Marco Almagisti - Il modello neo-repubblicano: le origini concettuali

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Marco Almagisti

Il modello neo-repubblicano: leorigini concettuali

Nell’ultimo quarto di secolo, i contributi di numerosi studiosi hanno dato formaad una sorta di modello che è stato definito neo-repubblicano, una formula checontiene al proprio interno analisi eterogenee di autori che possono essere acco-munati dal grande rilievo riconosciuto all’evoluzione dei concetti politici e dal-l’intenzione di ridiscutere, per tale via, alcuni presupposti tradizionali della storiadelle dottrine politiche: “a partire da The Machiavellian Moment di John Pococke continuando con Quentin Skinner e Philip Pettit, [essi] sviluppano la convin-zione che Roma antica sia stata l’iniziatrice di una filosofia politica, indipendenteda quella dei Greci, che ha avuto tra i continuatori più rilevanti: la Repubblica diFirenze, prima del ritorno dei Medici; molti avversari della corona inglese primadella Gloriosa Rivoluzione; molti teorici della Rivoluzione Americana, compresoMadison; molti avversari del regime prima della Rivoluzione Francese” (Gangemi2001, 107).In particolare, Pocock e Skinner sono stati, dalla seconda metà degli anniSessanta, parte di un movimento di studiosi (sviluppatosi in origine a Cambridge)“intenzionati a rimodellare la storia del pensiero politico, presentandola comestoria del linguaggio e del discorso politico” (Pocock 1980, 17)1.La scelta degli elementi da valorizzare, operazione indispensabile quando sirichiama una tradizione di pensiero vasta e complessa, presuppone di soffermar-si, in questa sede, su due questioni intrinsecamente legate: la partecipazione poli-tica diffusa e la legittimazione del conflitto, che rendono peculiare la tradizionerepubblicana (e in particolare il contributo di Machiavelli). La successione degliargomenti che tratteremo può essere così sintetizzata: 1) La riscoperta del lin-guaggio repubblicano; 2) Il concetto di virtù nel Principe; 3) il concetto di virtùnei Discorsi (virtù repubblicana); 4) il confronto con la teoria politica di Hobbes;5) la rilettura di Vico e la fecondità attuale del pensiero repubblicano.Un’indagine che non potrà che risultare parziale e sommaria, data la vastità degliargomenti considerati, in particolare nella ricostruzione effettuata da Pocock(1980), davvero straordinaria per la complessità dei temi affrontati e per la pro-fondità dell’analisi condotta. Inoltre, si deve considerare un limite fondamentaledi questi approcci “contestualisti” che consiste nella determinazione a ricostruireil contesto effettivo in cui si è sviluppata una particolare linea di pensiero (com-prendere il “Machiavelli in sé”), senza avvertire il peso che, su di sé, grava in virtùdella consapevolezza stessa delle conseguenze politiche che sono scaturite dagliaccadimenti verificatisi in quel contesto.2

Il sestante

1 Con l’espressione,non certo originalenella storia del pensie-ro, “Scuola diCambridge” si intendefare riferimento, inquesta sede, agli stori-ci contestualisti con-temporanei e cioè,essenzialmente, aPocock e Skinner.

2 Il contesto rappresen-ta, sotto questo profilo,un costrutto metafisi-co. Esso non può coin-cidere fra il soggettoche agisce e il soggettoche ricostruisce gliaccadimenti ex-post.In altri termini, nonvi può essere coinci-denza fra il contestoin cui operavaMachiavelli e quelloricostruito più diquattro secoli dopo daPocock e Skinner.Consapevolezza (dellafallace inseità del“nostro” Machiavelli)che deve essere anco-ra maggiore in chi,come noi, effettuadelle ricostruzioni di“secondo grado”.

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La riscoperta del linguaggio repubblicano

Considerando queste premesse, interrogare il pensiero repubblicano significa, inprimo luogo, ripercorrere la storia del suo linguaggio, ossia della retorica della“vita activa” e del “vivere civile” (quella particolare concezione della libertà intesacome partecipazione politica responsabile al governo repubblicano), a fianco deilinguaggi coevi – considerati anch’essi come veicoli del pensiero politico – deri-vanti dalla giurisprudenza successiva all’età dei glossatori e dalle dispute scolasti-che.L’arco temporale considerato coincide, sostanzialmente, con il processo median-te il quale si viene formando il concetto moderno di Stato: la rinascita delle cittàdopo l’anno Mille, l’esperienza delle città-repubblica dell’Italia settentrionale (dejure vassalle del Sacro Romano Impero, ma de facto dotate di un elevato grado diindipendenza) all’interno della quale Firenze, sin dall’inizio del Trecento, si ergecome la “principale paladina delle libertà repubblicane” (Skinner 1989, 51), la crisidi tale esperienza, consustanziale alla produzione di una compiuta ideologiarepubblicana.3

Alla rarefazione dei concetti astratti sul terreno della politica, che caratterizza l’e-poca che intercorre fra la Patristica e il XIII secolo,4 fa riscontro una significativaripoliticizzazione del bonum comune nell’esperienza comunale. In tale contestoricompare il concetto latino di civitas; “ma, quando, in Europa, la genesi di ordi-namenti territoriali di grandi dimensioni, che non potevano più essere ricondot-ti ad un centro urbano e al suo contado, rese manifesta l’inadeguatezza del ter-mine; la parola Stato, ricavata isolando la componente “struttural-istituzionale”dell’espressione status rei publlicae, prese il sopravvento e finì, sia pur gradual-mente, per imporsi” (Portinaro 1999, 33).Risulta interessante notare la discrepanza che si verifica, nella loro comparsa, frala “parola” e la “cosa”: il termine status incomincia a circolare nel linguaggio poli-tico in una fase in cui “il referente non è ancora un’organizzazione centralizzatané un’impresa istituzionale di tipo razionale, né un gruppo politico riconosciutolegittimo” (Portinaro 1999, 31). Tuttavia, già dai primi decenni del Trecento, altermine status vengono collegati attributi abbastanza definiti: stabilità, durata,compattezza.5

