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Manuela Girgenti - Salvatore Girgenti

Le radici ebraiche dell’Ordine Templare:

un’ipotesi di ricerca

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Introduzione

Parlare di Templari è impresa ardua. L’argomento è spigoloso

(scandaloso, dunque) sul piano storico, per tutte le complicazioni

e soprattutto co-implicazioni che esso genera sul piano delle

fonti, del metodo d’indagine adottato e sull’attendibilità scientifica

conseguente, spoglia se possibile da ogni preconcetto

apologetico, in alcuni casi, o cinicamente demitizzante in altri, pur

di farsi valere come imparziali de-costruttori. Nel primo caso non

aggiungeremmo nulla al nostro sapere, anzi lo spingeremmo

sempre di più verso una ineffabile impotenza quasi compiaciuta

di essere tale, nel secondo caso, adottando il sum ius, summa iniura,

ci priveremmo a principio di ogni eventuale sapere. La storia ha

da essere imparziale e coevamente non essere nichilista. Anzi

dovrebbe svolgere la funzione trasformativa di tradurre il non

sapere non tanto in saputo, ma in sapere generatore di nuova

conoscenza e consapevolezza. Capire le differenze dovrebbe,

dunque, essere più importante che produrre sommatorie di

simboli funzionali alla ricerca di un’unica forma di facile

autocompiacimento. Detto in lingua volgare sarebbe il prevalere

dell’analisi sulla sintesi. L’analisi è sforzo conoscitivo, la sintesi

corre il rischio di divenire pensiero unico o, peggio, propaganda

di un tipo o di un altro e non importa a favore di chi. Insomma

“L’analisi difficile al posto dell’indignazione facile” (Roland

Barthes – Lezione).

Sui Templari si è detto e scritto moltissimo, se si tolgono le

apologie, le narrazione fantastiche, le saghe leggendarie, le

sceneggiature funzionali a certi generi sia letterari, sia filmici, sia

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pseudo-storici da un lato, e se si tolgono gli scetticismi, altrettanto

misterici del mistero, che intendono destrutturare una volta per

tutte, come se i due atteggiamenti si nutrissero l’uno dell’altro,

allora sui Cavalieri del Tempio è stato scritto pochissimo, e

certamente c’è, viceversa, moltissimo da scrivere. Diciamo che

per entrambi gli atteggiamenti il nocivo è ogni volta credere che si

sia scritto o detto una volta per tutte. “L’ultimo romanzo, l’ultima

verità” sembra essere un disturbo sia della personalità, sia della

cultura in genere; entrambe le disfunzioni hanno attraversato il

nostro novecento.

Ciò non toglie che quando si citano i Cavalieri del Tempio, la

nostra curiosità, la nostra fantasia si ecciti, se comuni e

appassionati lettori come me, o parallelamente si mettano in moto

processi d’indagine conoscitiva altrettanto appassionati, ma

rigorosi se condotti da storici, come speriamo non ci vengano mai

a mancare.

Il saggio di Salvatore Girgenti si colloca proprio in questa

direzione, traccia i percorsi storici, più o meno inequivocabili, ma

lavora negli interstizi, nelle rughe, nelle pieghe che ogni

ricostruzione si porta appresso, dunque sono più le domande che

le risposte.

È mio personale convincimento che farsi affascinare dal

mistero, dall’oscuro, dall’inconoscibile, pur essendo sentimento

legittimo, ci priva però e parimenti di un ordine di fascino

superiore e più ricco che è quello della comprensione e

conoscenza dei fenomeni. In quest’ultimo caso i mezzi per

pervenirvi possono anche apparire più aridi, analitici, meno

coloriti, certamente meno fantastici, ma il risultato, sempre

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parziale, che si può sperare di raggiungere nasconda, - è il caso di

dirlo – soddisfazioni maggiori.

Sin dalla sua origine fino all’improvvisa decimazione

dell’Ordine, ma improvvisa apparentemente, la storia dei

Templari sembra costellata di un crescendo di fatti ignoti, o noti

in forma conforme a seconda del tipo di Templari che ogni

storico, o narratore o sedicente continuatore dei Principi

dell’Ordine stesso, vuole configurarsi come immagine degli stessi.

È indubbio che la loro fine fu tragica e spietatamente violenta,

e questo ci induce a sentimenti di pietà e anche di rancore nei

confronti di poteri sempre più potenti. Il rancore viene da qui, se

i Templari fossero stati decimati – come ora diremmo - dai

“parenti delle vittime” trucidate dai Templari stessi, avremmo

poco di cosa avere pietà. Disturba la nostra coscienza che a

sgominare i Cavalieri del Tempio, siano stati gli stessi ai quali essi

avevano prestato utilissimi servigi: la Chiesa e, nella fattispecie,

Filippo IV il Bello Re di Francia. Ma la storia è ciò che è

successo, che significa parimenti ciò che ha avuto successo. Il

perché e il come di questo successo è l’oggetto dell’analisi storica,

senza pietà da un lato e senza rancori dall’altro.

I servigi resi alla Chiesa furono incommensurabili, così come

quelli resi alle varie monarchie cristiane (espressamente non

diciamo europee, perché questo concetto verrà un po’ dopo). Nel

frattempo l’Ordine Templare si struttura sempre di più, diventa

sempre più ricco e potente, il suo potere contrattuale s’accresce,

un potere tanto grande da essere sempre più difficile da gestire,

soprattutto nei confronti di altri poteri in via di forte costituzione.

Il Papato prima ispiratore, poi complice, infine avverso proprio in

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funzione di un ordine, non più dalla Chiesa ordinabile e

controllabile secondo un criterio centrale. Da qui una delle prime

premesse del conflitto. Parimenti il Re di Francia, fortemente

debitore soprattutto finanziariamente nei confronti dell’Ordine,

contemporaneamente ostile a una Chiesa che vuole svuotare del

suo potere temporale e della sua invadenza e influenza negli affari

della monarchia e della Francia stessa, seconda ragione del

conflitto. E qui, in forma molto semplificata abbiamo i tre

soggetti in questione, nessuno dei quali è certamente amico

dell’altro.

Terza ragione del conflitto, a mio parere la più importante,

perché non costituisce solo una delle premesse, ma la sua

necessaria condizione: Filippo IV il Bello sta per fondare la

monarchia come sovranità e non solo attinente aggettivo di un

monarca. Una monarchia che deve diventare istituzione a

prescindere dal monarca che in un dato momento ne è immagine

rappresentativa fisicamente. Filippo vuole fondare lo stato come

persona astratta non soggiacente a condizioni personali, dunque

monarchia sovrana, stato sovrano, dove stavolta il vero sostantivo

è l’aggettivo, è la sovranità dello stato, della monarchia, del

monarca, che è più importante del monarca stesso. Il concetto di

sovranità sconvolge tutto l’apparato giuridico, sociale, culturale e

politico di quel tempo, è una delle prime forme di costituzione

degli stati moderni se non della modernità tutta.

Questo concetto ce lo portiamo appresso tanto che, tagliate le

teste ai re durante la rivoluzione francese, la loro corona simbolo

di sovranità, a prescindere dal nome, è passata al popolo; il

popolo è diventato sovrano al posto del re, dunque quello che

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assolutamente non doveva perdersi era la sovranità e lo stato, da

allora è così. Il Re, a tal punto rappresenta (così come anche il

popolo, diciamo noi) “l’uomo artificiale che chiamiamo Stato,

esso viene chiamato sovrano, e si dice che ha il potere sovrano; ogni

altro è suo suddito” (Thomas Hobbes – Leviatano). Anche nel

caso del popolo dunque assistiamo alla scissione fra figura fisica e

figura artificiale: il popolo sovrano rappresenta il popolo, ma i

due “popoli” non sono la stessa cosa o lo stesso popolo.

Potremmo dire che il popolo reale è alienato rispetto al popolo

rappresentato “sovrano”.

In tal senso ogni ordine diverso dall’ordine dello stato non è

più concepibile. Ancora e per molto si avrà che forme

parcellizzate di ordini, anche corporativi potranno esistere ma

avranno giurisdizione solamente interna ai propri aderenti e mai

in difformità dall’ordine costituito che è quello dello Stato, che

semmai ne concederà controllata licenza. Non potranno esistere

stati nello stato. Questo concepisce e persegue Filippo, sì facendo

ridimensiona il potere ecclesiastico e al contempo se ne serve per

nientificare i Templari, titolari di un credito quasi impagabile nei

confronti del monarca. Ma se il monarca non è solo il re, ma è

rappresentante di uno stato, lo stato non può fallire, gli stati non

possono andare in bancarotta, possono sì impoverirsi fino allo

stremo, possono correre il rischio di essere invasi, ma in tal caso è

guerra. Filippo ha fatto quello che doveva fare, annullare i suoi

creditori; d’altronde se al posto dei Templari ci fosse stato un

altro Stato, non gli sarebbe rimasto che fare la guerra. Tale

esempio lo trovo drammaticamente attuale!

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L’Ordine del Tempio si trovò così di fronte a un fiume della

storia che non poteva più controllare dove, inevitabilmente ne

sarebbe diventata la vittima sacrificale.

Piaccia o non piaccia, noi siamo figli di ciò che è successo (e

dunque di chi ha avuto successo). Ma siamo soprattutto figli di

questa dialettica della storia che nei suoi continui superamenti,

rappresentando il già successo, porta con sé sia i vincitori sia i

vinti nel loro rapporto, al punto che è il rapporto stesso a

fondarne le funzioni, per paradossale dialessi è il futuro attuale

che fonda i termini del presunto passato.

Ecco che adesso c’è da capire molto; come è successo ciò che

ha avuto successo? Quali sono state le funzioni dei vari attori?

Dei Templari oltre a indagare cosa loro sapessero e tenevano

segreto, non sarebbe altrettanto interessante cercare di capire cosa

non sapevano, cosa a loro sfuggiva, e se sapevano, perché in

tempo non vi hanno posto rimedio? Quale era la consapevolezza

storica di ciò che stava accadendo? Hanno avuto percezione della

loro fine, ovviamente non solo di quella violenta? Queste e

infinite altre domande sono possibili, e meriterebbero risposte

argomentate. Protagonisti per quasi duecento anni di un periodo

storico complesso e crogiuolo di svolte e invenzioni sociali

inimmaginabili, si ritrovano ad essere in breve tempo

anacronistici rispetto al loro stesso tempo. Non è una novità, è

successo sempre, un ordine sociale matura un suo compimento e

sembra che tutto a un tratto si trasformi completamente in altro.

Fino a oggi abbiamo avuto l’illusione, certe volte fondata, che

questo comporti ogni volta un passaggio ad un ordine superiore,

più complesso che, anche se più articolato, comunque sempre più

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unitario nei suoi fondamenti, una sorta di ordine maggiore che è lì

ad aspettarci e che abbiamo anche chiamato, non a torto,

progresso. Ma il termine progresso è un termine estremamente

relativo non del tutto innocente, tanto da nascondere di fatto una

fede acritica, recitando al contempo la fede nella critica di ogni

fede.

Ma erano così ingenui i Templari da non ravvisare nelle

dinamiche di potere, le premesse della loro fine? Certamente no.

Al contrario essi più di altri avevano maturato una visione

geopolitica molto consapevole, quella che oggi chiameremmo una

situation awarenes, una consapevolezza della situazione delle forze

in campo e dei processi ad essi sottesi. Conoscitori di territori, di

culture, imbevuti di confronti reali sia con le realtà islamiche

(anch’esse plurali) mediando per questo reciproco rispetto, sia

con quelle ebraiche, forti di un rigore e un impegno che ne

facevano la compagine più colta e determinata al contempo, forti

anche del loro essere veramente Cavalieri e non recitanti il mito

che della cavalleria si è prodotto, come poterono non accorgersi

di ciò che stava accadendo? Di ciò che a loro sarebbe accaduto?

Potenti, monastici, militari, religiosi e laici al contempo

rispondevano solo al Pontefice - uno di questi li avrebbe traditi -

ma questo era l’unico legame che in terra avevano; tutto il resto a

loro derivava da Cristo.

Guerrieri sì, ma per una pace in terra che forse nessuno

voleva, di fatto multi-culturalizzati, la loro visione del mondo

andava oltre i confini di ciò che materialisticamente si andava

delineando, non per sapienze segrete o per scienze infuse, ma

proprio perché uomini, guerrieri, cercatori di fede più che

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portatori, conoscitori sul campo di nuove nature, si ritenevano in

dovere di allargare confini umani, sociali, collettivi, altro che Stati.

Iper-moderni si potrebbe definirli oggi se la stessa modernità non

fosse già un termine desueto. Dunque anacronistici, ma non solo

per quel tempo nel quale vissero, ma anacronistici come riserva

inconscia che la storia si porta dentro pur ricacciandola nel limbo

che poi finisce per alimentarla. Potremmo definire l’anacronismo

come l’inconscio della storia. Dunque anacronistici autentica-

mente, e dunque portatori di un anacronismo attuale. Certo

questo è un ossimoro, un’aporia, una antinomia, ma è di questo

che la storia si nutre. La storia in opposizione dialettica e in

sintesi conseguente fonda i suoi presupposti proprio sui suoi

anacronismi.

Mi piace dunque pensare, ma questa non è storia, ma non è al

contempo romantica rimembranza, che in fin dei conti i Templari

di tutto questo erano coscienti, dunque non vennero catturati e

trucidati, ma - consapevolmente o meno non fa a tal punto

differenza - essi si consegnarono, come estremo sacrificio, cer-

carono la morte, e la trovarono; questo è il loro segreto, o il loro

mistero che non è un mistero da svelare, ma un mistero da

assumere e custodire in quanto tale. Volendo fantasticare, vollero

essere come Cristo, forse più di Cristo. Certo questa può apparire

come una bestemmia, ma forse per loro era un modo per

riscattarne, impertinentemente e arrogantemente, il Sacrificio,

iper-sacrificandosi. Luciferini forse, angeli caduti, vollero essere

come…Ma peccato veniale essendo solo uomini. Incapaci, come

lo siamo tutti, di accorgerci radicalmente soli, incapaci della prima

e più devastante bestemmia che solo Cristo poteva produrre “Elì,

Elì, lemà sabactani” (Padre, padre mio, perché mi hai abban-

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donato)? La bestemmia che per la cristianità autentica, a

prescindere dalle Chiese che ne vogliono gestire il monopolio,

comunque ci ha fondato, anche per chi come me non crede.

Ciò che venne dopo non fu né più giusto, né più saggio, ma

divenne il reale, quello che ancora ci accompagna e col quale e nel

quale dobbiamo confrontarci. Dunque la storia dei Templari

finisce con la morte del suo ultimo Gran Maestro Jaques De

Molay, il dopo non sono “quei” Templari, senza nulla togliere,

ma parimenti nulla aggiungere ai templarismi che si sono

succeduti, sotto varie forme, molteplici insegne, variegate

rivendicazioni di detenerne la continuità, tutte in conflitto con

tutte. Così come Cristo non è morto solo per i cristiani,

altrettanto ci piace pensare che i Templari non siano morti solo

perché alcuni si possano intestare in esclusiva il loro testimone.

Ciò che conta è la testimonianza che resta, il loro valore

paradigmatico, la loro storia reale, ancora da discernere e

comprendere che appartiene a tutti. La storia sempre vittoriosa si

nutre quasi esclusivamente di sacrifici; vittorie e sconfitte

appaiano sempre immeritate, ma il sacrificio che ne genera

l’azione resta il fondamento di ogni futuro, di ogni speranza

possibile, di ogni cammino e di ogni esodo, utopia di una terra

promessa e mai - forse - mantenuta.

C’è una origine ebraica nel costituirsi dell’Ordine del Tempio?

Anni fa, Salvatore Girgenti propose nel corso di alcune

conferenze, accennata anche in suoi successivi saggi, questa

interessante ipotesi di ricerca. Oggi, largamente condivisa, è stata

ripresa e ulteriormente e approfondita con suggestive riflessioni

da Manuela Girgenti, appassionata studiosa del pensiero ebraico.

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La domanda che entrambi gli autori si pongono non appare priva

di fondamento, ma contiene in sé un'altra serie di contro

domande. Certamente l’assorbimento di culture ebraiche da parte

dei Templari dovette essere consistente, ma è anche possibile,

viceversa, che l’ebraismo abbia trovato nei Templari la forza della

sua diffusione, ricordiamoci d’altronde che sia ebrei che Templari

vennero nello stesso tempo perseguitati e uccisi. Ma proprio la

natura cultural globalizzante che i Templari andarono costruendo

nel corso della loro storia, della loro esperienza sul campo, li

portava - forse - a concepire una sorta di anacronistica modernità,

ma della quale ci è rimasto tutto il sapore. Non è un caso che nel

saggio venga citato il rosone della chiesa di Sant’Agostino a

Trapani, dove sono presenti le effigi delle tre religioni monoteiste.

Un disegno troppo ardito, tanto moderno da non trovare alcuna

modernità, ancora oggi capace di farlo proprio.

Certo almeno i templari si sono risparmiati, col loro sacrificio,

le guerre di religioni, le guerre fra stati, mai cessate. Filippo IV il

Bello re di Francia fu strumento della storia, e a questo compito

non poteva sottrarsi, come forse ancor più colpevolmente il Papa.

I Templari non furono strumento di nessuno, come a tutti ci

piacerebbe essere, se non del loro destino, per loro in nome di

Dio, per noi in nome di chi? Il cammino, l’eterno esodo continua.

“Veggio il novo Pilato, sì crudele, che ciò nol sazia, ma sanza decreto portar nel Tempio le cupide

vele”(.Dante Alighieri : la Divina Commedia: Purgatorio XX, 91.)

Silvio Governali

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Dedica?

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Le origini

Della storia dell’Ordine dei Templari conosciamo le

probabili origini e motivazioni, l’eroico comportamento sui

campi di battaglia, le competenze finanziarie, i campi di

interesse, il prestigio che seppero guadagnarsi, l’organiz-

zazione interna e anche la tragica fine. Ma con lo scioglimento

dell’ordine, in seguito al processo per eresia, e la condanna al

rogo di Giacomo di Molay, Gran Maestro dei Templari, e di

Goffredo di Charnay, cessa la storia e inizia la leggenda. Sotto

un profilo di rigoroso metodo storico non potremmo

aggiungere altro, almeno sino al giorno in cui non sarà

ritrovato l’archivio dell’Ordine, oggi dato per disperso.

Ciononostante, attraverso lo studio di rari documenti e

testimonianze dell’epoca, di fonti secondarie, del ripetersi di

eccessive coincidenze e valutazioni critiche si aprono ampi

spazi di ricerca, che, seppure non suffragate da una valida

documentazione, consentono di avviare interessanti ipotesi di

studio la cui valenza, naturalmente, ha solamente un valore

indiziario. Storicismo da frontiera? Può darsi. Ma a questo

proposito potremmo ricordare quanto Umberto Bartocci scrisse

circa vent’anni fa sul metodo indiziario nella ricerca

storiografica.

“Il compito del vero storico, più che restare impigliato tra le piccolezze

confuse della lettera che uccide, resta sempre quello di rintracciare l’esile

filo della verità, vagliando tutto l’insieme dei segni che gli provengono da

tempi lontani, avendo come unici strumenti a sua disposizione la propria

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libera ed autonoma ragione ed il criterio di verosimiglianza; i soli che gli

permettono di individuare i nessi significativi, sottolineare le coincidenze

eccezionali, stabilire una trama convergente di dati sulla quale fondare delle

ipotesi e, successivamente, confrontarle tra loro, cercando di determinare la

maggiore o minore probabilità. Alla pazienza metodica ed all’accuratezza

scrupolosa con le quali svolgere il lavoro di ricerca preliminare negli archivi

e nelle biblioteche, o nelle interviste a persone, lo storico dovrà

accompagnare pertanto intuizione creativa, immaginazione, capacità di

inferenza abduttiva, talento nel sapersi calare nei panni di persone diverse in

periodi diversi, allo scopo di riuscire a respingere i tentativi di

dissimulazione coperti dalla polvere del tempo, saper leggere tra le righe per

distinguere le, eventualmente poche, certezze della ragnatela di bugie,

aggiungere, ricostruendole nella sua fantasia, alle tante storie scritte dai

vincitori e dai persecutori quelle che sarebbero state scritte dai perseguitati e

dai vinti, con il proposito ultimo di presentare al proprio e all’altrui

intelletto una possibile soluzione di qualcuno dei tanti enigmi che ci offre la

storia; soluzione che sarà però tanto più convincente quanto più affonderà le

sue radici nella plausibilità, che non su una mitica irraggiungibile certezza

scientifica. Il lavoro dello storico da assomigliare quindi più allo sforzo di

un investigatore o di un magistrato, che indaga sull’individuale e su

elementi malcerti, molto spesso artefatti a bella posta dal colpevole…Se si

accetta questa teoria come pura ipotesi di lavoro, si può, è vero, correre il

rischio di qualche avventura pericolosa, ma si può anche trovare un filo di

Arianna, là dove prima esisteva la tenebra”. (Bartocci 1993:3-4-5)

Louis Charpentier e Domenico Lancianese, per citare solo

alcuni studiosi del fenomeno templare, concordano nel ritenere

che all’origine dell’Ordine abbiano concorso molteplici e

occulti obiettivi socio-politici, una vera e propria missione

segreta, del tutto prevalente su quella che è apparsa come la sua

unica motivazione ufficiale, vale a dire la crociata contro

l’Islam.

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Charpentier, addirittura, sostiene che la difesa della

Terrasanta non fu che un mezzo, uno strumento per conquistare

il potere, un risultato, quest’ultimo, preparato da tempo e che

avrebbe dovuto contemporaneamente avviare un processo di

trasformazione sotto un profilo economico, sociale e politico.

La storia dei cavalieri templari, in realtà, è piena di lati

oscuri. In maniera succinta, ma molto efficace, lo rileva Jean

Markal:

È stato creato per operare in Medio oriente, ma ha anche agito in Europa

occidentale. È stato un ordine religioso, ma anche militare. È stato

indispensabile alla politica del papato e dei sovrani europei, ma anche una

milizia parallela dai fini oscuri. È stata un’associazione di monaci cavalieri

pronti a morire per la fede cristiana, ma anche un gruppo di monaci che

rinnegavano Gesù; che portavano con fierezza la croce rossa, ma anche che

sputavano sulla croce. Il gonfalone del Tempio - il famoso baucent – era

bianco e nero: non esiste un simbolo che esprima meglio la dualità o la

realtà a due facce dell’Ordine”. (Markale 2000: 65)

Per meglio comprendere le motivazioni per cui nacque

l’Ordine del Tempio, almeno a livello ufficiale, occorre calarsi

nel clima e nell’ambiente del tempo. Il 27 novembre del 1095,

alla fine di un Concilio a Clermont, che aveva avuto inizio il 18

dello stesso mese, fu annunziato che il papa Urbano II avrebbe

fatto un intervento tale da lasciare una traccia indelebile nella

storia della chiesa. Per l’occasione si raccolse una folla,

talmente numerosa, da non potere essere accolta all’interno

della cattedrale e di conseguenza si decise di allestire un palco

in un campo aperto dove collocare il trono papale. Urbano II,

monaco circestense di Cluny, già vescovo di Ostia e

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appartenente ad una famiglia aristocratica di Chatillon-sur-

Marne nella regione della Champagne, giocava in casa e da

consumato attore con doti non comuni di comunicazione,

prima infiammò gli animi, descrivendo le tristi condizioni di

vita, le sofferenze, le umiliazioni e le torture alle quali erano

sottoposti i cristiani d’oriente da parte degli infedeli; poi con

toni ancor più drammatici calcò l’accento sulle profanazioni a

cui erano quotidianamente sottoposti i luoghi santi di

Gerusalemme, dove alcuni di essi erano stati deturpati,

trasformati in stalle o – quel che è peggio – in moschee. Ma

non era ancora tutto. Urbano II con toni ancora più violenti

rivolse i suoi strali contro i nobili che vivevano nella lussuria,

infrangevano quotidianamente le leggi di Dio e si

comportavano come briganti pronti anche ad assassinare i

propri fratelli per futili motivi. A questi ultimi offre la

possibilità di pentirsi e di riscattare i propri peccati: di andare

in Terra Santa a liberare il Santo Sepolcro dalle mani degli

infedeli.

