MANIFESTO LIB-LAB

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 1. ALCUNE RIFLESSIONI SUL PASSATO E SUL PRESENTE 1.1 Dalla prima alla seconda Repubblica 1.2 L’antipolitica 1.3 Ieri Tangentopoli come sistema, oggi la corruzione parcellizzata 1.4 La parola alla politica, il rinnovamento del PdL 2. LA NOSTRA ANALISI SULLA CRISI, SULL’EUROPA E SULL’ITALIA 2.1 Il quadro internazionale: geopolitica ed economia 2.2 Che cosa è successo in Europa 2.3 Perché è successo 2.4 Che fare in Italia 3. LE NOSTRE PROPOSTE DI RIFORMA ISTITUZIONALE E DI POLITICA ECONOMICA 3.1 Architettura costituzionale dello Stato e legge elettorale 3.2 Una nuova politica economica 3.3 Se riparte il Sud riparte il Paese 4. ETICA E VALORI. IL RAPPORTO TRA STATO, ECONOMIA E SOCIETÀ

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB

1. ALCUNE RIFLESSIONI SUL PASSATO E SUL PRESENTE

1.1 Dalla prima alla seconda Repubblica

1.2 L’antipolitica

1.3 Ieri Tangentopoli come sistema, oggi la corruzione parcellizzata

1.4 La parola alla politica, il rinnovamento del PdL

2. LA NOSTRA ANALISI SULLA CRISI, SULL’EUROPA E SULL’ITALIA

2.1 Il quadro internazionale: geopolitica ed economia

2.2 Che cosa è successo in Europa

2.3 Perché è successo

2.4 Che fare in Italia

3. LE NOSTRE PROPOSTE DI RIFORMA ISTITUZIONALE E DI

POLITICA ECONOMICA

3.1 Architettura costituzionale dello Stato e legge elettorale

3.2 Una nuova politica economica

3.3 Se riparte il Sud riparte il Paese

4. ETICA E VALORI. IL RAPPORTO TRA STATO, ECONOMIA E SOCIETÀ

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 1. Alcune riflessioni sul passato e sul presente

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1. ALCUNE RIFLESSIONI SUL PASSATO E SUL PRESENTE

1.1 Dalla prima alla seconda Repubblica

Ciò che accadde in Italia nel ‘92-‘94, come lo si voglia giudicare,

sconvolse alla radice gli schieramenti politici nei quali la sinistra

italiana era tradizionalmente divisa fra il PCI e il PSI, che avevano

rapporti insieme conflittuali, ma anche convergenti nella CGIL e

negli enti locali. Per altro verso, quegli avvenimenti segnarono in

modo profondo la qualità della classe politica del nostro paese.

Allora in Italia, unico paese dell’Europa occidentale, proprio il

crollo del comunismo, avvenuto nel 1989, fu seguito dalla

liquidazione per ragioni economiche del sistema di

finanziamento irregolare dell’attività politica e dei partiti da

parte delle imprese (autentico “sistema” fondato sull’assenza di

un libero mercato, sul rapporto collusivo delle grandi imprese

pubbliche e private con lo stato dal quale ricevevano aiuti e

sostegni di ogni tipo in cambio di forme molteplici di

finanziamento irregolare a tutti i principali partiti, dalla DC al PSI,

ai partiti laici, al PCI). La successione di quei due avvenimenti

portò al paradossale esito per cui furono liquidati il PSI, i partiti

laici, l’area di centro-destra della DC, e invece risparmiata la

sinistra democristiana. Ciò avvenne perché l’operazione “Mani

pulite” fu egemonizzata da alcune procure politicamente

orientate che riservarono al PCI-PDS (con l’eccezione dei

“miglioristi”) un trattamento particolare, prima sottraendolo alla

gogna mediatico-giudiziaria e poi assumendolo come “dominus

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politico” di un sistema politico che esse intendevano

ristrutturare ma non distruggere. Utilizzando questo

trattamento di favore, il PDS surrogò la sua mancata evoluzione

da partito comunista in partito socialdemocratico e riformista

attraverso questo organico collegamento con alcuni settori della

magistratura che, sul terreno della prassi politica corrente, si è

esplicitato in modo clamoroso prima nell’elezione nel Mugello di

Antonio Di Pietro e poi, addirittura, nel salvataggio del suo

partito ad opera di Walter Veltroni alle elezioni del 2008. Non a

caso nell’operazione Mani pulite i colpi furono concentrati sul

PSI di Bettino Craxi che andava eliminato dalla scena per

consegnare il suo spazio politico al PDS. La reazione a questa

sorta di genocidio politico è stata inevitabile e durissima, e non

derivante da alcun tradimento o involuzione morale, psicologica,

culturale del popolo socialista, che si è ritrovato attraverso

percorsi spesso individuali nel centro-destra. Infatti una larga

parte dell’elettorato socialista e un numero significativo di

dirigenti e di quadri socialisti si sono riconosciuti nell’operazione

fatta nel 1994 da Silvio Berlusconi che ha fondato Forza Italia

proprio con l’obiettivo di dare un soggetto politico a tutte le

forze politiche, sociali e culturali che precedentemente si erano

riconosciute nei partiti democratici e anticomunisti (i partiti che

avevano dato origine alle coalizioni di governo cosiddette di

“centrosinistra”). La fondazione di Forza Italia coinvolse anche

tutta un’area di persone che precedentemente non aveva mai

svolto attività politica e che visse la discesa in campo di Silvio

Berlusconi come una grande novità anche nel modo di “fare

politica”. Non appena Silvio Berlusconi discese in campo, fu

attivato contro di lui, fin dal gennaio del 1994, il tritacarne

giudiziario per cui nel nostro paese è proseguita un’anomala

“guerra civile fredda”, malgrado che quella derivante dalla

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divisione in blocchi fosse cessata da molto tempo. L’esistenza di

questo elemento del tutto anomalo, e non anacronistiche

riproposizioni dell’anticomunismo, ha radicalizzato e dato una

versione estremizzata al bipolarismo italiano, nel quale, in forme

nuove, che negavano addirittura la legittimazione democratica

allo schieramento di centro destra, si è riproposta la dialettica

amico/nemico, e non quella in atto nel bipolarismo degli altri

paesi europei, fondata sul confronto alleato/avversario. Anche

in seguito a ciò l’antiberlusconismo, e non altro, è stato spesso il

principale fattore aggregante dello schieramento di centro-

sinistra che, proprio per questo, ha registrato numerosi

fallimenti sul terreno della gestione del governo del paese, come

hanno testimoniato le vicende che hanno caratterizzato i

governi Prodi. Successivamente i socialisti si sono riconosciuti

nel PDL, fondato con una sua iniziativa politico-mediatica da

Silvio Berlusconi nel 2008, partito che è stato il punto di

riferimento di un vasto arco di forze sociali (piccole imprese,

artigiani, commercianti, professionisti, partite IVA, lavoratori

dipendenti, giovani) e nel quale sono confluiti molteplici

tendenze politico-culturali, dai cattolici liberali, ai socialisti

riformisti, ai laico-liberali, alla destra che aveva compiuto la

svolta democratica, grazie anche allo “sdoganamento” di Silvio

Berlusconi. Non è questa la sede e l’occasione per ripercorrere

le vicende avvenute fra il 2008 e il 2011, caratterizzate sia dalla

realizzazione di alcune riforme assai significative, sia

dall’adozione - in modo anticipato fino dal 2008, quando ancora

il centro sinistra proponeva di finanziare la crescita con il deficit

- di una politica di rigore per fronteggiare la crisi monetaria e

finanziaria europea, sia dalla riproposizione di un violentissimo

attacco a Silvio Berlusconi non solo di carattere politico ma

anche mediatico giudiziario e per di più riguardante, per la

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prima volta nella storia del paese, la sua vita privata. Il Governo

Berlusconi nel novembre del 2011 è caduto da un lato perché

contro di esso si erano coalizzati in Europa sia gli interessi

tedeschi gestiti da Angela Merkel, sia quelli francesi di Nicolas

Sarkozy e dall’altro perché in Italia l’opposizione di sinistra

sosteneva la campagna critica nei confronti del nostro paese

promossa in ambienti europei pur di colpire e far cadere il

governo di centro-destra.