Attributi che acquisiscono grande rilevanza nel contesto storico drammatico cheinveste Firenze nel “momento machiavelliano”, in cui la forma politica dellarepubblica è posta di fronte alla propria limitatezza temporale, a causa di eventi“reputati di per sé eversivi di qualsiasi tipo di ordinamento mondano che preten-desse di avere una sua stabilità nella storia” (Pocock 1980, 8): la sconfitta dellarepubblica nel 1512 e il rientro dei Medici dopo diciotto anni di esilio, un’altrabreve esperienza di autogoverno nel 1527-30 ed un nuovo inesorabile declinodelle libertà repubblicane che conduce Firenze ad essere calpestata da esercitistranieri e, dal 1532, alla Signoria perpetua dei Medici, da cui origina ilGranducato di Toscana.Secondo Pocock, i retaggi di tali vicende contribuiscono all’elaborazione di unariflessione politica “che costituisce parte del cammino percorso dal pensiero occi-dentale nel giungere dalla concezione cristiana del Medioevo a quella storicistadell’età moderna (…). Il prodotto finale dell’esperienza fiorentina fu una socio-

3 L’epoca di transizio-ne dal policentrismocomunale al progressi-vo insediarsi dellasovranità statuale èriassumibile da un’effi-cace metafora diAlberto Tenenti: “Lafase che va dal 1250 al1350 rappresenta perlo Stato qualcosa disimile a quella degl’in-cunaboli per l’editoria:un innegabile momen-to di gestazione edarticolazione”(Tenenti 1997, 54).Una fase innovativapreparata nelleUniversità, con lariscoperta del dirittoromano e del Corpusiuris civilis diGiustiniano, prima aBologna (con Irnerio ePepo), poi a Parigi,Oxford, Padova,Pavia, Siena e Firenzee successivamente svi-luppata dal confrontofra giuristi post-glossa-tori di formazione sco-lastica e retori di for-mazione umanistica.

4 Il collasso dell’espe-rienza romana oscu-ra anche i riferimentialla polis; nel linguag-gio politico medievalecompaiono terminicome rex e regnum,ma raramente ci siriferisce ad un’idea dibonum comune utiliz-zando l’espressioneres publica. Come sot-tolineano Ullmann(1982), Skinner (1989)e Panebianco (1993),per tale ripoliticizzaz-zione del bonumcomune risulteràessenziale la riletturadelle riflessioni politi-che costantinopolita-ne.

5 Che lo Stato si distin-

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logia della libertà, quanto mai elaborata ed affascinante, che Firenze passò inretaggio all’illuminismo europeo e alle rivoluzioni d’Inghilterra e d’America”(Pocock 1980, 9 e 207).In coerenza con tale ipotesi continuista che sorregge l’opera di Pocock, l’intro-duzione all’edizione italiana del 1980 è incentrata sulla polemica con l’imposta-zione dei neo-aristotelici, che “limita la storia della filosofia all’affermazione di unadottrina classica del diritto naturale e al sovvertimento di tale dottrina operatodall’individualismo e dallo storicismo moderni” (Pocock 1980, 22).Mentre la concezione neo-aristotelica (à la Leo Strauss, à la Eric Voegelin) riduceMachiavelli a semplice precursore di Hobbes nell’opera di frantumazione dell’or-dine naturale della società e nella “consegna” dell’individuo, confinato nel pro-prio isolamento competitivo, alla “sovranità manipolatrice di qualche principe”(Pocock, 1980, p. 23), Pocock sostiene, che il concetto repubblicano di virtù siautilizzato, nel Sei-Settecento proprio per “costruire una critica alle emergenti ten-denze individualistiche e liberistiche della società commerciale” (Pocock 1980,23).In questo senso, se è lecito cercare di “contestualizzare storicamente” le analisiarticolate dagli storici contestualisti, possiamo affermare che, in gran parte, il lorocontributo risulta arricchito dalla considerazione dei relativi bersagli polemici: inparticolare, appare evidente l’intenzione di Pocock di presentare il modellorepubblicano in sostanziale contrasto rispetto alla concezione della storia del pen-siero politico (e alle interpretazioni della Rivoluzione americana) propria di quan-ti ritengono l’individualismo liberale ideologicamente egemone, sin dagli alboridel moderno (ciò spiega l’imponente tentativo pocockiano di rilettura del patri-monio aristotelico all’interno delle categorie repubblicane).L’intero volume secondo dell’opera di Pocock è dedicato allo studio del “momen-to machiavelliano” nel pensiero inglese e americano dell’età moderna, al fine didimostrare come la tradizione politica anglofona sia portatrice di concetti repub-blicani almeno quanto di concetti costituzionalisti (lockiani), al punto che laRivoluzione americana viene considerata come l’ultimo grande atto dell’umanesi-mo civile del Rinascimento.6

Si tratta di una questione centrale per tutti gli studi che si prefiggono di appro-fondire la conoscenza del repubblicanesimo e attraversa anche i dibattiti che con-trappongono individualisti e comunitaristi: se il “momento machiavelliano” non èaltro che una tappa che avvicina al Leviatano, allora non è da una sua rivalutazio-ne che possono essere messe in dubbio le letture egemoni circa la genesi del libe-ralismo moderno e la riduzione della storia delle dottrine politiche alla contrap-posizione dicotomica, sostenuta da McYntire, fra individualismo liberale e varieforme di aristotelismo.L’ipotesi continuista è messa in dubbio da Skinner, la cui opera deve essere inter-pretata considerandone l’obiettivo polemico essenzialmente costituito dalle teo-rie comunitariste, come quelle di McYntire, da cui scaturisce la volontà di Skinnerdi presentare il repubblicanesimo come fondato su una particolare forma di liber-tà negativa (Berlin 1994), meritevole di essere distinta dalla dottrina liberale clas-sica. Questa contrapposizione contribuisce a spiegare l’importanza riconosciutada Skinner, anziché ai retaggi aristotelici, ad autori romani come Cicerone eSallustio nella genesi del pensiero repubblicano (che, in questa accezione, è stato

gua dalle forme politi-che pregresse per ilfatto di affontaremeglio la contingenzaè convinzione di deci-sionisti come Schmitt(1972) e Miglio (1988).A quest’ultimo si devela precisa etimologiadel termine in questio-ne che risale alla radi-ce indogermanica sta,da cui discendonosvariati concetti dinatura istituzionale eche richiama i signifi-cati, al contempo, distare (stehen) e diporre (stellen).

6 La versione america-na dell’ideologiarepubblicana derive-rebbe dalla retoricadell’opposizione, nelParlamento inglese enelle colonie, al regi-me whig, sotto il regnodi Anna, Giorgio I eGiorgio II e continue-rebbe a permeare,secondo Pocock, alcu-ne categorie interpre-tative della condottapolitica di un Paese,quello americano, chenon ha conosciuto leesperienze “delle rivo-luzioni e della costru-zione dello Stato pro-prie dell’Europamoderna” (Pocock,1980, p. 65).

