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Testi: Massimo Antonucci MODA E FUORIMODA Sistema moda e subculture giovanili negli anni ‘50/60

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Questo saggio è il risultato delle trascrizione di un ciclo di programmi radiofonici sul tema sistema moda-subculture giovanili

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MODA E FUORIMODA

Sistema moda e subculture giovanili negli anni ‘50/60

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Moda e fuorimoda In linea generale, i temi che tratteremo in questo breve saggio spaziano dal rapporto musica-abito all'interno dei movimenti giovanili ai rapporti tra questi movimenti e il fashion system. Partiamo da qualche cenno storico per arrivare ad una definizione di moda. E' opinione diffusa tra gli studiosi che l'affermazione della moda sia da collocare in età rinascimentale. Per quanto riguarda la data della sua nascita, invece, si rimane nel campo delle ipotesi. Una delle più accreditate indica l'apparizione di un tipo d'abito radicalmente nuovo, intorno alla seconda metà del XIV secolo, come origine del fenomeno moda. Lipovetsky, così, descrive, nel suo saggio L'impero dell'effimero , la genesi della moda :

Al camicione portato per secoli, quasi uguale per i due sessi, lungo e svolazzante, si sostituisce un abito maschile formato da un farsetto, specie di giubbino stretto e corto, e da calze-brache aderenti che mostrano i contorni delle gambe, e un abito femminile

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lungo come quello tradizionale ma più attillato e scollato...E' incerto dove per la prima volta sia apparso il nuovo abbigliamento, ma si sa che molto in fretta , fra il 1340 e il 1350, si è diffuso in tutta l'Europa occidentale. Da allora in poi le variazioni nel modo di vestire si sono fatte più frequenti, più stravaganti, più capricciose, e con ritmo prima ignoto sono apparse fogge ostentatamente estrose, bizzarre, decorative, determinando il meccanismo della moda; il mutamento non è più stato fenomeno casuale, raro, inatteso, ma abituale: uno dei piaceri dell'alta società. L'effimero ha cominciato a essere uno degli ordinamenti

essenziali della vita mondana. Evitiamo in questa sede di ripercorrere in modo puntuale la lunghissima storia della moda, limitandoci a sottolineare come in età rinascimentale nasca un nuovo rapporto tra abito e tempo, un rapporto che privilegia il cambiamento, la novità. Lipovetsky riporta, a proposito della situazione in Francia del XVI° secolo, le parole di

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Montaigne contenute negli Essais :" I cambiamenti sono così improvvisi e rapidi che la fantasia inventiva di tutti sarti del mondo non saprebbe fornire novità sufficienti " Questa passione per il cambiamento rispecchia un accresciuto dinamismo sociale e la ricerca di nuovi equilibri di classe. E', infatti, l'aumento della mobilità sociale, derivante dalle pressioni dell'emergente classe borghese, a stravolgere il modello di tempo. Ted Polhemus nel saggio "Sampling and mixing" (reperibile all'interno del volume Moda: regole e rappresentazioni , di autori vari, a cura di R. Grandi e G.Ceriani), afferma a questo proposito che: "...anticamente, il cambiamento veniva vissuto invariabilmente come problematico; improvvisamente - alla luce della mobilità sociale - il cambiamento è vissuto come benefico e desiderabile." Viene a stabilirsi, quindi, l'equazione Nuovo=Meglio, all'interno di una visione del mondo che celebra l'idea del progresso illimitato. E' questo lo scenario in cui prende vita il Sistema Moda, dove l'abito e la decorazione sono inventati per celebrare la transizione, il cambiamento, il nuovo. In questo contesto Moda significa "rapido cambiamento del gusto". Una delle conseguenze più vistose dell'affermarsi della moda è la frattura tra significante e significato nell'abbigliamento. Per chiarezza facciamo un esempio. Poniamo il caso che, in un particolare momento, il Sistema Moda proponga il "look country"- abbigliamento da contadino-: chi indossa il look in questione non desidera certo essere scambiato per un contadino. Il look, quindi, deve simulare la realtà cui fa

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riferimento, ma, allo stesso tempo, rendere evidente la propria artificialità. L'abito, originariamente dotato di significato anche per la sua funzionalità, viene decontestualizzato e, contemporaneamente, svuotato di senso. Solo il susseguirsi di "look dell'anno" acquista senso e significato in quanto celebrazione del cambiamento. Polhemus spiega questo fenomeno, ricorrendo alla metafora del linguaggio: "Come nel caso delle singole lettere dell'alfabeto, le singole immagini di moda ("i vari look dell'anno") in sé sono prive di significato. In altri termini: "Il look di questo anno" può acquisire senso come parte di una catena sintagmatica di significati che (teoricamente ) si estendono verso l'infinito. Il complesso di questa catena di significati - presa come il tutto , conduce ad uno ed un solo significato: le cose cambiano ". Al contrario, nelle società pre-rinascimentali, in molte culture tradizionali e nelle subculture giovanili l'immutabilità dell'abito rispecchia il valore accordato all'abito in quanto significante di una precisa identità sociale. L'abito e la decorazione corporea in questi contesti sono parte integrante di una specifica visione del mondo, il limite visibile tra noi e loro. A differenza di quanto avviene nell'ambito della moda, con l'insensato susseguirsi dei "look dell'anno", l’abito è parte integrante di una identità socio-culturale. L'adozione di un particolare sistema simbolico per decorare il proprio corpo è, infatti, inseparabile dall'adesione ad un particolare gruppo sociale.

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Riprendendo l'esempio fornitoci da Polhemus, nel saggio "Sampling and mixing" :

Noi della tribù X dipingiamo la pelle coi colori blu e nero come i serpenti. Non trasformare il vostro corpo in questo modo significa

non essere uno di noi. Non può qui esistere arbitrarietà nell'uso degli abiti e della decorazione corporea, così come all'interno di una lingua non è possibile usare arbitrariamente una qualsiasi parola per esprimere dei significati: esiste, infatti, un codice ( il vocabolario) che limita le possibilità di combinazione tra espressioni e contenuti. In sintesi, nelle società tribali il costume è concepito e vissuto come parte integrante della propria identità e non può essere alterato se non a costo della perdita dell'identità stessa. La somiglianza tra l'uso dell'abito nelle culture tradizionali e nelle subculture giovanili è, quindi, da ricercare in un rapporto cultura-abito tale da rendere l'abito segno esteriore e immediato di una particolarità culturale . Per quanto riguarda le subculture, basti pensare

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all'equazione che si viene a stabilire tra sfera vestimentaria e valoriale nel movimento hippy: caffettano+fiori+collanine=hippy=love and peace. D'altra parte, la differenza più marcata tra società tradizionali di carattere tribale e le tribù di stile è che queste ultime non condividono un territorio e spesso i propri appartenenti non si conoscono tra loro (pensiamo al punk giapponese e a quello spagnolo): il fattore unificante è rappresentato dai mass media e dall'industria musicale. Se moda significa "rapido cambiamento del gusto", celebrazione insensata del "look dell'anno", fuori-moda sono tutti quei fenomeni di resistenza al Nuovo come valore in sé. E' bene precisare, a questo punto, che la "moda" è sempre più "forma-moda", una macrocategoria che investe il sociale nella sua globalità. A questo proposito riporto le parole di Lipovetsky, contenute nel saggio L'impero dell'effimero:

E' l'era della moda matura che estende i suoi tentacoli su ambiti sempre più ampi della vita collettiva. Non è più tanto un settore

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specifico e periferico quanto una forma generale che agisce in tutta la società. Viviamo immersi dappertutto e progressivamente nella moda, un pò ovunque si compie la tripla operazione che ne definisce la specificità: effimero, seduzione, differenziazione

marginale." L'affermazione dell'effimero, di cui parla Lipovetsky, è visibile nell'ossessione del "nuovo” che domina la produzione e il consumo. La conseguenza più visibile è la rapida obsolescenza delle merci, concepite sempre più all'interno di una logica dell'usa e getta. Per quanto riguarda la seduzione, il secondo fattore che caratterizza la forma-moda secondo Lipovetsky, si pensi all'importanza assunta dall'industrial design nell'apparato produttivo. Lipovetsky stesso ci ricorda, infatti, che: "Il nuovo ruolo riconosciuto alla seduzione traspare dalle frequenti modificazioni estetiche degli oggetti.". Così, il continuo aggiornamento dello styling di auto, articoli per la casa etc. è simile al susseguirsi delle collezioni stagionali nell'abbigliamento. La differenziazione marginale, infine, è quel fenomeno che contraddistingue il pret-a-porter, ma si ritrova in ogni ambito merceologico: ne sono testimonianza le infinite versioni dello stesso modello di auto. Fuorimoda, quindi, significa collocarsi all'esterno di questo orizzonte di valori: è il caso delle subculture giovanili. Storicamente l'inizio dei fenomeni di resistenza subculturale al Sistema Moda è collocabile intorno agli anni'40. Infatti, prima con gli Zooties, musicisti jazz afroamericani vestiti con lo Zoot , e poi con i Wild Ones (Selvaggi), bande di motociclisti della costa ovest americana,

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siamo in presenza di un nuovo modo di vivere il rapporto con l'abito. Citando Polhemus, si può dire che: " Come gli Zooties, i Wild Ones (Selvaggi) dimostrarono le caratteristiche essenziali di una nuova ed affascinante invenzione, la tribù di stile: il rigetto della storia lineare/"progresso" e la rappresentazione della "nostra cultura" per mezzo del "nostro costume" - uno stile che nella sua sfida di cambiamento ( l'idea del "look da motociclista di questo anno" è assurda) colloca la subcultura al di fuori della storia nel territorio del "per sempre". (Un desiderio che trova la sua espressione finale nella forma di alcuni tatuaggi che indicano il mandato subculturale e che sfidano il piacere delle nostre principali società per la transizione.)" Vediamo ora di approfondire il discorso circa i rapporti tra sistema moda e subculture. In primo luogo, cosa intendiamo per sistema-moda? Rimanendo nello specifico dell'ambito vestimentario, possiamo considerare "sistema-moda" l'insieme di soggetti

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attivi all'interno del ciclo della moda. In linea generale, i soggetti coinvolti nel processo della moda sono: - i produttori, artefici delle proposte formali e di stile; - i distributori, variamente configurati nelle diverse realtà territoriali e nazionali; - i venditori, ovvero i gestori dei punti vendita; - i mass media, fondamentale anello di congiunzione tra i soggetti appena elencati e i consumatori; - gli istituti di ricerca, in grado di influenzare la creazione e la comunicazione del nuovo; - i consumatori, i soggetti destinatari delle proposte di moda. Sistema-moda, quindi, perché la moda funziona secondo la tipica modalità sistemica per cui ogni modificazione di una componente del sistema viene seguita da una modificazione di tutte le altre. In questa ottica i fenomeni di moda possono essere visti come un continuo processo che muove da un disequilibrio temporaneo, generato da una componente del sistema, ad un successivo riequilibrio del sistema stesso. Negli ultimi decenni i disequilibri più vistosi sono stati prodotti dai creatori-produttori, prima, e dai consumatori, poi. Negli anni '70 le proposte di moda facevano riferimento a bisogni integrativi e di status sociale: è il periodo degli status symbol. Con gli anni '80, invece, l'interesse si è spostato dal singolo oggetto che connota un certo status sociale, allo stile di vita configurato da una particolare costellazione di beni consumati. Sono gli anni in cui si afferma lo style symbol e gli stilisti diventano loro stessi di moda. Negli anni '90 il disequilibrio del sistema moda è da attribuire al consumatore. I fattori che lo determinano sono

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sostanzialmente due: da un lato i creatori-produttori si trovano sempre più in difficoltà a causa della incessante esigenza di sorprendere e di fare notizia; dall'altro, con l'emergere della soggettività postmoderna, frammentata e ambivalente, i consumatori diventano difficilmente classificabili in termini di stili di vita. Le tradizionali categorie di definizione dell'identità - età, genere sessuale, classe sociale - vengono meno, lasciando spazio ad una concezione dell'identità che esalta la non stabilità, la non certezza, la non unitarietà. In questo contesto lo stile svolge funzioni differenti: può essere uno strumento adeguato per la rappresentazione dell'identità postmoderna ( succede quando un certo stile è caratterizzato da elementi fortemente ambivalenti); oppure diventa il veicolo per comunicare una identità collettiva, propria degli appartenenti a determinate minoranze ( è il caso delle subculture giovanili che abbiamo in precedenza definito anche "tribù di stile"). Nel primo caso, il risultato è il moltiplicarsi delle proposte da parte del sistema moda, nella disperata ricerca di fornire risposte adeguate alle esigenze della multiforme soggettività postmoderna. Nasce quello che alcuni autori definiscono il supermarket dello stile, dove si può comprare a buon mercato una identità preconfezionata e pronta all'uso. In questo supermarket iniziano ad essere disponibili anche quegli stili di strada, nati per opporsi al sistema moda. Negli ultimi 15-20 anni, infatti, i percorsi della moda e degli stili di strada si sono incrociati dando vita ad una ricca ibridazione e ad una cacofonia di proposte stilistiche alternative . Negli scaffali, così, troviamo tutti gli elementi

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stilistici delle differenti subculture come se fossero scatole di zuppe istantanee. Il processo di decontestualizzazione e svuotamento di senso tipico del sistema moda colpisce, però, duramente le subculture. Il look da punk, tanto per fare un esempio, non rinvia più ad una cultura con una forte carica destabilizzante: è solo abito, una innocua simulazione che il sistema ha introdotto per soddisfare la propria incessante ricerca di nuove forme. Il sistema moda, quindi, si è appropriato dell'apparato simbolico delle subculture giovanili, svuotandole di senso. La simulazione costituisce un pericolo mortale per quel valore irrinunciabile di una subcultura che è l'autenticità. Riprendiamo, a questo proposito, le parole di Ted Polhemus contenute nel saggio, citato in altre occasioni, "Sampling&Mixing":

Sebbene ci siano anche oggi numerose eccezioni - I New Age Travellers, i Modern Primitive, i Pervs ed i Raggamuffins - la grande epoca della sottocultura è chiaramente tramontata. Al suo posto ecco il simulacro della Sottocultura in cui 50 anni di controstoria delle tribù di stile sono stati risucchiati nel buco nero sincronico del post-moderno... Con una moda nostalgica

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ed un indicatore d'imitazione posto al massimo, la superficie senza sostanza sembra all'ordine del giorno.