1.2 L’antipolitica

In questo quadro l’antipolitica – nella quale, come vedremo,

confluiscono molteplici tendenze – va affrontata a viso aperto

da un partito serio, rigoroso, rinnovato, realmente democratico,

non va inseguita dando, magari involontariamente, vita e spazio

ad una sorta di grillismo di destra. Non ci nascondiamo che la

situazione con la quale dobbiamo fare i conti è gravissima. Da un

lato c’è una componente oggettiva nell’antipolitica innervata

proprio nella crisi economica e nei sacrifici richiesti alle famiglie:

mentre fino ad alcuni anni fa le coalizioni di governo, sia che

fossero di centro-destra che di centro-sinistra distribuivano

risorse alle singole persone e ai vari settori della società, invece

adesso sono costrette a toglierle o attraverso i tagli alla spesa

pubblica o attraverso l’aumento della pressione fiscale. In

secondo luogo, in funzione di affermazione di un ruolo

dominante della tecnocrazia, come espressione dei poteri forti,

contro la politica in quanto tale da tempo è stata scatenata una

durissima offensiva mediatica, che si accompagna, come in

passato, ad un’azione di taluni settori della magistratura che non

sembrano più distinguere tra fattispecie di reati e

comportamenti personali discutibili che presentano sicuramente

un rilievo politico, ma che non possono essere sanzionati

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abusando del codice penale. Sotto il fuoco di questa campagna,

che a volte pare animata da apprendisti stregoni ormai incapaci

di controllare le forze che hanno scatenato, proprio in questi

mesi la politica ha fornito, a sua volta, i materiali per la sua auto-

distruzione: i casi Belsito, Lusi e Fiorito, avvenuti in rapida

successione, e anche ciò che essi hanno scoperchiato, sono

dirompenti e hanno una forza distruttiva carica di ricadute

devastanti. Da questo punto di vista sotto molti aspetti la

situazione attuale è peggiore di quella del ’92-’94, e da essa

differisce profondamente. Come già ricordato, alla base del

disegno dei protagonisti di Tangentopoli stava l’obiettivo di

consegnare il potere agli eredi del Pci (a Silvio Berlusconi non

hanno mai perdonato di aver fatto saltare quel progetto); oggi è

forte il rischio di “non fare prigionieri” e di spalancare le porte a

pericolose derive populista sostanzialmente avventuriste e

reazionarie.

1.3 Ieri tangentopoli come sistema, oggi la corruzione

parcellizzata

Tangentopoli era un sistema sulla base del quale venivano

operate sistematiche irregolarità per finanziare i partiti, nel

quadro di un sistema del quale facevano organicamente parte i

più grandi gruppi economici privati e pubblici che godevano a

loro volta del sistematico sostegno dello Stato. Adesso siamo

arrivati alla situazione paradossale per cui sono i partiti ad

essere derubati. Allora c’era un sistema organicamente

irregolare, ma esso esisteva anche in funzione dello scontro

politico e della divisione del mondo e dell’Italia in due blocchi,

anche se poi da esso, nell’ultima fase, scorrevano anche rivoli di

corruzione personale. Adesso, invece, abbiamo una

parcellizzazione selvaggia della malversazione che vede per

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protagonisti dei soggetti singoli e delle fameliche reti

intersoggettive: singoli imprenditori, legati a singoli burocrati ,e

a singoli uomini politici, al di fuori di ogni logica di schieramento.

In sostanza è in atto una sorta di interprenetrazione perversa fra

spicchi di società civile e spezzoni del sistema politico. Anche

stavolta non c’è una società civile incorrotta e un sistema

politico putrido, ma onestà e disonestà, rispetto delle regole e

sistematica violazione di esse, rigore e dilapidazione delle risorse

attraversano trasversalmente i soggetti economici e i soggetti

politici, la società civile e la cosiddetta classe politica.

Di conseguenza è sacrosanto oggi intervenire per eliminare i

presupposti di tutto ciò, anche tagliando con rigore le risorse

pubbliche che sono state riservate al sistema politico. C’è un

punto, però, sul quale attiriamo l’attenzione di tutti: e cioè

siccome in Italia si passa da un estremo all’altro, il rischio adesso

è quello che si arrivi ad una situazione nella quale l’attività

politica diventi materialmente impossibile, o possibile solo per

chi è personalmente ricco o abbia alle spalle delle fortissime

lobbies. In ogni caso, non è né giustificata né accettabile quella

sorta di caccia all’uomo aperta nei confronti del personale

politico, che prende la forma di giudizi sommari, di una vera e

propria gogna mediatica e “rottamatoria” ad opera di un

giovanilismo fine a se stesso.

1.4 La parola alla politica. Il rinnovamento del PdL

Anche a costo di apparire degli inguaribili ottimisti, riteniamo

che ancora una vola la parola va data alla politica, alla dialettica

fra le forze politiche - anche con quelle che oggi predicano

l’antipolitica ma che, nel contempo, si stanno dando un’

organizzazione politica per di più a guida autoritaria-carismatica

- e alla dialettica sui programmi economico-sociali.

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Proprio in questi giorni un chiarimento sta arrivando dalla

sinistra, pur nella molteplicità delle forze che la compongono.

Come è noto lo schieramento di sinistra è assai composito, come

testimoniano le stesse personalità che si contendono la

leadership perché Pierluigi Bersani impersona la sinistra

tradizionale, Matteo Renzi una sorta di nuovismo centrista e

Nichi Vendola la sinistra radicale. Oggi questa dialettica ha

prodotto un primo risultato: l’alleanza organica tra Pierluigi

Bersani e Nichi Vendola. Avendo giocato tutte le sue carte sulla

formazione della coalizione PD-Sel, di fatto Pierluigi Bersani si è

messo nelle mani di Nichi Vendola. E’ possibile che la sinistra

vinca le elezioni sul piano numerico, sulla base di una

piattaforma assai spostata a sinistra del tutto in contraddizione

con l’attuale sostegno al governo Monti. Tutto ciò

provocherebbe delle incognite di non poco conto visto che la

situazione economica internazionale rimane gravissima e gli

equilibri tuttora appesi ad un filo perché, come vedremo

successivamente, le positive iniziative di Mario Draghi non

hanno ancora il retroterra costituito da una BCE che abbia, al

pari della Federal Reserve americana, l’obiettivo di garantire non

solo la stabilità monetaria, ma anche l’occupazione e, di

conseguenza, la crescita.

Di fronte a ciò è auspicabile che si formi la grande aggregazione

di centro-destra, di tutti i moderati e riformisti, auspicata da

Silvio Berlusconi e da Angelino Alfano, in alternativa a quella

messa in campo dal PD e dalla SEL. In questo quadro il PDL deve

fare la sua parte rinnovandosi, anche al punto di cambiare nome

e simbolo, ma non autodistruggendosi in seguito ad una sorta di

cupio dissolvi. A nostro avviso il PDL va rinnovato e rilanciato,

non smontato o rottamato, come suol dirsi con un’espressione

repellente che non appartiene al nostro lessico. Le grandi

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difficoltà politiche, sociali, organizzative, elettorali e anche

etiche vanno affrontate con il rilancio di una forte leadership

politica, e con un partito fortemente radicato nel territorio e nel

rapporto con vari settori della società, quale che sia la legge

elettorale e non con gli “spacchettamenti”, le impossibili

separazioni consensuali, le fughe all’indietro, l’inseguimento

dell’antipolitica, tantomeno poi con le crisi di nervi, i reciproci

attacchi personali e, in questo quadro, anche le ipotesi di

rottamazione individuali avanzate sulla base delle qualifiche

professionali, dell’età, del sesso, di storie personali

perversamente ricostruite o, peggio ancora, dell’etnia politica

originaria, da Forza Italia o da AN. Se ciò non bastasse, talora

presi da una sorta di masochismo politico spesso dimentichiamo

che, diversamente da quello che finora è avvenuto nel Partito

Democratico, per merito di Silvio Berlusconi, il PDL, come partito

e come rappresentanza di governo, ha rinnovato largamente i

suoi gruppi dirigenti mettendo in campo una ottima e rinnovata

classe dirigente: nel Governo Berlusconi molti ministri erano

giovanissimi rispetto ai soliti personaggi che facevano parte

dell’ultimo governo Prodi. Questo processo va proseguito anche

a livello regionale, ma non va dimenticato ciò che è stato fatto ai

congressi provinciali e comunali di qualche tempo fa, dove sono

stati eletti molti nuovi dirigenti. Contro il Governo Berlusconi,

contro il PDL hanno giocato la crisi finanziaria internazionale,

forze internazionali e interessi molto forti, da un certo momento

in poi anche una sostanziale divisione nel Governo dove Giulio

Tremonti, che pure aveva un’enorme potere, ha puntato a

essere lui a svolgere il ruolo oggi svolto da Mario Monti, il

dissenso della Lega su questioni programmatiche essenziali, il

rinnovato e permanente attacco contro Silvio Berlusconi.

Certamente la durezza dell’attacco ha anche messo in evidenza

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tutti i punti deboli del PdL, dall’esistenza di una permanente

litigiosità locale, a episodi anche gravissimi di malversazione

come nel caso Fiorito (che per le cronache giovanilistiche ha solo

una quarantina di anni), da eccessi di protagonismo e di

conflittualità per esigenze mediatiche. Tutto ciò e altro ancora è

certamente vero, ma non è certo una buona ragione per

smontare o spacchettare il PDL, magari ritornando a Forza Italia

e ad AN, o agitando il sogno di tornare al 1994, addirittura alla

ricerca di formare nuove forze politiche concorrenziali al

grillismo da destra. Dal 1994 ad oggi sono passati 18 anni, tutto

il mondo è cambiato, forse in peggio, e non siamo come al

cinema dove si può mettere in campo il flashback o far scorrere

a ritroso la moviola. Purtroppo paghiamo il ritardo di non aver

riaffermato, ai fini delle elezioni, né la leadership di Silvio

Berlusconi, né di aver messo in campo Angelino Alfano con le

primarie. Adesso, però, proprio Silvio Berlusconi ed Angelino

Alfano, a nome del PDL hanno fatto una proposta politica forte,

per l’aggregazione di tutti i moderati, allo scopo di impedire alla

sinistra di conquistare il potere, e di governare il paese con una

linea politica sostanzialmente conflittuale con l’esperienza di

Mario Monti e le indicazioni della UE.

