DIECI PILASTRI DEL DESIGN DELLA COMUNICAZIONE

1. Data on its own is impotent. Si tratta di un’affermazione fatta da G. Laurence, che è stato

CEO di Vodafone Group UK, il quale affermava che una grande quantità di dati senza una buona

visualizzazione è insignificante. Esattamente lo stesso pensiero espresso della designer

Kazmierczakche definisce il dato meaningless ma con del potenziale di significato grazie alla

visualizzazione che gli viene data.

2. Weave the dimensions. Una certa tipologia di dato deve essere resa in modi differenti per

generare maggiori prospettive. Si tratta di un lavoro che già Playfair, statistico scozzese, ha fatto

nella seconda metà del Settecento, illustrando gli stessi dati con figure diverse, come grafici a barre

o a torta, oppure combinando insieme entrambe le figure.

3. What You See Is Not What You Get. Ognuno legge dei dati per trarre delle conclusioni e

scoprire l’insight157. Eppure, la visualizzazione da sola non sempre è sufficiente, ma è collegata alla

mente di chi legge e a quello che si conosce. Scoprire l’insight diventa un processo cognitivo che

chiunque può compiere. Esemplare a questo proposito è l’episodio di John Snow, un medico

anestesista dell’Ottocento. Nel 1854, durante l’epidemia di colera scoppiata a Londra Snow,

cercando di capire quale fosse la causa scientifica del morbo, disegnò una mappa in cui raffigurava il

numero delle vittime nelle varie abitazioni. Egli fu l’unico a rendersi conto del fatto che il maggior

numero di morti si concentrava intorno a determinate fontane di acqua pubblica: arrivò alla

conclusione che il colera si stava diffondendo tramite l’acqua. Ebbene, nonostante Snow non fosse

l’unico in quel periodo ad indagare sulle cause del colera, nessuno aveva associato l’elemento

acqua all’epidemia: il suo processo cognitivo era stato influenzato da altre ricerche sulla diffusione

delle malattie tramite acqua. Snow, ricevette la conferma di una verità insita nella sua mente grazie

al disegno che aveva davanti ai suoi occhi. Per questo, nell’ideazione di un grafico, bisogna tenere

presente la figura che leggerà quell’interfaccia e l’uso che deve farne. I fattori principali, in questo

procedimento sono: context, user e purpose.

4. Every visualization is an interpretation. Questo pilastro rimanda al concetto dell’inesistenza

di una verità oggettiva ed alla prima premessa vista sopra. Infatti il modo in cui i dati si leggono (e

interpretano) può creare verità differenti. A questo, si accosta anche il principio secondo il quale

anche chi elabora i dati creandone una visualizzazione li manipola lasciandone vedere alcuni e

nascondendone altri. Dunque anche le visualizzazioni di dati non sono oggettive.

5. Allow multiple perspectives. Rappresentare uno stesso dato in forme differenti fornisce la

possibilità di mostrare maggiori dettagli. Latour diceva: “Bisogna aumentare le prospettive per fare

sì che la visualizzazione diventi più imparziale”. Ogni visualizzazione di dato potrebbe assumere un

numero illimitato di forme e ogni tipo di visualizzazione sarebbe in grado di evidenziare un

fenomeno sempre diverso.

6.Extend the visualvariables. Questo pilastro riguarda la qualità dei dati da rappresentare e le

variabili visuali possibili. Le variabili visuali sono: dimensione, luminosità, texture, colore,

orientamento e

157La parola insight, letteralmente intuizione, nasce in psicologia con Köhler che, facendo esperimenti (innocui) sugli

scimpanzé aveva scoperto che alcune delle loro capacità di problemsolving non erano dipendenti dall'esperienza ma nascevano da vere e proprie intuizioni o, come le definì lui, insight. La parola “intuizione” deriva dal latino e come "in"+"sight" significa proprio "uno sguardo verso l'interno", una forma di sapere non spiegabile a parole, che si rivela

per lampi improvvisi, un qualcosa di razionalmente difficile da spiegare ma che si lega perfettamente al mondo delle idee e delle rappresentazioni mentali. Gli insight sono quindi il punto di partenza per la creazione di un prodotto, di strategia di marketing o una campagna pubblicitaria: tutto ruota intorno a come i consumatori vedono ciò che

l'azienda offre e una sua analisi approfondita porta a dare al cliente una comunicazione centrata su quello che si aspetta, pur non sapendo di aspettarselo.

forma. Oggi non bastano più a causa dei fattori che caratterizzano i dati, ovvero volume, variety,

veracity e incertezza. Un dato incerto è difficile da rappresentare, per questo si punta ad esibire i

dati nella maniera più probabile e certa possibile e si ricercano nuove variabili.

7. Fight the hairball. Questo pilastro fa riferimento alla quantità di dati che è possibile

rappresentare. In questo caso si parla ad esempio di visualizzazioni di reti telefoniche dove la

massa di dati è notevole. Dunque, il design della comunicazione si impegna a trovare dei nuovi

metodi per rappresentare queste moli di dati: edgebundling, circulardiagrams o hive plot.

Fig.2: esempi di data visualization troppo complessa per essere compresa velocemente

8.Design through time and space. L’ottavo pilastro si riferisce al valore esperienziale nella

rappresentazione di dati: il pubblico deve essere capace di interagire con i dati per capirli meglio.