L'identità fluida e frammentata del consumatore postmoderno può giocare, così, con i simulacri preconfezionati delle subculture, come in una specie di festa in maschera. Ironicamente Polhemus osserva:

Vuoi essere un Punk? Lo stai diventando. Vuoi essere un Beatnik? (Opzione molto popolare al momento). Lo sei già Vuoi essere un Hippy? Non c'è problema. In questo supermarket degli stili tutte le tribù stilistiche di ieri sono poste sugli scaffali come scatole di zuppa istantanea. Aggiungi solo acqua e subito l'aroma e il sapore di autenticità può essere tuo.

La sfida che si trova davanti chiunque voglia sfuggire alla logica del supermarket degli stili è, quindi, proteggere la propria autenticità dai tentativi di simulazione. Le strategie in fase di sperimentazione sono fondamentalmente due: la prima è una strategia di decostruzione-ricostruzione; la seconda una strategia del fronte comune. La strategia di decostruzione-ricostruzione è, in definitiva, una operazione complessa che prevede: la scomposizione del costume delle tribù di stile nelle sue componenti minime, in un primo tempo; l'assemblaggio di queste componenti, in modo da formare combinazioni inedite e nuove soluzioni, in un secondo tempo. Possiamo pensare, solo per fare qualche esempio, alla combinazione collane "hippy" e anfibi "punk", o a quella di pantaloni a zampa d'elefante "glam" con il tipico bomber da skinhead. Polhemus definisce questa operazione sampling&mixing.

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Sampling&Mixing sono termini derivati dal rap, dal rave, dalla techno e da altre forme di musica pop contemporanea. Sampling descrive il processo per cui piccoli frammenti di "vecchia" musica pop sono presi a prestito dai loro contesti originari. Mixing si riferisce all'operazione di rimettere insieme un certo numero di tali campioni per generare una nuova ed unica sequenza... L'obiettivo è mischiare in una serie di presentazioni i campioni più strani.

Questa strategia mira a spiazzare qualunque tentativo di simulazione, eludendo le facili classificazioni tipologiche. D'altra parte, l'operazione di decostruzione-ricostruzione tradisce, a sua volta, la stessa ambivalenza e frammentarietà tipiche della postmodernità. La seconda strategia -lastrategia del fronte comune - parte, invece, dal riconoscimento, da parte delle subculture, della minaccia proveniente dal supermarket degli stili con i suoi simulacri. Deriva, inoltre, dall'identificazione di un minimo comune denominatore, costituito dalla ricerca di un modo di vivere autentico, in una costruzione sociale di tipo tribale della realtà. Questa strategia ha dato origine, in alcuni casi, a dei veri e propri processi di mescolamento. Polhemus afferma a questo proposito:

La storia recente delle subculture ha visto un'intera serie di tribù apparentemente contraddittorie fondersi tra loro: i New Age Travellers, ad esempio, hanno amalgamato con successo ideologie/stili degli Hippies e dei Punks (un tempo totalmente in opposizione), in quello che potrebbe essere definito"Hipunk". Ora al momento questa amalgama sta avvenendo anche attraverso legami effettivi con la cultura Rave. Il risultato di ciò può intravvedersi negli eventi "spiral tribe" e in un club di Londra chiamato "Megadog" ( che da il

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benvenuto a qualsiasi cosa si possa immaginare tranne, ironicamente, i cani ).

In questo nuovo tipo di club è possibile vedere una grande varietà di tribù, diverse per stili e gusti musicali, vivere a stretto contatto nel rispetto reciproco. Questo fenomeno si regge sulla consapevolezza che noi - aderenti alle subculture - siamo diversi da loro - gli abituali frequentatori del supermarket degli stili. Essere ai confini del sistema moda, quindi, significa sempre più essere ai confini del sistema sociale tout court. Questa marginalità è un fattore determinante, come vedremo, nella formazione delle subculture giovanili.

Le subculture giovanili Prima di vedere più in dettaglio il fenomeno della marginalità giovanile, cerchiamo di chiarire il significato di "subcultura", partendo dalle tre definizioni di cultura proposte da Williams, uno dei padri fondatori dei Cultural Studies: la prima definizione vede la cultura come "un processo generale di sviluppo intellettuale, spirituale ed estetico"; la seconda come "un particolare modo di vita, riferito ad un popolo, un periodo, o un gruppo"; la terza come "i lavori e le pratiche dell'attività intellettuale e artistica." L'accezione di "cultura" più pertinente dal punto di vista del nostro discorso è quella che fa riferimento ad un

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particolare modo di vita di un popolo o di un gruppo in un determinato periodo. Coerentemente con questa accezione di cultura , possiamo definire le subculture o sottoculture come particolari stili di vita propri di un gruppo che presenta caratteristiche culturali speciali e che, allo stesso tempo, mantiene alcuni tratti specifici della cultura cui appartiene. Quando si parla di "subculture giovanili", così, si fa riferimento ad una molteplicità di culture adolescenziali, spesso antagoniste tra loro, che manifestano la propria particolarità con specifici gusti musicali e nell'abbigliamento. Il loro minimo comune denominatore è l'opposizione alla cultura adulta. Nonostante ciò, i valori dominanti all'interno delle subculture giovanili sono fortemente condizionati dalla cultura adulta di provenienza: basti pensare all'importanza della variabile razziale nella formazione di molte sottoculture giovanili, specialmente negli USA. L'importanza dei gruppi di coetanei nella società urbana post-industriale è senza precedenti: svolgono, infatti, un ruolo insostituibile nel processo di emancipazione dell'adolescente- "emancipazione" è qui da intendere nel senso etimologico del termine come "liberazione dalla manus , ovvero dalla soggezione alla patria potestà"-. In particolare, le funzioni svolte dai gruppi sono: procurare uno status simbolico autonomo -"simbolico" perchè è valido solo all'interno del gruppo-; aiutare lo sviluppo del senso della propria identità; essere luogo di apprendimento di modelli di socialità differenti da quelli familiari. Il gruppo, in altri termini, colma lo spazio vuoto che nelle nostre società viene a crearsi con la frattura tra

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maturità biologica dell'adolescente e sua marginalità sociale. Questo fenomeno va contestualizzato a livello storico e sociale, dal momento che l'adolescenza stessa, come spiega in modo convincente Gerard Lutte nel suo saggio Psicologia degli adolescenti e dei giovani , non è una fase naturale della vita dell'uomo, ma una costruzione sociale. In altre società, infatti, così come nell'antica Roma, non è rintracciabile quella fase di transizione che definiamo comunemente "adolescenza": all'infanzia segue direttamente l'età adulta. Secondo alcuni autori l'adolescenza è una categoria che si afferma nelle ultime decadi del XIX secolo a seguito dell'esigenza sempre più avvertita all'interno della classe borghese di una formazione universitaria. Il periodo di dipendenza dei giovani, così, s'allunga. Inoltre, spesso viene appesantito da un modello educativo di tipo militare. Nel '900 la creazione sociale dell'adolescenza diventa un fenomeno che riguarda porzioni sempre più ampie della società, fino a diventare di massa intorno alla metà del secolo. Le cause principali sono: il processo di industrializzazione che espelle i giovani dal lavoro; l'estensione della scuola secondaria; la creazione di leggi che codificano la subalternità del "giovane"-ad esempio, sotto i 14 anni per la legge si è "incapaci di intendere e volere" e quindi non si è imputabili per eventuali reati commessi- . Coloro che non accettano la subordinazione-emarginazione (tra questi molti giovani delle classi popolari) vengono presto etichettati come "delinquenti". L'etichettamento e l'amplificazione dei fenomeni di devianza è un ambito studiato dalla sociologia delle comunicazioni di massa, in particolare da quel filone di

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studi che va sotto il nome di interazionismo. Questa scuola di pensiero ha cercato, in primo luogo, di fare luce sul ruolo dei media nell'organizzazione della reazione sociale alla devianza. Uno dei primi e migliori esempi è lo studio di Turner e Surace del 1956 sui disordini che si verificarono a Los Angeles nel 1943. I due ricercatori mostrarono come il fatto che la stampa locale identificasse i giovani messicani che indossavano gli abiti chiamati zoot suits come individui devianti e pericolosi, abbia contribuito a incrementare la preesistente ostilità dei bianchi, stimolando ulteriori risse di strada. Tutto questo con il risultato di rafforzare lo stereotipo iniziale. Turner e Surace fanno notare anche che le notizie riportate dalla stampa e la paura che ne nacque ebbero un effetto importante sugli uomini politici locali e che nel momento di massimo allarme il consiglio municipale di Los Angeles prese seriamente in considerazione la possibilità di punire con il carcere chiunque indossasse uno zoot suit .

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Un ben diverso orientamento nelle ricerche di sociologia delle comunicazioni di massa è rappresentato dal comportamentismo, filone di studi interessato ai rapporti fra un particolare stimolo e una particolare risposta (nello specifico l'oggetto di studio è costituito dai rapporti tra rappresentazione massmediale della devianza ed effetti sociali). Il comportamentismo, in linea generale, ha concentrato i suoi sforzi nel tentativo di dimostrare come le rappresentazioni dei media possano essere considerate la causa diretta di molte azioni criminali. Questo tipo di ricerche si è prestato, così, a facili strumentalizzazioni di tipo moralistico. Riprendiamo, a questo proposito, alcuni passaggi del saggio "Abbandonare il behauviorismo: due decenni di ricerca su mass media e devianza in Gran Bretagna"di Graham Murdock:

La diffusione della televisione commerciale e la nascita dell'industria rock per teen-agers in Gran Bretagna sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta coincise con un considerevole incremento del tasso di criminalità giovanile e con la tanto pubblicizzata violenza della prima sub-cultura giovanile del paese, i teddy boys . Questi fenomeni e il rilievo che ad essi fu attribuito diedero origine a un certo allarme sociale sugli effetti negativi di questi nuovi media sulla gioventù del paese, che da allora non si è più spento. Una delle espressioni più importanti di questa reazione fu quella che ebbe inizio nel 1964, quando una preside della scuola di mezza età, la signora Mary Whitehouse, lanciò la sua Clean Up TV Campaign, una campagna di moralizzazione della televisione che si basava fermamente sulla convinzione comportamentista che esiste una connessione diretta fra sesso

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e criminalità in televisione e violenza e <<permissività>> fra i teen-agers...

Nell'ambito dell'interazionismo e della teoria dell'etichettamento si colloca il lavoro del 1964 di Stan Cohen sulla rappresentazione da parte dei media delle due sub-culture giovanili più pubblicizzate dell'epoca: i mods e i rockers. Nella primavera di quell'anno alcuni gruppi sia di rockers che di mods andarono a passare una giornata al mare nella località di Clacton, dove scoppiarono risse fra i due gruppi. Il giorno successivo la stampa popolare mise gli incidenti in prima pagina e, rifacendosi all'iconografia delle gang di strada di New York, li presentò come furiose battaglie fra bande rivali organizzate. Questo atto di etichettamento ebbe, secondo Cohen, due grossi effetti: in primo luogo, fece scattare l'allarme sociale, costringendo la polizia a intensificare la sorveglianza dei due gruppi, (ne derivarono arresti più frequenti che finirono con

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l'alimentare l'allarme iniziale); in secondo luogo, evidenziando le differenze di stile e dando rilievo all'antagonismo fra i gruppi, la pubblicazione incoraggiò i teen-agers a pensare se stessi negli stessi termini in cui le due sub-culture venivano descritte. La convergenza di questi processi produsse ulteriori scontri fra i gruppi, attirando ulteriori attenzioni da parte della stampa e scatenando ulteriore allarme nel pubblico. Di particolare importanza nello studio delle sub-culture in Inghilterra è il lavoro di Dick Hebdige Subculture: The Meaning of Style del 1979, tradotto in italiano con il titolo Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale. Questo testo inquadra il fenomeno delle subculture nell'ottica del rifiuto ideologico della cultura egemone, sottolineando come le immagini, gli stili e le merci proposte dai mass media possano essere investite di significati nuovi e politicamente sovversivi. A questo proposito, Hebdige afferma:

Col ricontestualizzare e riposizionare le merci, col sovvertire il loro uso convenzionale, inventandone di nuovi, lo stilista sub-culturale apre il mondo degli oggetti a letture nuove e nascostamente opposizionali.

Questo saggio, infatti, offre una utile chiave d'interpretazione delle sub-culture ed una interessante panoramica della loro storia in Inghilterra dalle origini fino alla fine degli anni '70. In primo luogo, possiamo dire che il quadro teorico di riferimento dell'opera di Hebdige è composto di categorie prese a prestito dal pensiero marxiano e gramsciano, per

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quanto riguarda i concetti di "ideologia" ed "egemonia"; si avvale, inoltre, dell'approccio semiologico di Barthes ai fenomeni di mitizzazione delle società borghesi contemporanee. Non mancano, nell'analisi di Hebdige, i punti di contatto tra i concetti di "ideologia" e di "mito": sia il mito che l'ideologia, infatti, operano sotto il livello della coscienza per "naturalizzare" le idee delle classi dominanti. In Miti d'oggi di Barthes leggiamo:

L'intera Francia è immersa in questa ideologia anonima: la stampa, il cinema, il teatro, la letteratura di largo uso, i cerimoniali, la Giustizia, la diplomazia, le conversazioni, il tempo che fa, il delitto che si giudica, il matrimonio a cui ci si commuove, la cucina dei nostri sogni, l'abito che si indossa, tutto, nella nostra vita quotidiana, è tributario dell'immagine che la borghesia si fa e ci fa dei rapporti tra l'uomo e il mondo.