Adesso dobbiamo attendere che la proposta avanzata ai

centristi abbia delle risposte politiche che fino ad ora non sono

venute, mettendo in evidenza l’imbarazzo che la nostra

proposta ha determinato nelle altre forze moderate. In ogni

caso, a nostro avviso, in tempi di antipolitica non bisogna

adeguarsi ad essa ed inseguirla sul suo stesso terreno, sia perché

non la si raggiungerà mai, sia perché all’antipolitica non si

risponde apprestando un surrogato che poi verrà giustamente

rifiutato e disprezzato da tutti, sia da coloro che prediligono la

politica sia dai fanatici dell’antipolitica. Bisogna invece rimettere

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in campo una proposta politica fondata su una leadership e su

gruppi dirigenti, autorevoli per storia ed esperienza ma aperti al

ricambio, che siano eletti dalla base; su gruppi dirigenti che

coinvolgano più generazioni e più saperi sulla base del merito,

della serietà, delle capacità, del consenso, della competenza e

del rapporto col territorio: è essenziale che ad ogni livello si

passi da un regime fondato sulle cooptazioni e sulle nomine a

catena, ad un altro fondato sul confronto e sulla realtà degli

iscritti e degli elettori. È anche ipotizzabile che il partito

rinnovato venga riorganizzato sulla base di tre centri di direzione

politico-organizzativa al centro, al nord e al sud. D’altra parte un

partito si fonda non solo sul suo modo di essere, ma su scelte

politiche e programmatiche forti. Allora, come abbiamo visto, la

prima scelta è quella dell’aggregazione di tutta l’area moderata:

dobbiamo fare di tutto perché ciò avvenga. Nel caso deprecabile

che ciò non riuscisse, per responsabilità non nostra, allora

bisognerebbe mettere nel conto che a fronte della coalizione già

formata delle varie forze di sinistra si deve consolidare

comunque un forte e serio partito dell’opposizione, il partito del

centro–destra, quale che sia il suo nome e il suo simbolo, che

marchi le ragioni dell’alternativa programmatica, politica, di

valori, alla sinistra e ad un certo establishment amministrativo

del tutto conservatore, nella convinzione poi, che non è affatto

detto che questa opposizione sarà inevitabilmente di

lunghissima durata, perché le contraddizioni intrinseche allo

schieramento di centro-sinistra sono profondissime e già visibili

oggi ad occhio nudo e quindi esse possono anche esplodere in

tempi imprevedibili. Detto tutto ciò sono fondamentali l’analisi e

le terapie per affrontare la crisi finanziaria internazionale e i

serissimi problemi che ha l’Europa. Per questo il nostro

manifesto non può esimersi dall’affrontare contenuti di analisi e

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programmatici, in modo altrettanto impegnato. Infatti è

indispensabile misurarsi sia con i nodi politici sia con le questioni

programmatiche che coinvolgono gli interessi e le prospettive di

vita e di lavoro di milioni di persone.

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2. LA NOSTRA ANALISI SUL QUADRO ECONOMICO

INTERNAZIONALE, SULL’EUROPA, SULL’ITALIA

2. 1 Il quadro internazionale: geopolitica ed economia

Ad un contesto economico-finanziario di straordinaria difficoltà si

accompagna un quadro internazionale tutt’altro che stabilizzato sul piano

monetario, finanziario, economico e sociale.

Dal crollo del comunismo in poi ci sono state due previsioni di

stabilizzazione entrambe fallite. La prima è quella che per comodità fa

riferimento al libro di Francis Fukuyama, che prevedeva una sorta di “fine

della politica”, dopo il crollo del comunismo e quindi il decollo di un’era

dominata da un liberismo ben temperato. Purtroppo, dopo la crisi del

compromesso socialdemocratico, proprio nel cuore dell’Europa, il

liberismo estremo della Thatcher e di Reagan, che pure ha cambiato i

paradigmi tradizionali dell’economia, ha prodotto una fase di sviluppo

impetuoso che poi, però, ha dato via libera ad una finanziarizzazione

selvaggia che è all’origine dei nostri guai attuali.

Dopo il 1989 il mondo è stato sconvolto dal terrorismo islamico espresso

da un fondamentalismo che comunque, anche nelle sue espressioni

pacifiche, ha una visione integralista dello Stato e della società. In ogni

caso il mondo occidentale, gli USA in primo luogo, con tutte le sue

componenti e i suoi apparati, è stato preso alla sprovvista dall’11

settembre del 2001. Può dirsi che George Bush e Bill Clinton hanno

sviluppato una lotta organica al terrorismo in una successione di scelte

felici e di errori rilevanti. E’ stata una scelta giusta quella di procedere ad

una lotta organica e senza quartiere al terrorismo, come è stata una scelta

giusta l’intervento nell’Afghanistan. A nostro avviso invece si è rivelato

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una scelta assai discutibile l’intervento in Iraq (anche se è il solo che sia

stato in grado di introdurre dei cambiamenti ancora parziali ma effettivi in

quel Paese). C’è stata un’interpretazione non solo ottimistica, ma proprio

fuorviante, sulla cosiddetta primavera araba, che si è rivelata essere la

solita allucinazione di quanti sono sempre pronti ad attribuire ad una

manifestazione di piazza un significato palingenetico.

Purtroppo in vari paesi del Mediterraneo varie tendenze fondamentaliste

stanno chiaramente prevalendo. In questo quadro, poi, l’interventismo

militare a senso unico si sta rivelando un disvalore anche dal punto di vista

etico. Sulla Libia e sulla Siria la Nato e l’ONU si sono mossi adottando due

pesi e due misure, con esiti in entrambi i casi tutt’altro che positivi. Il

durissimo intervento militare in Libia è servito ad esaltare la grandeur di

Nicolas Sarkozy, ma non ha certo prodotto libertà, stabilità, democrazia.

Anzi in Libia è in atto una permanente guerra per bande tribali che rischia

di produrre una situazione simile a quella somala. Inoltre, rispetto ad una

serie di nodi, in primo luogo quello iraniano, si rischia di avere una linea

incerta e contraddittoria. In un momento così serio e grave, gli USA

devono essere maggiormente vicini ad Israele.

Nel contempo a livello mondiale c’è una iniziativa cinese a largo raggio,

dall’Estremo Oriente all’Africa, un’iniziativa sviluppata da un singolare

paese che combina insieme uno stato rigorosamente comunista,

un’economia ultracapitalista, il controllo di una parte cospicua del debito

pubblico americano, la possibilità di praticare una concorrenza drogata e

falsata all’industria occidentale.

In sostanza ci troviamo davanti ad una situazione mondiale tutt’altro che

stabilizzata, nella quale la crisi finanziaria si intreccia con un quadro

internazionale tutt’altro che solido, nel quale l’egemonia americana

persiste ma è resa sempre più debole da serie difficoltà economiche.

Di contro ancora, l’antiberlusconismo, malattia ormai cronica del centro

sinistra, ha portato a sottovalutare, da noi, il contributo, anche personale

di Silvio Berlusconi, nel riconsegnare alla Russia il ruolo che compete ad

una grande potenza in cammino, pur con tante contraddizioni, verso un

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sistema democratico compiuto e in grado di ottenere, grazie alle sue

risorse energetiche e di materie prime, una influenza ancor più

determinante sullo scenario internazionale di quella che era riconosciuta

alla politica che viaggiava sui carri dell’Armata rossa e sulla competizione

nucleare.

Dobbiamo avere la consapevolezza di vivere una fase fuori dall’ordinario,

caratterizzata da una profonda crisi finanziaria del capitalismo mondiale

nelle sue punte storicamente più avanzate, quella statunitense e quella

europea.

Questa crisi comporta una forte conflittualità fra interessi contrapposti di

aree economiche, di nazioni, di gruppi finanziari, di forze sociali e

politiche.

Prima i contrasti di interesse di questo tipo portavano a guerre militari.

Adesso essi provocano guerre finanziarie e monetarie. Non c’è nulla di

oggettivo in ciò che è avvenuto. Il sistema finanziario bancario americano

ha distribuito titoli tossici in tutto il mondo. Sull’Italia, come sugli altri

paesi dell’Europa, è piombata dal 2008 una crisi del capitalismo mondiale,

sotto forma di una crisi finanziaria che dalle banche - prima quelle

statunitensi, poi quelle europee (quelle tedesche in particolare) –

passando attraverso la messa in questione dei titoli di Stato, si è estesa al

settore produttivo, ha investito le imprese e i lavoratori, determinando

una forte recessione.

La “guerra finanziaria” si è aperta anche perché la globalizzazione ha avuto

un andamento assai diverso da quello previsto sia dall’analisi liberista sia

da quella neo-marxista. Entrambe queste analisi ritenevano - una per

applaudire, l’altra per condannare - che la globalizzazione si sarebbe

risolta nell’ennesimo trionfo dell’occidente sul Terzo Mondo. A conferma

dell’assoluta imprevedibilità della storia, le cose sono andate in modo

assai diverso: l’atipico meccanismo concorrenziale messo in atto dalla

globalizzazione (in primo luogo attraverso il bassissimo costo del lavoro in

alcuni paesi), insieme ad altri fattori, ha fatto sì che le gerarchie

economiche sul terreno dell’andamento del PIL, della crescita, della stessa

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concorrenza per ciò che riguarda alcuni settori industriali - quelli più

elementari sul piano tecnologico - si sono quasi rovesciate: Brasile, Russia,

India, Cina, Sudafrica, i cosiddetti Brics, hanno avuto finora, pur fra mille

contraddizioni, un notevole sviluppo, non solo economico ma anche

sociale; mentre invece a essere nei guai, e in guai serissimi, sono proprio

gli USA e l’Europa, soprattutto nell’area dell’euro.

