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J. Rodolfo Wilcock Manuale di teatro

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J. Rodolfo Wilcock

Manuale di teatro

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INDICE

IL LUOGO DELL’AZIONE........................................................... 6

TEATRO DA ROMANZIERI ........................................................ 9

TEATRO IN VERSI...................................................................... 11

TEATRO IN PROSA .................................................................... 13

GLI ATTORI I............................................................................... 15

GLI ATTORI II.............................................................................. 17

GLI ATTORI III............................................................................. 20

I REGISTI...................................................................................... 22

IL PUBBLICO................................................................................ 24

LA FONDAZIONE DEL MONDO............................................. 26

IL RISO I........................................................................................ 29

IL RISO II....................................................................................... 31

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Introduzione

Sospesa nello spazio, la terra gira, piuttosto lentamente; una metà è nell’ombra, l’altra rischiarata dal sole, con le sue città, piccoli punti quasi invisibili, che aspettano il momen-to di varcare, uno dopo l’altro, la zona di penombra per sprofondare nel buio. Ed è pro-prio in quel momento, quando i bianchi punti sparsi che segnano le grandi città del piane-ta penetrano nella cintura grigia del crepuscolo vespertino, che ha inizio in ciascuno di es-si, e non in uno ma in numerosi appositi templi, la più strana, forse, delle antiche cerimo-nie umane, la rappresentazione teatrale. Un gruppo di persone, cioè, che per un dato pe-riodo di tempo e in un dato punto dello spazio, accetta di agire e parlare come agirebbero e parlerebbero altre persone, imperatori, schiavi o semidèi; mentre un altro gruppo di per-sone, che non sono di solito, nemmeno loro, imperatori, schiavi o semidèi, si siede attor-no a guardare e ad ascoltare. Non sappiamo in verità se sono gli attori o gli spettatori di questa irreale cerimonia a goderne di più l’illusione, ma possiamo dire invece che essa è una manifestazione non compresa nello stretto destino animale che, a un certo punto del-la sua storia, sarà stato il solo destino permesso all’uomo; che si tratta infatti di una mani-festazione spirituale e come tale suscettibile di sviluppi, nonché, al pari delle altra manife-stazioni magiche, di alti e bassi; ma in ogni caso non suscettibile di sparizione o soppres-sione, almeno finché sarà attivo e operante l’impulso da cui essa prende inconsapevole spunto.

Non è tuttavia per semplice vanto descrittivo che ci siamo allontanati dalla terra, né per puro piacere estetico che abbiamo voluto apprezzare nel suo insieme il vasto spetta-colo serale delle luci urbane, e in special modo di quelle più fantasiose che illuminano i teatri. Inutile dire che per capire meglio le cose che ci sono accanto bisogna alle volte guardarle da molto lontano. Certamente, un fenomeno di carattere mondiale non può es-sere giudicato in base a ciò che accade in una sola regione del globo, per quanto impor-tante sia questa regione. E oggi che il mondo, per eccesso di comunicazione, tende a di-ventare una sola massa, sembra logico dover considerare l’attività teatrale come la somma delle manifestazioni che a un certo momento hanno luogo in tutti i teatri del mondo.

Ma non è questa la principale osservazione che si può fare, dietro ai finestrini dell’immaginario satellite da cui, senza speciale preparazione o allenamento spaziale, ab-biamo scelto di contemplare la non sempre dignitosa rotondità del pianeta.

No; la cosa che più colpisce è la curiosa discrepanza esistente tra, da una parte, quell’immane luccichio di scene e platee, che via via si accendono alla stessa ora lungo un’intera fascia della terra, in continenti a volte nemici, in paesi apertamente contraddit-tori, nelle isole, lungo le coste degli oceani, come un fenomeno non meno incontenibile e generico di quello che, quasi contemporaneamente, costringe i vegetali a invertire il loro processo respiratorio, sicché invece di consumare ossigeno ne diventano i produttori; e d’altra parte, la futilità, l’intrascendenza, l’inumanità che sembrano caratterizzare, in que-sti ultimi anni soprattutto, una parte così notevole delle singole manifestazioni del sud-detto universale fenomeno. Non è possibile, non è pensabile che l’umanità si aduni per vedersi rispecchiata in cerimonie tanto futili, intrascendenti, inumane. L’umanità è per definizione assennata; essa è di rado masochista. Ci deve essere un errore in qualche par-te.

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Vero che non tutto ciò che si fa a teatro è inumano. In molte sale, ma soprattutto in quelle più moderne, è ancora possibile assistere alle sofferenze di Genoveffa di Brabante, delle due Orfanelle, di Melisenda la moglie del paladino, storie umane di esseri umani in-giustamente colpiti dall’arbitrarietà del destino; oppure, in un piano intellettualmente su-periore, alle umanissime perplessità di Sigismondo di Polonia o di Amleto di Danimarca. Per il resto, anche in una commedia di Sartre o di Fabbri c’è sempre un lembo di umanità ancora appeso alla futile struttura verbale, una mano o un cuore ancora attaccati alla sto-lida impalcatura concettuale; e non bisogna scordare che perfino una protagonista di Ten-nessee Williams, dal momento che viene impersonata da un normale essere umano, ha sempre due occhi e due orecchie e due mani, ciò che le conferisce, dica quel che dica e faccia quel che faccia il suo personaggio, una netta parvenza di umanità. Una parvenza però che già comincia a dissolversi nei personaggi di Beckett, quasi ad annunciare il gior-no in cui dovremo ascoltare senza imbarazzo un dialogo di affari tra due scatole o una scena di gelosia fra due palloni. Ma è talmente radicata l’attitudine dell’uomo a immede-simarsi in qualunque azione “teatrale”, che anche simili frivolezze potrebbero trascinarlo; solo che in questi casi l’interesse non può non essere igienicamente effimero.

Ad ogni modo, ci pare abbastanza simbolico il fatto che, nelle commedie appunto del nominato Beckett, forse il più famoso degli autori teatrali contemporanei, tutti i perso-naggi siano spiritualmente, nonché fisicamente, mutilati. Perché il teatro, oggi, è un’arte mutilata; anzi, orrendamente mutilata, come se i pescicani gli avessero mangiato non sol-tanto le braccia e le gambe ma anche una parte del corpo, lasciando soltanto in vita la te-sta, semmai il collo e un pezzo del petto. Infatti, al teatro manca adesso tutto ciò che si sono portate via le affini arti tecniche; il cinematografo, la radio e la televisione. Queste arti, appunto perché tecniche, non hanno un grande avvenire; non appena mancherà l’elettricità, verranno meno cinema e televisione: il teatro invece può farsi in una grotta con una candela. Forse per effetto di questa loro congenita debolezza, di questa loro mor-talità, le arti tecniche tendono naturalmente alla stupidità; così possiamo dire che, di ciò che per secoli fu il vasto corpo della rappresentazione mimetica, al teatro vero e proprio non sia rimasta altro che la testa. Questa non molto ingegnosa metafora può venire va-riamente sfruttata; ma la prima ovvia conseguenza è che una testa non riesce da sola ad adempiere tutte le funzioni del corpo. Se osserviamo una commedia di Shakespeare o di Lope de Vega Carpio, un’opera cioè scritta nel periodo in cui più sano e rigoglioso si di-mostrava il teatro moderno, vediamo che essa è, senza apparente sforzo, in grado di sod-disfare ognuno degli strati umani di quella società a cui le produzioni drammatiche veni-vano così disinvoltamente dedicate; e ciò non per calcolo dell’autore, bensì perché a quei tempi tali strati, materialmente tangibili, e separati, dal punto di vista spirituale invece si confondevano, e i lazzi piacevano al duca di Southampton quanto i bei versi al suo pala-freniere: la lingua era una sola, la Spagna e l’Inghilterra erano uscite dal medioevo come due comunità, oggi si direbbe, fondamentalmente democratiche. Poi (ma altrove anche prima), si fecero sentire le divisioni; da allora il teatro non ha più ritrovato la sua primiti-va, medievale integrità, nonostante Racine, nonostante Sheridan, nonostante Cechov: gli mancava sempre qualcosa, come alla pittura. E come alla pittura, rimasta senza soggetto per colpa della fotografia, al teatro doveva finalmente capitare di rimanere senza soggetto per colpa delle arti elettriche; non è dunque da stupirsi se ormai gli autori non sanno da quale parte prendere. Perciò non è un’operazione tanto vana quella di allontanarsi dalla terra per soffermarsi un attimo a guardare tutte quelle “luci della ribalta” che si accendono prima in Europa poi in America poi nel Giappone e nella Cina; e riflettere, nella distanza che cancella le ideolo-gie, su che cosa vogliono in realtà quei pubblici così diversi e così uguali. Ognuno può

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darsi una risposta differente, a modo suo; la sola cosa che gli si chiede è che essa sia una risposta “universale”, non troppo diversa dunque da quella che, parlando in fondo ai se-coli per ciò che era allora l’intero mondo civile, offerse ai suoi contemporanei il perspica-ce Aristotele.

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IL LUOGO DELL’AZIONE L’attività teatrale è in qualche modo collegata all’edificio in cui essa si svolge. L’effetto

psicologico delle caratteristiche architettoniche di una sala è più direttamente accertabile nel pubblico che non negli attori, i quali dovranno pur sempre (o quasi sempre) muoversi su un palcoscenico trapezoidale, tra i soliti attrezzi e davanti alla solita bocca di scena più o meno rettangolare. Lo “spazio” del pubblico è invece più vasto e più vario: nell’ottocento esso assume i lineamenti noti, una rigida stratificazione che sfacciatamente, (benché ancora naturalmente) ripete la stratografia sociale. Cancellare questi lineamenti sarà compito del novecento, in special modo dalla prima guerra mondiale in poi, per arri-vare alla situazione di oggi, in cui le vecchie carcasse ottocentesche, con i loro palchetti scomodi e la loro pretesa sempre frustrata di rassettare comunque una cangiante società sulla cangiante base del denaro, vengono adoperate solamente per mancanza di meglio; col risultato che, dove questo tipo di teatro tuttora predomina, l’attività teatrale spesso languisce. Ma questa in realtà è la causa, non l’effetto che logicamente non vengono co-struiti dei nuovi teatri se non c’è un pubblico per riempirli.

Molti anni fa scrisse Wiesengrund Adorno un saggio, di genere brillante, che sembra i-spirato alla commedia classica spagnola “Il grande teatro del mondo”; in questo saggio e-gli descrive appunto la rigida distribuzione dei gruppi sociali operata dal modello di teatro in quegli anni ancora prevalente. La parte più suggestiva del saggio, intitolato “Zur Na-turgeschiechte des Theaters”, è quella tuttavia in cui l’autore studia l’applauso come fe-nomeno di partecipazione, da parte del pubblico, al sacrificio che viene eseguito sulla scena. Non per nulla la forma apoteosica di questa manifestazione è di solito l’applauso prodigato al singolo concertista o “virtuoso”; il quale nella sua singolarità concreta più chiaramente ha gli attributi del sacerdote che esegue il sacrificio, non si sa bene se di se stesso, del pezzo, dell’autore del pezzo, dello strumento o di tutti insieme.

Ma è anche vero che l’indagine di Adorno sui sentimenti e sugli atteggiamenti dei membri del pubblico, a seconda della loro posizione “gerarchica” in questo grande teatro del mondo (oggi quasi del tutto scomparso, benché amorevolmente ricomposto ogni anno nel Festival di Spoleto e in altri simili ricoveri di Natalia), serve soprattutto a spiegare in parte perché era diventata così assolutamente imperativa, se si voleva che l’attività teatra-le ritrovasse quel tanto che le spetta dalla pubblica attenzione, l’abolizione da un canto del velluto rosso dei palchi e dall’altro della materiale nudità delle gallerie, quei troppo chiari simboli di privilegio sociale. E a ricordarci, sia pure indirettamente, che è proprio in quei paesi dove ancora sussiste la volontà di puntellare le prerogative sociali ottocente-sche, come la Spagna, l’Italia e il Portogallo, che il teatro spira soffocato sotto la polvere gialla delle travi tarlate che quei puntelli vorrebbero reggere.

