Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

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Miti e leggende sull'alimentazione In tutte le culture, il problema dell’alimentazione è stato sempre considerato di vitale

importanza.

Non a caso, nelle leggende e nei miti di tutti i popoli si trovano riferimenti alle piante o agli

animali ritenuti fondamentali per la sopravvivenza degli uomini.

Di seguito ne offriamo una documentazione, classificandoli per continenti.

Il titolo, invece, in modo scherzoso, mette in relazione un mito alimentare moderno e

propriamente occidentale, ancorché poco salutare secondo i canoni della dieta

mediterranea, con un luogo altro.

Buona lettura

http://maisong.jimdo.com/

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IndiceIndiceIndiceIndice

• Asia - Un chicco di riso (Birmania)

- Il compleanno di Miluotuo (Cina)

- Origine del riso (Corea)

- Non c'è nulla di più prezioso del riso (Vietnam)

- Le banane e lo spirito celeste (Filippine)

• Oceania - Il pesce Luna (Australia)

• Africa - Perché certi animali diventarono domestici - Cacciatori ed agricoltori (Pigmei)

- La pioggia cade quando gracidano le rane (Bantu)

• America del Nord - I capelli della vecchia - La spiga (Indiani Wichita) - Come il mais arrivò sulla terra (Sud Dakota)

• America Latina - Le origini del mais bianco (El Salvador) - Storia della donnola che aiutò gli uomini a trovare il mais (Guatemala)

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- La leggenda del guaranà (Brasile) - Le origini del pomodoro (Perù) - L'origine del mate (Paraguay)

• Europa - L'utile dono di Atena alla Grecia - Il mito di Demetra - Il mito di Cerere

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Lontanissimi e presenti: nessuno ci è estraneo. Lella Siniscalco

Siamo tutti meravigliosamente diversi.

Anonimo

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Asia

Un chicco di riso (Birmania)

Si dice che nei tempi passati vivesse in uno

di questi villaggi una povera vedova di nome

Gahtishu, rimasta sola con una giovane

figlia. La donna tirava avanti grazie a un

campicello sul fianco di una collina, ma era

così povera che non poteva permettersi di

perdere nemmeno un chicco di riso

prodotto dal suo appezzamento.

Immagazzinava con cura il suo raccolto di riso grezzo in un cesto di vimini e, quando poi lo

metteva al sole, faceva ben attenzione a non lasciarsi sfuggire per terra neanche un chicco.

Tutto il giorno lo teneva d’occhio attentamente in modo che ne polli ne passeri potessero

rubarle qualche granello. E così quando lo sbucciava nella macina, lo pestava nel mortaio o

lo metteva nel vassoio di vimini per separare la pula dal chicco, non lasciava che un solo

granello andasse sprecato. Era così meticolosa che insisteva con sua figlia Nan Sue che stesse

attenta a non perdere un solo chicco di riso quando lo lavava prima di cuocerlo e, una volta

che il riso era cotto e lo si mangiava, che nessun granello cadesse di lato o rimanesse nel

piatto. Nan Sue, spazientita per la pignoleria della madre, una volta ebbe a dire: “oh ma’, che

cosa vuoi che sia perdere un grano di riso? Il valore di un chicco è così minuscolo!”. “Non la

pensare così, cara figlia mia. Tu hai lavorato anno dopo anno nel nostro appezzamento e

puoi ben renderti conto di quanto noi poveri coltivatori dobbiamo lottare durante l’anno

per produrre questi chicchi di riso. Cominciando a lavorare all’inizio delle piogge dobbiamo

faticare per quattro o cinque mesi al fianco di buoi e bufali, nella pioggia e nel fango; e

quando facciamo il raccolto nella stagione fredda dobbiamo rischiare la nostra vita

avventurandoci in campi infestati dai serpenti. Supponiamo che per distrazione tu perda un

po’ di chicchi durante la raccolta, un altro po’ mentre si asciugano al sole, un po’ durante la

macinatura, oppure mentre li pesti nel mortaio o li separi dalla pula e ancora un po’ mentre li

lavi, li cucini e li mangi…quanto sarebbe, tutt’insieme la perdita di questi preziosi granelli?”

rispose la madre. Per amor di pace Nan Sue promise di non lasciarsi sfuggire un solo chicco

durante queste operazioni. Un giorno, mentre lei era fuori nel campo, Gahtishu tirò fuori

una misura di riso sbucciato e cominciò a cucinarlo, ma nel fare ciò un chicco cadde e si

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infilò nel pavimento di bambù della casa. Andò allora sotto per cercarlo, ma non riuscì a

trovarlo. Spazzò via i rifiuti e la sabbia finché il terreno sotto il pavimento non fu scoperto,

ma ancora non riusciva a trovarlo. Era così assorbita dallo sforzo di ritrovare quel granello di

riso che perse la nozione del tempo e si fece buio. Quando Nan Sue tornò a casa e la trovò

così china e indaffarata le chiese che cosa stesse facendo. Gahtishu spiegò: “mentre scuotevo

il riso un chicco è caduto attraverso il pavimento e non sono ancora riuscita a trovarlo”. E la

figlia, scandalizzata: “povera me! Devi farla così lunga per recuperare un misero chicco di

riso? Che dirà la gente? Ora è buio, per favore lascia perdere”. “Lascia che dicano quello che

vogliono. Un chicco non potrà costituire un pasto, ma tanti granelli così possono farlo. Un

solo granello di riso con la buccia può

sembrarti di scarso valore, ma seminalo e

raccogli i suoi frutti, poi semina di nuovo il

raccolto l’anno seguente e raccogli

nuovamente; e se in questo modo semini e

mieti per sette anni di seguito, sette navi non

potrebbero trasportare il tuo intero raccolto”.

A questo punto Nan Sue si unì alla ricerca

sotto il pavimento e chiese a sua madre di farle il calcolo di come un grano di semenza

potesse aumentare e moltiplicarsi in sette anni producendo un tale raccolto. Allora sua

madre mostrò le sue capacità di calcolo: “Nel primo anno il tuo unico chicco produrrà una

manciata di chicchi. Seminando quella manciata l’anno seguente ne verranno prodotti tre

cesti pieni. Se lo semini di nuovo il terzo anno farai un raccolto di 60 ceste. Queste sessanta

ne produrranno 1200 al quarto anno. Al quinto le 1200 ne daranno 24000 e queste a loro

volta frutteranno 480000 a cesta; così per finire avrai 9 milioni e 600000 cesti. Per stivarle

saranno necessarie le stive di sette intere navi, non ti pare?”. Nan Sue fu così impressionata

che raddoppiò gli sforzi nelle ricerche, finché trovò il granello che stava nascosto nella

fessura di un palo. Quella sera cenarono assai tardi, ma a Nan Sue non importava, perché la

dimostrazione di sua madre sulla moltiplicazione di un seme aveva incantato la sua mente.

Da allora in poi fu ben attenta a non sprecare neanche un grano di riso e si dice che la sua

risolutezza non solo rimase salda fino alla fine, ma si diffuse in tutto il vicinato. - Paese che vai, piatti che trovi. Il lungo viaggio del cibo dall'America Latina all'Europa", supplemento a Volontari per lo Sviluppo, anno IX, n°4, settembre 1991

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Il compleanno di Miluotuo (Cina)

In un tempo infinitamente lontano, la dea Miluotuo mandò

le sue tre figlie sulla Terra, perché vivessero la loro vita nel

modo che preferivano.

Tutte contente, le ragazze si misero in viaggio nel cuore della

notte, e, stanche com’erano, appena arrivate si

addormentarono.

Il giorno dopo la figlia maggiore si alzò all’alba, prese un

aratro e con quello arò le grandi e feritili pianure. Da lei

discende la gente Han, che lavora la terra e la fa fruttare.

La seconda figlia si alzò un po’ più tardi, prese carte, inchiostro, pennelli e libri e si ritirò in

città, a studiare e meditare. E’ lei l’antenata della

gente Zhuang, particolarmente abile nella pittura,

nella calligrafia, nella musica e negli scacchi.

La terza figlia si alzò tardissimo e quando vide che

le sue sorelle si erano ben sistemate, prendendosi il

meglio, scoppiò a piangere e andò a lamentarsi

dalla madre. Pigra come sei non meriteresti nulla”

le disse Miluotuo “ma ti aiuterò lo stesso; ecco,

questo è tutto il riso che abbiamo in dispensa, e

laggiù c’è una zona montagnosa dove potrai

seminarlo”.

La ragazza andò e seminò il suo riso, ma appena

spuntarono i germogli i gatti selvatici vennero a

calpestarli. Quando poi le piantine misero le foglie,

i cervi ne brucarono un bel po’ e quando, infine,

maturarono le spighe gli uccelli se le mangiarono

dalle prima all’ultima.

La terza figlia andò di nuovo da Miluotuo: “Come

sono disgraziata, madre! Aiutami tu!”. Allora la dea

le regalò un grande tamburo di rame e le consigliò

di imparare a suonarlo.

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“Ma a che cosa mi serve?” chiese la ragazza, e se ne andò avvilita, portandosi dietro l’enorme

e pesantissimo strumento.