“La cristianità occidentale si metta in marcia per soccorrere l’Oriente;

ricchi e poveri la smettano di trucidarsi a vicenda e combattano invece una

guerra giusta, compiendo l’opera di Dio; e Dio li avrebbe guidati. Chi fosse

morto in battaglia avrebbe ricevuto l’assoluzione e la remissione dei

peccati. Qui la vita è miserabile e malvagia, con uomini che si logorano fino

a rovinare i propri corpi e le proprie anime; qui essi sono poveri e infelici, là

sarebbero stati felici e ricchi e veri amici di Dio. Non doveva esservi

indugio: si preparassero a partire quando fosse giunta l’estate, con Dio per

loro guida”. (Runciman 1993:94)

L’appello di Urbano II riscosse un grande successo e venne

subito accolto con entusiasmo, non solo per le immancabili

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ricompense celesti o per i possibili vantaggi economici che

sarebbero derivati da tale impresa, ma, da parte dei sovrani,

anche per motivi di ordine sociale e, particolarmente in

Francia, dove le file della piccola nobiltà e dei cavalieri erano

affollate e inquiete.

“Per i sovrani e per la chiesa – rileva Markale -, questi guerrieri

turbolenti sono una vera e propria spina nel fianco. Ma ecco che viene loro

offerta la possibilità di soddisfare appetiti e bellicosi entusiasmi: potranno

acquisire ricchezze e nuove terre e stabilirsi in regioni che diverranno di

loro proprietà. Non solo, ma anziché scontrarsi con la giustizia regale ed

incorrere nella riprovazione della chiesa, sono assolti in anticipo e sono

sicuri di ottenere il paradiso. Un sistema che sarà utilizzato più volte nel

corso della storia: quando un insieme di individui diventa troppo

ingombrante e minaccia una nazione dall’interno, lo si manda all’esterno. Il

vantaggio è duplice: lo Stato può guadagnare nuovi territori e gli uomini

mandati altrove, che sopravvivano o che muoiano, di solito non ritornano.

Che liberazione!”(Markale: 67).

Ma, quali che siano le motivazioni, l’appello di Clermont,

rivolto in una atmosfera quasi soprannaturale e rivestito di

sacralità, come abbiamo detto, suscita immediatamente

reazioni entusiaste. Vi aderirono i più bei nomi

dell’aristocrazia europea fra cui Raimondo di Tolosa, Goffredo

di Buglione, Roberto II di Fiandra, il duca di Normandia, il

conte di Boulogne, il conte di Blois e il normanno Boemondo,

principe di Taranto. All’appello, oltre alla Spagna e all’Italia,

che potrebbe sembrare anche normale, risposero anche paesi

lontani come la Scozia e la Danimarca. Persino la Repubblica

di Genova offrì il suo contributo mettendo a disposizione del

Pontefice dodici galee e una nave da trasporto. Ma quel che fu

più strano, e che meravigliò lo stesso Urbano II, fu la risposta

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plebiscitaria da parte degli strati più poveri della società

europea, grazie anche all’incessante opera di predicazione,

svolta da monaci dotati di grande carisma, come, ad esempio,

Pietro l’eremita, venerato come un santo, tanto che la gente al

suo passaggio strappava i peli del suo mulo come se fossero

una reliquia. Si calcola che circa quindicimila persone, sia

uomini che donne, abbandonarono case e famiglie in un clima

di esaltazione per adempiere un preciso dovere religioso:

quello di restituire la Terra Santa alla cristianità prima

dell’avvento del Messia. A piedi, questa folla invasata, male

armata e indisciplinata, composta da cadetti senza speranze,

contadini, cittadini di dubbia moralità e briganti, alcuni anche

con moglie e figli, si mise in marcia e, attraversando le valli del

Reno e del Danubio, giunse ancor prima del previsto alle porte

di Costantinopoli. Lungo il tragitto questa armata di pezzenti

non esitò a spargere il terrore nelle comunità ebraiche che

incontrava lungo il suo cammino, trucidando, senza distinzione

alcuna, uomini, donne, bambini e anziani. Gli ebrei, in quanto

assassini di Gesù, vennero messi sullo stesso piani degli

infedeli islamici. Ma, nello stesso tempo, malgrado l’afflato

religioso di cui questi soldati di Cristo erano pervasi, non

disdegnarono, quando se ne presentava l’occasione, di uccidere

contadini cristiani e successivamente anche gli stessi cittadini

di Bisanzio, loro naturali alleati. I sovrani di cui attraversano il

territorio cercano di farli passare il più velocemente possibile e,

a volte, non esitavano a schierare contro i loro eserciti per

ridurli a più miti consigli. Finalmente, in maniera del tutto

fortuita e in un clima di grande esaltazione e di delirio

religioso, il 13 luglio del 1099 l’armata cristiana riuscì a

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conquistare Gerusalemme. Jean Flori ricorda a questo

proposito un curioso aneddoto:

“Ed ecco che accadono cose soprannaturali: I crociati hanno le visioni, e

viene loro promessa la liberazione, a patto di aver fede. Un povero che fa

parte del seguito di Raimondo, Pietro Bartolomeo, afferma che prima che la

città fosse presa, gli sono apparsi più volte sant’Andrea, san Pietro e il

Cristo stesso. Un altro, di nome Stefano, racconta cose simili, con dovizia di

particolari. Ademaro resta un po’ scettico, ma Bartolomeo insiste; afferma

che i santi gli hanno promesso una prova che dimostrerà la veridicità delle

sue parole: se si scaverà in un certo punto della cattedrale di san Pietro, si

troverà la Santa Lancia, quella che aprì il costato del Cristo in croce. Il 14

giugno 1098 si va a scavare e, a una certa profondità, viene effettivamente

trovata una lancia”. (.Flori 2003:43)

Rinasce, quindi, la speranza e la convinzione che i “santi

guerrieri” siano stati preceduti nell’estenuante battaglia per la

conquista della città santa dalle armate celesti. Ma, in ogni

caso, espugnata Gerusalemme, vengono fondati i regni latini

del medio Oriente: il regno di Gerusalemme, il principato di

Antiochia, la contea di Edessa e quella di Tripoli. La corona

del regno di Gerusalemme fu offerta a Goffredo di Buglione,

ma questi rifiutò, accettando solamente il titolo di Advocatus

Sancti Sepulchri, poiché a suo dire nessun uomo avrebbe

potuto accettare una corona nella stessa città nella quale Cristo

ne aveva portato una di spine. Il titolo di re di Gerusalemme

sarà invece accettato da Baldovino I, fratello di Goffredo, dopo

la morte di quest’ultimo avvenuta il 18 luglio del 1101.

Esaudita la volontà di Dio con la presa di Gerusalemme,

molti crociati ritornarono in patria, delusi perché non si era

verificato il secondo avvento di Cristo, ma soprattutto perché

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tornavano a casa più poveri di prima con la sola consolazione

di avere in tasca qualche reliquia e l’orgoglio di avere

partecipato ad un evento epocale. A difendere i confini degli

Stati latini restano ben pochi crociati. Nel solo regno di

Gerusalemme, ad esempio, c’è una presenza di soli 300

cavalieri e 200 fanti. Un numero paurosamente esiguo, se si

considera che alcuni leader musulmani, superata la iniziale

disunione e le gelosie tra i vari califfi, cercano di ricompattare

il mondo islamico, rilanciando a loro volta il concetto di jihad

(guerra santa) contro gli invasori “franchi”, come

comunemente gli arabi chiamavano tutti i crociati. Nelle

moschee le prediche contro gi invasori europei, poiché

Gerusalemme viene considerato un luogo sacro per l’Islam,

sono all’ordine del giorno e nella martellante attività

propagandistica gli arabi si servono persino della saggistica e

della poesia.

Intanto gli europei, dopo la liberazione dei luoghi santi,

ignari delle difficoltà logistiche e materiali dei crociati,

vengono presi da una nuova passione: recarsi a pregare sul

sepolcro di Cristo. Il pellegrinaggio, però, non è scevro di

rischi. Le strade di accesso a Gerusalemme sono conti-

nuamente esposte ad agguati da parte di bande musulmane, che

non si limitano semplicemente a derubarli, ma anche a togliere

loro la vita. Il territorio compreso dai porti di sbarco in

Palestina a Gerusalemme si trasforma così in un campo di

battaglia permanente. È un problema al quale Baldovino I,

conte di Edessa e primo re di Gerusalemme, dopo la morte di

Goffredo di Buglione, non potrà dare soluzione. Le zone

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occupate dai cristiani sono costantemente minacciate dai

musulmani e non ci sono truppe sufficienti per potere

proteggere anche i pellegrini. Non solo Baldovino lamenta la

carenza di uomini d’arme, ma deve anche preoccuparsi della

nuova strategia messa in atto dagli infedeli, i quali, spesso,

evitano il combattimento con i crociati per limitarsi ad

abbattere loro le cavalcature e costringerli ad un uso massiccio,

ma inefficace, delle loro frecce. I “franchi”, infatti, cominciano

a registrare grosse carenze nell’approvvigionamento, non solo

di viveri, ma anche di cavalli, senza i quali nelle desolate terre

arabe ogni forma di strategia militare è già persa in partenza.

Non solo, ma si avverte anche la necessità del rifornimento di

grossi quantitativi di legname, sia per costruire nuovi

marchingegni di guerra che delle semplice frecce. Fra l’altro

potere reperire sul luogo del legname non è un’impresa facile,

perché i musulmani, quando debbono abbandonare una città, si

preoccupano di bruciare tutto per evitare di lasciare ai crociati

legna da potere utilizzare. La stessa patata calda si ritroverà fra

le mani Baldovino II, succeduto al cugino nel 1118, in un

momento in cui sembra indebolirsi lo spirito della crociata,

mentre viceversa va aumentando la voglia di rivincita islamica.

È a questo punto che un piccolo nobile della Champagne,

Ugo de Payns, assieme ad altri otto cavalieri, si presenta al

patriarca di Gerusalemme, Garimond, e a Baldovino II,

dichiarando di voler vivere come monaci e di mettere la loro

spada al servizio della cristianità e, in particolare, almeno così

sostengono molti storici, di volere proteggere i pellegrini dalle

scorribande dei predoni islamici.

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“Nello stesso anno 1118 alcuni nobili cavalieri, pieni di devozione,

religiosi e timorosi di Dio, mettendosi a disposizione del signor patriarca

per servire Cristo, professarono di voler vivere per sempre secondo le regole

dei canonici, osservando la castità e l’obbedienza e rifiutando ogni

proprietà”. (Barber 2004:15)

Così scrive Guglielmo di Tiro, cancelliere e poi arcivescovo

di Gerusalemme, nella sua Historia rerum in partibus transma-

rinis gestarum; tuttavia, poiché era nato nel 1130, non poteva

conoscere la storia delle origini dell’Ordine del Tempio.

Guglielmo di Tiro, fra l’altro, non nutriva eccessiva simpatia

per i templari e se nella sua opera insiste sulla iniziale umiltà

dell’Ordine lo fa esclusivamente lo fa solamente per meglio

fare risaltare la superbia e l’orgoglio che i poveri soldati di

Cristo mostravano ai suoi giorni. Un secolo dopo, Jacques de

Vitry, vescovo di Acri, nella sua Historia orientalis torna

sull’argomento:

“Con voti solenni, pronunciati davanti al patriarca di Gerusalemme, si

impegnarono a difendere i pellegrini contro i briganti e i rapinatori, a

proteggere i cammini e servire come cavalieri il re sovrano. Fecero voto di

povertà, castità e obbedienza, come i canonici regolari”.

L’unica novità, rispetto alla testimonianza di Guglielmo di

Tiro, è che per la prima volta, almeno a livello ufficiale, si

parla dello scopo per cui si è istituito l’ordine monaco-

guerriero: quello di controllare le vie di pellegrinaggio in Terra

Santa. Ma il testo, come ben sappiamo, è stato scritto più di un

secolo dopo gli avvenimenti e, in realtà, non abbiamo alcuna

prova che de Payns e i suoi primi compagni avessero

effettivamente questo compito di sorveglianza. Fra l’altro, ed è

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una considerazione che fa riflettere, i vari articoli dello Statuto

dell’ordine non ne fanno alcun cenno ed è per lo meno strano

che sia de Payens che Bernardo di Chiaravalle si siano

dimenticati di chiarire quello che era lo scopo principale della

loro istituzione. Ma, ed è un fatto innegabile, i buchi neri

intorno all’Ordine Templare iniziano sin dalla sua nascita. Lo

rileva Martin Bauer quando si chiede:

“Perché non esistono scritti di cronisti contemporanei sulla fondazione

dell’ordine? Come potevano proteggere “nove poveri cavalieri” il cammino

dei pellegrini? Per quale motivo non compaiono per nulla i templari, anche

negli anni dal 1119 al 1126, nonostante Ugo di Payens e tutti gli altri

cavalieri fossero già presenti a Gerusalemme? Di che cosa si occupavano in

quel periodo? Perché non ci è giunta alcuna cronaca?” (M.Bauer 2005: 20)

Per la verità, esiste un altro testo che accenna alle origini dei

Templari, redatto nei primi decenni del secolo XIII, Chronique

d’Ernoul et de Bernard le Trésorier, che differisce nella forma

e nei contenuti – sostiene Demurger – dal testo di Guglielmo di

Tiro.

Quando i cristiani ebbero conquistato Gerusalemme – scrive Ernoul – un

numero significativo di cavalieri si consacrò al tempio del Sepolcro e molti

vi si consacrarono in seguito, giunti da ogni parte. Ed essi obbedivano al

priore del Sepolcro. Vi furono valorosi cavalieri tra i consacrati. Questi

discussero tra loro e dissero: “abbiamo lasciato le nostre terre e i nostri

amici e siamo venuti qui per innalzare e esaltare la legge di Dio. E ci siamo

fermati qui a bere e a mangiare e a sperperare senza far nulla. Non agiamo,

né compiamo gesta militari anche se ce n’è bisogno ovunque. E obbediamo

a un prete e non compiamo gesta militari. Discutiamo e eleggiamo uno di

noi Maestro, congedando il nostro priore, che ci condurrà in battaglia

quando sarà necessario”(cfr. Demurger 2007:37)

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Ernoul non fa i nomi dei cavalieri che, intorno al 1104,

formavano la confraternita, sottoposta ai canonici del Santo

Sepolcro; ma è fuor di dubbio che di essa dovevano farne parte

Ugo de Payens, Goffredo di Saint-Omer e Andrea de

Montbard. In base a tale cronaca questi uomini, al servizio dei

canonici del Santo Sepolcro, (cfr. Cerrini 2008) vivevano

vicino agli ospedalieri e da questi ricevevano gli avanzi dei

loro pasti. In poche parole vivevano di elemosina. Non si sa

come trascorrevano il tempo, ma certamente non in maniera

esaltante, se dobbiamo dar credito ad una lettera scritta da Ugo

de Payens nella quale si mette in evidenza, nella fase iniziale,

lo stato di demotivazione e di pessimismo che albergava nel

cuore dei cavalieri per il fatto di dover lavorare umilmente per

gli altri, sconosciuti al resto del mondo cristiano e senza

nemmeno il beneficio delle preghiere del popolo cristiano.

Sta di fatto che, quando decisero di spezzare i vincoli che li

legavano ai canonici del Santo Sepolcro e all’Ospedale,

Baldovino II, i suoi dignitari e lo stesso patriarca mostrarono

una grande ammirazione nei confronti di questi nove cavalieri

che avevano rinunziato agli agi e ai privilegi del loro ceto di

appartenenza per sottoporsi ad una vita di stenti, di privazioni e

sofferenze per la gloria di Dio. Anzi la loro commozione arrivò

a tal punto che Baldovino II mise a disposizione dell’Ordine,

come alloggio, un’ala della sua reggia sul lato meridionale

della “spianata del Tempio”, nello stesso luogo dove un tempo

sorgeva il Tempio di Salomone. Fu per questo motivo che i

Pauperes commilitones Christi vennero più comunemente

chiamati milites Templi o Templarii Ma il palazzo regio per

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loro era troppo. La devozione cristiana e l’originaria umiltà di

cui erano inizialmente pervasi li spinse a occupare le stalle di

Salomone. In questo modo erano più vicini alle loro

cavalcature ed nello stesso tempo, dormendo sulla nuda terra,

avevano modo di mortificare l’orgoglio e la carne. È strano,

però, che Fulvio di Chartres, cronista di Baldovino, non scrisse

nulla in merito all’ingresso dei Templari nel palazzo reale, nel

quale sino a pochi giorni prima aveva abitato lui stesso. Ma

non è l’unica stranezza. In realtà, non si è nemmeno certi

dell’anno della loro istituzione. Guglielmo di Tiro parla del

1118, ma riferendoci al Concilio di Troyes del 13 gennaio del

1128, nel quale vennero codificate le regole dell’Ordine e

ufficialmente riconosciuto dalla chiesa, i cronisti registrano

l’evento nel nono anno dalla fondazione dell’ordine caval-

leresco e, quindi, l’anno di nascita dovrebbe spostarsi al 1119.

Come se ciò non bastasse, dovremmo anche ricordare che in

quegli anni il calendario in vigore nella Francia del Nord

contava gli anni a partire dal 25 marzo, per cui, secondo questo

conteggio, nel gennaio del 1128 dovremmo già essere nel 1129

e, di conseguenza, la nascita ufficiale dei templari dovrebbe

spostarsi nel 1120. C’è addirittura chi sostiene che l’Ordine sia

stato fondato ancora prima del 1114, se bisogna dar credito ad

una lettera, inviata dal vescovo di Chartre al conte Ugo di

Champagne, che proprio in quell’anno si preparava a partire

per la Terra Santa. In questa lettera, infatti, c’è un punto

particolarmente interessante per l’argomento in oggetto,

perché, oltre ai soliti convenevoli, il vescovo aggiungeva:

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“Abbiamo appreso che prima di partire per Gerusalemme avete fatto

voto di entrare nella “milice du Chist”, che desiderate arruolarvi in questo

esercito evangelico”(Baigent 2008:78)

La Milice du Christ” è il nome con il quale venivano

indicati i Templari e, certamente, non si può fare confusione

con i crociati, poiché – chiarisce opportunamente Baigen – il

vescovo passa poi a parlare del voto di castità che la decisione

comportava. E difficilmente un voto del genere poteva venire

richiesto a un comune crociato.

Ma il dubbio sull’anno di nascita dell’ordine è un problema

di poco conto, perché ancora più strane appaiono, come

vedremo, le modalità, le motivazioni della fondazione e i suoi

reali obiettivi.

Le perplessità

Ufficialmente, come abbiamo visto, ad istituire l’ Ordine

monastico-guerriero fu Ugo de Payens, nobilottto della vecchia

contea di Champagne, assieme ad altri otto cavalieri, quasi tutti

nativi, tranne alcuni provenienti dalla Borgogna, della stessa

regione e feudatari del conte Ugo di Champagne. Ma c’è di

più. Ugo de Payens è in stretti rapporti di parentela con i

Montbard, famiglia alla quale apparteneva, per parte di madre,

il potente monaco cistercense Bernardo di Chiaravalle. Come

se ciò non bastasse, tra i membri dell’Ordine figura anche

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Andrea di Montbard, zio dello stesso monaco. Una

costatazione quest’ultima che fa riflettere, tanto che

opportunamente Bauer scrive che:

“L’Ordine dei templari appare, dunque, sin dall’inizio come un’impresa

provinciale, quasi familiare. Si forma un circolo di cospiratori che

rappresenta un’unione ideale per proteggere eventuali segreti”. (Bauer

2005: 40)

Non meno emblematica appare la posizione di Bernardo di

Chiaravalle, detto il Doctor mellifluus (l’uomo la cui parola

scivola come il miele), uomo di grande magnetismo, il cui

atteggiamento fa sorgere non poche perplessità. In un primo

momento il monaco cistercense mostrava di disprezzare la

cavalleria del suo tempo, considerandola frivola, rammollita,

senza fede e priva di valori e di ideali. La definiva “malizia”,

cioè vera e propria peste della società. Bernardo era contro la

violenza e lo spargimento di sangue. Poi, come per

illuminazione divina, si registra in lui una inversione di rotta a

trecentosessanta gradi, trasformandosi nel teorico della guerra

santa. Nel 1130 pubblica, addirittura, la Lode della nuova

milizia, spianando ancora una volta la strada verso la

legittimizzazione del nuovo ordine cavalleresco. Nel 1130

Bernardo, abilissimo oratore e di grande capacità di

persuasione, godeva già di indiscusso prestigio nel mondo della

chiesa. L’elezione a papa di Innocenzo II e , successivamente,

di Eugenio III scaturì dalla sua volontà; di questi ultimi fu abile

consigliere e ne influenzò le scelte. “Per quaranta anni, Citeaux-

Chiaravalle fu il centro spirituale dell’Europa e San Bernardo annoverò, tra

i suoi ex monaci, il papa, l’arcivescovo di York e vescovi e cardinali

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in abbondanza”. (Read 2009: 98) Se non divenne papa, la causa è

da ricercare, molto probabilmente, nel fatto che il trono di san

Pietro non gli interessava. Evento più unico che raro, fu

innalzato agli onori dell’altare ad appena 21 anni dopo la sua

morte. Senza la benedizione e la protezione di Bernardo,

quindi, l’Ordine dei Templari difficilmente sarebbe stato

accolto nell’ambito della cristianità, poiché quanto egli scrisse

e disse a loro favore non era per quei tempi impresa di poco

conto. Un ordine monaco-guerriero costituiva, infatti, per la

mentalità religiosa del tempo qualcosa di scandaloso. Chi

faceva parte del clero non poteva macchiarsi le mani di sangue.

Per i ministri di Dio la sola idea di uccidere, non solo

ripugnava, ma veniva rigettata. Ad un uomo consacrato a Dio

non era permesso di spargere sangue, né tantomeno di darsi al

saccheggio. I Templari, quindi, al loro primo apparire crearono

un certo imbarazzo per quanto concerne una delle distinzioni

fondamentali della società medievale.

“I riformatori della Chiesa avevano deciso di impedire agli uomini le cui

mani si fossero macchiate di sangue di toccare gli oggetti sacri. Anche nel

caso di nobili cavalieri che si pentissero e che in età matura si votassero alla

vita monastica, quelli che erano vissuti nel monastero sin dall’infanzia

erano spesso riluttanti a riservare loro una buona accoglienza. La nostra

concezione moderna, influenzata dall’idealistico lustro conferito alla

cavalleria dai romantici, vede un’armonia tra spada e altare: nulla potrebbe

essere più lontano dalla realtà medievale. La Chiesa non voleva avere a che

fare con degli indesiderabili di tal fatta, sempre pronti a infrangere ogni

legge, in particolare quella sul matrimonio. Fino ad allora la cavalleria era

per molti aspetti considerata un affare illecito in cui il clero non doveva

immischiarsi”(Partner 1993: 7-10)

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L’Ordine dei Templari nacque così, inizialmente, in un

clima di diffidenza e di sospetto. Nel tentativo di legittimarne

la nascita, dunque, in considerazione della mentalità del tempo,

secondo la quale gli uomini votati allo spargimento di sangue

non avrebbero potuto prendere gli ordini sacri, fu un compito

arduo per san Bernardo legittimarne la nascita. Ma, come al

solito, affrontò l’argomento con molta disinvoltura.