Non che il teatro non possa fiorire tra i privilegi, se per secoli quello è stato il suo indo-lore destino. Ma erano i privilegi dei forti, che nel teatro come in qualunque altra cosa po-tevano allora infondere una parte della loro forza; oggi, nei citati paesi, i detentori delle prerogative sono invece i più deboli, dal momento che vivono minacciati da tutte le parti. Minacciati perfino dal teatro; sicché i palchetti di velluto rosso non rappresentano invero una compensazione sufficiente.

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E qui, misteriosamente, come soltanto può accadere con una metafora, scaturisce dalla vecchia immagine ripresa da Adorno tanti anni fa, quella del grande teatro del mondo, la spiegazione di perché, perfino a malincuore, perfino quando si è reazionari e disprezzatori della massa, ormai nessuno riesce, non soltanto nei teatri veri e propri ma anche in quelli più vasti della metafora, a creare un ordine che non sia quello chiamato democratico: se i palchi rimangono vuoti, per indisposizione mentale e fisica dei legittimi tenutari, e gli spettatori di galleria si sono dimostrati in grado di pagarsi la platea, tanto vale che tutto diventi platea.

Una volta ripudiato lo schema ottocentesco e borghese, non era da escludere la possibi-lità che il teatro, nelle sue linee esterne, si adattasse se non altro per inerzia a quelle piut-tosto semplici del suo più prossimo parente democratico, la sala cinematografica. Infatti sono stati costruiti molti teatri che sembrano un cinema, così come nei paesi poveri molti teatri erano stati convertiti qualche anno prima, in cinematografi. Ma quella era una solu-zione provvisoria. La forma definitiva del teatro moderno è ancora da scoprire, e ciò per ragioni chiare: prima si dovrà riordinare stabilmente la società, troppo sconvolta dalle scoperte della tecnica (le quali a un certo punto dovranno pur fermare la loro corsa, per ragioni di sanità e di economia, o per altre ragioni più catastrofiche); soltanto allora si po-trà accertare quale è la funzione del teatro nella nuova società, e su questa base verranno costruiti gli edifici ad essa più adatti.

Intanto si fanno delle prove. A un certo punto, per esempio si diffuse in molti paesi la moda del teatro circolare; il quale non è in essenza che una specie di piccolo circo nel cui centro si svolge l’azione drammatica, con gli spettatori seduti attorno. Questa disposizio-ne ha dei vantaggi, e anche alcuni svantaggi abbastanza ovvii, come quello di non sentire la voce degli attori, visto che in ogni momento essi debbono volgere le spalle alla metà del pubblico; oltre al fatto che gran parte del repertorio classico, così concepito, diventa teatralmente sbilanciato o addirittura irrappresentabile. Ma questa abitudine che ha sem-pre avuto l’umanità, di voler rovinare il suo passato, non è dopo tutto che un segno di continua vitalità.

A questo riguardo, il teatro forse più stupefacente più moderno e tutto sommato più inutile è probabilmente quello di Tamper in Finlandia. Non è facile descrivere con parole questa costruzione, anche perché finora non si era mai visto nulla di simile. In primo luo-go, è un teatro all’aperto dedito a un genere cioè di spettacolo che in Finlandia può sem-brare particolarmente superfluo. Immaginiamo, sopra una base circolare, una specie di immensa conca o mezza botte storta, come un cappello da spiaggia al rovescio, o come una di quelle poltrone insolite che fabbricano così volentieri gli scandinavi: su questa va-sta conchiglia, inclinata si stende la platea, come un ventaglio di file curve di poltrone, a cui si accede mediante scalette mobili.

Tutt’attorno, la bella foresta vera di abeti, con casette, prati, riflettori, eccetera. Il van-taggio pratico di questo teatro è che ogni volta che cambia la scena, tutto il complesso della platea, come un agile mollusco gira sulla sua base, seguendo gli attori che si sposta-no dalla casa al giardino, dal giardino al bosco, dal bosco a un’altra casa. Il che sembra abbastanza ridicolo, oltreché vano: basta dire che una delle casette del bosco è tagliata a metà, perché se ne possa scorgere l’interno quando vi entrano gli attori. Una cosa è certa, che a Temper, non potranno mai dare quella commedia di Ibsen che ha per sfondo l’incendio di un bosco.

Non è questa la strada da raccomandare agli architetti. Il teatro occidentale è nato, ai tempi appunto dell’autore de “Il grande teatro del mondo”, in un cortile, in un “patio”, con palchetto per gli attori, una galleria attorno per gli aristocratici, e la terra pestata del cortile per il popolo. Oggi è scomparsa la galleria degli aristocratici, ma il teatro può an-

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che andare avanti così con un palchetto per gli attori un cortile e qualche sedia per il po-polo. Qualcuno domanderà: e se il popolo non vorrà entrare in quel cortile? Siccome il gusto del teatro è una delle costanti umane, di solito il problema non si presenta; quando si presenta, tuttavia, è pressoché insolubile.

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TEATRO DA ROMANZIERI Curioso paradosso dei tempi: proprio quando il romanzo si dichiara in crisi, tutti i lette-

rati si accingono a scrivere dei romanzi; e invece nel campo del teatro, dove la crisi, al-meno ciò che si può chiamare la “crisi psicologica”, non esiste, pochissimi sono gli escur-sionisti, e questi diffidenti e quasi melanconici, come chi sapesse di dover intraprendere ogni volta un viaggio attraverso il deserto, un viaggio che potrà essere lieto o sfortunato ma che comunque non avrà testimoni. Ciò anzitutto perché il pubblico colto si attacca a quanto pare disperatamente alle forme di espressione del mezzo secolo precedente; ed è soltanto quello incolto a disinteressarsi del passato e ad accettare quel che gli offre la sua epoca.

Non è che l’idea stessa del romanzo inteso come narrazione possa mai venir meno, dal momento che la narrazione è attività connaturale a tutti gli uomini che hanno l’uso della parola; bensì la stranissima idea novecentesca che i narratori, oltre a raccontare ciò che fanno, debbano anche spiegare ciò che “pensano” le persone. Poiché nessuno sa ciò che pensa nessuno, questa fantasia non poteva durare. Ma il teatro, che non si occupa dei re-conditi “pensieri” della gente, avrebbe dovuto resistere incolume alle più violente ondate dello psicologismo fino a qualche anno fa dilagante; eppure anch’esso ne è uscito malcon-cio, forse perché non aveva abbastanza vita propria. Il fatto è che a un certo punto i drammaturghi si misero a scrivere drammi che avrebbero dovuto essere romanzi psicolo-gici; poi essi stessi si accorsero che la cosa non andava per niente, e a poco a poco decise-ro di lasciare perdere l’assurdo sogno. L’esempio più notevole di questa inspiegabile con-fusione dei generi sarebbe il “Guy Domville” di Henry James, intollerabile a teatro, piace-vole - ma soltanto piacevole - alla lettura: un racconto cioè di Henry James da cui è stato tolto il cinquanta per cento delle solite argomentazioni e motivazioni psicologiche, e il cinquanta per cento restante trasferito al dialogo; ciò che faceva domandare a George Bernard Shaw, la sera della prima, mentre passeggiava per il “foyer” del teatro: “Ma avete mai sentito qualcuno fare dei discorsi simili?”.

È proprio di questo teatro, di cui si avvertono gli ultimi sussulti - e non soltanto in quella sala che porta il nome di un siciliano ma anche in quelle elisie e sopra-elisie dove non di rado di amore si sbadiglia - che dobbiamo ancora ripetere con Shaw: “Avete mai sentito qualcuno fare dei discorsi simili?”. Badando però a “ciò che vien detto”, non a “come vien detto”, giacché lo stile in sé, trattandosi appunto di teatro, deve per forza es-sere lontano dalla natura, ma non da questo si può dedurre che anche la comunicazione debba essere antinaturale. Perciò, in fondo, anche se non lo faceva negli stessi termini, E-liot criticava l’Amleto di Shakespeare: perché si accorgeva che era stata la vasta influenza, specie nell’epoca romantica, di questa suprema opera del supremo drammaturgo a giusti-ficare in parte la susseguente confusione fra psicologia da romanzo e psicologia da teatro.

La vita non ha quasi niente a che fare con i pensieri delle persone, se non quando que-sti supposti pensieri si traducono in azioni; il teatro dunque, che è specchio delle azioni della vita, che potrebbe farsene di tali pensieri? Che potrebbe, infatti, farsene? Con le do-vute precauzioni, questa domanda può assumere un’altra forma: “A teatro, che c’entra Dio?”. Dandogli cioè questo senso: che la convenzione narrativa del romanzo, iniziatasi con l’osservatore imparziale benché umano delle Mille e una notte e altri racconti simili, a-

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veva innalzato questo narratore, “la terza persona”, allo stato di una vera divinità capace di leggere nei più profondi strati del pensiero umano; tanto è così che in inglese quello della terza persona viene letteralmente chiamato “il punto di vista di Dio”. È questa divi-nità onnipresente e onniveggente che a teatro non sanno dove ficcare i romanzieri; e fini-scono col farla parlare per bocca dei personaggi: lo spettacolo non è divertente, ed è logi-co che se accanto a questo teatro c’è un cinema aperto, il pubblico entri più volentieri nel cinema, a vedere un po’ d’azione e di oggetti in movimento.

Naturalmente, quando il pubblico non s’interessa più di teatro, appare la censura, che dopotutto è una delle facce dello stesso pubblico, e chiude i teatri. Le due cose vanno in-sieme, si muovono con l’onda della storia, e da essa vengono trascinati anche gli autori, sicché non si può dire, ogni volta che il fatto si presenta, chi sia stato il primo a decidere la sospensione temporanea dell’attività teatrale, se il pubblico o il drammaturgo: non cer-to la censura che segue troppo da vicino i gusti del pubblico per essere considerata un’entità indipendente. Si è visto chiaramente in Inghilterra: dopo la travolgente eruzione elisabettiana, dopo Beumont e Fletcher e Otway, non ci sono quasi autori di rilievo; l’opera massima di teatro in quell’epoca è “Samson Agonistes” di Milton, la quale, appun-to perché scritta in uno stile che non ha niente a che fare con il teatro, nasce arditamente e consapevolmente irrappresentabile. Ed è allora che la censura chiude quei teatri di Lon-dra, che pochi decenni prima recitavano Shakespeare davanti al solo pubblico che sia mai riuscito a capirlo direttamente. Chi è stato, Otway o il pubblico o la censura religiosa a fare chiudere queste porte? Non ha alcuna importanza, visto che qualche anno dopo verrà la Ristorazione, con “La moglie campagnola” e “La scuola dello scandalo”, a riaprire le porte e le bocche chiuse.

Perciò sarebbe il caso di dire che la sola cosa che gli autori di teatro possono fare, per silenziare la censura, è di dimostrare un po’ più di vitalità. Se apriamo il copione di una commedia di quelle che si fanno oggi, e non solo in Italia ma in tutto il mondo, troviamo subito dei discorsi come questo, Giulia: “E sai cosa pensavo mentre tu mi baciavi, na-scondendo il tuo ribrezzo non meno bruciante però del mio disgusto? Lo stesso che per più di trent’anni avrà dovuto pensare tua madre, lo so, quando accettava i riluttanti ab-bracci di tuo padre! Che non era me che baciavi, ma mio fratello! Dal giorno che egli ti diede uno schiaffo davanti a tutti perché mi trascuravi, hai proiettato la mia persona sulla sua! Perciò gli hai fatto perdere l’impiego alla Rinascente, sparlando di lui davanti al commendatore, scaricando su di lui l’odio che in realtà senti verso di me! Perciò, quando accarezzi le mie guance profumate credi invece di accarezzare le sue guance rasate!”. Questo, la censura non lo fa passare. Ma basta entrare in un cinema-varietà per vedere, immancabilmente, qualche equivoca “macchietta” con un uomo grassottello travestito da donna che si fa accarezzare le natiche da un altro uomo ugualmente brutto, strizzando in-tanto gli occhi verso il pubblico come a dire: “Non è poi che mi dispiaccia”. E questo la censura lo fa passare; tanto, sono già due tremila anni che lo scherzo è di scena. Ma lo la-scia passare, come osserva giustamente Sandro de Feo, perché quel pubblico urlerebbe se gli togliessero la cara scenetta di varietà; anzi, perché quel pubblico è la censura e la cen-sura è quel pubblico. Nessuno invece urlerebbe, di cuore almeno, se gli vietassero di a-scoltare il suddetto monologo di Giulia.