Alla radice di questi guai sono molti elementi. Tra di essi anche la battuta

d’arresto subita, in una significativa successione temporale, dalle due

grandi linee di politica economica che hanno caratterizzato il XX secolo: il

compromesso socialdemocratico, fondato sul Welfare e sul Keynesismo, e

il liberismo reaganiano e thatcheriano. Il compromesso socialdemocratico,

nelle sue varie versioni, dagli anni trenta agli anni ‘80, ha dato positivi

contributi allo sviluppo economico e sociale, determinando anche una

condizione di relativa equità, con un esteso ceto medio e con un lavoro

dipendente dotato di un forte potere contrattuale, entrambi garantiti dal

welfare e gratificati da una crescita economica quasi ininterrotta. Poi, in

molte delle sue esperienze, esso è andato incontro a una forte involuzione

che ha determinato eccessi di dirigismo, di statalismo, di lacci e lacciuoli

alla produzione, di crescente spesa pubblica assistenziale, clientelare e

improduttiva, di un eccesso di potere sindacale: tutti questi elementi

negativi hanno finito con l’inceppare lo sviluppo. In diversi paesi la

socialdemocrazia, o la sua versione “democratica” (vedi gli USA), è stata

“bucata” e sconfitta dal “liberismo estremo”, rappresentato dal

thatcherismo e dal reaganismo – che hanno avuto in Tony Blair una più

morbida versione laburista – i quali hanno dato spazio agli “spiriti animali”

del capitalismo, di una imprenditorialità che voleva liberarsi da

condizionamenti politici, economici e sindacali per essere competitiva

nella concorrenza internazionale.

È accaduto, però, che su questa libertà imprenditoriale successivamente si

è innestata l’egemonia dell’economia finanziaria che, in primo luogo negli

USA, ha prodotto danni significativi, a testimonianza che il liberismo senza

regole finisce col provocare crisi economiche e tensioni sociali. Le banche

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 2. La nostra analisi sul quadro economico internazionale, sull’Europa, sull’Italia

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statunitensi e inglesi sono state fra le principali responsabili: esse hanno

distribuito titoli tossici in tutto il mondo, in primo luogo a molte banche di

altri paesi europei (meno delle altre perciò che riguarda le banche italiane

che hanno problemi di altro tipo, riguardanti in primo luogo la gestione).

Le banche tedesche non sono state da meno. Se andiamo ad analizzare

cronologicamente l’inizio della crisi, vediamo come, per quanto riguarda il

nostro paese, la corsa a rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato sia

cominciata a giugno 2011, ma in realtà la tempesta perfetta si stava

preparando già qualche mese prima.

In effetti, tra febbraio e maggio 2011, c’è stata calma piatta sui mercati,

con rendimenti dei titoli decennali tedeschi e italiani, con 150 punti base

circa di differenza (spread) tra gli uni e gli altri. Calma piatta, dunque, con

una sola avvertenza: i rendimenti dei titoli del debito pubblico della

Germania erano su una curva ascendente, in ragione non tanto dei

problemi della finanza pubblica, quanto di quelli della finanza privata: le

banche, oggettivamente a rischio.

Le banche tedesche, infatti, avevano, e hanno tuttora, al loro interno

rilevanti componenti di debolezza che derivano dai loro comportamenti

spericolati (vedi il caso dei titoli greci) e dai loro investimenti sbagliati (in

titoli tossici), di cui mai si è conosciuta la reale consistenza. È così che il

combinato disposto dell’aumento dei rendimenti dei titoli pubblici

tedeschi, del dubbio valore dei titoli tossici e delle perdite sui titoli greci

nei portafogli delle banche da una parte e le regole stringenti, proprio sul

settore bancario, di EBA e Basilea 3 dall’altra hanno generato una

situazione di forte tensione nel sistema finanziario privato tedesco.

La reazione, alla luce di quello che è successo, è stata geniale, cinica e

irresponsabile al tempo stesso: la finanza privata tedesca ha trasferito la

crisi potenziale del suo sistema bancario sui paesi più deboli dell’eurozona,

vendendo e dando indicazioni generalizzate di vendere i titoli del debito

sovrano, prevalentemente greci e italiani, sul mercato secondario, al fine

di aumentarne i rendimenti sul mercato primario.

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 2. La nostra analisi sul quadro economico internazionale, sull’Europa, sull’Italia

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Molto probabilmente, la strategia tedesca, più o meno concertata, mirava

unicamente a un riequilibrio dei rendimenti, ma, dati i tempi, l’operazione

è finita per sfuggire di mano, provocando la tempesta perfetta.

A livello internazionale le banche, però, sono anche entrate in

contraddizione fra di loro. Quelle più forti sono collegate con le società di

rating e, attraverso gli spread, cercano di gestire l’Europa, di fare e disfare

i governi, come è avvenuto in Grecia, in Spagna, in Portogallo e fra

novembre e dicembre 2011 anche in Italia.

E’ proprio un segno dei tempi che la sinistra italiana, almeno fino a quando

ciò è servito per combattere Silvio Berlusconi, ha avuto come punti di

riferimento sia Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, sia i “mitici mercati”, sia

gli “indiscutibili spread”, le nuove divinità del nostro tempo. Però adesso

che è cambiato il Governo, la sinistra sta cambiando spalla al suo fucile e

una parte di essa riscopre la socialdemocrazia europea.

Una prima demistificazione va fatta del termine i “mercati” che oramai

viene assunta in termini del tutto acritici, senza per questo dimenticare i

grandi vantaggi e le opportunità che possono derivare dalla

globalizzazione anche per un’economia come quella italiana che ha nei

settori esportatori i comparti d’avanguardia della sua struttura produttiva.

In un articolo di Alessandro Politi e di Claudia Bettiol su Limes è scritto: “I

mercati sono una parola che non ha veramente senso perché dopo 30

anni di fusioni e acquisizioni, l’Ocse ha potuto osservare che ci sono 10

attori che controllano oltre il 90% del mercato dei derivati (Credit default

swaps, Collateral debt obligation, Exchange rate swaps). Queste sono le

entità che fanno il cosiddetto mercato e spezzano le reputazioni

finanziarie senza troppo curarsi dei fondamentali, avvalendosi anche di

sofisticate tecniche di scambio come il cosiddetto high frequency fading

(cambio automatizzato ad alta velocità). Se ciò non bastasse, le prestazioni

dei vari attori privati e pubblici in questo sistema vengono valutate dalle

agenzie di rating, di cui tre internazionali e una nazionale, ove il conflitto

di interessi è evidente e i giudizi che esse esprimono vanno a condizionare

le decisioni di investitori in tutto il mondo.

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 2. La nostra analisi sul quadro economico internazionale, sull’Europa, sull’Italia

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2.2 Che cosa è successo in Europa

Ottobre 2009: elezioni in Grecia, si scopre un buco di bilancio nei conti

pubblici di Atene. La speculazione internazionale inizia a interessarsi della

Grecia e, soprattutto, della reattività dell’area euro alle crisi delle finanze

pubbliche di singoli Stati nazionali. Reattività insufficiente che si

caratterizza come il vero punto debole dell’intero sistema euro: da

quell’ottobre fatidico l’Unione Europea inizia a rispondere troppo poco e

troppo tardi alle ondate speculative e le istituzioni comunitarie si rivelano

non sufficientemente forti, mature, reattive da resistere e rispondere agli

attacchi speculativi sulla moneta unica.

A 3 anni di distanza da quel fatidico ottobre e dopo più di un anno di

passione, da luglio 2011, caratterizzato da spread tra titoli del debito

pubblico dei Paesi dell’area euro rispetto ai Bund troppo elevati, a livelli

febbrili (in Italia in alcuni periodi oltre i 500 punti base), da vertici europei

inconcludenti e da misure di austerità e rigore imposte ai Paesi sotto

attacco della speculazione, si è sfiorato più volte il collasso dell’intero

sistema euro. Con la conseguente stagnazione e recessione, che finiscono

per ridurre drasticamente l’efficacia della politica monetaria che il

presidente della BCE, Mario Draghi, ha cercato di far convergere

progressivamente verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre

banche centrali mondiali. E con le conseguenti tensioni democratiche,

cambi di governo e inevitabili derive populistiche.

2.3 Perché è successo

Alla base della crisi ci sono stati errori di costruzione nell’architettura della

moneta unica.

Da tali imperfezioni sono derivati comportamenti rigidi, intransigenti,

“egoistici” da parte di alcuni paesi – come la Germania, che pur hanno

beneficiato, negli ultimi 10 anni, di un tasso di cambio di fatto favorevole,

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che ha rilanciato il commercio con gli altri Stati e le esportazioni, nella

totale assenza di politiche redistributive – e comportamenti “lassisti” da

parte di altri paesi – come Portogallo, Irlanda, Italia, (Grecia) e Spagna, che

non hanno utilizzato i vantaggi derivanti da tassi di interesse e da tassi di

inflazione più bassi rispetto al proprio merito di credito per consolidare i

loro conti e avviare le riforme strutturali necessarie.