“In verità – scrisse – i cavalieri di Cristo combattono le battaglie del loro

Signore senza correre rischi, senza in alcun modo sentire di aver peccato

nell’uccidere il nemico, non temendo il pericolo della loro stessa morte

visto che sia dare la morte, sia il morire quando sono fatti in nome di Cristo

non sono per nulla atti criminosi, ma addirittura meritano una gloriosa

ricompensa… il soldato di Cristo uccide sentendosi sicuro: muore

sentendosi ancora più sicuro. Non per nulla egli porta la spada! Egli è lo

strumento di Dio per la punizione dei malfattori e per la difesa dei giusti

Invero, quando egli uccide un malfattore non commette omicidio, ma

malificio, e può essere considerato il carnefice autorizzato da Cristo contro i

malvagi”. (Ivi: 10-11)

Nel 1124 Bernardo si era addirittura opposto alla richiesta di

Arnoldo, abate cistercense di Morimondo di fondare un monastero in

Terra Santa. “Se, come ci è stato riferito – scrive al pontefice – egli

dice di voler diffondere le osservanze del nostro ordine in quella

terra, e per tale ragione intende condurre con sé una moltitudine di

frati, come non comprendere che in realtà necessitano cavalieri in

grado di combattere e non monaco salmodianti”. (.Barber 2004: 22)

In maniera ancora più radicale, san Bernardo sosteneva che

era meglio che i miscredenti venissero uccisi, piuttosto che

potessero far deviare dalla retta via i veri credenti, inquinando

così la loro fede. E all’obiezione che un cristiano non debba in

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alcun modo uccidere, così rispondeva: “E allora? Se al cristiano non

fosse consentito l’uso della spada in alcuna circostanza, perché mai, allora,

Giovanni Battista raccomandò ai soldati di accontentarsi della propria paga?

Perché, piuttosto,non proibì loro ogni forma di servizio militare?”(Ivi:.10)

Secondo la tradizione, nel corso del Concilio di Troyes il

compito di stendere le regole dell’Ordine dei Templari fu

affidato a san Bernardo. Altri,viceversa, sostengono che

l’autore fu Ugo di Payens e che, tutt’al più, Bernardo di

Clairvaux si sarebbe limitato a curarne i dettagli. È vero che

durante il processo molti cavalieri sostennero che le Regole

erano frutto della penna del monaco cistercense, ma è pur vero

che in quel momento particolarmente delicato, attribuirgliele

significa rivestire l’Ordine di una aureola di santità e di

autorevolezza, che il processo stesso minacciava di distruggere.

Che cosa, dunque, spinse Bernardo a gettare alle ortiche le sue

convinzioni e a proteggere in maniera sfacciatamente di parte il

neo ordine monastico-guerriero? Fra le tanti ipotesi, ma anche

qui è difficile dare una risposta. pensare, come qualcuno

sostiene, che con tale atteggiamento abbia voluto manifestare

la propria riconoscenza a Ugo di Champagne, che pochi anni

prima aveva donato ai cistercensi un vasto appezzamento di

terreno a Clairvaux per la costruzione di un monastero,

imponendo di dare la nomina ad abate allo stesso Bernardo,

appare poco convincente. In realtà, Bernardo appare sin

dall’inizio troppo compromesso con l’Ordine Templare, a tal

punto da non potere escludere che facesse parte integrante del

progetto socio-politico-religioso dei poveri cavalieri di Cristo.

Sarà una ulteriore coincidenza, ma nel 1113 il monastero di

Citeaux rischiava di chiudere i battenti sia per mancanza di

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introiti che di monaci. Proprio in quell’anno si presentò

all’abate Stefano Harding il giovane Bernardo, assieme a una

trentina di parenti, chiedendo l’ammissione al monastero come

novizi per lui e i suoi compagni. È da quel momento che

l’ordine cistercense, in maniera miracolosa, rinasce a nuova

vita, tanto che “alla fine del secolo ci sarebbero state dodicimila

comunità affiliate a Citeaux in tutta Europa”. (Read 2009: 96)

Il secondo personaggio enigmatico nella storia dei Templari

è proprio il conte Ugo di Champagne, da molti considerato il

vero capo dell’Ordine. Secondo alcuni storici della regione

francese, nel 1104 partì per la Terra Santa, dove rimase per ben

quattro anni. Non si sa che cosa fece, ne il motivo per cui

rimase così a lungo in Outremer. Al suo ritorno si incontrò più

volte e a lungo con Stefano Harding, l’abate di Citeaux, che

assieme all’abate di Fontigny, Ugo di Macon, partecipò al

concilio di Troyes, attestando così l’alleanza di ferro fra

l’ordine cistercense e quello templare. Contemporaneamente,

sempre alla sua corte, ebbero inizio sempre più assiduamente

lunghe riunioni con i rappresentanti di alcune delle più

prestigiose famiglie della contea, fra cui Ugo de Payens e

André de Montbard, zio, come abbiamo già visto, di Bernardo

di Chiaravalle. Nel 1114, il conte Ugo fece ritorno in Terra

Santa, dove stavolta non si trattenne più di un anno. Al suo

rientro ripresero gli incontri con l’abate di Citeaux e con i suoi

vassalli più fedeli.

Sarà una coincidenza, ma proprio in questo periodo l’ordine

dei cistercensi, “prima del 1112 paurosamente vicino alla

bancarotta”, (Baigent 2008: 82) conobbe un periodo di grande

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splendore e di espansione. Nel 1153, nel giro, quindi, di una

quarantina di anni, furono, infatti, istituite poco più di 300

abbazie e, di queste, 69 dal solo san Bernardo. Sarà sempre una

coincidenza (il ripetersi di più coincidenze trasformano spesso i

sospetti in certezze), ma nello stesso periodo in cui il conte di

Champagne e l’abate Harding (proclamato santo pochi anni

dopo la sua morte), cominciarono a frequentarsi assiduamente,

i monaci cistercensi iniziarono a specializzarsi nello studio di

antichi testi sacri ebraici, così come non è da sottovalutare il

fatto che già dal 1070 alla corte dello stesso conte era fiorita

una rinomata scuola di studi cabalistici ed esoterici. È in questo

clima che nasce l’Ordine dei Templari, che, a sua volta, nel

giro di pochi anni, acquistò un immenso potere e grandi

ricchezze. È fuor di dubbio, infatti, che il conte di Champagne

abbia giuocato in tutta questa vicenda un ruolo di primo piano,

tanto che oggi si ha la certezza, più che il sospetto, che egli sia

stato l’ideatore, il principale finanziatore e il primo vero capo

dell’Ordine Templare. Per inciso, va ricordato che nel 1126 il

conte Ugo di Champagne, accusando la moglie di adulterio e

non riconoscendo il figlio avuto da quest’ultima, lasciò il titolo

e i suoi beni al nipote Teobaldo ed entrò ufficialmente nelle file

dei Templari.

“Con questo gesto eclatante , il conte, divenuto impaziente, dichiarò di

sua iniziativa, terminata la fase di esperimento da parte dei cavalieri, e

impose una decisa accelerazione agli avvenimenti. È probabile che dopo

l’arrivo del conte iniziò un’opera di reclutamento e altri cavalieri si

aggiunsero al nucleo dei nove fondatori, ma certamente ai nuovi adepti

niente fu rivelato sulle vere finalità della confraternita. Si generò così il

dualismo fra un ristretto gruppo di membri consapevole di una segreta

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missione da compiere e la gran parte dei cavalieri, del tutto ignara di essere

partecipi di un ampio progetto di cui la guerra all’infedele rappresentava

soltanto una parte”. (Lancianese 2006:71)

Fra l’altro questa scelta non manca di far nascere nuove

perplessità. È mai concepibile, infatti, che Ugo di Champagne,

uno dei primi signori del regno, abbia deciso di entrare in un

ordine militare, sottoponendosi gerarchicamente a un suo

vassallo? Certamente no e, opportunamente, Lancianese

ipotizza che “la mossa del conte di associarsi al Tempio

tendeva a porre fine al lungo esperimento per passare alla fase

operativa del progetto e raggiunse pienamente il suo

scopo…Anche l’analisi delle date induce a questa

considerazione dal momento che Ugo di Payns rientrò in

Europa nel 1127, poco dopo l’arrivo del conte in Oriente che,

al momento della sua partenza, probabilmente era ancora vivo.

Ugo era latore di lettere per l’abate Bernardo, oltre a essere

incaricato della delicata ambasceria di proporre a Folco

d’Angiò la mano di Melisenda, figlia maggiore di re

Baldovino, mentre Andrea de Monbart doveva recarsi a

consegnare altre missive indirizzate al papa”. (Ibidem)

In poche parole, molti indizi portano a ritenere che Ugo di

Champagne fosse“il grande vecchio”, la mente di un progetto

politico-sociale, di cui i Templari costituivano semplicemente

il braccio armato. Molti storici sono dell’idea che il conte Ugo

fosse entrato casualmente in possesso, nel corso della sua

permanenza in Terra Santa, di documenti riservati, che

indubbiamente richiedevano riscontri più concreti. Ma appare

molto più convincente la tesi che lo stesso conte fosse già in

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possesso di informazioni riservate, tali da, se confortate da un

concreto riscontro, provocare un sisma di vasta portata

all’interno del cristianesimo. I suoi viaggi a Gerusalemme

avrebbero avuto, dunque, un carattere più esplorativo che altro.

Ma come ne era entrato in possesso il conte Ugo?

Probabilmente, la risposta che mi sembra più plausibile, è nel

clima che si venne a determinare a Gerusalemme nel 135, dopo

la seconda guerra giudaica, che culminò con la distruzione

della stessa città. da parte dei romani. L’odio accumulato da

questi ultimi contro gli ebrei fu tale che alcuni storici non

hanno esitato a parlare di una vera e propria guerra di

sterminio, nel corso della quale l’unica logica condivisa era

quella di annientare, sterminare e sradicare i ribelli.

“Agli ebrei, che alla fine della sommossa contarono ben 585.000 vittime

– scrive Calimani -, fu persino proibito di mettere piede a Gerusalemme o di

guardare con nostalgia da lontano le sue rovine” (Calimani, 2001: 105)

L’anno 135 e.v. segnò, dunque, un punto di non ritorno ed è

da questa data che ebbe inizio la vera, grande diaspora del

popolo ebraico. Molti ricchi mercanti giudei, che già

possedevano depositi e case in Provenza, preferirono

abbandonare la loro terra d’origine e trasferirsi in una regione

meno sottoposta all’asfissiante controllo delle legioni romane.

In maniera similare, a Trapani nel 1492, dopo l’editto di

espulsione, molti ebrei per evitare ulteriori persecuzioni si

convertirono fittiziamente al cristianesimo e, assumendo nel

battesimo il nome del padrino cristiano e a cambiare nome per

nascondere le proprie origini, riuscirono a confondersi, così, fra

le pieghe del tessuto sociale e a occultare la loro provenienza

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giudaica. Nell’intimità delle loro case continuarono a coltivare

i loro rituali ebraici e, sicuramente, da padre in figlio si

trasmisero conoscenze e segreti con l’indicazione dei luoghi

dove tale documentazione si presumeva fosse stata nascosta.

All’inizio dell’anno 1000, non si sa per quale motivo, si ritenne

che i tempi fossero maturi per potere portare alla luce quello

che era stato seppellito e nascosto nei tunnel delle stalle di

Salomone. Alla realizzazione di questo progetto si opponeva il

controllo musulmano di Gerusalemme, Bisognava, quindi,

liberare la città dagli infedeli per potere avere la libertà di

scavare senza dover rendere conto ad alcuno. L’idea, fra l’altro,

non era del tutto ignota al Vaticano se già nell’anno 1000

“papa Silvestro II (il famoso monaco Gerberto d’Aurillac)

avrebbe lasciato intendere, in una lettera, di sperare che la

Francia riconquistasse i Luoghi Santi perché vi si potrebbero

cercare le chiavi della Conoscenza Universale, che lì si

trovavano. L’autenticità della missiva non è mai stata provata,

ma l’idea non era nuova: da molto tempo in alcuni ambienti

dell’Occidente si riteneva che il Tempio di Salomone, costruito

secondo formule ben precise che obbedivano a leggi occulte,

nascondesse segreti terribili e straordinari”. (Markale 2003:83)

È, evidentemente, una ipotesi che aprirebbe nuovi scenari e

che ci porterebbe a rinterrogarci sulle vere motivazioni delle

crociate, che, facendo leva sul sentimento religioso dei principi

e del popolo, cementò in maniera alquanto nebulosa un

rapporto di alleanza fra un’associazione segreta e un gruppo di

potere all’interno della chiesa; così, mentre la gerarchia

vaticana si illuse di potersene servire per rafforzare il suo

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progetto di dominio teocratico; la seconda seppe abilmente

mascherare nella fase iniziale i suoi veri obiettivi, pienamente

consapevole di dovere ricorrere alla benedizione della chiesa

per potere essere accettata dalla cristianità, ma pronta a

prendere le distanze da questa stessa, nella sostanza ma non

formalmente, nel momento in cui a Gerusalemme fosse venuta

in possesso di reperti o documenti, tali da ricattare il Vaticano.

Ritornando alle notizie ufficiali che si hanno sui templari,

sembra che questi ultimi nei primi nove anni della loro

esistenza, anziché proteggere i pellegrini lungo le vie che

conducevano a Gerusalemme – e d’altra parte come potevano

svolgere questo compito essendo appena in nove – abbiano

passato la maggior parte delle loro giornate a scavare gallerie

in quelle che un tempo furono le stalle di Salomone.

Quest’ultimo, infatti, non si limitò a costruire il suo tempio in

superficie, ma parallelamente anche sottoterra si realizzarono

opere imponenti. Questi scavi nel secondo secolo a.C. sembra

che avessero raggiunto una considerevole ampiezza. Aristeas,

un viaggiatore egiziano sostiene d’avere visto meravigliose e

indescrivibili cisterne sotterranee intorno alla zona del Tempio

con numerose condutture. (cfr. Lettera di Aristea,83, in The

Apocrypha and Pseudepigrapha of the old Testament, 1913)

Queste enormi opere idrauliche – scrive Keith Laider – erano necessarie

per rifornire d’acqua la città di Gerusalemme. Ma una perizia negli scavi

sotterranei si sarebbe dimostrata utile anche per risorse diverse dall’acqua.

Gallerie e cripte sotterranee avrebbero offerto un rifugio sicuro ai tesori più

importanti del Tempio durante gli assedi: e se gli accessi erano ben nascosti,

il loro contenuto poteva rimanere al sicuro anche se il Tempio fosse stato

invaso e occupato. Come abbiamo visto, questo accadde più volte ai diversi

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templi. Quasi sempre gli ebrei riuscirono a riconquistare Gerusalemme e

rioccupare il Tempio in un tempo relativamente breve, ma questo non fu

possibile durante la distruzione finale del Tempio di Erode. In quella

occasione gli ebrei vennero dispersi dalle legioni romane in tutto il mondo

conosciuto”(Laider 2005: 90)

I Templari, dunque, cercavano qualcosa e, evidentemente,

sapevano che cosa cercare e dove cercare. Sta di fatto che nel

1127, Ugo de Payns, assieme ad alcuni cavalieri, ritorna in

Europa per un giro, diremmo oggi, promozionale. Anche se ,

ufficialmente il suo ritorno in Francia ha un carattere

prettamente diplomatico: quello di convincere Folco d’Angiò,

su incarico di Baldovino II. a sposare la figlia di quest’ultimo,

Melisensa, con il vantaggio di potere un giorno ereditare il

trono di Gerusalemme. Compito che de Payens svolgerà

egregiamente, ma quello che gli preme di più è chiedere

udienza, in Vaticano. Nessun documento attesta lo scambio di

vedute con i vertici della chiesa, ma sta di fatto che da quel

momento le sorti dell’Ordine cambiano di 360 gradi. Più che

scambio di vedute, si ha la netta sensazione che il Sommo

Pontefice sia stato sottoposto ad un vero e proprio ricatto.

Dopo anni di ricerche, di scavi e di reticoli di gallerie aperte

nelle stalle di Salomone, i Templari devono avere trovato

documenti o prove tali da consentire loro di ricattare la chiesa.

Non può esserci un’altra spiegazione, poiché i privilegi

accordati a questi ultimi dai papi non trovano altri riscontri o

precedenti nella millenaria storia pontificia. In primo luogo la

convocazione di un Concilio per il 13 gennaio 1128 (o 1129) a

Troyes, a pochi chilometri di distanza da Payns, per

ufficializzare la nascita dell’Ordine Templare. E questo già di

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per sé è un avvenimento più unico che raro nella storia della

Chiesa. Ma, fa notare Lancianese, che indirettamente si

affermava che il Concilio “costituiva non già il momento

istitutivo, ma quello del riconoscimento ufficiale. Può sembrare

un dettaglio insignificante, ma fu invece un modo assai abile

per affermare l’estraneità della Chiesa all’iniziativa

circoscrivendone il ruolo alla semplice presa d’atto di una

realtà verso la quale, dopo nove anni, non esistevano motivi per

negare la paterna benedizione e l’approvazione della Santa

Sede”(Lancianese 2006: 72-73). Al Concilio di Troyes, dove guarda

caso tutto ebbe inizio, vi parteciparono il cardinale Mattia di

Albano, come legato del Papa, due arcivescovi, numerosi abati,

in maggior parte cistercensi, e nobili laici della regione.

Naturalmente non mancarono Stefano Harding e Bernardo di

Chiaravalle; quest’ultimo, anzi, da molti definito un vero e

proprio dittatore spirituale,diede la netta sensazione di avere

lavorato a lungo perché tutto filasse liscio e non si

frapponessero ostacoli all’approvazione del nascente ordine

monaco-guerriero. Insomma, si può dire senza troppo esagerare

che Bernardo organizzò a Troyes quasi una rete di consensi

perché quel progetto che ormai condivideva del tutto potesse

andare a buon fine. Il fatto strano è che neppure a Troyes

vennero fuori notizie più dettagliate e precise sulle origini,

sulle motivazioni e sulle circostanze che portarono nove

cavalieri a dare vita a un ordine militare che per duecento anni,

sotto tutti gli aspetti, svolse un ruolo di primo piano nel campo

politico, finanziario, sociale e militare.

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“Solo una volontà e una strategia precise – aggiunge Lancianese –

possono giustificare la riservatezza sempre tenuta dai Templari, su questo

periodo iniziale dell’ordine. Gli unici riferimenti a nostra disposizione sono

quelli che non è stato proprio impossibile evitare. In un atto notarile stilato

nel 1129 troviamo l’indicazione dei nove anni della fondazione dell’ordine

come indicato anche nella regola ed è quindi evidente che sono gli stessi

templari a fornire questa datazione. Lasciare nell’ombra i tempi, i modi, le

ragioni e i personaggi della propria costituzione, evitando pure, nonostante

fosse abitudine diffusa, di nobilitare le proprie origini richiamandosi a

illustri predecessori che in qualche modo accreditassero l’idea di più antiche

radici, non può essere una circostanza casuale. I templari non manifestarono

alcun desiderio di nobilitarsi con riferimenti al passato, intesero farlo solo

con il loro comportamento futuro e si rifugiarono sin dall’inizio, in una

stretta segretezza. Solo la necessità di coprire personaggi di grande

rilevanza, che avrebbero avuto gravi danni dal palesare la loro

partecipazione al progetto, giustifica questo comportamento”. (Ivi: 73-74)

Un’ulteriore prova che i nove cavalieri, fondatori dell’ordine

del Tempio, fossero guidati da una gerarchia superiore

potrebbe essere costituita dalla considerazione che, subito dopo

il concilio di Troyes, Ugo de Payns, ritornando in Terrasanta,

lascia una embrionale gerarchia di dignitari nelle province di

diverse aree occidentali e, in particolare, in Francia e

Inghilterra. Come faceva Ugo de Payns a sapere che all’appello

del papa sovrani e principi occidentali avrebbero risposto con

tanta generosità di donazioni e concessioni? L’avere costituito,

quindi, un valido sistema di supporto logistico sul piano

organizzativo, lascia evidentemente presupporre che tutto fosse

stato pianificato anzitempo da una direzione superiore ai

Templari stessi.

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Le stesse regole dei Templari, formate in tutto da 72

paragrafi, non chiariscono, al di là del mero impegno in

Terrasanta, gli scopi e le finalità future dell’Ordine. In questo

silenzio, Bauer (2005:31) ha voluto scorgere le prove che

l’istituzione dell’ordine non era altro che una facciata per

potere liberamente e segretamente perseguire i propri obiettivi.

Ma, sotto questo punto di vista, il silenzio delle Regole non ci

sono di alcun conforto. I 72 precetti danno solamente

normative di comportamento religioso e disciplinare e, tutt’al

più, ma sempre da un punto di vista religioso, danno un’idea

della capacità dialettica di Bernardo di Chiaravalle nel tentativo

di dovere giustificare la figura del monaco associata a quella

del guerriero e, quindi, giustificato, in nome di Dio, a spargere

sangue e ad uccidere. Lancianese ha opportunamente

evidenziato questo punto, rilevando che quando Bernardo nella

parte introduttiva della Regola ha scritto che “Dio ha operato il

bene tramite noi”, oppure che “Bene ha operato Dio con noi”,

il significato cambia a seconda dell’interpretazione che gli

viene data.

“Nella prima interpretazione può intendersi che i cavalieri, o i presenti

al concilio, sono strumenti della volontà di Dio, che per loro tramite sta

approntando il mezzo per il trionfo del bene sul male. Nel secondo caso,

Dio viene completamente associato all’operato dei cavalieri e dei convenuti

al concilio e quindi coinvolto nell’iniziativa come diretto protagonista. Sia

pure in modo diverso, sia l’una che l’altra interpretazione ci fanno capire

quale autorità morale venisse conferita a questo sconosciuto gruppo di

cavalieri e quanto la Chiesa confidasse nella loro capacità operativa”

(Lancianese 2006:76)

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La regola, altresì, dovendosi adeguare ai tempi e alle

esigenze dell’evoluzione dell’Ordine fu notevolmente ampliata,

tanto che nel 1260 comprendeva già ben 686 paragrafi,

comprendenti anche disposizioni ed istruzioni di tipo militare.

L’assoluto divieto, dunque, ai confratelli di conservarne

personalmente una copia o di parlare all’esterno dei contenuti

di essa o, peggio ancora, di farne circolare una copia nel

mondo profano, più che una prova di chissà quali occulti

segreti contenesse, può benissimo stare a significare la volontà

di non consentire a potenziali nemici abitudini e strategie

comportamentali dei Templari e, in special modo, quelle

militari. Della Regola, infine, si hanno due versioni: quella

latina e, poi, molto probabilmente verso la fine del secolo XII,

quella francese. Ufficialmente la traduzione fu resa necessaria

perché la maggior parte dei cavalieri, per lo più ignoranti , non

conosceva il latino. Ma nel confronto fra le due versioni, al di

là delle opinabili congetture sulla segretezza dei Templari

anche in riferimento alla Regola, l’aspetto più interessante è

costituito proprio dalla possibilità di cogliere, attraverso gli

anni, lo sviluppo e il consolidamento del processo di

laicizzazione avvenuto all’interno dell’Ordine e della perdita

dello slancio religioso e di quei valori cristiani, ispirati al sano

principio della giusta misura.