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TEATRO IN VERSI Dev’essere stato un momento importante, nella storia della letteratura drammatica del

novecento, quello in cui T. S. Eliot affermò che il solo teatro possibile era il teatro in ver-si. Ora che da quel giorno sono passati tanti anni, non è impossibile capire il vero senso del divieto. A quell’epoca non c’erano infatti autori degni di nota, tranne W. B. Yeats, Hoffmanstal e forse qualche altro, che scrivessero commedie in versi. In inglese, tutti i tentativi dell’ottocento erano falliti, dall’appassionata tragedia romantica “I Cenci” di Shelley alle belle tragedie di Swinburne, come “L’Atalanta in Calydon”, tanto eccelsa quanto irrappresentabile. In Francia, la tradizione del teatro poetico si spegneva nella stu-pidità di Rostand (per cui un bacio era “un point rose qu’on met sur l’i du verbe aimer”). In Italia, le compagnie di teatro si chiamavano ormai, semplicemente, compagnie di prosa.

Non è il caso di ricordare gli argomenti addotti da Eliot per dimostrare la superiorità del teatro in versi; nel campo della critica letteraria, con un minimo d’intelligenza si può dimostrare qualunque cosa; ciò che conta però è l’intuizione, la spinta soggettiva che ci fa preferire una tesi a un’altra. Un buon critico non perde tempo a dimostrare la validità del-le sue predilezioni. Eliot voleva, adesso lo capiamo, che si ritornasse al teatro poetico, perché quello in prosa era giunto a un brutto bivio. La strada che aveva raggiunto le vette di Cechov, andava a finire nella palude, quasi prevedibile, di un Beckett. La strada di Ib-sen prometteva le turpitudini di un Sartre. La strada della commedia spensierata portava a Ionesco. Bastava leggere un dramma qualsiasi di un anonimo elisabettiano e confrontarlo con una normale commedia di G. B. Shaw, per misurare fino a che punto si era allontana-ta la produzione teatrale, tra il 1910 e il 1920, dalle sue alte origini.

Essere moderno in arte, implica la capacità di predire l’avvenire; di fare ciò che dopo qualche anno faranno gli altri. Ed Eliot era il più moderno dei poeti europei; a lui toccava di descrivere, ora che dalla poesia lirica aveva deciso di rivolgersi alla poesia drammatica, le fattezze del nuovo teatro. Il destino non vuole tuttavia permettere ai teorici di portare alla pratica le proprie teorie: il teatro in versi di Eliot, benché rispettabile, non è il teatro che Eliot, a quell’epoca, avrebbe voluto scrivere. Questo, anzitutto, perché non basta es-sere il più nobile poeta contemporaneo per essere un uomo di teatro. Con altre parole: perché non si può fare del teatro (né della narrativa, né della pittura, eccetera) con del buon materiale retto soltanto da una teoria. Il teatro si fa con personaggi, con esseri uma-ni, i quali si scontrano sul palcoscenico come si potrebbero scontrare nella vita reale o i-deale a loro attribuita; e sono quegli scontri a creare l’azione drammatica. Il compito dei versi è soltanto di “contribuire” affinché questi scontri siano anche memorabili. Invece nelle commedie di Eliot soltanto i versi sono memorabili.

Questo sta a dimostrare, se si vuole, una prima osservazione: non è vero che il dramma in versi sia preferibile a quello in prosa perché nel primo ci sono due manifestazioni da apprezzare, l’azione e la poesia, equilibrate in modo che le debolezze dell’una vengano compensate dai pregi dell’altra. Infatti, laddove vien meno l’azione, la poesia resta appesa alle quinte come un ingombro di broccati e stoffe dipinte. E per azione non intendiamo movimento ma semplice azione drammatica, la quale può essere abbastanza statica, come nel classico esempio dei Persiani.

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Eliot difendeva il teatro in versi perché esso significava, se non altro, un modo di porre fine all’incredibile “discorsività” del dramma novecentesco. La poesia impone concisione. Se l’autore vuole ordire una discussione di quattro pagine, in versi, sull’avvenire dell’uma-nità o sui torti dello Stato, nulla glielo vieta; non c’è bisogno però di essere un esperto per capire che l’impresa è, se non disperata, abbastanza difficile, dal momento che solo Dante ci è riuscito. Le difficoltà sembrano invece allegramente svanire non appena il discorso si lascia andare alle nascoste volgarità della prosa quotidiana. Con T. S. Eliot, sommo ditta-tore della letteratura moderna, sarebbe bastato il suo divieto della commedia in prosa per sopprimere chilometri di noia scenica; ma non sarebbe invece servito ad assicurare nem-meno quella minima percentuale di prodotto drammatico necessaria a mantenere la fin-zione di un’attività teatrale italiana.

D’altra parte è ovvio che le commedie di Sheridan, Congreve o Musset non guadagne-rebbero niente a non essere scritte in prosa; eppure sono opere valide, più convincenti e magari più poetiche di molte altre scritte in versi; oltre all’ovvio vantaggio di essere più teatrali. “Le Balcon” e “Les Bonnes” di Genet sono commedie in prosa; chi conosca i de-cadenti versi dello stesso autore, dovrà ammettere che è stata una fortuna se il divieto di Eliot non è riuscito a intaccare queste due notevoli produzioni. Così come nel campo del-la morale non esistono più leggi, sicché resta soltanto da sperare nella buona condotta in-dividuale, così nel campo dell’arte è assurdo pretendere, come Eliot, di far rivivere qual-che vecchia convenzione o tradizione, quando la sola cosa che ci è oggi permesso di a-spettare da un artista è l’individuale e gratuita volontà di affermare, come diceva James Joyce, la forza dell’intelletto umano.

Ormai sarà questa spinta interna a dare forma all’opera; e saranno le interne esigenze della commedia a decidere se questa deve esser composta in prosa o in versi. Dai giorni in cui Eliot dichiarava la superiorità del teatro poetico, molte opere drammatiche sono state scritte, e non tutte in prosa. Ma quelle che sopravviveranno, se sopravviviamo, non sono molte; e fra queste, finora, una o due soltanto sono in versi. Il che, tutto sommato, non dimostra nulla; sarebbe come dire “Il 17 aprile 1961, a Roma, non è stato battezzato al-cun fanciullo di nome Roberto”. Quale conseguenza di carattere generale si può trarre da un’informazione che oltre a essere particolare è negativa?

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TEATRO IN PROSA La difficoltà più ovvia del teatro in versi è quella della recitazione. A prima vista, gli

attori contemporanei non si direbbero di solito in grado di dire nemmeno un modesto epi-gramma rimato: sembrano credere che la poesia sia una sostanza orribile la quale dev’essere emessa in piena sofferenza, con la voce di chi subisce i tormenti del Purgatorio e geme: “Siena mi fe’, disfecemi Maremma”; oppure con una punta d’ironia e affettuosa compassione verso l’autore. Ora che si è perduta la tradizione della scultura in porfido, non si fanno più statue di porfido; allo stesso modo, si potrebbe dire, se gli attori non im-parano a recitare i versi, non ci può essere teatro in versi. E se c’è, sarà un teatro destina-to alla lettura, come quello di Seneca.

Non basta tuttavia che esista una tradizione dell’arte di recitare i versi: bisogna che questa tradizione sia la stessa per cui i versi furono composti, altrimenti l’attore si troverà a dover chiudere un buco quadrato con un tappo rotondo. La Comédie Francaise può fare ancora Racine, perché i suoi versi sono stati scritti per essere recitati pressappoco in quel modo; l’Old Vic invece, o il teatro di Stratford, non riescono a presentare una versione convincente di Shakespeare, perché i suoi versi furono creati per un genere di recitazione non soltanto perduto ma a quanto pare intollerabile all’orecchio moderno, una specie di canto gregoriano enfatico e complesso che doveva essere l’equivalente vocale anglosas-sone della volubile mimica latina. La soluzione di moda è recitare Shakespeare come se l’avesse scritto Tennyson (per esempio John Gielguld), ma il risultato è una delle tante i-dee o chimere di cui si nutre la cultura di massa; non meno di Seneca, Shakespeare, Mar-lowe e soprattutto Webster sono ormai autori da leggere, non da rappresentare. Almeno finché durerà l’odierna generale convenzione chiamata realistica o di “classe media”.

Ché d’altronde non si può chiedere a un attore di essere anche uno storico o un archeo-logo. L’attore vive nel presente; forma parte viva della società in cui egli si muove; è lì per tradurre materialmente le immagini che un altro membro della stessa società ha voluto creare, con i normali mezzi dell’epoca. La sua intelligenza può coprire nel tempo, dicia-mo, gli ultimi cinquant’anni; e se ciò gli è permesso, anche i prossimi venti. Fuori tuttavia di questo periodo, l’attore deve muoversi nel buio; qui tocca fondo, là si sommerge, a se-conda della maggiore o minore somiglianza delle convenzioni teatrali fra un’epoca e l’altra. Egli può recitare una commedia di Molière, ma non una tragedia di Robert Greene; può fare un “entremés” di Cervantes e non un “auto sacramental” di Calderón; gli riesce Menandro e gli sfugge Sofocle. Ma lo stesso autore che non sa come risolvere un monolo-go dell’Alfieri, potrebbe trovarsi a suo agio nell’ambito di una tragedia in versi scritta da un suo contemporaneo, purché essa stilisticamente sia davvero contemporanea, e non un’imitazione di quelle che scriveva Alfieri.

Il che equivale a dire che dopotutto la temuta differenza fra prosa e poesia, a teatro, quasi non esiste. Da una parte c’è il cinematografo e la televisione, dove essere “naturale” sembra essere la regola, giacché per dire stupidaggini l’atteggiamento e la voce più adatti sono quelli della vita corrente. Dall’altra parte c’è il teatro, un palcoscenico sul quale vengono dette cose che in qualche modo, sia per la grazia che per la poesia che per la pro-fondità, dovrebbero essere memorabili: dirle con la stessa voce e la stessa faccia con cui si chiede al droghiere un etto di salame, sembra se non altro una perdita di tempo.

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Ciò premesso, la distinzione fra prosa e versi diventa quasi una distinzione tipografica (nel teatro, ripetiamo, contemporaneo); la differenza è molto netta invece fra la prosa di oggi e il verso di altri secoli, “perché non sappiamo come lo si doveva recitare”. Per una serie di circostanze storiche, collegate all’evoluzione del gusto, il verso di oggi non può essere troppo regolare, per non dare noia all’orecchio; non può adoperare forme e giri di parole estranei a quelli correnti nella vita contemporanea (nella conversazione colta, va-leva l’ideale di Henry James per la prosa), perché in ogni epoca sono quelle forme a costi-tuire il veicolo più economico e efficace del pensiero; inoltre non può venir meno, a tea-tro, alle esigenze teatrali. Detto questo, si avverte subito quanto vicina sia la buona prosa drammatica alla poesia, e viceversa.

