MAMMA LI TURCHI! · 2018-01-12 · che ha governato la scelta dei titoli è stata quella di...

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MAMMA LI TURCHI! GIORGIO DE GIORGIO i quaderni del cineforum 58 20 ANNI DI CINEFORUM

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MAMMA LI TURCHI!GiorGio De GiorGio

i quaderni del cineforum 5820 ANNI DI CINEFORUM

MAMMA LI TURCHI!Il cinema ottomano alla conquista dell’Occidente

Giorgio De Giorgio

CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIACINEFORUM DEL CIRCOLO

gennaio - febbraio 2018

In soli quattro film il nostro non sarà che un approccio al cinema turco, un assaggio, quasi una scoperta. L’idea che ha governato la scelta dei titoli è stata quella di avvicinarci al tempo attuale senza dimenticare la grande storia di una nazione, e di un impero, che solo fino a non moltissimo tempo fa era tra i più potenti al mondo. E che ai nostri giorni, ormai da decenni, soffre incertezze politiche senza sosta. Tuttavia, e malgrado tutto, è in atto una sua “riconquista” dell’occidente anche appunto attraverso il cinema. Due autori turchi hanno realizzato, da “immigrati” o figli di immigrati, opere significative nel cuore di nazioni occi-dentali, sorprendendoci per la loro nazionalità d’origine e per il mondo a noi sconosciuto che hanno rappresentato. Ferzan Özpetek, affermatosi lavorando in Italia, ci permetterà di vivere alla vigilia del crollo dell’Impero Ottoma-no agli inizi del ‘900. Esito, detto per inciso, a cui anche l’Italia giolittiana contribuì nel 1911-12 con la guerra di Libia (Tripoli, bel suol d’amore di Ferruccio Cerio, 1954).Fatih Akin, lavorando in Germania da figlio di immigrati, racconta una storia legata alle sue origini. Attraverso lo sviluppo degli eventi percorre a ritroso il viaggio dei suoi antenati; sconta la pena di aver perso il senso delle cose per ritrovarlo nell’amore e nelle contraddizioni di Istanbul, luogo sacro ricco di fede e perdizione. Orso d’Oro a Berlino (2004).Altri due autori hanno disegnato un arco temporale significativo, rappresentando la continuità della sofferenza turca e della sua rappresentazione cinematografica. Yilmaz Güney realizza un ritratto della società turca dopo il colpo di Stato del 1980, raccontata attraverso le sto-rie di cinque prigionieri che ottengono il permesso di tornare a casa per una settimana dalla prigione in cui sono rinchiusi. La prima volta in cui viene rappresentato il travaglio politico di questo paese. Palma d’oro a Cannes nel 1982.Ali Aydin, partendo dalle storie vere dei desaparecidos curdi in Turchia dei primi anni Novanta, fa riferimento ai casi di persone arrestate e fatte sparire dall’esercito turco per aver espresso il loro dissenso. Un’opera prima che si proietta nel futuro. Leone del Futuro a Venezia 2012.…Altri autori, primo fra tutti Nuri Bilge Ceylan, dovranno attendere una prossima rassegna!...

Turchia la prima volTa

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Turchia e occidenTe

Ma che cos’è per noi la Turchia? Non è poi così diffusa la consapevolezza del ruolo della Turchia nelle vicende italiane, europee e perfino mondiali. Intanto, siamo davvero sicuri che la Turchia sia uno stato europeo o non piuttosto medio-orientale-asiatico? E se non è europea, perché allora fa parte della Nato, la principale alleanza At-lantica occidentale? Infine, appartiene o no la Turchia all’Unione Europea? No, non ancora; chissà, forse... Anche se non è facile dimenticare che la storia dell’impero romano (la nostra storia italiana e europea, quindi) ha avuto l’odierna Istanbul sua capitale dal 330 d.c. con il nome di Costantinopoli, chiamata anche “Nuova Roma”. Senza

perché mamma li Turchi…

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contare che già da secoli prima, per non dire millenni, l’Iliade aveva proiettato l’occidente sulla costa turca alla conquista di Troia. Salvo poi il ritorno turco in Europa con la presa di Bisanzio nel 1453 (L’agonie de Bysance, Louis Feuillade, 1913). E tutto, o quasi, per quei soli 1.510 metri del ponte sul Bosforo che collega la parte fisica del continente europeo a quella del continente asiatico.Intanto, la Turchia è sempre più tra noi. Non solo nel 2015 ospita il G20 (le venti nazioni “con più peso” nel mondo), ma ne è un membro sempre più in vista, anche dal punto di vista economico-commerciale dato che il suo Pil avanza ogni anno a due cifre. Guardate, per esempio, da dove provengono le confezioni di nocciole, uva passa, olive, ecc. del vostro supermercato…L’Italia è la terza nazione importatrice di prodotti turchi. E anche protagonista di una sorprendente cessione. La storica industria dolciaria Pernigotti è ora un’azienda turca di successo.È comunque innegabile che in questi ultimi tempi si sia molto parlato (e non senza preoccupazione) della Turchia e delle sue vicende legate so-prattutto alla politica di Recep Tayyip Erdoğan. Ma forse non si è sotto-lineato abbastanza come, anche prima dell’avvento di questo presidente, tale nazione abbia incominciato gradualmente a “penetrare” l’occidente in diversi campi civili, sportivi e culturali. Aveva già iniziato nel cinema il due volte premio Oscar Elia Kazan (nato a Costantinopoli), emigrato in America e autore anche di un film rievocativo, Il ribelle di Anatolia (1963). E se in anni recenti può aver meravigliato che il Nobel per la Letteratura venisse assegnato a Dario Fo e a Bob Dylan (scelte anomale ma comun-que “occidentali”), mai fu più inaspettato, nel 2006, il riconoscimento a Ohran Pamuk: non che non fosse ritenuto meritevole, ma la sorpresa per quella prima volta di un turco aveva stupito tutti. (La motivazione dell’attribuzione del premio fa riferimento alla capacità dello scrittore di incarnare l’anima malinconica della sua città grazie alla quale “ha scoperto nuovi simboli per il contrasto e l’intreccio delle culture”). E ancora, ha certamente sbalordito che nel 2017 a Londra, nell’ultimo mondiale di atletica, il vincitore dei 200 metri non sia stato come sempre un occidentale, europeo o americano, bensì il turco Ramil Guliyev, protagonista di un’impresa prima assolutamente inimmaginabile. E come non sottolineare che una squadra di calcio turca sia stata capace non solo di partecipare, ma anche di vincere una competizione europea come la Coppa Uefa (Galata-saray, 1999-2000). E che il trequartista Hakan Çalhanoğlu (Milan) è l’undicesimo calciatore turco a giocare in Italia.Inoltre, tutti conosciamo Il commissario Montalbano e il suo interprete Luca Zingaretti. Siamo perfino orgogliosi del suo lunghissimo successo che dura da 18 anni, e che ben 60 televisioni nel mondo condividono con noi. Ep-pure Erdoğan Atalay, interprete del poliziotto Samir Gerkhan nella serie Squadra Speciale Cobra 11, tedesco figlio di un turco migrato in Germania, viene visto in ben 120 televisioni di tutto il mondo, italiana compresa, a partire dal 1996. Quest’ultima notazione ci porta al tema della presente rassegna. Anche il cinema turco per farsi conoscere è pas-sato attraverso una conquista “sotterranea”. E ancora una volta la presenza turca è penetrata in Europa, con il coraggio di farsi avanti a sorpresa al festival di Cannes (1983), un faro nel Mediterraneo quando la Turchia era ancora completamente ignorata. Nel frattempo, attraverso un lungo e massiccio fenomeno di immigrazione nei principali paesi occidentali, milioni di turchi sono stati accolti, naturalizzati e integrati. La Germania è la nazione europea con il più alto numero di immigrati di origine turca. Su 82 milioni di abitanti, la comunità turca in Germa-nia conta ben oltre 1.7 milioni di persone legalmente residenti nella nazione, che arrivano ad essere oltre 2.4 milioni se si considerano coloro in procinto di acquisire la nazionalità tedesca, per nascita o naturalizzazione. Senza che di loro sia andata perduta la storia millenaria della propria civiltà. E sono così emersi i primi autori di cultura turca

L’attore tedesco di origine turca Erdoğan Atalay, interprete del poliziotto Samir Gerkhan nella serie Squadra Speciale Cobra 11

Non è la prima volta che i turchi cercano di risalire in Europa. A osservare l’estensione del territorio del fu Impero Ottomano nel suo massimo splendore si può credere che la nostra Penisola ne sia stata risparmiata, ma subendo in realtà continui attacchi. Basti ricordare la battaglia navale di Lepanto (7 ottobre 1571), vinta soprattutto dalle