Una volta sulla terra, però, decise di seguire i consigli della madre e sistemò il tamburo sulla

montagna, tra le risaie. Così scopri che, suonandolo ogni giorno, riusciva a spaventare e a

tenere lontani gli animali che le rovinavano il riso. Il raccolto fu straordinariamente

abbondante e le permise di nutrire e crescere molti figli e nipoti che più tardi divennero la

gente Yao.

E ancora oggi gli Yao, bravi coltivatori di riso, il giorno 29 del quinto mese festeggiano il

compleanno della loro nonna divina, Miluotuo, suonando i loro tamburi di rame e

danzandoci attorno.

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Origine del riso (Corea)

Nei tempi antichi il riso non si raccoglieva nei campi. Tutte

le mattine, un chicco di riso compariva sul focolare del

contadino e si infilava nella pentola che serviva per cuocere il

riso. La moglie del contadino doveva cuocerlo senza

nemmeno sollevare il coperchio della pentola, perché questo

gesto era tabù (pantang).

Nel pomeriggio la pentola era piena di riso pronto per essere

consumato.

Un mattino, la moglie del contadino dovette uscire per andare alla fattoria e raccomandò ai

bambini di non scoperchiare la pentola del riso durante la sua assenza. Dopo che la madre

era uscita, una delle bambine, spinta dalla curiosità, cercò di scoperchiare la pentola di

nascosto dalle sorelle più grandi. Chinandosi per guardare dentro, vide una bambina che

spari improvvisamente, non lasciandosi dietro che un chicco di riso. La sorella più grande,

molto arrabbiata, rimproverò la piccola.

Quando la madre tornò, vedendo che non c’era riso nella pentola, comprese che qualcuno

l’aveva aperta. Rimproverò la

figlia che, disobbediente, aveva

infranto il tabù Ma non c’era

più nulla da fare. Da quel

giorno, tutti devono lavorare

sodo per piantare il riso,

raccoglierlo e

immagazzinarne i grani.

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Non c’è nulla di più prezioso del riso (Vietnam)

Oltre duemila anni or sono, un re della dinastia

Hung Vuong, sentendosi invecchiare, convocò

a corte i suoi ventidue figli. “Cercate l’alimento

più raro e più gustoso affinché io possa offrirlo

ai nostri avi per propiziarmi la loro

benevolenza. Chi di voi saprà trovare questo

cibo sopraffino sarà mio erede e diventerà re”.

Tutti i principi si misero alla ricerca delle meraviglie dei mari e delle foreste, ma nessuno di

loro riuscì nell’intento. Una notte, tuttavia, un genio apparve in sogno a Lang Lieu, unico fra

i figli del re a vivere in povertà. “Non vi è nulla sulla terra di più prezioso del riso.” disse, “Il

riso non ha eguali fra gli alimenti. Prendi dunque del riso cotto al vapore e fanne un impasto

tondo come il cielo. Con del riso crudo fai una sfoglia, quadrata come la terra. Farcisci questi

dolci con carne di maiale ed avvolgile in foglie di banano”. Il giovane Lang Lieu seguì le

indicazioni del genio ed offri il suo dolce al re che ne apprezzò il gusto delicato. Tenendo

fede alla sua promessa, il sovrano abdicò in favore del figlio. Il

dolce tondo fu chiamato banhday, quello quadrato banh

chung. Da allora essi vengono offerti in tutte le cerimonie

vietnamite, in particolare durante i festeggiamenti per

il Tèt che segna l’inizio dell’anno Lunare. E, secondo un

vecchio adagio popolare vietnamita, senza banh chung e senza

sentenze parallele (frasi augurali scritte in antichi caratteri su

carta rossa, colore della felicità) la celebrazione del Nuovo

Anno sarebbe incompleta.

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Le banane e lo spirito celeste (Filippine)

C’era una volta una bella ragazza chiamata Kabaye. Era

alta, aveva occhi neri e lunghi capelli lucenti. Il colore della

sua pelle era d’un bronzo dorato.

Una mattina Kayabe stava raccogliendo legna nel bosco,

quando le si fece incontro un giovane. Questi aveva

l’aspetto di un cacciatore: alto, attraente, vestito con molta

cura. Nessuno lo conosceva o sapeva da dove venisse.

Neppure si sapeva il suo nome.

Questo giovane piacque subito a Kayabe, e lei a lui. Kayabe

non sapeva che quel giovane era un ànito, uno spirito

celeste. Presto divennero amici. Una amicizia che andò

avanti per un lungo tempo, tanto che Kayabe si

meravigliava che il giovane non avesse ancora proposto di

sposarla.

Per questo motivo Kayabe si sentiva infelice e confidava al giovane: “Non ho genitori, né

fratelli o sorelle. Anche tu sei solo. Sono certa che saremmo felici se vivessimo assieme”.

“Io non volevo svelarti il segreto” spiegò il giovane, “Ma tu devi

sapere che io sono un ànito, e non posso sposare una terrestre

come te. Io debbo tornare in cielo un giorno!”.

Kayabe a questa rivelazione fu molto sorpresa. Non sapeva cosa

dire. Solo tratteneva le mani del giovane strette nelle sue.

“Ti prego, lasciami andare” supplicò il giovane. “Io ho sempre

sperato che tu non venissi a sapere chi ero”.

Ci fu un lampo accecante, e il giovane scomparve. Ma la fanciulla

stringeva con tanta forza le mani del giovane tra le sue, che questi

gliele lasciò.

Kayabe, presa da un grande timore, corse a casa e seppellì quelle

mani in un angolo del suo giardino.

Dopo qualche settimana Kayabe vide spuntare in quel punto del

giardino una strana pianta: un albero che crebbe molto in fretta.

Ben presto apparvero dei frutti assai originali: erano di un colore

giallo, e sembravano dita di una mano.

Erano il primo grappolo di banane che sia apparso sulla terra.

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Oceania

- Il pesce Luna (Australia)

Molto tempo fa, due sorelle che

abitavano sulla terraferma

attraversarono a nuoto il tratto di mare

che le separava dall’isola. Fin da piccole

avevano sognato ad occhi aperti

quell’isola e ora, finalmente, era arrivato

il momento di esplorarla.

Approdarono sulla spiaggia rocciosa e

cominciarono a camminare.

L’isola non era grande, ma vi crescevano molti alberi, e al centro c’era uno spiazzo erboso

con un piccolo lago d’acqua limpida.

“Quest’isola è magnifica! – disse la sorella maggiore stendendosi sull’erba – Mi piacerebbe

proprio vivere qui! L’acqua da bere è ai nostri piedi, il terreno è caldo, l’erba cresce verde, e

questi grandi alberi ci riparano dal sole”.

“E il cibo? Di cosa potremmo vivere qui?” chiese l’altra coricandosi al suo fianco.

“Sono sicura che su quest’isola ci sono patate, molluschi da raccogliere sulla spiaggia, e radici

di giglio d’acqua nel lago...”.

Proprio in quel momento si udì un rumore d’acqua.

Le due sorelle si alzarono sedute, e videro il dorso ricurvo di un grosso pesce solcare lento la

superficie del lago. E scivolare via.

“... e poi c’è pesce!”. La ragazza fu in piedi con un balzo e corse lungo la sponda del lago.

Trovò un bastone, lo scheggiò per appuntirlo, e si mise in attesa sulla riva.

Il pesce ricomparve poco dopo e la ragazza lo arpionò con forza: ci fu un grande fremito

nell’acqua.

“Vieni ad aiutarmi!” gridò.

Saltarono insieme nelle acque del lago, afferrarono il pesce morente e lo gettarono sulla riva.

“Su quest’isola è anche facile procurarsi il cibo! – disse la sorella maggiore, quella che lo

aveva catturato – Raccogliamo della legna: si mangia!”.

Poco dopo il fuoco scoppiettava insieme alle risate delle due sorelle, e in breve le pietre

furono abbastanza calde per poter arrostire il pesce.

“Il pesce da solo non è gustoso – disse la sorella più piccola – Ci vogliono radici, erbe e

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verdure da arrostire insieme al pesce!”.

“D’accordo... tanto su quest’isola c’è tutto quello che vogliamo. Vedi cosa trovi laggiù,

mentre io cerco nell’altra direzione!”.

Più tardi tornarono con un ricco bottino ma, quando arrivarono alle pietre ormai rosse di

calore, il pesce era scomparso.

Videro che si era trascinato sulla sabbia, e le tracce proseguivano nell’erba, verso gli alberi.

Si misero a seguire le sue tracce finché giunsero ai piedi di un grande albero.

“Guarda!”.

Il pesce era già a metà del tronco, e continuava ad arrampicarsi verso l’alto.

La sorella più grande allora afferrò un ramo e fece per salire sull’albero.

“Non farlo! – la fermò l’altra – Potresti cadere e farti male. Dove vuoi che vada un pesce?

Quando arriverà ai rami più alti prima o poi cadrà di sicuro, e così noi lo potremo arrostire

sul fuoco senza fatica”.

Il pesce intanto continuava a salire lentamente lungo il tronco.

Quando raggiunse la cima, i rami si piegarono al suo peso, ma il pesce non si fermò. Con un

guizzo si lanciò verso l’alto, nel buio della notte, e continuò a salire.

La sua pelle argentata brillava accanto alla debole luce delle stelle.