Nel gioco al massacro poco hanno influito i fondamentali economici degli

Stati presi di mira (tranne il caso greco, che è un unicum) mentre hanno

avuto un grande ruolo i sentiment cosiddetti “auto-avveranti” dei mercati,

che hanno giocato contro l’architettura imperfetta dell’euro.

Risultato: spread alle stelle, in gran parte immeritati, per i Paesi sotto

attacco speculativo e conseguente loro impossibilità a reagire, nonostante

le cure recessive che si sono “autoimpartite”.

Considerate tutte queste premesse, la via d’uscita è da individuare nel

salto di qualità indicato nel documento “Verso una vera unione economica

e monetaria”, elaborato dai presidenti di Commissione europea, Consiglio

europeo, Eurogruppo e BCE, che prevede unione bancaria, economica,

politica e fiscale per completare l’unione monetaria in Europa. Cui

aggiungere l’introduzione nel mandato della Banca Centrale Europea,

attraverso opportune modifiche dei Trattati, oltre all’obiettivo del

mantenimento della stabilità dei prezzi, anche quello del livello massimo

di occupazione e, di conseguenza, la crescita, al pari della Federal Reserve

americana.

Tutto ciò dovrà realizzarsi attraverso l’indicazione puntuale di date,

percorsi e modifiche dei trattati necessarie, a partire da subito, e

comunque entro le elezioni europee previste per metà 2014.

2.4 Che fare in Italia

Per reagire alla crisi della democrazia e al dilagare dell’antipolitica, diventa

necessario tornare virtuosi attraverso la crescita, la riduzione del debito

pubblico, l’aumento della produttività del lavoro e della competitività

dell’intero sistema paese, così da ri-legittimare le istituzioni e avere le

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carte in regola per tornare a partecipare, nelle condizioni e con le risorse

opportune, alla realizzazione in maniera forte, lungimirante e duratura,

una volta per tutte, del grande progetto europeo.

Finora il Governo Monti ha proseguito l’azione del Governo Berlusconi sul

terreno della tenuta dei conti e di alcune riforme strutturali: tutti

interventi che abbiamo appoggiato lealmente per riuscire a superare

questa fase assai difficile. Di conseguenza non abbiamo nulla da

recriminare rispetto a quello che abbiamo fatto nel corso di questi mesi e

al sostegno che abbiamo dato al governo Monti. Il rigore però, ha anche

prodotto recessione e a sua volta la recessione rischia di rimettere in

questione i conti. Per questo bisogna partire da ciò che ha finora fatto il

governo Monti per lavorare sullo sviluppo: rigore e crescita è un’endiade

che va costruita e realizzata.

Per amor di verità, il Documento di Economia e Finanza, elaborato ad

aprile 2011, secondo le scadenze previste dal semestre europeo,

prevedeva il pareggio di bilancio nel 2014 ed era stato approvato dalla

Commissione e dal Consiglio europeo nel mese di giugno 2011.

Successivamente, con la lettera del 5 agosto 2011, la BCE aveva chiesto

l’anticipo del raggiungimento dell’obiettivo nel 2013, al fine di rassicurare i

mercati. Il governo Berlusconi aveva adempiuto prontamente, in agosto,

con la manovra correttiva dei conti pubblici per 64 miliardi di euro. Il

peggioramento della congiuntura nell’intera eurozona nell’autunno 2011,

tuttavia, aveva richiesto un ulteriore intervento correttivo, cui ha

provveduto il governo Monti con il decreto “Salva Italia”, per 63 miliardi di

euro. Manovra, quest’ultima, che ha contribuito solo per il 20% al

risanamento dei conti pubblici in vista del pareggio di bilancio nel 2013, su

328 miliardi totali di manovre varate dal 2008, con effetti fino al 2014, di

cui l’80% (265 miliardi) ad opera del governo Berlusconi.

Con riferimento al PD, solo con l’avvento del governo Monti, il segretario

del PD, Pierluigi Bersani, e il suo responsabile economico, Stefano Fassina,

hanno espresso, anche se non da subito, una contrapposizione al

rigorismo di stampo tedesco, prendendo sempre più le distanze dal

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governo Monti e da quella che viene definita la sua “agenda”. Agenda che,

a onor del vero, sarebbe più corretto definire come “agenda Berlusconi”:

quella attuata con i provvedimenti di agosto 2011 e in precedenza con il

maxi-emendamento alla Legge di Stabilità dell’11 novembre 2011.

Monti, nel suo programma di governo, su cui è stata votata la fiducia il 17

novembre 2011, non ha fatto altro che assumere totalmente quella

impostazione, con la variante, dettata dal peggioramento congiunturale,

della già citata manovra “Salva Italia”, basata in gran parte su un

inasprimento fiscale sulla proprietà immobiliare, e quella dell’attuazione

di riforme strutturali (pensioni e mercato del lavoro), che per definizione

non dovrebbero afferire all’emergenza, ma che, con il governo Monti,

sono state affrontate sotto la pressione dell’emergenza, e quindi con

l’urgenza di chi ne ricerca gli effetti attesi di breve periodo sulle

aspettative dei mercati.

Per quanto riguarda la nostra presenza in Europa, va anche detto che nei

confronti dei profondi limiti e degli orientamenti unilaterali assunti dalle

politiche monetarie ed economiche europee, eccessivamente rigoristi,

sarebbe auspicabile che, all’interno del PPE, il PdL faccia sentire la sua

voce: la partecipazione al PPE non deve consistere solo nell’ottenere

qualche carica ma nel dare un apporto critico per contribuire a modificare

gli orientamenti del PPE finora eccessivamente subalterni alla linea della

CDU.

Infine, la crisi in atto è anche espressione di una debolezza di governance

che non è solo europea, ma pure italiana. Per tutte le ragioni che si sono

sinora illustrate è evidente che, affinché tutte le manovre che si sono

realizzate non siano divorate dai mercati e rese dunque inutili, la prima

riforma strutturale da fare è quella dell’architettura costituzionale, dei

motori della decisione e della credibilità futura.

L’evoluzione della nostra storia politica ci indica una soluzione. I partiti da

soli non riescono a disciplinarsi, è necessario che i cittadini possano

investire qualcuno della specifica responsabilità democratica di mantenere

il motore funzionante anche nel medio periodo. La storia del nostro

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 2. La nostra analisi sul quadro economico internazionale, sull’Europa, sull’Italia

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parlamentarismo è molto simile, da questo punto di vista a quella

francese. Anche la soluzione può essere simile: il semi-presidenzialismo

con elezione popolare e diretta del capo dello Stato. Che, inoltre sarebbe

l’equilibrato contrappeso per l’improcrastinabile compimento del

federalismo anche sul piano fiscale e dell’organizzazione parlamentare.

A questo punto c’è un solo modo per scongiurare l’incertezza e

l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati

internazionali: dare un doppio fortissimo segnale: verticalizzare la

governance, eleggendo direttamente il Presidente della Repubblica,

assicurando una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica

italiana. E cambiare la politica economica, attaccando il debito: la vera

grande anomalia e debolezza dell’Italia. Due facce della stessa medaglia.

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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3. LE NOSTRE PROPOSTE DI RIFORMA ISTITUZIONALE E DI

POLITICA ECONOMICA

3.1 Architettura costituzionale dello stato e legge elettorale

Una democrazia non può funzionare bene e a lungo senza possibilità di

ricambio, senza competizione tra alternative, senza che i cittadini possano

dire la loro sulla cosa che conta di più: quale leader, quale governo e quale

maggioranza debba governarli. Nei Paesi che contano succede così. E non

è un caso.

L’alternativa è un fossato sempre più largo tra una politica asserragliata

nella paura e cittadini arrabbiati, una miscela esplosiva. Per non parlare di

quanto potrebbe succedere in Parlamento: instabilità, veti, contrattazione

paralizzante. Ci illudiamo se pensiamo che il ricorso a soluzioni eccezionali,

come governi tecnici, possano compensare questi effetti. I governi hanno

bisogno di un sostegno diretto dei cittadini: di cittadini che li scelgano, non

che li subiscano.

Il timore è che facendo riforme difensive, domani ci ritroviamo con

istituzioni persino più deboli, in cui nessuno può vincere, in cui nessuno

può veramente decidere. E cambiarle, a quel punto, potrebbe divenire

impossibile. Per questo occorre offrire ai cittadini una alternativa

possibile: il modello semipresidenziale.

Un’alternativa che è motivata dalla convinzione che questa sia la soluzione

più adatta all’Italia. Certo non l’unica, ma oggi la più adatta. Per ragioni

storiche, per ragioni politiche, per il modo in cui si è venuta evolvendo la

Costituzione vivente. In questa direzione andava la scelta fatta nella

Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, in questa direzione è andata

l’interpretazione del ruolo del Capo dello Stato nei momenti di crisi.

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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Il presidenzialismo alla francese può allineare la Costituzione formale alle

tendenze della costituzione vivente. È un sistema che ha dato buona prova

di sé, aiutando, in Francia, partiti in precedenza frammentati e litigiosi ad

orientarsi verso un assetto e comportamenti più virtuosi. In un momento

in cui tutti i partiti italiani sono in fase di ristrutturazione, avere un punto

fermo nella guida responsabile di un Capo dello Stato legittimato dai

cittadini può aiutare quel processo, evitando il rischio dell’anarchia e di

involuzioni autoritarie. Infine il presidenzialismo è un grande fattore di

unità nazionale. La competizione attraversa l’intero Paese. Esso può

pertanto rappresentare un ottimo contrappeso per un federalismo

equilibrato e responsabile.