L’Impero ottomano nella sua maggiore espandione

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flotte italiane delle varie repubbliche (Venezia, Genova…) che fermarono la conquista ottomana. E che anche nel 1683 (assedio e battaglia di Vienna) nuovamente, questa volta via-terra, l’espansione turca nel territorio euro-peo venne arrestata. Ma tutto ciò non racconta come per secoli comunque le coste del mediterraneo ancora non soggiogate hanno vissuto le scorrerie delle attività barbaresche (termine dietro il quale si celavano arabi e turchi), indirizzate verso le flotte e le coste del sud d’Italia. Le incursioni si spinsero anche più a nord, e più volte nel corso dei secoli furono attaccate e saccheggiate le città costiere laziali, toscane e liguri. Sul versante adriatico i corsari, gra-zie alla vigile sorveglianza delle galere veneziane, non riuscirono quasi mai a spingersi oltre le coste marchigiane. Al proposito ecco il film Il pirata del diavolo (1963, di Roberto Mauri), che ci racconta l’acerrima lotta tra il doge Marco Trevisan e il turco Rabenek, detto “il pirata del diavolo”, in un’ immaginaria città del dominio veneziano in Dalma-zia. E un altro film ci permette di rivivere un sanguinoso episodio avvenuto in Puglia, Otranto 1480 (del salentino Adriano Barbano, 1980), che ricostruisce l’assedio e la successiva strage degli otrantini compiuta dagli ottomani in quell’anno. Tema già ripreso nel 1968 dall’altro salentino Carmelo Bene con il film Nostra signora dei Turchi.Altri film ancora hanno titoli suggestivi ed evocatori di avventurose vicende all’insegna di quei tempi: nel 1957 Il pirata della mezzaluna (di Giuseppe Maria Scotese), e due anni dopo La scimitarra del Saraceno (di Piero Pierotti).Frequenti comunque erano le incursioni nei territori che si affacciavano sul mare. Di questo rimangono testimoni silenziose le torri di guardia costiere, presenti lungo le coste italiane. E da qui il ripetuto e tradizionale grido im-paurito d’allarme delle vedette di avvistamento: “Mamma li Turchi!”

Turchi e/o Saraceni

Cosa ci è pervenuto di tanta storia lontana? Non poco dunque, ma confuso in una grande bolla semantica in cui non ci si è ancora troppo curati di operare distinzioni. E ciò in parte perché nel tempo sugli stessi territori si sono sovrapposte dominazioni arabe e turche. Saraceno è un termine utilizzato a partire dal II secolo d.C. sino a tutto il Medioevo per indicare i popoli provenienti dalla penisola araba o, per estensione, di religione musulmana. Generi-co e vago, sin dalla nascita rimane un termine senza uno stretto significato etnico, geografico, linguistico e neppure religioso, con diverse variazioni nel corso del tempo. E le crociate? La riscossa della cristianità contro l’espansioni-smo turco avvenne alla fine dell’11° sec. e fu prova del rigoglio economico e dell’intento di impossessarsi di nuovi territori da parte di nobili e avventurieri occidentali che ne riportarono suggestioni e grande affascina mento.

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Ci fu successivamente un altro tempo in cui l´Europa fu presa di nuovo dalla febbre d´Oriente. C´era chi si faceva costruire edifici alla maniera dei sultani. I salotti d´Europa si riempirono di tappeti e cuscini moreschi. Pittori come Delacroix dipingevano giganteschi interni di harem con le schiave seminude in pose lascive. Go-ethe compose il suo “Divano occidentale-orientale.” Mozart scrisse il “Ratto dal Serraglio”. Gioachino Ros-sini compose “Il turco in Italia” (1814) sulla scia del gu-sto affermatosi con “L’italiana in Algeri” l’anno prima. E a proposito di Algeri, Angelica e il Sultano (Bernard Borderie, 1968) ci porta la protagonista della saga dei fratelli Golon, Michelle Mercier, nell’harem del sultano.Anche la letteratura popolare si riempì di libri d´avv-enture. Si svolgevano nei bazar, nei caravanserragli, nei misteri di un mondo “di bagni, di profumi, di danze, di piaceri”, come scrisse Chateaubriand. Nella prima metà dell’8oo Edgar Allan Poe, tra le altre opere, ci lascia i “Racconti del grottesco e dell’arabesco”, oltre a “Il Mil-lesimo-secondo racconto di Sheherazade”. Ma da dove ha origine questa moda? Da un primo libro, il solo che ancora oggi rappresenta per noi l´Oriente: “Le mille e una notte” (e Pasolini non si è lasciato sfuggire l’occa-sione di rappresentare nel 1974 Il fiore delle mille e una notte). La prima traduzione di un volume di racconti fu pubblicata dall´orientalista francese Antoine Galland nel 1704. Fu un successo inimmaginabile. Altri sei volu-mi seguirono fino al 1709, e poi ancora quattro, l’ulti-mo dei quali uscì addirittura due anni dopo la morte di Galland. Si scoprì poi che molti erano apocrifi, ma in fondo poco importava. Ed ecco comparire in occidente Shahrazād e le sue no-velle, Aladino e la sua lanterna, Sinbad il marinaio, Ali

Baba e i qua-ranta ladroni, ecc. E appena il cinema diventa adulto ecco rea-lizzare Il ladro di Bagdad del 1924 (Douglas Fair-banks diretto da Raoul Walsh). E ancora nel 1940 Sabu diretto tra gli altri da Mi-chel Powell. E poi ancora nel 1961 Steve Re-eves diretto da Arthur Lubin. Si pensi alla quantità di film

spettacolari ispirati da tutto questo. L´Oriente appariva, da quelle descrizioni, come il regno dei sensi, la don-na orientale era quanto ci poteva essere di più sensuale. Perversione e voluttà. Anche allora ci s´inventava vo-lentieri un mondo per evadere dalla realtà. Sull´Oriente gli europei proiettavano i sogni, le fantasie, i fantasmi che in Occidente erano tabù, facendo ricadere tutta la decadenza sull´Oriente - così come oggi forse i fonda-mentalisti islamici la fanno ricadere sull´Occidente.

Ma c’è un altro forte lascito radicato nella nostra cultu-ra, in alcune tradizioni popolari, nell’onomastica e in molti termini della nostra lingua. Qualche esempio?Ad Arezzo fin dal medioevo si svolge la Giostra del Sa-racino. Nel 1937 Mario Bonnard dirige il film Il feroce Saladino - protagonista il grande Angelo Musco - per sfruttare lo straordinario successo della raccolta di figu-rine della Perugina, di cui quella del “feroce Saladino” era introvabile e ricercatissima. Saladino è stato il sulta-no e condottiero ottomano contro cui si era rivolta la Terza Crociata per liberare Gerusalemme. Ed ecco che del film Sandro De Feo scrive sul Messaggero l’8 dicem-bre 1937: “La satira contenuta in questa specie di grot-tesco musicale ha ormai perso gran parte dell’attualità, in seguito alle disposizioni equalitarie sulle figurine e ha quindi un sapore storico. Ma il ricordo della febbre sala-dinica che percorse la penisola un anno fa è ancora così vivo che quelli che ne furono affetti non potranno non gustare i riferimenti all’epidemia di cui il film è pieno”. (De Feo non può sapere, mentre scrive la recensione, che è anche la prima volta che Alberto Sordi appare in un film… “appare” per modo di dire, in quanto recita la parte del leone nella cui pelliccia si nasconde). Del re-sto dopo Lo Sceicco (1920) di Rodolfo Valentino, perfino Federico Fellini non sfugge alla fascinazione insita nel personaggio e nel titolo del suo Lo sceicco bianco (1952). E così Totò lo aveva preceduto con Totò sceicco (1951, Mario Mattoli). E poi Un turco napoletano (1953) diretto ancora da Mario Mattoli, tratto da Edoardo Scarpetta, con un Totò con tanto di Fez in testa. Si osservi quale bisticcio linguistico si è realizzato tra due vocaboli così presenti nel nostro vivere quotidiano: granturco e grano saraceno. E il cognome “Turco” con le sue varianti non è forse molto presente? Abbiamo avuto il ministro della salute Livia Turco e il segreta-rio del partito socialista Ottaviano Del Turco. Il grande attore napoletano Enzo Turco e il regista televisivo di “Lascia o Raddoppia?” e “Rischiatutto” Piero Turchet-ti. Il divano alla turca e la toilette alla turca. Ma anche il bagno turco. Mozart ci ha lasciato la “Marcia turca”, e Carlo Collodi nel suo Pinocchio la fata turchina (dai capelli color turchese). La cantante Paola Turci è emilia-na e il suo cognome è piuttosto comune dalle sue parti. L’introvabile figurina Perugina del Feroce

Saladino

In Piemonte è ben noto il valico del Turchino. E come non ricordare Davide “Dino” Turconi, il più metodico e sistematico storico del cinema che il nostro paese abbia prodotto. Insomma, c’è quasi da perdere la Trebisonda (città turca sul Mar Nero)…Ma ora, per concludere, lasciato alle spalle tutto l’esotismo che il tema comporta, un po’ di storia recente.