Le due sorelle rimasero a fissarlo stupite, per ore, senza dire nulla, finché il pesce scomparve

dietro le colline della terraferma.

Tornarono al fuoco, e si distesero lì accanto, ma non riuscirono a dormire.

Il giorno dopo cucinarono le verdure e arrostirono nelle ceneri i molluschi che nel frattempo

avevano raccolto sulla spiaggia.

Attendevano con impazienza la notte per vedere se nel

cielo sarebbe apparso il pesce.

Finché il sole tramontò.

Allora videro un chiarore argenteo che illuminava il

cielo a oriente, oltre l’orizzonte del mare.

Il pesce salì lentamente in cielo.

Sembrava un po’ più magro di quando si era

arrampicato sull’albero ed era scappato dalla terra, e

come se avesse dormito su un fianco.

Da allora ogni notte il cielo fu rischiarato dal pesce che compiva il suo viaggio nel cielo, ma

appariva ogni volta più magro, finché una notte scomparve e ritornò il buio.

La mattina successiva le due sorelle tornarono a nuoto a casa, sulla terraferma, e

raccontarono a tutti la vicenda misteriosa del pesce.

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Ma poi il pesce riapparve in cielo,

e cominciò a farsi ogni notte più

grosso fino a diventare rotondo.

Poi ricominciò a diminuire di

nuovo per sparire e per poi

crescere ancora.

Da allora accade sempre così.

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Africa

Perché certi animali diventarono domestici

Tanto tempo fa tutti i bovini, le pecore e le capre

vivevano nelle foreste. Poi, un giorno, Tororut

convocò tutti gli animali in un certo posto della

giungla, e accese là un gran fuoco. E quando g li

animali videro il fuoco si spaventarono e

scapparono di nuovo nelle foreste. Rimasero

soltanto i bovini, le pecore e le capre, che non si

spaventarono. E Tororut fu contento di questi

animali e li benedì, e decretò che da quel momento sarebbero vissuti sempre con l’uomo,

che avrebbe mangiato la loro carne e bevuto il loro latte.

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Cacciatori ed agricoltori (Pigmei)

Un Pigmeo ed un Nero andarono insieme a osservare degli

scimpanzé. Sulla strada il Nero convinse il Pigmeo ad assaggiare

le banane, ma il Pigmeo non sapendo che cosa fossero all' inizio

era diffidente, poi ammise che erano veramente buone e si

addormentò.

Il Nero tuttavia era preoccupato perché non era sicuro che quel

frutto non fosse velenoso, ma quando il Pigmeo lo assicurò di

stare bene, i due fecero scorpacciata di banane.

Vollero così introdurre quei buonissimi e dolcissimi frutti nei loro villaggi e decisero di

coltivarli.

Il Pigmeo, a differenza del Nero che ebbe buoni

risultati, non sapeva come fare e non riuscì a

coltivare niente. Si convinse quindi che per lui

sarebbe stato meglio restare un cacciatore, anche se

spesso faceva scorpacciate di banane da chi le aveva

coltivate.

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La pioggia cade quando gracidano le rane (Bantu)

Una volta accadde che dal cielo non scendesse più pioggia per molto

tempo e che gli animali della foresta si radunassero e iniziassero a

invocare la pioggia nelle lingue che conoscevano.

Quando arrivò il turno delle rane, esse gracidarono per ore e le

nuvole iniziarono a radunarsi.

Le rane dissero agli amici di fare delle

buche per raccogliere l’acqua. Poi

iniziò a piovere e le rane dissero che a quel punto avrebbero

potuto trovare erba verde e loro sarebbero andate ad abitare

nelle paludi formate dalle buche riempite d’acqua.

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America del Nord

I capelli della vecchia

Fin dai tempi più lontani, gli Indiani

hanno usato il granturco al posto del

grano, che non conoscevano. Questa

storia racconta come per la prima volta il

granturco comparve sulla terra.

Tanto, tanto tempo fa, una vecchia e suo

nipote si misero in viaggio attraverso il

paese degli Indiani. Nessuno sapeva da

dove venissero né dove andassero e

nessuno lungo il cammino volle dar loro ospitalità, dividere con loro cibo e fuoco. Era un

brutto periodo, quello: gli Indiani avevano dissotterrato l'ascia di guerra e le tribù

combattevano l'una contro l'altra. Ma la vecchia non si scoraggiava. “Vedrai” diceva al

nipote, “Prima o poi troveremo chi si prenderà cura di noi”. Cammina, cammina, tra

montagne e praterie, un giorno i due giunsero all'accampamento della tribù degli Alligatori,

gente povera ma di buon cuore. Il loro capo, Dente di Alligatore, disse ai due viaggiatori

stanchi: “Potete restare con noi, dormire sotto una tenda e scaldarvi al nostro fuoco, ma

purtroppo non troverete niente da mangiare. I nostri terreni di caccia non sono ricchi di

selvaggina e inoltre dobbiamo sacrificare le prede migliori agli Alligatori, per non perdere la

loro protezione”.

“Saremo felici di condividere il vostro destino, qualunque esso sia” rispose la vecchia. “Io, in

cambio dell'ospitalità, avrò cura dei bambini”. Dente di Alligatore le indicò una tenda vuota

e lei, dopo averlo ringraziato, ci si sistemò insieme al

nipote. L'unico bagaglio che aveva, un sacco di pelle di

bisonte, lo depose in un angolo scuro.

La mattina seguente, all'alba, i cacciatori partirono in

cerca di selvaggina e le donne si sparpagliarono nella

prateria per raccogliere erbe e radici. Nel villaggio

rimasero solo i bambini che, come al solito, si misero a

giocare per ingannare la fame, in attesa che

ritornassero i genitori con qualcosa da mettere sotto i

denti. Le ore erano lunghe a passare, con lo stomaco

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vuoto, e i giochi erano sempre gli stessi. Quella mattina, però, ci fu una novità. La vecchia

uscì dalle tenda e chiese ai bambini: “Volete che vi racconti una storia?”. “Sì, sì!” risposero

tutti in coro. E la vecchia raccontò come erano nati gli alberi. “In tempi molto, molto

lontani, la terra era coperta solo di erbe e fiori, non c'era neanche un albero. Poi, un giorno, il

Grande Manitù, guardando giù dalle nuvole, sentì il desiderio di accarezzare quei fiori che

ondeggiavano al vento sugli steli sottili. Allora ordinò agli steli di crescere, di crescere fino a

raggiungere il palmo delle sue mani. Fu subito obbedito e pini, aceri, abeti, salirono verso il

cielo fin quasi a toccarlo. Ora bastava che il Grande Manitù stendesse la mano per poter

accarezzare quelle chiome verdi che la brezza

faceva sussurrare”. Finita la storia, la vecchia

guardò i bambini e capì due cose: che la storia

era piaciuta molto, ma che non aveva fatto

dimenticare la fame. Allora rientrò nella tenda,

si mise ad armeggiare intorno a un gran

pentolone e poco dopo ecco alzarsi nell'aria

un profumino appetitoso. Poi uscì di nuovo e

distribuì a ciascun bambino una ciotola di

pappa morbida, colore dell'oro, buonissima e nutriente. “E fatta con il granturco” disse. “Se

vi comportate bene, ne avrete tutti i giorni”. E così fu. I cacciatori partivano tutte le mattine

all'alba in cerca di selvaggina, le donne si sparpagliavano nella prateria per raccoglier erbe e

radici, la vecchia raccontava ai bambini una bella storia e poi dava loro una ciotola colma di

pappa di granturco. Così passò il tempo e anche l'ultimo mese dell'anno, quello della Lunga

Notte, finì. La vecchia continuava ogni giorno a distribuire la sua pappa ai bambini affamati,

ma negli ultimi tempi era diventata più debole, più magra, sembrava evaporare lentamente

come il fumo che usciva dal pentolone. Una mattina non poté più alzarsi da letto.

Allora chiamò il nipote e gli disse: “Ragazzo mio, presto abbandonerò questo mondo, ma

anche quando non ci sarò più la tribù degli Alligatori continuerà a ricordarmi. Ho seminato

un po' di granturco in un pezzo di terra non lontano dall'accampamento. I semi hanno già

messo le radici e germoglieranno a primavera. Io ho fatto la mia parte, ora tocca ai bambini

custodirli, innaffiarli e zapparli, se vogliono avere un buon raccolto e non soffrire mai più la

fame”. Per qualche tempo ancora, la vecchia consegnò al nipote il pentolone pieno di pappa

fumante perché la distribuisse al posto suo; poi, quando la prima pannocchia di granturco

maturò nel campicello vicino all'accampamento, essa scomparve nel nulla, come se non

fosse mai esistita. Tutti la cercarono, ma invano. “Non la vedremo più” disse alla fine li capo

Dente di Alligatore, “ma sarà sempre viva nel nostro ricordo e nel nostro cuore”. Poi indicò

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il granturco che cresceva alto e rigoglioso e aggiunse: “Guardate: si è trasformata in quelle

piante che ci ha donato perché la fame non ci perseguiti più. Fu così che la vecchia

misteriosa ripagò la tribù degli Alligatori per l'ospitalità ricevuta. Da allora in poi gli Indiani

coltivarono con amore i loro campi di granturco e, quando i bianchi filamenti spuntavano

dalle pannocchia dorate, vedevano in essi i capelli candidi della vecchia che non avrebbero

mai dimenticato.