Abbiamo l’opportunità di colmare quel gap tra la nostra e le altre

democrazie avanzate. Ciò che i costituenti stessi avrebbero voluto fare,

ma ai quali fu impedito dalle condizioni storiche. E se fu saggio che, allora,

non l’abbiano fatto, sarebbe colpevole non farlo oggi. Perché tanta acqua

è passata sotto i ponti e l’applicazione della seconda parte della

Costituzione si è avvitata in distorsioni e manipolazioni imposte dalla

necessità del tempo. Una necessità fisiologica nell’evoluzione delle

democrazie. Ma che noi abbiamo dovuto drammatizzare, chiamandola

sempre più di frequente “emergenza”, proprio per giustificare forzature

senza le quali la Costituzione sarebbe saltata.

Oggi abbiamo una grande occasione. La crisi della nostra economia, ma

anche della nostra democrazia, paradossalmente, ci dà almeno questa

opportunità. Di guardare i nostri mali con spietata lucidità e di assumerci

le nostre responsabilità. Perché il modello italiano che alterna democrazia

a basso rendimento e “stati di eccezione” a direzione presidenziale, non

può essere un modello permanente.

Il fine settimana del 6 maggio scorso ci ha posti davanti a un grande bivio:

se somigliare di più alla Grecia, dove non si è riusciti a costituire una

maggioranza parlamentare che sostenesse il governo e si son dovute

indire nuove elezioni, oppure alla Francia, dove il presidente François

Hollande si è insediato il giorno dopo le elezioni ed è subito volato in

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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Germania in visita ufficiale dalla cancelliera Angela Merkel e si è subito

messo alla guida non solo del suo Paese, ma anche degli Stati europei che

vogliono un mutamento di governance a livello di Unione per mettere al

sicuro la moneta unica.

Nella primavera del 2013 si determinerà nel nostro Paese una

straordinaria coincidenza: la scadenza della legislatura e la scadenza del

mandato del presidente della Repubblica. È un’occasione storica per

mettere i cittadini nelle condizioni di poter scegliere direttamente chi li

governa: i parlamentari, il governo e il presidente della Repubblica. La

domanda che responsabilmente ci dobbiamo porre tutti è questa:

vogliamo che siano i partiti, con accordi oscuri e incontrollati, a scegliere il

prossimo Capo dello Stato, o vogliamo che siano gli elettori alla luce del

sole, con un voto libero e democratico? E sulla base di una proposta

programmatica, un’agenda, chiara e inequivocabile?

In Italia, dal 1948 ad oggi non c’è mai stato, e non c’è tuttora, alcun

sistema per punire chi fa cadere i governi. Nella prima Repubblica questa

situazione è stata tollerata perché i governi erano fatti dai partiti; ma dal

1994 non è più così e sono i cittadini a decidere da chi vogliono essere

governati. Ribaltoni e ribaltini sono perciò un tradimento politico della

volontà popolare, senza sanzione per i traditori. Nessuna riforma

costituzionale ha senso se non scongiura questo rischio.

Anche la legge elettorale da sola non serve a nulla. Perché il problema non

è avere un governo la sera delle elezioni: il problema è evitare che una

minoranza lo faccia cadere a proprio piacimento qualche mese dopo. Un

presidente eletto dai cittadini ha il potere e la legittimazione di sanzionare

chi, nel parlamento, lavora per creare instabilità e trarne vantaggi politici.

Un presidente eletto ha la legittimazione politica di sciogliere le camere e

costringere chi ordisce imboscate a darne conto agli elettori. Un

presidente eletto ha la legittimazione politica per progettare il futuro.

Nei momenti di crisi, il presidente della Repubblica non è più solo un

notaio, ma il garante della continuità istituzionale e della stabilità

dell’indirizzo politico-democratico. Perché i partiti dovrebbero essere più

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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bravi dei cittadini a scegliere il capo dello Stato? È questa la domanda cui

deve rispondere chi è contrario al presidenzialismo.

Nell’attuale assetto istituzionale i cittadini possono scegliere il proprio

sindaco, il proprio presidente di Provincia e il proprio presidente della

Regione. Non c’è motivo per cui non abbiano diritto di scegliere il proprio

presidente della Repubblica. Potrebbero esserci due sole ragioni per

evitare questo sbocco. Il primo è quello del conservatorismo

costituzionale. L’altro potrebbe essere quello che i partiti vogliano

conservare il potere di nominare il Capo dello Stato. A nostro avviso non

esistono più le ragioni dell’una o dell’altra cosa.

Piuttosto, nell’assenza di queste scelta, non c’è da stupirsi allora

dell’aumento dell’astensione e del voto di protesta. È quando le istituzioni

sono deboli e instabili che vince l’antipolitica, mentre ciò non accade

quando le istituzioni sono democraticamente legittimate e hanno un

effettivo potere di realizzare le promesse elettorali. Da quale parte

vogliamo stare?

L’Italia ha bisogno di una riforma elettorale che razionalizzi il

bipartitismo/bipolarismo e rafforzi la stabilità dei governi. Una legge

elettorale che ottimizzi crescita e benessere, riduca l’intollerabile

frammentazione politica, renda la politica comprensibile e trasparente.

E’ indispensabile approvare una nuova legge elettorale per due ragioni di

fondo, quella che l’opinione pubblica non accetta più che i parlamentari

siano nominati dai partiti e perché l’attuale premio di maggioranza è

eccessivo e darebbe il controllo del Parlamento anche a coalizioni

fortemente minoritarie nel paese.

Proprio sul filo di una scelta sistemica di grande valore noi, anche nel

dibattito al Senato, abbiamo affermato la disponibilità a fare nostro il

sistema francese nella sua globalità, elezione diretta del Presidente della

Repubblica e elezione a due turni dei Parlamentari. La sinistra ha

vanificato questa disponibilità prendendo del sistema francese solo quello

che le appariva più conveniente, e cioè solo il sistema elettorale a due

turni, rifiutando ogni forma di presidenzialismo. Allora, fermo rimanendo

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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la nostra scelta globale, noi manifestiamo la nostra disponibilità a

ricercare ogni soluzione ragionevole purché si superi la situazione attuale.

Il Senato ha il merito di essere comunque arrivato ad una proposta,

purtroppo contestata dal PD. Noi in questa sede ci limitiamo ad esprimere

una opzione per un bipolarismo temperato, un ragionevole premio di

maggioranza e poi, in alternativa, o il sistema della preferenze o quello che

va sotto il nome di sistema elettorale spagnolo, basato su piccoli collegi.

Ormai è fin troppo chiaro: la capacità delle istituzioni di governo di agire

efficacemente, e nel contempo di garantire stabilità per produrre,

appunto, più benessere e più crescita, è inesorabilmente limitata dai

quotidiani distinguo che nascono dai conflitti intra-governativi di esecutivi

di coalizione, al loro interno variamente frammentati. Era così nella

consociazione "parlamentare" della prima Repubblica, così è rimasto,

purtroppo, nella consociazione "di coalizione" della seconda.

La composizione dei governi, la durata e la stabilità degli stessi, le larghe

ed eterogenee coalizioni, i gruppi di interesse che le sostengono e,

appunto, i conflitti che nascono al loro interno, sono le variabili che

determinano, nei fatti, sempre e comunque più spesa pubblica e, quindi,

più deficit, più debito. Determinano, cioè, una distorsione nella

distribuzione delle risorse rispetto a quella che sarebbe generata da un

sistema politico bipartitico/bipolare, il quale garantisce maggiore

efficienza, intesa come capacità di ridurre al minimo gli attriti e le frizioni,

che rallentano il perseguimento di uno specifico obiettivo. In altri termini,

nei sistemi multipartitici, il bilancio pubblico viene utilizzato, sotto forma

di alta pressione fiscale e/o alto indebitamento, più al fine di assorbire i

conflitti all’interno delle coalizioni di governo, che per produrre beni e

servizi per lo sviluppo.

Da questo deriva che i governi eletti in democrazie con sistemi

maggioritari/bipartitici/bipolari tendono a tagliare le tasse, ma anche la

spesa pubblica, in modo particolare durante gli anni elettorali. Mentre

nelle democrazie con rappresentanza proporzionale l’evidenza empirica

registra tagli alle tasse meno pronunciati e non registra tagli alla spesa

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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pubblica. Questo perché il nesso tra il potere di controllo degli elettori e la

rappresentanza politica è molto più diretto nei sistemi bipartitici/bipolari

rispetto a quelli proporzionali.

La letteratura economica suggerisce, a proposito delle conseguenze sulla

spesa pubblica e sulla politica fiscale in presenza di forme di governo e

sistemi elettorali diversi, che le forme di governo, e ancor di più le leggi

elettorali, rafforzano o indeboliscono il potere di controllo (accountability)

che gli elettori hanno sui rappresentati politici eletti. Il grado di controllo,

a sua volta, condiziona le performance economiche con risultati opposti in

termini di finanza pubblica.

In particolare, i sistemi bipartitici/bipolari rafforzano il nesso tra elettore e

obiettivi di corretta gestione della finanza pubblica. Un governo sostenuto

da un solo partito produce meno dispersione di risorse nello scambio

politico con la propria base elettorale. Tutto ciò si traduce in minore spesa

pubblica, minore pressione fiscale, minore deficit pubblico, minore debito

pubblico. L’evidenza dei dati a proposito è significativa e

quantitativamente importante.