Oltre al riconoscimento, l’Ordine ottenne l’esenzione dal

controllo giurisdizionale e finanziario dei sovrani e dei vescovi.

Questi privilegi vennero rafforzati nel 1139 con la bolla papale

Omne datum optimum, in riconoscimento del sangue offerto

per la difesa della fede cristiana.. In poche parole, oltre alla

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totale autonomia dell’Ordine, che il papa poneva sotto il suo

totale controllo, ma in realtà solo sulla carta, “i poveri cavalieri

di Cristo” erano autorizzati a costruire proprie chiese e ad avere

propri sacerdoti non sottoposti all’autorità del vescovo, ma

solamente al Gran Maestro dell’Ordine. Naturalmente tali

privilegi suscitarono la protesta di sovrani, principi e vescovi, il

cui prestigio e gli introiti venivano così indeboliti. I Templari

agivano in maniera talmente autonoma, da ignorare persino

l’interdetto di alcuni vescovi nelle zone dove erano presenti.

Infatti, malgrado la sospensione di tutti i servizi religiosi, i preti

dell’Ordine amministravano regolarmente i sacramenti, dando

vita ad un vero e proprio crumiraggio ecclesiastico. Ma anche

in questo caso le lamentele servirono a ben poco, poiché i

pontefici che si succedettero nel tempo continuarono a

ratificare e a potenziare, a volte anche in maniera

incomprensibile, i privilegi accordati ai templari.

L’attività finanziaria

Dal Concilio di Troyes in poi, sovrani, feudatari, baroni e

anche gente comune fecero a gara con cospicue o minori

donazioni per sostenere il neo ordine monaco-guerriero.

Dapprima in forma minore, e per lo più castelli, ma con uno

scopo ben preciso ed egoistico: quello di coinvolgere i

Templari nella difesa dei propri territori, come accadde in

Spagna nella lotta contro i musulmani o in Terrasanta nelle

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frontiere della contea di Odessa, dove fu loro donato il castello

di Baghras ai confini con l’Armenia. Probabilmente per lo

stesso motivo Alfonso I di Aragona e Navarra lasciò in eredità

il suo regno ai cavalieri templari, agli Ospitalieri e ai canonici

del S. Sepolcro. Nessuno dei tre accettò l’eredità, ma i

Templari, per questa rinunzia, furono ricompensati dai legittimi

eredi “con la signoria su una mezza dozzina di fortezze, un

decimo delle entrate reali, l’esenzione da un buon numero di

tasse e la proprietà di un quinto di tutte le terre conquistate ai

Mori”. (Forey 1973: 10) Sin dall’inizio si creò attorno all’ordine

un alone di leggenda, dovuto alle notizie che cominciavano a

giungere dall’Oriente in merito al coraggio, sprezzo del

pericolo e imbattibilità nei campi di battaglia dei cavalieri del

Tempio. In verità la cavalleria templare costituiva sempre

l’avanguardia dell’esercito cristiano e ai suoi cavalieri era

proibito, pena l’espulsione, arrendersi di fronte al nemico

finché la battaglia era in corso. Nessuno poteva allontanarsi

dalla sua posizione senza il permesso del superiore nemmeno

se ferito e, anche in caso di evidente sconfitta, nessun cavaliere

doveva allontanarsi dal campo di battaglia fino a che era

esposto al nemico il gonfalone del Tempio.

“L’eccellenza militare dei cavalieri templari doveva essere evidente al

momento dello scontro: il prestigioso gonfalone bipartito di bianco e di

nero, sul significato del quale gli storici sono ancora incerti, era l’immagine

visibile dell’orgoglio religioso e militare dell’ordine. Non erano ammesse

deroghe a questo principio di eroismo spinto fino al sacrificio in nome di

una immagine morale del tempio che andava difesa a tutti costi; unico

rifugio, la solidarietà degli altri confratelli pronti a esporsi personalmente

per salvare un compagno…Le fonti mostrano che il Tempio durante il XII

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secolo era un corpo compatto e molto coeso, caratterizzato da una disciplina

ferrea, grazie alla quale si verificavano effettivamente episodi che

inducevano gli osservatori alla meraviglia, come nel 1188, quando Saladino

si preparava ad entrare nella città di Darbsàk presso Antiochia: un testimone

oculare vide i Templari della guarnigione tenere chiusa una breccia nelle

mura facendo scudo con il proprio corpo, immobili come una muraglia. Non

appena un cavaliere cadeva, subito un compagno prendeva il suo posto”

(Frale 2004: 61-62).

Il Tempio, è incontestabilmente quanto di meglio il medio

evo classico abbia prodotto in fatto di disciplina militare. Una

abilità, dunque, nel combattimento che non dovrebbe

eccessivamente meravigliarci. La classe aristocratica del tempo

dedicava la maggior parte del suo tempo alla caccia, alle

libagioni, ai banchetti e ai piaceri di Venere, dedicando di tanto

in tanto alcune ore all’esercizio della scherma. Se chiamati alla

guerra dai loro rispettivi sovrani, si limitavano a combattere

solamente in primavera e in estate, mentre nei restanti mesi si

acquartieravano, dedicandosi a tutt’altre incombenze. Tutt’altro

stile di vita per i Templari, i quali, tranne alcune ore dedicate

alla preghiera, si dedicavano all’esercizio delle armi, senza

soluzione di continuità, giorno dopo giorno per tutti i dodici

mesi dell’anno. Non appena la fama sulle gloriose azioni del

Templari, come dicevamo, cominciò a diffondersi in Europa,

sovrani e feudatari, sollecitati anche dai continui appelli dei

successori dell’apostolo Pietro sul soglio pontificio, fecero a

gara nel donare proprietà, feudi, castelli. Appezzamenti di

terreno di piccola e media estensione, donazioni in danaro o

lasciti testamentari per sostenere l’Ordine nella difesa della

Terrasanta. Non solo, ma molti cadetti tra le più illustri casate

d’Europa (in una prima fase solamente gli aristocratici

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potevano diventare cavalieri, dopo aver sostenuto un breve

periodo di noviziato) presero i voti del prestigioso ordine. Ma,

assieme alla richiesta di venire accolti nel tra i cavalieri del

Tempio, i giovani novizi dovevano anche portare una cospicua

dote in beni mobili o immobili, contribuendo così ad accrescere

la ricchezza dell’Ordine. Tra questi ultimi, naturalmente, non

c’era una motivazione solo religiosa, ma anche utilitaristica,

poiché,

“quando l’Ordine crebbe in potere e ricchezza, offrì una forma di

carriera simile a quella ecclesiastica. I maestri degli ordini militari

divennero quasi subito figure significative non solo in Siria o in Palestina,

ma in tutta l’Europa occidentale. I maestri provinciali e altri funzionari, con

enormi risorse a loro disposizione, divennero l’equivalente dei più alti Pari

del regno. La loro reputazione di onestà e buon giudizio li rese affidabili

consiglieri di papi e re”. (Read 2009: 110-111)

L’Italia, a differenza di altre nazioni europee, fu inizial-

mente tiepida nelle donazioni. Solo nel 1134 i templari

poterono istituire le loro prime commende a Milano e a

Ivrea.Poi seguirono a ruota donazioni a Treviso, Vercelli

Albenga, Reggio Emilia, Siena, nella Marca Anconitana, a

Spoleto, nelle Puglie e in Sardegna, sino a coprire l’intero

territorio italiano. “A partire dal 1140 i Templari si diffusero

anche in Sicilia, preoccupandosi di costituire basi logistiche nei

più importanti centri della costa jonica, dove sembra che

abbiano incontrato l’ostilità del clero locale: In aiuto dei

Templari intervenne Lucio II il quale indirizzò il 15 maggio del

1144 un appello agli arcivescovi, ai vescovi. Agli abati ed a

tutto il clero siciliano affinché si proteggessero con sussidi di

ogni specie i Templari ed esortassero con la parola e l’esempio

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anche i ricchi laici a concorrere all’opera. Per meglio

raggiungere il suo scopo il papa assicurò speciali favori a

coloro che avessero beneficiato i Templari, minacciando nel

contempo pene a coloro che per gelosia o altro si fossero

mostrati ostili verso l’istituzione crociata”. (Bramato 1993: 52).

Anche in Sicilia l’appello fu accolto con entusiasmo e nel giro

di pochi anni tutta la costa siciliana era costellata di case

templari. Ma non mancarono ingenti donazioni di terre anche

all’interno dell’Isola. Nacquero così numerose commende e

precettorie a Messina, Palermo, Catania, Siracusa, Paternò,

Termini Imerese, Lentini, Modica,Piazza Armerina,

Caltanissetta, Trapani, Marsala, Mazara etc. In genere i

Templari preferivano istituire le loro precettorie nella zona del

porto e sulle strade d’accesso alla città per potere meglio

controllare merci e persone che uscivano dalle mura cittadine.

Oltre alla tecnica bancaria, gettarono le basi per l’istituzione di

un servizio d’informazioni di alto livello. Nelle fiere e nei

mercati cittadini erano soliti piazzare, travestito da

commerciante, un cavaliere con il compito di ascoltare con

finta indifferenza ciò che gli altri venditori o acquirenti

borbottavano tra loro. In un mercato, generalmente frequentato

da una folla variopinta, non era raro il caso di ascoltare uno

sfogo, una lamentela, una notizia riservata o una indiscrezione.

Le notizie più rilevanti e interessanti venivano presentate,

come in un normale rapporto di polizia, al capo della locale

precettoria o commenda.

Ma oggi non è impresa facile in Sicilia potere rintracciare

con certezza tutti i siti templari. Ciò è dovuto al fatto che dopo

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la soppressione dell’ordine e l’affidamento in buona parte dei

suoi beni all’Ordine degli Ospedalieri, si è cercato nel tempo di

eliminare ogni testimonianza della loro presenza, cancellando

simboli e croci templari, presenti nelle mura delle chiese e in

ogni loro possedimento. Una forma di damnatio memoriae per

gli atroci crimini di cui vennero accusati? Sotto certi aspetti

potrebbe essere una valida motivazione, ma nella realtà fu

semplicemente un tentativo, da parte degli avvoltoi che si

gettarono sui beni templari, ottenendone la proprietà, per

cancellare ogni testimonianza dei legittimi proprietari, onde

evitare sgradevoli sorprese per il futuro, qualora,

disgraziatamente per loro, l’Ordine fosse stato riabilitato e

avesse preteso la restituzione di ciò che illegittimamente gli era

stato sequestrato. A Trapani, per esempio, l’unico sito templare

ufficialmente riconosciuto è quello dell’odierna chiesa di S.

Agostino. Anche qui, come altrove, ogni simbolo dell’Ordine è

scomparso. Ne siamo conoscenza, perché ne parla il Pugnatore

a cui nel 1590 i giurati della città affidarono l’incarico di

scrivere una “Historia di Trapani”; diversamente oggi senza la

sua testimonianza potremmo anche non esserne a conoscenza,

poiché, fra l’altro, l’Archivio di Stato di Trapani non possiede,

tranne pochi frammenti, alcuna documentazione completa, né

registri notarili prima del XV secolo. In realtà, potrebbe esserci

stata una seconda precettoria o un distaccamento nella odierna

chiesa della Madonna, mèta ancor oggi di pellegrinaggi e di

profonda venerazione da parte dei fedeli, che considerano,

malgrado il patrono della città sia S. Alberto, proprio la

Madonna la vera patrona della città. Numerosi elementi

contribuiscono a confortare questa ipotesi. Ma andiamoci per

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ordine. Il fabbricato più antico della chiesa presenta una forma

circolare, sormontata da una cupola, con una serie di piccole

torri disposte simmetricamente ai lati, che ricorda in piccolo la

prima chiesa del Tempio di Parigi. All’esterno, porte e finestre

sono incorniciate dalla classica forma ad ostrica e le finte

colonne che circondano il fabbricato sono decorate con trecce o

da altri elementi decorativi dall’indiscutibile valore simbolico,

che, pur in un anelito di slancio verso l’alto, vedono fermata la

loro ascesa da una testa, oramai corrosa dal tempo, che li

sovrasta. All’interno, come se tutto ciò non bastasse, la chiesa,

oggi chiamata del “Pescatore”, è in stile gotico ed è questa

l’unica testimonianza gotica della città. Un altro elemento che

rafforzerebbe la tesi che la Chiesa della Madonna sia stata

originariamente una sede templare è proprio la sua ubicazione.

Nel Medioevo, infatti, tutti coloro che entravano ed uscivano

dalla città dovevano percorrere un sentiero, di circa tre

chilometri, che si snodava lungo la cosiddetta palude Cepea. Il

sentiero terminava proprio davanti alla Chiesa della Madonna

e, quindi, la postazione templare, come era suo costume, si

trovava in una posizione strategica ottimale per controllare

volti e mercanzie che entravano o uscivano dalla città. La

stessa leggenda intorno all’arrivo a Trapani della statua della

Madonna, a leggere bene fra le righe,costituirebbe un’ulteriore

conferma di questa tesi. Dopo la cacciata dei cristiani dalla

Terra Santa, un certo Guerreggio, cavaliere templare, per

evitare che il sacro simulacro potesse cadere nelle mani degli

infedeli, lo fece imbarcare su una nave dalla Siria per

trasportarlo a Pisa. Nel corso della navigazione una violenta

tempesta costrinse la nave a trovare rifugio nel porto di

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Trapani. Per motivazioni che ci sfuggono e che sembrano fuori

da ogni logica, la statua venne sbarcata dalla nave e posta su di

un carro, trainato da buoi, per essere momentaneamente

deposita in una chiesa della città in attesa di riprendere il mare

per Pisa. Ma, inspiegabilmente, i buoi uscirono dalle mura

cittadine e, una volta giunti dinnanzi al santuario mariano, si

bloccarono e come muli testardi non ci fu potenza umana che li

potesse smuovere. Tale fatto, sempre secondo la leggenda,

venne inteso dal popolo e dallo stesso cavaliere templare,

Guerreggio, come espresso desiderio della Madonna di essere

collocata in quella piccola chiesa. (cfr. Spoto 2005: 144-145) Ma, al

di là della leggenda, è lecito chiederci: che senso aveva far

scendere la statua dalla nave se la sua destinazione era Pisa? Di

certo la nave templare, una volta al sicuro nel porto di Trapani,

non avrebbe dovuto far altro che aspettare che ritornasse la

bonaccia per riprendere il largo. Ma anche ammesso che per

motivi di sicurezza si fosse deciso di lasciare per un breve

periodo la statua in una chiesa di Trapani, non ha alcun senso

che i buoi, giunti dinnanzi all’attuale Santuario, abbiano deciso

di non andare più avanti, perché già siamo molto lontani dalle

mura della città e, oltre la piccola chiesa non c’è che l’aperta

campagna, fiancheggiata per lunghi tratti dall’ora estesissimo

bosco di “Arcudaci”. Là, dunque, doveva trovarsi una

precettoria templare e in questa precettoria, evidentemente,

doveva essere lasciata la statua.

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La fabbrica più antica del Santuario della Madonna di

Trapani, probabile commenda templare

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Cappella del Pescatore in stile gotico

(Santuario Madonna di Trapani)

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Particolare della Cappella del Pescatore

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Portale con simbologia templare

(Santuario della Madonna di Trapani)

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In ogni caso, di fronte all’improvvisa e, probabilmente,

inaspettata ricchezza che si offrì all’Ordine Templare (alla fine

del secolo XIII cifre approssimative danno per scontato che i

poveri cavalieri di Cristo possedessero circa novemila proprietà

per un valore di quattromila miliardi delle vecchie lire), i

vertici dell’ordine mostrarono di possedere una conoscenza

finanziaria di grande respiro, poiché seppero amministrare,

investire e capitalizzare in un modo, per i tempi, in cui tali fatti

si svolsero, certamente sorprendente. Vendettero terreni poco

produttivi e ne acquistarono altri per unificare proprietà

spezzettate. Coltivarono a livello estensivo frumento, segale,

orzo e avena, non trascurando la vitivinicoltura e l’allevamento

dei bovini, degli ovini e dei cavalli. Le casse dell’Ordine

venivano, poi, lautamente impinguate dalla riscossione di

pedaggi, uso dei forni e di mulini e dalle decime, fatto,

quest’ultimo, che causò spesso aspri conflitti con i vescovi del

luogo. Dalla proprietà e gestione di saline alla concia delle pelli

di montone, la loro attività imprenditoriale non sembrava

conoscere limiti. Si dotarono anche di una propria flotta di

diciassette navi per evitare di dovere sottomettersi ai pesanti

noli delle repubbliche marinare o dei mercantili privati, ma,

probabilmente, anche per evitare che all’esterno, gelosi custodi

della segretezza, qualcuno potesse venire a conoscenza dei loro

affari interni. È probabile che per questo motivo scelsero, come

loro principale base navale, il porto sull’Atlantico di La

Rochelle, a quel tempo poco conosciuto e utilizzato se non

dagli abitanti del villaggio, in buona parte pescatori. Infatti, a

tal proposito, rileva De Mahieu, “quello che ci sfugge è l’utilità

che può avere un porto che non conduce apparentemente da

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nessuna parte, perché è troppo a sud della Gran Bretagna e

troppo a nord del Portogallo, con il quale, comunque, sono più

facili i collegamenti passando dai colli Pirenei, sorvegliati dalle

commende, che non attraverso il pericoloso Golfo di

Guascogna”. (De Mahieu 2005: 27) La scelta, malgrado le

apparenze, non avvenne a caso, perché dal porto di La Rochelle

partivano sette strade che coprivano tutta la Francia. Strade, in

buona parte, pattugliate dai Templari e che si rivelarono

particolarmente utili, quando, informati delle intenzioni di

Filippo il Bello, fecero confluire dal tempio di Parigi e dalle

altre commende di Francia, su dei carri ricoperti di fieno e

adeguatamente scortati, tesori e documenti da imbarcare sulla

loro flotta. In realtà, il porto di La Rochelle, era un controsenso

per le rotte commerciali del tempo, concentrate nell’area

mediterranea e verso i paesi medio-orientali. Ma non era un

controsenso per chi voleva mantenere una assoluta segretezza

sui propri movimenti e, soprattutto, su quello che si caricava e

scaricava. Indubbiamente, da un punto di vista pratico e per i

fini ufficiali dei Templari, sarebbe stato di gran lunga

conveniente scegliere come base della propria flotta un porto

qualsiasi della costa provenzale e Marsiglia in particolare, ma

in tal caso i loro movimenti sarebbero stati sotto gli occhi di

tutti. A questo punto dobbiamo abbandonare la storia ufficiale

per valutare la tesi, sostenuta da molti studiosi, che i Templari

avrebbero scoperto l’America alcuni secoli prima di Cristoforo

Colombo. Se ciò fosse vero, scegliere La Rochelle come base

navale della flotta templare avrebbe avuto di certo un senso.

Probabilmente i Templari approdarono lungo le coste

americane per un puro caso. In quel periodo, le navi non erano

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fornite di strumentazioni scientifiche e, nel corso di una

tempesta, non era infrequente che i velieri venissero trasportati

fuori rotta per miglia e miglia. In una eventualità del genere

finire a ridosso delle coste americane, specialmente salpando

da un porto inglese o scozzese, non era un evento che dovrebbe

meravigliarci più di tanto. Fra l’altro, e questa non è fantasia,

ma storia, nel 1860 prima e nel 1929 poi, negli archivi del

museo Topkapi di Istanbul, furono trovate due mappe,

rispettivamente di Hadji Ahmed e di Piri RÈis. La prima, datata

1559, tratteggia le coste del Nord e del Sud America in maniera

quasi perfetta e, poiché a quel tempo non giravano cartine

geografiche dell’America, la sola spiegazione possibile è che

Hadji Ahmed abbia copiato la sua mappa da una più antica

carta nautica o da un mappamondo.

“Le sezioni più inquietanti – scrive Childress - sono però quelle dedicate

alla raffigurazione dell’Alaska e dell’Asia. Le curve delle isole Aleutine

sono tratteggiata bene, ma non c’è traccia dello Stretto di Bering, perché la

zona è terraferma. In altre parole, questa parte ci mostra la Terra così come

doveva essere 10.000 anni fa! Il ponte di Bering fra l’Asia e il Nord

America è disegnato in modo perfetto. Ancora a tutto il 1958, nel corso

dell’Anno Geofisico Internazionale, gli studi dei geologi e degli scienziati

avevano ampiamente dimostrato che fra i due continenti esisteva un saldo

collegamento costituito da una stretta striscia di terra ferma. Le

approfondite ricerche condotte in quello stesso anno non solo hanno

confermato tutto questo, ma hanno stabilito che non si trattava

semplicemente di una lingua di terra, bensì di una vasta zona di proporzioni

sub continentali, che comprendeva tutta la parte a settentrione della

curvilinea catena delle Aleutine e la singolare forma a manico di padella

dell’Alaska. Per farla breve, proprio quello che era tratteggiato nella mappa

di Hadji Ahmed”. (Childress 2004: 89-90)

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La seconda mappa, datata 1519, di Piri RÈis, un pirata

islamico successivamente diventato ammiraglio della flotta

turca e di origini ebree, riporta la costa del Nuovo Mondo con

una cura a dir poco strabiliante, dove i continenti americani

sono raffigurati con incredibile accuratezza. “Niente di strano –

continua Childress – se non fosse stato che nel 1519 le

Americhe non erano ancora state esplorate, né, tantomeno,

costeggiate con una simile precisione. Gli europei stavano

appena aprendo la via dei Caraibi e Cortez, proprio in quello

stesso anno, sbarcava in Messico, mentre Pizarro non aveva

ancora devastato l’impero degli Incas. Quale avrebbe potuto,

dunque, essere la fonte primaria della mappa?”(Ivi,92)

Ovviamente tutto fa pensare che Piri RÈis ne sia entrato in

possesso grazie ai suoi contatti con le comunità ebraiche, che

lo hanno messo in condizione di studiare e copiare questa

preziosa mappa. C’è, infine, la “mappa del nord di Zeno”,

seguendo la quale Henry Sinclair, salpando nel 1398 dalla

Scozia, sarebbe arrivato in Groenlandia e successivamente

nella Nuova Scozia. Di questi viaggi pre-colombiani in

America, secondo alcuni studiosi, si potrebbero trovare

conferme su due testimonianze. La prima a Westford nel

Massachusetts, dove è stata trovata l’effige di un cavaliere

templare scolpita in una lapide di pietra; la seconda, invece,

proviene dalla Francia, dove è stata casualmente scoperto un

sigillo dell’Ordine del Tempio, raffigurante chiaramente un

amerindio.

“Questa volta, la prova – sostiene De Mahieu – che i Templari

conoscessero il continente che noi oggi chiamiamo America è definitiva.