Fra arretratezza e modernizzazione A cavallo fra il XIX e il XX secolo due classi profondamente connesse di problemi affliggevano l’Europa sudorientale e il Vicino Oriente (attuale Turchia, ex Impero Ottomano). Da una parte, l’Impero viveva una fase di estremo indebolimen-to, avendo ormai da diversi anni cessato di incutere timore alle potenze occidentali, dall’altra, soffriva l’emergere del nazionalismo fra i vari popoli da cui era composto. La crisi dell’Impero non poté essere frenata nemmeno dalle vellei-tarie riforme del celebre movimento dei “Giovani Turchi”, giunto al potere a seguito del colpo di stato del 1908. Esso, in prevalenza composto da intellettuali e ufficiali dell’eserci-to, si propose, senza consistenti successi, la trasformazio-ne dell’arretrato Impero in una moderna monarchia costitu-zionale “all’occidentale”. Il colpo di grazia fu rappresentato dalla sconfitta nella Prima Guerra Mondiale: il trattato di pace sottoscritto a Sèvres (1920) ridusse lo Stato ottoma-no alla sola penisola anatolica. L’intero Medio Oriente fu infatti spartito fra le potenze vincitrici e la parte europea dello stretto dei Dardanelli fu assegnata alla Grecia, come avvenne anche per Smirne, una delle città più popolose dell’Impero, di cui un’importante minoranza era appunto di origine ellenica. Per completare l’umiliazione, la zona degli stretti (compresa la capitale Istanbul) fu smilitarizzata e i flussi commerciali attraverso il Bosforo e i Dardanelli ven-nero posti sotto il controllo internazionale, in maniera non dissimile a quanto era stato stabilito negli stessi anni per la regione della Ruhr in Germania.La nascita della TurchiaÈ in questo travagliato contesto che entra in scena uno dei personaggi più iconici della storia turca: Mustafa Kemal. Costui era un brillante generale dell’esercito ottomano che si era distinto particolarmente nella vittoriosa battaglia di Gallipoli durante la Grande Guerra. Kemal riuscì a far leva sul ferito sentimento nazionalistico dei turchi e organizzò in tal modo la resistenza contro i greci, incentrandola su Ankara, una modesta città dell’interno, la quale divenne anche la sede di un’Assemblea Nazionale (e che sarebbe diventata in seguito la capitale della Repubblica di Turchia). La vittoria contro l’esercito invasore fece di Kemal, da que-sto momento chiamato Atatürk, “padre dei turchi”, l’eroe del paese e gli permise di dare finalmente inizio a quella mo-dernizzazione dello Stato più volte tentata in precedenza.

Laicismo e occidentalizzazioneAtatürk, che fino alla morte manterrà un saldo controllo sul-la neonata Repubblica turca, intraprese un’ampia serie di iniziative volte ad avvicinare il paese al modello occidentale di Stato-Nazione: la Turchia doveva infatti essere in primo luogo la nazione dei turchi, e ciò già di per sé rappresenta-va un netto cambiamento rispetto al multinazionale Impero Ottomano. Questo nascente nazionalismo turco condusse, però, alla dura repressione delle spinte autonomiste del po-polo curdo, a cui fu negata la possibilità di costituirsi come Stato indipendente.Il modello occidentale venne inoltre ripreso in quella che è forse la più innovativa e duratura riforma del padre dei tur-chi. Mentre infatti l’Impero della Sublime Porta era una vera e propria monarchia assoluta di stampo confessionale, in cui la religione islamica era non solo la religione di Stato, ma anche la fonte diretta di legittimità dei sultani stessi, la Turchia di Atatürk venne fondata sul principio di totale lai-cità della politica. Inculcare questo sentimento nelle mas-se popolari ancora per la maggior parte rurali richiese una dura campagna anticlericale, che si tradusse ad esempio nel divieto di poligamia nonché di indossare in pubblico simboli religiosi come il fez o il velo per le donne, che tra l’altro ottennero la parità con gli uomini nel diritto civile e opportunità di scolarizzazione e lavoro impensabili in pre-cedenza. La laicizzazione fu in un certo senso frutto della profonda trasformazione del tessuto economico del paese, che permise il suo primo vero decollo industriale. Quest’o-pera di modernizzazione (sia culturale che socio-economi-ca) fu tuttavia ottenuta a scapito della democratizzazione del paese e del pluralismo: Atatürk, fino al 1938, anno della morte, non permise infatti lo sviluppo di una libera dialet-tica politica, ma rimase saldamente al potere con l’ausilio del suo Partito Popolare Repubblicano. È dunque possibile interpretare questa vicenda secondo il modello della “scor-ciatoia autoritaria” (applicabile anche alla contemporanea evoluzione dell’Unione Sovietica sotto Stalin), un modo cioè per imporre dall’alto una rapida industrializzazione in un paese arretrato senza allo stesso tempo intraprendere il lento percorso parallelo verso il liberalismo politico, come è invece avvenuto nelle democrazie occidentali.Riemerge la vecchia TurchiaI decenni successivi alla morte di Atatürk sono segnati da

i due volTi della Turchia

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un lungo e travagliato percorso verso la democrazia, in-frammezzato da governi autoritari e colpi di stato militari. Quello che emerge di questi anni, oltre all’avvicinamento progressivo verso gli USA e il blocco occidentale (la Turchia è un membro della NATO sin dal 1952), è il vero e proprio ruolo istituzionale dell’esercito, che ha il dichiarato compito di difendere i fondamenti basilari dello Stato kemalista, lai-cismo in primis. Negli ultimi anni la prepotente affermazione di Recep Tayyip Erdoğan, sostenuto per la maggior parte proprio da quella parte del paese rurale e islamica che Ata-türk e i suoi successori non erano mai riusciti a conquistare del tutto al laicismo, dimostra come lo scontro fra i due volti della Turchia non sia per nulla sopito. Erdoğan, dal suo ar-rivo al potere, si è spinto sempre più in là nello smantella-mento delle basi kemaliste dello Stato: alcune riforme sono appariscenti, come l’abolizione dello storico divieto di indos-sare lo hijab (il velo islamico) in alcuni luoghi pubblici come gli uffici, altre meno, ma convergono comunque in questa direzione. In questo contesto diviene maggiormente com-prensibile il fallito tentativo di golpe del luglio 2016. La par-te più occidentalizzata del paese, con i militari golpisti che

ne fanno parte, teme il percorso che sta intraprendendo la Turchia. La facilità con cui Erdoğan ha ridotto al silenzio gli avversari è stata anche permessa dalla loro profonda fram-mentazione: la sinistra laica e democratica è comprensibil-mente diffidente nei confronti della via militare per risolvere la situazione. L’opposizione interna mostra inoltre grande difficoltà nel confrontarsi con il capo del governo, il cui piglio autoritario e carismatico ricorda per certi aspetti quello dello stesso Atatürk. La totale vittoria del presidente dopo il col-po di stato di luglio e l’impressionante repressione che ne è seguita ha dato una grande accelerazione ai progetti di Erdoğan: a farne le spese è stato per ora soprattutto l’HDP, il partito progressista filocurdo, ma è difficile pensare che il Sultano, come è soprannominato Erdoğan, possa fermarsi qui. La modifica della costituzione, che trasformerà il paese in una Repubblica presidenziale, necessita ora solo della ratifica popolare. E questo è forse l’ultimo tassello che man-ca alla “nuova” Turchia. Alessandro Perucca, Altrementiblog.it, 15 marzo 2017

Atatürk, “padre dei turchi”,

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I FILM DELLA RASSEGNA9

Regia Ferzan ÖzpetekAnno 1999 Paese di produzione Italia, Turchia Durata 110’

Soggetto Ferzan Özpetek, Gianni Romoli Sceneggiatura Ferzan Özpetek, Gianni RomoliFotografia Pasquale Mari Montaggio Mauro Bonanni Musiche Pivio, Aldo De Scalzi

Produttore Tilde Corsi, Gianni Romoli, Régine Konckier, Jean-Luc OrmièresInterpreti Marie Gillain (Safiye), Alex Descas (Nadir), Lucia Bosè (Safiye anziana),

Valeria Golino (Anita), Şerif Sezer (Perran), Serra Yilmaz (Gülfidan), Malick Bowens (Mithat), Cristoph Aquilon (Sümbül), Haluk Bilginer (Abdülhamit)

L'anziana Safiyè racconta ad Anita la sua storia di favorita nell'harem del sultano, Ab-dul-Hamid II (1876-1909). Agli inizi del '900, alla vigilia del crollo dell'Impero Ottomano, Safiyè si innamora dell'eunuco Nadir, con il quale stringe un patto per ottenere il potere che porta Safiyè a beneficiare della preferenza del Sultano. Purtroppo tutto ciò che aveva conquistato crolla miseramente: il figlio che avrà muore avvelenato, l'harem viene chiuso e Safiyè finisce in Italia esibendosi a teatro per sopravvivere.