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anche, coerentemente, definito “teoria neo-romana).7

Indubbiamente nel pensiero repubblicano sono presenti elementi di lacerazionerispetto alle concezioni pregresse, come è disposto a riconoscere anche Pocock,in quanto esso accelera quel processo di considerazione del politico come dimen-sione distinta rispetto ad una destinazione di senso trascendente ed indisponibi-le: il “vivere civile” repubblicano è già altro rispetto alla concezione medievale diuna comunità “che resti ligia a comportamenti consuetudinari, situata in qualcheparte dell’ordine eterno” (Pocock 1980, 147). La forma politica viene distinta dal-l’ordine presunto-naturale della gerarchia tradizionale: “la repubblica non eraatemporale, proprio perché non rispecchiava, in virtù di una mera corrisponden-za, l’ordine eterno della natura (…). Dunque, il dare valore alla repubblica equi-vale a spezzare la continuità atemporale dell’universo gerarchico in tanti momen-ti particolari e cioè in quei periodi della storia in cui erano esistite delle repubbli-che e che erano degni d’attenzione” (Pocock 1980, 154--55) da un lato, e, dall’al-tro, in periodi in cui le repubbliche erano sopraffatte da altre forme di dominio,periodi cui viene attribuito un giudizio di valore negativo.La concezione della storia propria al pensiero repubblicano si caratterizza, per-tanto, dalla presenza di giudizi di valore relativi all’analisi delle forme di governo.Questo è il motivo che induce Pocock e Skinner a soffermarsi sull’analisi machia-velliana delle forme di governo e sulla riflessione, connessa, circa la virtù.

La virtù del Principe

Un’opinione molto diffusa attribuisce al segretario fiorentino un primo discorsoorganico ed articolato sullo Stato (Portinaro 1999, 35), in virtù del celebre incipitdel Principe in cui “stati” e “domini” sono utilizzati come genere astratto rispettoalla specie “principato” e “repubblica”.8

Alla luce della propria predilezione per la storia della repubblica romana, rispettoalla polis greca, Machiavelli riduce la tipologia delle forme di governo dalla tripar-tizione aristotelico-polibiana (riesumata alla fine del XII secolo) ad una bipartizio-ne: principato (governo di uno) e repubblica (governo di molti). La tripartizionearistotelico-polibiana si struttura in base ad un criterio quantitativo: regno (gover-no di uno), aristocrazia (governo di pochi), politia (governo di molti), cui siaggiunge un criterio qualitativo, in virtù del quale ognuna delle suddette formeidentificata come “retta” prevede una propria forma “degenerata” (rispettivamen-te tirannide, oligarchia e democrazia, intesa come demagogia, lungo un conti-nuum modulato dalla legge naturale dei cicli storici, la polibiana anakiklosis).Nella bipartizione machiavelliana accanto al criterio quantitativo, manca quelloqualitativo; viene meno, pertanto, ogni distinzione fra forme rette e degenerate.Accantonate le repubbliche, che non rappresentano, per ora, il proprio oggettod’analisi, Machiavelli esprime l’ovvia constatazione che i principati sono ereditario nuovi; nuovamente ignora il primo termine dell’antitesi per introdurre un’ul-teriore distinzione che conduce direttamente al fulcro della sua riflessione: “iprincipati nuovi (…) si acquistano o attraverso la virtù e per mezzo di armi pro-prie, o attraverso la fortuna e per mezzo di armi altrui” (Skinner 1999, 31).Come evidenzia anche Norberto Bobbio (1976), Machiavelli concepisce ilPrincipe quale strumento per incidere immediatamente sulla realtà politica cir-

7 Sulla concezionedella libertà repubbli-cana come libertànegativa non concor-da un autore comePettit (2000) che purerisulta profondamentedebitore rispetto all’a-nalisi di Skinner.Pettit afferma esplici-tamente di considera-re il modello repubbli-cano come una sortadi “terza via” rispettoalla contrapposizionefra individualismo ecomunitarismo, tenta-tivo teorico condotto,in Italia, anche daViroli (1999) e che hacontribuito a modifi-care l’originariaimpostazione dellostesso Skinner. Perapprofondimenti sirimanda all’interes-sante introduzione allibro di Pettit effettua-ta da Marco Geuna.

8 In realtà, Skinner dimo-stra come Machiavellinon formuli una dottrinadella “ragion di Stato”(espressione che non figu-ra mai nei suoi scritti), adifferenza di quantosostengono nelle proprieriletture i tomisti domeni-cani e gesuiti. Comunque,ai fini di una compiutateoria dello Stato risultaancora troppo margina-le, nel Principe, il requisi-to, tipicamente moderno,dell’astrattezza, essendo,lo status percepito ancoracome assetto di potereeminentemente persona-le.

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costante: in particolare, è necessario sottolineare l’invocazione finale dell’opera alprincipe nuovo che tragga l’Italia dal “barbaro dominio”, in cui sta tragicamentesprofondando in seguito alle guerre che dal 1494 hanno per oggetto proprio ildominio sulla penisola.In questo caso, essendo il principe nuovo un tiranno – secondo una nota defi-nizione di Bartolo da Sassoferrato – ex defectu titoli (cioè un usurpatore), perMachiavelli decade la distinzione classica fra principe (retto) e tiranno (degene-rato); anzi, il tyrannus ex defectu titoli ha per lui una valenza positiva, è un inno-vatore, il fondatore di un nuovo ordine politico.Rimuovendo la distinzione fra forme di governo rette e forme degenerate, il cri-terio per distinguere la buona dalla cattiva politica resta il successo, identificatocon la capacità di conservare lo status. Si verrebbe, quindi, ad imporre la stabili-tà come valore in sé, conseguenza del disgregarsi dei riferimenti tradizionali edelle antiche sicurezze.In effetti, la figura del principe “nuovo” si colloca al di fuori della sfera concettua-le della politica medievale (ma anche di quella antica), in quanto pone la que-stione di un fondamento di legittimità disgiunto dalla tradizione e dalla consue-tudine. Conseguentemente, Machiavelli evidenzia la necessità di una virtù straor-dinaria che deve possedere chi innova.9 In questo caso egli traduce (e trasfigura)all’interno del proprio pensiero altamente innovativo concezioni proprie dell’u-manesimo classico: secondo la distinzione latina, la virtù è quella dote che rendecapaci di resistere ai colpi della fortuna. Quest’ultima è particolarmente sensibi-le alla virtus dell’autentico vir (dell’uomo “virile”, audace), come deve essere,necessariamente, l’innovatore.10