Il "mito", in Barthes, sono tutti quei significati secondi o connotazioni che poggiano sul primo livello della significazione, il livello denotativo. Così, la foto di un soldato di colore che saluta la bandiera francese può essere letta: 1) un semplice gesto di fedeltà; 2) "la Francia è un grande Impero, che tutti i suoi figli, senza distinzione di colore, servono fedelmente sotto la sua bandiera". E' questo secondo livello, per molti versi "implicito", a naturalizzare le forme e i rituali delle società borghesi contemporanee. Il mitologo deve, quindi, saper leggere questo sistema semiologico secondo in modo da evidenziarne la natura storica e ideologica. Nel saggio intitolato Per Marx Louis Althusser spiega il concetto di ideologia in questi termini:

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L'ideologia ha ben poco a che vedere con la 'coscienza' (...). Essa è profondamente inconscia (...). L'ideologia è sì un sistema di rappresentazioni, ma queste rappresentazioni non hanno il più delle volte nulla a che vedere con la 'coscienza': per lo più sono immagini, a volte anche concetti, ma soprattutto sono strutture, e come tali si impongono alla stragrande maggioranza degli uomini senza passare attraverso la loro 'coscienza'. Sono oggetti culturali percepiti-accettati-subiti che agiscono sugli uomini attraverso un processo che sfugge loro.

A commento di questa definizione di ideologia, Hebdige fa notare che anche uno spazio architettonico, come un'aula universitaria, può riflettere una precisa impostazione di pensiero, che tende a "naturalizzarsi". Così, la disposizione dei posti a sedere, con file di panche in gradinate ascendenti di fronte ad un leggìo posto su una pedana, materializza il rapporto gerarchico fra insegnante e allievi, determinando la direzione del flusso della comunicazione. Una particolare visione del rapporto insegnante-allievo, quindi, viene a prendere forma concreta in uno spazio architettonico, vissuto come lo spazio "naturale" per le lezioni universitarie. Tramite questo processo di "naturalizzazione" l'ideologia può riprodursi e dare l'impressione di essere qualcosa al di fuori della storia. La questione cruciale, a questo punto del discorso, è, secondo Hebdige, capire quali ideologie specifiche prevarranno in un dato momento, in una data situazione, e di quali gruppi e di quali classi rappresenteranno gli interessi. La distribuzione del potere, infatti, non è certo omogenea.

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Nell' Ideologia tedesca Marx esprime in modo chiaro il rapporto tra idee dominanti e gruppi dominanti nella società:

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano

i mezzi della produzione intellettuale. La validità di queste affermazioni risulta chiara se pensiamo, ad esempio, alle possibilità di accesso ai mass media. E' indiscutibile, infatti, che certi gruppi sociali siano in una posizione favorevole per produrre e diffondere le proprie definizioni del mondo. A questo punto Hebdige introduce il concetto gramsciano di egemonia che fornisce, a suo parere, la spiegazione più adeguata su come si mantiene il dominio nelle società capitalistiche avanzate. Il termine "egemonia" si riferisce ad una data situazione in cui un'alleanza provvisoria di certi gruppi sociali può esercitare un'autorità sociale totale su altri gruppi subordinati, non semplicemente attraverso la coercizione o l'imposizione diretta di idee dominanti, ma attraverso la conquista e la regolamentazione del consenso, in modo che il potere delle classi dominanti appaia insieme legittimo e naturale. Secondo Gramsci, comunque, il potere egemonico, dal momento che richiede il consenso della maggioranza

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dominata, è sempre in una posizione di "equilibrio instabile". Il consenso, quindi, può essere rotto, rifiutato, e la resistenza ai gruppi che detengono il dominio non può sempre essere facilmente respinta o automaticamente assorbita. Possiamo ora ritornare alle subculture giovanili che, per Hebdige, rappresentano un fenomeno spettacolare che testimonia la caduta del consenso nel periodo postbellico. La sfida all'egemonia, in questo caso, non è diretta: si esprime in maniera obliqua come stile. In altri termini, con le subculture giovanili nasce una pratica di resistenza, dove le apparenze costituiscono una evidente violazione simbolica dell'ordine sociale. All'invisibilità discreta dell'abito borghese, vissuto come significante della "normalità", si contrappone l'apparato spettacolare di abiti e decorazioni corporee delle subculture, che finisce inevitabilmente per rappresentare lo scarto dalla norma e, quindi, la devianza. Usando le parole di Hebdige, possiamo dire che:

La comunicazione (...) di una diversità significativa (e la parallela comunicazione di un'identità di gruppo) è la "qualità essenziale" che sta dietro allo stile di tutte le sottoculture spettacolari. Costituisce il termine sovraordinato sotto cui sono disposte tutte le altre significazioni, il messaggio mediante il quale parlano tutti gli altri messaggi.

Laddove l'ideologia dominante tende a naturalizzare le forme - ad esempio l'abito blu e la cravatta per gli uomini è il modo "naturale" di apparire in molti contesti -, la resistenza subculturale si manifesta con forme che ostentano

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la propria artificialità. Un esempio, a questo proposito, può essere la spilla da balia usata dai punk: questo oggetto banale viene spostato dal suo contesto d'uso"naturale" per essere ricontestualizzato e, quindi, caricato di significati imprevedibili. Questa pratica di "decontestualizzazione-ricontestualizzazione" è definita da Hebdige, in termini antropologici, come "bricolage". In ambito subculturale, il bricolage è la modalità con cui si può costruire un proprio discorso, a partire da discorsi già fatti. Ricollocare oggetti significanti in nuove combinazioni o nuovi contesti, infatti, permette la trasmissione di messaggi differenti, alla stessa maniera dei ready-made di Duchamp. Come atti di bricolage, quindi, possiamo interpretare pratiche differenti quali: il furto e la trasformazione da parte del teddy boy dello stile edoardiano, fatto rivivere nei primi anni '50 da Savile Row; la trasformazione del motoscooter , nella subcultura mod, da rispettabilissimo mezzo di trasporto in un minaccioso simbolo di solidarietà di gruppo; l'uso, sempre nella subcultura mod, di pettini di metallo che, affilati come rasoi, diventano potenziali armi da offesa. L'elenco potrebbe essere molto più lungo…

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La scena statunitense Nel movimento beat la cultura nera è mitizzata, come testimonia un passo tratto da Sulla strada di Jack Kerouac:

Camminavo nella sera piena di lillà con tutti i muscoli indolenziti in mezzo alle luci della Ventisettesima Strada nella Welton in mezzo al quartiere negro di Denver, desiderando di essere un negro, sentendo che quanto di meglio il mondo dei bianchi ci aveva offerto non conteneva abbastanza estasi per me, e neppure abbastanza vita, gioia, entusiasmo, oscurità, musica, né notte sufficiente.

In ambito musicale, i legami che uniscono le culture giovanili bianche alla classe operaia nera sono stretti, particolarmente per quanto riguarda il jazz. Intorno agli anni '30, molti musicisti bianchi hanno suonato insieme con artisti neri nelle jam session, mentre altri ne hanno ripreso la musica traducendola e trasferendola in un contesto diverso. In tale processo la struttura e il significato del jazz subiscono una modificazione: lo swing bianco, infatti, elimina buona parte della carica di rabbia ed erotismo della linea calda del jazz, dando luogo ad un suono delicatamente raffinato da night club. Questi significati repressi vengono trionfalmente riaffermati nel be-bop.

Il bop nacque col jazz ma un pomeriggio, non so su quale marciapiede, forse nel 1939, 1940, Dizzy Gillespie, o Charley Parker o Thelonius Monk, passando davanti a un negozio di abbigliamento da uomo sulla 42a Strada o nella South Main a Los Angeles, a un tratto sentì dagli altoparlanti un errore

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incredibile e impossibile nel jazz che poteva aver udito solo nella sua immaginazione, ed ecco un'arte nuova. Il bop...

A descrivere con queste parole la nascita del bop è Kerouac, nel volume di recente pubblicazione intitolato Scrivere bop. L'amore di Kerouac per questo tipo di musica è tale da fargli identificare le regole della scrittura che lui propone con le modalità di improvvisazione di Charlie Parker al sassofono. Il racconto immaginario della nascita del bop prosegue in questo modo:

Dizzy o Charley o Thelonius stava camminando per la strada udì un rumore, un suono, metà Lester Young, metà grezza-nebbia-piovosa che ha quel brivido di eccitamento da baracca, binario, pezzo di terra vuoto, l'improvvisa enorme testa di Tigre sullo steccato dei bagnati di pioggia di un sabato mattina senza scuola, " Ehi!" e corse via a passo di danza. Al piano, quella notte, Thelonius inserì una nota sorda fuori tono rispetto alle calde note di tutti gli altri(...) La strana nota fa alzare il sopracciglio al trombettista della band. Per la prima volta, quel giorno, Dizzy è sorpreso. Porta la tromba alle labbra e suona un'umida evanescenza.(...) ride Charlie Parker piegando a battersi la caviglia. Si porta il contralto alla bocca e - con la linea del jazz - dice << Non ve lo avevo detto?>>. Parlando eloquente come i grandi poeti di una lingua straniera che cantano con la lira in paesi stranieri, per mare, e nessuno li capisce perchè quella lingua non è ancora nota a terra - il bop è la lingua dell'inevitabile Africa D'America, going suona come gong, Africa è la vibrazione dei fiati e il piede che batte obliquo il ritmo - l'improvviso stridio disinibito che urla finché la tromba di Dizzy Gillespie lo soffoca - fai tutto quello che vuoi - deviando la melodia verso un altro bridge improvvisato con un lacerante protendersi di artigli, perchè essere furbi e falsi?

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Da una serie di jam-session improvvisate al Minton's nasce, così, intorno agli anni'40, il New York sound. Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Thelonius Monk, come raccontava la cronaca immaginaria della nascita del bop di Kerouac, erano i protagonisti di questo tipo di suono che diventò la base di una emergente cultura sotterranea. Verso la metà degli anni '50, un pubblico bianco, nuovo e più giovane, cominciò ad avvicinarsi al New York sound, nonostante fosse difficile da ascoltare e ancora più da imitare. Così, i beat e gli hipster cominciarono ad improvvisare un proprio stile esclusivo su una forma di jazz meno compromessa: un jazz di "pura astrazione" che metteva in corto circuito la banalità".

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Hebdige così descrive le reazioni all'emergere delle sottoculture hipster e beat:

Questa convergenza senza precedenti di nero e di bianco, proclamata con tanta aggressività e con tanta spudoratezza provocò un'inevitabile controversia che si incentrava sui temi della razza, del sesso, della rivolta, ecc., e che si sviluppò rapidamente in panico morale. Tutti i sintomi classici dell'isteria più comunemente associata all'emergere alcuni anni dopo del rock'n roll erano presenti nella reazione con cui l'America conservatrice, che si sentì oltraggiata, salutò i beat e gli hipster, e allo stesso tempo si andò sviluppando da parte di osservatori "liberal" interessati al fenomeno tutta una mitologia del negro e della sua cultura. A questo punto il negro andò libero, indenne dalle desolanti convenzioni che tiranneggiavano membri più fortunati della società (cioè gli scrittori) e, sebbene intrappolato in un ambiente crudele di strade e basamenti squallidi, per una curiosa inversione anche lui ne uscì alla fine vincitore (...) Il negro nebulosamente osservato attraverso la prosa di Norman Mailer oppure attraverso gli esangui panegirici di Jack Kerouac (...), poté servire per i giovani bianchi da modello di libertà in schiavitù.

Goldman, autore citato da Hebdige, disegna in modo sintetico il profilo delle sottoculture hipster e beat:

lo hipster era (...) un tipico dandy delle classi inferiori, abbigliato come un magnaccia, che affettava un tono freddo e cerebrale - per distinguersi dai tipi grossolani e impulsivi che lo circondavano nel ghetto - e che aspirava alle cose migliori della vita, come a dell'ottima 'erba', al sound più bello, quello del jazz e quello afro-cubano

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laddove... il beat era in origine uno studente della più schietta classe media, come Kerouac, che si sentiva soffocare dalla città e dalla cultura che aveva ereditato e che voleva sostituire con luoghi lontani ed esotici, dove avrebbe potuto vivere con la 'gente', scrivere, fumare e darsi alla meditazione.

Secondo Hebdige, la sottocultura hipster vive una vicinanza reale, non solo spirituale, con la comunità dei neri: hipsters e neri vivono, infatti, a contatto nei ghetti metropolitani. Il beat, invece, vive un rapporto immaginario con il negro-come-nobile-selvaggio.

Così, benché le sottoculture hipster e beat si organizzassero intorno ad un'identità condivisa con i negri (simbolizzata nel jazz), la natura di tale identità, resa palese negli stili adottati dai due gruppi, era qualitativamente diversa. I vestiti da gangster e gli abiti leggeri all'italiana dello hipster incarnavano le aspirazioni tradizionali (...) del magnaccia negro, mentre il beat, deliberatamente vestito di stracci, in jeans e sandali, esprimeva il magico rapporto con una miseria che costituiva nella sua immaginazione un 'essenza divina, uno stato di grazia, un sacro rifugio.