In altre parole: dove non esiste una tradizione fissa di teatro in versi regolari (ma dove esiste poi? Non è che la tradizione di Corneille e Racine vada oltre Corneille e Racine), la poesia drammatica dovrà essere abbastanza sciolta da sembrare piuttosto un più intenso e più convincente discorso in prosa (come nel “Cocktail Party” di Eliot); oppure la prosa dovrà condensarsi e raffinarsi fino a diventare, se possibile con l’aiuto oplastico dell’azione scenica, qualcosa di molto simile alla poesia (come in “Donna Rosita la Solte-ra” di Federico García). I due processi tendono verso lo stesso piano ideale: un teatro re-citabile, memorabile e trascendente; di cui gli esempi non sono molti, ma coincidono tutti con i soli esempi di buon teatro contemporaneo.

Senza questa qualità poetica, la quale può essere raggiunta indistintamente con la prosa o con il verso, il teatro non è altro, nel migliore dei casi, che spettacolo, e le sue possibili-tà d’interesse non arrivano oltre le capacità creative di un regista. Molti hanno creduto, dai tempi di Strindberg in poi, che il dramma si può reggere su un “messaggio”. Ciò non è di solito vero, ma l’idea ha trovato vasta accettazione sia fra gli autori che fra il pubblico; e questo perché oggigiorno tutti sembrano provare un violento desiderio di trasmettere e ricevere messaggi, la quale operazione permette, fra tante altre cose, di dimenticare che l’arte si deve reggere soprattutto sulla bellezza, più scarsa oggi dell’ambra. Così è stato accolto con piacere, anni fa, il messaggio di Sartre, il quale era più o meno che bisogna es-sere comunisti ma non iscriversi al partito, oppure che quando si è giunti a un bivio biso-gna scegliere una delle due strade. Questi messaggi sono però come le parole d’ordine dei militari, che servono per un giorno e poi scadono; perciò non conviene edificarvi sopra una commedia. Si sa invece, nemmeno i dittatori lo negano, che la poesia non scade.

D’altro canto non sarà tanto da rimpiangere il fatto che, se venissero soppressi dalla let-teratura teatrale quei numerosi drammi i quali si reggono su un messaggio politico (invece che morale), sul semplice spettacolo o sui gusti morbosi dei morbosi, quella letteratura diventerebbe ancor più smilza e sotterranea. Il teatro non può fare la concorrenza al ci-nema o alla televisione, perché esso si occupa di cose sublimi o graziose, e quelle altre manifestazioni si occupano delle stesse cose ma imbestialite. In realtà, se in Inghilterra e in Francia è ancora così evidente l’attività teatrale, ciò è perché una parte del pubblico va a vedere a teatro (attratto forse dagli ottimi attori) ciò che potrebbe ugualmente vedere sugli schermi. Il pubblico italiano, più realista, più - come dicono alcuni - “sbrigativo”, preferisce gli schermi. Questa assenza lascia i teatranti in piena libertà di presentare “sol-tanto” ciò che non si può presentare sugli schermi. Ma questo, considerato da un punto di vista anch’esso realista, potrebbe perfino essere un bene. Si riduca l’attività teatrale a quelle poche opere contemporanee (e a quelle classiche ancora vive) abbastanza poetiche da meritare il sempre difficile allestimento, e il teatro ne trarrà beneficio. Si disprezzi a-pertamente il pubblico di massa, lo si scacci via dal teatro, e si aprano le porte, se possibi-le senza pagare, a chi rispetta la poesia. Anche il teatro deve prendere la via dell’ascetismo.

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GLI ATTORI I La prima cosa che l’uso ormai stabilito chiede a un attore, il quale si accinge a recitare

una parte, è appunto ciò che si chiama la capacità di “vivere la parte”. Egli deve cioè, se vuole fare una bella e durevole impressione sul suo pubblico (“che non capisce e tuttavia applaude / lassù nelle sue buie gradinate”), cercare di non farsi vedere nelle vesti di una persona che sta recitando, bensì in quelle di un essere che vive, agisce e subisce nella car-ne le alternative di una vicenda quanto mai reale e vivente. Orbene, questa esigenza è talmente straordinaria, e di solito accettata con così poche e trascurabili riserve, che infat-ti merita di essere analizzata, non meno di qualunque altro presupposto sul quale si voglia fondare una consapevole attività teatrale.

Che significa in realtà quest’obbligo, per l’attore, di vivere la parte che gli è stata asse-gnata? Significa anzitutto immaginare un contesto logico e comprensibile, nel quale possa venire naturalmente inserita l’azione che si svolgerà sulla scena.

Questo contesto glielo fornisce, fino a un certo punto, la commedia stessa; compito dell’attore (e più spesso del regista), così dicono almeno i moderni, è appunto quello di completare e arrotondare i dati forniti dal copione. Se si tratta, per fare un paragone, di un giovane che si ribella all’autorità paterna, nell’ambiente di una qualunque famiglia con-temporanea, l’attore dovrà cercare d’immaginare qual è stata la sua vita familiare fino a quel momento (cioè il momento dell’azione teatrale), quali sono i propri gusti e quali i gu-sti del padre che, oltre ai particolari esplicitamente descritti dall’autore, possano contri-buire a creare e a giustificare il conflitto. Per esempio suppone, anche se di questo la commedia non fa alcun accenno, che a lui piace di ascoltare i concerti di musica classica alla radio, quando il padre vuole ascoltare invece le trasmissioni sportive. Tutto ciò aiute-rà a creare un “clima”, e in questo clima diventerà quanto mai facile e naturale per gli at-tori recitare, per la regìa dirigerli, per il pubblico capire l’azione e i suoi moventi.

Da dove viene questo bisogno di “immaginare un contesto”? Viene anzitutto dal fatto che gli atti e i gesti non hanno di solito un senso definito, se non sono visti entro un loro contesto o ambiente o insieme di circostanze particolari; circondati, sostenuti e vivificati da una serie di dettagli più o meno immediati che determinano il loro significato. Dice Wittgenstein (“Investigazioni filosofiche”, I, 539): “Vedo un ritratto e in esso una faccia che sorride. Che cosa faccio, quando considero questo sorriso, prima come un sorriso gen-tile, poi come una smorfia di malignità? Non è che io immagini spesso il soggetto in un contesto (Umgebung) spaziale e temporale, che ora è gentile, ora è maligno? Posso per e-sempio supporre che la persona del ritratto sorride mentre guarda giocare un bambino; oppure mentre assiste alle sofferenze di un suo nemico. E ciò non cambia per il fatto che io possa sempre prendere quella situazione, a prima vista “gentile”, e spiegarla diversa-mente, in seno a un più ampio insieme di particolari. Se non appaiono circostanze speciali a capovolgere la mia interpretazione, dirò che quel sorriso è gentile, lo chiamerò “gentile”, e agirò di conseguenza”.

Il che fa pensare immediatamente al sorriso della Gioconda, e anche a quelli di tanti al-tri grandi ritratti; i quali sono da sempre stati chiamati “misteriosi”, appunto perché non si riusciva a determinare il loro “Umgebung”, il loro contesto: non si sa che cosa sta guar-dando la Gioconda (a meno che non si voglia pensare che sta guardando noi, dunque ri-

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dendo di noi, che è sempre un’interpretazione), non si sa pertanto di che cosa sorride, in-fatti non si sa nemmeno se il suo sia davvero un sorriso. Guardate invece questo altro ri-tratto di un inglese, diciamo Constable: è una madre che guarda giocare i suoi figli in un prato; date le circostanze, il suo sorriso non si potrebbe che a stento considerare misterio-so: senza un’ombra di dubbio capiamo il suo significato.

Allo stesso modo, un attore non può piantarsi in mezzo alla scena e sorridere a vuoto; da solo, il suo sorriso diventerà una smorfia incomprensibile. Ed è appunto a causa di questa ambiguità degli atteggiamenti umani che sono nati, sotto la spinta di quelle opere di teatro che chiameremo “dalla descrizione incompleta”, i diversi “sistemi” e “metodi” della interpretazione moderna. I quali si possono riassumere nella suddetta imposizione, quella dell’attore di “vivere la sua parte”: se non la capisce lui, se non sa lui perché fa tut-to ciò che l’autore lo costringe a fare, come faranno a capirlo gli spettatori? Ma questa era un’esigenza in realtà tutta nuova; fino a quell’epoca il teatro era stato una cosa, per dire poco, abbastanza diversa: gli attori “recitavano” la loro parte, non la “vivevano”. E quel genere di recitazione è stato pur tuttavia considerato per secoli soddisfacente, e spesso insuperabile. Da dove proveniva dunque questo nuovo bisogno di far “vivere la parte” a-gli attori?

Semplicemente dal fatto che l’arte teatrale stava degenerando. Così come la pittura comincia a degenerare quando la sua funzione apparente viene intaccata dalla fotografia, così il teatro degenera quando la sua apparente funzione è intaccata dal cinematografo: Ben Jonson non avrebbe mai chiesto al ragazzo attore, da lui compianto in una poesia, che nell’interpretare la parte di Desdemona egli “vivesse”, fra tante altre, la circostanza di essere innamorato, o innamorata, di un negro. Racine non chiedeva alle sue Fedre di fare prima un viaggio a Creta, con visita d’obbligo al palazzo del labirinto, né di studiare i co-stumi delle mogli dei pastori greci, per “vivere” meglio la parte della sposa di Teseo. Nemmeno per sogno: Shakespeare e Racine danno nelle loro opere “tutto” il contesto ne-cessario; la libertà di aggiungere ad esso non fosse che un millimetro di vita “vissuta” o “reale”, a quei tempi non era immaginabile, ai nostri tempi è un’eresia; ma questa parola è ancor troppo nobile per bollare una così bassa manifestazione di volgarità. E anche di a-berrazione mentale, poiché, è davvero concepibile che si voglia fare di un’attrice un’archeologa, di un attorino uno psicologo?

A questo però vorrebbero giungere i diversi ”sistemi” e “metodi” in voga; per fortuna non ci riescono, e quando ci riescono è soltanto per convertire - luminosa, televisiva idea! - il Giulio Cesare in una lotta di teddy boys, Romeo e Giulietta in un balletto di portuali. Il ri-sultato giustifica lo sforzo ed esonera i presunti teatranti da qualunque responsabilità tea-trale. Se le cose debbono per forza stare così, tanto vale che il vero teatro ridiventi ciò che era ai tempi di Seneca, una pura attività letteraria da risolversi soltanto nella lettura privata.

Un commediografo che è senz’altro fra i migliori della nostra generazione, ha ripetuta-mente affermato di scrivere unicamente scene, dialoghi e monologhi che possano essere recitati dai peggiori attori immaginabili. Questa sua paradossale affermazione è in realtà la più orgogliosa dichiarazione di superiorità che si possa fare; poiché solo i grandi classici possiedono quella curiosa capacità di venire a galla tanto più fulgenti e tanto più impec-cabili quanto più l’attore, atterrito dalla suprema bellezza del suo compito di comunica-zione poetica, si convince di essere (per poi agire di conseguenza) “soltanto un palo vesti-to con in punta una buona voce”.

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GLI ATTORI II Nel suo racconto “Il ritratto di Mr. W. H.” Oscar Wilde fa una calda difesa della vec-

chia convenzione del teatro elisabettiano (e anche quello di altre più antiche civiltà) in cui tutti gli attori erano uomini, e le parti femminili venivano affidate a dei giovinetti. Se tra-lasciamo i veri motivi di carattere per così dire propagandistico che spingevano l’abile ir-landese a occuparsi di un simile argomento, c’è da osservare che la sua polemica non è soltanto un’apologia piuttosto inutile dell’ermafroditismo, ma riesce allo stesso tempo a toccare, con quella sua specie di intuizione che chiameremmo femminilmente penetrante in opposizione alla virile ottusità dei professori, alcuni dei punti più scottanti della con-temporanea problematica teatrale.