Questa concezione “tecnica” della virtù, che emerge in particolare nei capitoli XVe XVIII del Principe, apre scenari di discontinuità radicale rispetto al patrimonioconcettuale della filosofia politica classica: la gestione del potere si “secolarizza”,la politica si spiega facendo riferimento a regole e principi prevalentemente auto-nomi. Ne risulta sovvertito il rapporto tradizionale fra “legge di Dio” e politica: perMachiavelli la religione diviene un instrumentum regni, subordinato alla proget-tualità politica, innalzata, quest’ultima, al rango di riferimento intellettuale supre-mo, e alla razionalità strumentale orientata al mantenimento/rafforzamento delpotere del Principe.Il tema della virtù, nel Principe, è circoscritto a particolari individui, principi econdottieri. In precedenza, abbiamo ricordato come tale opera sia concepita perincidere sulla realtà politica circostante: Machiavelli scrive con il chiaro intento –confidato a Vettori – di farsi notare da “questi signori Medici” (Skinner 1999, 30).Egli si trova in una condizione che l’accomuna a tanti umanisti tardo-rinascimen-tali, come Patrizi, che pur preferendo personalmente le istituzioni repubblicane,si devono adeguare ad un contesto caratterizzato dalla forma di governo di unprincipe (nuovo), nella speranza di ottenerne i favori.Di conseguenza, nel Principe, Machiavelli non si occupa del tema della parteci-pazione politica (Pocock 1980, 319), eppure, indirettamente, trattando dellevicende del principe nuovo, egli evidenzia la somma difficoltà di tale principe agovernare i possedimenti di quella che fu una repubblica – e qui il riferimento alrientro dall’esilio dei Medici nel 1512 è palese – perché il trascorrere del temponon può cancellare la consuetudine alla libertà, al “vivere civile”, inteso come

9 Il genere innovatoriè costituito, dalle spe-cie dei principi nuovie dei legislatori (comeMosè, Teseo, Ciro, oRomolo) che si diffe-renzia dalla primaper il fatto di com-prendere individuiche devono rifondareuna comunità politicain situazioni di radi-cale anomia.

10 Per Machiavelli l’in-novatore è un soggettoche provoca partico-larmente la fortuna.Egli è esplicito alriguardo: chi innovainnesca inevitabil-mente una serie diconseguenze che nonsono interamente pre-vedibili “ex-ante” (for-tuna) e con cui dovrànecessariamente rap-portarsi con specialecura (virtù). In questaaccezione, la contrap-posizione virtù/fortu-na sfiora il tema degli“effetti inintenzionalidell’azione sociale”,che troverà ampiospazio, in seguito,nelle categorie dell’il-luminismo scozzese ein autori come Smithe Burke, Vico eMandeville, oltre che,nella sociologia con-temporanea, inMerton e Boudon.

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“libera partecipazione alla cosa pubblica” (Pocock 1980, 334.).Il valore della libertà intesa come partecipazione politica responsabile al governodella repubblica, che nel Principe è presente solo “in negativo”, diviene argo-mento centrale delle successive riflessioni di Machiavelli, quando, a seguito delladelusione patita a causa della scarsa considerazione dei Medici e della mancataintercessione di Vettori, si avvicina al gruppo di letterati repubblicani, sostenitoridella libertà civica, che discutono regolarmente agli Orti Oricellari. Il risultato fon-damentale di tale esperienza è la decisione di Machiavelli di rivedere e portare aconclusione un’opera fondamentale, concepita (e cominciata) ancor prima discrivere il Principe, ossia i Discorsi sui primi dieci libri della Storia di Tito Livio,in cui esplicita le proprie preferenze repubblicane.

La virtù repubblicana: vita activa, partecipazione, conflitto

Mentre “nel Principe aveva attribuito la virtù solo ai più grandi capi politici e aicomandanti militari; nei Discorsi [Machiavelli] afferma esplicitamente che, se unacittà vuole ottenere la grandezza, è essenziale che la virtù sia posseduta dall’inte-ra cittadinanza” (Skinner 1999, 62-63). Si pone, pertanto, un interrogativo decisi-vo: “come possiamo sperare di infondere questa qualità in modo così ampio e dimantenerla abbastanza a lungo da assicurare il raggiungimento della gloria civica?”(Skinner 1999, 64).Al problema di come combattere i fenomeni degenerativi della vita civile, la teo-ria politica dell’età moderna ha risposto delineando due diverse strategie(Skinner 1989, 109): la prima, che raccoglie l’eredità scolastica ed annovera fra ipropri fautori Hume, secondo la quale un governo efficace presuppone, in primoluogo, istituzioni forti; e la seconda, che rielabora l’eredità retorica ed umanisticaed è sviluppata da autori come Machiavelli e Montesquieu, secondo cui un gover-no efficace implica la virtù dei governanti, la quale, a sua volta, può essere soste-nuta solo attraverso lo “sviluppo dello spirito pubblico dei cittadini” (Skinner1989, 160). A tal proposito il segretario fiorentino scriverà, nel quinto capitolo delprimo Discorso, dell’esigenza di un governo largo.E’ necessario precisare a tale riguardo, che Machiavelli non trascura affatto gliaspetti istituzionali: il recupero dell’esperienza romana e l’elogio della forma del“governo misto” risiedono nel principale pregio di tale forma che “sta nel conce-pire le leggi relative alla costituzione in modo da creare un equilibrio elastico ebilanciato tra opposte fazioni sociali, in cui tutte le parti vengano coinvolte nellagestione del governo” (Skinner 1999, 75).La repubblica romana rappresenta un riferimento comune agli umanisti del XVsecolo e, prima ancora, ai retori e agli scolastici (Skinner 1989, 163); l’elementoinnovativo dell’analisi machiavelliana è costituito dalla contrapposizione fra ilmodello repubblicano romano e quello veneziano (Discorsi, I, 5-6), ossia fra “unarepubblica che si fonda su una milizia popolare e una plebs politicamente attivada un lato e dall’altro una repubblica che si fonda sull’impiego di armi mercena-rie attuato da un’oligarchia” (Pocock 1980, 28).Si tratta di una posizione che distingue nettamente Machiavelli dai suoi concitta-dini: il “mito di Venezia” è sempre presente negli ultimi decenni del XV secolo esi rafforza grazie a pensatori come Donato Giannotti e Guicciardini; in particola-