HAREM SUARÉ

il racconTo

il loro parere

[...] Özpetek, che da bambino era incantato dai racconti di un’amica della nonna che aveva vissuto in un harem principesco, ci ridà incantandoci quell’atmosfera claustrofobica, morbosa, dorata e avvilente in cui vivevano donne che tuttavia erano considerate delle privilegiate perché venivano talvolta da famiglie poverissime che le avevano allevate con la speranza appunto di venderle a qualche ricco padrone. Il tempo che non passava mai era la loro ossessione, nella penombra dietro le insormontabili grate, mentre studiavano lingue, musica, letteratura, e si abbi-gliavano con gli abiti occidentali che arrivavano da Parigi.Natalia Aspesi, D-Donna

[...] Cresciuto nell’harem, Nadir sarà la sua guida, il suo maestro, il suo complice, il suo amante. Insieme complot-teranno per il potere e faranno di lei la favorita e poi la madre di uno dei figli del sultano. Insieme fronteggeranno gli intrighi dell’harem, tenteranno di sublimare la propria condizione, perderanno di colpo tutto quando il sultano parte per l’esilio, l’harem viene chiuso, le concubine abbandonate al loro destino. Il tutto calato in una struttura a scatole cinesi che abolisce la cronologia (con Safiyè anziana, Lucia Bosé, che racconta anzi reinventa la propria vita per la viaggiatrice Valeria Golino). Al secondo film dopo il fortunatissimo Bagno turco, Ferzan Özpetek incanta per talento visivo, sensibilità, sensualità, capacità di costruire ambienti e atmosfere anche usando al meglio tutti i suoi collaboratori. Ma il lato debole (l’epilogo, la struttura) di questo film affascinante come il suo intreccio di lingue, lascia intravedere il rischio che tanto talento in parte si perda, che resti esteriore. Sarebbe imperdonabile. E non solo per lui, ma per tutto il nostro cinema.Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 22 maggio 1999 (da Cannes)

Primi anni Ventesimo secolo. Mentre fuori imperversano i moti dei Giovani Turchi, all’interno del palazzo Yl-diz a Istanbul, la concubina Safiyé diventa favorita e poi moglie del sultano Abdulhamit II grazie alla complicità dell’eunuco Nadir, verso il quale nutre una ricambiata attrazione. Quando il parlamento turco deciderà di sciogliere

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l’harem e il sultano sarà mandato in esilio, Safiyé, di origine italiana, tornerà in patria a raccontare la sua storia. Ancora al lavoro sul rapporto tra Oriente e Occidente dopo l’esordio di Il bagno turco, Ferzan Özpetek dirige un affresco complesso e inusuale, imperniato sul crollo dell’Impero Ottomano. Con l’aiuto della pregiata fotografia di Pasquale Mari e di una cornice scenografica di indiscutibile presa perché non di rado autentica, il regista turco na-turalizzato italiano ha l’ambizione di ritrarre un intero mondo l’attimo prima del suo crollo così come di analizzare una realtà avvincente proprio perché in pieno disfacimento, scegliendo di far coincidere l’aspetto politico, sociale e emotivo della vicenda. Macchinosa nel funzionamento, la doppia cornice è soltanto una forzatura, retorica in più di un passo, spesso anche pesante. L’opera seconda di Özpetek sa essere anche appassionata, sensuale, gravida di una palpabile malinconia: si pensi ad alcune finezze nel rapporto tra Safiyé e Nadir, dapprima giocato sul non detto, sulle tensioni degli sguardi e poi su una tragica fisicità, oppure al discioglimento dell’harem inteso come metafora di un’intera epoca che sta per essere fagocitata dal progresso. Melodramma storico di ispirazione (anche) verdiana, del resto si inizia con un’esibizione di Traviata con finale appositamente cambiato dalla stessa Safiyé ad uso del sultano, Harem Suaré insegue un decadentismo di alta scuola che non riesce, tuttavia, a trovare né nella descrizione della vita dell’harem né nella sovrapposizione tra i diversi piani narrativi. In buona sostanza è come se il regista, ricorrendo all’espediente di non mostrare mai il nucleo reale di ciò che accade, invece di dare vita alla sperata vertigine, crei soltanto una confusione che respinge lo spettatore.Interessante il confronto attoriale, alla stazione, tra Valeria Golino (Anita) e Lucia Bosè (l’anziana Safiyé), due interpreti capaci in un cast purtroppo non sempre all’altezza. Scritto dal regista con Gianni Romoli, anche produt-tore con Tilde Corsi, musicato da Pivio e Aldo De Scalzi. Imperfetto, ma a suo modo prezioso.Marco Chiani, MyMovies

PREMIAntalya Golden Orange Film Festival: miglior attrice non protagonista (Serra Yilmaz)Premio Gianni Di Venanzo 1999: miglior fotografia italiana

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Dopo il colpo di stato che nel 1980 ha consegnato la Turchia a una dittatura militare, cinque detenuti in libertà vigilata viaggiano per il paese. Yusuf smarrisce i documenti di identità, e viene presto arrestato. Seyit, giunto a casa, apprende che la moglie Ziné, fuggita in un bordello dopo l’incarcerazione del marito, è ora tenuta in prigionia dai famigliari in una casa in monta-gna. Costoro la affidano a Seyit perché la uccida, riscattando l’onore perduto. Diviso fra l’odio e la pietà, l’uomo la conduce a piedi su un ghiacciaio, insieme al figlio, e ne provoca la morte per assideramento. Mehmet, responsabile della morte del cognato (autista in una rapina a una gioielleria, scappò abbandonandolo dopo aver udito gli spari della polizia), torna dalla moglie e viene scacciato dai parenti della donna, che però fugge con il marito. Sul treno, dopo che i due coniugi sono scampati a un linciaggio per essersi chiusi insieme nella toilette, la donna viene uccisa dal fratello minore, che giustizia anche Mehmet. Mevlüt, che si ritiene un uomo moderno, va a trovare la fidanzata e le propone di sposarlo, prescrivendole doveri coniugali che implicano una cieca obbedienza al marito. Invece di avere rapporti sessuali con lei, si reca in un bordello. Il curdo Ömer trova il suo paese natale oppresso dall’esercito turco. Suo fratello, militante nelle schiere dei ribelli, viene ucciso: e Ömer, in ottemperanza alle regole della tradizione, diventa il marito della vedova, rinunciando a sposare la donna che silenziosamente gli dichiara il suo amore. Alla scadenza del permesso, si rifiuta di rientrare in galera e sceglie la via della fuga sulle montagne.

YOL

il racconTo

il loro parere

In certi film, soprattutto in quelli americani, si arriva a un climax di sentimenti e reazioni che crollano con un’azio-ne risolutiva. Io voglio invece che gli spettatori accumulino queste sensazioni durante tutto il film e si ritrovino per la strada, fuori dal cinema, pieni di angoscia, carichi dei sentimenti e della disperazione dei personaggi. Voglio che vadano a casa e che, da questo momento, vedano la vita e il mondo attraverso questa esperienza. Yılmaz Güney, Enciclopedia del Cinema, 2004

Il carcere, in Yol (termine che in turco significa ‘strada’, ma anche, in senso figurato, il “cammino della vita”), non è solo il luogo di provenienza dei cinque viaggiatori, ma è anche metafora applicabile all’intera società turca. Non soltanto perché ricorrono nel film riferimenti a violenze perpetrate dalla polizia e dall’esercito sulla popolazione civile; ma anche perché a ‘incarcerare’ i personaggi sono le rigide prescrizioni e i crudeli codici d’onore di un’antica cultura patriarcale. Rispetto a questo complesso sistema repressivo politico e culturale, Yol coglie svariate reazioni nei protagonisti, così come nelle figure secondarie: dall’inerzia rassegnata con la quale una donna nel villaggio cur-do continua ad allattare al seno un bambino, mentre si svolge sotto i suoi occhi un’azione di guerriglia, al sorriso affascinato e masochistico con il quale la fidanzata di Mevlüt apprende da lui i dettami annichilenti della sua futura

Regia Yılmaz Güney, Şerif GörenAnno 1982 Paese di produzione Turchia, Francia, Svizzera Durata 114’

Soggetto Yılmaz Güney Sceneggiatura Yılmaz GüneyFotografia Erdoğan Engin Montaggio Hélène Arnal, Yılmaz Güney, Elisabeth Waelchli

Musiche Sebastian Argol, Zülfü Livaneli Interpreti Tarık Akan (Seyit Ali), Şerif Sezer (Ziné), Halil Ergün (Mehmet Salih), Necmettin Çobanoğlu (Ömer), Semra

Uçar (Gülbahar), Hikmet çelik (Mevlüt), Sevda Aktolga (Meral), Tuncay Akça (Yusuf), Hale Akınlı (Seyran), Turgut Savaş (Zafer), Hikmet Taşdemir (Şevket), Engin Çelik (Mirza), Osman Bardakçi (Berber Elim), Enver Güney (Cindé)

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vita coniugale; dal dissidio intimo di Seyit, che sarà perseguitato dal rimorso dopo la morte di sua moglie, alla ribel-lione nei confronti della legge maturata da Ömer, che però accetta fatalisticamente gli obblighi coniugali prescritti dalla tradizione. Molti motivi conferiscono a Yol la dimensione di un affresco (come del resto era intenzione dello stesso Yılmaz Güney che, per raccontare altri aspetti della società turca, prevedeva nel progetto originario un nu-mero maggiore di viaggiatori protagonisti): la gamma di atteggiamenti psicologici che la macchina da presa coglie sui tanti volti ripresi dal film (con una tendenza a indugiare sui primi piani che ad alcuni critici ha ricordato il cine-ma di Pier Paolo Pasolini); le città e i paesi descritti con un atteggiamento di costante disponibilità a cogliere scorci di reale; gli svariati momenti di vita sociale ritratti (le amicizie e le solidarietà virili; i nuclei familiari e, in particolare, i rapporti fra padri e figli; il sesso; la guerriglia; la folla unita nel linciaggio o che si accalca curiosa alle porte di un bordello…). La nota dello strazio è sottesa a tutte le immagini, anche a quelle che ritraggono bei paesaggi naturali, uomini che corrono a cavallo o uccelli che spaziano nel cielo: segni di una libertà rimpianta o vagheggiata.Gianfranco Cercone, Enciclopedia del Cinema, 2004