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La spiga (Indiani Wichita)

Secondo un mito degli indiani Wichita, il dio creatore

diede alla prima donna una spiga e al primo uomo la voglia

di camminare. I due andarono di villaggio in villaggio. Lui

insegnò agli uomini come costruire archi e frecce; lei

insegnò alle donne come coltivare il grano e farne cibo.

Compiuta la missione, i due scomparvero e tornarono in

cielo, dove sono ancora: lei è la Luna, lui la Stella del

mattino. Agli indiani hanno lasciato in dono la caccia e

l’agricoltura.

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Come il mais arrivò sulla terra (Sud Dakota)

Molto tempo fa vivevano sulla terra dei

giganti, ed erano così forti che non avevano

paura di nulla. Quando smisero di far levare

fumo in onore degli dei delle quattro

direzioni, Nesaru abbassò lo sguardo su di

loro e si adirò. “Ho fatto i giganti troppo forti”

disse Nesaru. “Non li tengo più. Credono di

essere come me. Li distruggerò coprendo

d’acqua la terra, ma risparmierò la gente

comune”.

Nasaru mandò gli animali a guidare la gente comune in una caverna così grande che tutti gli

animali e tutte le persone poterono abitarla insieme. Poi sigillò l’entrata della caverna e

inondò la terra, così tutti i giganti, e solo loro, annegarono. Per ricordarsi che c’era gente

sotto terra in attesa di essere liberata quanto l’inondazione fosse finita, Nasaru piantò del

mais nel cielo. Appena il mais fu maturo, egli tolse una pannocchia dal campo e la trasformò

in una donna, che fu Madre Mais.

“Devi scendere sulla terra” le disse Nesaru “e far uscire la mia gente da sottosuolo. Guidala al

luogo in cui tramonta il sole, perché la loro

patria sarà in occidente”.

Madre Mais scese sulla terra e, udendo tuonare

a oriente, seguì l’indicazione del suono fino alla

caverna dove la gente stava in attesa. Ma la porta

della caverna si richiuse su di lei, che non riuscì a

ritrovare la strada per ricondurre la gente fuori,

sopra la terra. “Dobbiamo lasciare questo luogo,

questo buio” disse loro. “C’è luce sopra la terra. Chi mi aiuterà a portare la mia gente fuori

dalla terra?”.

Il Tasso si fece avanti e disse “Madre Mais, io ti aiuterò”. Anche la Talpa si alzò e disse “Io

aiuterò il Tasso a scavare il terreno, in modo che possiamo vedere la luce”. Poi venne il Topo

Nasolungo e disse “Io aiuterò gli altri due”.

Il Tasso incominciò a scavare verso l’alto. Dopo un po’ ricadde sfinito. “Madre Mais, sono

molto stanco” disse. Poi scavò la Talpa, finché non fu anch’essa esausta. Il Topo Nasolungo

prese il posto della Talpa e scavò, e quando esso fu stanco il Tasso ricominciò a scavare. I tre

Page 28: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

lavorarono a turno, finché alla fine il Topo Nasolungo cacciò il naso attraverso il terreno e

poté vedere un po’ di luce.

Il Topo tornò giù e disse “Madre Mais, ho spinto il naso attraverso la terra fino a vedere la

luce, ma il grande scavare ha reso il mio naso piccolo e aguzzo. D’ora in poi tutti sapranno,

dal mio naso, che sono stato io a raggiungere per primo la superficie della terra”.

Ora salì la Talpa fino al buco e completò lo scavo finché non fu fuori. Il sole era salito alto

nel cielo dall’oriente ed era così luminoso che accecò la Talpa, la quale corse indietro e disse:

“Madre Mais, sono stata accecata dalla luminosità del sole, e non posso più vivere sulla terra.

Devo farmi una casa sotterranea. Da questo momento tutte le Talpe saranno cieche e non

potranno vedere la luce del giorno, ma potranno vedere di notte. Durante il giorno

resteranno sotto terra”.

Poi salì il Tasso e allargò il buco così che potessero passarvi anche le persone. Uscendo

all’esterno il Tasso chiuse gli occhi, ma i raggi del sole lo colpirono scurendogli le gambe e

tracciando una striscia nera sulla sua faccia. Egli tornò giù e disse: “Madre Mais, ho ricevuto

questi segni neri su di me, e vorrei rimanere così, in modo che tutti si ricordino che io sono

stato fra coloro che hanno aiutato la tua gente a uscire da sotto terra”.

“Molto bene” disse Madre Mais. “Sia come hai detto”. Poi ella guidò la gente fuori,

all’aperto, e la gente si rallegrò di essere sulla terra all’aperto. Mentre tutti erano lì al sole,

Madre Mais disse: Popolo mio, ora faremo un viaggio verso occidente, verso il luogo dove

tramonta il sole. Prima di incamminarci, coloro che desiderano restare qui – come il Tasso,

il Topo e la Talpa – possono farlo”. Alcuni animali decisero di tornare alle loro tane

sotterranee, altri scelsero di seguire Madre Mais.

Il viaggio era cominciato. Procedendo, a un certo punto videro delle montagne levarsi di

fronte a loro. Giunsero a un profondo canyon. La china era troppo ripida perché gli uomini

potessero scenderla, e anche se vi fossero riusciti, la china opposta era anch’essa troppo

ripida per risalirla. Madre Mais chiese aiuto e un uccello grigio-azzurro salì volteggiando su

ali che battevano rapide. Aveva un grosso becco, un folto ciuffo sul capo e il petto a strisce.

L’uccello era il Martin Pescatore. “Madre Mais”, egli disse “sarò io a mostrarti la strada”.

Il Martin Pescatore volò sul fianco opposto del canyon e col becco batté molte volte sulla

parete finché la terra cadde in fondo al canyon. Poi volò indietro e beccò l’altra parete finché

cadde abbastanza terra perché si formasse un ponte. La gente lo ringraziò a gran voce.

“Quelli che vogliono unirsi a me” disse il Martin Pescatore “possono rimanere qui. Faremo

di queste montagne la nostra patria”. Alcuni rimasero con lui, ma la maggior parte proseguì il

cammino.

Page 29: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

Dopo un po’ di tempo giunsero a un altro

ostacolo, una cupa foresta, con alberi così

alti che sembravano toccare il sole, molto

fitti e così irti di spine da formare un

groviglio impenetrabile. Ancora Madre

Mais chiese aiuto. Questa volta si presentò

davanti a lei un Gufo, che disse “Io aprirò

un sentiero per la tua gente attraverso

questa foresta. E chiunque vorrà restare con

me potrà farlo e vivere in questa foresta per sempre”. Il Gufo poi volò dentro la foresta.

Agitando le ali spostò gli alberi, in modo da aprire un sentiero perché la gente potesse

passarvi. Madre Mais allora guidò la gente oltre la foresta, e così andarono avanti.

Proseguendo, d’un tratto si trovarono di fronte a un grande lago. La distesa d’acqua era

troppo vasta e profonda perché si potesse attraversarla e la gente incominciò a parlare di

tornare indietro. Ma non poteva farlo, perché Nesaru aveva ordinato a Madre Mais di

condurre gli uomini sempre avanti, verso occidente. Un uccello acquatico con la testa nera e

il dorso a quadri si presentò davanti a Madre Mais e disse: “Io sono la Strolaga. Farò un

passaggio attraverso quest’acqua. La gente smetta di piangere, l’aiuterò”.

Madre Mais guardò la Strolaga e disse: “Preparaci un passaggio e alcuni di noi resteranno

qui con te”. La Strolaga volò via e saltò nel lago, muovendosi così in fretta da dividere le

acque, e quando uscì dall’altra parte del lago lasciò dietro di sé un sentiero. Madre Mais

condusse la gente attraverso il passaggio asciutto e alcuni tornarono indietro e restarono con

la Strolaga. Gli altri invece proseguirono il cammino.

Infine giunsero a un luogo piano accanto a un fiume e Madre Mais disse loro di costruire lì

un villaggio. ”Ora avrete il mio mais da piantare” disse. “Così, mangiandolo, crescerete e vi

moltiplicherete”. Dopo che ebbero costruito il villaggio e piantato il mais, Madre Mais fece

ritorno al Mondo Superiore.

Le persone, tuttavia, non avevano né norme né leggi alle quali attenersi, né capi né stregoni

che le consigliassero, e presto accadde che passassero tutto il loro tempo a giocare. Il primo

gioco a cui giocarono fu una specie di hockey, nel quale si dividevano in due squadre e

usavano bastoni ricurvi per buttare la palla nella porta degli avversari. Poi giocarono a

scagliare giavellotti attraverso anelli messi sopra aste piantate nel terreno. Col tempo, i

giocatori perdenti si arrabbiarono a tal punto che presero a uccidere i vincitori.

Nesaru fu scontento del comportamento degli uomini e insieme con Madre Mais venne

sulla terra. Disse agli uomini che dovevano avere un capo e qualche stregone che insegnasse

Page 30: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

loro come si deve vivere. Mentre Nesaru insegnava agli uomini a scegliersi un capo

attraverso prove di coraggio e di saggezza, Madre Mais insegnò loro canti e cerimonie. Dopo

che si furono scelti un capo, Nesaru diede a costui il suo stesso nome, quindi comunicò agli

stregoni i segreti della magia. Insegnò loro a fare pipe per offrire fumo agli dei delle quattro

direzioni.