Se ciò non bastasse, i sistemi bipartitici/bipolari introducono l’idea che le

elezioni siano una competizione nella quale la lista delle cose da fare è già

scritta prima del voto e che i partiti non siano dei semplici delegati, ma

soggetti chiamati ad operare sintesi prima delle elezioni. Sintesi definite

nei programmi di governo e incarnate dalle personalità dei leader che si

assumono la responsabilità della loro realizzazione; sintesi sulle quali gli

elettori si pronunciano dentro le urne, assegnando una maggioranza

solida al progetto che li convince di più.

I programmi elettorali diventano così le agende competitive, quanto alle

riforme costituzionali e quanto agli impegni dell’esecutivo e del

parlamento. Agende che contengono le diverse visioni di architettura dello

Stato e disegni di legge già pronti per essere incardinati, con relative

scadenze di approvazione e, quindi, di realizzazione dei contenuti. Nel

nostro caso, in questa particolare congiuntura, con il “ricatto” continuo

dei mercati attraverso gli spread, un’agenda che riguardi in particolare

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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l’attuazione del presidenzialismo e le leggi di politica economica previste

nell’ambito del semestre europeo, quale il Documento di Economia e

Finanza (DEF), che comprende il Programma di Stabilità (PdS) e il

Programma Nazionale di Riforma (PNR): i nostri impegni nei confronti

dell’Europa.

3.2 Una nuova politica economica

Occorre intervenire in maniera decisiva per una nuova politica economica

e per modernizzare il paese. Per farlo tornare a crescere assieme

all’Europa. Basta, dunque, con i ricatti della Germania, che ha portato

governi e parlamenti ad approvare riforme sbagliate, basate su analisi

parziali e distorte della crisi, che tendevano alla colpevolizzazione degli

Stati piuttosto che alla soluzione strutturale in sede comunitaria degli

squilibri macroeconomici nella costruzione dell’euro.

Cambiare la politica economica si può e si deve. Significa conciliare due

esigenze. La prima è quella di non tornare indietro, dopo gli impegni presi

e le conseguenze negative sopportate, rispetto agli obiettivi fissati di

pareggio di bilancio, ma prestando la massima attenzione a non mancare

l’obiettivo per “eccesso di rigore” (overshooting). Ciò vuol dire ammettere,

da parte di tutti, gli errori e fare manutenzione. C’è lo spazio in sede di

riforma fiscale e altro spazio si può trovare, come del resto si stava

facendo da anni, in sede di riforma della Pubblica amministrazione o,

come è ora più di moda, in sede di Spending review.

L’importante è capire che non ci sono scorciatoie, e quelle che appaiono

salvifiche spesso sono pericolose perché piene di buche. Ma l’obiettivo

fondamentale è quello di continuare la pressione in sede europea per un

mutamento di politica economica. Su questo terreno il governo è senza

dubbio riuscito a trovare spazi di autorevolezza notevoli perché

supportato da una maggioranza politica in Parlamento senza precedenti.

Si tratta di continuare a utilizzarla in modo coerente con l’azione della

BCE, la cui politica monetaria espansiva tuttavia viene sterilizzata

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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dall’eccesso di rigore restrittivo nelle politiche di bilancio che ancora

domina a livello europeo.

Come ci spiegano i più grandi banchieri centrali, Ben Bernanke e Mario

Draghi in primis, nonché economisti come i Nobel Paul Krugman e Joseph

Stiglitz, se la crisi economica e finanziaria non è ancora stata risolta, ciò è

dovuto proprio alla difficile trasmissione della politica monetaria. Se,

infatti, la politica di bilancio è eccessivamente restrittiva, non solo

depotenzia l’effetto espansivo di un aumento della liquidità, agendo in

senso contrario, ma, determinando aspettative negative, impedisce alla

liquidità di trasmettersi all’economia reale.

La liquidità non si trasforma, dunque, né in credito a imprese e famiglie da

parte del sistema bancario, che utilizza la maggiore quantità di moneta

disponibile per rafforzare i propri standard di patrimonializzazione

intaccati dalla crisi economica, né in investimenti (e conseguenti

assunzioni) da parte delle imprese, né, infine, in consumi da parte delle

famiglie, che nell’incertezza propendono più per il risparmio. Ciò significa

che la riduzione dei tassi di interesse inseguita dalle banche centrali non

determina livelli di reddito più elevati, come invece previsto quando i

canali di trasmissione di un’espansione monetaria all’economia reale

funzionano.

Ma veniamo all’altro aspetto dell’emergenza, quello relativo all’urgenza

con la quale sono state disegnate le riforme strutturali fondamentali

attuate dal governo, quella della pensioni e quella del mercato del lavoro.

Che ci fosse l’urgenza di vararle non è in discussione, soprattutto la prima,

ancorché si trattasse di realizzare l’ultimo miglio di un assetto già virtuoso

e in equilibrio, ma che assumeva un forte valore simbolico di fronte a

cosiddetti mercati assetati di sangue. Ma gli errori tecnici, a volte dovuti

alla fretta, a volte alla subalternità a posizioni conservatrici (come quelle

della CGIL), a volte alla scarsa conoscenza dei dati, un prossimo governo,

pur in continuità con gli obiettivi e le idee riformatrici dichiarate

dall’attuale governo, dovrà correggerli.

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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Non sarà difficile farlo per ciò che riguarda le pensioni, se si escluderanno i

tentativi di annullare la sostanza della riforma (incentrata sull’estensione

pro rata del calcolo contributivo e sul superamento delle pensioni di

anzianità nonché sull’esigenza di spostare l’età pensionabile e di

uniformare i trattamenti), e ci si concentrerà appunto sulla correzione

degli errori attinenti in particolare la grave sottovalutazione del problema

della transizione.

Per ciò che riguarda la riforma del mercato del lavoro, la manutenzione

dovrà essere più sostanziale affinché essa risponda, in primo luogo,

all’obiettivo di ridurre il rischio di assumere (dalla riduzione di questo

rischio consegue l’aumento di occupazione e la riduzione conseguente del

precariato patologico) e, in secondo luogo, alla necessità di detassare i

salari di produttività e di introdurre, finalmente nel nostro sistema, il

metodo della contrattazione decentrata, come richiesto, tra l’altro, dalla

Banca Centrale Europea nell’ormai famosa lettera all’Italia del 5 agosto

2011.

Per far fronte a tutto ciò, oggi occorre avviare una riflessione alta,

riprendendo la discussione sulla delega fiscale del governo Berlusconi, per

uno scambio vero tra imposizione diretta e imposizione indiretta, per

passare dalla tassazione delle persone alle cose in maniera seria (e non

ridicola), cioè l’idea di una “svalutazione fiscale” per aiutare a ridurre il

divario di competitività di costi accumulato dall’Italia nell’ultimo decennio

nei confronti della Germania e altri paesi concorrenti, divario non

correggibile con l’aggiustamento del tasso di cambio nominale. Il disegno

complessivo della riforma fiscale in direzione di un sistema pro-crescita è

anch’esso un terreno di confronto da sottrarre alla demagogia elettorale.

Ne abbiamo la possibilità attuando, inoltre, secondo le scadenze già

previste, il Federalismo fiscale, in un processo di razionalizzazione della

spesa, da integrare con la Spending review, di responsabilizzazione degli

enti territoriali e di passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni standard, in

un ambito di sostanziale revisione della riforma del titolo V che tanti

problemi ha creato alla funzionalità delle istituzioni. Ed è il momento di

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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avviare la riforma delle riforme: una riduzione strutturale, in 5 anni, del

debito pubblico per almeno 400 miliardi di euro (circa 20-25 punti di PIL)

come valore obiettivo, così da portare sotto il 100% il rapporto rispetto al

PIL, al fine di ridurre, nello stesso arco temporale, la pressione fiscale di un

punto percentuale all’anno (dal 45% attuale al 40%) e rilanciare gli

investimenti.

Si rende altresì necessario dare seguito al piano di progressiva riduzione

degli incentivi statali alle imprese per finanziare contestualmente la totale

eliminazione dell’IRAP (gettito 30-35 miliardi), in un contesto di impatto

neutro sui conti pubblici. Ed è fondamentale eliminare l’IMU sulla prima

casa, per tornare all’IMU come prevista nell’ambito del Federalismo

Fiscale: a decorrere dal 2013, escluse le abitazioni principali, direttamente

riscossa dai Comuni, in sostituzione dell’ICI e della componente

immobiliare di IRPEF e relative addizionali. Eliminare l’IMU sulla prima

casa stimola il settore delle costruzioni e, di conseguenza, l’intera

economia. Gli investimenti in edilizia hanno il più alto coefficiente di

attivazione: un euro di spesa nel settore si trasforma in un multiplo di

maggior prodotto interno lordo. Investimenti nel settore immobiliare

vogliono dire crescita e occupazione.

Infine, la riduzione della pressione fiscale e un conseguente miglior

rapporto fisco-contribuenti consente l’emersione dell’economia

sommersa, che in Italia ammonta a 540 miliardi.