Un esperimento del genere è stato creato al Politecnico di Milano durante un evento che

commemorava la sua storia. Su degli schermi venivano rappresentati una serie di Big Data, ad

esempio le parole chiave inserite dagli studenti per la propria tesi di laurea: gli utenti potevano

giocare con le parole chiave e vedere quali erano le più diffuse e quali erano meno in uso tra gli

studenti.

9. Try beyond a quantitative approach. Il penultimo pillar tratta di un concetto futuristico che

vede la comunicazione non solo di dati quantitativi ma anche di dati qualitativi, ad esempio la

propria opera d’arte preferita in un paese d’Europa. È interessante osservare come tramite uno

studio del genere potrebbero emergere nuove curiose figure che rappresentano, in questo caso,

l’identità artistica di una nazione.

10.Show what is behind the data. Ad un certo punto, diventa importante mostrare anche quello

che si nasconde dietro i dati. Parliamo di metadata, algoritmi e processi che servono a trasmettere

trasparenza mostrando cosa sostiene lo studio e l’opera di design.

Il Design si afferma nel settore scientifico-tecnologico come una disciplina esplicativa dei processi

dei Big Data. Siamo all’inizio di un’era in cui le discipline non hanno più confini e si interconnettono

tra loro con l’obiettivo di rendere la realtà invisibile visibile, permettendone l’interpretazione. Il

Design della Comunicazione va oltre i numeri traducendoli in forme e, di conseguenza, in idee.

BIBLIOGRAFIA

Baterson G.,“Mind and Nature. A necessary Unity”, Hampton Press, 2002

BarabasiA.L.,“Linked”, Perseus Books, 2002

PrigogineI.,“The End of Certanty”, Free Press, 1997

www.densitydesign.org

SITI WEB PER IL 2.0

E WEB ANALYTICS

Scritto da Laura Cappelletti, tratto dalla lezione di Andrea Testa e Gloria Bassi

SITI WEB PER IL 2.0

Le ricerche di beni e servizi geolocalizzati da smartphone e tablet sono in continua crescita. Per

questo è fondamentale per le aziende sul territorio mettere in atto una buona stategia di local web

marketing. È fondamentale avere un sito mobile responsive, ma per comparire tra i primi risultati

delle ricerche su Google è anche importante ottimizzare il proprio profilo Google My Business,

oltre che monitorare continuamente il posizionamento e le statistiche del proprio sito e di quello

dei competitor tramite strumenti di web analytics.

Ormai parlare di siti mobile responsive dovrebbe essere un concetto superato e scontato: non avere

un sito ottimizzato per i dispositivi mobili è oggi molto pericoloso perché molti studi dimostrano

che la navigazione, le ricerche e le query effettuate da smartphone e tablet sono in costante

aumento. Infatti guardiamo lo schermo del nostro smartphone più di 150 volte al giorno: non

necessariamente soltanto quando squilla, ma anche per controllare la posta elettronica, i social

network, per sapere l’ora o il meteo della giornata. Ma lo usiamo anche per scattare foto,

ascoltare musica o semplicemente, attraverso l’app torcia, per ritrovare l’orecchino caduto in

auto.

Se questo non bastasse, è fondamentale avere prestazioni elevate su mobile perché: 158

Il 67% dei consumatori è più propenso a realizzare una conversione su un sito web

ottimizzato per i dispositivi mobili

Il 57% dei consumatori afferma che difficilmente si interessa a un’azienda il cui sito web non

è ottimizzato per dispositivi mobili

Il 61% dei consumatori passa a un altro sito se non trova rapidamente ciò che cerca

E non solo le sessioni da dispositivi mobili sono aumentate del 20%, ma il tempo per ogni visita è

calato del 18%: ciò significa che l’utente è abituato a raggiungere sempre più rapidamente le

informazioni di cui ha bisogno. Lo smartphone è costantemente presente nella nostra giornata:

anche l’attesa del tram alla fermata è un’opportunità per ricercare informazioni o dare risposta a

un bisogno.

LE OPPORTUNITÀ

158Fonte: Google, Sterling Research and Smith Geiger, What Users Want Most From mobile Sites Today, July 2012.

I tassi di conversione da mobile sono aumentati del 29%159e la navigazione da smartphone è

cruciale nella fase di pre-acquisto: il 90% dei clienti che utilizzano lo smartphone, infatti, lo utilizza

nelle fasi di pre-shopping e in particolare:

il 58% per trovare l’indirizzo di un negozio

il 57% per scoprire gli orari di apertura

il 44% per fare comparazioni di prezzo

il 44% per trovare offerte promozionali

A dimostrazione della sempre maggiore integrazione e complementarietà dei diversi canali, è

importante sottolineare che via mobile non si fa solamente showrooming, comparazione dei prezzi

e acquisto online., ma l’esperienza d’acquisto è unica: le ricerche fisiche e digitali si incrociano e

cadono le barriere tra online e offline, si valuta l’opportunità di acquistare al prezzo minore nel

minor tempo possibile, a prescindere dal device utilizzato.

Infine, un altro dato importante per comprendere l’impatto delle informazioni reperibili dal

proprio smartphone durante il momento dell’acquisto, ci dice che il 33% dei clienti preferisce

usare il proprio smartphone per ricercare informazioni e recensioni sui prodotti piuttosto che

chiedere ai commessi.