Quando tutto questo fu fatto, Nesaru se ne andò via verso il sole calante per preparare

luoghi per nuovi villaggi. Madre Mais guidò gli uomini lungo sentieri attraverso le pianure e

oltre i corsi d’acqua fino a quel luogo dove Nesaru aveva piantato radici ed erbe medicinali

per gli stregoni. Lì essi costruirono villaggi lungo un fiume che più tardi i Bianchi

chiamarono Fiume Republican, nel Kansas.

Il primo giorno che giunsero in questo paese, Madre Mais disse loro di offrire fumo agli dei

dei cieli e a tutti gli dei degli animali. Mentre così facevano, un Cane giunse correndo

nell’accampamento e con alti lai accusò Madre Mais di essersi comportata male andando via

e lasciandolo indietro. “Io sono venuto dal Sole” gridò, “ e il dio del Sole è così arrabbiato

perché sono stato lasciato indietro che manderà il Turbine a disperdere gli uomini”.

Madre Mais pregò il Cane di salvare gli uomini placando il Turbine. “Solo rinunciando alla

mia libertà”, rispose il Cane “potrò farlo. Non potrò più cacciare solo come mio fratello

Lupo, o vagare libero come il Coyote. Dovrò sempre dipendere dagli uomini”.

Ma quando giunse il Turbine rotando e tuonando attraverso la terra, il Cane si pose fra esso

e gli uomini. “Rimarrò per sempre con gli uomini” gridò al Turbine. “Sarò il guardiano di

tutto ciò che posseggono”.

Quando il Gran Vento fu cessato, Madre Mais disse: “Gli dei sono gelosi. Se dimenticherete

di offrire loro il fumo, si adireranno e manderanno tremende bufere”.

Nella ricca terra accanto al fiume la gente piantò il suo mais, ed ella disse: “Mi trasformerò in

albero di Cedro per rammentarvi che sono Madre Mais, che vi ha dato la vita. Sono stata io,

Madre Mais, a condurvi qui da oriente. Devo diventare Cedro per poter restare con voi. Sul

fianco destro dell’albero sarà messa una pietra perché vi ricordiate di Nesaru, che ha portato

ordine e saggezza a voi uomini”.

Il mattino seguente, un Cedro già adulto sorgeva davanti alle dimore degli uomini. Accanto

ad esso c’era una grossa pietra. Gli uomini seppero così che Madre Mais e Nesaru avrebbero

vegliato su di loro attraverso tutti i tempi a venire e che li avrebbero tenuti uniti e fatti vivere

a lungo.

Page 31: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?
Page 32: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

America Latina

Le origini del mais bianco (El Salvador)

Molti anni fa nacque, a Pipiles, in una notte di

luna piena la figlia del signore del villaggio:

aveva bellissimi occhi neri e un radioso sorriso

che le illuminavano il volto. Crebbe molto

bella tanto che tutti i principi dei villaggi vicini

la chiedevano in sposa, ma il padre non sapeva

decidersi.

Alla fanciulla piaceva passeggiare nel bosco, ammirare le montagne e bagnarsi nel fiume

quando il sole era alto nel cielo. Uno giorno che proprio si trovava a fare il bagno sentì una

voce provenire dalla montagna che diceva - Fanciulla, fiore amato dallo spirito del giorno, se

mi vuoi conoscere segui le orme che troverai accanto alle rocce-. La giovane, incuriosita,

seguì le orme fino a una roccia dove si fermò a riposarsi. E subito la voce - Fanciulla, fiore

amato dallo spirito del giorno, segui le orme fino a quando arriverai a una grotta-.

Si mise in cammino e trovò, seduto, un bellissimo

giovane con un copricapo tempestato di brillanti -

Sono il signore di Murcielager- le disse - e se rimarrai

con me, avrai un figlio forte come la roccia e bello

come questo bosco-. La fanciulla rimase con il

giovane e dopo un po’ di tempo partorì un bambino

dal sorriso radioso e dai denti candidi come quelli

della mamma.

Nel frattempo però nel villaggio di Pipiles la gente soffriva la fame perché un grosso animale

aveva mangiato il cuore del mais che doveva servire per la semina.

Quando la giovane apprese della disgrazia si recò dal padre il quale, ritenendola responsabile

dell’accaduto, le ordinò - Vai e trova semi di mais affinché il nostro popolo cessi di soffrire la

fame-.

La figlia partì e camminò fino alla grotta del signore di Murcielager a cui raccontò tutte le

sue pene. L’uomo ascoltò e poi disse - Non disperare, domani torna al villaggio e dì agli

uomini di preparare i campi e, al momento della semina, strappati i denti e seminali-.

Page 33: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

La fanciulla, per amore del suo popolo, si sacrificò e tutti si misero al lavoro. Il tempo passò e

quando il mais cominciò a dare i suoi frutti, gli abitanti del villaggio scoprirono con

meraviglia che i grani della pannocchia erano bianchi e brillanti come i denti della donna.

Il mais bianco era il regalo fatto dagli dei alla gente di Pipiles in ricordo della giovane che era

stata disposta a strapparsi i denti per salvare il suo popolo.

Page 34: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

Storia della donnola che aiutò gli uomini a trovare il mais (Guatemala)

Una volta, ci fu un' epoca in cui il cibo finì. Prima di

conoscere il mais, la gente mangiava un'erba molto saporita,

ma molto scarsa. All'improvviso, smise di piovere. All'inizio,

nessuno se rese conto, perché esistevano ancora arbusti di

quell'erba chiamata Uk’ u’x wa. Beh, in realtà non si mangiava

l'arbusto, bensì le radici di quell'arbusto.

Ma d'un tratto, siccome non pioveva, non la si trovò più. Le

nonne e i nonni penetravano nel bosco, si addentravano nella

foresta, si perdevano sulla montagna, ma non trovavano nulla. Tornavano sconsolati

dicendo: “Il cibo è finito! Non ci sono più radici da mangiare!”. E allora la fame tormentava

lo stomaco come una manciata di spine. “Il cibo è finito”, dicevano le nonne. “Che

facciamo?” dicevano i nonni.

Lo sconforto s'impadronì dell'anima degli esseri umani. I bambini cominciarono a piangere,

chiedendo da mangiare. “Non ce n'è”, gli dicevano i genitori. I genitori cominciarono a

piangere, perché non potevano dare da mangiare ai loro figli. “Non ce n'è”, dicevano le

nonne. Le nonne e i nonni scoppiarono in lacrime, perché li intristiva molto veder piangere i

loro figli e i loro nipoti.

Passava di là una donnola, che, vedendo piangere la gente, si commosse e ne ebbe

compassione. “Che cosa vi succede? Perché invece di ballare e far festa, avete quell'aria cupa

e i volti coperti di lacrime? Qual è la pena che vi affligge?” “Ah, signora donnola”, disse una

nonna, “se lei sapesse!” “Ah, signora donnola”, disse un nonno, “se lei sapesse!”.

La donnola li guardò, un po’ perplessa e si avvicinò a una

coppia di giovani, anch'essi in lacrime. “Ho incontrato

una nonna e un nonno che stavano piangendo”, gli disse,

“e adesso vedo piangere anche voi. Che cosa sta

succedendo in questo paese?”. “Ah, signora donnola”,

disse la donna, “se lei sapesse!”. “Ah, signora donnola”,

disse l'uomo, “se lei sapesse!”.

Ancora più perplessa, la donnola si avvicinò a due bambini piccoli che piangevano.

“Bambini”, gli domandò la donnola perplessa, “ho incontrato la nonna e il nonno, la mamma

e il papà, e stavano piangendo. Adesso trovo voi, e anche voi state piangendo. Si può sapere

che cosa vi succede?”. “Abbiamo fame! Il cibo è finito!” singhiozzarono i bambini. La

donnola si commosse così tanto che fu sul punto di mettersi a piangere anche lei.

Page 35: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

Si commosse così tanto che decise di aiutarli a risolvere il

problema. Riunì le nonne, le madri, i nonni, i padri, le

bambine e i bambini. “Conosco un luogo in cui, sotto

una pietra, troverete tutto il cibo di cui avere bisogno...”

disse, mostrando denti e gengive in un sorriso felice.

“Dove, dove, dove?” le domandavano agitati e

angosciati. “E su una collina di nome Chajuyub’, ma non

dovete andare a mani vuote. Dovete fare un lungo pellegrinaggio, portare molti fiori, e

accompagnare la processione con zufoli e tamburi, e inoltre dovete fare grandi cerimonie, e

dovete anche bruciare resina di pino...”. “Sì, lo faremo”, promisero solennemente le nonne e

i nonni. “E una volta fatto tutto questo, allora troverete una pietra chiamata Pek...”. La

donnola fece un silenzio teatrale. “Sotto quella pietra c'è del cibo chiamato mais, che

abbonda più di tutti gli altri cibi...”.