[...] Jack Lang, ministro francese della Cultura, inaugurò l’edizione del 1982. Giorgio Strehler, prestigioso regista di teatro da sempre affascinato dal cinema, presiedeva una giuria di cui faceva parte anche lo scrittore Gabriel Garcia Marquez, anch’egli tentato più volte dalla macchina da presa e con un passato di studente di cinema, proprio in Italia. Entusiasmò Yol (1981), durissimo atto d’accusa sulla condizione politica della Turchia, realizzato dal curdo Yılmaz Güney e da Şerif Gören: Güney, condannato a sette anni per reato di opinione ed evaso dalla prigione tur-ca, riuscì a raggiungere Cannes per presentare il suo film. Yol vinse la Palma insieme a Missing (Missing - Scomparso) di Costa-Gavras, altro film impegnato sul fronte politico-umanitario [...]Ettore Zocaro, Bruno Roberti, Storia del Festival di Cannes, 2003

Cinque detenuti in un carcere turco durante i primi anni ‘80 ottengono un breve permesso per far ritorno a casa, intraprendendo un lungo viaggio in treno che li porterà ciascuno alla risoluzione, talora drammatica, dei conflitti sociali e culturali che hanno investito le rispettive famiglie a causa della loro condanna.Muovendo dalle inquietudini e dai tormenti che agitano il cuore di esistenze interrotte come l’incessante turbinio del mare che si infrange sulle coste di un confino insulare, Goren e Güney intraprendono il tortuoso itinerario di un viaggio, difficile e angusto, attraverso gli estesi territori di una nazione sospesa, come le vite dei suoi pro-

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tagonisti, tra lo slancio di una faticosa modernità ed il giogo di tradizioni familiari arcaiche, tra le costrizioni di una tirannide marziale e quelle ancor più dure e spietate di un anacronistico patriarcato. Opera che testimonia la sorprendente vivacità antropologica del cinema turco, rivela un raffinato equilibrio tra la esemplare singolarità dello sviluppo narrativo (storie parallele di tragedie personali che si esauriscono in una drammatica convergenza temporale nella variegata morfologia di un territorio sconfinato) e le suggestioni di un misurato lirismo che indugia spesso nei primi piani di volti segnati dalle fatiche del tempo e dalle prove della vita, attraversato dagli echi di una infinita melodia della memoria tra il suono dolce del flauto e la solennità celebrativa del davul.Pur approntando gli elementi di una messa in scena classica e senza smanie virtuosistiche (calibrati i movimenti di macchina e pochi piano sequenza), è notevole dal punto di vista figurativo nella policromia dei paesaggi (dalla cao-tica modernità dei centri urbani alla brulla povertà dei villaggi rurali, dalle praterie verdeggianti del confine siriano alla raggelata asprezza dei monti del Ponto) e dei costumi tradizionali, venato da un sottile simbolismo politico e dimostrativo nella forzata ineluttabilità dei paradigmi sociali (storie di famiglie disgregate che il ricongiungimento coniugale porta alla definitiva frammentazione: dal sogno infranto dello sposo trattenuto in caserma alle smanie sessuali di un fidanzato in regime di ‘sorveglianza morale’, dal ratto familiare di un padre codardo e ripudiato dai cognati agli obblighi d’onore di un marito tradito dalle debolezze della consorte fedifraga al tacito addio di un amore perduto nel dramma dei poveri contadini curdi). Splendida la fotografia di Erdoğan Engin e le musiche tra-dizionali di Sebastian Argol e Zülfü Livaneli. Da un soggetto di Yilmaz Güney, scritto durante la detenzione e di-retto dall’autore insieme al sodale Serif Gören. Vincitore al Festival di Cannes 1982. La lunga strada (Yol) verso casa. ianleo67, MyMovies, 10 agosto 2013

[...] Senza avere la pretesa di aggiungere nulla al dibattito teorico, prendiamo in esame un film emblematico per la sua capacità di esprimere un fortissimo senso politico attraverso un linguaggio filmico di grande impatto. Si tratta di Yol (1982), in italiano La strada, diretto da Serif Gören per conto di Yilmaz Güney (nome d’arte per Yilmaz Pütün). Yilmaz Güney era un regista di origine curda che durante le riprese del film si trovava in carcere, accusato dell’uccisione di un giudice, e Serif Gören era il suo assistente, che ha girato il film sulla base delle sue indicazioni. Yol è la storia di alcuni prigionieri curdi che vengono rilasciati dal carcere per una licenza e ritornano dalle loro famiglie. Qui dovranno fare i conti con una violenza non meno crudele di quella del regime turco, ovvero l’op-pressione della tradizione. I protagonisti sono rappresentati al centro di una morsa che non lascia vie d’uscita, ogni uomo sembra prigioniero del proprio destino. E se contro il dominio della violenza dello stato si riesce a concepire la risposta della resistenza fisica, contro l’oppressione delle tradizioni oscurantiste non si giunge a escogitare nessu-na alternativa. È quanto accade a Seyit Ali che deve uccidere sua moglie per preservare il suo onore, e per questo la sottomette al “giudizio di Dio”. Quando in una landa innevata percuoterà la donna, e non per ucciderla, ma per salvarla dal gelo, tutti i nuclei semantici convergono nell’immagine. C’è l’essere umano che riprende in mano la sua vita, prova a mutarne l’esito che altre forze sociali hanno deciso per lui. Un disperato tentativo di tornare/diventare uomo, libero. È una ribellione politica, ma anche un atto d’amore. Immagini in cui la natura diventa protagonista insieme agli uomini e partecipe del loro destino. Niente che sia didascalico può aderire a quei fotogrammi perché essi hanno l’ambizione di affrontare nessi non comprensibili dalla sola ragione, a cui non è possibile replicare con soluzioni da impartire all’uomo, ma solo interrogandolo sulla sua essenza. E d’altro canto quella narrazione visiva perderebbe quasi del tutto il suo potere evocativo, il suo fascino formale se privata del piano semantico su cui insiste. Lo spettatore è solo di fronte a quelle tensioni. E deve trovare in sé le risposte.Pasquale D’Aiello, Taxidrivers.it, 14 febbraio 2012

La realizzazione del film fu avventurosa, poiché il regista e sceneggiatore Yilmaz Güney si trovava in prigione al momento delle riprese. Il film fu diretto dal suo assistente Şerif Gören, che seguì con precisione le indicazioni del regista. Dopo la fine delle riprese Güney riuscì a fuggire dal carcere, prese i negativi del film che nel frattempo erano stati trasferiti in Svizzera e infine lavorò al montaggio a Parigi.

PREMIPalma d’oro Cannes 1982French Syndicate of Cinema Critics 1983London Critics Circle Film Awards 1984National Board of Review, USA 1982

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Ad Amburgo, Sibel, una ragazza di origini turche scampata a un tentativo di suicidio, per sfuggire alle severe abitudini musulmane della famiglia decide di chiedere aiuto a Cahit, an-che lui turco, per farsi sposare. Anche Cahit ha provato a togliersi la vita e, dopo l’iniziale riluttanza, accetta di prendere Sibel in moglie, forse per realizzare nella sua vita qualcosa di utile. Nonostante il matrimonio fanno vite separate e spesso Sibel porta a casa altri uomini. A poco a poco il ragazzo si innamora della sua coinquilina e prova gelosia per gli uomini che lei frequenta. Anche Sibel inizia a provare dei sentimenti ma se ne rende conto troppo tardi. Cahit uccide uno dei suoi amanti e viene arrestato. Lei va a Istanbul e quando lui viene rilasciato la va a cercare perché spera ancora che potranno avere un avvenire insieme.

LA SPOSA TURCA(Gegen Die Wand)

il racconTo

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La sposa turca (Orso d’Oro a Berlino) è stato il film che ha fatto conoscere a livello internazionale il talento di Fatih Akin, un autore capace di rappresentare i malesseri della “comunità turca” in Germania senza essere né ecces-sivamente pesante né gratuitamente declamatorio, sviscerando le tematiche profonde legate al multiculturalismo ed equilibrando con sapiente abilità tecnica gli schemi della commedia con quelli del dramma. La sua poetica si incentra soprattutto sulla sorte dei giovani turchi trapiantati in Germania, quelli della seconda o terza generazione di immigrati che magari non sono mai stati in Turchia, che vivono un presente subendo tutte le tensioni indotte dalla deregolamentazione del mondo globalizzato ed hanno un retaggio culturale e familiare che li riporta sempre ad un paese con cui dovranno prima o poi fare definitivamente i conti. Per Akin la Turchia rappresenta sempre un cerchio che si chiude e questo fa sì che i turchi di Germania, anche se perfettamente integrati, sembrino rimanere degli ospiti nella terra che li ha visti nascere e crescere. Sibel e Cahit rappresentano un emblema esplicito sotto que-sto punto di vista, due anime solitarie perse nella perenne indeterminatezza delle loro esistenze, con un presente incerto e tutto da ricostruire e senza un passato che possa fornire valide coordinate verso cui tendere. Vivono con la terra d’origine un rapporto conflittuale, certamente frutto di vicende personali, ma anche figlio dell’evidente impossibilità di rapportarsi fedelmente con esso stando in un paese percorso da ogni tipo di tensione interetnica, nel cuore dell’occidente “globalizzato”. La mancanza di un centro che equilibri la loro disfunzione sistemica prima li fa unire nel segno della reciproca carica autodistruttiva, e poi li divide in ragione di un amore che infiamma sul nascere il sogno di una vita. Proprio quando stanno vincendo la vicendevole indifferenza e stanno scoprendo l’uno l’indispensabilità affettiva dell’altro, la rabbia arma il destino che vuole separarli per sempre. Akin tratteggia questa evoluzione affettiva non solo avvicinando gli sguardi di Sibel e Cahit ma anche facendo coincidere la messa in

Regia Fatih AkinAnno 2004 Paese di produzione Germania, Turchia Durata 121’

Soggetto Fatih Akin Sceneggiatura Fatih Akin Scenografia Tamo KunzFotografia Rainer Klausmann Montaggio Andrew Bird Musiche Alexander Hacke, Maceo Parker

Produttore Andreas Schreitmüller, Stefan Schubert, Ralph Schwingel, Fatih Akin, Mehmet KurtulusInterpreti Birol Ünel (Cahit Tomruk), Sibel Kekilli (Sibel Güner), Güven Kıraç (Şeref), Meltem Cumbul (Selma), Demir

Gökgöl (Yunus Güner), Aysel Iscan (Birsen Güner), Cem Akın (Yilmaz Güner), Catrin Striebeck (Marem), Zarah McKen-zie (barista), Stefan Gebelhoff (Nico), Hermann Lause (dottor Schiller), Francesco Fiannaca (uomo al bancone), Mona

Mur (cliente del Zoe Bar).