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re, dopo il ritorno dei Medici, Venezia appare ai fiorentini come un grandissimomodello repubblicano, una “sorgente di saggezza politica” (Skinner 1989, 247-48).Essa rappresenta agli occhi degli ottimati il modello di “stabilità perfetta” perché“in equilibrio perfetto” (Pocock 1980, 231). Nella propria opera di idealizzazonedel modello, i patrizi fiorentini giungono a negare, di fatto, la prevalenza aristo-cratica nella forma di governo veneziana e, con ciò, quanto rilevato da Machiavelli,ossia che quello della Serenissima è un governo stretto.Nei Discorsi (I, 17) Machiavelli sostiene che la corruzione, cioè quel processogeneralizzato di decadenza morale che ha condotto alla perdita della virtù e, conessa, al tracollo dell’esperienza repubblicana fiorentina, non sia imputabile allagenerale malvagità degli uomini, bensì all’inequalità, ossia, nella fattispecie con-creta, all’eccessiva prepotenza dei gentiluomini (Discorsi, I, 55).11

Egli è ben consapevole che proprio l’eliminazione del Consiglio Grande (l’organodemocratico della forma di governo fiorentina) per opera degli ottimati apre lastrada al ritorno dei Medici. In tal modo gli ottimati stessi si condannano alladipendenza dal regime mediceo: negando al popolo il diritto alla partecipazionefiniscono per negarlo anche a sé medesimi. La perdita, nel 1512, di questo dirittopopolare alla partecipazione politica è considerata, non solo da Machiavelli, maanche da Guicciardini e Vettori (da quest’ultimo con compiacimento) un accadi-mento epocale nella storia fiorentina. Un dramma che, come teorizzerà palese-mente l’Alemanni – e la storia successiva non mancherà di confermare – sostitui-rà alla tensione repubblicana fra autorità e partecipazione, l’assuefazione alla cor-tigianeria.Nell’analisi della fine della repubblica fiorentina “la causa principale cheMachiavelli isola (…) consiste nell’esclusione del popolo da un ruolo sufficiente-mente attivo negli affari di governo” (Skinner 1989, 284). La sua difesa di tale con-cezione del governo largo si regge su alcune affermazioni sconvolgenti, che scan-dalizzano i contemporanei, a cominciare da Guicciardini: “La prima è che il dissi-dio e la contesa tra nobili e plebei avevano prodotto la stabilità, la libertà e lapotenza di Roma: asserzione sconcertante e incredibile per la mentalità che erasolita stabilire un’identità tra unione e stabilità con il relativo vigore…” (Pocock1980, 375-76). Contro tutta la tradizione repubblicana fiorentina che, sin dalDuecento, enfatizza la minaccia costituita dalla faziosità nei confronti della libertàdei cittadini, Machiavelli sostiene che “tutte le leggi che si fanno in favore dellalibertà” nasceranno dalla “disunione fra loro” (Discorsi, I, 4, 5).Se la virtù è identificata con il “vivere civile”, la vita activa,12 che presuppone lapartecipazione politica, stante la riconosciuta pluralità di opinioni ed interessi, ilconflitto ne diviene un corollario quasi ineluttabile, che Machiavelli consideracome “la manifestazione della più elevata virtù civile” (Skinner 1989, 306). Il rico-noscimento del medesimo, e la sua regolamentazione, consentono la limitazionedegli interessi settoriali. In contrasto rispetto alla pratica del governo veneziano,Machiavelli ritiene che “questo conflitto di classe non rappresenti il solvente,bensì il cemento di una collettività” (Skinner 1989, 306).13

La forma di governo repubblicana si distingue per l’abitudine al “vivere civile” chela caratterizza, cioè per la diffusa partecipazione alla cosa pubblica (è proprioGuicciardini ad utilizzare tale termine) in cui viene ad identificarsi il comporta-mento virtuoso, in tal modo “l’edificio della virtù si trovava collocato nel territo-

11

La politicizzazionedella virtù comportalo slittamento seman-tico del proprio oppo-sto diadico da fortunaa corruzione; in altritermini, la perdita divirtù non si spiega piùsolo in termini mora-li, bensì propriamentepolitici.

12 L’espressione spiritopubblico (public spi-rit) viene utilizzata daHenry Neville tradu-cendo il termine virtùnella sua edizione deltardo Settecento, daltitolo “The Works ofthe famous NicolasMachiavel.”

13 In Machiavelli vi èuna prima esplicitateoria che mette inrelazione il conflittocon – per utilizzareuna categoria appar-tenente al lessico cor-rente della scienzapolitica contempora-nea – la formazionedel capitale sociale(Putnam, 1993;Almagisti eRiccamboni, 2001).

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rio della fortuna e questo almeno in parte perché la virtù della repubblica eraanch’essa un’innovazione; e, quindi, doveva possedere quel tipo di virtù atto adimporre una forma alla fortuna” (Pocock 1980, 362).In altri termini, anche la repubblica, come emerge dai Discorsi, è in balìa della dia-lettica incompiuta fra virtù e fortuna – e lo è in quanto ordine politico particola-re, temporalmente determinato e, quindi, contingente – elemento tanto più evi-dente, quanto più Machiavelli insiste sulla necessità di integrare nelle strutturemilitari l’intero popolo, legando la virtù repubblicana all’aleatorietà delle intra-prese militari espansioniste. Su questo aspetto, come sottolinea Pocock, iDiscorsi contengono elementi più inquietanti ed eversivi rispetto al Principe.14