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Recentemente, negli Archivi nazionali, sono stati ritrovati dei sigilli

dell’Ordine, di cui si sono impadroniti gli uomini di Filippo il Bello nel

1307. Su uno di questi, apposto su un documento in cui un dignitario

sconosciuto dà ordini al Gran Maestro, si legge l’iscrizione SEGRETUM

TEMPLI. Al centro si vede un personaggio che può essere solo un

amerindio. Vestito con un semplice perizoma, porta un copricapo di piume,

come quelli che usano gli indigeni dell’America del Nord, del Messico e del

Brasile, o almeno di alcuni di loro, e tiene nella mano destra un arco”. (De

Mahieu 2005: 38-39)

Il sigillo - secondo Mahieu – non solo attesterebbe che i

templari conoscevano l’esistenza del “nuovo mondo”, ma

attraverso la lettura del documento su cui esso è apposto si ha

prova certa di una gerarchia superiore all’ordine Templare, che

agirebbe nella segretezza più assoluta. Questa tesi, condivisa da

molti studiosi, spiegherebbe in maniera ancora più chiara

l’enorme ricchezza accumulata dai Templari con lo

sfruttamento delle miniere d’oro e d’argento del Sud-America.

Nel Medioevo non c’era grande quantità di oro e argento in

circolazione, trovarne improvvisamente una grande quantità in

possesso dei Templari è certamente un argomento su cui vale la

pena riflettere. Su questa traccia, infine, non è da trascurare la

Cappella di Rosslyn, realizzata per volontà del conte William

St. Clair, a 16 chilometri circa di distanza da Edimburgo. Il

cantiere fu aperto nel 1446 e i lavori ultimati pochi anni prima

della scoperta dell’America. Quello che rende interessante

questa cappella non è tanto il trionfo e la ricchezza del

simbolismo templare e massonico, quanto la raffigurazione in

un bassorilievo di una pianta di granturco. Nessuno

evidentemente potrà dare una risposta a questa domanda, ma

porsela è legittimo: come mai poteva essere raffigurata una

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pianta di granturco se l’America non era stata ancora scoperta?

Se dovessimo ritenere valide queste tre considerazioni per

potere anche presumere che i Templari scoprirono l’America

prima di Cristoforo Colombo si comprenderebbe meglio il

motivo per cui questi ultimi scelsero La Rochelle come base

navale della loro flotta. Da questo porto, infatti, poco

frequentato, i Templari potevano scaricare oro e argento senza

dare nell’occhio; soprattutto, distribuirlo nelle varie commende

e precettorie di tutto il territorio francese attraverso le famose

sette strade che a raggiera si partivano da La Rochelle e

attraversavano tutte le regioni della Francia nel più assoluto

riserbo. Ai Templari, inoltre si attribuisce la costruzione in stile

gotico di più di cento chiese, distribuite in tutto il territorio

francese. Lo stile gotico era praticamente sconosciuto nel

Medioevo, né si registra alcuna testimonianza architettonica

che ne avrebbe potuto in qualche modo preannunziare l’arrivo.

Come i templari siano entrati in possesso di questa nuova e

rivoluzionaria tecnica di costruzione rimane ancor oggi un

mistero. L’avvio contemporaneo di tanti cantieri sa

giustamente del miracoloso, poiché – rileva Charpentier – “è

certamente straordinario che sia stato possibile trovare tra la popolazione

francese, allora assai ridotta, un numero di maestri muratori, di muratori, di

scalpellini, di falegnami, di vetrai, sufficiente a intraprendere la costruzione

di quell’enorme numero di chiese laiche, per tali intendo le chiese destinate

al pubblico, che fu costruito in quel periodo”(2004: 148) Ma questi

uomini, continua a chiedersi Charpentier, ai quali dobbiamo

pur aggiungere cavatori di pietre, manovali, addetti ai trasporti,

terrazzieri, acquaioli, scultori, vetrai e carbonai, bisognava pur

pagarli. Il popolo versava nell’indigenza più assoluta e re,

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vescovi e feudatari al massimo si limitavano a donare qualche

altare o vetrata. “Doveva esserci un finanziatore. Tra i finanziatori,

l’unico così ricco da potere anticipare tanto denaro era il Tempio”. (Ivi:149)

Ma, ritornando sull’argomento della loro grande capacità

finanziaria, va anche precisato che le ricchezze accumulate non

servirono solamente a trasformare l’Ordine in una impresa

multinazionale, ma buona parte di esse furono spese per il

mantenimento degli stati latini d’oltremare. Il senso di

abnegazione, di sacrificio e la coscienza di rappresentare il

baluardo della cristianità nella lotta contro gli infedeli

rappresentavano i motivi principali nell’immaginazione

collettiva per cui nei confronti dei cavalieri del Tempio

piovvero tante donazioni. Sin dai primi anni della loro

istituzione divennero un mito e i Templari sapevano benissimo

che questo mito andava mantenuto, se non addirittura

accresciuto giorno dopo giorno. È un argomento che

opportunamente il Cardini tende a sottolineare:

“La ricchezza dell’Ordine, sulla quale si è poi favoleggiato, era

comunque rigorosamente finalizzata a uno scopo che il Tempio – troppo

spesso oggetto di calunnie – non dimenticò mai: la difesa della Terrasanta.

Dall’Europa partivano regolarmente verso il Levante guerrieri equipaggiati,

cavalli, armi, materiale bellico; fortezze guarnigioni si mantenevano con

una quota fissa, la responsio, pari a un terzo della produzione dei beni

dell’Ordine. (Cardini 2011: 62)

Ma ancora più strabiliante fu la loro attività bancaria. Ed

anche questo è un dato su cui occorrerebbe particolarmente

riflettere. Se consideriamo che nel Medioevo la classe

aristocratica considerava disdicevole dedicarsi, tranne l’uso

delle armi, ad ogni attività pratica e, in particolare, al maneggio

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del denaro, l’inclusione dell’attività bancaria tra i molteplici

interessi dei Templari ha del sorprendente. Non solo si

rivelarono ottimi amministratori, ma gettarono le basi per

quella disciplina che tra qualche secolo prenderà il nome di

scienza e tecnica bancaria.

“Con le loro lettere di credito rivoluzionarono il trasferimento

internazionale di denaro, poiché ognuno poteva acquistare nella sede

dell’Ordine prescelta una lettera di credito e incassarla poi in un’altra filiale,

anche lontanissima. Per i viaggiatori ciò rappresentava l’inestimabile

vantaggio di non essere costretti a trascinare con sé il loro denaro, con il

pericolo costante di essere derubati. Poiché il flusso dei pagamenti spesso si

bilanciava (un viaggiatore paga in A e preleva in B, un altro versa in B e

preleva in A, l’Ordine doveva trasportare solo i soldi al netto delle

differenze tra i depositi nelle varie sedi”. (Bauer 2005: 81-82)

Oltre alla lettera di cambio, ogni cliente o risparmiatore

possedeva un codice cifrato che gli consentiva di potere

riscuotere il suo danaro in una qualsiasi commenda della

gigantesca rete di filiali dei Templari. Per questo servizio,

naturalmente, l’Ordine riscuoteva un tasso, (Baigent 1999: 110)

che variava in base all’ammontare dell’operazione effettuata.

“Ogni risparmiatore sapeva, con il cento per cento di sicurezza, che

avrebbe ricevuto il proprio denaro indietro qualora lo avesse richiesto. I

Templari coltivavano tale fama di irreprensibilità con un fervore simile a

quello delle banche odierne e davvero nel corso di tutta la storia dell’Ordine

non vi fu mai alcuna lamentela o accusa di aver imbrogliato anche uno solo

dei loro investitori”. (Bauer 2005: 81)

I bottini di guerra erano un’altra fonte di reddito. Una bolla

papale del 1139 li autorizzava al saccheggio e lo stesso Ugo de

Payns, ribadiva spesso ai Templari che

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“quando si impadronivano del bottino dei miscredenti compivano un

atto di giustizia, per via dei peccati dei miscredenti e anche perché si erano

meritati il bottino con la loro fatica: chi lavora si è guadagnato il proprio

salario.. Anche se quest’ultima può sembrare una ingenua scusa, riflette

comunque il fatto che i Templari dedicassero molto tempo ed energia al

saccheggio”(Partner 1993 : pag.10)

Dei beni trafugati nel corso del saccheggio ai cavalieri che

lo avevano effettuato non restava nulla. Tutto doveva essere

versato nella casse dell’Ordine. Ogni Templare non doveva

aver in tasca più di quattro denari. Se gli si fosse trovato anche

un solo denaro in più, avrebbe ricevuto dure ed esemplari

punizioni. A tutto questo bisogna aggiungere il commercio

delle reliquie, che nei bilanci dell’Ordine non costituì una voce

irrilevante. Anzi si buttarono in questo nuovo ramo con tanta

determinazione che nel giro di pochi anni arrivarono a gestire il

settore in regime di monopolio e divennero, almeno

apparentemente, talmente esperti da essere spesso chiamati, sia

da privati che dalla stessa Chiesa, per valutarne l’autenticità e il

valore. Non era un affare da poco, poiché non era raro il caso

che monasteri e conventi, afflitti da problemi di sopravvivenza

e sull’orlo del fallimento, una volta acquistata una rara e

preziosa reliquia, ritornassero agli antichi splendori per

l’afflusso di pellegrini e per le conseguenti offerte che

lasciavano. Naturalmente il più delle volte erano false e carpire

la buona fede dei fedeli, in un clima di esaltazione religiosa,

era la cosa più facile di questo mondo. A volte si raggiunse

persino l’assurdo, arrivando a vendere come preziosa reliquia

una ampolla con dentro il latte con cui la Madonna allattava

Gesù. Oppure, poiché Gesù era risorto e di lui non potevano

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esserci resti mortali, il cordone ombelicale o i dentini da latte.

“Sappiamo bene – scrive Markale – che con i resti della Vera

Croce sparsi in tutto il mondo e spacciati per autentici si

potrebbe costruire una casa a due piani. I Templari, come gli

altri, non hanno mancato di sfruttare a oltranza la buona fede

dei pellegrini”. (Markale 2003: 100).

Per meglio comprendere il motivo di questa spasmodica

adorazione e ricerca delle reliquie, principalmente dovuta a

ignoranza e superstizione, bisogna anche qui calarsi nel clima

culturale e religioso del tempo. Per combattere il paganesimo,

la credenza nelle divinità dei boschi, il culto della Dea della

natura, delle fate, che avevano trasmesso a donne prive di

qualsiasi cultura l’arte di potere guarire le malattie attraverso

un sapiente miscuglio di erbe, la Chiesa Cattolica si inventò i

santi, i quali con i loro miracoli divennero gli specialisti per la

guarigione di determinate malattie, i protettori contro le

avversità e la speranza per i diseredati. In poche parole se

bisognava distruggere l’eresia della religione celtica e

contemporaneamente la credenza nella capacità taumaturgiche

nelle divinità di questa religione, occorreva sostituirli con

personaggi meritevoli agli occhi della Chiesa, capaci di operare

miracoli e di essere autorevoli intermediari fra Dio e l’uomo. E,

in realtà, l’operazione riscosse un grande successo, sia

spirituale che materiale, tanto che “sul palcoscenico dei culti

della Cristianità, i santi erano intanto avanzati in schiera

compatta, lasciando troppo spesso dietro le quinte Dio, la

Trinità, e anche la Vergine Maria”. (De Angeli 2005:145) Ma

bisognava stare attenti a non contraddire le leggi divine, perché

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si correva il rischio di incorrere nella loro collera, che poteva

placarsi con le preghiere, la penitenza o l’intercessione di

un’altro santo. A Parigi, per esempio, intorno al 1130, infuriò

per ben quattro anni l’epidemia del fuoco di Sant’Antonio. I

predicatori sostenevano che la collera del santo era dovuta alla

vita immorale condotta dai suoi abitanti. “Per fermare

l’epidemia si poteva tentare di rivolgersi a santa Genoveffa –

ipotizzarono i predicatori – la patrona di Parigi, che ancora una

volta, come già tante altre, sarebbe riuscita a mettere la parola

fine alla calamità. Un’imponente processione dalla chiesa sulla

collina, dove si trovavano, portò nella cattedrale di Notre-

Dame le reliquie della santa, unica in grado di placare l’ira di

sant’Antonio. Genoveffa riuscì nell’impresa: sant’Antonio

venne rabbonito, Parigi si risanò”(Ivi:147-148). È un esempio, ne

potremmo citare migliaia, ma questo da solo serve a darci

un’idea della diffusione del culto delle reliquie.

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Le radici ebraiche della religiosità templare

Non minori perplessità suscita il vero credo religioso dei

Templari. Anche qui, come tanti altri aspetti della loro storia, è

difficile potere dare una risposta. Alcuni studiosi del fenomeno

templare sostengono che avessero molti punti di contatto con il

sufismo. Ora, pur non potendo non rilevare che tra le religioni

orientali il sufismo è il movimento religioso che ha più punti di

contatto con il cristianesimo, il raffronto non regge. È vero che

il sufismo punta a soffocare e annullare nell’uomo ogni forma

di individualismo e di egoismo – così come si proponevano i

templari -, ma è pur vero che il forte misticismo, di cui il

sufismo è caratterizzato, appare lontano mille miglia dal modus

vivendi del templare. A mio avviso – ma è solo un’ipotesi di

ricerca e di approfondimento – le radici religiose dei templari

potrebbero trovare il loro nucleo teoretico nell’ebraismo.

Guardiamo, per esempio, alla diversità tra ebraismo e filosofia

greca e occidentale. “La prima è incentrata sulle categorie

dell’esodo, dell’esilio e del rispetto dell’altro. Quella greca e

occidentale trova, viceversa, i suoi pilastri teoretici

nell’ontocentrismo e nell’assorbimento dell’altro nel

medesimo. Lévinas contrappone all’itinerario di Ulisse, le cui

avventure si concludono nel ritorno a Itaca, la storia di

Abramo, che abbandona la sua terra per andare alla ricerca di

una terra sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre

persino suo figlio a quel punto di partenza: alla filosofia-logos

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di Ulisse, che rappresenta un ritorno su sé stesso, chiudendosi a

ciò che è diverso, si contrappone così la filosofia nomade di

Abramo”. (Bellino 1988:32; cfr. Ricci Sindoni 1988: 157-158),

All’uomo dei nostri tempi un tale atteggiamento di vita può

apparire una scelta molto lontana dai nostri modelli educativi,

Ma provate a calarvi nel clima sociale del XII secolo.

All’Ordine Templare aderiscono cavalieri che, pur cresciuti

nella ricchezza e negli agi e a godere di tutti i vantaggi che la

loro appartenenza di classe riserva, decidono di rinunziare a

tutto pur di adempiere ad una missione sociale, politica e

religiosa, ma soprattutto, di portarla a termine. I primi cavalieri

templari, quasi tutti del Sud della Francia, si sottoporranno a

una vita di stenti, di rinunzie, di sacrifici in nome di un ideale

noto solo a loro. Il nomadismo in un certo qual modo diventa

una loro costante peculiarità. Molti di loro – come in realtà

accadrà – sanno che difficilmente torneranno vivi in patria.

Molti di loro verranno uccisi in battaglia e, se presi prigionieri,

decapitati dai musulmani, poiché nessuno pagherà il riscatto

per la loro liberazione, né accetteranno mai di abiurare la loro

religione per convertirsi all’islamismo. Eppure, al di fuori dei

campi di battaglia, il loro atteggiamento nei confronti di questi

ultimi sarà improntato al più rigoroso rispetto dei codici

cavallereschi del tempo. Come nell’ebraismo, nei templari è

alto il senso dell’onore, della giustizia e del dovere. Persino gli

storici musulmani del tempo, pur odiando i Franchi, come

comunemente venivano chiamati tutti i crociati, apprezzavano

il loro senso di giustizia e di rispetto per l’altro, senza

distinzione di ceto, colore o religione. Il cavalleresco e colto

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emiro di Shaizar, Usama ibn Munqidh, era entrato nella

moschea di Al-Aqsa, dove i suoi amici templari gli

consentivano di pregare. In una di queste occasioni, mentre

stava per iniziare le sue preghiere col viso rivolto verso la

Mecca, fu interrotto dall’arrivo di alcuni crociati che in

maniera rozza e poco gentile gli presero il viso fra le mani e

glielo rivolsero verso oriente. L’aggressione fu bloccata dal

tempestivo intervento di alcuni templari, che con risoluta

fermezza allontanarono quegli scalmanati e, nello stesso

tempo, chiesero scusa all’emiro per quel comportamento poco

signorile.(Gabrieli 1987: 79-80)

Quella dei templari era una politica di massima tolleranza,

aperta al dialogo e al confronto fra culture orientali e

occidentali. Lo attesta anche il rosone da loro fatto costruire a

Trapani nella sede della loro commenda, oggi chiesa di

Sant’Agostino. In esso sono ben visibili i simboli delle tre

religioni monoteistiche: ebraismo, cristianesimo e islamismo.

Non c’è migliore testimonianza dello spirito di massima

tolleranza che albergava nel credo religioso dei templari,

convinti che attraverso la libertà di pensiero, il libero

confronto, la speculazione e la parola si potessero raggiungere

risultati molto più concreti delle dispendiose e sanguinose

guerre. Ma è proprio della tradizione ebraica, del giudaismo

rabbinico attribuire alla parola un alto significato, sia sul piano

simbolico che su quello del lungo cammino verso la

conoscenza, poiché “la parola” rappresenta lo spazio in cui

abita la divina presenza. La stessa diversità di opinioni, spesso

riscontrabile nel giudaismo rabbinico, più che un aspetto

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negativo, viene avvertito positivamente, in quanto la diversità

di opinioni viene interpretata come la conseguenza necessaria

alla ricchezza della parola di Dio. L’insistere sul concetto del

confronto, sul rispetto dell’altro, amico o nemico che fosse,

rafforza, come è stato più volte detto, l’essenza di una teologia

e di una ermeneutica ricca di valori etici. L’uomo,

proponendosi di allontanare e di resistere a tutti quegli impulsi

che fanno dell’egoismo l’essenza della natura umana,

obbedisce in pratica a un’etica incentrata sul servizio del

prossimo. Questi stessi concetti, in larga misura, li ritroviamo

nelle Regole dei “poveri cavalieri di Cristo”, dove i precetti, le

prescrizioni, come anche nei testi sacri giudaici, non servono

solamente a coltivare e sviluppare le più levate qualità umane,

ma contengono una carica di dinamismo morale, capace di

trasformare l’individuo e, per suo tramite, la società di cui egli

fa parte.

Ma non sono i soli punti in comune con l’ebraismo. Nella

teologia ebraica, infatti, a fondamento della morale troviamo

l’equità e la giustizia, che deve estrinsecarsi particolarmente

nella accettazione dei doveri, specialmente nei riguardi del

povero, del debole, del derelitto, amico o nemico che fosse.

Nell’ebraismo la giustizia è fondamentale nel cammino verso

Dio, ma anche nei templari, contrariamente alla mentalità

feudale del tempo, il concetto di giustizia è talmente radicato

da spingerli a fronteggiare anche i poteri forti (sovrani e

Pontefice), quando questi ultimi vanno in senso opposto. Già

abbiamo ricordato che anche gli storici islamici, pur odiando i

Franchi (che Allàh li confonda, che Allàh li mandi in malora,

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sono soliti scrivere subito dopo il loro nome)) non mancarono

di sottolineare e di elogiare il senso di giustizia dei cavalieri

templari. Nel 1252 un gran dignitario dell’Ordine, rivolgendosi

a Enrico III d’Inghilterra, disse: “O re, finché userai giustizia,

tu regnerai. Ma se la violerai, cesserai di essere re”. (Baigent-

Leigh- Lincoln 2008: 61)

In poche parole, pur di ripristinare la giustizia, quel

dignitario dell’Ordine non esitò a minacciare uno scontro

frontale con il sovrano, affermando, nel contempo, un potere

che neppure il papato osava reclamare tanto apertamente e

sfacciatamente: il potere di creare e deporre i monarchi. Lo

stesso Ugo de Payns, primo Gran Maestro dei cavalieri del

Tempio, ribadì più volte che i soldati di Cristo “non dovevano

cedere alla tentazione di pensare di avere ucciso in preda a

odio o a furore, né di essersi impadroniti del bottino in preda a

cupidigia, siccome i templari non odiano gli uomini, ma

l’ingiustizia umana; e quando si impadronivano del bottino dei

miscredenti compivano un atto di giustizia, per via dei peccati

dei miscredenti e anche perché si erano meritati il bottino con

le loro fatiche:: chi lavora si è guadagnato il proprio salario”.

(Partner 1993: 10)

Nell’ingiusta crociata contro gli Albigesi, in Provenza, che

si protrasse per circa quarant’anni, i templari rifiutarono di

prenderne parte. Si erano resi conto che i motivi religiosi

c’entravano ben poco. Si trattava, in realtà, di una guerra di

cristiani contro cristiani, dettata più da una logica di potere che

dall’affermazione di un principio religioso. In poche parole di

riaffermare l’incontrastato dominio della chiesa di Roma. In

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Provenza furono inviati dal Papa Bernardo di Chiaravalle e,

successivamente, Domenico di Guzmàn, il fondatore dei

domenicani, detti anche “i cani del Signore”, affinché con la

forza della predicazione, facessero propaganda anticatara. I

loro sforzi risultarono vani. Ma, ad onor del vero, va anche

precisato che lo stesso Doctor Mellifluus nella relazione

presentata al Pontefice, confessò sì la sua sconfitta, ma non

mancò di aggiungere che se tutti i cristiani si fossero

comportati come i catari avremmo sicuramente avuto maggiori

possibilità di realizzare in terra la “Gerusalemme celeste “.E

più avanti, scandalizzato dalla corruzione della chiesa in

Provenza, aggiunse anche che “nessun sermone è più cristiano

dei loro” e che “la loro morale è pura”. In realtà, i catari erano

anche chiamati bons hommes, bons chretiens, ma anche

parfait. Vivevano una vita molto semplice, di grande levatura

morale, aborrivano la violenza e l’ipocrisia, predicavano la

castità e l’amore verso il prossimo. I Catari avevano una

teologia dualistica. Credevano nell’esistenza di due Divinità:

una era il dio d’amore, puro spirito non contaminato dalla

materia; l’altra, il Rex Mundi, era l’incarnazione del male e il

suo dominio era il mondo materiale; da qui il loro rifiuto per la

procreazione, poiché mettere figli al mondo rafforzare e

perpetuare il potere sul mondo del dio del male. I Catari,

inoltre, rifiutavano il significato della crocifissione e della

resurrezione. Credevano in Gesù come messia, come un

messaggero del dio dell’amore, condannato alla crocifissione

dalle forze malefiche che dominano il mondo e, di

conseguenza, essendo mortale, era morto sulla croce senza che

ci fosse stata, né poteva esserci, una resurrezione. Come se non

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bastasse, i catari avevano una particolare venerazione per

Maria Maddalena, che consideravano come la moglie o la

concubina di Gesù. Probabilmente possedevano alcune prove

che legittimavano questa loro credenza, ma in ogni caso questa

particolare venerazione per Maria Maddalena tra i catari ha

qualcosa di sorprendente. I Catari, infine, e probabilmente è

stato questo il vero motivo della loro persecuzione, negavano

l’autorità spirituale del Sommo Pontefice e della casta

sacerdotale come unica intermediaria fra Dio e l’uomo,

ritenendo che il rapporto con Dio fosse un fatto personale e che

nella guida del cammino verso la conoscenza non ci dovesse

essere alcuna pregiudiziale nei confronti della donna. La

reazione della Chiesa, dura e spietata, non si fece attendere.

Nella primavera del 1209 un esercito di 50 mila uomini, con la

leaderschip militare affidata a Simon de Monfort e quella

religiosa all’abate Arnaud Amaury, scese da Lione verso il

territorio della Linguadoca e assediò la roccaforte catara di

Bèziers. Espugnata la città il 22 luglio 1209, per una strana

coincidenza proprio nel giorno di santa Maria Maddalena,

ventimila tra uomini, donne, vecchi e bambini vennero

massacrati. Alla popolazione non catara era stata offerto un

salvacondotto, ma preferirono schierarsi con gli eretici,

condividendone la triste sorte. È famoso l’aneddoto sulle cause

di tanta crudeltà nell’uccisione indiscriminata di tanti abitanti.