Fig. 1: l’esperienza d’acquisto è una sola: le ricerche fisiche e digitali si incrociano e cadono le barriere tra online e

offline, si valuta l’opportunità di acquistare al prezzo minore nel minor tempo possibile a prescindere dal device

utilizzato.

COME DEVE ESSERE UN SITO MOBILE?

Per ottimizzare un sito per il mobile non è sufficiente disporre i contenuti desktop in un formato a

un’unica colonna verticale, perché oltre a rispondere in modo intelligente alle dimensioni dello

schermo del dispositivo con cui vengono aperti, i siti mobile richiedono alcune implementazioni

specifiche per essere efficaci:

159 Fonte: Google.

I filtri consentono l’affinamento e il perfezionamento dei risultati di ricerca. Aiutano

l’utente a trovare più velocemente ciò di cui hanno bisogno.

La barra per la ricerca deve essere sempre ben visibile nella parte superiore dello

schermo. I primi risultati devono essere i più rilevanti e i più cercati rispetto alla query

inserita (Smart Search).

I moduli devono essere efficienti e facilmente compilabili. Le aziende devono ridurre al

minimo il numero di campi che l’utente deve compilare e, dove possibile, permettergli di

inserire automaticamente le informazioni. Se deve inserire ad esempio un numero di

cellulare il tastierino deve settarsi automaticamente sui numeri.

La conclusione della conversione deve essere possibile anche su un altro dispositivo. I

visitatori di siti per dispositivi mobili potrebbero cercare di realizzare la conversione in un

momento successivo, quindi è importante offrire loro un modo semplice per riprendere il

percorso su un altro dispositivo.

La registrazione obbligatoria non è sempre efficace: meglio consentire la richiesta di

un ordine anche come ospiti senza imporre una registrazione. A seguito dell’acquisto,

magari nella pagina di ringraziamento, è possibile incoraggiare l’opportunità di registrarsi

con vantaggi tangibili.

GOOGLE MY BUSINESS

Google My Business160 è una piattaforma gratuita e facile da utilizzare che permette alle attività

locali di gestire la propria presenza online su Google. È uno strumento determinante e

fondamentale nella strategia di local SEO, cioè quando si tratta di ricerche di attività in ambito

locale.

COME FUNZIONA GOOGLE MY BUSINESS?

Quando un utente digita su Google la parola chiave relativa a un’attività o servizio (ad esempio

“Hotel Villa Maria Regina”) viene mostrata, in un apposito spazio in alto, la scheda di Google My

Business corrispondente alla chiave cercata. Le informazioni contenute in questo riquadro,

chiamato Knowledge Panel, possono aiutare gli utenti a scoprire o a mettersi in contatto con

l’attività.

Ci sono alcune linee guida che le attività dovrebbero seguire per mantenere alto il livello di qualità

delle informazioni su Google.

Le attività idonee a essere rappresentate su Google My Business sono attività che ricevono

clienti e che possono essere contattate durante gli orari di apertura (negozi, studi o uffici) oppure

liberi professionisti o attività che operano a domicilio e che lavorano secondo un raggio d’azione

territoriale (ad esempio idraulici).

Le attività non idonee a essere rappresentate su Google My Business sono attività di e-

commerce, attività non ancora aperte al pubblico o appartamenti in affitto o in vendita.

160 www.google.it/business/

QUALI SONO LE INFORMAZIONI DEL KNOWLEDGE PANEL?

Fotografie. Le fotografie aiutano i clienti a capire che cosa rende speciale l’attività (ad

esempio se si tratta di un hotel, è utile mostrare le immagini delle camere oppure dello staff). Le

foto possono essere aggiunte sia dall’azienda - dopo che avrà richiesto la verifica della propria

attività – oppure anche dagli stessi clienti. È possibile aggiungere anche il proprio logo per aiutare i

clienti a identificare la propria attività.

Mappa. Per vedere la posizione dell’attività.

Categoria. Le categorie vengono utilizzate per descrivere l’attività e raggiungere i clienti

che cercano quei servizi. È possibile scegliere una categoria principale e aggiungere categorie

secondarie. È bene sempre descrivere l’attività nel suo complesso (ad esempio se si tratta di un

hotel a 4 stelle con bar e ristorante, è bene non includere le categorie “bar” e “ristorante”).

Recensioni. Le recensioni aiutano l’attività a distinguersi rispetto ai competitor. Vengono

raccolte tutte le recensioni lasciate dai clienti su Google e mostrate in media nelle stelline di

valutazione, ma ultimamente si sono arricchite anche delle recensioni di Facebook e Trip Advisor.

Grazie alle recensioni è possibile migliorare il proprio posizionamento nei risultati di ricerca locale

su Google. Ad esempio, se viene cercato “Hotel a Roma”, Google fornisce la mappa degli Hotel di

Roma registrati a My Business e mostra i risultati migliori per pertinenza, distanza e recensioni.

I bottoni ‘Call’, ‘Directions’, ‘Share’, ‘Website’. Nella versione mobile, i bottoni

consentono una userexperience diretta per chiamare la struttura, ricercare le indicazioni stradali,

condividere l’attività oppure navigare sul sito internet.

Descrizione. Descrive quali sono le attività svolte.

Indirizzo e orari di apertura. Quando si clicca sull’indirizzo di un’attività si viene

rimandati a Google Maps.