Si comincia a delineare, pertanto, la condizione che, sin dall’inizio della propriavicenda, caratterizzerà lo Stato, come forma stabile ed instabile al contempo.All’interno del proprio territorio, lo Stato, si palesa come forma più stabile rispet-to alle altre organizzazioni politiche compresenti e costrette a soccombere. Ma –essendo lo Stato una parzialità, ossia territorialmente limitato – il contesto poli-tico continentale, precedentemente unificato dall’“unità inclusiva di senso cuitendeva la politica medievale” (Fiaschi 1984, 79), si viene caratterizzando per lacompresenza di molteplici parzialità che si auto-affermano come tutte ugualmen-te “sovrane” (i singoli “Stati”), da cui consegue l’instabilità delle relazioni politi-che interstatuali e la loro regressione sempre possibile (nonostante i nobili ten-tativi di Grozio, Pufendorf e Kant di edificare una “comunità internazionale didiritto”) al rango di rapporti di sopraffazione.La consapevolezza della costitutiva instabilità dello Stato, per l’opera anche dell’a-zione di forze esogene, prende il posto della teoria ciclica delle forme di governo diPolibio, che spiegava l’instabilità dell’ordine politico solo in base a fattori endogeni.Anche per questo motivo Machiavelli non può accettare il tipo ideale del regimeperfettamente stabile secondo Guicciardini e gli ottimati, ossia quello della repub-blica aristocratica, costruito sugli esempi storici di Sparta e Venezia. Machiavelli èconsapevole dell’illusorietà circa la perfetta stabilità attribuita a tale modello, poiché“Sparta e Venezia non potevano sottrarsi al dominio della fortuna” (Pocock 1980,382), essendo realtà parziali e, quindi, contingenti, dipendenti dai rapporti con lealtre realtà politiche parziali almeno quanto dai rapporti interni. Non è questa la sede per approfondire tale ordine di questioni, altri hanno già evi-denziato, egregiamente, sia le “ambiguità machiavelliane” in merito al mutamentodell’ordine politico (Pocock 1980; Fiaschi 1984), sia l’aporeticità della teoria dellasovranità statuale (Ferrajoli 1995); qui basterà richiamare il nesso evidenziato daMachiavelli tra vita activa, conflitto e partecipazione alla cosa pubblica.In primo luogo, tale partecipazione acquista una salienza particolare:15 la vitaactiva è considerata come risorsa difensiva dagli assalti della sorte. Ne scaturisceuna connessione fra il tema della sicurezza e quello della presenza di una rigo-gliosa sfera pubblica di cui si colgono i riverberi nei più avveduti fra gli autori anoi contemporanei (Bauman 1999).Secondariamente, l’enfasi posta sulle virtù repubblicane non si dimostra affattoinconciliabile con il pluralismo: il liberalismo storico s’è formato sui capisaldicostituiti dalla libertà dei moderni e dai diritti individuali, ma, in realtà, comericordano Bellamy e Castiglione (2001, p. 13), sul piano storico il repubblicanesi-mo riconosce le inevitabili divisioni che attraversano il corpo politico.

14 Machiavelli si con-centra sul dinamismodelle conquiste belli-che, i sostenitori delmodello veneziano(come Guicciardini)si orientano con piùdecisione verso il con-seguimento della sta-bilità per mezzo delladistribuzione istituzio-nale del potere. Laradice della tradizio-ne repubblicana clas-sica agli albori dellamodernità è costituitadalla congiunzione diqueste due forme dipensiero.

15 Si deve sempre tenerpresente che “nellamisura in cui il siste-ma politico cessa diessere una realtà uni-versale e viene, inve-ce, visto come unarealtà particolare,riesce ad esso quantomai arduo affrontareil tema della fortuna”(Pocock 1980, 320).

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Pizzorno (1993, 189) evidenzia che, secondo Machiavelli, a condizione che avven-gano disputando e non tramite violenze all’ultimo sangue, i conflitti giovano allacosa pubblica allargando il diritto ad essere presente nel governo della città aduna parte precedentemente esclusa e garantendo le libertà dei cittadini.

Machiavelli e la teoria politica di Hobbes

Resta un interrogativo cruciale: è possibile riproporre una tale concezione dellapartecipazione e del conflitto, quando dal piano analitico della città-repubblica sipassa a quello dello Stato nazionale? Thomas Hobbes fornisce una risposta dra-stica: i conflitti vanno radicalmente eliminati in quanto conducono tutti alla guer-ra civile: “uno Stato diventa tale proprio quando abolisce ogni identità collettivache si presenta autonoma rispetto ad esso” (Pizzorno 1993, 190).Emerge una cesura drammatica rispetto alla teoria machiavelliana: “Hobbes, chenon è affatto il Machiavelli inglese, è invece il maestro radicale del pensiero poli-tico al tempo della guerra civile” (Pocock 1980, 639). Nel declino della deferenzadi tipo religioso – come nella frantumazione del corrispondente universo simbo-lico condiviso – e nella fallacia del tradizionale controllo comunitario, che carat-terizzano la transizione alla modernità, lo Stato viene ad assumere un compitoepistemologico (Pizzorno 1993, 190): onde prevenire conflitti asperrimi, deve sta-bilire la verità delle persone, cioè la loro identità sociale.16

Si delinea una sovranità assoluta e indivisibile, per cui non solo viene concettual-mente meno, come nel Principe, la distinzione classica fra forme di governo rettee degenerate,17 ma viene rigettata ogni ipotesi di governo misto, cioè di quelgoverno pensato per portare a tessuto (a contesto) ciò che è riconosciuto come“diverso”, quel governo che si trova di fronte una molteplicità di forme politicheassociative, in cui avviene una partecipazione politica mediata e plurima. Lo stata-lismo hobbesiano postula, pertanto, il più radicale individualismo (scaturente daldissolvimento di qualsiasi diaframma frapposto tra il singolo e l’autorità politica)come proprio presupposto “scientifico”. In virtù del grandioso disegno hobbesia-no, mediante la teoria si realizza l’azzeramento sia della molteplicità del reale chedella riflessione filosofica pregressa, considerata non scientifica: la nozione hob-besiana di individuo non è, pertanto, solo la singola parte determinata dalla qualeil tutto (Stato) viene a dipendere come risultato di una costruzione meccanica,bensì anche il risultato stesso della medesima costruzione.Il prototipo antropologico hobbesiano dell’individuo ab-soluto ed irrelato, abi-tante ferino di uno stato di natura dominato dall’insostenibile terrore di essereannichiliti per mano (omicida) del proprio identico, viene scientificamente im-posto come condizione umana universale, ben triste destino cui si può fuggiresoltanto per mezzo della costruzione di un Leviatano cui devolvere la propriasoggettività politica.18

Vi sono elementi sufficienti per sostenere che fra la virtù repubblicana e il concet-to di rappresentanza che emerge dal capitolo XVI del Leviatano corrano rapportidi mutua esclusione: la prima comporta partecipazione politica diffusa, multipla econflitto; mentre la seconda implica una manifestazione di volontà individualemediante la quale operare la dismissione completa della propria soggettività poli-tica delegando integralmente la risoluzione delle questioni politiche rilevanti a dei

16 Per garantire lapace agli individui, loStato non deve mante-nere “solo” il monopo-lio della forza, maanche quello “dellastoria” (Tronti 1998,174) e del “controllodel futuro” (Koselleck1986, 18).