Troppo facilmente infatti si dimentica, se non altro per il disgusto che oggi suscitano gli aspetti più esagerati dell’incessante campagna estetizzante dell’irlandese, che egli era an-zitutto un uomo molto intelligente. Si lagnava Wilde, forse con ragione, di avere messo tutto il suo genio nella sua vita e soltanto il talento nelle opere; ciò non toglie però che quasi tutti i paradossi, che con pesante vivacità costellano queste ultime, siano ancora più vitali che le troppo apodittiche dimostrazioni di uno Shaw o di un Samuel Butler, per cita-re due dei suoi più intelligenti contemporanei; e senz’altro essi riescono a toccare più spesso e più da vicino la elusiva verità estetica. E questa sua teoria dei giovanetti-attrici ne costituisce una dimostrazione.

È noto che “il ritratto di Mr. W.H.” (recentemente pubblicato dal “Saggiatore” nell’ottima traduzione di Nina Ruffini) non è una delle invenzioni più felici di Wilde; in esso, come nel Festival di Spoleto, l’intelligenza è troppo visibilmente messa al servizio di una estetica salottiera. In realtà la sola parte interessante del racconto è quella suaccenna-ta in cui viene riproposta la totale eliminazione della donna dal teatro; nel tentativo di so-stenere questa insostenibile proposizione, Wilde riesce a esporre alcune idee che vanno seriamente meditate.

Ma fra queste idee ce n’è almeno una fondamentale: “Dire che solo una donna può rendere le passioni di una donna, e quindi che è impossibile per un giovinetto far la parte di Rosalinda, significa privar l’arte della recitazione di ogni pretesa all’obiettività, attri-buendo al fatto accidentale di essere donna o uomo ciò che invece appartiene all’immaginazione penetrante e alla forza creativa… Come fa notare il professor Ward, la differenza di sesso tra l’attore e il personaggio “richiedeva dallo spettatore una capacità di immaginazione che escludeva la troppo realistica identificazione dell’attore con la parte, uno dei lati deboli della critica teatrale moderna”.

In queste ultime parole, “la troppo realistica identificazione dell’attore con la parte”, ci sembra di trovare racchiuse, sia l’idea centrale dell’argomentazione wildiana, sia la con-danna senza assoluzione del teatro moderno, così come viene da un secolo concepito; questo non per colpa di qualcuno bensì per colpa, se è lecito parlare così genericamente, delle circostanze. Per quella strada dell’identificazione realistica si poteva arrivare fino a quei traguardi del realismo, non ancora banale ozioso e gratuito, che sono Le tre sorelle di Cechov e opere consimili. Ma non oltre, giacché ogni passo in là era un atto di dissoluzio-ne: una volta definitivamente confusi personaggio e attore (Pirandello) si scioglievano au-

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tomaticamente tutte le altre convenzioni teatrali, scompariva il teatro come rappresenta-zione simbolica o sublimazione degli atti degli uomini che in esso cercavano una purifica-zione, e subentrava il cinema scemo (con Gary Cooper che fa la parte di Gary Cooper e Brigitte Bardotte che fa la parte di Brigitte Bardotte, ciò che equivale a dire che non fan-no la parte di nulla e non rappresentano nulla), e la televisione balbuziente dove ciascuno è, purtroppo, ciò che è anche nella vita reale. E questo è successo, e come. Da quel gior-no i drammaturghi seri scrivono soltanto per essere letti.

Naturalmente, non è affatto il caso il caso di dire che ciò sia avvenuto, come sarebbe piaciuto a Wilde, perché dal seicento in poi sono state le donne a fare la parte delle donne a teatro. Anzi, l’idea di un ritorno a una qualunque convenzione elisabettiana, sia questa dei ragazzi, sia la declamazione cantata, sia il palcoscenico piccolo, oppure il notevole buio che in esso regnava, oggi farebbe soltanto ridere. Come d’altronde il ritorno a qua-lunque convenzione che non sia quella più o meno ancora imperante del realismo. Le convenzioni non si possono improvvisare, né imporre, né far rivivere, una volta che sono morte. La consapevolezza della storia (l’agevolarsi cioè delle comunicazioni nel tempo) ha distrutto la possibilità di un’arte tranquillamente contemporanea, così come l’agevolarsi delle comunicazioni nello spazio ha distrutto la possibilità di un’arte naziona-le o locale. Perché esse ritornino, ci vorrebbe qualche convulsione mondiale che spazzan-do via la storia ci ridia la tradizione, che spazzando via il progresso tecnico ci ridia la località e la nazione. Esiste in qualche parte la possibilità di un’arte astorica e universale, ma di essa non sono state finora nemmeno scoperte le fondamenta.

Su questo argomento, quello della catalessi dell’arte per dissoluzione delle convenzioni artistiche, sarebbe istruttivo immaginare un dialogo fra due esperti, l’uno, rappresentante le vaghe imprecisate aspirazioni culturali della nuova classe piccolo borghese operaia, l’altro le esigenze dell’intelletto creatore: Krusciov e Elémire Zolla, per esempio. Il dialo-go sarebbe comunque molto breve, e andrebbe pressappoco così: Krusciov: “Fate qual-cosa per il popolo”; Zolla: “Che cosa è il popolo? Quella massa che viene così chiamata non sembra molto desiderosa di ricevere i nostri prodotti”; Krusciov: “Se non lo fate voi, lo farà lo stesso popolo”; Zolla: “E allora perché vi rivolgete a noi?”. (Ci comunicano pe-rò che, posto davanti alla richiesta di Krusciov, Zolla abbia in realtà risposto: “Perché non lo lasciate in pace, il popolo?”).

Il fatto è che qualunque oggetto d’arte si voglia oggi produrre, esso dovrà ispirarsi agli oggetti già esistenti e sistemati in quel grosso armadio che ci hanno regalato, l’armadio della storia dell’arte (la sua sistemazione è stata come si sa una delle grandi novità dei no-stri tempi). I quali oggetti furono prodotti per soddisfare un bisogno interno (perfino que-gli ultimi arrivati: la pittura astratta, la musica dodecafonica, la “unité d’habitation” di Marsiglia); le loro copie invece soddisfano soltanto un bisogno esterno, quello cioè di moltiplicare le copie.

In questi ultimi dieci anni il mondo è diventato un incubo, per diverse cause fra cui prima di tutte la sovrappopolazione. Di questo brillante internazionale involontario e for-se ultimo capolavoro di confusione dell’umanità, benché su piani molto diversi, i paesi più rappresentativi, più moderni, più progrediti, più tesi verso l’avvenire perché più distri-cati dalla continuità della tradizione (che in realtà non è altro che una malaticcia soprav-vivenza di cortesie e illusioni), sono forse Cuba, l’Algeria e il Congo; e in tutti e tre si av-verte questo sintomatico fenomeno: l’impossibilità, date le circostanze, di organizzare una vera e propria attività teatrale. Dovremo aggiungere l’Italia? Nel cui caso è sottinteso che non va preso in considerazione quel piccolo ceto nazionale ma ormai praticamente stra-niero che, oltre a leggere e scrivere dei libri, si raduna in piccoli teatri e quasi surrettizia-

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mente fa i suoi piccoli spettacoli i quali cadono senza rumore come isolati petali di rosa su un incruento ma attivissimo vociferante omogeneo campo di battaglia.

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GLI ATTORI III

Che di solito siano le facce degli attori e non le loro voci a dare fastidio allo spettatore esigente, lo dimostra il fatto accertabile che una stessa commedia riesce oggigiorno assai più piacevole quando la si ascolta alla radio che non quando la si vede recitata sul palco-scenico. Davanti alla radio, l’ascoltatore è libero, come d’altronde accade all’atto della lettura, di immaginare per ogni battuta un’espressione del volto e un atteggiamento del corpo più consoni al senso originale del testo; contemporaneamente, privilegio non con-cesso alla lettura, il dialogo detto acquista il suo vero ritmo e - tranne il caso dei versi che ormai nessuno sa dire senza perdere la testa - può da solo determinare un movimento e un’azione che spesso guadagnano a essere ideali.

A questo si potrebbe obiettare che le opere di teatro non sono state scritte per essere recitate alla radio, bensì in un teatro, da persone di carne e ossa, che soltanto con la loro presenza possono creare l’illusione teatrale. Dovremo tuttavia rispondere che a una simile illusione, ai nostri giorni, si oppone pervicacemente un fattore che l’autore non aveva, nella grande maggioranza dei casi, previsto. Questo fattore è appunto la faccia, o con altre parole, la “maschera” degli attori.

Succede infatti che la vita intensamente gregaria e reggimentata dei nostri tempi, so-prattutto nell’ambito omogeneo e omogeneizzante delle grandi città, dove il contatto con-tinuo con i nostri simili è non solo infinitamente arduo ma anche pericolosamente aggres-sivo, costringe l’uomo (specie se privo di caratteristiche straordinarie), a partire da quell’età in cui si cominciano a sentire più acutamente gli effetti asfissianti della società, prima a crearsi e poi a indossare una maschera muscolare, capace di esprimere i sentimen-ti più stereotipati, cioè più comprensibili, meno biasimevoli. Questa maschera non richie-de molti anni per irrigidirsi definitivamente, sicché non ci stupiamo di trovarla già formata e impietrita sulla faccia di un giovane o di una giovane di soli venticinque anni: è il mar-chio della civiltà moderna. Quali siano le espressioni (per forza volgari, dal momento che il loro scopo confessato è quello di essere capite perfino dalle persone più stupide) che contribuiscono a dare la sua forma stabile a questo marchio o sigillo di smorfie; quali i se-greti desideri, i pudibondi peccati, le losche paure che disegneranno quei tratti umilmente proclamanti la disperata brama di essere accettati, perdonati, amati, non è compito del critico spiegarlo, bensì dello psicologo (e anche del poeta, se si pensa alle orribili facce che Goethe amava abbozzare ai margini dei suoi quaderni). Ciò che interessa è che questa maschera costituisce una prerogativa dell’uomo civile, e non soltanto di quello moderno (“lo viso mostra lo color del cuore”, scrivevano già nel trecento); sicché un attore cresciu-to in seno all’odierna società occidentale difficilmente potrà farne a meno, anzi difficil-mente sarà in grado di avvertire un qualsiasi bisogno di farne a meno, come condizione previa al fatto di diventare un vero attore.

Si capisce d’altronde che, una volta che il giovane attore si è lasciata pietrificare sulla faccia l’espressione più adatta per trovare un impiego in una ditta milanese o per essere assunto come presentatore alla televisione, oppure per accedere alla sempre aperta cer-chia degli omosessuali “blasés”, e se è donna a quella delle massaie ricche, non sia più in grado di pronunciare le immortali parole di Oreste o di Antigone senza far ridere le galle-rie. Il caso più comune e più vistoso, di cui perfino i bambini si dimostrano consapevoli, è

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la nota irrealtà che sembra affliggere la gente di cinema anglosassone ogni volta che essi vogliono impersonare un antico romano; ma da questo non si deve dedurre che, in una simile impresa, le possibilità di successo siano maggiori per un moderno romano; là dove i primi sembrano commessi viaggiatori, i secondi sembrano ciò che sono, comparse di Ci-necittà; e in questa comica gara di verosimiglianza saranno sempre i commessi, se non al-tro più pasciuti e imperiali, a vincere. Ma la maschera non se la toglie nessuno: soltanto la morte riuscirà a passare il suo ferro da stiro su certe facce.

In Inghilterra e in qualche altro paese nordico questa difficoltà della caratterizzazione è più che parzialmente compensata da una vecchia consuetudine o tradizione teatrale, la quale consiglia d’impiegare, per una data parte, solamente quegli attori le cui fattezze sia-no già, per così dire in maniera congenita, segnate dal marchio della parte stessa. Ciò pre-suppone una vasta disponibilità di attori: per esempio di ex poliziotti scozzesi per fare la parte del poliziotto scozzese, e via dicendo. Ma questo sistema di caratterizzazione, oltre a essere notevolmente limitato nel tempo e nello spazio (come si fa ormai a trovare un ve-ro boiardo russo?), sicché lo si può adoperare soltanto per opere locali moderne, implica una totale e quasi commerciale sottomissione all’ideale realista; il che tutto sommato fini-sce per renderlo pressoché inutile, dal momento che il buon teatro contemporaneo realista si trova di solito al polo opposto del godimento estetico. Ci sono tuttavia altri metodi, più efficaci, per strappare la maschera della volgarità agli attori.