Con questo metodo di analisi di tutte le altre azioni concrete riformatrici in

direzione di una liberalizzazione dell’economia, come l’Autorità garante

della concorrenza e del mercato ha segnalato al governo e al Parlamento

nella relazione del 2 ottobre 2012 in 72 punti, in tema di servizi pubblici

locali, energia elettrica e gas, trasporti, settore bancario e assicurativo,

servizi professionali, forse sarà possibile capire meglio il grado di

continuità e di discontinuità che è necessario proporre per il futuro.

Il presidenzialismo, dunque, come verticalizzazione democratica e non

tecnocratica della governance; e l’attacco al debito, come valorizzazione di

mercato della dimensione orizzontale diffusa degli interessi dei territori e

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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delle imprese: una vera e propria guerra di liberazione dalla cattiva

politica, dalle cattive rendite di posizione clientelari, sindacali, corporative,

dai monopoli, dai poteri forti.

L’operazione nel suo complesso (presidenzialismo e riduzione strutturale

del debito pubblico) ha in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera

rivoluzione: si avvia finalmente un meccanismo positivo di

modernizzazione del Paese che ci consente di essere europei a 360 gradi e

che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista

finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un

grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli

italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai

mercati, per tirare fuori il Paese dalla crisi, dal pessimismo,

dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze:

debito e cattiva politica. In questo senso il ricatto degli spread può

paradossalmente diventare una grande occasione non solo per l’Italia, ma

anche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.

3.3 Se riparte il Sud riparte il Paese

Se riparte il Sud riparte il Paese. Nel Mezzogiorno gli indicatori economici

rappresentano una società che ha enormi difficoltà. Il Pil cresce meno

della Media nazionale, il reddito pro capite è più vicino alle aree critiche

del Mediterraneo, molto distante dalla media del Nord del Paese e dalle

zone più ricche dell'Europa.

In questo contesto il Sud del Paese può e deve diventare una soluzione e

non un problema. E'qui, infatti, che ci sono i maggiori margini di crescita, è

qui che c'è la straordinaria risorsa del capitale umano, è qui che si gioca la

partita del buon utilizzo dei fondi europei, è da qui che deve partire la

sfida per il federalismo.

Ci sono tutte le condizioni per un vantaggio geopolitico, per essere

protagonisti nel Mediterraneo. Un mare che cresce e che rappresenta una

occasione di crescita. Bisogna guardare a questa possibilità, lavorarci con

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 3. Le nostre proposte di riforma istituzionale e di politica economica

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politiche concrete e mirate. E' questa la porta nella sponda del

Mediterraneo.

In questa direzione devono andare i grandi investimenti sulla logistica e sui

porti, sui Beni Culturali e sulla Ricerca e l’Ambiente. Il sistema delle

infrastrutture è dunque di fondamentale importanza.

E' anche in questa ottica che bisogna dare continuità al 'Piano di Azione e

Coesione' e condividere con la Commissione Europea e il Governo il

percorso per un migliore utilizzo dei fondi comunitari attraverso una

programmazione che si concentri su obiettivi strategici.

Abbiamo il compito di introdurre regole capaci di riconoscere le

perfomance di miglioramento, di individuare le responsabilità di chi

sbaglia e le intuizioni di chi coniuga la capacità di contenere la spesa e

pensare politiche di sviluppo.

Dobbiamo archiviare la stagione della spesa pubblica improduttiva, l'idea

delle rendite di posizione.

L'innovazione, la trasparenza delle procedure e delle scelte, la voglia di

misurarsi sul terreno della competitività devono rappresentare i punti di

svolta di un nuovo Mezzogiorno.

A questo scopo,bisogna tenere presente che il negoziato complessivo sulle

prospettive finanziarie dell’Europa nel 2014-2020 avviene in un periodo

delicatissimo per le sorti stesse dell’Unione Europea.

Nella consapevolezza della drammatica crisi e nella convinzione

dell’irrinunciabilità del ruolo dell’Europa e delle sue funzioni riteniamo di

fondamentale importanza che il futuro bilancio europeo sia all’altezza

delle sfide in atto, proponendo idonee soluzioni sulle modalità di uscita

dalla crisi economico-finanziaria globale.

Per quanto riguarda specificamente l’Italia, in considerazione dell’attuale

congiuntura economica e dello stato delle finanze pubbliche nazionali e

regionali, le risorse dedicate alla politica regionale e di coesione si

presentano come assolutamente strategiche per il mantenimento di

politiche pubbliche per lo sviluppo, in linea con gli obiettivi di Europa

2020, per tutto il territorio nazionale e in particolare per il Sud.

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 4. Etica e valori. Il rapporto tra stato,economia e società

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4. ETICA E VALORI. IL RAPPORTO TRA STATO,

ECONOMIA E SOCIETA’

Su argomenti delicati, che toccano la sfera privata dell’individuo,

lo Stato deve limitarsi a dettare linee di indirizzo che verranno

poi sviluppate e applicate dalla società civile sia attraverso codici

di autoregolamentazione delle imprese o delle organizzazioni sia

attraverso la libera determinazione di associazioni o di comitati

etici.

In tale contesto, il ricorso alla soft law, vale a dire ad atti para-

normativi, prevalentemente afferenti alla moral suasion, al pari

di quanto avviene nei principali organismi internazionali (ONU) e

nelle istituzioni europee, appare lo strumento di regolazione

meno invasivo e più efficace.

In ambito europeo, per esempio, vengono elaborati codici di

disciplina o linee guida che indicano come la Commissione

europea intende utilizzare i propri poteri e adempiere ai propri

compiti nei diversi ambiti di competenza. Passa poi nella

responsabilità degli Stati la declinazione, in base alle specificità

di ognuno, delle indicazioni di massima fornite dalla

Commissione. Lo stesso meccanismo devono applicare i governi

nazionali nei confronti della società civile per temi che

riguardano scelte personali dei cittadini e delle professioni.

In una società sempre più multiculturale (in cui la presenza di

lavoratori e cittadini stranieri è divenuto un aspetto di carattere

strutturale soprattutto sul piano del mercato del lavoro) e

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 4. Etica e valori. Il rapporto tra stato,economia e società

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aperta alle interazioni globali diventa infatti via via più difficile

proporre, e certo imporre, regole stringenti di comportamento e

di condivisione dei principi etici e dei valori posti alla base della

convivenza civile attraverso strumenti normativi tradizionali che,

al contrario, rischiano di creare inutili tensioni e

contrapposizioni.

Viceversa offrire al dibattito e alla autoregolamentazione

elementi di riferimento sui principi fondanti la salvaguardia e la

promozione dei diritti fondamentali ed inviolabili della persona e

dei gruppi sociali consente di accrescere la tutela della dignità

della persona, del suo lavoro, delle sue aspirazioni ed attese.

Tra questi: il principio della inclusione sociale, ossia il pieno

rispetto della dignità e della diversità di ciascuno, qualunque sia

la sua religione, il suo genere, il suo lavoro, la sua condizione

economica e la tutela di ogni sua aspirazione alla crescita

personale e alla partecipazione alla vita collettiva; il principio

della solidarietà, dell’aiuto e della assistenza che è dovuta nei

limiti delle possibilità dello Stato e delle sue organizzazioni a

ciascuno in base alle proprie necessità; il principio della dignità

della persona e della vita, che delimita la libertà di scelta anche

di fronte a malattie degenerative o a accanimenti terapeutici; il

principio della riservatezza che in un mondo sempre più pervaso

da tecnologie intrusive della vita privata ma anche da un

crescente bisogno di sicurezza sta perdendo i contorni di

principio etico e divenendo schema burocratico; il principio della

sostenibilità dello sviluppo e del consumo delle risorse

ambientali e naturali per prevenire costi economici e sociali a

carico delle generazioni future; il principio della libertà di

iniziativa perché ciò che non è espressamente vietato sia

consentito nei limiti del rispetto degli altri interessi individuali e

collettivi.

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PER UN MANIFESTO LIB-LAB 4. Etica e valori. Il rapporto tra stato,economia e società

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In questo quadro, per ciò che attiene lo Stato e i rapporti sociali

si possono indicare in sintesi alcuni principi di carattere generale

a cui ispirare l’azione dei riformisti: lo Stato deve assicurare

l’essenziale a tutti e dare più solo a chi ne ha bisogno; regolare i

comportamenti dei cittadini, non sostituirsi alla loro autonoma

iniziativa per risolvere i loro problemi; garantire ai cittadini

l’eguaglianza delle opportunità. Ciò significa che ad ognuno

spettano le medesime condizioni di partenza, ma anche gli

strumenti per non essere emarginato durante il cammino.

Inoltre, le politiche sociali non devono assuefare il cittadino

all’assistenza, ma riattivare le sue possibilità di procurarsi il

necessario in piena autonomia ed autosufficienza. Il concetto di

“pubblico” non coincide necessariamente con “bene fornito

dallo Stato”. Si possono perseguire finalità di interesse pubblico

e generale anche con forme privatistiche, più adatte ed efficaci

sul piano della gestione. Lo Stato deve incoraggiare la solidarietà

tra i cittadini, all’interno delle comunità a cui appartengono. Ma

ciascuna persona è responsabile della propria condizione e del

proprio futuro.

Per essere equa una politica di welfare non può gravare

eccessivamente sulle generazioni in attività che ne assicurano il

finanziamento. Non vi può essere sicurezza sociale a debito e a

carico delle generazioni future, non si può progredire veramente

spendendo oltre le proprie disponibilità. Il presente non è

consegnato dai padri ma preso in prestito dai figli ai quali

dobbiamo restituirlo.