Questa distinzione netta tra la sottocultura hipster e quella beat sembra essere contraddetta dalle parole con le quali Kerouac racconta la nascita del movimento beat.

La Beat Generation è una visione che abbiamo avuto, John Clellon Holmes e io e Allen Ginsberg in un modo ancora più incredibile, alla fine degli anni '40, la visione di una generazione di splendidi hipster illuminati che di colpo si levavano e si mettevano in viaggio attraverso l'America, seri, curiosi, vagabondando e arrivando dappertutto in autostop, cenciosi, beati, belli nella loro nuova bruttezza piena di

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grazia (...) beati, nel senso di battuti ma pieni di ferme convinzioni - Avevamo anche sentito vecchi Papà Hipster delle strade del 1910 usare la parola in quel modo, con malinconico scherno - Non designò mai i giovani delinquenti, designava gli individui dotati di una spiritualità diversa che non formarono mai una banda ma rimasero come Bartleby solitari a guardare fuori dalla finestra cieca della nostra civiltà - gli eroi sotterranei che avevano finalmente voltato le spalle all'occidentale macchina "della libertà" e si drogavano, ascoltavano il bop, avevano lampi di genio, sperimentavano il "turbamento dei sensi", parlavano strano, erano poveri e felici, profetizzavano un nuovo stile per la cultura americana, un nuovo stile (pensavamo) completamente libero da influenze europee (...) una nuova formula magica-

Sempre sulle pagine dello stesso scritto, intitolato Sulla Beat Generation, Kerouac descrive uno scenario dove la cultura beat rappresenta uno sviluppo coerente della sottocultura hipster. A tratti, anzi, i due termini si confondono:

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Scrivevamo storie su non so quale strano e beato santo negro hip col pizzetto che attraversava lo Iowa in autostop con la tromba fasciata, portando il misterioso messaggio del soffiare su altre coste, in altre città, come un vero e proprio Gualtiero Senzaavere alla testa di un'invisibile Prima Crociata - Avevamo i nostri eroi mistici e scrivemmo, anzi cantammo romanzi che parlavano di loro, costruimmo lunghi poemi che celebravano i nuovi "angeli" dell'underground americano - In realtà era solo un gruppetto di ragazzi hip veri patiti dello swing...

Dalle parole di Kerouac emerge una situazione dove la distinzione tra sottocultura beat e hipster risulta essere una forzatura analitica. Anche per quanto riguarda lo stile vestimentario i termini si confondono:

... la gioventù del dopoguerra di Corea emerse cool e beat, ..., e presto fu ovunque, il nuovo look, il look trasandato e "sconvolto", alla fine cominciò ad apparire anche nei film (James Dean) e in televisione, gli arrangiamenti bop che erano un tempo la segreta musica da estasi dei beat contemplativi cominciarono ad apparire in ogni golfo mistico e in ogni spartito per orchestre tradizionali, le visioni bop diventarono patrimonio comune del mondo della cultura di massa ... l'assunzione di droghe divenne ufficiale (tranquillanti e tutto i resto), e anche il modo di vestirsi degli hipster beat venne trasmesso alla nuova gioventù del rock'n'roll tramite Montgomery Clift (giacche di pelle), Marlon Brando (T-shirt), e Elvis Presley (basettoni)...

Kerouac, nell'articolo del 1959 "Beati: le origini della Beat Generation", così racconta la nascita del movimento beat:

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Questo articolo riguarderà necessariamente me stesso. Dirò tutto fino in fondo. Quella mia foto pazzesca sulla copertina di Sulla strada è venuta così perché ero appena sceso dalla cima di un'alta montagna dove avevo passato due mesi in completa solitudine e di solito avevo l'abitudine di pettinarmi i capelli perché devi fare l'autostop in autostrada e tutto quanto e di solito vuoi che le ragazze, guardandoti, ti considerino un essere umano e non una bestia ma il mio amico e poeta Gregory Corso si sbottonò la camicia e tirò fuori un crocifisso d'argento appeso a una catena e disse << Mettitelo, portalo fuori dalla camicia e non pettinarti!>>. Così, ho passato un bel pò di giorni a San Francisco andando in giro con lui e gente come lui, alle feste, nelle gallerie, nei ritrovi, alle jam sessions, nei bar, alle letture di poesie, nelle chiese, camminavamo per strada parlando di poesia, camminavamo per strada parlando di Dio (e a un certo punto una strana banda di delinquenti si arrabbiò e disse <<Che diritto ha quello di portare quella roba?>> e la mia banda di musicisti e poeti gli disse di calmarsi) e alla fine il terzo giorno, il giornale <<Mademoiselle>> volle farci delle foto, a tutti noi, così posai com'ero, capelli selvaggi, crocifisso e tutto il resto, con Gregory Corso, Allen Ginsberg e Phil Whalen...

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La cronaca di Kerouac riguardante la nascita del movimento beat fornisce, allo stesso tempo, la rappresentazione di uno stile di vita e di uno stile vestimentario che lo rappresenta coerentemente. Il crocifisso, così, non è un segno gratuito, ma l'elemento significante che testimonia la ricerca di una nuova spiritualità:

Non mi vergogno di portare il crocifisso di nostro Signore. Perché sono un beat, cioè, credo nella beatitudine e credo che Dio amava il mondo al punto di donargli il suo unico figlio...

Queste affermazioni possono essere meglio comprese, considerando il significato che Kerouac attribuiva alla parola "beat". Nell'articolo "Agnello, non leone", contenuto nella stessa raccolta Scrivere bop, Kerouac chiarisce che:

Beat non significa stanco, o sconfitto, bensì beato, la parola italiana per beatific : essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, cercare di amare tutto nella vita, cercare di essere sinceri fino in fondo con tutti, praticare la sopportazione, la gentilezza, coltivare la gioia del cuore. Come si può realizzare una cosa del genere nel nostro folle mondo moderno fatto di molteplicità e milioni? Praticando un pò di solitudine, andandosene da soli ogni tanto a far provvista della ricchezza più grande: le vibrazioni della sincerità. Essere seccati non è essere beat. Si può essere chiusi in se stessi ma ciò non significa necessariamente essere scontrosi. Il beat non è una forma di critica stanca e vecchia. E' una forma di affermazione spontanea. Che razza di cultura sarebbe se tutti con faccia rabbuiata dicessero"Questo non mi sembra giusto"?

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Dalle parole di Kerouac emerge il profilo di un movimento che cerca una profonda rigenerazione spirituale, sia attingendo dalle fonti più pure della religione cristiana sia cercando di avvicinare le filosofie orientali, in particolare il buddismo. E' una ricerca che propone valori profondamente antagonisti rispetto al materialismo consumista e al "carrierismo" , che possiamo considerare fondanti dell'american way of life. Proprio per questo, la subcultura beat viene presto associata alla devianza:

...e quanto orrore provai nel 1957, e poi nel 1958, quando improvvisamente mi accorsi che tutti, la stampa, la televisione e il circuito dei conferenzieri alla moda usavano la parola "Beat" a significare anche l'esplosione dei giovani delinquenti e gli orrori delle folli manganellate di New York e Los Angeles e cominciarono a chiamare quello Beat, beato quattro scemi che marciavano contro i Giants di San Francisco contestando il baseball, come se (adesso) succedesse nel mio nome...Oppure quando un assassinio, un volgare assassinio commesso sulla North Beach, venne etichettato come un omicidio della Beat Generation, e pensare che da piccolo passavo per un eccentrico, nel mio quartiere, perché impedivo ai ragazzi di tirare sassi agli scoiattoli, perché gli impedivo di friggere i serpenti nelle lattine o di gonfiare i rospi con una cannuccia per farli scoppiare.

Sempre nello stesso articolo - "Beati: le origini della Beat Generation"- Kerouac intuisce che un'altra modalità per disinnescare le forze di opposizione (oltre all'etichettamento da parte dei mass media come gruppo di "devianti") è il processo di assorbimento delle controculture all'interno del sistema moda:

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Così adesso in televisione danno programmi sui beatniks che cominciano con la satira di ragazze vestite di nero e ragazzi in jeans con coltelli a serramanico e magliette sportive e svastiche tatuate sotto le ascelle, e poi arriveranno ai rispettabili presentatori tutti azzimati in abito Brooks Brothers tagliato a jeans e maglione di lana, in altre parole, è un semplice cambiamento di moda e maniere...Quindi non c'è di che rallegrarsi. I Beat, in realtà, nascono dalla vecchia voglia americana di fare baldoria e cambierà solo qualche vestito e renderà inutili le sedie in soggiorno e presto avremo Segretari di Stato beat e saranno istituiti nuovi orpelli, in realtà nuovi motivi di malizia e nuovi motivi di virtù e nuovi motivi di perdono...

Contro queste forze della reazione Kerouac arriva a scagliare un vero e proprio anatèma:

E tuttavia, tuttavia, sia maledetto chi crede che Beat Generation significhi crimine, delinquenza, immoralità, amoralità...maledetto chi ne attacca le basi soltanto perché non capisce la storia e i desideri struggenti degli animi umani...maledetto chi non capisce che l'America deve, dovrà cambiare e sta già cambiando, per quanto ne so. Sia maledetto chi crede nella bomba atomica, chi crede nell'odio contro i padri e le madri rinnegando il più importante dei dieci comandamenti, maledetto (tuttavia) chi non crede nell'incredibile dolcezza dell'amore sessuale, e maledetti siano i tipici portatori di morte, maledetto chi crede nelle guerre e nell'orrore e nella violenza e riempie i nostri libri e schermi e soggiorni di quelle schifezze, maledetto chi fa cattivi film sulla Beat Generation dove casalinghe innocenti vengono violentate da beatniks ! Siano maledetti i veri squallidi peccatori che perfino Dio trova occasione di perdonare... maledetto chi sputa sulla Beat Generation, il vento restituirà lo sputo.

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Questa strenua difesa della purezza degli ideali del movimento beat mette in chiaro quali siano i valori di riferimento di questa subcultura; rivela, allo stesso tempo, una profonda anima mistica e un mal celato senso d'impotenza. Emerge, infatti, una visione del sociale dove l'opposizione al grande Moloc non riesce a trovare altre vie che l'anatèma. Quando, agli inizi degli anni'60, Allen Ginsberg tenterà la via dell'impegno politico, Kerouac così motivò, in una intervista, la sua presa di distanza dalle posizioni dell'amico:

Ginsberg si è interessato alla politica di Sinistra... e io dico come Joyce, come Joyce ha detto a Ezra Pound negli Anni Venti: <<Non mi seccare con la politica, l'unica cosa che mi interessa è lo stile>>. E poi mi sono stufato della nuova avanguardia e del sensazionalismo a razzo. Sto leggendo Blaise Pascal e prendo appunti sulla religione. Mi piace andare in giro con gente intellettuale, come direste voi, e non a ritrovarmi proseliti della mia mente, all'infinito... Il gruppo beat, come voi dite, si è disperso all'inizio degli Anni Sessanta, ciascuno è andato per la sua strada, e questa è la strada mia: vita di casa, come all'inizio, con una puntata ogni tanto ai bar locali.

Negli stessi anni, in una lettera indirizzata a Fernanda Pivano, Kerouac scrive:

Devi sapere che noi che abbiamo incominciato la beat generation qui negli Stati Uniti (io, Holmes, Ginsberg) da allora siamo stati trascinati in attacchi di carattere politico e perciò ce ne restiamo per conto nostro (come all'inizio). Il mondo gira, ma l'arte rimane.

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Da queste citazioni emerge il ritratto di un artista ripiegato su se stesso, dedito alla propria opera e, per certi versi, sganciato dal nuovo movimento culturale che si afferma negli anni '60, il movimento hippie. Sarà invece Ginsberg a costituire la figura "ponte" tra le due generazioni. Come racconta la Pivano, fu un suo viaggio in India nei primi anni '60 a segnare la svolta:

Quando arrivò dall'India anche la sua apparenza era un pò cambiata. Negli anni dell'università, quando visse con Jack Kerouac e William Borroughs e poi attraversò l'America con Neal Cassidy e Jack Kerouac, l'anticonformismo del suo aspetto esteriore non andava al di là della Resistenza al Consumo sulla quale si basava appunto la più appariscente forma del dissenso di quegli anni: in un momento in cui pareva che il neo-materialismo dilagante avesse fatto del denaro una religione, dell'igiene un Dio, dell'anonimità aziendale una legge e della tecnocrazia un destino inevitabile, era un gesto profondamente contestatario respingere danaro, igiene, anonimità e tecnocrazia. I blue jeans sbiaditi, i sandali e le scarpe da tennis, le giacche a vento portate estate e inverno crearono in quegli anni della ripresa economica del dopoguerra...uno shock che creò una presa di coscienza almeno altrettanto importante di quella creata un decennio dopo dagli abbigliamenti basati sulla creatività e la fantasia cosidetti hippie. In quegli anni Ginsberg aveva i capelli corti e il viso asciutto, il sorriso pronto e un magnetismo che era sempre il protagonista delle descrizioni di biografi e intervistatori...Fu in India che Ginsberg cambiò aspetto, quando visse fra i sapienti e i santoni e si lasciò crescere i capelli fino alle spalle e la barba fin dove voleva arrivare, più che altro per non compiere un atto di violenza tagliandoli contro natura e contro ragione; così girò per l'India, ornato della collana shivaita degli iniziati e così tornò in America nel 1963. Il 10 giugno 1965 mostrò questa sua immagine a un

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reading di poesia alla Albert Hall di Londra. Erano presenti 7000 persone e ragazze a piedi nudi distribuivano fiori in un'atmosfera greve di incenso e di hashish...Fu questo primo embrione della scena hippie, che esplose a San Francisco nel 1966...