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ordine di certi sussulti del cuore con la riscoperta delle comuni origini turche, con la pulsione delle proprie radici profonde che vengono a palesare la loro atavica presenza. Alla fine, è nei dedali di una Istanbul scarnificata di tutto il suo fascino mediorientale che ognuno dovrà decidere la strada da prendere. Ritornando nel paese che, nel bene e nel male, non li ha lasciati mai soli. Beppe Comune, FilmTV

Cahit (Birol Ünel), alcolizzato, depresso, autodistruttivo, incontra Sibel (Sibel Kekilli) in una sala d’attesa di un ospedale. Entrambi scampati ad un tentato suicidio, macchina contro muro lui, lametta e vene lei, scappano dall’o-spedale per andare a divertirsi in giro. Lei vuole sposarlo per togliersi di mezzo la famiglia turca che la opprime e non le permette di godersi la vita. Lui non aspira a nulla che vada oltre la lattina di birra o il tiro di cocaina e le dice di no. Sibel si ritaglia le vene; Cahit, turco-tedesco come lei, decide di sposarla visto che non ha altro da fare. Finge con i genitori, regge il gioco al banchetto nuziale, la porta a vivere a casa sua permettendole di ripulirla e di pagare metà affitto. La prima notte di nozze Sibel le chiede della sua ex moglie. Lui la caccia di casa e lei va a far l’amore con un barman. Cahit torna dalla sua concubina parrucchiera, che poi trova lavoro alla moglie. La storia si intreccia man mano che l’amore, rifiutato da entrambi, nasce, cresce e fa morire un pretendente occasionale che ingelosisce troppo Cahit. Il maschio in galera. La femmina ormai innamorata, nella polvere. Ripudiata dalla famiglia scappa ad Istanbul dalla zia. Trova lavoro come cameriera, ma non è quello che vuole. Scrive al marito il suo amore, ma si perde nei bassifondi della città fino a farsi stuprare ubriaca e pestare a sangue da tre balordi volontariamente provocati. Cahit esce di prigione e va subito a cercarla in Turchia. Lei si è rifatta una vita, ha una bambina, un com-pagno, ma si concede due giorni per consumare il matrimonio, prima di illudere il marito che tutto possa tornare com’era, e che tra loro possa esserci un futuro.Fatih Akin racconta una storia molto legata alle sue origini turche. Attraverso lo sviluppo degli eventi percorre a ritroso il viaggio dei suoi antenati; distrugge i loro valori; li annaffia con tanto sangue; sconta la pena di aver perso il senso delle cose per ritrovarlo nell’amore e nelle contraddizioni di Istanbul, luogo sacro ricco di fede e perdizione.Nell’autodistruzione e nel bisogno di vita dei suoi protagonisti, il regista trova il bello della rinascita. Offre, a tutti i suoi personaggi, un’occasione per riscattare le proprie scelte, per cambiare idea su se stessi e sugli altri, per aprire una porta a chi vive sulla stessa terra. Il sangue scorre. Fatih Akin con la cinepresa ricuce le ferite inferte ai suoi

PREMIPalma d’oro Cannes 1982French Syndicate of Cinema Critics 1983London Critics Circle Film Awards 1984National Board of Review, USA 1982

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protagonisti. I due attori assecondano la storia portando addirittura il regista a cambiargli il finale. La loro inter-pretazione è drammaticamente coinvolgente. Le loro facce, estremamente espressive e sofferenti. Il film è uno splendido parto rigenerante quanto due ore di mestruazioni. Speriamo favorisca un ciclo della stessa intensità. Andrea Monti, FilmUp

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Basri è un guardiano delle ferrovie. Suo figlio, Seyfi, è stato arrestato 18 anni fa per le sue opinioni politiche. Questa è l’ultima cosa che Basri sa di suo figlio. Sei anni dopo la sua scom-parsa, la moglie di Basri è morta e lui è rimasto solo. Per 18 anni ha scritto due lettere al mese: una al Ministero degli Interni e una alla Questura. In quelle lettere esprime ogni volta solo la speranza di ritrovare il figlio, nient’altro, e per via di quello che ha scritto Basri è stato torturato, interrogato e messo in isolamento. Ma niente potrebbe fermare Basri nei suoi tentativi per ritrovare il figlio

MUFFA(Küf)

il racconTo

il loro parere

Oggi il tempo corre veloce ma in Anatolia, nella Turchia profonda, i ritmi di vita sono differenti: io ho cercato di rendere, nel mio film, questa lentezza per permettere allo spettatore di entrare nei pensieri del protagonista.Ali Aydin: CineCritica WebDa noi è la realtà, in Turchia un film: Muffa. Un piccolo grande film, che sa forte di neorealismo, ma non batte bandiera tricolore. Leone del Futuro all’ultima Mostra di Venezia, l’esordiente Ali Aydin ha scelto un titolo senza appello, respingente: lo boccerebbe qualsiasi produttore nostrano, qualsiasi esperto marketing nazionale. Ma a portarlo sull’altra sponda del Mediterraneo c’è dell’altro: “L’unica cosa che mi ha fatto scrivere questa storia è la mia coscienza”. Da quanto tempo noi non lo sentiamo più? E non solo al cinema. Nelle nostre sale con la Sacher di Moretti, Muffa (Küf) è perfettibile, ma insieme tosto, cupo, ineluttabile, parla di solitudine, speranza e senso di colpa, parla dell’uomo per l’uomo, e il grimaldello giusto l’ha già tirato fuori il regista: Dostoevskij. Con buoni motivi, fatte le debite proporzioni, perché il suo Basri, guardiano delle ferrovie, cammina senza requie e senza senso sui binari turchi e tra le pagine dello scrittore russo, mosso da un’unica – irragionevole – ragione: sapere che fine ha fatto il figlio Seyfi, arrestato per motivi politici 18 anni prima. Ogni mese Basri scrive al ministro degli Interni e alla Questura: l’unica risposta sono periodici interrogatori, con sporadiche torture. Ma Basri non molla: disperatamente abulico, inconsultamente meccanico, va avanti, sventando uno stupro, cadendo preda di attacchi epilettici e trovando – dostoevskianamente – altri idioti, altri umiliati e offesi, altre notti bianche. Perché Basri rimane attaccato a quel che rimane di ogni perdita: ciò che si è perso. Un figlio, l’idea sfatta carne del figlio. Aydin parte dall’associazione Cumartesi Anneleri, “le madri del sabato” che davanti al liceo Galatasaray protestano per i propri figli o fratelli scomparsi nelle carceri turche, ma va oltre la cronaca impegnata e la denuncia civile. Muffa è letteratura, vulnus interiore, dolore con nome e cognome. Muffa è forma raffreddata (pochi movimenti di mac-china, un lungo piano sequenza rivelatore) e coscienza arroventata. Muffa è cinema: povero fuori, ricco dentro. Vi ricorda qualcosa? Comprensione e comprensibilità universali, come nel neorealismo che fu e nei cinema poveri ultimi scorsi, dall’Iran alla Romania e, appunto, la Turchia. Rimane la muffa, lascito della decomposizione del figlio

Regia Ali AydinAnno 2012 Paese di produzione Turchia, Germania Durata 94’

Soggetto Ali Aydin Sceneggiatura Ali AydinFotografia Murat Tunçel Montaggio Ayhan Ergursel, Ahmet Boyacioglu

Produttore Ali Aydin, Sevil Demirci, Cengiz Keten, Gökçe Işil TunaInterpreti Ercan Kesal (Basri), Muhammet Uzuner (poliziotto), Tansu Biçer (Cemil), Ali Çoban, Serpil Goral.