La gente non poteva credere a quello che diceva la donnola. Era troppo bello! “Non può

essere...” protestarono, “ci stai mentendo...”. “Vi do la mia parola d'onore di donnola”,

affermò lei tutta seria “In quel luogo, sotto la pietra Pek, troverete il mais”. Le gente del

paese era ancora incredula. E se non era vero? Allora la donnola disse “Molto bene, verrò

con voi per mostrarvi il luogo esatto dove si trova nascosto il mais.”

La gente del paese organizzò una grande processione

con tutte le varietà di fiori, i gerani rossi, le

buganvillee color fuoco, le delicate orchidee, i

garofani appassionati, le rose profumate; erano così

tanti tutti quei fiori, simili a formiche che in fila

portano le loro provviste, che non si vedeva la gente,

ma sembrava che a muoversi fosse una grande

processione di fiori. Portavano inoltre le resine di pino accese, suonavano i tamburi e gli

zufoli emettevano nell’aria un suono acuto che fluttuava in mezzo all’aroma dei fiori. Era

davvero un bello spettacolo la processione della gente del paese che andava dietro alla

donnola.

Cammina che ti cammina, arrivarono a una radura nel bosco. Là organizzarono cerimonie,

bruciarono l’incenso e suonarono musica sacra. “E’ qui”, gli aveva detto la donnola. “Adesso

fate sì che i vostri fiori profumino, che le resine si accendano e che gli zufoli suonino

accompagnati dai tamburi”. La gente obbedì e si mise ad aspettare. Aspettò, aspettò e

aspettò ancora.

Page 36: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

All’improvviso, si udirono i ruggiti della

scimmia saraguate, che annuncia sempre la pioggia. Iniziò

quindi a piovere, prima con goccioloni grandi come

monete d’acqua gettate dal cielo che si schiantarono

contro il terreno sollevando polvere. Poi le gocce si

andarono addensando, fino a formare una cortina di

pioggia agitata da un vento impetuoso,

RRRRRRRRRUM! Scorreva una cortina.

RRRRRRRRRRUUUUUUUUM! Se ne apriva un’altra. La pioggia cadeva dal cielo a

catinelle, incontenibile. I bambini rimasero sotto l’acqua, a correre e a saltare nelle

pozzanghere, ridendo come matti perché si schizzavano a vicenda.

In seguito, cominciarono i fulmini e i tuoni. I bambini andarono sparati a rifugiarsi dai loro

genitori. Una luce istantanea dipingeva di bianco gli alberi, le foglie, i volti della gente e,

subito dopo, BROOOOOOM! Un gran tuono rimbombava all'orizzonte.

All'improvviso, un fulmine cadde sulla pietra Pek e la spaccò in due. BROOOOOOM! Fece

il tuono, che si diresse poi dietro alle montagne. La pietra si era aperta, e un filo di fumo

color cenere si sollevava da quel luogo.

Quando smise di piovere, la gente del paese corse a vedere che cosa c'era sotto le pietre.

Erano quintali e quintali di chicchi di mais. C'era cibo per tutti! Il mais che era stato bruciato

dal fulmine era completamente nero. Il mais lontano invece era ancora bianco. Quello che si

trovava in mezzo era di colore rosso e giallo. Per questo esistono quattro varietà di mais.

Allora la gente del paese disse: “Dobbiamo portare il mais alle nostre case, ma prima

dobbiamo separare i semi, per seminarlo e raccoglierlo ogni anno”.

Fu così che gli uomini conobbero il mais. Seminarono il mais nero e venne fuori nero.

Seminarono il mais giallo e venne fuori giallo. Seminarono il mais rosso e venne fuori rosso.

Seminarono il mais bianco e venne fuori bianco. Le piantine di mais, invece, erano tutte

uguali: lunghe canne con grandi foglie verdi addormentate di lato. E da allora furono il cibo

dell'umanità.

Quando la gente del paese ebbe placato la fame, decise di

festeggiare la donnola. “Signora donnola!” la chiamarono.

“E’ stata davvero di parola, e quindi le faremo una gran

festa.” La donnola sbatté le palpebre varie volte, come per

dire: “Avete visto che avevo ragione”.

La gente del paese decise di darle le migliori galline, i

Page 37: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

migliori galli e i migliori tacchini che ognuno aveva in casa. E così fu: molti uscirono dalle

loro casa con le galline, che erano già ingrassate mangiando mais, e altri con galli grassi per

aver becchettato il nuovo cibo, e altri ancora con i signori tacchini dalla cresta rossa, da

offrire alla donnola.

Siccome però i taccagni non mancano mai, ci fu chi nascose le proprie galline e i propri galli,

e al loro posto portò alla donnola dei pulcini piccolissimi. La donnola si accorse della loro

meschinità e decise di dar loro una lezione. Perché bisogna sempre saper essere grati quando

si riceve un favore. Quella stessa notte, quando ormai tutti dormivano, la donnola ritornò al

paese ed entrò nei pollai dei taccagni che non

avevano voluto regalarle un bel gallo o una bella

gallina o un del tacchino. Furtivamente se li portò

via, e il giorno dopo gli ingrati si ritrovarono senza

polli, senza galli e senza galline. Così facendo, la

donnola fece capire agli esseri umani che non

bisogna essere taccagni e che si deve sempre essere

riconoscenti.

Page 38: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

La leggenda del guaranà (Brasile)

Gli indios Sateré-Maué abitavano anticamente tra i fiumi Madeira

e Tapajòs, un’ampia zona forestale dello stato di Amazonas; ma

qualcuno parla ancora di un mitico luogo d’origine, “là dove le

pietre parlano” che sarebbe localizzato sulla riva sinistra dello

stesso fiume Tapajòs, dove la foresta è più fitta e scusa di

vegetazione.

Gli uomini vanno a caccia e pescano, colgono castagne, noci di cocco, formicoli, lucertole e

altri alimenti. Le donne preparano farina di manioca, coltivano patate dolci e un’infinità di

frutta tropicale. Ma gli indios si attribuiscono con orgoglio la scoperta del guaranà, una

pianta silvestre della zona ricca di proprietà energetiche. Raccolgono i semi del guaranà

prima che si apra l’involucro che li trattiene. Li lavano nell’acqua corrente, li fanno

abbrustolire in forni di fango per poi macinarli nel mortaio. Impastano con acqua la farina

con cui poi fanno dei bastoncini da grattugiare su una pietra ruvida. La farina viene poi

sciolta in acqua, ed ecco la magica bevanda che –dà forza e vita e guarisce tutte le malattie-.

Gli indios Sateré-Maué si dichiarano figli del guaranà e usano nei rituali ornamenti rossi e

verdi, i colori della pianta.

Simbolo della loro cultura è il porantim, un remo magico su cui è incisa simbolicamente la

storia mitica.

Dicono che, all’inizio del tempo, quando si formarono

tutte le cose in cielo e sulla terra, vivevano già tre fratelli:

due maschi con una sorella bellissima che chiamavano

Uniaì.

Uniaì era padrona assoluta di Noçoquem, un luogo

incantato, il più bello che si conoscesse sulla terra. Solo

Uniaì conosceva tutte le piante di quel paradiso: le piante che davano cibo saporoso, quelle

che guarivano dalle malattie, quelle che offrivano grani multicolori per le collane e le piante

dalle quali pendevano, dure come il legno, palle rotonde di color marrone che potevano

servire come scodelle per bere.

Uniaì sapeva tutto ciò di cui necessitavano i due fratelli e faceva loro scoprire ogni meraviglia

a poco a poco. Un giorno piantò un castagno che s’innalzò tanto nel cielo da non potersi

scorgere la cima.

Page 39: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

Uniaì non aveva marito. A quel tempo gli animali

vivevano come gli uomini e tutti avrebbero voluto

sposarla, ma i due fratelli non volevano, preferivano

che rimanesse sempre con loro provvedendo alle loro

necessità. Tra gli animali fu un serpentello il primo a

esprimere il suo desiderio. Tutti i giorni lasciava dietro

di sé una scia di profumo che inteneriva subito il cuore.

Uniaì passava di là e sospirava - Ma che profumo

soave!-. Il serpentello, acquattato lì vicino, si scioglieva di tenerezza - Lei mi ama, non lo

disse?- e andava a stirarsi più in là, in mezzo al sentiero. Quando passò la ragazza il

serpentello la fissò negli occhi e la chiese come sposa. Con quel semplice incanto, l'animale

la prese in sposa e concepì con lei un figlio. Ma ai fratelli non andò giù - Adesso lei avrà cura

solo del bambino e non si curerà più di noi- e decisero di non vedere più né la sorella né suo

figlio. Allora Uniaì se ne andò.

Nel frattempo il castagno allargava le sue fronde come un piccolo cielo verde cupo. Dai rami

pendevano già graziosi involucri con dentro una sorpresa: le castagne.

Uniaì aveva costruito la sua capanna molto lontano, ai bordi di un ruscello. Il bimbo

cresceva bello e robusto e la madre ogni giorno lo portava a fare il bagno nell’ora più

luminosa, quando arrivavano vento, luce e farfalle a giocare con l’acqua. La mamma gli

raccontava le storie di Noçoquém, gli raccontava delle piante, dei fiori, degli uccelli, dei

frutti e degli zii e del castagno che aveva piantato. Appena il bimbo cominciò a parlare disse

a Uniaì - Anch’io voglio mangiare le castagne e gli altri

frutti che piacciono agli zii-.