Google Hotel Ads. Per le strutture ricettive è possibile inserire direttamente nel

knowledge panel una sezione di prenotazione online diretta tramite Google Hotel Ads.

COME APRIRE UN PROFILO GOOGLE MY BUSINESS?

Se l’attività esiste su Google My Business senza proprietario.

Google potrebbe aver già recuperato le informazioni pubbliche dell’attività e generato il profilo My

Business. In questo caso occorre rivendicarla cliccando su “Sei il proprietario di questa attività?”.

Per confermare l’effettiva proprietà, Google invia una cartolina con un codice di verifica a 5 cifre

all’indirizzo dove è attiva. Quando l’attività viene verificata, è possibile caricare le fotografie,

modificare le descrizioni e compiere tutte le altre attività.

Se l’attività esiste su Google My Business con proprietario.

Nel caso in cui subentri una nuova gestione, se il profilo My Business è registrato su un indirizzo

email del vecchio proprietario oppure un indirizzo non più valido, è possibile richiederne la

proprietà. Verrà inviata un’email di verifica all’indirizzo email corrispondente alla vecchia gestione

che, se non risponderà entro 7 giorni, farà decadere il diritto alla proprietà My Business. Così

Google procederà alla conferma della nuova proprietà inviando la cartolina con il codice a 5 cifre.

Creare una nuova attività

Per aggiungere una nuova attività bisogna accedere a google.it/business e inserire i propri dati

aziendali. Per confermare l’effettiva proprietà, Google invia una cartolina con un codice di verifica a

5 cifre all’indirizzo dove è attiva.

1. Le statistiche di Google My Business

Attraverso il pannello di controllo di Google My Business si possono vedere le statistiche della

propria attività.

Le ricerche totali mostrano il numero di ricerche dell’attività suddivise tra ricerca diretta

(clienti che hanno cercato in base all’indirizzo o al nome dell’attività) e scoperta (clienti che

hanno trovato la scheda cercando per categoria, per prodotto o per servizio).

Il dato sui Servizi Google indica quali servizi utilizzano i clienti per trovare l’attività (ad esempio

le ricerche effettuata sul motore di ricerca oppure le schede di Google Maps).

Le azioni dei clienti si riferiscono alle azioni più comuni eseguite dai clienti nella scheda:

Visite al sito web

Richieste di indicazioni

Telefonate

Visualizzazioni di foto

Il dettaglio sulle richieste di indicazioni stradali mostra una mappa di calore che indica i luoghi

da cui i clienti hanno richiesto le indicazioni stradali per raggiungere la località in cui si trova

l’attività.

Le telefonate indicano il numero di clienti e in quali fasce orarie sono state ricevute le telefonate

all’attività.

Le visualizzazioni delle foto consentono, attraverso alcuni grafici, di confrontarsi con i

concorrenti, verificando ad esempio quante volte le foto dell’attività vengono visualizzate rispetto

a quelle di attività simili. È bene ricordare che il sistema premia le attività che caricano con

frequenza nuove foto sulla pagina.

STRUMENTI DI WEB ANALYTICS

Quando parliamo di web analytics ci riferiamo alla attività di raccolta, analisi e reporting della

grande mole di dati provenienti dal web. Ogni visita, ogni click, ogni azione che effettuiamo sulla

rete non passa inosservata ed è il punto di partenza per ottimizzare le performance di un sito web

o di una attività digital.

Per usare gli strumenti di web analytics per ottimizzare un sito web o una campagnadigital bisogna

prima di tutto definire i KPI: iKey Performance Indicators sono infatti gli indicatori che permettono

di misurare la riuscita o il fallimento di una strategia di marketing, e derivano direttamente dalla

definizione degli obiettivi.

Vediamone due tra i più utilizzati strumenti di web analytics.

1. SEMrush

SEMrush161è uno dei più importanti strumenti di competitive intelligence e di monitoraggio dei

posizionamenti che offre una versione anche free.

Quando si inserisce una parola chiave nella barra di ricerca di SEMrush, il rapporto presenta

tantissime utili informazioni: volume delle ricerche legate alla parola chiave, CPC162, parole chiave

simili, concorrenti organici e concorrenti inserzionisti.

Nella sezione “Analisi dominio” si possono leggere le statistiche di traffico e delle parole chiave dei

domini. Inserendo il nome di un dominio nella barra di ricerca di SEMrush, vengono restituite

informazioni sulla ricerca organica, ricerca a pagamento e si possono identificare i concorrenti

principali. Attraverso la funzione “Dominio vs. Dominio” si visualizzano in forma grafica le parole

chiave comuni e univoche dei domini presi in considerazione per poter ottimizzare contenuti e

strategia per superare la concorrenza.

Infinte, unendo i risultati che fornisce Google Trend con quelli di SEMrush è possibile stimare un

volume per le ricerche nei periodi di picco di interesse verso una determinata parola chiave

individuandone la stagionalità.

161www.semrush.com 162CPC (cost per click). Nelle offerte basate sul costo per clic (CPC) l’inserzionista paga solamente per i clic sugli annunci.

Fig2: Il monitoraggio e l’analisi dei dati rappresentano passi fondamentali per lo sviluppo di qualsiasi

strategia e lo strumento chiave per presentare le perfomrnace di un sito web ed ottimizzarle è la

web analytics

2. Google Analytics

Google Analytics163 è uno strumento per l’analisi dei siti web che, attraverso le statistiche,

permette di monitorare il comportamento dei visitatori.