Subito dopo la resa, alcuni ufficiali dell’esercito crociato

chiesero all’abate Arnaud Amaury su come dovessero

comportarsi nel distinguere i cristiani dai catari. A

Gerusalemme era facile distinguere gli infedeli dai cristiani, ma

a Bèzier certamente no. Laconica e semplice la risposta

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dell’abate: “Massacrateli tutti. Dio saprà riconoscere i suoi!”

Probabilmente in questa decisione l’abate Amaury sarà stato

confortato dal passo del vangelo di Luca, nel quale Gesù alla

fine della parabola delle mine disse: “Adesso basta, portate dinnanzi

a me coloro che non mi hanno voluto riconoscere come loro re e

massacrateli tutti” (Luca,19,28).

Naturalmente la motivazione di tanti orrori, brutalità e

devastazioni non è da ricercare solo in ambito religioso e, in tal

senso, Baigent, Leigh e Lincoln nel loro saggio Il Santo Graal

ne danno una interpretazione interessante.

“All’inizio del XXIII secolo, la zona oggi conosciuta come Linguadoca

non faceva parte ufficialmente della Francia. Era un principato

indipendente, e la lingua, la culturae le istituzioni politiche,più che con

quelle del nord, avevano affinità con quelle della Spagna, con i regni di

Leon, Aragona e Castiglia, Il principato era governato da alcune famiglie

nobili, e tra queste spiccavano i conti di Tolosa e il potente casato dei

Trencavel. Entro i confini del principato fioriva una cultura che a quei tempi

era la più avanzata e raffinata dell’intera cristianità, con l’unica eccezione

dell’impero bizantino. La Linguadoca aveva molte cose in comune con

Bisanzio. L’erudizione, ad esempio, era tenuta in grande onore,

diversamente da quanto avveniva nell’Europa settentrionale. Fiorivano la

filosofia e altre attività intellettuali: la poesia e l’amor cortese godevano di

grande fervore; il greco, l’arabo e l’ebraico venivano studiati con

entusiasmo; e a Lunel e a Narbona prosperavano scuole votate allo studio

della Cabala, l’antica tradizione filosofica-esoterica del giudaismo: Anche i

nobili erano colti e spesso si dedicavano alla letteratura, in un periodo in cui

gli aristocratici del Nord, in maggioranza, non sapevano neppure scrivere il

loro nome Sempre come Bisanzio, la Linguadoca praticava una civilissima

tolleranza religiosa, in contrasto con il fanatismo che caratterizzava altre

parti dell’Europa. Il pensiero islamico e giudaico, ad esempio,penetrava

tramite i centri commerciali marittimi come Marsiglia, oppure perveniva

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dalla Spagna attraverso i Pirenei. Nel contempo, la chiesa di Roma non

godeva di una grande stima; i religiosi romani, soprattutto a causa della loro

ben nota corruzione, erano riusciti ad alienarsi la popolazione della

Linguadoca. C’erano addirittura chiese nelle quali non veniva celebrata

messa da trent’anni. Molti preti si disinteressavano dei parrocchiani per

dedicarsi ad attività commerciali o amministrare grandi proprietà terriere.

Un arcivescovo di Narbona non si degnò mai di visitare la sua diocesi”.

(2008:37)

Il clima era giunto a un punto di saturazione tale che da

parte dei vertici della chiesa si comprese, a meno di non volere

fare scomparire definitivamente il cristianesimo dalla

Provenza, che un intervento drastico e violento non poteva

essere più ulteriormente rinviato.

La Chiesa sapeva benissimo che non avrebbe avuto alcun

problema nel costituire in brevissimo tempo una temibile

armata. Le bastava semplicemente sfruttare la cupidigia e

l’invidia che i feudatari delle regioni del nord della Francia

covavano contro i loro colleghi della Linguadoca per la

ricchezza che derivava loro dai fiorenti mercati e dalla fertilità

della terra. E così, sfruttando l’esaltazione religiosa e cupidigia

dei baroni, le città della Provenza caddero una dopo l’altra.

Dopo Béziers, analoga sorte toccò a Perpignano, Narbona e

Carcassone. Nel 1244, dopo un assedio di dieci mesi, fu

espugnata la fortezza di Montségur, ma non per merito dei

crociati, bensì per volontà dei catari, che chiesero, ottenendolo,

di potere rimanere nella fortezza altri quindici giorni di tempo

prima di arrendersi. È anche questo, un po’ come tutto in

questa storia, un grande mistero. Cosa fecero i catari in questi

quindici giorni? Si dice che in una di queste quindici notti,

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prima di arrendersi, quattro catari furono calati dalle alte torri

per fuggire con il tesoro della comunità; ma nella realtà fuggire

con quattro pesanti sacchi per i ripidi versanti dei Pirenei

appare una motivazione poco credibile. In ogni caso,

qualunque cosa fosse dovevano ritenerla, certamente, di grande

importanza, tanto che molti studiosi sono dell’idea che

“in quanto perfetti, difficilmente avrebbero mostrato tanto interesse per

il destino di un semplice gingillo o un oggetto strettamente materiale. E

allora perché ci sarebbero volute quattro persone per portare qualunque cosa

fosse al sicuro, lontano dalle attenzioni dei crociati? Forse coloro che

credono nella teoria del “Sangue Reale” hanno ragione, e si trattava dei

“purissimi discendenti della stirpe. O forse avevano quattro fasci di

documenti o libri, o un libro diviso in quattro- con la saggia intenzione di

mandarli in diverse direzioni verso dimore sicure”. (Picknett 2005: 74)

Nel 1255 cadde anche il castello di Quéribus e, infine, nel

1271 la Corona di Francia occupò anche la contea di Tolosa,

annettendosi tutti i territori. Con la presa di Tolosa ebbe così

inizio per la Provenza una crisi economica e culturale dalla

quale non si sarebbe più ripresa. Non a caso ci siamo

largamente soffermati sulla crociata contro gli albigesi e,

questo, per due motivi. Il primo per meglio mettere in evidenza

i vantaggiosi effetti economici e culturali che caratterizzarono

la regione per la pacifica convivenza tra elementi islamici,

ebraici e, in minor misura, cristiani. È nella Provenza, infatti,

che dal XII secolo in poi riprendono slancio gli studi giudaici e

le più famose scuole cabalistiche. Un dato, quest’ultimo, che

potrebbe dare forza alla teoria che, dopo la distruzione di

Gerusalemme, buona parte delle famiglie facoltose della

Palestina si siano trasferite in Provenza; non solo, ma rafforza

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anche la teoria delle radici ebraiche della religiosità templare,

poiché, proprio nella regione della Provenza, le commende e le

precettorie dell’Ordine furono presenti in maniera talmente

capillare, che ancora oggi molti storici si chiedono il motivo

che abbia trattenuto i cavalieri del Tempio dall’ acquisirne la

piena potestà.

Ma, ritornando all’atteggiamento apparentemente neutrale,

assunto dai cavalieri del Tempio nei riguardi della crociata, pur

non ignorando i rischi a cui andavano incontro, il loro senso di

giustizia li spinse, non solo a non prenderne parte, ma ad

offrire ai catari protezione e rifugio nelle loro commende. La

chiesa ai sopravvissuti, dopo la resa delle città, senza nemmeno

un sommario processo li mandava al rogo, perché venissero

purificati dal rogo. I frati domenicani giunsero a un punto tale

di fanatismo da fare disseppellire i corpi di alcuni eretici, morti

da diversi anni, per consegnare anche le loro spoglie alle

fiamme purificatrici. I Templari, invece, per salvare il maggior

numero possibile di eretici catari dalle maglie dell’inquisizione,

decisero anche di investirli del cavalierato, in modo che,

protetti dal loro mantello bianco, diventassero intoccabili.

Numerosi storici hanno più volte parlato, come abbiamo già

visto, di un progetto segreto all’interno dell’Ordine Templare,

che includeva anche un programma di modifica profonda della

struttura della società feudale e dei suoi meccanismi. Ma per la

realizzazione di questo programma i cavalieri di Cristo

avrebbero dovuto prima farsi accettare e stimare come forza

militare e, successivamente, distinguersi con la loro condotta e

con le loro azioni, in modo da rappresentare un modello etico

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per la società del tempo. In poche parole, di realizzare, come

auspicava Bernardo di Chiaravalle, la Gerusalemme celeste

sulla terra. I Templari, in sintesi, oltre a difendere la cristianità

dai nemici di Dio, dovevano, con il fascino che attorno a loro

andava sempre più crescendo, grazie alle notizie che

provenivano dall’oriente in merito alle loro imprese eroiche,

mostrarsi come un ordine monaco- guerriero, il cui unico vero

proponimento nella vita quotidiana era quello di conoscere

Dio, comprendere la sua azione morale e di assumerla come

modello della nostra condotta, capace, non solo di trasformare

l’individuo, ma per la carica di dinamismo morale che

contiene, ma anche la società di cui fa parte. È questo uno dei

punti di maggiore convergenza tra templari ed ebraismo,

poiché l’azione per il popolo ebraico è fondamentale. “La

religione ebraica – scrive Lattes – è la religione dell’atto,

dell’azione, non la religione del dogma, della teoria”. (Lattes

1999:72) Il perché ce lo spiega Mosè Maimonide, uno dei più

famosi filosofi dell’ebraismo medievale. Secondo Maimonide

all’uomo è preclusa ogni conoscenza di Dio. Rifacendosi al

libro dell’Esodo, il filosofo di Cordova ricorda le richieste che

Mosè fece a Dio sul monte Sinai: “Fammi conoscere le Tue

vie…Fammi conoscere la Tua Gloria”. (Esodo:33,13 -18)

“La risposta di Dio alle due questioni consistette – scrive Maimonide –

nella promessa di fargli conoscere tutti i Suoi attributi, di fargli sapere che

tali attributi erano le Sue azioni, e di fargli sapere che la Sua essenza non

può essere percepita per quello che è”. (Maimonide 2003: 197)

La vera conoscenza di Dio è per l’ebraismo, dunque, la

conoscenza non del suo essere, ma della sua attività: l’uomo

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può conoscere di Dio, in senso positivo, soltanto quegli

attributi che sono definibili come attributi d’azione, cioè il fatto

che egli ama gli uomini ed esercita giustizia verso di loro. La

ragione, in breve, pur se rivolta al sovrasensibile, diviene

veramente operante solo attraverso la prassi. L’anelito alla

conoscenza di Dio non isola, dunque, soltanto l’uomo nella

contemplazione, ma lo spinge anche a tornare tra gli uomini

per vivere con loro e per insegnare loro la verità, ovvero che vi

è un Dio amante e che compie il giusto. Dio rappresenta il

modello delle azioni umane: l’uomo assume Dio come suo

modello quando, amandolo più di ogni altra cosa, agisce nel

mondo amando le sue creature e praticando la giustizia verso di

esse. Come vediamo, così come nella religione ebraica, anche

nei Templari l’agire morale rappresenta un elemento

fondamentale e insostituibile. Per entrambi, l’elemento

fondamentale del loro pensiero non è la coscienza o la

confessione teorica del , ma l’opera del bene; non è eticità in

principio, ma eticità in atto.(Lattes 1999: 96).

Un ulteriore elemento di riflessione, che può rafforzare un

tentativo di approfondimento di ricerca sull’ipotesi che le radici

religiose dei templari possano trovare il loro nucleo teoretico

nell’ebraismo, ci viene proposto da alcune considerazioni sul

concetto di tempo. Che cosa è il tempo? Agostino di Ippona, a

tal proposito, rispose: “Se penso al tempo, so cosa è. Ma se mi

chiedete di rispondere a questa domanda, non so cosa

rispondere”. (Agostino1951:443) Nella cultura antica e in quella

occidentale sembra prevalere una forma di disprezzo nei

confronti del tempo. Non sappiamo se ha mai avuto un inizio e

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se avrà mai una fine. Di certo non si esaurisce nella

successione dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri, poiché

senza discontinuità, necessariamente, anche senza di noi,

avanza verso un avvenire indecifrabile e inafferrabile, così

come inafferrabile è il suo punto di arrivo, poiché la nostra

capacità di conoscenza non riesce a penetrare i suoi aspetti

irrazionali, tanto che adattato all’essere il pensiero si dimostra

incapace di accostarsi al divenire. Il tempo non sembra avere

alcuna relazione con i postulati del nostro pensiero. Anzi, i

nostri sistemi di logica prendono atto e arrivano “a dimostrare

con una facilità sorprendente che il tempo è contraddittorio in

se stesso. Ecco uno degli schemi: il passato è passato, dunque

non c’è più; l’avvenire non c’è ancora; il presente si trova così

tra due nulla; ma il presente, l’adesso, è un punto senza

estensione; dal momento che il presente è qui, già non c’è più;

l’adesso è dunque contraddittorio e pertanto esso pure è un

nulla. È così che la realtà si riduce per il tempo a un nulla

situato tra due nulla”(Minkowski 2011:20-21)

Ma tutto ciò da un punto di vista religioso ha ben poca

importanza, poiché il tempo paragonato all’eternità appare

irrilevante, vuoto e, come abbiamo visto prima, del tutto

irreale. Soltanto ciò che è eterno è veramente importante.

D’altra parte è quotidianamente sotto i nostri occhi che tutte le

cose nel tempo sono soggette al cambiamento, a passare

dall’essere al non essere, e dal momento che il non essere non è

non vi può essere alcuna consistenza ontologica del tempo. Il

tempo, dunque, appare come ciò che dissolve l’essere, che

priva le cose dell’essere. Viceversa per l’ebraismo il tempo è

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estremamente importante e, di conseguenza, la natura, lo

spazio in cui egli agisce e opera non può essere considerato

come ciò che inquina e rischia di condurre alla perdizione la

scheggia di spiritualità divina che alberga nell’animo di ogni

uomo, il quale deve sempre ricordarsi che la vita deriva da Dio

e che il corpo, in quanto tale, possiede una sacralità intrinseca.

Per gli ebrei il mondo fu creato da Dio per un atto d’amore,

tanto che egli stesso, quando vide ciò che aveva creato, disse

che “era cosa molto buona” (Genesi, 1,31).

Essere ebreo significa dunque vivere in pace e serenità col

mondo, senza lasciarsi dominare dai piaceri del mondo.

Abbiamo già visto che la morale ebraica è una morale

finalizzata all’azione, una morale il cui fine è da rintracciare

nell’agire etico. “La dottrina mosaica è una propaganda

dell’azione: essa esige dovunque una morale attiva e non

soltanto una morale passiva”(Lattes 1999:86), una morale, in

sintesi, che non deve restare sul piano delle pure intenzioni o

confinata nei libri sacri, ma trovare una effettiva

concretizzazione nella vita di ogni giorno. Nel sistema

religioso ebraico i dogmi di fede non possono rimanere solo su

un piano conoscitivo di Dio, ma devono concretarsi, attuarsi,

farsi azione, perché possano essere vissuti veramente dal

popolo d’Israele. La religione non deve restare confinata ai

luoghi di culto, ma deve essere il fulcro centrale della vita

quotidiana, con la precisa volontà di rendere vivo il ricordo del

proprio Dio. La vita dell’ebreo, infatti, è scandita da una serie

infinita di momenti il cui scopo è quello di portare alla

memoria l’esistenza di Dio, tanto che “nel cosiddetto

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mosaismo, il sistema etico religioso si innesta intimamente con

quello sociale-politico. I dogmi fondamentali della fede sono

presentati come principi direttivi della vita pratica”. (Ibidem)

È nel tempo che può realizzarsi il percorso dell’uomo verso

Dio attraverso un quotidiano concretizzarsi di azioni che

abbiano come modello l’eticità divina. “La storia, quindi è il

trionfo del tempo sullo spazio…essa è la suprema testimone di

Dio”(Heschel 2006:228).

L’immortalità, secondo alcuni filosofi ebrei del medioevo,

non era prerogativa di tutti gli uomini, ma un dono di Dio per

coloro i quali con lo studio, con la mente e con le loro azioni

maggiormente si erano avvicinati a lui. Se, dunque,

l’immortalità va intesa anche in senso allegorico essa è

riservata solamente a coloro che nel corso della loro vita, nel

tempo limitato della loro esistenza, si sono resi con le loro

azioni testimoni di Dio, santificandone così il nome. Per

l’uomo, dunque, partecipare alla civiltà e andare al di là di essa

è un dovere categorico, poiché l’ebraismo è proprio “l’arte di

superare i limiti della civiltà; è la santificazione del tempo e

della storia”(Ivi:450). Più avanti Heschel aggiunge che “le cose

svaniscono, ma il loro valore per Dio è sempre rapportato a Lui

e da Lui ricordato. Le cose muoiono, ma in Dio il tempo non

muore mai. Ciò che è duraturo risiede nel tempo di Dio, non

nello spazio. È impossibile sentire la realtà del tempo senza

essere consapevoli dell’unità che esiste tra il passato, il

presente e il futuro nell’eterna consapevolezza di un Creatore.

Noi tutti viviamo in due tempi: nella temporalità e nell’eternità,

nel tempo dell’uomo e in quello di Dio. Se viviamo soltanto

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nella temporalità, la nostra vita è breve e frammentaria; se

realizziamo la volontà di Dio, rimaniamo duraturi nella sua

memoria”. (Heschel 2001:152) Ne consegue, quindi, per Heschel

che ogni essere, ogni oggetto, calato nella temporalità, può o

sprofondare nel nulla o vivere nella pienezza del tempo. Chi

decide di santificare il tempo, partecipando alla civiltà e

andando al di là di essa, non solo rende le sue azioni gradite a

Dio, ma si incammina per un sentiero nel quale le sue

conquiste nel tempo nessuno potrà mai negare o ignorare. E

proprio in questo codice etico che cogliamo il maggior punto di

contatto tra l’ebraismo e i templari. Molti studiosi del

fenomeno templare – lo abbiamo già accennato – sostengono

che alla base dell’istituzione dell’Ordine templare ci siano

occulti motivi socio-politici o, se vogliamo, una vera e propria

missione segreta. La volontà, di conseguenza, di abbattere le

strutture feudali e i vincoli con i quali queste ultime

soffocavano ogni rinnovamento sociale ed economico, creando

un nuovo sistema più aperto, dinamico con una visione

economica, diremmo oggi, globalizzante, non è forse il

proponimento di superare i limiti della civiltà e di realizzare

una conquista nel tempo che nessuno potrà togliere?

C’è, inoltre, un altro argomento sul quale è necessario

riflettere: il culto dei Templari per le madonne nere. Il monaco

Bernardo, protettore e capo spirituale dell’Ordine, nutriva a

Clerveaux un culto particolare per una madonna nera. In uno

dei tanti aneddoti sulla sua vita si racconta che

quotidianamente vi si recava in preghiera e che era solito

chiudere le sue orazioni, chiedendo alla madonna di

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mostrarglisi. Fu accontentato. Dal seno della madonna, che

teneva in braccio un bambino, sgorgò un zampillo di latte che

finì dritto sulla bocca del monaco cistercense. Ma, al di là del

racconto fantastico, il vero problema è cercare di capire che

cosa potesse unire Bernardo di Chiaravalle e i Templari con il

culto delle Madonne nere. È un altro elemento che ci porta ad

inquadrare in una matrice ebraica le origini della cupola

dell’Ordine Templare. Chiariamo i vari passaggi. Gesù non era

un cristiano, ma un ebreo. Fu circonciso, osservava la Pasqua

ebraica, leggeva la Bibbia in ebraico e rispettava il giorno del

Sabbath (Tabor 2006: 118). Per fugare ogni dubbio, in maniera

abbastanza chiara dichiarò: “io non sono venuto ad abrogare la

legge, ma a rafforzarla”. Gli stessi apostoli non pensavano di

essere stati i fondatori di una nuova religione, non lo

sospettavano neppure. Essi continuavano a vivre come ebrei di

stretta osservanza e come tali ogni giorno si recavano al tempio

per una preghiera”. (Armstrong 1996: 145)

E, di conseguenza, “ciò che Gesù insegnava non era

immaginato dagli apostoli e dai discepoli che lo seguivano

come le fondamenta di una nuova religione o una deviazione

del giudaismo canonico; tanto è vero che, in pratica, la sola

differenza che esisteva fra loro e la corrente principale del

pensiero religioso ebraico, che si manifestava nelle tante sette

dominanti, consisteva nel fatto che essi accettavano

l’interpretazione che Gesù dava della Legge, convinti in questo

dalla certezza che si trattasse di un autentico Messia”. (Wallas-

Murphy 2006:73)

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Gesù, quindi, erede della stirpe reale del re Davide e

pienamente cosciente delle implicazioni messianiche che

questa eredità comportava, diede vita a un movimento,

certamente rivoluzionario sotto un profilo religioso, politico e

sociale, che rappresentò una seria minaccia per la classe

dirigente del tempo, sia politica che religiosa.

“C’erano ebrei che si trovavano pienamente a loro agio nella società e

nella politica del loro tempo e che cercavano di trarre il massimo vantaggio

dallo status quo, anche se imposto da Roma. Ma ce n’erano altri, fossero

Farisei, o Sadducei o Esseni, o anche senza appartenenza, che non se la

sentivano più di vivere in quel mondo ed erano in attesa di un cambiamento

radicale fondato sulle predizioni messianiche dei profeti ebrei”(Tabor

2006:131).

Già in Palestina si erano registrati numerosi tumulti, che le

legioni romane avevano soffocato nel sangue e Ponzio Pilato,

dal 26 d.C. nuovo procuratore e comandante militare della

provincia, mostrava di avere solamente a cuore il

mantenimento di una certa stabilità sociale e sia lui che

l’imperatore Tiberio “l’ultima cosa che volevano era un

visionario profeta di stirpe davidica che trascinasse le masse

infiammandole coi testi della Bibbia e parlando loro della

venuta di un incomprensibile, ai loro occhi, regno di Dio”. (Ivi:

167) Fu condannato a morte più per ragioni politiche che non

religiose. Non a caso sulla sua croce i romani affissero la frase,

anche se dal loro punto di vista per dileggio, “Gesù il

Nazareno, Re dei Giudei. I vangelo gnostici sostengono che

Gesù fosse sposato con Maria Maddalena con la quale ebbe

una figlia o più figli. Di conseguenza, se questa fosse la verità,

anche la sua discendenza era in pericolo di vita. Questo

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spiegherebbe il motivo per cui Maria Maddalena e i suoi

probabili figli, consigliati e guidati da alcuni suoi fedeli

discepoli, primo fra tutti il ricco Giuseppe d’Arimatea,

fuggirono dalla Palestina e si rifugiarono in Francia. Secondo

la leggenda, ma ogni leggenda ha un fondo di verità, i

fuggiaschi approdarono a Saintes Maries- de la Mer in

Provenza, guarda caso una regione, come abbiamo visto, dove

le comunità ebraiche erano numerosamente presenti e dove la

pacifica convivenza con altre etnie aveva favorito una crescita

economica e culturale di gran lunga più ricca rispetto alle altre

regioni della Francia. La Provenza, inoltre, per inciso, nella

storia dei Templari occupa un posto privilegiato, a tal punto

che molti storici si sono spesso chiesti il motivo per cui non ne

hanno fatto un proprio Stato autonomo e indipendente, come

molti anni dopo faranno gli Ospitalieri a Malta. Seguendo

sempre la leggenda, sappiamo che ogni anno a Saintes Maries

de la Mer dal 23 al 25 maggio le reliquie di santa Sara

l’Egiziana, detta anche “la Regina Nera” vengono portate in

processione, un rito religioso che risale al Medioevo e che

celebra l’arrivo di una ragazza egiziana che approdò nell’anno

42 d.C., in compagnia di Maria Maddalena, Giuseppe

d’Arimatea, Marta e Lazzaro, sulle coste francesi. Il nome Sara

in lingua aramaica significa “principessa” e, seguendo i vari

passaggi di questa leggenda, tenendo conto che questa ragazza

aveva circa dodici anni al tempo del suo arrivo in Provenza,

non è utopistico supporre che fosse proprio la figlia di Gesù e

che Maria Maddalena rappresentasse il Sangraal, il calice che

portò nel suo grembo il sangue reale. Ma perché nera?