-Non è facile, figlio mio. I tuoi zii sono padroni di quella

terra e io non ci posso più tornare-.

Ma il bambino continuava a insistere.

-Ma è pericoloso. I tuoi zii hanno messo a guardia

un cotia (il roditore Dasyprocta aguti), un cocorito e un pappagallo arara.

-Lo voglio lo stesso- ripeteva il bambino. Si misero in cammino.

Un giorno il cotia, passando per Noçoquém, vide sotto il castagno, per terra, le ceneri del

fuoco dove erano state abbrustolite le castagne. Corse subito dai fratelli per raccontare ciò

che aveva visto. E dopo poco giunse anche il cocorito a riferire che era successo qualcosa di

strano. Allora i due fratelli decisero di mandare la scimmietta Bocca di Viola a custodire il

castagno.

Page 40: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

Il giorno dopo il bambino aveva una gran voglia di

mangiare castagne e decise di andare da solo visto che

conosceva la strada.

La scimmietta lo scoprì subito arrampicato sull’albero e

cominciò a scoccare frecce in direzione dell’albero

finché non riuscì a colpirlo e il bimbo cadde a terra,

trafitto.

Quando Uniaì si accorse della mancanza del figlio si mise a correre più forte che poté e

quando arrivò scoprì ciò che era successo. Pianse tanto fino all’ultima lacrima e poi gridò –i

tuoi zii ti volevano così, senza vita. Ma così non sarai!- e poi mormorò una cantilena, come

un incantesimo.

Grande sarai e guarirai gli uomini.

Tutti correranno da te per scacciare i malanni,

avere forza in guerra,

avere un amore più grande

e così anche tu, grande sarai!

Subito dall’occhio sinistro del bambino spuntò una pianta, ma

non era robusta: si trattava del falso guaranà che oggi gli indios

chiamano uranà-hop. Poi dall’occhio destro spuntò il vero

guaranà.

E’ per questo che il frutto di questa pianta assomiglia agli occhi

dei bambini.

Dopo giorni e giorni Uniaì tornò a controllare la pianta e la

trovò grande e piena di frutti maturi. E sotto la piante, con

grande sorpresa vide suo figlio vivo, forte e allegro.

Questo bambino, nato come una pianta dal cuore della terra,

fu il primo indio Maué. Lui è forza e vitalità. Lui è l’origine

della tribù.

Page 41: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

La pianta della fortuna (Perù)

Durante l’età dell’oro esisteva nella valle andina un piccolo

villaggio molto prospero: Itau. Gli abitanti lavoravano dalla

mattina alla sera e in tutto il regno il villaggio era citato come

esempio di laboriosità: non si conosceva la pigrizia. - Va a

Itau- diceva l’imperatore a suo figlio- e vedrai ciò che io

chiamo fortezza d’animo-. Il bambino ascoltava incantato

quanto gli diceva suo padre.

Ogni sera al tramonto, l’imperatore raccontava delle belle

storie della tradizione Inca; e quando narrava le prodezze della gente di Itau, finiva sempre

per commuoversi.

Itau era un paese dove non si incontrava un solo uomo ozioso: tutti lavoravano, ma il lavoro

rendeva poco quindi raramente gli abitanti del villaggio potevano mangiare

abbondantemente.

Un giorno una vecchietta di nome Vea sempre preoccupata per il bene del prossimo, decise

di fare qualcosa per Itau. Facendo un giro intorno alla sua casa, vide una pianticella

sconosciuta. Si chinò per osservarla meglio e udì una voce provenire da chissà dove -

Raccoglimi donna!-.

Vea si guardò attorno, ma non riusciva a vedere nessuno. La voce insisteva -Raccogli la

pianta vicina al tuo piede, facendo attenzione a non spezzarne le radici. Poi piantala sulla riva

sinistra del torrente-.

Vea, anche se dubbiosa, decise di seguire le indicazioni della voce, raccolse la pianta e andò

in direzione del corso d’acqua. Quando arrivò là

trovò un lama nero che la fissava intensamente.

Lei piantò il piccolo arbusto e l’animale,

inaspettatamente sputò più volte sulla terra

smossa.

La vecchia si sorprese ma poi si accorse che la

saliva del lama aveva un effetto prodigioso sulla

pianta che stava crescendo rigogliosamente.

Vea rimase tutta la notte a sorvegliare la piantina:

sotto la luna le foglie avevano un bellissimo colore

verde pallido.

Page 42: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

La mattina seguente erano comparsi alcuni fiorellini bianchi

che al tramonto si erano già trasformati in tante pallottoline

lucide e rosse: erano maturati i primi frutti.

Cominciò così la storia del pomodoro, ricchezza e vanto di Itau,

in Perù.

Page 43: Ma gli hamburger si mangiano in Africa?

Ceà, la pianta mate, leggenda guaranì. (Paraguay)

Un giorno Yaci, la luna, decise di scendere sulla terra perché

era curiosa di vedere i fiumi, i boschi e la foresta. Veramente li

vedeva da sempre però di notte non poteva distinguere il

colore dei fiori né udire il canto degli uccelli che a quell’ora

dormivano. Per questo passava lunghe ore nella tristezza, con

la faccia pallida, conversando con i rospi. A volte si infiltrava

tra le foglie degli alberi, penetrava fin dentro la foresta e

andava curiosando nelle capanne degli uomini… però

dormivano tutti! Yaci avrebbe voluto conversare un poco con i suoi figli, sapere come

stavano e percorrere i vari luoghi che, come le diceva la nuvola Araì, erano così belli di

giorno.

Decise dunque di scendere insieme con

la nuvola e, per non essere riconosciute,

presero forma umana trasformandosi in

due belle donne.

Yaci rimase incantata a vedere le bellezze

del mondo sotto la luce del giorno: il

sole restituiva alle acque tutto l’azzurro

del cielo, i fiori di irupè si aprivano e si

tingevano di viola, giallo, rosso e altri

mille colori, il canto degli uccelli riempiva di musica lo spazio. -Che meraviglia- diceva Yaci e

non si stancava di guardare. Una volta stavano andando a passeggio nella foresta quando,

improvvisamente vennero attaccate da un coccodrillo, ma per fortuna un uomo che passava

di lì intervenne tempestivamente e trapassò l’animale con una freccia e poi con una seconda,

fino ad ucciderlo.

Ma tutto accadde così rapidamente che, quando l’uomo di voltò, Yaci e Araì non c’erano più

e avevano già ripreso la forma naturale e osservavano la scena dall’alto del cielo.

La stessa notte Yacì e Araì gli apparvero in sogno e gli dissero chi erano. -Vogliamo

ringraziarti per quello che hai fatto, hai rischiato la vita per due donne indifese. Cercheremo

per te un regalo degno del tuo nobile cuore. Domani, quando ti sveglierai, troverai una

nuova pianta che chiamerai Caà. Non dimenticare che prima di usare le sue foglie devi

abbrustolirle perché sono velenose. La pianta caà sarà segno di fraterna amicizia e avrà la

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virtù di alleviare la stanchezza e rianimare i malati. Sarà compagna

nella solitudine e vincolo di amicizia tra gli uomini-. Così parlò

Yaci e scomparve insieme ad Araì.

L’uomo il giorno dopo constatò con gioia che il sogno si era

avverato ed era comparsa una nuova pianta proprio a fianco della

sua capanna ed era la pianta caà o erba mate, conosciuta anche

col nome di caà-yari e caà-guazù.

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Europa

L'utile dono di Atena alla Grecia (Grecia)

L’olivo ha un posto importante nella mitologia greca.

Moltissimi infatti sono i miti e le leggende a esso

collegati. D’altra parte è uno degli alberi più presenti

sul territorio e ai suoi prodotti è da sempre legata una

parte importante dell’economia. Per giustificarne

l’esistenza dunque, sono stati scomodati addirittura gli

dei dell’Olimpo. Si narra che Zeus, padre di tutti gli

dei, avesse indetto una gara tra i suoi figli: chi offriva

alla Grecia il dono più utile avrebbe avuto in premio

Atene e tutta la regione dell’Attica. Gli dei ce la misero tutta, ma a uno a uno vennero

eliminati. Restarono Atena, dea della sapienza e Poseidone,

dio del mare. Quest’ultimo fece sbucare dalla foresta uno

splendido cavallo, mentre Atena trasse dalla terra un nuovo

albero, l’olivo. Zeus non ebbe dubbi, il nuovo albero

sarebbe stato prezioso per gli uomini più del cavallo. Fu

così che aggiudicò la gara ad Atena.

Poseidone, dio del mare, non si accontenta di aver ottenuto, nella spartizione del regno del

padre Crono, la signoria degli oceani. Invidia a suo fratello Zeus il dominio del cielo ed è

avido di terre, che contende, appena può, a tutti gli altri dei.

Poseidone abitava in uno stupendo palazzo sull'isola di Eubea.

La reggia era decorata di madreperla con numerosi intarsi di conchiglie, coralli e gemme

preziose. Quando Poseidone usciva su un carro d'oro trainato da alati cavalli bianchi, era

seguito dalla numerosa corte di tritoni, sirene e nereidi.

Tutte le creature del mare gli ubbidivano e buona parte di quelle della terra lo temevano

perché egli aveva piena signoria sulle onde, i maremoti e le burrasche marine, che inviava

sulle coste quando andava in collera.