La schermata iniziale di analytics mostra una serie di parametri molto utili.

Sessioni: numero di accessi al sito web in un determinato periodo di tempo

Utenti: numero di accessi unici, cioè persone che hanno visitato il sito in un determinato

periodo di tempo

Visualizzazioni di pagine: numero totale di pagine visualizzate

Pagine/Sessione: quante pagine visualizzate, in media, durante una sessione

Durata Sessione Media: quanto dura in media una sessione

Frequenza di rimbalzo: percentuale di visite di una sola pagina, ossia visite in cui l’utente

esce dal sito dalla stessa pagina in cui è entrato.

163www.google.com/analytics/

BIBLIOGRAFIA

Di Fraia G., Strategie e tecniche per aziende B2B e B2C, Hoepli, 2015

Testa A., Fare business col digital marketing, EPC Editore, 2015

Testa A.; Di Fraia G., I segreti di Google ADWords, Hoepli, 2013

S E Z I O N E N O R M A T I V A

« Le regole del gioco »

INDICE

I - IL QUADRO NORMATIVO

Scritto da Laura Cappelletti, tratto dalla lezione di Paolina Testa……………... pag. 5

IL QUADRO NORMATIVO

Scritto da Laura Cappelletti, tratto dalla lezione di Paolina Testa

Dietro ogni affermazione pubblicitaria c’è il grande sforzo delle aziende per adempiere all'obbligo

di veridicità e di non ingannevolezza che è il fondamento di tutta la normativa in materia

pubblicitaria.

In Italia il tema della pubblicità ingannevole è sorto nel 1965, anno in cui gli operatori del settore

pubblicitario si sono riuniti per darsi essi stessi delle norme che si sono obbligati a rispettare:

questa per circa 30 anni è stata l’unica normativa in materia pubblicitaria, solo nel 1992 è stata

emanata la prima legge dello Stato sul tema in oggetto, di derivazione comunitaria.

Il quadro normativo disciplina tutte le forme di pubblicità: dalle più classiche (spot tv, annunci

stampa e radio, affissioni, packaging di prodotto…) alle più avanzate (post sponsorizzati su

Facebook), dalla pubblicità istituzionale fino al native advertising,dove il contenuto sponsorizzato di

provenienza aziendale assume l'aspetto dei contenuti del sito nel quale è ospitato.

IL QUADRO NORMATIVO RELATIVO A PUBBLICITÀ E COMUNICAZIONE COMMERCIALE

Con il termine pubblicità si intende indicare qualsiasi forma di messaggio diffuso nell’esercizio di

una attività economica che persegua come scopo primario e diretto la promozione di beni o

servizi.

1. La disciplina propria della pubblicità

Ci sono quattro blocchi di normative che sono, a seconda del prodotto, in teoria tutte applicabili

al medesimo messaggio pubblicitario e applicate da organismi diversi in momenti diversi. Quindi, in

relazione ad una medesima campagna pubblicitaria relativa ad un settore oggetto di normazione

specifica (ad esempio il settore alimentare), si possono avere quattro tipi di giudizi diversi (che tra

loro interferiscono ma non sono confliggenti), che sono:

la disciplina statale sulla concorrenza sleale

le norme settoriali

le norme contenuto nel codice di Autodisciplina pubblicitaria

norme di origine comunitaria.

In sintesi la tabella mostra i 4 blocchi di normative, da cosa sono disciplinati, chi emette il giudizio

ed il tipo di sanzione che prevedono:

Tipologia di

norme

Concorrenz

a sleale Settoriali IAP Comunitaria

Norme

disciplinate da Art. 2598

codice civile Norme specifiche

Codice di

Autodisciplin

a

Codice del

consumo (artt.

18-27 quater del

D.Lgs 145/07)

Applicazione

demandata a

Giudice

ordinario

A seconda dei

casi (NAS,

Ispettorato

centrale della

tutela della qualità

e repressioni

frodi dei prodotti

agroalimentari,

etc)

Giurì di

Autodisciplin

a

AGCM

Conseguenze

della violazione Inibitoria,

risarcimento,

pubblicazione

Sanzione

amministrativa

Ordine di

desistenza

(mezzi),

pubblicazione

Sanzione

amministrativa

1.1 Concorrenza sleale

Il primo blocco di norme, in ordine di tempo, rigardaLa disciplina statale sulla

concorrenza sleale: contenuta nel Codice Civile del 1942, Art. 2598164prevede varie

fattispecie di concorrenza sleale, che sono comportamenti vietati nei rapporti fra concorrenti.

1) Divieto di imitazione:è vietato usare nomi o segni distintivi già legittimamente

usati da altri o imitare i prodotti/servizi di un concorrente, o compiere con qualsiasi altro

mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente

2) Divieto di denigrazione: si parla di concorrenza sleale per denigrazione (o per

vanteria) quando vengono diffuse notizie ed apprezzamenti sull'attività altrui tali da

screditare la medesima; è richiesta una effettiva divulgazione ad una pluralità di persone,

non essendo configurabile nell'ipotesi di esternazioni occasionali a singoli interlocutori165

164 L’art. 2598 del codice civile si riferisce agli Atti di concorrenza sleale e recita: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi [c.c. 2563, 2568, 2569] e dei diritti di brevetto [c.c. 2584, 2592, 2593] , compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione [c.c. 2564] con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a

danneggiare l'altrui azienda [c.c. 1175, 2599, 2600] ” 165 Si noti che anche la pubblicità comparativa -consistente nel raffronto del proprio prodotto con quello di un

3) Divieto di compimento di atti non conformi alla correttezza

professionale e idonei a danneggiare l’azienda: quando si diffondono notizie e

apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il

discredito, o ci si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente.