17 V’è un passo illumi-nante di Hobbes (DeCive, II, 2), in cui eglipostula, con la con-sueta chiarezza checontraddistingue ilsuo grande genio, l’as-soluta convenzionali-tà dei criteri qualitati-vi in base ai quali sidistinguono le formedi governo.

18 Thomas Hobbesnasce il 5 aprile 1588,nel momento in cui laGrande Armada spa-gnola prende d’assaltole coste inglesi; si rac-conta che sua madresia stata presa dalledoglie per lo spaventodell’invasione, cosìche lo stesso Hobbespotrà in seguito affer-mare di essere nato“gemellato con il ter-rore”.

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rappresentanti. La rappresentanza hobbesiana implica, infatti, “il trasferimentodella propria pienezza di potere e della propria persona; se non, addirittura, dellapropria individualità. E un umanesimo repubblicano, a cui premeva moltissimoche nella concreta partecipazione politica si affermasse la personalità morale deisingoli, poteva benissimo allarmarsi: forse che l’idea di rappresentanza non finivaper escludere quella di virtù?” (Pocock 1980, 871).19

Si tratta di una questione molto controversa anche nel dibattito contemporaneo:molti autori (ricordiamo fra i tanti, Fiaschi, 1984; Bauman, 1992; Barcellona, 1995;Cacciari, 1997; Gelli, 2000), hanno ravvisato nella costruzione della forma-Statocome strumento tecnico di neutralizzazione (rimozione) del conflitto, di derubri-cazione del politico all’amministrazione centralizzata e autonoma di una “macchi-na” i cui componenti sono autonomi e fungibili,20 di frantumazione dell’idea di per-sona inserita nella complessa gerarchia delle appartenenze sociali a favore di quel-la di individuo atomizzato, l’origine di una “desertificazione” politica del sociale,che si contrappone “per principio”, alla partecipazione politica in differenti realtàassociative conflittuali e, quindi, concettualmente, al governo delle diversità.Questo tema, così attuale e dibattuto, appare molto sfumato nelle opere degliautori della “Scuola di Cambridge”: una ricostruzione, come quella di Skinner, for-temente orientata ad evitare ogni contaminazione “comunitaria” e ad identificareil repubblicanesimo con una concezione “negativa” della libertà finisce per elu-dere il confronto fra Machiavelli ed Hobbes.Mentre l’analisi di Pocock giunge sino ad Hobbes per negare decisamente cheMachiavelli vi possa essere accomunato e poi trasmigra in America per quattro-cento pagine, poiché è la spiegazione della peculiarità della storia americana – e iltentativo di rintracciarvi tradizioni aristoteliche o, più in generale, classiche – chesoprattutto orienta la sua ricerca (tanto da essere accusato, da alcuni critici inge-nerosi, di avere scritto una lunga giustificazione dell’imperialismo americano).

Vico e un patrimonio di pensiero politico da riscoprire appieno

La ricostruzione di Pocock, tuttavia, può offrire spunti interessanti, se si considerache gli americani, prima della Rivoluzione, sono artefici di una prassi repubblica-na (Gangemi 2001), anche se, per la reputazione di immoralità di cui gode a queltempo Machiavelli, mai citerebbero tale autore tra i propri riferimenti, né possonoavvalersi delle feconde interpretazioni di colui che, riprendendo in modo origina-le la lezione machiavelliana, rappresenta uno strenuo oppositore dello Stato asso-luto e del modello antropologico hobbesiano: Giambattista Vico .21

Siccome Vico non ha ancora scritto (inizio ‘700) o non è ancora noto (prima metàdel ‘700) o, se noto, è considerato anticipatore di Hegel (‘800), la letteratura ame-ricana, per gli elementi della propria cultura politica esulanti dal filone lockiano-costituzionalista, ricorre alla particolare interpretazione di Hobbes fornita daiPadri Pellegrini, trovandovi quei tratti che gli europei (che stanno sperimentandopratiche di governo assolutistiche), mai avrebbero riscontrato.22

In realtà, è nella rilettura di Vico (il quale, come Machiavelli, medita a propositodell’esperienza della respublica romana per riflettere sul processo di sviluppopolitico in generale) che possiamo riscontrare elementi significativi per una riva-lutazione attuale della lezione repubblicana: è Vico che, in contrasto con Hobbes,

19 Nel Leviatano diHobbes, di fronte algovernante non visono più governati,intesi nella propriasoggettività politica, inquanto essi sono nelLeviatano (com’è raf-figurato nel frontespi-zio dell’edizione origi-nale del testo hobbe-siano). Il meccanismodella rappresentanzapostula l’autorizzazio-ne da parte di ognisoggetto individualead un soggetto altro:tutti autorizzano leazioni dell’attore, cheagisce in nome e perconto di tutti(Leviatano, cap. XVI).

20 “Il concetto di auto-nomia del politico,che appartiene allatradizione della teolo-gia politica, fu defini-to per la prima voltada Thomas Hobbes.L’importanza di que-sto concetto fu quindiribadita in modoancor più deciso daCarl Schmitt” (Hardt,Negri 2002, 430, nota6).

21 Per una più appro-fondita analisi dellateoria politica di Vicoe un confronto con leteorie di Machiavelli edi Hobbes, si rimandaa quanto esposto inAlmagisti (2002).

22 Di Vico all’estero èmolto nota soprattuttola Scienza Nuova, incui il concetto di virtùappare poco (essendoin gran parte sostitui-to dalla Provvidenza);esso si trova nella“Ottava orazione” (il