Intorno alla metà degli anni'60, così, Allen Ginsberg, tenne a battesimo il nuovo movimento hippie. Il fatto non è così strano se si pensa che la subcultura beat e quella hippie condividono valori di fondo quali la ricerca di una nuova spiritualità e, in particolare, la filosofia della non-violenza. L'epicentro del nuovo movimento culturale fu, comunque, la scuola. La prima rivolta, che prese il nome di Free Speech Movement, si scatenò a Berkeley nel settembre del 1964 quando le autorità amministrative vietarono la raccolta di fondi per una causa politica esterna alla vita dell'università. Nella raccolta di scritti dal titolo L'altra America degli anni '60, tradotta da Fernanda Pivano, si può

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leggere un resoconto in prima persona di quegli avvenimenti:

Ci siamo messi a sedere intorno a un automezzo della polizia e lo abbiamo tenuto immobilizzato per oltre 32 ore. Finalmente la burocrazia amministrativa ha accettato di negoziare.

Emerge presto, però, che il vero oggetto d'interesse per il Movimento è il rapporto tra studenti e sistema formativo. Poter contare all'interno della struttura scolastica, diventando protagonisti di un processo che riguarda la propria vita, è una esigenza fortemente avvertita. Si afferma, infatti, la percezione che il processo educativo americano sia una crudele cerimonia iniziatica. Nell'articolo di Weinberg "Il Free Speech Movement e i diritti civili", contenuto nella già citata raccolta L'altra America degli anni'60, leggiamo:

...l'istruzione che conduce al conseguimento del diploma di graduation appare un rito per mettere alla prova la capacità di sopportazione del candidato, una serie di prove che, se superate con successo, consentono l'ingresso ai corsi della graduate school; e, a quelli che sono riusciti a passare indenni attraverso le prove dell'intero rito, è concesso il titolo pomposo: il Ph.D. Più uno emerge, migliore è il posto di lavoro che ottiene...Troppo spesso il processo educativo appare come un'eliminatoria, regolata dalle leggi della domanda e dell'offerta. Quanto meglio uno gioca la partita tanto meglio uno è compensato.

Il sistema educativo americano appare, quindi, come una istituzione che si ispira al modello darwiniano della selezione naturale, finalizzata all'emergere del più forte e ben poco preoccupata della crescita e della formazione

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culturale degli studenti. Lo scontento manifestato nel settembre 1964 trascende, quindi, l'episodio contingente. I circa quattro mesi di rivolta che seguono, permetteranno di ottenere spazi "liberi" e il diritto di organizzare Teach In su argomenti politici all'interno dell'università. Il primo Teach In fu dedicato al Vietnam. L'impegno americano, infatti, era andato via via aumentando e nel 1965 erano cominciati i primi bombardamenti. Contemporaneamente erano iniziate e si erano estese le manifestazioni di protesta. Le matrici da cui muoveva il rifiuto per la guerra andavano moltiplicandosi: da un lato, c'erano vari comitati, più o meno affiliati ai vari movimenti radicali e antinucleari internazionali, che propugnavano una scelta pacifista e antinucleare per la società occidentale; dall'altro, si faceva strada un modello di pensiero aperto alle culture orientali e precapitalistiche. La scoperta della spiritualità e del misticismo orientale si unì, infatti, alla rilettura in chiave antropologica della mitica comunione con la natura delle popolazioni indiane d'America: l'insieme si formalizzò nella proposta di un "uomo nuovo", impegnato a ritrovare la propria interiorità e pacificamente inserito in un contesto naturale da osservare e rispettare. I maestri del nuovo umanesimo furono i protagonisti della cultura alternativa del decennio precedente: Allen Ginsberg, Gary Snyder, Timothy Leary. La strada da percorrere verso l'ideale di "uomo nuovo" viene indicata con estrema chiarezza da Timothy Leary:

Dovete cominciare col cambiare il vostro abito, la vostra casa, i vostri movimenti, il vostro ambiente, in modo tale che rifletta la grandezza e la gloria della vostra visione divina.

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Dovete avere un aspetto diverso e agire diversamente. Ma questo processo di sintonizzazione dev'essere armonico ed elegante. Per favore nessun gesto distruttivo o ribelle!...Camminate, parlate, mangiate, bevete come se foste un felice Dio della foresta.

La prospettiva terrorizzante da cui si cerca di uscire con questa proposta di vita è quella esemplificata nella figura dell"impiegato di Manhattan", descritta da Leary in questi termini:

...lavora in una camera buia, che puzza di aria inquinata. Si muove in mezzo ad un ammasso di mobili anonimi e fatti in serie per andare in un bagno di celluloide o in una cucina impersonale di plastica. Fa una prima colazione a base di cibo-carburante anonimo, tolto da una scatola o impacchettato. Indossa la divisa anonima del cittadino-robot, biancheria di cotone, scarpe, camicia, cravatta e giacca. Viaggia in gallerie buie di metallo fuligginoso e di cemento grigio verso la scatola di alluminio che è il suo ufficio... Il denaro che guadagna gli serve per il suo cibo di celluloide e per il suo appartamento dall'aria inquinata. Quest'uomo è circondato da un ambiente grigio, inquinato, morto, impersonale, fatto da una catena di montaggio, prodotto in serie e anonimo. Questo è l'ambiente di un robot-meccanico.

Per uscire da questo tunnel esistenziale ci si rivolge alle filosofie orientali e spesso si fa ricorso all'uso di sostanze stupefacenti -funghi sacri, marijuana, LSD-, in grado di provocare l'espansione dello spettro percettivo, fare esperienza di nuovi stati di coscienza e liberare grandi energie creative, prive di condizionamenti sociali. Così, anche i canoni estetici e della bellezza corporea subiscono profondi cambiamenti. Nella raccolta già citata

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L'altra America degli anni'60 troviamo l'articolo "La generazione hippy " di Kupfemberg, estremamente esplicito a questo proposito:

L'hippy decora il proprio corpo come un'opera d'arte. Lo ricopre di collane, lo dipinge, lo addobba con abiti dei colori dell'arcobaleno e nello stile composito formato dalla mescolanza stridente di tutti i tempi e di tutti i paesi; non c'è un modo giusto di vestirsi, non c'è un modo giusto di fare l'amore. Che mille corpi fioriscano.

Un elenco dettagliato del vasto repertorio vestimentario del movimento hippy ce lo fornisce Fernanda Pivano, cronista d'eccezione della nuova cultura americana.Così, descrive la moltitudine degli spettatori presenti ad un concerto di Dylan, al Community Theatre:

Ma per me che venivo da un'Europa sopraffatta da una idea gotica della politica e medioevale del costume, ottocentesca della cultura e vittoriana della moralità, quella serata rappresentò soprattutto l'immersione nel New Look (come già si diceva allora per difendersi dall'etichetta sociologica del New Style of Life), che poche settimane dopo sarebbe stato fregato nello stereotipo hippie inventato dai media. C'erano ragazze con vestaglie di velluto abbottonate fino alla bocca e aperte dalla cintola in giù, ragazzi vestiti da principi del Rinascimento, le giacche di daino frangiate che 4 anni dopo sarebbero arrivate in Europa nella scia del musical Hair, cappotti di montone bianco lunghi fino a terra, colori sgargianti nelle sete lucide e campanelle tintinnanti portate al collo, alle caviglie, sulla testa, ai polsi; occhiali verdi e gialli, giacche napoleoniche e da ammiraglio, pantaloni da generale della Guerra di Secessione, piume indiane, berretti di velluto raffaelleschi, camicie di cotone Mayflower, code di volpe, mantelle da Dracula, magliette bianche di cotone da marinai

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alle caldaie della nave, gonne lunghe da film western, granny dresses, fiori, collane, pizzi. La rivolta al consumismo era passata dalla fase rinunciataria e polemica dei blue jeans alla fase creativa e ribelle del vestito <<inventato>> invece che <<subìto>>: beffa insolente e pacifica all'industria della moda.

La scoperta della Pivano del New Look hippy durante un concerto di Dylan non è certo stata casuale. Dylan, infatti, è uno degli artisti che meglio diede voce agli ideali del movimento, firmando quelli che diventarono dei veri e propri inni generazionali. Pivano, così, spiega le ragioni del successo di Bob Dylan:

Il miscuglio folk-blues-rock di Bob Dylan, con le sue storie che non riguardavano gli amori di un ragazzo per una ragazza o viceversa ma erano ispirate allo scontento sempre più incalzante tra la gioventù americana, raggiungeva un pubblico ormai quasi disabituato a leggere versi ma disposto ad ascoltarli attraverso la musica e d'altra parte già stanco dei diluvi imitativi dei Beatles ma disposto ad ascoltare questo rock and roll rivoluzionario, con la sua carica polemica e il suo messaggio liberatorio: un messaggio che era diventato di massa nel 1962, quando Blowing in the Wind venne cantata da milioni di persone come canto di raccolta nel corso del Movimento negro in Difesa dei Diritti Civili.

Nel 1965, lo stesso anno in cui Pivano si accorge di Dylan, Ginsberg stila, un programma per una grande manifestazione, cercando così di chiarire in modo inequivocabile a tutti le intenzioni e le modalità della riunione e impedire reazioni disordinate in caso di provocazioni:

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Annunciate in anticipo che è una marcia sicura, portate la nonna e i bambini, portate famiglia e amici. Dichiarazioni aperte: "Non veniamo a combattere e non combatteremo"

La manifestazione diventa una grande festa pacifica fatta di suoni, canti, colori e tantissimi fiori. Il momento culminante del movimento è, però, il grande raduno del 14 gennaio 1967, tenutosi nel Parco del Golden Gate a San Francisco, vero e proprio centro della cultura alternativa giovanile. La mutazione culturale proposta da Leary è avvenuta; lo spettacolo è senza precedenti:

Ventagli, piume, pennacchi e zanne; campanelli, tamburi, carillons e incenso; stendardi, fiamme, bandiere e talismani; collane portafortuna, arance e carote; palloni, fiori, bambù e vesti-animali; flauti e ceste; mani giunte, occhi chiusi, fronti serene e sorrisi; stoffe da preghiera e bastoni da shaman...

In mezzo a tutto questo:

il prof. Leary... con un fiore giallo dietro l'orecchio; Leonore Kandel, in rosso e arancione; Gary Snyder seduto sull'orlo della piattaforma...maestro di cerimonia, parla con gioia. Allen Ginsberg, catalizzatore e distillatore di tutto, in una tunica bianca.

Questo grande rito collettivo si chiude, al tramonto, con Allen Ginsberg e Gary Snyder che salmodiano il mantra Om Sri Maitreya rivolti verso il sole, in una atmosfera di grande pace e poesia.

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La scena inglese Passando ora alla scena europea, possiamo cominciare dicendo che solo all'inizio degli anni'60 l'Inghilterra riuscirà a strappare all'America il primato del cambiamento culturale . Durante gli anni'50, infatti, sarà impegnata nell'opera di ricostruzione, dopo i disastri della seconda guerra mondiale. Come osserva Gino Castaldo nel suo saggio La terra promessa :

Dal conflitto mondiale America e Inghilterra uscirono in modo diametralmente opposto. L'America ne uscì non solo trionfante, ma anche come la nazione che aveva pagato il minor prezzo. Il suo territorio era intatto, l'economia prospera, pronta a evolversi verso la supremazia mondiale, creando un benessere interno mai verificatosi prima. Al contrario l'Inghilterra, sebbene fosse una delle potenze vittoriose, emerse dalla guerra con ferite profonde, con le risorse allo stremo, con le città in rovina e l'ovvia esigenza di puntare alla ricostruzione. L'Inghilterra ci ha messo più tempo a recuperare la sua antica funzione di egemonia imperialista che, come vedremo, si svolgerà soprattutto in campo culturale. Anzi, il declino dell'Impero britannico procede parallelamente alla nascita dell'impero culturale.

Nel saggio La Londra dei Beatles di Paola Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo leggiamo:

Il 15 aprile 1966 la rivista americana Time usciva con una copertina intitolata a <<London: the Swinging City>>. Londra, spiegava il servizio nell'interno, era in quel momento tra le città europee la più impetuosamente sospinta dal pendolo della storia verso il futuro. <<To swing>> vale altalenare,

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muoversi secondo un moto pendolare, che contempla un'andata e un ritorno: e ciò verso cui spingeva il pendolo di Londra era un nuovo stile di vita, di cui prima di tutto la città in se stessa sembrava offrire la realizzazione e la promessa.

Da qualche tempo Londra aveva iniziato ad esportare i suoi prodotti culturali in America, facendo parlare di "british invasion":

Nel 1964 si era verificata una specie di nuova conquista dell'America... Era stato quello, infatti, l'anno del primo trionfale viaggio dei Beatles, di Mary Quant, dei Rolling Stones, al di là dell'Oceano. Sfilate, concerti, apparizioni televisive, avevano totalizzato milioni di telespettatori, battuto ogni record di popolarità. La terra del cinema doveva essere ben sazia di immagini di celluloide...se ora così entusiasticamente apriva i propri sconfinati mercati ai suoni e ai colori dell'antica madrepatria.