Poco lontano dal suo regno c'era una città stupenda, Atene , ricca di splendidi palazzi di

marmo e di templi imponenti, che onorava soltanto la saggia figlia di Zeus, Atena. Il dio del

mare, invidiosissimo, fremeva dalla voglia di diventarne il signore.

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Un giorno arrivò col suo carro veloce sul punto più alto di Atene, l'Acropoli, e battendo sulla

roccia con la sua arma, il tridente, fece sgorgare una fonte d'acqua marina.

"Ecco la prova che Atene è mia" gridò il dio ai quattro venti.

"Qui sgorga acqua di mare, e io sono il dio del mare...".

La dea Atena si fece avanti, protestando, ma Poseidone la sfidò: "Ah, sì, questa città è tua? Te

la ridarò se sarai capace di battermi in duello".

Atena scosse la testa.

"Perché combattere?", disse. "Facciamo una gara pacifica : vincerà chi regalerà agli abitanti di

questa terra la cosa più utile".

"Io dono il cavallo!", gridò Poseidone, sicuro di vincere. Che cosa c'era infatti, per quei

tempi, di più utile del veloce cavallo?

Atena piantò in terra la sua lancia e immediatamente spuntò in quel punto una piantina dalle

foglie d'argento, che crebbe a vista d'occhio: era l'ulivo.

Poseidone s'appellò a Zeus, il quale convocò subito una giuria di dei e di dee, in numero

uguale.

A quel punto chiese loro di dare un giudizio: era più utile il cavallo o l'ulivo dai frutti

preziosi?

Difficile prendere una decisione. Dopo infinite ed accese discussioni, che si protrassero per

giorni e giorni, l'eccellente giuria non poté emettere un verdetto definitivo.

Infatti gli dei erano in favore di Poseidone, mentre tutte le dee erano dalla parte di Atena.

Vinsero però queste ultime, perché il padre Zeus, come giudice supremo, si astenne dal

voto, dando la maggioranza alle dee.

Così fu evitato il duello nel quale Atena avrebbe senz'altro avuto la peggio.

Da allora l'ulivo divenne il simbolo della pace e tale è rimasto anche ai nostri giorni.

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Il mito di Demetra (Grecia)

Demetra, figlia di Crono e Gea, secondo la tradizione

mitologica è la dea fondatrice e protettrice

dell'agricoltura e delle istituzioni familiari. Il suo nome

significa significare infatti "Dea Madre" o "Dea

dispensatrice". Il mito a cui è legata la figura di

Demetra è quello che racconta del ratto, cioè del

rapimento, di sua figlia Persefone da parte di Ade, dio

degli Inferi.

Persefone è intenta a raccogliere fiori con altre

fanciulle quando, all'improvviso, appare il re degli

Inferi e la costringe a seguirlo sul suo carro. Demetra

sente l'urlo disperato della figlia, ma è troppo lontana

per salvarla.

Inizia così il suo viaggio alla ricerca di Persefone; abbandona l'Olimpo e il suo ruolo di dea

delle messi rendendo del tutto sterile la terra e mettendo in pericolo la sopravvivenza del

genere umano. Zeus, padre di tutti gli dei e re dell'Olimpo, non può permettere che

scompaia il genere umano, e con esso le offerte degli uomini per le divinità in occasione dei

sacrifici. Ordina così a suo fratello Ade di restituire la fanciulla a Demetra.

Ade esegue l'ordine ma, prima di lasciare andare l'amata, le fa mangiare alcuni chicchi di

melograno. Così Persefone, interrompendo il suo digiuno, rimarrà legata per sempre al

mondo degli inferi.

L'origine delle stagioniL'origine delle stagioniL'origine delle stagioniL'origine delle stagioni

Il racconto mitico ci tramanda che da quel momento Persefone trascorrerà sei mesi

sull'Olimpo e sei mesi nel mondo dei morti. Tale alternanza scandisce il ritmo delle stagioni:

i mesi in cui la dea è negli Inferi corrispondono ai mesi invernali durante i quali il grano è

assente dai campi, i mesi in cui è sull'Olimpo corrispondono alla primavera e all'estate, mesi

della rinascita vegetativa e della raccolta del grano.

Il cultoIl cultoIl cultoIl culto

Tutto il mondo mediterraneo è costellato di santuari dedicati alle due divinità e il loro culto

si sviluppa tra il VII e il IV secolo a. C. Tra le offerte ritrovate durante gli scavi predominano

le statuette di Demetra raffigurata con la fiaccola, con il maialino o con le spighe di grano.

Sono simboli legati sia al racconto mitologico che alla funzione svolta dalla divinità.

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La fiaccola è servita a Demetra per scendere negli Inferi alla ricerca

della figlia, il maialino e le spighe sono simboli di fertilità. Gli

offerenti di solito portavano nei santuari, come ringraziamento per

il dono dell'agricoltura, le primizie dei raccolti, o sotto forma di

repliche di terracotta o veri e propri cesti colmi di frutta e cereali.

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Il mito di Cerere

A Roma, Demetra fu chiamata Cerere, e il nome collettivo dei chicchi della terra è cereali. Nel chicco, apparentemente secco eppure capace di germogliare, si incontrano morte e vita , e quello che sembrava una fine torna a essere un inizio, in un ciclo che garantisce la continuità della vita. E’ proprio questo che vogliono significare i cosiddetti pani dei morti, e non e caso il giorno dei morti cade nella stagione della semina. Cerere (identificata con la dea greca Demetra) era la dea

della fertilità dei campi. Nella vicenda mitica di sua figlia Proserpina (Persefone per i Greci),

rapita e trattenuta sotterra dal dio dei morti ma poi restituita alla madre per una parte

dell'anno, è simboleggiato il ciclo della vegetazione. In onore di Demetra e di Persefone si

celebravano in Grecia i famosi misteri di Eleusi

Figlia di Crono e di Rea, Demetra era per i Greci la divinità che aveva insegnato agli uomini

l'agricoltura, favorendone così il progresso. Il suo stesso nome era interpretato come "Madre

Terra". A Roma ben presto con lei venne identificata Cerere, antica divinità italica

strettamente associata a Tellus, dea della Terra. Cerere era celebrata con la festa delle

Cerealie (19 aprile). Altre feste e sacrifici avevano luogo alla fine della semina e all'inizio

della raccolta. A partire dal 496 a.C. la dea ebbe un tempio sull'Aventino.

Il racconto di un famoso inno omerico proietta in epoca mitica le origini del culto misterico

di Demetra a Eleusi, che prevedeva la celebrazione di riti segreti cui venivano ammessi solo

gli iniziati. Nel racconto Ade (il dio dei morti) si invaghisce della figlia di Demetra,

Persefone, e, mentre ella sta cogliendo fiori in un prato, la rapisce portandola nel suo regno.

Demetra sente il grido di sua figlia e, coprendosi con un velo nero e stringendo nelle mani

fiaccole ardenti, vaga alla sua ricerca per nove giorni, senza nutrirsi né lavarsi. Poi apprende

dal Sole la verità.

Adirata contro Zeus (Giove), che ha permesso il rapimento, Demetra abbandona l'Olimpo e

assume le sembianze di un'umile vecchia. Giunta a Eleusi, viene accolta nella reggia per

servire la regina Metanira. Ma la sua pena non l'abbandona; solo l'ancella Iambe riesce a

indurla al riso con le sue battute spiritose: vengono così ricondotte al mito le origini delle

frasi vivaci e argute che i fedeli solevano scambiarsi durante la processione in onore della

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dea. Rifiuta anche il vino rosso che le viene offerto, dicendo che le è consentito bere solo

acqua con farina d'orzo e menta (la bevanda effettivamente in uso nei suoi riti).

Quando la regina le affida le cure del neonato Demofonte, Demetra si affeziona al bimbo e

vorrebbe renderlo immortale temprandolo sulla fiamma del fuoco; ma viene scoperta da

Metanira. La dea, indispettita, interrompe l'operazione e, rivelando la sua identità, chiede

che le venga eretto un tempio lì a Eleusi: ella stessa insegnerà il rito per placarla. Cancellato

ogni segno di vecchiaia, appare ora bellissima, profumata e splendente in tutto il corpo.

Costruito il tempio, Demetra vi prende sede, ma rimane in disparte da tutti gli altri dei,

afflitta per la perdita di sua figlia. Una terribile carestia si abbatte sulla Terra, perché la dea

non permette ai semi di germogliare. Il genere umano rischia di estinguersi e gli stessi

sacrifici agli dei cessano.

Allora Zeus chiede ad Ade di restituire Persefone a sua madre. Ade obbedisce ma,

astutamente, fa prima mangiare alla fanciulla un chicco di melagrana, sì che essa, avendo

diviso del cibo con i morti, non possa distaccarsene completamente. E così sarà: Persefone

abiterà sull'Olimpo per due terzi dell'anno; per un terzo, invece, sarà con il suo sposo negli

Inferi. La vicenda è un'allegoria della natura e del ciclo della vegetazione, che muore e

rinasce.

Pacificata, Demetra fa sorgere le messi dai campi, riempie la Terra di foglie e di fiori, e rivela

ai re di Eleusi i suoi misteri.

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