Questo primo blocco di norme sulla concorrenza sleale regola i rapporti fra imprenditori

concorrenti e quindi può essere azionata solo da un concorrente e non può essere azionata da

un’impresa di altro settore merceologico, né può essere azionata dal consumatore.

Le conseguenze della violazione di questo blocco di norme sono di tre tipi:

a) Inibitoria: prevede l’ordine del giudice di cessazione della diffusione della pubblicità.

b) Risarcimento dei danni: per ottenerlo occorre intentare una causa ordinaria e dare

prova del danno (ad esempio una diminuzione di vendite, un danno di immagine o una

mancata crescita del fatturato causato della divulgazione della pubblicità del concorrente).

c) Pubblicazione della sentenza: disposta a seguito del cautelare o della causa di merito

prevede la pubblicazione della sentenza su alcuni quotidiani.

1.2 Le norme settoriali

La disciplina generale della pubblicità in Italia risale al 1966 con il Codice di Autodisciplina, ma in

alcuni settori sensibili il legislatore dello stato era intervenuto molto prima. La prima norma che

vieta l’inganno pubblicitario si trova in un regio decreto legge del 1925 che riguarda i prodotti

alimentari e le sostanze di uso agrario e vieta la pubblicità ingannevole relativamente a questi

prodotti. Un altro settore che è disciplinato fin dagli inizi del secolo scorso è il settore

farmaceutico: la pubblicità dei farmaci e degli ambulatori medici deve essere autorizzata

preventivamente da parte del Ministero della Salute per verificarne la correttezza.

Le norme settoriali sono in realtà ora moltissime e nel tempo si sono succedute estendendosi

anche al settore cosmetico, dei viaggi e degli investimenti finanziari. Molte sono di origine

comunitaria.

Tutte le norme settoriali sono norme specifiche ma hanno caratteristiche comuni: la loro

applicazione è demandata ad una autorità amministrativa (per esempio il Ministero della Salute per

prodotti farmaceutici, il NAS per i prodotti alimentari, la CONSOB o l’ISVAP per i servizi

assiuratii…) e se non applicate comportano anche una sanzione amministrativa compresa tra un

minimo e un massimo previsto dalla legge. Tali norme sono azionabili sia dall’ente preposto che da

un consumatore o da un concorrente.

1.3 IAP (codice di Autodisciplina)

Il terzo blocco di norme sono quelle contenute nel Codice di Autodisciplina166e sono norme

non dello Stato ma autoregolamentari che ricavano la loro efficacia da un meccanismo di tipo

contrattuale che tutti gli aderenti si impegnano a rispettare. Sono applicate dal Giurì di

Autodisciplina e la sanzione consiste nell’ordine di desistenza/cessazione della pubblicità giudicata

concorrente, con una valutazione positiva del primo ed una conseguente valutazione negativa (anche implicita) del

secondo- nei primi tempi, era vista come denigratoria nei confronti dei concorrenti, e quindi sleale . Attualmente la pubblicità comparativa è invece considerata lecita entro i limiti imposti dall’art. 4, d.lgs. 2-8-2007, n. 145, che tutela i professionisti dalle conseguenze sleali della pubblicità; se illecita, è considerata una pratica commerciale ingannevole

per il consumatore, ai sensi dellart. 22, d.lgs. 6-9-2005, n. 206 (Codice del consumo). 166 http://www.iap.it/codice-e-altre-fonti/il-codice/

in contrasto con l’Autodisciplina167.

1.4 iL quarto blocco di norme sono le Norme comunitarie

Le norme di origine comunitaria sono contenute nel codice del consumo che per questa parte

costituisce attuazione della direttiva 29 del 2005 che vieta le pratiche commerciali scorrette tra

impresa e consumatore. In particolare:

Pratiche commerciali ingannevoli

Pratiche commerciali aggressive

Le norme comunitarie sono applicate dall’autorità garante della concorrenza e del mercato168 che

è un’autorità amministrativa indipendente che risponde solo al Parlamento, non ad Organi

amministrativi superiori.

Il provvedimento dell’autorità garante prevede la cessazione della pratica commerciale scorretta e

irroga una sanzione amministrativa che va da un minimo di 5mila euro ad un massimo di 5 milioni

di euro. La sanzione che irroga l’autorità garante tiene conto e valuta alcuni criteri come la

personalità del reo (ad esempio se l’impresa è molto strutturata come una multinazionale è

considerato un’aggravante da parte dell’autorità garante), la recidiva oppure la diffusione della

campagna.

2 La pubblicità ingannevole

Una pubblicità ingannevole è qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua

presentazione, sia idonea ad indurre in errore il consumatore (o comunque il suo destinatario) e

sia idonea, a causa di ciò, a pregiudicare il comportamento economico dello stesso o a ledere un

concorrente.