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e della marcescenza del padre. E rimane Muffa, un esordio che passa l’esame. Di coscienza. Anche la nostra? Federico Pontiggia, Il Fatto quotidiano, 30 aprile 2013

Nel corso degli anni 2000 la Turchia si è contraddistinta per essere tra gli Stati con una attiva e rapida crescita eco-nomica. A partire dal 2005 - in concomitanza con la nascita di una nuova lira - fino ad oggi, il progresso locale ha fatto impallidire quello comatoso italiano.Le spore della muffa, però, continuano a essere appiccicate agli angoli invisibili del paese: le tossine che produ-cono sembrano quindi sparpagliarsi nell’aria e consumare la respirazione delle vittime. Se con gli anni si è riusciti a dibattere e parlare con diffusione della tragedia dei desaparecidos argentini degli anni ‘70, il fenomeno di quelli turchi (dal 1990 al 1996) - detti kayip, ovvero perso - è dimenticato, rimosso, parzialmente ignoto. Sarebbero oltre 500, probabilmente torturati e giustiziati, prima di essere fatti sparire durante la fase più critica dei contrasti che opponevano lo Stato ai gruppi indipendentisti curdi e di estrema sinistra.La volontà di affrontare questo argomento da parte di questo debuttante turco deriva dai tormenti e turbamenti che hanno accompagnato la giovinezza di Ali Aydin, un’auto-analisi che vuol farsi disamina di una coscienza collet-tiva chiusa in un ambiente di ridotte dimensioni e invaso, per l’appunto, dalla muffa. La comunità ne esce a pezzi.A dispetto della secchezza narrativa, la stesura della sceneggiatura è durata la bellezza di sette anni e, sebbene il progetto e le ricerche siano ruotatati intorno alle madri del sabato - ovvero le donne che dal ‘95 si riunirono con le foto dei figli scomparsi dopo il loro arresto per mano della polizia del governo di estrema destra - il protagonista è un uomo. Non è tutto: il paradosso è che l’unica donna che si vede fugacemente nel corso del film viene sessual-mente maltrattata per poi uscire di scena. La principale ragione di questa scelta è da cercare nelle figure maschili e femminili nell’immaginario turco. L’uomo/padre (padrone) arcigno e tutto d’un pezzo, la donna/madre sensibile e vulnerabile. L’intento iniziale è dunque quello di porci di fronte ad uno schema in grado di smussare quell’em-patia facilmente riversabile in storie tanto dolenti, ma c’è da tener conto che Aydin rinnega questa posizione dal momento che il protagonista Basri soffre di attacchi epilettici che ne sottolineano una fragilità che non riesce a staccare dalla vergogna: è in qualche modo un sintomo di quell’omertà storico-culturale indicata non a caso dal più importante dei registi turchi contemporanei, Nuri Bilge Ceylan, con Le tre scimmie che non vedono, non sentono, non parlano.E a proposito di Ceylan, non è improprio considerare Muffa una appendice di C’era una volta in Anatolia, sebbene lì venisse utilizzato un canovaccio poliziesco per attuare una autopsia di una nazione, mentre in quest’occasione la denuncia politica è più esplicita.È politica (come in Hunger di Steve McQueen) la scelta degli 11 minuti iniziali di piano sequenza a cinepresa fissa: uno studio che, al suo capolinea, denuncia la desolazione dell’insieme. Sconsolante come il finale dal quale non si

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torna indietro: la muffa aveva avuto la meglio fin dall’inizio. Nel film accade poco, e quei rari episodi che smuovono le acque vengono sottratti dalla narrazione, imbevuti negli ampi archi temporali dove la macchina da presa ha qualche sussulto soltanto per esporre lente panoramiche su sfondi prevalentemente vuoti che si cibano a loro volta di ulteriori vuoti, fuori e dentro l’anima e la mente degli emarginati. Ottime le intenzioni e la padronanza stilistica del regista debuttante, vincitore del Premio Opera Prima al Festival di Venezia 2012, anche se l’intenzionale scelta di concedere poco allo spettatore non sempre permette al binomio forma-contenuto di avanzare con equivalente spessore.Diego Capuano, www.ondacinema.it

Basri, un uomo sulla sessantina che si guadagna da vivere facendo il guardiano delle ferrovie, da diciotto anni invia lettere alle autorità al fine di avere notizie del figlio, scomparso dopo un arresto per aver espresso opinioni politiche avverse al governo turco. È la speranza di riabbracciarlo o, almeno, di poterne seppellire i resti a spingerlo avanti, nonostante i suoi tentativi siano stati repressi più volte dalle forze di polizia. Segretamente malato di epilessia e al di fuori di ogni legame sociale, aspetta una risposta che, una volta arrivata, lo renderà ancora più solo.L’immobilità inquieta della prima regia di Ali Aydin si riflette nei corpi e negli spazi, nella scelta di inquadrature e di movimenti di macchina che confluiscono, insieme, nel ritratto di un personaggio volutamente preda della re-clusione esistenziale. Lontano da qualsiasi contatto sociale, Basri abita da solo in un villaggio di montagna da cui s’incammina ogni mattina per percorrere molti chilometri - a piedi - su quei binari ferroviari di cui è guardiano, attraversando una terra che fa eco al suo stesso silenzio. L’unico motivo di confronto con il reale è l’enorme vuoto causato dalla scomparsa del figlio (cui ha fatto seguito anche la morte della moglie), per cui incontra periodicamen-te funzionari di polizia che, negli anni, lo hanno interrogato, torturato e messo in isolamento.Nel faccia a faccia con Murat, ennesimo poliziotto cui si rapporta, trova però un legame diverso, quasi una possi-bilità di dialogo; nella scelta del lungo piano sequenza in cui i due personaggi tentano di interloquire l’uno seduto di fronte all’altro, ma sempre divisi da un tavolo e dai propri ruoli, affiora il vero senso del lavoro, per cui l’intento di denuncia è tutt’uno con l’urgenza di indagare gli animi degli uomini in scena. Partendo dalle storie vere dei desaparecidos kurdi in Turchia dei primi anni Novanta, si fa riferimento ai molti casi di persone arrestate e fatte sparire dall’esercito turco per aver espresso idee diverse da quelle di un apparato di estrema destra. Aydin porta avanti con rigore e compattezza stilistica un’indagine sulla coscienza umana e le sue afflizioni, capace di colpire senza mai indulgere alla commozione. L’intento civile e lo scavo psicologico sono le due linee strutturali su cui posa questo dolente film sulla distanza

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e sullo smarrimento, perfettamente calato in un Paese socialmente decomposto - il titolo rimanda propriamente ad una marcescenza, ad una muffa capace di rendere l’aria irrespirabile - che non è mai solo sfondo, ma parte so-stanziale di un esordio registico segnato da non comuni capacità di racconto. Premio Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima (Luigi de Laurentiis) alla 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Marco Chiani, www.mymovies.it

“Sono molto felice. Il 2012 è stato un anno particolarmente fortunato: dopo l’Oscar a Una separazione e l’Orso d’oro a Cesare deve morire, ora giunge questo premio assegnato a Küf tra le tantissime opere prime. Ciò ci rende molto fieri. Ali Aydin, nonostante sia alla sua prima prova da regista, dimostra uno stile ed una personalità già ben definiti e riconoscibili.”Nanni Moretti, CineCriticaWeb

Leone del futuro alla 69ª Mostra di Venezia Muffa è un’opera prima che narra di desaparecidos, dei vuoti creati dal governo turco negli anni ‘90, del dolore di chi è rimasto, dell’assenza di catarsi, di risposte. La geometria inflessi-bile mima la logica antiumanista del Potere, la forma ricorrente con cui il cinema d’oggi e ieri s’esprime disperato, imploso, rassegnato, mentre nel freddo emotivo monta, s’affanna, arranca resistenziale una storia dostoevskijana che necessita di farsi raccontare. Nonostante le ellissi, le lacune, gli abissi che le costruiscono intorno.FilmTv

L’opera prima del regista e sceneggiatore turco Ali Aydin, Muffa, pone il critico di fronte ad un rovello di carattere metodologico: come approcciarsi a un film di questo tipo? Come comunicare i suoi elementi costitutivi? Sono tutte veritiere, infatti, le osservazioni di quella parte di critica che parla di “ineluttabilità del dolore”, di “echi do-stojevskiani”, di “decomposizione della coscienza”, di “finalità morali”, ecc…. Vero, Muffa è un film cupo ed essenziale, politico ed etico (il riferimento è all’associazione Cumartesi Anneleri, le “madri del sabato” che ogni sabato davanti al liceo Galatasaray protestano per i propri cari scomparsi nelle carceri), universale nelle tematiche e profondamente sincero.La mise en scéne neo-neorealistica, l’astrattezza dei luoghi, esterni limitati dalle rette parallele dei binari ed interni di raro squallore, la recitazione minimale degli interpreti, i dialoghi scabri che sottolineano l’emarginazione esisten-ziale del protagonista, rappresentano scelte formali coraggiose per un regista esordiente. Ma le stesse caratteristi-che provocano altresì una noia abissale. Un’ora e mezza che si estende per tutta la lunghezza dei binari percorsi quotidianamente dal laconico baffone protagonista: pare non finire mai. Il padre dolente interpretato da Ercan Kesal si aggira in un limbo di irresolutezza, ignaro della sorte del figlio, tetragono ai “consigli” delle autorità, trascina la propria esistenza reiterando gesti e sofferenza, immerso in una so-litudine muta e disperata interrotta soltanto dalla riconsegna delle spoglie filiali. Il regista Aydin, incurante dell’in-columità dello spettatore medio, dilata tempi e silenzi, ricorrendo incessantemente all’irritante vezzo di indugiare sull’inquadratura anche dopo l’uscita di scena dei personaggi: la m.d.p. continua ad inquadrare una scrivania ormai vuota, financo una stanza buia dopo che il protagonista è uscito spegnendo la luce. Ovviamente, si potrebbe par-lare di “permanenza dell’immagine”; chi scrive invece lo considera un abusato escamotage che reiterato ad ogni sequenza provoca un paradossale “effetto parodia”.Muffa infatti, a cominciare dal titolo, pare la caricatura sarcastica dei film d’essai dei tempi andati, silenzi intermina-bili, dialoghi inframmezzati da pause estenuanti, azione statica, camera “fississima”, sconforto dilagante, coscienze a pezzi. Consigliato ai veri feticisti del cinema punitivo.Giovanni Romani, CultFrame, maggio 2013