Ritornando alla parola swinging le autrici del saggio sopra citato approfondiscono l'analisi delle diverse connotazioni legate a questo termine:

Ma ora torniamo indietro, all'espressione <<swinging>>, già usata nel Seicento dal drammaturgo Thomas Otway, e proprio nel senso che ora viene ripreso dal servizio di Time a indicare cioè coloro che, non riconoscendo le barriere della morale convenzionale, si gettano di slancio, swinging, al di là di quelle stesse barriere, in rivolta contro una maggioranza silenziosa che rinnega la gioia di vivere. Swing era anche stata chiamata quella musica da ballo americana, di derivazione jazzistica, dunque con l'Africa dentro, al cui ritmo frenetico, esplosivo, disperato, gli alleati avevano ballato, magari in un rifugio antiareo la sera precedente una qualche operazione bellica decisiva....Sicché ora, la vistosa copertina di Time, e

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poi nell'interno il testo, con tutte le fotografie e le immagini che sembrano voler costruire nei dettagli i luoghi deputati del nuovo mito, le stazioni del nuovo pellegrinaggio ideale, troviamo un terreno già preparato, quando puntano proprio su quella parola , <<swinging>>, per far precipitare in essa tutto il complesso di sensazioni, tutta l'atmosfera, tutta la Stimmung che vogliono al tempo stesso evidenziare e far emergere, quasi creandola ex novo. La trovata veramente geniale del servizio, infatti, fu tutta in quella parola, che subito si impose, aderendo al suo tema come un'etichetta.

Swinging, il movimento pendolare con una andata e un ritorno, può essere una utile metafora per inquadrare, facendo un passo indietro, il fenomeno dell'importazione massiccia in Inghilterra dei prodotti culturali provenienti dagli Stati Uniti, durante gli anni'50. La "british invasion" degli anni'60, in altri termini, è stata preceduta da un fenomeno altrettanto forte, ma di segno contrario, durante il decennio precedente, quando gli Stati Uniti erano al centro della scena culturale. Tra i tanti prodotti d'importazione, però, solo pochi trovano il terreno adatto per affermarsi . In Sottocultura di Dick Hebdige leggiamo:

... solo la sottocultura beat, prodotto di un allineamento in un certo modo romantico con i negri, sarebbe sopravvissuta nel passaggio dall'America all'Inghilterra negli anni Cinquanta. Senza una significativa presenza nera nelle comunità della working class inglese, l'equivalente scelta hipster non fu semplicemente possibile. L'influsso degli immigrati indo-occidentali era solo appena cominciato e, quando alla fine la loro influenza sulle sottoculture della working class inglese fu sentita all'inizio degli anni'60, in genere si articolò in forme e tramite forme specificatamente caraibiche (ska, bluebeat,

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ecc.). Nel frattempo era avvenuta un'altra convergenza, più spettacolare, al di fuori dell'ambito del jazz, nel rock...La musica era stata tolta dal proprio contesto originale in cui le implicazioni dell'equazione potenzialmente esplosiva "negro" uguale "giovane" era stata pienamente riconosciuta dalla cultura della generazione immediatamente precedente e trapiantata in Inghilterra dove servì da nucleo per lo stile teddy boy. Si poteva sentire nei nuovi coffee bar inglesi dove, benché filtrato da un'atmosfera distintamente inglese di latte bollito e altri intrugli, rimase chiaramente estraneo e futuristico, barocco come il juke box che lo esprimeva. E, allo stesso modo degli altri prodotti sacri - il ciuffo, il cappotto corto, il Brylcreem e il "cinema" - venne a significare l'America, un continente fantastico fatto di cow boy e di gangster, di lusso, di eleganza e di "automobili".

Nella sottocultura teddy boy, però, intervenne una sorta di rimozione delle origini della musica rock, nata come contaminazione di forme musicali bianche e nere (basti citare come esempio le vibrazioni nel cantato), diventando ai loro occhi solo una dalle tante novità americane d'importazione insieme al jazz, all'hula hoop, al motore a combustione interna e ai pop corn. Questa rimozione dell'anima nera del rock fece sì che i teddy boy non percepirono alcuna contraddizione tra l'ascolto di questa musica e la matrice xenofoba della loro cultura. A questo proposito Hebdige afferma:

Con l'eruzione sulla scena inglese alla fine degli Anni Cinquanta, il rock sembrò frutto di una germinazione spontanea, ovvia espressione immediata delle energie giovanili. E quando i teddy boy, ben lontani dall'accogliere a braccia aperte gli immigrati di colore da poco arrivati,

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cominciarono attivamente a prendere le armi contro di loro, erano impermeabili a qualsiasi senso di contraddizione.

Questa vena xenofoba dei teddy boys fu un elemento determinante nel differenziarli dalla sottocultura beatnik che ostentava un'aria cosmopolita e tollerante.

Gli stili erano incompatibili, e, quando venne fuori il "trad" jazz come punto focale di una sottocultura inglese più importante alla fine degli Anni Cinquanta, queste differenze furono evidenziate in maniera ancora più dura. Il trad jazz contava su un ambiente di rozzi bevitori di birra, che era in contrasto con le qualità del primo rock'n roll, angolose, nervose, spigolose da un lato, e l'estetica spudoratamente artificiale dei teddy boy dall'altro - una combinazione aggressiva di esotismo vestimentario (scarpe di pelle scamosciata, baveri di velluto e di pelliccia, cravatte di cordino) - viveva in un duro contrasto con il miscuglio "naturale" dei beatnik fatto di montgomery, di sandali e di CND (Campaign for the Nuclear Disarm).

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I primi anni'60 vedono nascere, insieme alla formazione di comunità di immigrati che si stabiliscono nelle zone working class dell'Inghilterra, la nuova sottocultura dei mods.

Come lo hipster americano... il mod era un "tipico dandy della classe inferiore", maniaco dei piccoli dettagli degli abiti, caratterizzato come i meticolosi avvocati newyorkesi di Tom Wolfe, dalla forma del colletto della camicia, di una precisione esatta come gli spacchi delle sue giacche fatte su misura; dalla forma delle sue scarpe fatte a mano A differenza dei teddy boy, importuni in maniera provocatoria, i mod erano più sottili e più sottomessi in apparenza: indossavano vestiti apparentemente conservatori in colori rispettabili, erano meticolosamente lindi e in ordine. I capelli erano generalmente corti e puliti e i mod preferivano conservare il profilo elegante di un impeccabile "taglio alla francese" con una lacca invisibile piuttosto che con la banale brillantina preferita dai rocker più apertamente maschili. I mod inventarono uno stile che permetteva loro di conciliare scuola, lavoro e tempo libero e che nascondeva tanto quanto dichiarava. Interrompendo tranquillamente la normale sequenza che porta dal significante al significato, i mod minavano il significato di "colletto, vestito e cravatta" spingendo l'accuratezza del vestire fino all'assurdo.

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I mods vivono una doppia vita: da una parte il lavoro o la scuola, dall'altra un mondo underground, letteralmente al di sotto del mondo normale, fatto di cantine, discoteche, boutique e negozi di dischi. Una parte di questa "identità segreta" è costituita dalle affinità con la cultura nera:

Il mod della Soho hard core del 1964, impenetrabile dietro i suoi occhiali scuri e il cappello a tesa piccola si degnava solo di muovere i passi (i piedi rivestiti di scarpe di tela da giocatore di pallacanestro o di Raoul originali) ai soul di importazione più esoterici: (I'm the) Enterteiner di Tony Clarke, Papa's got a Brand New Bag di James Brown, (I'm in with) The Crowd di Dobie Gray, oppure ska giamaicano, Madness di Prince Buster. Bloccati in maniera più fissa rispetto ai teddy boy e ai rocker in una grande varietà di impieghi che imponevano loro obblighi molto rigidi tanto su come dovevano presentarsi,

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vestirsi e sul loro "comportamento generale", quanto sul loro tempo, i mod davano un'importanza altrettanto grande al fine settimana...Durante questi periodi di tempo libero (faticosamente prolungati, in alcuni casi, grazie alle anfetamine) c'era da fare un vero "lavoro": lucidare i motoscooter, comprare i dischi, far stirare, restringere o andare a riprendere i pantaloni alle lavanderie, lavare e asciugare i capelli...

In questo nuovo stile di vita, che guarda alla cultura nera come potenziale elemento sovversivo dell'ordine dei valori costituito, si stabiliscono priorità diverse dalla norma: il lavoro è insignificante; vanità e arroganza sono qualità ammesse e desiderabili. Nel famoso articolo pubblicato su Time il 15 aprile del1966 "London: a swinging city", così Piri Halasz fotografa la scena londinese: “Questa primavera, a Londra, l'antica eleganza si intreccia alla nuova opulenza, in un'abbagliante miscela di op e di pop.” "Op" sta per optical, lo stile geometrico "ottico" che predilige il bianco e nero, o le marcature nette tra colore e colore, e che arriva ad imporsi, in quegli anni, nei vari ambiti del design, dall'abbigliamento all'architettura.

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"Pop", invece, sta per "popular", "popolare", una parola con la quale si vuole indicare la cultura popolare nel suo complesso e, quindi, i fumetti, la moda, la musica, l'arte. "Pop", così, non è tanto una particolare forma espressiva quanto uno stile di vita, un'idea del mondo: <<Noi vogliamo vestiti pop art, musica pop art e atteggiamenti pop art. Noi siamo pop art>>, aveva appena finito di dichiarare Pete Townshend, del gruppo degli Who. Di "pop" in Inghilterra s'inizia a parlare, però, ben prima del 1966. Nel collage Sono stata il giocattolo di un uomo ricco del 1947 di Eduardo Paolozzi, artista di origine italiana operante a Londra, la parola "POP" viene sputata fuori da una pistola puntata contro una pin-up sorridente. Nello stesso collage, in un angolo, compare la mitica bottiglia di Coca Cola con accanto lo slogan: "Servite la Coca Cola nell'intimità della casa!"; nell'angolo opposto, troviamo la figura di un aereo da guerra, con tanto di motto bellico "Fateli continuare a volare!".

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Si può intuire, osservando il collage, la fascinazione di Paolozzi per le immagini dell'abbondanza, provenienti dagli Stati Uniti; ben comprensibile, d'altra parte, nel momento in cui l'Inghilterra soffre pesantemente delle conseguenze del conflitto mondiale. Che quella di Paolozzi, però, non sia solo una fascinazione effimera risulta presto evidente: l'artista formerà, insieme a pittori, architetti, musicisti e critici d'arte un formidabile laboratorio di sperimentazione, denominato "Indipendent Group", in cui verranno esplorate le potenzialità dei nuovi media e delle nuove tecnologie dell'immagine made in U.S.A. . Il lavoro dell' Indipendent Group trova piena espressione nella mostra del 1956, intitolata This is tomorrow, all'interno della quale si propone una diversa sensibilità spaziale, modi dell'abitare e del vivere più liberi e più creativi. Tra il 1947 e il 1956 le connotazioni legate alla parola "pop" cambiano radicalmente: nel collage di Paolozzi il termine "pop" evoca, associato allo sparo di una pistola,

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una qualche minaccia incombente; nella mostra dell'Indipendent Group, invece, sembra che la cultura di massa, la moltiplicazione industriale degli oggetti, costituisca, anziché un pericolo, una straordinaria opportunità. A questo proposito, riprendiamo un passo del saggio, già citato, La londra dei Beatles :

Già nel '56 molte cose erano cambiate. La dura, ancorché ubertosa, America post-bellica ora transitava attraverso l' Europa, attraverso l'isola di Gran Bretagna, con ben altri prodotti, e altri umori: con Herthbreak Hotel di Elvis Presley, per esempio, che arrivò proprio quell'anno, e catturò, fra i tanti, il cuore sedicenne di John Lennon... E intorno al '56 anche l'Inghilterra aveva spostato la sua immagine dell'America. Aveva, potremmo dire, assorbito l'America, avendone fatto un proprio tema di lavoro. C'era quel gruppetto di intellettuali indipendenti, un pò sordi alla propaganda contro la massificazione, contro l'antiumanesimo che sarebbe implicito nell'idea di cultura di massa...C'erano le prime boutique di Mary Quant a Chelsea, di Vince a Carnaby Street. C'era già insomma chi si era immaginato che dalla moltiplicazione degli oggetti capaci di dar piacere giorno per giorno, ora per ora, potesse derivare non sottomissione e morte, nemmeno per gioco pubblicitario, ma libertà. L'utopia degli anni '60, l'utopia della liberazione pacifica attraverso i consumi, cominciava a prendere forma.

Intorno alla metà degli anni'50, quindi, emerge in Inghilterra una cultura "pop" che crede nel potenziale liberatorio della cultura e della produzione di massa; una cultura che vede, nell'affermarsi della società di massa, un'opportunità per la realizzazione di una vita quotidiana più libera e di una società meno classista:

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Si sognava una vita meno opprimente, una domesticità meno spoglia di comfort: spazi meglio attrezzati, più agio nei movimenti, nessuno che ti dica dove bere la Coca Cola, orari fluidi, gioco e lavoro fusi insieme. Un modo di vestire che comunicasse immediatamente una critica all'idea tradizionale di moda come privilegio di classe. La classe d'appartenenza, anzi, non interessa più nessuno, dato che il tipo di società che si vuole costruire è rigorosamente aclassista. <<Classless>> è una parola che si incontra a ogni piè sospinto, e nei settori più disparati... Certo, c'era un pizzico d'utopia nell'immaginare che lo sparo di una pistola potesse trasformarsi in maniera così indolore nello spontaneo scoppio di allegria di chi crede di star fabbricando il proprio futuro. <<Il domani è gia qui>>, dicono gli Indipendenti, ma la loro è tutta una storia anni '50, e comunque solo una faccia della medaglia. Perché linee, suoni, colori, forme di eleganza, continueranno ad avere un loro valore di status symbol, è evidente. Tuttavia gli abiti di Mary Quant, i dischi dei Beatles, il taglio dei capelli alla Vidal Sassoon, il progetto di Casa del Futuro elaborato dai due fratelli Smithson, architetti, il programma di Londra come <<città vivente>>...: tutto questo fervore di scoperta e di cambiamento, pur disseminato in tanti frammenti materiali - in parte realizzazioni compiute in parte progetti - se è segnale d'appartenenza, simbolo di stato, non lo è per la ricchezza materiale che vi è investita, ma per la potenzialità d'immagine che rimanda. Ciascuno di quei differenti <<oggetti>> non vale in sé, ma per lo stile di vita cui allude, per le situazioni che ingloba, e di cui è pegno. Per il sapere della vita che presuppone, per le informazioni che comunica.