Probabilmente perché “il suo essere nera” è pure un riferimento

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diretto ai re deposti di Gerusalemme della stirpe di Davide:

“più splendenti della neve, più candidi del latte…ora il loro

aspetto si è fatto più scuro della fuliggine, non si riconoscono

più per le strade”. (Lm 4,7-8) È probabile che coloro che vennero

a conoscenza della reale identità di Maria Maddalena e di sua

figlia Sara vollero venerarle come Madonne Nere, nel senso

che il loro essere neri, “stava a significare allegoricamente la

loro condizione di segretezza; lei era la regina sconosciuta –

non riconosciuta, ripudiata e vilipesa dalla Chiesa che, nel

corso dei secoli, cercò di negare la legittimità della discendenza

reale e di riaffermare le proprie dottrine sulla divinità e sul

celibato di Gesù”. (Starbird, 2005:67) Ora, sorvolando sui

numerosi quadri di famosi pittori medievali, che mostrano

Maria maddalena in evidente stato di gravidanza, non si riesce

a capire l’accanimento della chiesa contro questa donna, che se

fosse stata realmente una prostituta, era pur sempre una

prostituta pentita e, quindi, degna di ogni rispetto, poiché, fra

l’altro, mentre tutti gli altri apostoli mostrarono una fede

vacillante e timorosa nel momento del pericolo, Maria

Maddalena fu l’unica a non rinnegare Gesù e a stargli vicino

per tutto il tempo della drammatica esecuzione. L’unica

spiegazione possibile è che i vertici della chiesa romana

tentarono di depistare ogni possibile indagine in tal senso,

perché se la verità fosse venuta fuori sarebbe crollato l’intero

impianto teologico della chiesa paolina. In tal senso può essere

utile rileggere alcune riflessioni di Margaret Starbird

sull’argomento.

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“Con la conquista di Gerusalemme avvenuta nel 1099, i capi dei crociati

insediarono un patriarca nella chiesa del Santo Sepolcro. A tal proposito

abbiamo scoperto un fatto alquanto bizzarro, e cioè che nelle loro formule

liturgiche durante tutte le festività della Vergine Maria si utilizzavano

paramenti di colore nero. Alcuni studiosi suggeriscono che l’uso di questi

paramenti di colore nero fosse in qualche modo riconducibile al Cantico dei

cantici; ciò nonostante si presentava come un notevole distacco dalle

consuetudini della Chiesa che soleva ricorrere ai paramenti di colore bianco

per tutte le festività mariane. Probabilmente questi paramenti scuri sono

ancora un rimando simbolico all’altra Maria, a quella nascosta, alla Sposa

Perduta del Cantico, derisa e ripudiata dalla Chiesa ortodossa – la regina

esiliata e la cui identità è stata tenuta a lungo nascosta, inizialmente dalle

autorità romane e dagli eredi di Erode e successivamente dalla gerarchia

della Chiesa Cattolica Romana. Questa Maria “nera” riecheggerebbe

poeticamente la Sposa bruna del Cantico dei Cantici, la Sposa del Pastore/re

sacrificato, dello Sposo messianico di Israele. Riassumendo, le due rifugiate

reali di israele, madre e figlia, potrebbero logicamente essere state

rappresentate nella primitiva arte europea come madre e figlia nere, come

quelle nascoste. Le Madonne Nere delle reliquie presenti in Europa (dal V

al XII secolo) potrebbero essere state allora venerate come i simboli di

questa Maria e della sua bambina. Il Sangraal che Giuseppe di Arimatea

portò al sicuro sulle coste della Francia. Il simbolo di una discendenza

maschile della stirpe di Davide doveva essere un bastone fiorito o

germogliato, ma mil simbolo di una discendenza femminile doveva essere

un calice, una coppa contenente il sangue reale di Gesù. Ed è esattamente

quello che si racconta sia stato il Santo Graal”(Ivi: 70-71)

Sulle stesse posizioni della Starbird è anche Gardner, che

sull’argomento ha scritto numerosi e pregevoli saggi.

“In effetti, la lealtà di Maria verso Gesù e la sua famiglia superò di gran

lunga quella dell’imprevedibile Pietro e di altri apostoli titubanti. Ella era

una donna, naturalmente, ma questo non basta da solo a giustificare gli

attacchi postumi della Chiesa contro di lei. Anche la madre di Gesù lo era,

eppure è stata sempre oggetto di venerazione. Evidentemente nei confronti

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di Maria Maddalena vi era più di quanto possa apparire a prima vista,

qualcosa che lasciava i vescovi timorosi e trepidanti per il retaggio da lei

lasciato…Se i vescovi non avessero saputo del rapporto matrimoniale di

Maria Maddalena con Gesù e della sua conseguente maternità, non

avrebbero avuto alcun motivo di vilipendere la sua memoria. Come tanti

altri, ella sarebbe rimasta una figura importante, ma comunque secondaria,

della storia cristiana. Certo, storicamente vi furono gruppi che sostennero la

causa dell’eredità della Maddalena, ma non vi è nulla di segreto in ciò.

Maria Maddalena rappresentava una considerevole minaccia per la Chiesa. I

vescovi ne erano consapevoli, e altrettanto bene lo sapevano i monaci,

organizzazioni come i Templari e molti altri”. (Gardner 2005:22-23)

Ed è sempre Gardner a ricordare che l’Inghilterra, oltre a

numerose chiese dedicate a Maria Maddalena, vanta anche

istituti di studi a lei intitolati presso le Università di Oxford e

Chambridge. Il che dimostra che “mentre la Chiesa di Roma

cercava in tutti i modi di metterla da parte, se non addirittura di

cancellarne completamente il nome, ella era assai venerata

negli ambienti monastici inglesi, dai benedettini di Oxford ai

loro confratelli di Saint Albans”.

Dovremmo, infine, soffermare la nostra attenzione sulla

considerazione che Bernardo di Chiaravalle nel formalizzare

l’istituzione dell’Ordine dei Cavalieri Templari al concilio di

Troyes pretese da parte degli stessi cavalieri un loro

giuramento di fedeltà in nome di Maria Maddalena.

“Forse, un’altra indicazione in merito al disagio mostrato dalla Chiesa

verso questo argomento potrebbe derivare proprio dalle parole pronunziate

da Bernardo. Quando aveva stilato la Regola dell’Ordine dei Templari,

aveva stabilito un preciso e specifico requisito cui i cavalieri non avrebbero

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dovuto sottrarsi: “Obbedienza a Betania e alla casa di Maria e di Marta”.

Per dirla in parole semplici, rendere e riconoscere obbedienza alla dinastia

fondata da Maria Maddalena e Gesù. Basandosi su queste osservazioni, non

pochi studiosi hanno azzardato l’ipotesi che tutte le grandi cattedrali di

Notre-Dame, finanziate o costruite dai Templari, non fossero dedicate a

Maria, la madre di Gesù, bensì a Maria Maddalena e al figlio da lei avuto da

Gesù, un’idea che, vista dal punto di vista della Chiesa cattolica, è un’eresia

insopportabile”. (Wallace-Murphy 2006:198).

Le numerose chiese gotiche, fatte costruire dai Templari e

tutte dedicate a una generica Notre Dame, potrebbero, in realtà,

riferirsi proprio a Maria Maddalena, sia per occultare la loro

venerazione per l’apostola prediletta da Gesù, sia per evitare di

entrare in aperto contrasto con le autorità religiose. Ma perché

allora i Templari, stando alle numerose ammissioni che fecero

nel corso del loro processo, nel corso della cerimonia

d’investitura, sputavano sul crocifisso? Sembrerebbe una

palese contraddizione, perché se sputavano sul crocifisso non

avrebbero dovuto mai venerare Maria Maddalena, che di Gesù

era la moglie o la compagna prediletta. La contraddizione

potrebbe essere solamente apparente, poiché, ed è proprio a

questo punto che le posizioni ideologiche e religiose dei

Templari potrebbero coincidere con quelle ebraiche, in Gesù

loro veneravano il profeta, l’uomo che avrebbe voluto

risollevare le sorti del popolo ebraico, ridandogli dignità e

liberandolo dal giuoco della dominazione romana. Nel

Medioevo, infatti, numerosi filosofi ebrei ritenevano che tra

situazione politica e avanzamento culturale ci fosse una stretta

relazione, associando di conseguenza la cessazione della

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profezia con il fenomeno dell’esilio. Ora, mentre “alcuni

mettevano l’accento sulla preminenza esclusiva della Terra

d’Israele (teoria geografico- climatica) e asserivano che la

profezia era impossibile fuori da essa”, Maimonide, viceversa,

sosteneva “che non tanto il mutamento territoriale quanto le

sue conseguenze di dolore, malattia, guerra e fame erano le

vere cause della contrazione della Profezia dal momento che

impedivano la perfezione intellettuale”. (Somekh 2005:45)

Gesù per molte correnti ebraiche rappresentava proprio

l’uomo che avrebbe liberato la terra di Palestina dal giuoco

romano, ridando così nuovo impulso alla profezia. Era questo il

Gesù che i Templari adoravano e non quello crocifisso, sulla

cui croce, a loro modo di vedere, la Chiesa di Roma aveva

speculato, trasformandosi in un centro di potere, che dal

Concilio di Nicea in poi, giorno dopo giorno, scelse di adottare

la politica del terrore contro chi le si opponeva. Non solo, ma

persino il messaggio originario di Gesù era stata ignorato,

calpestato e stravolto. I vangeli gnostici, ritrovati di recente,

hanno offerto numerosi argomenti di riflessione su questi

delicati argomenti. La Chiesa di Roma, dopo Nicea, aveva

deciso di distruggerli tutti, riconoscendo come ispirati da Dio

solamente i quattro vangeli canonici, gli Atti degli apostoli,

l’Apocalisse, le lettere dell’apostolo Paolo e circa sette lettere,

tra cui, anche se ci fu qualche proposta di eliminarla, quella di

Giacomo, da molti studiosi indicato come il fratello di Gesù.

Eppure, prima del Concilio di Nicea, per ben tre secoli, molte

comunità cristiane si erano formate e mantenute nella fede con

la lettura e il commento di uno di questi vangeli gnostici,

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successivamente condannati alla Chiesa e distrutti. Tra i tanti

vangeli apocrifi, oggi venuti alla luce, fra cui quello di

Tommaso, Filippo, della Verità, Nicodemo, Pietro,

Bartolomeo, degli Ebrei, Ebioniti etc., stranizza che non sia

venuto fuori un vangelo di Maria Maddalena, di Giacomo o

addirittura di Gesù stesso. Eppure, questi ultimi, sarebbero stati

i più titolati a lasciare una testimonianza del loro credo

religioso e degli avvenimenti di cui erano stati i protagonisti.

Abbiamo già detto che i Templari passarono i primi nove anni

della loro esistenza a scavare tunnel e gallerie nelle stalle di

Salomone alla ricerca non certamente di un tesoro o dell’Arca

dell’alleanza. Potrebbe, viceversa, essere legittimo il sospetto

che i Templari fossero alla ricerca di testi e documenti,

occultati e seppelliti prima della distruzione di Gerusalemme, e

che tra questi testi ci fosse proprio un vangelo di Maria

Maddalena o di Gesù stesso, un vangelo che avrebbe

sbriciolato dalle fondamenta l’impero che la Chiesa di Roma

aveva costruito. Non si può spiegare diversamente

l’atteggiamento di sottomissione dei Papi nei confronti dei

poveri cavalieri di Cristo, tenendo anche conto del fatto che

questo ultimi, nei quasi duecento anni della loro esistenza,

mostrarono di non tenere in alcuna considerazione l’autorità

del Sommo Pontefice e che addirittura, in anni in cui

quest’ultimo non poteva mettere piede a Roma per il clima

ostile scatenatogli contro dalla famiglie aristocratiche romane

che si contendevano la tiara, non vide mai al suo fianco un

drappello di Templari per ripristinarne l’autorità.

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Anche se marginali, non mancano altri spunti di riflessione

che accumunano i Templari all’ebraismo. In primo luogo, il

loro non superficiale interesse per lo studio della Qabbalah, il

cui principale obiettivo è quello di penetrare la struttura

dell’Essere divino e i processi che si verificano all’interno di

questo. In secondo luogo, la sobrietà delle loro chiese, dove

non figurano statue di santi o altre immagini sacre del Nuovo

testamento. Gli stessi templari, diversamente dagli altri ordini

militari, non hanno un santo protettore. Per loro Dio,

riecheggiando le Sacre Scritture, è il numero perfetto, il

governatore e l’architetto del mondo. D’altra parte lo stesso,

Bernardo di Chiaravalle, in maniera alquanto insolita, era solito

definire Dio come altezza, profondità e larghezza. Va

sottolineato ancora la cura che, stando alle regole del Tempio, i

cavalieri templari dovevano avere per il proprio corpo. Per la

mentalità cristiana del Medioevo è qualcosa di insolito. Il corpo

è la prigione dell’anima e con le sue passioni e desideri è

causa, spesso, della perdizione dell’uomo. Il corpo va

mortificato, frustato e spesso anche piegato alle sofferenze di

un cilicio. Questa pratica religiosa era largamente praticata nei

conventi e nei monasteri. Un comportamento diverso, quindi

quello dei Templari che trova un riscontro proprio nel pensiero

ebraico, dove è chiaramente detto nella Torah che “l’intenzione

di tutta la legge consta di due cose: il benessere dell’anima e il

benessere del corpo(Ivi:614)

Ed è ancora Maimonide a chiarire che la perfezione

dell’anima non può essere raggiunta se non dopo avere

raggiunto quella del corpo, poiché solamente “dopo aver

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raggiunto la prima perfezione si può raggiungere la perfezione

ultima che è indubbiamente più nobile ed è essa sola causa

della sopravvivenza eterna”. (Ivi:615)

Ai Templari, poi, era formalmente proibito partecipare ai

tornei, sport molto in voga tra la cavalleria laica, e alle battute

di caccia. La caccia per Bernardo di Chiaravalle era un

divertimento profano del tutto sconveniente per la condizione

monastica. Era loro proibito persino accompagnare i laici che si

recavano a caccia, a meno che la loro presenza non era dettata

dall’esigenza di proteggerli dall’attacco di bande saracene.

L’unica eccezione era rappresentata dalla caccia ai leoni. Su

questo fronte i cavalieri del tempio avevano libertà assoluta.

Ma perché era consentita solo ed esclusivamente la caccia ai

leoni? Forse, perche simbolicamente il leone nelle Sacre

Scritture era spesso identificato con le forze del male. “Siate

sobri e state in guardia! Il diavolo, vostro avversario, si aggira

come leone ruggente, in cerca di chi divorare”(Lettera di Pietro,

5,8.)

La storia personale di Cristoforo Colombo, inoltre,

malgrado l’agiografia che è stata fatta intorno al suo nome, non

manca di numerosi punti oscuri, ma innegabilmente si svolge

fra ambienti ebraici e templari. La madre, Susanna, è di origini

ebraiche e, probabilmente, questa appartenenza religiosa gli

aprì le porte della società bene portoghese. A Lisbona sposa

una donna imparentata per parte di madre con la famiglia reale

e attraverso il suocero, Bartolomeo Perestrello, uomo di fiducia

del principe Enrico il navigatore e membro dell’Ordine

Templare, entra a far parte del prestigioso Centro di Sagres, un

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accademia di cultura nautica specializzata nella program-

mazione di viaggi di esplorazione e di nuove rotte. All’interno

del Centro lavoravano studiosi arabi ed ebrei, particolarmente

esperti nel campo delle conoscenze astronomiche, mate-

matiche, geografiche e cartografiche. Il Centro era stato

fondato da Enrico il Navigatore e ne facevano parte come

membri operativi sia Vasco de Gama che Bartolomeo Diaz,

entrambi cavalieri templari. Lo stesso Colombo ne divenne,

quasi sicuramente, un ufficiale operativo, poiché tra il 1477 e il

1483, sempre conto del Centro di Sagres, lo troviamo in

viaggio verso l’ Islanda, le Canarie, Guinea sempre. Sappiamo

che in seguito a un comportamento poco corretto del re del

Portogallo, Giovanni II, Colombo si trasferì in Spagna dove

presentò ai sovrani cattolicissimi il suo progetto di raggiungere

l’Oriente, navigando sempre verso l’Occidente. La teoria di

Colombo rasentava l’eresia e per queste sue stesse idee alcuni

anni prima Pietro d’Abano e Cecco d’Ascoli erano stati

condannati al rogo dall’inquisizione. Naturale, quindi, che la

commissione a cui fu sottoposto il progetto di Colombo per

studiarne la fattibilità desse parere negativo. Nonostante ciò,

Ferdinando il Cattolico approvò e finanziò il progetto di

Colombo. A questo punto è lecito sospettare che Cristoforo

Colombo, al di là di una costruzione artificiosa e leggendaria

del personaggio, sia stato materialmente protetto e sostenuto da

personaggi influenti sia della comunità templare che da quella

ebraica, poiché, secondo Wiesenthal,

“Non furono tanto motivazioni scientifiche o smanie di avventura a

spingere lui e i suoi protettori alla scoperta di nuove terre, bensì credenze ed

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aspettative di carattere religioso. Wiesenthal tratteggia assai efficacemente

la fede degli Ebrei del tempo nella profezia di Isaia che indicava la

possibilità per loro “di cieli nuovi e terra nuova”, la nostalgia per le tribù di

Israele andate perdute, e sulla cui esistenza nell’estremo oriente si

favoleggiava, e sottolinea inoltre come le conoscenze tecniche e scientifiche

necessarie per l’impresa della traversata oceanica fossero soprattutto in

mano agli ebrei spagnoli, tra le cui schiere si trovano persone in possesso di

un patrimonio culturale matematico, astronomico, geografico, ma

soprattutto cartografico, che poche altre comunità dell’epoca potevano

vantare. In particolare, l’autore ricorda come proprio la cartografia fosse

una specialità degli ebrei e che un fiorente centro di studi in proposito era

l’isola di Maiorca”. (Bartocci 1993:6; cfr. Wiesenthal 1991)

Ma, su questa linea, ci sono altri indizi che ci portano a

scorgere una trama convergente. In primo luogo, la protezione

che Colombo godette sempre da parte di Giovanni Battista

Cybo, genovese di nascita, appartenente ad una famiglia di

origini ebraiche e meglio conosciuto col nome di Papa

Innocenzo VIII. Colombo che nei confronti della propria

famiglia sarà sempre prodigo e affettuoso non accenna mai ai

suoi genitori anagrafici. Questo ha fatto sì da indurre a

sospettare che, sia per le protezioni accordategli sia per la fama

di seduttore (a Innocenzo VIII si attribuiscono due figli

legalmente riconosciuti e un numero non precisato di bastardi e

di “nipoti”, come comunemente in Vaticano si indicavano i

figli dei Sommi Pontefici) , Cristoforo Colombo fosse figlio di

Innocenzo VIII. “Ancora oggi, se ci si reca in San Pietro, è

possibile acquistare un poster, che ha il placet del Vaticano,

contenente i cammei e il compendio, in poche righe, della vita

de “I sommi pontefici romani. Sotto il volto di Innocenzo VIII

è scritto: “portò a termine la immane opera di pacificazione

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degli stati cattolici. Colpì inesorabilmente il mercato degli

schiavi e aiutò Cristoforo Colombo nella sua impresa alla

scoperta dell’America”. (Marino 2005:59-60)

Ma l’aiuto di Innocenzo VIII non si limitò solamente a

questo. Un banchiere della famiglia dei Medici di Firenze,

Giannotto Berardi, “risulterà fra i maggiori finanziatori del

primo così come degli altri viaggi di Colombo”(Ivi:64). In tale

operazione è evidente l’influsso del Sommo Pontefice.

Innocenzo VIII, infatti, non solo aveva stretto una forte

alleanza con Lorenzo il Magnifico, facendo sposare il figlio

Franceschetto Cybo con Maddalena dÈ Medici ed elevando

alla porpora cardinalizia il giovane Giovanni dÈ Medici, che

diverrà Papa col nome di Leone X, ma aveva anche stretti

rapporti di affari nel commercio dell’allume. È probabile,

dunque, che Lorenzo il Magnifico abbia influito sulle scelte del

suo banchiere di fiducia per sdebitarsi con Innocenzo VIII per i

favori ricevuti e per mostrare la sua totale disponibilità ai

progetti di quest’ultimo, anche se, in verità, non va trascurata

l’ipotesi che l’appoggio dei banchieri toscani all’impresa di

Colombo possa trovare una valida interpretazione nello stesso

ambiente ebraico e templare, poiché le prime testimonianze di

istituti bancari all’inizio del secolo XIV si trovano proprio in

Toscana e, guarda caso, nascono subito dopo lo scioglimento

dell’Ordine Templare e in un territorio culturalmente e

politicamente non troppo favorevole al retrogrado ambiente

ecclesiastico e ai vertici di Santa Romana Chiesa. Spesso nelle

lettere scritte da Colombo “si notano un simbolismo e una

terminologia, come il riferimento al Tempio, che ne fanno

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assomigliare le parole più a quelle di un ebreo nostalgico della

Terra promessa e della Città Santa, che non a quelle di un

cattolico ortodosso”(Bartocci 1993:8); allo stesso modo non può

non far riflettere la sua abitudine di far precedere la sua firma

da un criptogramma e precisamente dalle tre lettere X M Y,

abitudine, secondo alcuni studiosi, che ha un sapore

prettamente iniziatico e che molto probabilmente dovrebbe

intendersi nelle parole di cristiani, mori e giudei. (cfr. Pistarino

1990) Tutto ciò può avere il sapore della pura congettura, ma in

una lettera di Colombo, citata da Bartocci, questa ipotesi

appare particolarmente sensata e non campata in aria, poiché in

essa

“si trova l’affermazione indubbiamente ereticale – per la sostanziale

uguaglianza di tutte le religioni a cui allude e, quindi, la negazione della

specificità del Cristo – anche dal punto di vista dell’ortodossia cattolica

radicale a noi contemporanea: “Affermo che lo Spirito Santo opera in

cristiani, giudei, mori e in altro d’ogni possibile setta”. (Bartocci 1993:15).

Naturalmente come non sottolineare che questo grande

progetto di esplorazione del mondo e di auspicato rinnova-

mento scientifico rientrava a pieno titolo nel programma

operativo dei templari il cui obiettivo ero quello di superare i

limiti della civiltà, poiché le conquiste nel tempo nessuno le

potrà mai togliere. Quanto ha scritto Heschel per l’ebraismo

può a buon diritto applicarsi benissimo anche ai templari.