2.1 Esempi di pubblicità ingannevole:

● Provvedimento n. 25980. Vengono promossi e venduti, all’interno dei punti vendita Eataly,

alcuni vini utilizzando l’etichetta “vino libero” prodotti dalle aziende dell’associazione vino

libero che raggruppa produttori che applicano un modello di agricoltura economicamente

vantaggioso e rispettoso dell’ambiente. L’autorità garante però ha ritenuto ingannevole

l’espressione “vino libero” poiché lascia intendere al consumatore che il vino sia totalmente

libero da solfiti mentre invece, anche se sotto i limiti di legge, questi sono presenti nei

prodotti.

● Provvedimento n. 25973. Fiat viene segnalata dall’autorità garante in un caso di pubblicità

ingannevole sul prezzo per aver diffuso una comunicazione commerciale dove promuove

Fiat Panda con alcune informazioni ambigue circa le modalità di pagamento ed il calcolo

del prezzo. Il claim recita: ‘Panda è tua a 8.000 euro con 5 porte, clima e radio’, non

167 Esiste una clausola di accettazione secondo la quale l’inserzionista pubblicitario si obbliga a rispettare le decisoni del

Giuri’ ed autorizza il media a interrompere la sua pubblicità nel caso venga giudicata in contrasto con il codice di autodisciplina; si crea così un meccanismo per il quale si estende l’applicazione del codice di Autodisciplina anche agli inserzionisti che eventualmnte non aderiscono direttamente a questo codice perché basta che vi aderiscano i mezzi

pubblicitari e qualsiasi inserzionista è implicitamente tenuto a rispettarlo 168 www.agcm.it

considerando alcuni oneri accessori che è necessario aggiungere per l’acquisto

dell’automobile.

● Provvedimento n. 24608. Nella comunicazione di Uliveto e Rocchetta acque della salute

vengono riportati, oltre ad alcuni claim che accreditano al prodotto caratteristiche

salutistiche, il logo e l’endorsement della FIMMG (Federazione Italiana Medici di Famiglia)

attraverso la dicitura “La Federazione Italiana Medici di Famiglia e Uliveto e Rocchetta

insieme per la salute della famiglia”. L’autorità garante ha giudicato la pubblicità ingannevole

perché alcune delle proprietà salutistiche non sono riconosciute specificatamente dal

ministero della salute, ma la grande mozione di ingannevolezza è stata ravvisata da

nell’endorsement della FIMMG poiché sponsorizzano le acque come dei prodotti realmente

curativi.

● Provvedimento n. 24824. Il marchio Clinique diffonde una campagna pubblicitaria per un

prodotto cosmetico della linea “Repairwear Laser Focus” che viene presentato con

prestazioni paragonabili all’effetto di un trattamento di medicina estetica: il laser. L’autorità

ha ritenuto che la pratica commerciale risulta scorretta poiché accosta l’impiego di

cosmetici con un trattamento medico specifico.

● Provvedimento n. 20493. Una campagna che è stata valutata ingannevole per il linguaggio e

la modalità con la quale è stata presentata è quella di SomatolineCosmetic che

promuove il prodotto Total Body Snellente presentando il corpo di una modella con il

claim: “Snellisce fino al 37% in 4 settimane”. La percentuale relativa all’efficacia snellente è

però, come riporta l’asterisco che rinvia ad una scritta posta in fondo alla pagina, calcolata

sulla riduzione del pannicolo adiposo misurato in millimetri.

● Provvedimento n. 25314. La società Amica Chips inserisce su uno dei packaging della

confezione “ELDORADA – La Tradizionale” in modo evidente l’indicazione “con olio di

oliva” senza ulteriori specifiche. Solo nel dettaglio degli ingredienti, viene riportato che il

quantitativo di olio d’oliva è pari al 10% insieme ad altri tipi di oli vegetali. Per questo

l’autorità considera, che il claim potrebbe ingenerare la convinzione che le chips siano

cotte solamente in olio d’oliva, mentre risulta il prevalente impiego di altri oli vegetali e

viene richiesto che la quantità dell’ingrediente impiegato sia evidenziato nell’etichettatura.

Provvedimento n. 24522 e Giurì n. 30/2013. Nel 2013 Procter&Gamble promuove il

detersivo Dash attraverso una pubblicità comparativa con il claim “1 misurino di Dash

equivale ad un misurino e mezzo del principale concorrente”. Il competitor Dixan attacca

questa pubblicità, ma il Giurì, nella pronuncia 30/2013 riconosce che si tratta di una

comparazione lecita. Invece l’autorità garante della concorrenza del mercato, nel

provvedimento n. 24522, ritiene che si tratti di una comparazione scorretta e ingannevol

e poiché l’affermazione viene ribadita dall’equazione 1 = 1,5 che è smentita dal contenuto sotto

riportato “Un misurino (73ml) di Dash smacchia come un misurino e mezzo (99 ml) del

principale concorrente”. Infatti il rapporto aritmetico tra 73 e 99 non corrisponde a 1/1,5.

Fig1: Il pacchetto di patatine Amica Chips oggetto del Provvedimento n. 25314

3 I diritti dei terzi con i quali la comunicazione è suscettibile di interferire

Abbiamo finora visto il contenuto delle comunicazioni pubblicitarie, ma la pubblicità utilizza anche

determinati elementi che possono essere coperti da diritti assoluti di terzi, essi sono: il diritto

d’autore, il diritto di marchio e i diritti della personalità.