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Ritorniamo per un attimo all'intervista a Pete Townshned degli Who del 1965, citata all'inizio della trasmissione; in questa intervista rilasciata al Melody Maker il musicista afferma:

L'arte pop consiste nel ri-presentare qualcosa con cui il pubblico abbia già familiarità...Noi siamo per i vestiti pop-art, per la musica pop-art e il comportamento pop-art. Questo è quello che tutti sembrano dimenticare: noi non ci cambiamo, fuori dal palcoscenico. Noi viviamo pop-art.

A giudizio di Paola Colaiacomo e Vittoria Caratozzolo le parole di Pete Townshend costituiscono una testimonianza del tipico fraintendimento di quegli anni:

E' tutto in questa sorta di adamantina semplicità, di assolutezza, il fraintendimento, e proficuo fraintendimento, di

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quegli anni: nell'utopia di poter schiacciare l'uno sull'altro i due piani dell'illusione e della realtà, fino a farli coincidere perfettamente, senza sfrangiature né sbavature. Musica, vestiti, comportamento: campi disparati, categorie non omogenee, vengono dunque dati per comunicanti, e capaci di influenzarsi l'uno con l'altro. Ma non è un semplice amore della confusione... ad autorizzare e incrementare questa interna traducibilità..: se tutto - musica, vestiti, pose, comportamenti - è ripresentazione del già visto e conosciuto, tutto è già per definizione grafismo, immagine. E' al livello dell'immagine, dunque, che quelle categorie disomogenee...si rapportano tra loro, e trovano il punto di comunicazione che non potrebbero avere in <<natura>>. Sempre e comunque su un'immagine verte ogni discorso, ogni analisi: il primo livello, ingenuo, è sempre già saltato. Allora, perché affannarsi a voler separare a tutti i costi il <<reale>> dalla <<posa>>?

Una cultura che celebra la riproducibilità tecnica degli oggetti e delle immagini vive costantemente in una sorta di deja vu. Dal punto di vista degli artisti questo effetto è ricercato coscientemente - è il <<... ri-presentare qualcosa con cui il pubblico abbia già familiarità>> di cui parla Townshned - e porta, ad esempio, all'uso così frequente in quegli anni del collage, tecnica che consiste fondamentalmente nel montaggio di immagini preesistenti. A proposito della circolazione e della ri-presentazione delle immagini nella cultura pop, è significativa la testimonianza di Richard Smith:

<<I mezzi di comunicazione rappresentano una parte considerevole del mio paesaggio>> scriverà Richard Smith nella Nota aggiuntiva al suo film Trailer . Dove quello che stupisce è l'uso di quella parola, <<landscape>>, da parte di

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un artista come lui, non interessato al dato naturale in quanto tale: così dice <<la frutta della bancarella del mercato è per me sempre già la frutta fotografata di un'immagine pubblicitaria>>.

Si attua, così, una sorta di rovesciamento, dove è l'immagine riproducibile e riprodotta ad essere il dato su cui poggia la percezione del reale:

Quando si guardano le cose nell'esperienza reale, sostiene Smith, si intromette inevitabilmente per l'occhio un elemento di disturbo - luce, solidità, riflessi - già solo per il fatto che quelle cose sono immerse nell'atmosfera, e reagiscono ad essa. Invece nella fotografia si ha a che fare con un'immagine depurata, dalla texture uniforme, perché sottratta ai cambiamenti di luce. Perciò, continua, anche i riferimenti a paesaggi che compaiono nei primi suoi dipinti, vanno intesi come passati attraverso il filtro di paesaggi fotografati.

Il repertorio delle immagini cui l'artista fa riferimento per le sue creazioni non è, quindi, certamente quello della realtà così come è immediatamente percepibile, ma sempre quello delle immagini filtrate e riprodotte dalle nuove tecnologie.

La possibilità che queste tecniche gli aprono di usare colori off register - <<il verde pallido insieme al giallo pallido, che produce un effetto di fresco, di "frescomenta">> - o di proiettare lettere e immagini anamorficamente... <<produce l'effetto di riportare in primo piano...il valore della superficie>>.

La sperimentazione di Smith conoscerà importanti sviluppi in ambiti come la moda e la pubblicità: si pensi ai

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colori acidi dei vestiti di Mary Quant, o dei cartelloni pubblicitari. Generalmente Mary Quant viene ricordata per l'invenzione della minigonna, anche se alcuni ridimensionano il suo ruolo in questa piccola rivoluzione del costume, affermando che l' unico merito che le va attribuito consiste nell'aver lanciato una moda che, però, di fatto era già in uso nelle strade di Londra. Nel saggioMass moda di Patrizia Calefato, ad esempio, si legge:

Quando Mary Quant, dal suo atelier londinese di King's Road, ebbe nei primi anni'60 la geniale idea di lanciare su larga scala l'uso di una gonna corta diversi centimetri sopra il ginocchio, già da un pò di tempo le ragazze della Swinging London l'avevano spontaneamente inventata e la esibivano nella loro "moda di strada" quotidiana.

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Inizia, infatti, in questi anni una nuova fase del sistema-moda: finisce il dirigismo centralistico dell'Alta Moda e si procede verso una moda aperta e policentrica, dove gli input del cambiamento possono essere di varia provenienza. Si arriva spesso ad un vero e proprio capovolgimento, come nel caso appena citato della minigonna, quando coloro che dovrebbero essere il terminale delle proposte di moda si fanno protagoniste del cambiamento, lanciando nuove proposte di stile. La stessa Mary Quant, d'altra parte, mostra di essere consapevole dell'importanza del momento culturale negli sviluppi del proprio lavoro, quando nella sua autobiografia Quant by Quant scrive:

Ci trovavamo all'inizio di un formidabile rinascimento della moda. E questo non accadeva per causa nostra. Semplicemente, come poi risultò, noi ne eravamo parte.

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La giovane stilista, in effetti, si trova a vivere da protagonista un momento di grande importanza nella storia del costume: il passaggio dall'Haute Couture al pret-à-porter, dal concetto di fashion a quello di look. Il pret-a-porter nasce intorno agli anni'50, ma arriva a piena maturazione solo negli anni '60. Lipovetsky in L'impero dell'effimero così ricostruisce l'avvento del pret-à-porter:

Nel 1949 J.C. Weill lancia in Francia l'espressione calco della forma americana ready to wear, al fine di liberare la confezione di serie dalla immagine pubblica negativa che aveva fino a quel momento. A differenza della confezione di serie tradizionale, il pret-à-porter si è impegnato nella direzione di produrre industrialmente capi di vestiario accessibili a tutti ma tuttavia di <<moda>>, ispirati alle ultime tendenze. Mentre un tempo gli abiti confezionati erano mal tagliati, mal rifiniti, di poca fantasia e scarsa qualità, il pret-à-porter vuole unificare industria e moda, vuol diffondere per le strade novità, stile e gusto del bello. (...) Il 1957 è l'anno del primo Salone del pret-à-porter femminile (...) Ma fino alla fine degli anni Cinquanta il pret-à-porter non crea una sua estetica e ripropone la logica precedente, l'imitazione giudiziosa delle nuove forme della Haute Couture. E' a partire dai primi anni '60 che approda alla sua vera ragion d'essere, elaborando abiti improntati più a criteri d'audacia, giovinezza e novità che non alla perfezione <<classica>>. Si afferma una nuova ondata di creatori che non appartengono alla Haute Couture. Nel 1959 Daniel Hechter lancia lo stile Babette e il cappotto di tipo talare; nel 1960 Cacharel reinventa lo chemisier da donna...A Londra nel 1963 Mary Quant crea il Ginger Group, origine della minigonna...

Il pret-a-porter rappresenta una rottura radicale, perché la confezione di serie con alto contenuto stilistico

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riduce nettamente il senso di esclusività, così legato all'Alta Moda. Come racconta Mary Quant nella sua autobiografia datata 1965:

Un tempo l'abito era un segno inequivocabile della posizione sociale e della fascia di reddito di una donna. Oggi non è più così. Lo snobismo è passato di moda, e nei nostri negozi le duchesse lottano gomito a gomito con le dattilografe per comprarsi gli stessi abiti.

E' l'inizio di una moda "classless", o se si preferisce di un processo di “democratizzazione” della moda. Negli anni '60, quindi, i cambiamenti sia a livello degli apparati di produzione che del senso estetico determinano un processo di trasformazione all'interno del sistema , che vede l'affermarsi del concetto di look. A questo proposito leggiamo alcuni considerazioni tratte dal saggio La Londra dei Beatles di Colaiacomo-Caratozzolo:

Ci si libera dell'illusione del modello <<esclusivo>>, o magari della sua libera interpretazione e riproduzione, e si giura fedeltà a un design, o meglio a un look. E' <<look>> quella astrazione figurativa che si interpone, come un filtro o una mediazione, tra l'abito preso nella sua singolarità e concretezza individuale, e lo stile cui l'abito stesso fa riferimento, il suo contenuto tematico: che può essere indifferentemente rétro o folk, oppure astratto, geometrico, <<ottico>>. Tant'è vero che per alcuni anni tutte queste immagini convissero, e si mescolarono e ibridarono felicemente fra di loro. Ci si riconosceva come hip, o <<with it>> - così si diceva - a prima vista, perché l'abito lo segnalava: segnalava, a quanti avevano occhi per vederlo, che chi indossava quell'abito si era calato nel look. Ossia si era accettato in quanto <<looked at>>: guardato - in primo luogo

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da se stesso - all'interno di un determinato sistema figurativo. Ma poteva bastare un particolare veramente minimo - una sciarpa, una spilla - a dare l'indicazione: a fare folk, o hippie, o op, o pop. Non c'era bisogno del completino.

Le autrici contrappongono il concetto di look a quello di fashion , dove per fashion s'intende quella forma di rigido dirigismo dell'apparato produttivo che impone l' integrale osservanza delle mode dell'anno e di quelle stagionali. Il look come immagine della persona e forma di teatralizzazione dell'identità arriverà, però, a piena maturazione solo negli anni'80. Lipovetsky a questo proposito osserva:

E' la fine dell'era del consenso nel modo di mostrarsi... La dispersione multiforme del nuovo sistema della moda vive in sintonia con l'open society che istituisce un pò dappertutto il regno delle formule personalizzate, dei regolamenti flessibili, dell'iperscelta e del self service generalizzato. L'imperativo <<dirigista>> delle tendenze stagionali è stato sostituito dalla sovrapposizione degli stili, il meccanismo ingiuntivo e uniforme della moda dei cent'anni ha ceduto il passo a una logica ludica dell'opzione, non solo fra diversi modelli d'abito ma fra le più incompatibili concezioni del modo di mostrarsi. Questa è la moda aperta, seconda fase della moda moderna, caratterizzata da codici eteromorfi e da un antidirigismo che ha per massimo ideale ciò che oggi viene chiamato look. Contro tutte le mode <<allineate>>, contro il codice sterilizzato della gente-bene, contro la noncuranza, il gusto <<in voga>> negli anni Ottanta invita alla sofisticazione dell'aspetto, a inventare e cambiare liberamente l'immagine del soggetto, a infondervi artifici, gioco, singolarità.

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Testi: Massimo Antonucci

E' bene specificare che per moda dei cent'anni Lipovetsky intende la moda che si afferma intorno alla seconda metà del XIX secolo, dominata dalla Haute Couture parigina, e termina proprio intorno agli anni '60 del nostro secolo. Negli anni'60, così, si verifica una profonda trasformazione del sistema moda: dal dirigismo centralista dell'Alta Moda al policentrismo della moda aperta; dalla rigida codificazione delle mode dell'anno e stagionali alla molteplicità degli stili e alla loro libera combinazione. Un altro elemento di grande importanza caratterizza, però, questa fase di grandi cambiamenti: l'affermarsi dell'estetica <<giovane>>. Leggiamo a questo proposito alcune considerazioni di Lipovetsky:

Negli anni '60 l'effetto Courreges e il successo dello <<stile>> e dei creatori della prima ondata di pret-a-porter sono espressione, nell'ambito della moda, dell'ascesa dei nuovi valori del rock e di idoli giovani: in pochi anni ciò che è <<junior>> è diventato prototipo di moda. L'aggressività delle forme, la mescolanza e il sovrapporsi degli stili, la trasandatezza, hanno potuto imporsi soltanto grazie ad una cultura dominata da ironia, gioco, gusto per sconvolgimenti emozionali e libertà comportamentale. La moda si è vestita da ragazzina, esprime uno stile di vita liberato dalle costrizioni e disinvolto nei confronti dei regolamenti statuiti. Questa costellazione culturale di massa ha minato il potere sovrastante della Haute Couture; l'immaginario giovanile ha determinato la freddezza verso l'abbigliamento di lusso, apparso di colpo come simbolo del mondo <<vecchio>>. L'eleganza <<distinta>>, di buon gusto, di classe, della Haute Couture, è stata screditata da valori che cantavano l'abbandono delle convenzioni, l'audacia e la velocità...Un rovesciamento più completo è avvenuto nei comportamenti:

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<<Prima le figlie volevano somigliare alle madri, ora è il contrario>>.