“Azione e pensiero sono collegati fra loro in un tutto unico. Tutto ciò

che un individuo pensa e sente penetra in tutto ciò che fa, e tutto ciò che egli

fa è coinvolto in ciò che egli pensa e sente. Le aspirazioni spirituali sono

destinate a fallire quando cerchiamo di promuovere delle azioni a scapito

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dei pensieri o dei pensieri a scapito delle azioni…Vivere nella maniera

giusta è come un’opera d’arte, è il prodotto di una visione e di una lotta

legata a situazioni concrete”(Heschel 2006: .320)

Per gli ebrei, così come per i Templari, il culto per la

responsabilità collettiva ha un ruolo fondamentale.

“Non ci sono per Israele due zone distinte: quella della religione che

guarda soltanto la cielo ed è cosa riservata al mistero della coscienza

individuale, col suo premio e la sua pena nell’al di là, e l’altra zona, quella

della collettività, colle sue leggi utilitarie, relative, sottratte alla sfera etica

ed assoluta del divino”. (Lattes 1999: 59).

Non deve, quindi, esserci frattura fra sfera individuale e

sfera collettiva. “Conoscere veramente Dio significa dunque

concretare quest’armonia. Quando gli uomini avranno

restaurato fra loro, nella loro società e nella loro vita

quotidiana, questa concordia spirituale, Dio allora sarà

veramente Uno”. (Ivi:209). Per gli ebrei non è l’eremitaggio o la

vita contemplativa che ci porta sulla giusta via per conoscere e

imitare Dio, ma l’aprirsi al mondo ed essere testimoni della

parola di Dio, non solo nel rapporto fra gli uomini , ma anche

nella vita sociale e in quella politica. Chiarisce ancora meglio

Lattes che

“non salva l’atto di fede o un evento meraviglioso, o la mano di Dio che

scende dai cieli sugli uomini solitari; ciò che salva è la santità conquistata

non solo nella comunione con Dio indulgente o per il sacrificio d’altri, ma

quella più difficile che si raggiunge coll’azione fra gli uomini, col

superamento del male, colla virtù quotidiana della vita nella società, nella

famiglia, nel popolo, nel genere umano”. (Lattes 1999: 85)

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E più avanti, offrendoci una scelta di vita che in larga parte

richiama quella dei Templari, conclude asserendo che

“questa è la concezione ebraica che si potrebbe chiamare della

responsabilità collettiva e che non permette all’uomo la sterile

contemplazione né gli consente di ritirarsi nella torre d’avorio del suo io,

ma gli chiede di espandersi nell’Umanità senza porre confini alla sua

azione”. (Ivi:93)

In una vita, infine, dedicata al servizio di Dio, I Templari

non potevano permettersi di abbandonarsi a schiamazzi, risate

sfrenate, risse o atteggiamenti poco consoni al loro ruolo. Oltre

alla serietà e a un tenore di vita irreprensibile, si auspicava

anche che il Templare, oltre al soddisfacimento dei suoi

impegni quotidiani, praticasse quanto più possibile il silenzio,

poiché nei riguardi Dio (anche in questo aspetto si colgono

punti di contatto con l’ebraismo) “la vera preghiera, la sola che

gli si addica, è il silenzio, che ogni lode positiva costituisce, di

fatto, l’attribuzione di ciò che, per noi, è perfezione e, per lui,

difetto”(Sirat 1990:234 ). La preghiera, quindi, da questo punto di

vista si traduce in una concessione alla debolezza e alla fede

ingenua dei credenti, per cui

“L’espressione più eloquente a questo fine è il detto dei Salmi: Il

silenzio, per Te, è lode” – la cui interpretazione è: il silenzio intorno a Te è

una lode. Questa è un’espressione molto intensa di questo concetto, perché

noi, in qualunque cosa noi diciamo con l’intenzione di magnificarLo e

lodarLo, troveremmo qualcosa che si applica a lui, ma vedremmo anche

qualcosa di manchevole. Dunque è meglio mantenere il silenzio e limitarsi a

percepire gli intelletti separati, come ordinano i perfetti, dicendo: Parlate in

cuor vostro sui vostri giacigli, e tacete”. (Maimonide 2003: 213-214).

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Può sembrare una coincidenza, ma Maria Grazia Lopardi, in

un colloquio tra un Templare e Pietro del Morrone, futuro Papa

col nome di Celestino V, accennando al silenzio, ne dà una

descrizione che richiama molto da vicino Maimonide.

“Dei piani di Dio – scrive Lopardi – l’uomo conosce solo piccoli aspetti

e si affanna tanto per compiere la sua parte, ma dovrebbe avere più fede

invece che preoccupazione: se il Signore incontra cuori aperti, disposti a far

silenzio per ascoltare la sua voce, i suoi piani non possono fallire. Non

saremo forse noi a compierli, ma possiamo offrirci come strumenti e restare

in attesa fiduciosi, perché ci verrà detta la mossa da compiere al momento

giusto. Cerchiamo il silenzio e la pace dove si ascolta chiara la voce del

Signore. Il silenzio non si impone, è l’effetto del porsi in ascolto…Non

pensare però che il nostro compito sia solo quello di aspettare: poi occorre

attivarsi e dare interamente se stessi per realizzare ciò che Dio suggerisce.

La Volontà è la sua, ma le braccia, le gambe, i doni di cui la natura ci ha

dotati vanno poi messi a servizio”(Lopardi 2010: 2)

Naturalmente, le vere origini dei Templari, gli obiettivi i

programmi e le strategie per tradurli in atti concreti, erano a

conoscenza solo dei vertici dell’Ordine e dell’anonimo gruppo

di potere, di cui i poveri cavalieri di Cristo costituirono il

braccio armato. La base, indubbiamente, era all’oscuro di tutto

e credeva fermamente, oltre al prestigio che derivava loro dal

bianco mantello che indossavano, alle ufficiali motivazioni

religiose per cui l’Ordine era stato costituito. È fuor di dubbio

che col passare del tempo e, in particolare, dopo la morte di

Bernardo di Chiaravalle, avvenuta nel mese di agosto del 1153,

e di quella della maggior parte dei fratelli fondatori, l’afflato

religioso delle origini si sia ampiamente affievolito,

travolgendo in questo cambiamento lo stesso comportamento

dei Templari. Necessitando di uomini sia per la guerra contro

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gli infedeli in Terra Santa, sia per l’amministrazione delle sue

ingenti proprietà, sparse in tutta Europa, L’Ordine non poteva

andare per il sottile. Ne è una prova il reclutamento degli

scomunicati e di quanti avevano problemi con la giustizia.

L’Ordine, in poche parole, si era trasformato in una vera e

propria legione straniera, ufficializzando così la sua

laicizzazione. Lo stesso voto di castità, che imponeva ai fratelli

di non baciare mai nessuna donna, comprese madre e sorelle,

dal XIII secolo in poi esisteva, forse, solo sulla carta. Se un

cavaliere veniva sorpreso a dare scandalo in un bordello

perdeva il suo stato di Templare, ma non era tanto la

frequentazione del bordello che preoccupava i vertici

dell’ordine, quanto lo scandalo. Sempre seguendo questa

logica, si era disposti a soprassedere da ogni punizione nei

riguardi di un cavaliere che si fosse lasciato tentare da una

meretrice; l’unica cosa che gli si chiedeva era di non parlarne

assolutamente con nessuno e, in modo particolare, con i propri

confratelli per evitare tentazioni o peccati di pensiero. “Ancora

agli inizi del Trecento qualche precettore durante la cerimonia

d’ingresso osservava questa norma molto realistica riguardo le

debolezze umane: imponeva al nuovo membro di astenersi dal

frequentare le donne, e se proprio non ci riusciva doveva

almeno aver cura che nessuno lo venisse a sapere”. (Frale

2004:55)

È sintomatico che, sempre a partire dal XIII secolo, tutti i

casi esaminati dal consiglio per giudicare della colpa o meno

dei confratelli accusati di essere venuti meno alle norme

dell’Ordine, “si riferivano, teoricamente, solo a violazioni del

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regolamento dei Templari e non ai Dieci Comandamenti. Il

Consiglio prendeva provvedimenti, quindi, solo per colpe

contro la comunità e non contro Dio”(Bauer 2005: 65).

Conclusioni

La condanna per eresia, come è naturale, portò anche allo

scioglimento dell’Ordine dei Templari per espressa volontà di

papa Clemente V. Quale che sia la posizione di ciascuno di noi,

se, cioè, convinti o meno della loro colpevolezza, nessuno

potrà mai negare l’abnegazione, il senso del dovere e l’eroismo

di questo corpo scelto, un eroismo, a volte talmente incosciente

da rasentare una volontà suicida. In ogni caso, quella dei

Templari, è una storia inquietante e lo è a tal punto che,

inquietandoci, ci spinge caparbiamente a ripercorrere il grande

fiume della loro storia, senza trascurare i numerosi affluenti,

ruscelli e rivoli che da questo fiume si diramano. Un cammino

reso inquietante, non tanto perché di esso non si intravede mai

la fine, ma per i numerosi e lunghi tunnel oscuri nei quali

siamo costretti a inoltrarci. È un po’ come il fascino

dell’ignoto. Un cammino che, seppure difficoltoso, ci premia

alla fine con l’acquisto di segmenti di verità o, se vogliamo,

con squarci di luce che ci consentono di potere seriamente

riflettere su nuove ipotesi di ricerca. D’altra parte un fatto è

certo: chi all’inizio di una ricerca parte con tante certezze, alla

fine arriva con mille dubbi e mille perplessità; viceversa chi

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inizia un percorso di ricerca con mille dubbi, spesso alla fine

arriva ad acquistare qualche certezza.

Da qualsiasi angolazione possano essere guardati i

Templari, un fatto è certo: pur nella solitudine e povertà di vita,

questi cavalieri si nutrivano di un grande sogno: quello di

difendere la cristianità e di guadagnarsi l’immortalità col

proprio sangue. Nello stesso giorno in cui pronunziavano i voti

per ottenere l’investitura di cavalieri sapevano benissimo, nello

stesso tempo, di stare pronunziando la loro condanna a morte.

Un ruolo tragico che li collocava al confine tra la dimensione

umana e quella divina e questa coscienza del loro stato e della

loro missione li portava spesso ad assumere un atteggiamento

di distacco dalle banalità quotidiane, che per molti si traduceva

in superbia, boria e atteggiamento sprezzante. Sembra quasi

che Michele Federico Sciacca in un suo saggio su Unamuno,

parlando di don Chisciotte, abbia avuto presente i Templari.

“Ma c’è chi, pur convinto che un destino dell’uomo solo storico è una

banalità imbottita di mille retoriche e che solo una destinazione superstorica

dà senso e valore alla storia dell’uomo e del creato, non ce la fa ad aderire a

questa soluzione che, pur bisognosa di essere riproposta e approfondita in

un discorso infinito, presenta principi e ragioni immanenti allo stesso essere

dell’uomo, gli stessi che la speculazione fa emergere dal più profondo e

sofferto pensare”(Sciacca 1989:16).

I Templari, dunque, in quanto protagonisti di un progetto

superstorico e testimoni di un pensiero che va oltre i limiti

della civiltà “sono incomodi e scomodi: minacciano ogni forma

di quiescenza richiamando l’esistenza dell’essere che la

costituisce e incardinandovela spronano a scegliere tra la

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sicurezza vitale e la libertà pronta ai mille pericoli cui la prova

della vita la espone; ad ascoltare tutte le voci da qualsiasi parte

provengano e a tutte e a ciascuna, anche quando siano

conoscenze consolidate, domandano: questa o altra è parola

valida ai fini del destino dell’uomo?”(Ibidem)

Questo sogno rischiava di infrangersi con la definitiva

perdita della Terrasanta nel 1291, quando buona parte dei

Templari fece ritorno in Francia. Crollato il motivo principale

della loro esistenza, si resero perfettamente conto che la

conseguenza più immediata sarebbe potuta essere rappresentata

dal rischio di pregiudicare il progetto più importante che era

quello di distruggere la struttura feudale del tempo. Fra mille

rischi decisero di andare avanti lo stesso, non rendendosi conto

dei mutamenti politici e sociali che erano avvenuti nel corso

degli ultimi due secoli. Fu il loro limite, perché peccarono di

ingenuità o fecero troppo affidamento in un potere che

ritenevano consolidato. Non avendo più un nemico contro cui

combattere, si limitarono a curare gli altri settori in cui nel

corso dei secoli si erano specializzati: quello bancario e

diplomatico. Le donazioni come è naturale erano enormemente

diminuite, ma i Templari erano orami talmente ricchi da non

preoccuparsene. Naturalmente continuavano a svolgere i loro

affari e commerci godendo sempre di tutte le esenzioni fiscali,

da cui erano stati esonerati dalle varie bolle pontificie. Sovrani,

vescovi, feudatari, e ora anche il popolo, mettevano in

discussione i numerosi privilegi di cui godevano e, persino, il

motivo della loro sopravvivenza una volta terminata l’epopea

delle crociate. Operavano, quindi, in un clima che nei loro

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confronti diventava sempre più ostile. I templari, fra l’altro,

non andavano tanto per il sottile, quando dovevano difendere i

propri interessi e non esitavano a ricorrere alla forza e all’uso

delle armi contro chi si opponeva o pretendeva di usurpare i

loro diritti. Quando erano in giuoco i suoi interessi,

“l’Ordine dava prova di una spietata durezza che poco si addice alla

carità cristiana. Intimamente persuasi della loro superiorità, abituati a

considerarsi l’élite guerriera della cristianità, i Templari non provavano

alcuna compassione per le sofferenze dei loro simili, né alcun rispetto per le

idee o i sentimenti altrui. L’ordine si era trasformato in una macchina

gigantesca che funzionava bene ma che, come tutte le macchine, aveva un

difetto: non era più umana. Quando nasceva una controversia tra una casa

templare e qualche vicino, i fratelli non esitavano a uccidere, depredare o

incendiare, come avrebbe fatto qualsiasi signore feudale. I templari, però,

rischiavano di meno, grazie agli enormi privilegi di cui godevano e

all’omertà che circondava alcuni episodi”. (Markale 2003: 101)

Ma è pur vero che non esitavano, dove erano presenti con le

loro commende, a mettere a disposizione della popolazione i

loro beni, in caso di calamità naturali o di particolari necessità.

“Una tradizione, raccolta in quel di Imperia,narra che nel

1150 un sisma particolarmente violento distrusse quasi

completamente Porto Maurizio e i suoi dintorni. In tanta

desolazione gli abitanti sopravvissuti sarebbero stati aiutati dai

Templari, i quali, con il loro contributo finanziario e morale,

avrebbero collaborato alla ricostruzione della città”. (Capone

1977:81) Questo episodio, però, si riferisce ad una calamità

naturale, avvenuta pochi anni prima della morte di San

Bernardo e, come abbiamo già evidenziato, è proprio la morte

del monaco di Chiaravalle che segna una netta linea di

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demarcazione tra il templarismo delle origini e il successivo

processo di laicizzazione. È in questo clima che va maturando

il tramonto e la morte dell’Ordine dei Templari.

Molti storici attribuiscono la loro fine alla cupidigia e alla

fame di oro di Filippo il Bello, ma pur non disdegnando

quest’ultimo i loro beni mobili e immobili, non fu certamente

questa la motivazione della sua persecuzione contro i Templari.

Agli inizi del XIV secolo inizia a prendere corpo il concetto di

sovranità nazionale e Filippo il Bello che in tal senso si sentiva

investito da una missione divina, non poteva certamente

tollerare che all’interno della Francia i Templari si

comportassero come uno Stato nello Stato senza alcuna

sottomissione nei confronti del sovrano e, per giunta, con una

disponibilità economica che la corona nemmeno si sognava di

potere mai possedere. Filippo il Bello, da molti considerato

come il precursore delle grandi monarchie assolutiste, si rese

conto che la presenza dei templari in Francia costituiva un

ostacolo al suo progetto politico e, in realtà, aveva paura “della

massa di uomini combattenti che il tempio poteva mobilitare

all’istante; paura del potere che avevano in mano data la vastità

dei loro possedimenti, superiori ai suoi; paura della ricchezza,

che li metteva in grado di gestire qualsiasi trattativa e trovare

ogni alleanza; paura della stima e dell’affetto che il popolo

nutriva per loro”. (Imperio 1996: 24)

Filippo il Bello temeva a tal punto l’Ordine dei Templari

che dichiarò di essere pronto ad abdicare dal trono di Francia

per assumere la carica di Gran Maestro qualora fosse andato in

porto il progetto di unificare in un solo ordine quello dei

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templari e degli ospedalieri. Il progetto di fusione non solo fu

rifiutato dai Templari, ma sembra che questi ultimi abbiano

posto il veto persino al suo accesso all’Ordine. “Per giunta i

Templari, a quel che sembra, avevano lasciato trasparire

un’arrogante superiorità nell’ospitarlo presso il Tempio di

Parigi, quando gli offrirono riparo dalla folla inferocita che si

era ribellata all’opprimente pressione fiscale”. (Lancianese

2006:160)

Il Tempio di Parigi, che si trovava di fronte all’odierna rue

des Fontaines-du- Temple, si presentava ai passanti come una

imponente fortezza in buona parte simile ai possenti castelli

edificati dai templari in Palestina. Ma perché - si chiede

Markale – hanno costruito un’opera tanto possente nel centro

di Parigi se il tempio aveva sempre goduto della protezione del

sovrano e non aveva nulla da temere all’interno della città?

Probabilmente perché “la fortezza è stata costruita per mostrare

la grandezza del Tempio e anche per lanciare un monito al re”.

(Markale 2003: 55) Parigi per circa un terzo era proprietà dei

Templari e, nella realtà, costituiva uno stato nello stato. Tutta

la loro filosofia di vita sembrava orientata non solo a superare

le barriere della struttura feudale, ma a gettare le basi per un

governo mondiale unitario, capace di dare ai propri sudditi

giustizia, prosperità, pace, ordine sociale, non trascurando il

progresso delle scienze e della cultura in genere.

I Templari, inoltre, nel corso della loro lunga permanenza in

Terrasanta si resero conto delle vaste conoscenze di cui l’

Oriente era depositario e non nascosero le loro intenzioni di

avviare un dialogo costruttivo. È in nome di questa tolleranza

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che sul rosone della loro commenda a Trapani fecero collocare

i simboli delle tre religioni monoteistiche. “Su questi

presupposti, pur nella feroce contrapposizione delle battaglie, i

Templari gettarono un ponte verso l’Oriente e sempre di più

affidarono ai trattati, alla diplomazia e alla politica i loro

rapporti con l’Islam”. (Lancianese 2006: 194)

Filippo il Bello fu indubbiamente l’unico sovrano europeo

ad avere intuito la segreta strategia dei Templari e a temere la

loro presenza in Francia, che con circa 20.000 effettivi tra

cavalieri, sergenti e truppe ausiliarie, costituiva per lui,

comprensibilmente, una seria minaccia. In base a questi

presupposti, con i sospetti e i pregiudizi che l’apertura verso il

mondo islamico aveva ingenerato, decise che non si poteva più

restare inermi di fronte alla minaccia che incombeva sulla

corona di Francia.

Fu così che all’alba del 13 ottobre 1307, in ottemperanza ad

un ordine di Filippo il Bello, le commende templari della

Francia vennero circondate dalla gendarmeria locale e tutti i

confratelli arrestati e trasportati a Parigi, chiamati a rispondere

del reato di eresia, sodomia e blasfemia. I funzionari regi che

aprirono il plico, quasi non cedettero ai propri occhi, non tanto

perché i templari avevano fama di essere ottimi combattenti,

quanto per il prestigio di cui godevano in tutta la cristianità.

Clemente V eletto papa con l’appoggio determinante del

sovrano francese, trovò molto conveniente appoggiarne

l’iniziativa per liberarsi una volta per tutte dall’ingombrante

ordine. Abbiamo già detto che tra i programmi dei templari e

dell’organismo a loro superiore, oltre a favorire lo sviluppo

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delle scienze e della cultura in genere, ci fosse anche la volontà

di operare una profonda trasformazione dell’assetto sociale del

Medioevo, determinando le condizioni per il superamento dello

stato feudale. Un progetto, quest’ultimo, che il Vaticano non

poteva assolutamente condividere. Per la politica della Chiesa

il problema non era smantellare il sistema feudale, ma

mantenerlo con il predominio del potere teocratico su quello

imperiale. Questa interpretazione spiegherebbe, sottolinea

Partner, i legami di fratellanza, allacciati dai Templari

attraverso le confraternite e vasti settori della popolazione

dell’epoca. (Partner 1993:72) Ma è ancora più chiaro Lancianese:

“Il vero attacco al potere andava portato sul piano della società civile,

determinando le condizioni necessarie e sufficienti al superamento dello

stato feudale, infiltrandosi lentamente in esso fino a modificarlo

radicalmente dall’interno, impadronendosi dei centri nevralgici della sua

struttura politica ed economica. Bisognava sorreggere i commerci e le

corporazioni, impadronendosi dei flussi monetari, controllare le vie di

comunicazione, la cultura, la tecnologia e la scienza, in breve tutto ciò che

consideriamo fondamentale nella società moderna e che veniva invece

completamente ignorato dal potere feudale, assorbito da ben altre

preoccupazioni. A ben vedere questo è esattamente ciò che fecero i

Templari al di fuori della loro operatività militare, perché questo era il vero

compito a cui essi dovevano assolvere. Questa attività sociale, economica e

politica non aveva assolutamente niente a che vedere con un impegno

bellico, anzi era del tutto avulsa, contrastante e stridente con la concezione

cavalleresca in epoca medievale”. (Lancianese 2006:88-89)

Sotto questo profilo, l’ordine dei Templari non fu altro che

la prima multinazionale della storia economica dell’occidente

o, se vogliamo, il pioniere dell’economia globalizzata. Ai

Templari, in realtà, non interessava abbattere i confini

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nazionali degli stati sovrani o di ritagliarsi lo spazio per un

proprio regno, come avvenne per gli Ospedalieri. Nulla di tutto

questo. Premeva loro il controllo economico dell’occidente,

poiché sapevano che tramite questo avrebbero avuto il potere

di interferire nella politica interna degli stati. Un progetto

ambizioso la cui pericolosità non sfuggì né a Filippo il Bello,

né al Vaticano. E gli effetti non tardarono a farsi sentire. Resta

solo una domanda. Perché i Templari non reagirono,

considerata la loro potenza economica e militare? Se avessero

voluto avrebbero senza dubbio avuto la forza necessaria per

detronizzare Filippo il Bello,ma, contrariamente a tutte le

aspettative si fecero arrestare e non opposero la benché minima

resistenza. Certamente furono informati delle intenzioni del

sovrano francese, tanto è vero che i cavalieri arrestati in

Francia rappresentavano la minoranza dei reali effettivi

presenti sul territorio e che del tesoro del Tempio e della flotta

se ne ebbe più notizia. Probabilmente la mente direttiva

dell’Ordine comprese che l’Ordine dei Templari avesse fatto il

suo tempo e che di conseguenza, fosse giunta l’ora di

sacrificarlo per riciclarsi in un’altra organizzazione che non

desse adito a sospetti o, ancora meglio, non attirasse la

curiosità dei poteri forti. Come anche, probabilmente, si rese

conto, qualora effettivamente l’Ordine due secoli prima avesse

trovato documenti da ricattare il Vaticano, che quest’ultimo

avesse talmente consolidato il suo potere in occidente, a tal

punto che la fede dei credenti non sarebbe stata minimamente

scalfita, un potere, fra l’altro, rafforzato e imposto con la

sanguinaria macchina dell’Inquisizione.

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Finito di stampare

nel mese di dicembre 2011

da Seristampa – Palermo

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