Il primo e più ovvio è quello classico: l’impiego di maschere vere e proprie. La pratica dimostra però che in questi casi l’attore occidentale si sente talmente impacciato, perfino dalla maschera più soffice e più malleabile, talmente scomodo e fuori dal suo elemento, che di rado accetterà di ripetere l’esperienza. Resta dunque una sola soluzione, che d’altronde sembra essere la migliore: truccare il viso degli attori in modo che essi possano esprimere soltanto le emozioni e i sentimenti derivanti dal testo della commedia, mai quelli propri. Un viso truccato con arte può diventare nobile, sincero, perfino intelligente (ma di quest’arte sono ancora maestri i cinesi). Una volta cancellate le rughe del mestiere, il commesso viaggiatore può finalmente impersonare Alessandro di Macedonia.

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I REGISTI

Forse è troppo chiedere che i registi vengano definitivamente eliminati. Se una dozzina di persone debbono muoversi su un palcoscenico per due ore o quasi, sembra logico che ci sia qualcuno a curare i loro movimenti. Ma per quel che riguarda le altre cure, dal mo-mento che esistono i direttori di scena e i vari tecnici, molte di esse potrebbero risolversi da sole. Non è detto che la mostruosa figura del regista contemporaneo non sia apparsa soltanto come una conseguenza dell’abitudine di mettere in scena, davanti a un pubblico di gusti non sempre facili, delle brutte commedie; le quali, oltre a essere completamente prive di quell’ariosa unità interna, di quel campo gravitazionale delle grandi opere dello spirito, che fa sì che ogni cosa trovi in esse il suo posto da sola, sembrano costrette a do-ver reggersi su rinnovati ma sempre occasionali accorgimenti, costumi, curiosità e arre-damenti, per in qualche modo non dare allo spettatore l’impressione deprimente di trovar-si in diretto contatto con la scarna povertà intellettuale dell’autore. Di un Arthur Miller, per esempio.

Ammettiamo dunque, come evento fatale, che questo personaggio del regista contem-poraneo sia davvero sorto dal bisogno di correggere le deficienze e supplire alle manche-volezze dei commediografi mediocri. Senonché, una volta nato e cresciuto fra l’approvazione generale, impinguito dal successo e incoraggiato dall’immunità, egli finì col mettere le mani un po’ dappertutto, rischiando, come tutti i dittatori, non solo di ri-durre alla miseria sudditi e regno, ma anche di spingerli alla distruzione. Infatti, nella sua assurda gara da un canto con il cinema e dall’altro con il circo, il teatro divenne un’attività sempre più costosa, che lo costrinse prima a cercare l’aiuto dello Stato, quindi a sottomettersi ai gusti naturalmente burocratici dello Stato, il che per forza doveva allon-tanare quella parte del pubblico che sola si dimostrava in grado di infondere vita all’attività teatrale; e finalmente - ma a questa tappa non si è ancora giunti - a scomparire, non con un’esplosione, come dice Eliot, ma con un miagolio.

Ormai sembra un prodigio riuscire a mettere su una commedia con cinque milioni di li-re. Siccome, eliminati i registi, gli scenografi e gli altri oneri inutili, la si potrebbe fare (e forse meglio) con solo la spesa di un milione, la soppressione di tutte queste fonti di arbi-trarietà, di cattivo gusto e perfino di stupida bruttezza permetterebbe, poiché i soldi a quanto pare sempre si trovano, non soltanto di fare il teatro più puro, ma anche di attirare migliaia di spettatori offrendo a ciascuno di essi una piccola somma-premio, rinfreschi e altre amenità a carico dello Stato o dell’eventuale finanziatore dello spettacolo. Gli attori guadagnerebbero lo stesso e inoltre - notevole vantaggio per tutti - imparerebbero a essere attori, invece che eleganti pupazzi cinematografici.

Il problema della regia è un falso problema, poiché esso era stato già risolto, molti seco-li fa, nel modo più semplice ed economico: il direttore della compagnia era uno degli atto-ri; il quale, appunto perché dirigeva gli altri, veniva chiamato primo attore. Questo è il si-stema in uso in quei paesi dove il teatro manifesta ancora qualche alito di vita propria; e il fatto che detto sistema “economico” non sia completamente scomparso dai palcoscenici italiani, è forse la sola garanzia della loro sopravvivenza. Giacché il teatro dei registi, così come è oggi concepito dai registi stessi, sembra condannato a morte.

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Ciò anzitutto perché il regista contemporaneo è un elemento fondamentalmente estra-neo all’attività teatrale. Elémire Zolla ha osservato che il regista cinematografico è un personaggio ormai superfluo, dato che la sua missione è soltanto quella di dare fastidio ai diversi tecnici i quali dovrebbero essere in grado di mandare avanti il film da soli, come accade con tanti altri prodotti manufatturati in serie. Forse serve un regista o un direttore artistico, per regolare i vari processi della fabbricazione di un’automobile? Per quel che riguarda il teatro, il discorso si fa tuttavia diverso: il teatro non è un prodotto commercia-le, bensì artistico. A teatro, l’arte ci deve essere, e quell’arte è sempre scaturita da due fonti nettamente definite: l’arte dell’autore del dramma, e l’arte degli attori che lo recita-no. Queste due possibilità di perfezione sono tali da rendere trascurabili quelle tradizio-nalmente sussidiarie della scenografia, dell’illuminazione, dei costumi, dell’arredamento. L’arte perfettamente addizionale del regista avrà soltanto una giustificazione laddove vien meno la capacità artistica dell’autore, oppure quella degli attori. Ma se l’autore non è un completo artista, sembra inutile recitare la sua opera; e se gli attori sono manchevoli, nul-la al mondo potrà farli diventare dei geni: l’intervento del migliore dei registi riuscirà so-lamente a mutare una smorfia inadeguata in una smorfia di caricatura. L’esperienza dimo-stra che, lasciati a se stessi, gli attori sono pieni di risorse; davanti al regista diventano in-vece degli impiegati telecomandati. Ad ogni modo ciò che importa, a teatro, è che le bat-tute siano chiare ed esatte, e di questo si può occupare un semplice osservatore, o assi-stente alle prove, seduto nell’ultima fila di poltrone.

C’è chi difende comunque la moderna tirannia e a volte idolatria del regista, argomen-tando, molto assennatamente a quanto si direbbe, che la maggioranza degli attori è così ignorante e impacciata dai luoghi comuni, che oggigiorno non si può assolutamente rinun-ciare all’intervento di una persona di alta o media cultura, che oltre a tutte le virtù “regi-stiche” si dimostri capace di ricreare, per quanto approssimativamente, l’ambiente di una data epoca; di definire in qualche modo il senso e il tono da dare a una data opera, di trar-re un costrutto armonioso dalle svariate interpretazioni individuali. Basta pensare tuttavia un attimo a ciò che è stato e ancora è il teatro cinese, ideale schietto verso il quale do-vrebbe tendere qualunque moderna attività teatrale, per capire che nessuna di quelle “ne-cessità” è, dopo tutto, importante; l’ambiente, il senso, l’armonia di una commedia sono qualità intrinseche alla commedia stessa, e non possono se non con grande difficoltà veni-re imposte dal di fuori. Oltre al fatto che, tranne due o tre fastidiose eccezioni, i registi attualmente in giro non sono, quasi mai, più istruiti degli attori.

Ad ogni modo, la presenza di uno di questi registi implica sempre la possibilità (e in Ita-lia spesso la certezza) che la recita, la quale dovrebbe soprattutto rivolgersi e proporsi all’orecchio (poiché il dramma, se vale qualcosa, vale per merito della parola), diventi spettacolo più che altro destinato al godimento visivo, cioè superficiale, aleatorio e non di rado perfino circense. Al pubblico di oggi e di sempre, a una parte considerevole del pub-blico almeno, piace molto di più vedere uno o due elefanti che non ascoltare il monologo di Fedra, “C’est Vénus tout entière à sa proie attachée!”, detto, diciamo, da un’attrice come Marie Bell. È perfettamente umano, è anche simpatico che certi registi preferiscano anch’essi gli elefanti; tuttavia, poiché esiste una gerarchia naturale delle manifestazioni dell’intelletto, il loro posto non è a teatro, ma altrove.

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IL PUBBLICO A prima vista può sembrare avventato il fatto di nominare Wittgenstein fra i teorici del

teatro; in realtà di questo argomento egli non si è mai esplicitamente occupato, né l’aggettivo “teatrale” riesce in particolar modo adatto a evocare i chiarissimi interessi del filosofo di Cambridge. Ma dal momento che le sue “Investigazioni filosofiche” - forse l’opera più importante della filosofia occidentale da Aristotele in poi - non sono altro che un unico e tenace tentativo, non di mettere in evidenza la totalità delle radici del mondo delle cognizioni, il che sarebbe impossibile, bensì di pulire da erbacce, parassiti e cancri vegetali almeno la parte più superficiale e raggiungibile di quelle radici, di esporle all’azione disinfettante dell’aria e del sole, di accertare per lo meno in che direzione ognu-na di esse sprofonda nella terra, e quali sono indipendenti e quali sussidiarie; per tutto ciò, non è poi tanto strano che in questo monumentale groviglio di fili sottilissimi si faccia a volte accenno al teatro. E come sempre succede con Wittgenstein, bastano poche sue pa-role per aprire la prospettiva di sconfinate nuove investigazioni.

Il primo di questi passi si trova nel Libro I, paragrafo 391: “Forse posso immaginare (benché ciò non sia affatto facile) che le persone che io vedo per strada sono afflitte da atroci sofferenze, ma che esse riescono, artificiosamente (“kunstvoll”), a nascondere il lo-ro dolore. E qui è importante il fatto che io debba immaginare, da parte loro, un’artificiosa volontà di fingere. Che io non mi possa semplicemente dire: “Vabbene, la sua anima soffre, ma che c’entra questo con il corpo?”, oppure: “Tutto sommato non ha bisogno di dimostrarlo con il corpo”. E quando immagino ciò, che cosa faccio, che cosa mi dico, come guardo alla gente? Forse guardo uno di loro e penso: “Deve essere difficile ridere quando si soffre così”, e altre osservazioni simili. È come se io recitassi una parte, “fingendo” che gli altri soffrono”.

Questo, che è soltanto un minimo frammento della sua lunga investigazione sulla pos-sibilità o meno di una reale esistenza del dolore, e quindi di tanti altri sentimenti e stati di animo, al di fuori della loro espressione fisica e materiale, sembra estremamente rilevante quando rivolgiamo lo sguardo ai problemi elementari dell’arte drammatica, in special mo-do per quel che riguarda la complessa relazione di questa arte con la vita quotidiana. In-fatti, se vogliamo credere che i sentimenti altrui sono diversi da quelli che ci è concesso di accertare con i nostri sensi, dobbiamo “fingere” nel prossimo un’intenzione artificiosa, una volontà di dissimulazione; ed è appunto questa “finzione” che ci pone sul piano degli attori. Inversamente, non appena ci rifiutiamo di mettere in dubbio la corrispondenza, ne-gli altri, fra sentimenti ed espressione, ritorniamo alla nostra condizione di spettatori; gli attori adesso sono loro, e noi invece siamo pronti ad accettare la realtà di qualunque stato di animo che, vero o non vero, essi ci vogliano rappresentare e comunicare. Il che equiva-le a dire che, in condizioni normali, tutti i nostri simili sono per noi attori (dal momento che l’accidentale alternativa di “vero o non vero” non significa in fondo nulla, è un’ag-giunta retorica, un’interiezione frutto dell’abitudine): attori sono la nostra madre quando ci bacia sulla fronte, l’amante che ci fa una scenata di gelosia, il patriota che strappa la bandiera al nemico.