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sostiene l’esistenza della socialità anche prima dell’istituzione dello Stato.23 E’ ilfilosofo napoletano a sviluppare la lezione di Machiavelli che preannuncia – tra-mite l’accettazione della “disarmonia” politica – il tema moderno della “societàcivile” e ad esprimere una concezione pluralistica ed antagonistica della storia. In tale interpretazione, pertanto, il conflitto torna ad essere, come perMachiavelli, condizione essenziale per il miglioramento sociale e la difesa dellalibertà: infatti, mentre reintroduce la liceità dei giudizi di valore nell’analisi deifenomeni politici e, quindi, delle forme di governo, Vico sottolinea che le formedi governo qualitativamente più elevate (a suo parere, la repubblica popolare e ilprincipato) sorgono storicamente proprio in seguito alla lotta degli esclusi daldominio e, cioè, da una domanda di partecipazione politica diffusa.Ne deriva una concezione della società civile – come dimensione distinta dalloStato – che non si limita a delineare un ambito di autonomia privata a tutela dellelibertà individuali, come insegna il liberalismo classico, ma che si avvale anchedella componente repubblicana relativa al riconoscimento di un diritto genera-lizzato di partecipazione politica, da parte di soggetti organizzati, di identità col-lettive autonome rispetto allo Stato.Riguardo alla considerazione secondo la quale tale componente repubblicana,abbia finito per essere sottostimata nella storia del pensiero politico, risulta soloparzialmente efficace la spiegazione fornita da Philip Pettit, secondo cui la nozio-ne di libertà repubblicana è “passata in secondo piano solo allorché, verso la finedel XVIII secolo, divenne chiaro che, una volta estesa la cittadinanza al di là del-l’ambito ristretto dei maschi benestanti, non era più pensabile rendere tutti i cit-tadini liberi nel senso antico (…). Se la libertà doveva essere ridefinita come unideale aperto a tutti i cittadini, allora non si poteva che ripensare la libertà in ter-mini meno esigenti” (Pettit 2000, 5). In realtà, come ha notato O’ Donnell (1998),l’apporto della tradizione intellettuale repubblicana è stata (ed è) tutt’altro cheininfluente nella costruzione delle contemporanee democrazie reali, o poliar-chie,24 nei termini, periodicamente ricorrenti, dell’attenzione posta sulla parteci-pazione consapevole agli accadimenti della sfera pubblica. In questo senso, ilpatrimonio repubblicano risulta essere fecondo, per quanto almeno in parte sot-tovalutato, rispetto alle vicende dei regimi poliarchici contemporanei. Le ragionidel relativo oblio, che hanno spinto autori come Pocock e Skinner (nella diffe-renza delle rispettive traiettorie di ricerca) a ricostruirne la complessa genealogia,investono direttamente i capisaldi del pensiero politico moderno, che ha conce-pito, per lungo tempo, lo Stato e il mercato come fonti pressoché esclusive diregolazione, per mezzo di un duplice processo riduzionista, in virtù del quale ilpolitico è hobbesianamente ridotto allo statuale e la società civile ai rapporti discambio del mercato. In altri termini, liberismo e statalismo rappresentanoautentici “pensieri forti” della modernità, le cui vicende sono, pertanto, caratte-rizzate dal rapporto di conflitto e compromesso fra queste due grandi logiche d’a-zione (Ferrarese 2000; Almagisti 2002), accomunate dall’esigenza di una forteomologazione dello spazio sociale di riferimento, da cui deriva il giudizio di dis-valore relativo all’esistenza di identità collettive autonome (specie delle classi sub-alterne) o alla persistenza di culture locali difficilmente assimilabili. Già dal XVIIsecolo, la crisi dei tradizionali dispositivi disciplinari legati alla supervisione comu-nitaria ed il timore conseguente riguardo alla possibile diffusione di comporta-

primo dei grandi scrit-ti vichiani) o DeRatione.

23 Com’è noto, secondoVico, che anticipatemi ripresi poi daLeopardi e daNietzsche e nel corsodel Novecento, daMax Weber, HannahArendt e Karl Jaspers,il processo di civilizza-zione dell’uomo non ècaratterizzato solo daeffetti positivi, cosìcome non lo è il pro-cesso di statalizzazio-ne, dal momento cheuna “seconda barba-rie” (razionalistica emolto più immanedell’originaria barba-rie del senso) si puòsviluppare proprioall’interno dellaforma politica statale(cpv. 1106, Scienzanuova seconda).

24 O’ Donnell conside-ra le poliarchie con-temporanee come ilrisultato di tre compo-nenti distinte – soven-te confliggenti – e, alcontempo, indispensa-bili: la tradizionedemocratica, quellarepubblicana e quellaliberale. Differentimodalità di ricompo-sizione di tali compo-nenti, in relazioneanche alle strutturedello Stato e del mer-cato, originano diffe-renti tipi di poliarchie,le quali presuppongo-no sempre delicaticontrappesi fra istan-ze diverse.L’estremizzazione diuna componente ascapito delle altrecomporterebbe, secon-

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menti anomici ha prodotto, come ricostruito da Hirschman (1977),25 la convinzio-ne che le minacce per il vivere civile (e la stabilità dell’ordine politico) potesseroessere contenute solo tramite la soluzione prescritta da Hobbes, unitamente, lad-dove essa si dimostrasse impraticabile, ad una strategia della passione come con-trappeso, consistente nella selezione delle passioni più “innocue”, allo scopo difrenarne altre ritenute più pericolose e distruttive (Hirschman 1977, 29). La peri-colosità riconosciuta alle passioni politiche (sulla cui “rispettabilità” gravano le con-seguenze degli asperrimi conflitti di matrice religiosa che funestano l’Europa nelCinquecento) ha comportato la “selezione dell’interesse come passione di contra-sto” (Hirschman 1977, 36), in virtù di un pregiudizio favorevole, secondo il qualel’interesse sarebbe passione inoffensiva, poiché possederebbe gli attributi di pre-vedibilità, costanza e dolcezza (Hirschman 1977, 47-48).Gli accadimenti contrastanti rispetto all’ottimismo liberale circa l’innocuità del-l’interesse, che si verificano già nel corso del Settecento e dell’Ottocento, con-durranno Marx a scrivere pagine di memorabile sarcasmo in merito alla “dolcez-za” dell’interesse e, soprattutto, Tocqueville a sottolineare le derive connaturateal ripiego esclusivo sui propri interessi privati da parte dei singoli individui che ali-mentano, per questa via, lo svuotamento di una “sfera pubblica” progressivamen-te sempre più misera e, pertanto, disponibile alle incursioni colonizzatrici daparte di nuovi despoti, come le terribili vicende del secolo breve hanno avutomodo di confermare.

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25 Nell’introduzioneall’edizione italianadel 1979, Hirschmanafferma di aver presovisione delle ricerchecompiute da Pocock eSkinner solo dopoaver ultimato la stesu-ra della propria operaconcernente le impli-cazioni morali relati-ve all’avvento delcapitalismo e di consi-derare la propriaopera come comple-mentare rispetto aquelle della “Scuola diCambridge”.

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Marco Almagisti è dottorando borsista in Scienza Politica presso il Dipartimentodi Scienza Politica e Sociologia dell’Università di Firenze.

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