3.1 Diritti d’autore e diritti connessi (legge 633/1941)

Per garantire che una comunicazione pubblicitaria sia lecita occorre verificare che questa non

interferisca con il diritto d’autore di altri e, se interferisce, occorre recuperare il consenso del

titolare dei diritti per farne quel determinato uso pubblicitario in quel determinato periodo su quei

determinati canali. Le opere protette dal diritto d’autore non sono solamente fotografie e musica,

ma sono tutte le produzioni dell’ingegno umano: pittura, scrittura ma anche software, design e

banche dati.

Il diritto d’autore ha in sé un aspetto patrimoniale, cioè il diritto di trarre dall’opera d’ingegno

tutte le possibili utilità economiche connesse al suo utilizzo, e un aspetto attinente al diritto

morale, che consiste nel diritto dell’autore o dei suoi successori a che dell’opera non venga fatto

un utilizzo dannoso o pregiudizievole per l’onore e la reputazione dell’autore.

3.2 Diritto di marchio (artt. 7 -28 c.p.i.)

Il marchio è un diritto assoluto su un bene immateriale costituito da due componenti protette: la

parte nominativa e, se è registrato, anche la parte del logo. A meno che non si tratti di un marchio

celebre, è protetto solo in relazione al profilo merceologico per il quale è stato è registrato.

3.3 Diritti della personalità (artt. 7-10 c.c., ed elaborazione giurisprudenziale)

I diritti al nome, all’immagine e all’identità personale possono interferire con la pubblicità. Tutte le

volte che in pubblicità vengono utilizzati il nome o l’immagine di una persona occorre avere il suo

consenso.

4 La pubblicità digitale

Dal punto di vista legale, la pubblicità digitale soggiace alle regole di qualsiasi altra comunicazione

commerciale. Il problema particolare che pone la pubblicità digitale è quello della sua

riconoscibilità come pubblicità perché certe forme (ad esempio gli endorsement, i post pubblicati

dai blogger) sono difficilmente riconoscibili come comunicazioni commerciali e hanno l’apparenza

dei commenti spontanei.

Una regola fondamentale, contenuta sia nel Codice di Autodisciplina sia nel Codice del Consumo,

stabilisce che la pubblicità deve essere sempre riconoscibile come pubblicità, cioè non deve

sembrare una manifestazione di pensiero libera e disinteressata perché in questo caso si realizza

un inganno ed il consumatore è portato a dare un maggior credito.

La pubblicità digitale è un campo nel quale esiste ancora pochissima disciplina e al quale ci si sta

interessando in questo momento: ormai da un anno l’Autodisciplina pubblicitaria ha pubblicato la

digital chart169 che raccoglie pubblicazioni ed esempi da seguire per ovviare al problema della

riconoscibilità della pubblicità.

Il problema della riconoscibilità riguarda non soltanto le aziende inserzioniste, ma anche gli

stessiblogger, perché se la comunicazione è commissionata e non lo indicano rischiano di perdere

credibilità.

Un sistema che si utilizza per rendere riconoscibile la pubblicità digitale è l’inserimento dell’hashtag

dell’azienda sponsor. Nel post di endorsement su Instagram170, Valentina Vignali ha in mano alcuni

prodotti per l’attività sportiva di Clinique ed usa l’hastag #Clinique per rendere il post

riconoscibile come pubblicità. L’Autodisciplina considera questo sistema non del tutto sufficiente a

rendere evidente la pubblicità e invita a scrivere in apertura del post “sponsored by” seguito dal

nome dell’azienda.

Fig2: anche gli endorsement delle fashion blogger su Instagram vanno chiaramente identificati

4.1 Ambush

L’ambush marketing è la pratica di associazione indebita o non autorizzata di un marchio o di un

169 www.iap.it/digital-chart/ 170 https://www.instagram.com/p/BPYL0GWjIJg/?hl=it

prodotto ad un evento di grande risonanza mediatica171, per esempio quano un brand non è tra gli

sponsor ufficiali di un evento.

Le principali forme di ambush marketing sono:

Ambush marketing per associazione: associazione del proprio marchio/prodotto

all’evento o ai suoi segni distintivi.

Ambush marketing per intrusione: inserimento del proprio marchio/prodotto

all’interno dell’evento.

Ambush marketing per saturazione: intensificazione delle attività pubblicitarie in

corrispondenza o in prossimità di un dato evento.

Un caso ambush marketing risale alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984, quando Kodak riuscì a

compromettere gli interessi dello sponsor ufficiale dell’evento Fuji, saturando tutti gli spazi

pubblicitari nei dintorni dello stadio e sponsorizzando i programmi televisivi che raccontavano le

imprese olimpiche. Oppure Bavaria, il brand di birra che durante un match dei Mondiali in

Sudafrica del 2010, dove lo sponsor ufficiale era Budwiser, ha fornito abiti arancioni ad un gruppo

di tifose olandesi, che sono state scortate fuori dallo stadio dal servizio d’ordine.

BIBLIOGRAFIA

Fusi M.; Testa P., Diritto e pubblicità, Lupetti, 2006

Sito ufficiale IAP http://www.iap.it

Il sito web dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato

171 Jerry Welsh, ManagingDirector American Express