Che c’è dietro ai loro atti, ci domandiamo una e mille volte, che da noi possa venire ac-certato? Soltanto ciò che nel linguaggio cifrato di una tradizione può tradursi in messag-

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gio; e quando questa tradizione è stata abolita - o si trova in via di abolizione - non c’è più nulla. Perciò, se siamo spettatori, essi, la gente, i nostri simili, non possono essere al-tro che attori. Non credere ai sentimenti che sul palcoscenico esprimono con i loro gesti e le loro voci i veri attori, è un atteggiamento, per quanto non voluto, perfettamente equi-valente a quello di non credere all’amore di nostra madre, alla gelosia dell’amante, al pa-triottismo dell’eroe.

Ma questo, per poco che ci soffermiamo a pensare, è davvero una fantastica rivelazione (e quale sarebbe infatti il valore di Wittgenstein se non quello di condurci per vie quanto mai tortuose alle più fantastiche rivelazioni): vuol dire che una società, quando non è più in grado di “credere” ai sentimenti espressi dagli attori, in altre parole quando non è più capace di immedesimarsi nell’azione teatrale, non può credere nemmeno ai sentimenti dei suoi singoli membri; poiché tutti i personaggi della vita reale vengono visti con gli stessi occhi con cui si vedono gli attori sul palcoscenico.

In una società simile - e senza false intenzioni moralistiche vogliamo alludere natural-mente alla nostra - i giovani che vanno a teatro si trovano davanti alle smanie di Otello o alla morte di Giulio Cesare, “ma non ci credono”; come una conseguenza logica della loro educazione - ripetiamo, le cose ormai non potrebbero essere altrimenti - vedono soltanto se l’attore è caduto con grazia o con goffaggine, se la sua pronuncia appartiene a questa o a quell’altra provincia, se la sua toga è sporca o pulita; e dell’attrice soprattutto se è bella, oppure se è più vecchia di quanto sarebbe giusto aspettarsi. La tragedia? Non c’è più, co-me si suol dire ai bambini. La sola tragedia possibile, per questo spettatore, sarebbe per esempio che l’attore saltasse un’intera serie di battute, o inciampasse in un altro attore fa-cendolo cadere per terra; tanto, ai sentimenti di Otello o di Giulio Cesare egli ormai non ci crede; oppure gli si confondono con i sentimenti personali e la vita privata del signor NN, l’attore. Perfino gli spettatori più giovani si dimostrano ugualmente scettici, davanti alla finzione teatrale: certi fanciulli, forse i più intelligenti, si divertono soltanto a guarda-re se i morti, una volta distesi sulla scena e adeguatamente compianti da congiunti e ami-ci, continuano a muovere ritmicamente la pancia, costretti dall’indifferibile bisogno di re-spirare.

Crisi del teatro vuol dire crisi della realtà. La cosa non è dopotutto tanto nuova, se già Shakespeare, per bocca di Amleto, si domandava di un attore: “Ma che cosa è Ecuba per lui, o lui per Ecuba?”. D’altra parte questa crisi non è totale: la stessa capacità di “crede-re” che il grosso pubblico innocente dedica alla recitazione cinematografica - e di questo non c’è alcun dubbio, anzi ci sono ancora molti spettatori che vedendo un film “western” credono di stare addirittura sulla groppa del cavallo dell’attore, e ripetono il dondolarsi del “cow-boy” sullo schermo - quella stessa fede esso la potrebbe dedicare ancora alla re-cita teatrale; “se” a quel pubblico fosse permesso, in questo paese, di andare a teatro. Sic-come, per la suicida follia snobistica dei teatranti, esso non ci può andare, il teatro dovrà accontentarsi di quell’altro pubblico, quello colto; che purtroppo nel teatro non ci crede, dal momento che non crede nemmeno nell’amore, nel sentimento morale, nell’onore, nel dolore altrui; anzi, per dirla brutalmente, non crede nella realtà altrui.

Ma in questo mondo chi non crede nella realtà altrui è destinato a scomparire. Non il teatro, che è una semplice conseguenza della vita sociale, ma quegli spettatori dovranno scomparire, i quali nella loro involuzione intellettuale sono arrivati al punto, senz’altro innaturale, di potersi dire: “Vabbene, la sua anima soffre, ma che c’entra questo con il corpo?”.

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LA FONDAZIONE DEL MONDO Da Cori sui monti Lepini si vede il mare, il Circeo, l’isola di Ponza, quando non piove.

Dicono che è la città più antica d’Italia: un cane morto, forse etrusco, rinvenuto nei pressi del tempio di Ercole, venne sommariamente sottomesso alla prova del carbonio quattor-dici e si dimostrò vecchio almeno di ventitremila anni. Sulla porta di una piccola, discreta baracca smontabile di una compagnia di filodrammatici che fa instancabilmente il giro dell’Agro Pontino e dintorni, si sono accese due lampadine dipinte di rosso; un altoparlan-te annuncia, verso la pianura indistinta in fondo alla quale indugia ancora l’ultimo strasci-co viola del tramonto, che sta per cominciare il dramma storico “La fondazione del mon-do a Cori”, di Athos Ennio Balbo Gru (pseudonimo del direttore della compagnia, come gli attori veliterno).

Da secoli esiste fra Cori e Velletri, come fra qualsiasi due altre città del mondo non se-parate da una invalicabile catena di montagne, una piccola rivalità; appunto per questo il dramma storico di Gru vorrebbe rappresentare una goccia di olio sulle molte ferite del passato, un delicato tentativo di conciliazione. C’erano tanti altri luoghi da poter sceglie-re, non escluso Velletri, per la fondazione del mondo; e i molti film di fantascienza ameri-cani, che fanno accadere ogni e qualunque evento fantascientifico connesso con la fine del mondo in America, lasciavano supporre che anche la sua fondazione aveva avuto luo-go in quel continente. Perché il dramma di Gru è non soltanto storico, ma anche fanta-scientifico.

La commedia comincia infatti con l’arrivo del primo disco volante sulla terra ancora deserta; anzi, quando scorre il sipario il disco è già arrivato, una specie di automobile cir-colare di cartone, con finestrini dietro ai quali s’intravedono quattro persone con caschi spaziali di vetro. Ancora scossi dall’emozione di essere giunti in questo pianeta scono-sciuto, la terra (simbolizzata da una piantina di ulivo in vaso, a un lato della scena per il resto nuda), i viaggiatori scendono dalla nave: sono due uomini e due donne. Come nel racconto di Buzzati, portano sul casco delle piccole antenne estremamente mobili, per comunicare; ma dopo un po’, assaggiata l’aria eccellente di Cori, si tolgono i caschi e par-lano, in italiano. Si chiamano Tullio e Caio gli uomini, le donne Marta e Mirta; Marta è la moglie di Tullio, Mirta è quella di Caio.

Ormai sulla terra, gli extraterrestri si adoperano a tirar fuori dalla astronave tutto l’occorrente, strumenti e suppellettili, che hanno avuto la precauzione di recare con sé dal pianeta di origine. Marta e Mirta hanno portato vestiti, pellicce, pentole, lo scolapasta, culle per i futuri bambini, un calendario, biancheria e una vaschetta per il bucato. Gli uo-mini invece hanno utensili da costruzione e strumenti agricoli: vanghe, forbici per potare, falci e bigonce. Uno del pubblico, nel pietoso dialetto locale, grida: “E il torchio?”; altri ridono perché le vanghe non sono esattamente della forma che si usa a Cori. Ma in com-plesso i nuovi arrivati si sono sistemati abbastanza bene sulla terra; cade la notte, Mirta e Caio vanno a letto nel disco volante, Tullio e Marta rimangono ancora un attimo accanto all’ulivo, ne assaggiano i frutti e li trovano buoni; dicono alcune battute tratte dal duetto di amore di Otello, come a far capire che il loro pianeta di origine potrebbe essere Venere, e finisce l’atto.

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Nell’intervallo il pubblico mangia bruscolini e lupini, con un rumore molto simile alla conversazione, cosparso qua e là da rauchi urli, la vera conversazione. Scorre di nuovo il sipario: Marta e Mirta, un po’ invecchiate, lavano e stendono i panni; tra un panno e l’altro chiacchierano dei rispettivi figli. Marta ha avuto due maschi, Cesare e Antonio, Mirta due femmine, Cleopatra e Semiramide. I ragazzi sono già cresciuti, dovrebbero spo-sarsi: fin dall’inizio, era stato stabilito dai genitori che Cesare avrebbe avuto Cleopatra e Antonio Semiramide. Le case sono pronte, ciascuno avrà il suo pezzo di vigna e il suo ru-dimentale uliveto; senonché negli ultimi tempi Cesare si è messo ad amoreggiare con Se-miramide e Cleopatra con Antonio. Ciò preoccupa in special modo le donne; Tullio e Caio invece, troppo presi dai lavori agricoli, si dichiarano estranei a tali problemi, per loro qualunque scelta va bene, l’importante è che i ragazzi si sposino e facciano tanti bambini per aiutare nella vigna; Tullio ricorda a proposito un vecchio detto del suo paese di origi-ne: “La vigna e l’orto fanno l’uomo morto”, accolto dal pubblico con caldi applausi. Mar-ta, rimasta di nuovo sola con Mirta, rinfaccia a questa la leggerezza delle sue figlie; la col-pa, secondo lei, è soprattutto di Semiramide, una vera civetta; ma anche Cleopatra, che non si fa pregare; e se altri maschi ci fossero, con tutti ci starebbero. Il dramma si toglie il coturno fantascientifico e scende a trattare problemi specificamente italiani; ne segue una lite, Marta e Mirta si acciuffano; ritornano Tullio, Caio e i quattro adolescenti, e dopo molti battibecchi, sempre all’italiana, le due famiglie di oltrespazio si rappacificano e ce-lebrano le nozze, inneggiando alle virtù del buon vino di Cori, unico sulla terra.

Il terzo atto, mi spiega uno degli attori che sono andato a trovare durante l’intervallo, è stato molto rimaneggiato, in omaggio soprattutto alle varie autorità locali e provinciali. Infatti la censura non muoveva obiezioni a una commedia, in fin dei conti, di pura fanta-scienza; il guaio era che questa, nella sua piuttosto semplice versione primitiva, sembrava non tenere in alcun conto la vera cronaca delle origini del mondo, e non soltanto manda-va la storia di Adamo ed Eva per aria, ma ne faceva un’obliqua parodia, non attenuata dal fatto che ora le coppie erano due, forse per ovviare il sempre scottante problema della consanguineità. Perciò, diceva l’attore, sorridendo affettuosamente verso il barbuto auto-re regista che si aggirava in quel momento tra le magre quinte, il terzo atto non era da prendere completamente alla lettera.