PREMIVenezia 2012: Leone del futuro - Premio Luigi De Laurentiis

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Gli armeniNegli ultimi anni dell’Impe-ro ottomano (1915-1923) molti armeni residenti nell’Anatolia orientale (che erano perciò chiamati dai loro connazionali “arme-

ni occidentali”) furono sterminati in quello che è sta-to successivamente definito il “genocidio armeno” . A questo proposito, mentre gli armeni e l’opinione pub-blica mondiale ritengono che si sia trattato effettiva-mente di un genocidio sostenuto e organizzato dalle autorità ottomane, i turchi affermano che tale strage fu dovuta ad una guerra civile accompagnata dalla carestia e dalle malattie. Secondo le stime, le vittime oscillano fra 200.000 e 1.800.000 persone. Attualmente il genoci-dio viene commemorato dagli armeni di tutto il mondo il 24 aprile.

i curdiI curdi sono un gruppo et-nico indoeuropeo che abita nella parte settentrionale e nord-orientale della Meso-potamia. Tale territorio mon-tagnoso è compreso in parti

degli attuali stati di Iran, Iraq, Siria, Turchia e in misura minore Armenia. L’area è a volte indicata col termine Kurdistan. Piccole comunità curde sono presenti anche in Libano, Giordania, Georgia, Azerbaigian, Afghani-stan e Pakistan. Inoltre, un certo flusso migratorio si è diretto verso gli Stati Uniti d’America e il Nord Europa. I curdi sono venticinque milioni, il quarto gruppo etni-co del Medio Oriente. Unico caso al mondo di nazione

senza Stato. I curdi esistono davvero? No, non esisto-no. Sono turchi. Devono esserlo. E per convincerli, la Turchia “moderna” di Atatürk ha imposto ai curdi di dimenticare di essere curdi. A partire dalla loro lingua. Se la lingua di un popolo non esiste, non esiste il po-polo. Il genocidio della lingua. Parole che identificano luoghi, oggetti, persone, che esprimono gioie, affetti, dolore spariscono, si dissolvono. E con loro si cancella la storia, la cultura, l’identità di un popolo che in quelle parole si è identificato. E’ il tema svolto dal maestro elementare Alì, il protagonista, di La Canzone perduta (Song of My Mother, 2014)), esordio cinematografico di Erol Mintaş, giovane regista curdo-turco vincitore del-la 20esima edizione del Sarajevo Film Festival. Un film ispirato ad una storia vera, quella del regista, di sua ma-dre, del suo popolo: i curdi. L’emigrazione curda dalla Turchia è iniziata circa 20 anni fa, e ha interessato quasi esclusivamente Germania e Austria. Secondo alcune sti-me, i curdi che attualmente vivono in Kurdistan sono circa 38 milioni (20 milioni in Turchia, 6 milioni in Iraq, 10 milioni in Iran e 2 milioni in Siria). Sono circa un milione e mezzo i curdi che vivono nella diaspora, un numero che negli ultimi anni è salito enormemente: le organizzazioni internazionali calcolano che i profughi, in questo momento, siano almeno cinque milioni.

la Guerra iTalo-TurcaLa guerra italo-turca (nota an-che come guerra di Libia) fu combattuta dal Regno d’Italia contro l’Impero ottomano tra il 29 settembre 1911 e il

18 ottobre 1912 per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica. Le ambizioni colo-

piccolo GloSSario

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niali spinsero l’Italia ad impadronirsi delle due province ottomane che nel 1934, assieme al Fezzan, avrebbero costituito la Libia dapprima come colonia italiana ed in seguito come Stato indipendente. Durante il conflitto fu occupato anche il Dodecaneso nel Mar Egeo; quest’ul-timo avrebbe dovuto essere restituito ai turchi alla fine della guerra, ma rimase sotto amministrazione provvi-soria da parte dell’Italia fino a quando, con la firma del trattato di Losanna nel 1923, la Turchia rinunciò ad ogni rivendicazione e riconobbe ufficialmente la sovra-nità italiana sui territori perduti nel conflitto.

Tripoli, bel Suol d’amoreTripoli,bel suol d’amore (noto anche con il titolo di I quattro bersaglieri) è un film del 1954 diretto da Ferruc-cio Cerio con Alberto Sordi, Fulvia

Franco, Mirko Ellis, Riccardo Billi e Mario Riva. ”…Ma improvvisamente scoppia la guerra a Tripoli, in Libia, e i bersaglieri sono costretti a parteciparvi. Incapaci di rimanere separate dai loro fidanzati, Nadia e Maria rie-scono ad arruolarsi come crocerossine e a raggiungerli in Libia. Ma gli arabi attaccano la Croce Rossa appena fa il suo ingresso in Libia, e il tardivo intervento dei bersa-glieri non riesce a impedire che un nemico colpisca Na-dia a morte. Quando Renato scopre che per lei non c’è più nulla da fare la sposa in extremis sul letto di morte, dopodiché parte con i tre amici e il maresciallo Nerone per una missione altamente pericolosa. Alla fine il grup-po viene salvato da una numerosa truppa di bersaglieri, ma Nerone viene colpito e muore…”

charleS aznavourL’armeno più conosciuto al mondo. Cantante, cantautore e attore, Charles Aznavour è una delle icone musicali più popolari della Francia. Negli ultimi 60 anni ha cantato le nostre storie d’amore e di vita quotidiana in molte lingue. Ver-

satile e passionale, questa leggenda duratura ha incan-tato il pubblico di tutto il mondo, ma rimane innanzi tutto un ambasciatore della lingua francese. Dedicato a cause umanitarie, egli condivide il suo talento artistico a sostegno delle organizzazioni di beneficenza in Arme-nia, dove è stato nominato Ambasciatore permanente dell’UNESCO.

FilmoGraFia Sul Genocidio armenoIl più antico film sul genocidio – di cui sono giunti a noi solo alcuni frammenti – è Ravished Armenia (noto

anche come Auction of Souls), un film muto americano del 1919. Venne tratto dall’omonimo libro di memorie di Auro-ra Mardiganian, un’armena sopravvissuta al massacro, che interpreta sé stessa nel film.Uno dei più famosi registi di origine ar-

mena è Henri Verneuil, come molti rifugiato in Francia con la famiglia dopo il genocidio. Dopo essersi affer-mato come uno dei principali registi del cinema fran-cese, alla fine della sua carriera Verneuil girò un film autobiografico. In Mayrig (1991), si racconta la fuga della famiglia del regista dal genocidio e il loro arrivo in Francia. La madre dell’autore è interpretata da Claudia Cardinale.Nel 2002 fu un altro regista di origine armena e di fama internazionale a dedicare un film al massacro degli ar-meni. Il regista canadese Atom Egoyan girò Ararat – Il monte dell’Arca, un film ambientato negli anni duemila, ma legato direttamente al genocidio: il giovane prota-gonista lavora a un film su di esso e si reca in Armenia per scoprire la storia dei suoi antenati. A interpretare il ruolo del regista di questo film nel film è uno dei più ce-lebri personaggi di origine armena, il cantante francese Charles Aznavour.Se si escludono gli autori armeni, il primo grande film dedicato al genocidio armeno fu La masseria delle allodo-le, girato nel 2007 da Paolo e Vittorio Taviani a partire dall’omonimo libro di Antonia Arslan. Grazie alla pro-duzione e al cast internazionali, al successo di pubblico e alla centralità della vicenda del genocidio nel film, La masseria delle allodole è senz’altro la principale opera dedi-cata dal cinema europeo alla vicenda del massacro degli armeni.Film-documentario, Le fils du marchand d’olives è stato gi-rato nel 2012 da Mathieu Zeitindjioglou. Assieme alla moglie, il regista s’è recato in Armenia per scoprire la storia del nonno, scampato al genocidio del 1915. Il film mescola interviste, diario di viaggio e sequenze di ani-mazione.Lo scorso anno Fatih Akin, regista della Sposa turca, ha presentato al festival del cinema di Venezia Il padre (tito-lo originale The Cut). Akin è un regista tedesco di origine turca, eppure la storia raccontata nel Padre è la storia di alcune vittime del genocidio armeno, che la Turchia continua a negare. Sopravvissuto al massacro, il padre protagonista del film si mette alla ricerca delle figlie.

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Indice

p. 3 Turchia la prima volta 3 Turchia e Occidente 4 Perché Mamma li Turchi... 5 Turchi e/o Saraceni 7 I due volti della Turchia (di A. Perucca) 9 I film della rassegna 10 Harem Suaré 12 Yol 15 La sposa turca 18 Muffa 22 Piccolo glossario