Tullio, Caio, Mirta e Marta sono ormai vecchi; i loro figli hanno fatto molti altri figli, sparsi a quanto pare lungo le fertili coste dei monti Lupini (poiché la piana non era stata ancora bonificata). L’atto comincia con il concitato racconto di Cleopatra: suo figlio Cice-rone ha visto accendersi delle strane luci sulle pendici meridionali dei monti Albani; di giorno si vedono salire verso il cielo delle esili colonne di fumo nero, e qualche notte fa c’è stato un incendio nei boschi sopra Valmontone. Evidentemente la montagna (che loro chiamano del Lupino, perché alquanto piatta) è abitata; sicché Cicerone ha mandato i suoi figli Varo e Mitridate a fare un’ispezione. Soltanto Mitridate è tornato; racconta di essersi imbattuto in un popolo di individui molto simili a loro, ma di un altissimo grado di civiltà, che vivono nel lusso e nell’abbondanza, in palazzi d’oro e marmo attorniati da in-numerevoli schiavi, ma anche questi schiavi sono ricchi, in confronto a loro di Cori. La città in questione si chiama Velletri (risate e indignazione fra il pubblico); Varo vi ha subi-to trovato lavoro, come usciere nel palazzo del re, e non vuole più tornare alla vigna. In-tanto arrivano i primi emissari veliterni, vestiti da etruschi, a conferire con i vecchi capi tribù di Cori, Tullio e Caio. Non sono venuti a parlare di guerra, bensì di pace; hanno sa-puto da Mitridate che l’olio di Cori è ottimo, e propongono una specie di accordo com-merciale; in cambio dell’olio e del vino essi possono offrire pentole di ferro e di bronzo. Cleopatra e Semiramide, che erano vissute per tanti anni senza pentole, accettano delizia-te; l’amicizia fra le due città resta così sigillata dal secolare baratto, e i due veliterni, che

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rivolti verso il pubblico o meglio verso un ideale censura si dichiarano enfaticamente di-scendenti di Adamo ed Eva, i veri primi abitanti della terra, lasciano Cori fra gli sguardi di invidia dei molti discendenti di Tullio e Caio, finora creduti i soli fondatori del mondo.

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IL RISO I

L’uomo è stato definito l’animale che ride. Nessun altro essere vivente infatti, ride. Perché ridiamo? Da secoli i filosofi e gli psicologi tentano di trovare un risposta a questa domanda. Nessuno però ha saputo finora offrire una risposta esauriente. Uno insiste sull’elemento della sorpresa, l’altro sull’elemento dell’assurdo. Ma si tratta sempre di a-spetti particolari di un fenomeno più ampio.

La verità è che il fatto di ridere è una delle tante componenti del complesso insieme di usi e costumi comuni a tutti gli esseri umani in quanto tali, come il parlare, come il culto dei sentimenti, come l’abitudine di cuocere i cibi. Le cause che provocano il riso sono re-golate, come il linguaggio, da una sintassi che bisogna imparare da bambini; chi ignora ta-le sintassi, non ride. Ed è abbastanza ovvio che, come nel caso del linguaggio parlato, in ogni nazione, cultura, civiltà o gruppo etnico determinato, quella sintassi è diversa. Non si dice nulla di nuovo affermando che ciò che fa ridere un tedesco di solito non fa ridere uno spagnolo; e per tutti noi rimane tuttora un mistero la sintassi del riso dei cinesi.

Allo stesso modo che i cani abbandonati su un’isola, dopo alcune generazioni, non sanno più abbaiare, e debbono imparare di nuovo a latrare ascoltando gli altri cani che non hanno dimenticato questa forma di linguaggio, così potrebbe darsi che appaia un giorno una razza o comunità umana, che non sappia più ridere. Basta concepire una razza senza linguaggio per poter immaginare una razza senza riso.

Esistono due tipi di risata, che talvolta si mescolano ma non di rado si possono reperire allo stato puro: quella provocata dalla parola, e quella provocata dal gesto. La barzelletta si serve soltanto della parola; e potrebbe esserne un esempio classico, nella nostra cultura ormai rivolta verso il gusto anglosassone, quella giustamente famosa della mamma che di-ce al bambino: “Smettila di girare in tondo, fastidioso, altrimenti ti inchiodo pure l’altro piede al pavimento”. È ovvio, come sopra accennato, che pur essendo questo un notevo-le esempio di umorismo verbale, difficilmente riuscirebbe a far ridere un polinesiano non contaminato dalla nostra cultura occidentale.

All’umorismo verbale si contrappone quello gestuale. Anche i gesti costituiscono un linguaggio. L’uomo che inciampa e cade, è l’equivalente visivo dell’oratore che pronuncia una parola sbagliata, “volivelo” invece di “velivolo”; per non parlare dei tipografi di que-sto stesso giornale, così pronti al refuso altamente umoristico.

Anche il linguaggio dei gesti può cercare la comicità al livello più elementare e grosso-lano, ma talvolta, come nel caso degli attori Chaplin o Buster Keaton, quel linguaggio ha saputo innalzarsi a livelli tanto raffinati da rasentare il racconto o la poesia.

Il cinema muto portò ad altezze mai raggiunte prima, e mai più raggiunte dopo, questo senso del comico puramente visivo. Costretti a fare a meno della parola, gli attori subli-marono le loro gags mute fino a renderle tanto espressive quanto una pagina di consumata letteratura.

Sotto questo aspetto, il periodo delle comiche mute segna nella storia dell’arte un mo-mento importante quanto il cubismo, l’espressionismo, il futurismo e il realismo, movi-menti con cui presenta oscuri ma profondi legami. E nella storia mondiale della comicità, segna un momento irripetibile: perché fino a quel giorno i comici si erano sempre serviti della parola per integrare i loro lazzi, e dopo l’avvento del sonoro tornarono a servirsene.

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Soltanto tra il 1910 e il 1930 si sviluppa quest’arte unica e nuova. Ora capiamo che era un ramo dell’arte a sé stante, come l’arte del cammeo o quella dell’arazzo. Poi scompare per sempre, il suo ultimo grandissimo rappresentante, dopo il declino dell’attore Chaplin, fu un italiano: Totò.

L’effetto comico, essendo di solito, come detto, legato a determinati aspetti di una data società, può riuscire intraducibile. Quello del gesto è, in confronto, un linguaggio comico abbastanza universale; quello della parola, il più delle volte, è un linguaggio schiettamente nazionale, locale. Anche per questo si è avuta l’impressione, in Italia, dopo il successo del cinema parlato, che la grande epoca degli attori comici anglosassoni e francesi fosse finita; e infatti, i loro lazzi, tradotti in italiano, non riuscivano sempre abbastanza buffi. Così so-pra i suoi colleghi stranieri si alzò per noi soverchiante la figura di Totò, che non richie-deva certo traduzione. Peter Sellers, invece, non può convincere pienamente chi non ca-pisce l’inglese.

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IL RISO II Dicevamo che il compito più notevole, e non sempre inconsapevole, del cinema comi-

co, tra il l9l0 e il l930, fu quello di esporre l’assurdità delle convenzioni di una civiltà che già a quell’epoca sembrava avviarsi verso la follia e la distruzione. E infatti uno dei temi più ricorrenti delle comiche mute, in special modo di quelle americane, si fondava sulla iniziale presentazione di una casa arredata in stile piccolo borghese, confortevole, linda e tranquilla, la quale abitazione, sotto la progressiva spinta dell’assurdo rappresentato non dalla natura bensì dalla stupidità umana, veniva distrutta, inesorabilmente, fino alle fon-damenta; finché alla fine dai tetti crollati emergevano polverose le teste dei comici, im-perturbati, imbecilli, incoscienti messaggeri di distruzione.

Contemporaneamente al diffondersi delle teorie di Freud sui sogni, e sull’importanza che il sogno riveste nella vita dell’uomo, le comiche mute tendevano ad assumere sempre più la forma che è propria dei sogni. Partendo da premesse logiche in un crescendo di ec-centricità capovolgevano la realtà quotidiana, e introducevano la confusione nella vita re-ale, fino a farla scoppiare gioiosamente, senza pietà per la realtà. C’è in un film di Oliver Hardy e Stanley Laurel un’indimenticabile fontana, nella quale si nasconde il grasso Hardy inseguito da Laurel. In questa fontana l’acqua zampilla da sette otto testine, e que-ste teste sono tutte identiche a quella di Hardy. È una visione prettamente surrealista, una concezione degna di Jeronimus Bosch.

Secondo Bergson, una delle condizioni prime della scena buffa è l’automatismo; niente è più comico di ciò che viene eseguito automaticamente, in modo involontario e inco-sciente. Un uomo distratto, qualsiasi forma presenti la sua distrazione, è sempre stato dai tempi di La Bruyère fonte inesauribile di comicità.

Totò infatti, ben sapeva che uno degli effetti più sottili dell’estro comico consiste nella meccanizzazione artificiale del corpo umano, arte nella quale egli fu consumato maestro - si veda per esempio una scena di un film nel quale Totò viene sostituito da un suo sosia marziano che si muove come un automa - fino a raggiungere la sostituzione del corpo na-turale con quello finto sempre seguendo la logica dei sogni. Anche Buster Keaton ottene-va effetti paragonabili, col suo viso imperturbabile.

Un’altra condizione della scena buffa è che essa non commuova lo spettatore, né susci-ti in lui altro sentimento che quello dell’assurdo. Le spericolate corse incrociate in auto-mobile, che nella vita reale avrebbero provocato l’infarto degli astanti, sullo schermo non dovevano destare emozione, soltanto gioia; erano fatte per essere godute a freddo come un gioco; e in questo gioco lo spettatore rimaneva impassibile testimone.

Dove manca la partecipazione dello spettatore, la realtà è sempre buffa: si pensi per e-sempio ai movimenti dei danzatori in una festa da ballo, se osservati da un punto tale da precludere l’ascolto della musica: appaiono e sono immensamente ridicoli. Una cerimonia ufficiale, o l’inaugurazione di un monumento, per colui che a quell’evento sentimental-mente non partecipa, possono sembrare estremamente buffe; qualsiasi atto sociale, pur-ché rivesta forma solenne, può riuscire, se lo si considera dal di fuori, buffissimo. E per assicurarsi che lo spettatore conservasse il necessario distacco, l’attore del muto esagera-va, volgeva la realtà nota in non previsto assurdo. Gli anni venti furono gli anni in cui

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venne completata la distruzione simbolica della vecchia Europa, e anche gli attori comici, più o meno consapevolmente profetici, rompevano, disfacevano…

Kant disse che il riso nasce da qualcosa che ci aspetta e che a un tratto si scioglie in nulla. (È strano però che fosse proprio questo a far ridere Kant). Molto più efficace è l’effetto della ripetizione. Qualsiasi gesto ripetuto automaticamente, all’infinito, diventa buffo. Così come a teatro diventa buffa una parola o un’espressione che si ripetono con particolare insistenza.

Il caso più semplice di ripetizione, largamente usato dal teatro di marionette, è quello che Bergson chiama “del pupazzo a molla”: si apre una scatola, schizza fuori il pupazzo, lo si richiude di nuovo dentro, schizza di nuovo fuori. L’attore vuole entrare nell’albergo, la porta girevole gli sbatte in faccia, ci riprova ancora, ancora viene sbattuto fuori, fino alla demenza.

Uno degli effetti che più sicuramente muovono al riso, e perciò uno dei più sfruttati, è l’uomo travestito da donna. Purché si capisca che è un uomo, altrimenti l’effetto va per-duto. Materia invece di riflessione è il fatto che la donna, quando si traveste da uomo, non fa ridere. E ciò perché la donna non riesce quasi mai a sembrare automatica, è sem-pre più donna che burattino: i grandi comici del muto furono tutti maschi.

Un altro effetto comico efficace è quello detto della “palla di neve”. Qui si tratta di una piccola azione o situazione iniziali, che scatenano conseguenze sempre più forsennate: un uomo arriva di corsa, urta una signora che beve il caffè, il caffè si riversa su un signore anziano, il vecchio scivola e rompe una vetrata, i vetri cadono sulla testa di un poliziotto il quale chiama una squadra della polizia che irrompe nella casa e provoca uno sfacelo. (Da rilevare che quasi tutti gli esempi di cui si serve Bergson sono tratti da Molière e da Labiche; da rilevare inoltre l’influenza indiretta di Labiche e di Feydeau sulla prima comi-cità francese, che precede quella americana: non per nulla, quando i più famosi dramma-turghi sentimentali della fine dell’ottocento cadono nell’oblio, riemergono questi due u-moristi all’attenzione del pubblico; e anche Courteline).

Nel suddetto gioco della palla di neve, è anche importante che la palla ritorni al punto di partenza, cioè ricada sulla stessa persona che inavvertitamente l’ha messa in moto.