La minigonna è il capo d'abbigliamento che meglio rappresenta questo nuovo clima culturale. Non è, infatti, semplicemente una nuova moda, ma il segno tangibile di una radicale trasformazione a livello del costume. A questo proposito Patrizia Calefato osserva nel suo saggio Mass Moda :

Nella storia del costume e nella storia delle donne la minigonna rappresenta sicuramente un intoppo, un intralcio, una rottura, in una logica dell'abito femminile che prescrive per tradizione che questo abbia innanzi tutto la funzione "morale" di coprire, cancellare, nascondere il corpo. La minigonna è un segno femminile "forte", che condensa nella sua storia valori di libertà rispetto alle censure e alle false ipocrisie. L'accorciamento dell'orlo dell'abito ha infatti sempre coinciso nel nostro secolo con momenti di emancipazione femminile: negli anni '20 le gonne "charleston" segnarono in maniera provocatoria la crisi definitiva delle crinoline, delle doppie balze, dei mutandoni e anche la messa in discussione di una pruderie modellata sull'immaginario maschile che assegna a "ciò che non si vede" un valore erotico più intenso rispetto a ciò che si vede... Coco Chanel, simbolo e artefice in moda della liberazione femminile dei primi decenni del nostro secolo, indicò da parte sua una forma di liberazione che riguardò soprattutto le lunghezze delle gonne e dei capelli. Se qualche decennio dopo, intorno agli anni '50, la gonna al ginocchio fu introdotta come capo funzionale al ruolo produttivo delle nuove generazioni di donne lavoratrici, la minigonna degli anni'60 fu invece un vero segno di emancipazione e portò con

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Testi: Massimo Antonucci

sé una ventata di anticonformismo nell'ambito della moda istituzionale di quegli anni.

La scena italiana In Italia, negli anni ‘50, la gioventù italiana, ancor più di quella inglese, subì pesantemente l'influenza della cultura americana, la cultura dei vincitori. Per addentrarci in questo nuovo territorio ci faremo aiutare dal saggio di Francesco Donadio e Marcello Giannotti Teddy Boys rockettari e cyberpunk che, come recita il sottotitolo, si occupa di Tipi mode e manie del teenager italiano dagli anni '50 a oggi .

In Italia rispetto ad altri paesi europei, è particolarmente viva la voglia di imitare gli Stati Uniti. I motivi sono da ricercarsi nella presenza americana sul nostro territorio durante la seconda guerra mondiale, che aveva lasciato, in chi era bambino in quegli anni, molti buoni ricordi e, soprattutto, dei modelli da imitare. Il ragazzo italiano cresce a immagine e somiglianza di quello americano; due sono i canali principali attraverso cui impara dai modelli di oltreoceano: il cinema e la musica. Gli eroi di celluloide funzionano a meraviglia: Marlon Brando, Montgomery Clift, Sal Mineo, Natalie Wood, Marylin Monroe e James Dean sono i grandi e universali punti di riferimento di tutti i ragazzi italiani degli anni'50...E' così che molti ragazzi, talvolta senza nemmeno rendersene conto, si fanno coinvolgere dal grande mito dell'America consumista e benestante: cominciano a bere coca-cola e, se capita, whisky e soda, a dirsi reciprocamente <<occhei>>, a vestirsi in jeans e t-shirts, a imporre alle proprie mamme di cucinare hamburger e, addirittura, a imitare gli atteggiamenti da <<duri>> e le cadenze vocali degli attori di oltreoceano... La divulgazione del rock'n roll avviene invece con un paio di anni di ritardo

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rispetto all'America e inizialmente incontra qualche difficoltà a prendere piede. Sono i tempi in cui da noi dominano ancora incontrastate le canzone italiana e la melodia napoletana: per orecchie abituate ad assorbire suadenti armonie, l'irruzione del nuovo genere è un vero e proprio shock.

L'affermarsi del rock'n roll in Italia è legato alla diffusione dei juke-box. Se prima del 1955 solo il Foro Italico a Roma poteva vantare un esemplare di swinging tower (un modello di juke box che conteneva fino a dieci dischi), nel 1956 se ne contano già 500, impiantati nei bar, nelle latterie e negli stabilimenti balneari; all'inizio degli anni '60 si arriva addirittura alle diecimila unità. In un primo tempo, attecchisce la variante melodica del rock'n roll, il doo-wop, eseguita da gruppi vocali di colore: i Platters, con Only You e Smoke gets in your eyes , sono i portabandiera del genere. Presto, però, arriverà anche il rock'n roll più spigoloso e ribelle di Bill Haley, di Elvis e di Little Richard. Tra il '57 e il '58 fa le sue prime apparizioni il rock'n roll nostrano. Così, Francesco Donadio e Marcello Giannotti ricostruiscono, nel saggio sopra citato, l'emergere di una scena rock'n roll italiana:

La culla del rock'n roll in versione italianizzata è Milano: è qui che il discografico di origine svizzera Walter Guertler ha le intuizioni che procureranno a lui i denari, e ai teenager italiani nuove mode e idoli. Guertler comincia dal <<soffice>>, creando dapprima il fenomeno dei cosidetti <<urlatori>>...: il caposcuola è Tony Dallara, al secolo Antonio Lardera, che imita alla perfezione il singhiozzo di Tony Williams, la voce dei Platters, e che ragiunge uno strepitoso successo tra il 1957 e il '58 con la canzone Come prima ... Il rock'n roll vero, però, quello scatenato, è un'altra cosa. E

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Testi: Massimo Antonucci

Guertler, che è un tipo che tiene sempre drizzate le orecchie, è in prima fila al Palaghiaccio di Milano il 18 maggio 1957, ad assistere al <<Primo Festival Nazionale del Rock and Roll>>...Per la prima volta nel nostro Paese si assiste allo spettacolo di teenagers vestiti come James Dean e Natalie Wood, urlanti e strepitanti, che lanciano in aria camicette e bottiglie di coca-cola e demoliscono le sedie al suono delle nuove musiche. Insomma, si vestono da <<ribelli>> e si comportano da <<ribelli>>: il teenager italiano, in senso moderno, forse nasce proprio quel giorno...

Il racconto della genesi del rock'n roll nostrano prosegue in questo modo:

E mentre lo storico parto ha luogo, sul palco si sfidano due interpreti, anch'essi adolescenti come il loro pubblico...: uno è alto, allampanato, quasi timido; si chiama Giorgio Gabershik, ma ha accorciato il suo nome in Gaber per motivi artistici. Canta pacatamente una canzone dal titolo Ciao ti dirò, e ottiene dal pubblico un responso altrettanto pacato. Il suo concorrente è un diciannovenne... chiamato Adriano Celentano;...come asserisce lo scrittore Umberto Simonetta, aggredisce la canzone, la stessa di Gaber, <<con la furia di un samurai>>, nel tentativo di emulare il suo idolo Elvis Presley. Il pubblico è ai suoi piedi...: è lui il <<re del rock'n'roll>> italiano. Guertler non se lo fa scappare e pochi giorni dopo gli offre un contratto discografico. Il successo arride finalmente al giovane rocker nell'estate del '58 con Il tuo bacio è come un rock. Seguiranno altri successi come I ragazzi del juke-box e Ventiquattromila baci.

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L'americanismo dei giovani italiani diventa ben presto oggetto di parodia: basti pensare alla figura di adolescente portato sullo schermo da Alberto Sordi nel film Un'americano a Roma , o alla memorabile caricatura dei teenagers nostrani fatta da Renato Carosone nella canzone Tu vuò fa l'americano. Durante gli anni'50, secondo Donadio e Giannotti, si possono individuare, oltre al teenager filoamericano, altri modelli adolescenziali, più tipicamente italiani: il borgataro, il figlio di papà, il parrocchiale e il pappagallo. Il borgataro è quell'adolescente che abita dentro squallide periferie urbane e che Pier Paolo Pasolini seppe magistralmente rappresentare sia cinematograficamente che letterariamente.

...nel 1955, nel suo primo romanzo Ragazzi di vita, descrive le giornate sciatte e ingloriose di un gruppo di amici di una di quelle periferie romane comunemente denominate

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<<borgate>>. L'eroe della storia è il tredicenne <<Riccetto>>, conosciuto, non a caso, solo con il suo soprannome, che abita in un edificio dai muri screpolati, una ex scuola elementare che prima della guerra era servita per alloggiare i tedeschi, e, successivamente, i canadesi, e in cui in seguito si erano sistemati <<gli sfollati, e da ultimo gli sfrattati, come la famiglia del Riccetto>>. Pasolini si sofferma a descrivere con cura le occupazioni giornaliere dell'adolescente borgataro nel corso di una torrida estate romana: piccoli furti, approcci con le prostitute, e lunghi pomeriggi passati in fatiscenti luna park periferici, dove Riccetto e i suoi amici giocano a calcio balilla finendo regolarmente per picchiarsi con dei <<borgatari>> loro antagonisti; il ragazzo volge lo sguardo, inoltre, con stupore e senso d'inferiorità verso il mondo dei suoi coetanei borghesi e danarosi, con cui sente di non avere niente in comune.

Il volto che incarna meglio la figura del <<borgataro>> è quello di Ninetto Davoli, borgataro d.o.c. scoperto e lanciato cinematograficamente da Pier Paolo Pasolini.

Nato nel 1948, di origine calabrese, si era trasferito in tenera età a Roma alla borgata Prenestina, a due passi dall'Acqua Bullicante. Passa l'adolescenza scorrazzando per strada o dedicandosi a divertimenti da due soldi, come <<nizza>>, <<spacca-picchi>>, <<tre-tre-giù-giù>> e <<zecchinetta>>. La scuola l'abbandona presto, perché è costretto a portare soldi a casa: fa il meccanico, il falegname e anche il cascherino. Poi, all'età di 16 anni, il colpo di fortuna: fa la conoscenza di Pasolini, che prende subito in simpatia questo <<ragazzo di vita>> dagli occhi buoni e dagli atteggiamenti naif. Improvvisamente Ninetto, dalla sua borgata, si trova catapultato sui set di Cinecittà: dapprima ottiene una particina da pastorello nel film Il vangelo secondo Matteo del 1964; poi è addirittura il co-protagonista di uno dei più importanti film italiani del decennio, Uccellacci e uccellini ; e

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il suo partner è nientemeno che il grande Totò. Il giovane Ninetto diventa, così, dal giorno alla notte, oggetto di adorazione, e anche di invidia, da parte dei suoi coetanei delle periferie degradate di tutta Italia.

In una ben diversa posizione sociale si colloca il <<il figlio di papà>>, altro modello adolescenziale individuato da Donadio e Giannotti. Si tratta di una gioventù senza problemi economici, che spesso guarda più alla cultura francese che a quella americana, ammirando "...idoli più decadenti e imbronciati, come Alain Delon, Brigitte Bardot, Annette Stroyberg e Pascale Petit.". Gli autori sottolineano come una consistente dose di perbenismo conformistico caratterizzi questa tipologia di adolescente italiano:

Le ragazze puntano a mantenere intatta la propria purezza: affermano a voce alta (e con un pò di ipocrisia) che mai e poi mai cadrebbero preda delle tentazioni prima del matrimonio. Per loro, in ogni caso, è obbligatorio l'abito elegante, spesso un bel tailleur scuro, tanto per non dare nell'occhio, e qualche gioiellino d'oro; assolutamente indispensabile un atteggiamento altezzoso verso tutto il mondo circostante, eccetto pochissimi fortunati.

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Per i maschi sono di rigore i capelli ordinati, i vestiti di classe, e poche idee ma chiare sul proprio futuro. Fanno il baciamano e la riverenza alle signore, studiano pianoforte in privato; e, soprattutto, vengono esibiti con orgoglio da mamma e papà a parenti e amici in visita.

Il <<figlio di papà>> ama la vita mondana e prestigiose località di villeggiatura: "...Forte dei Marmi, Saint Tropez, Portorotondo, le località della Versilia. In queste ultime, in particolare, i figli di papà più all'avanguardia si appassionano all'ascolto di ottima musica jazz: agli albori degli anni'60, si ritrovano al <<Bussolotto>>...E' qui che suonano il trombettista Nini Rosso, i Cinque di Lucca...e il grande Chet Baker, che suona la tromba e canta ogni sera facendosi accompagnare da Romano Mussolini.

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Prima di passare alla scena degli anni '60, completiamo il quadro dei tipi adolescenziali dell'Italia anni'50, individuati da Donadio e Giannotti, parlando del "ragazzo di parrocchia" e del "pappagallo". Il "ragazzo di parrocchia" è il classico bravo ragazzo, chiaramente cattolico, che prende parte attiva nell'organizzazione delle messe e delle altre attività parrocchiali:

Il giovane cattolico italiano degli anni Cinquanta e Sessanta è figlio dello spirito del Concilio Vaticano Secondo, che si aprirà nel 1962 per volontà di Giovanni XXIII, e conferirà ai ragazzi un ruolo importante nella Chiesa del futuro. Prima del Concilio, in chiesa si andava solo per assistere alla messa; dopo il Concilio, la parola d'ordine sarà <<partecipare>>. E che in chiesa i ragazzi potessero trovare un ruolo importante era già chiaro da qualche anno in America: tra la gente di colore che si dedicava alla religione c'erano, infatti, alcuni giovani cantanti dilettanti che si esibivano la domenica e un paio di sere alla settimana, e molti (Mahalia Jakson e Aretha Franklin sono gli esempi più eclatanti) sarebbero diventati molto famosi nel mondo.

Anche se questo fenomeno si manifesterà pienamente solo negli anni'60, fin dagli anni '50 è evidente una maggiore partecipazione dei giovani cattolici alle attività parrocchiali.

Le abitudini di questo ragazzo tutto casa e chiesa sono semplici: dopo la quotidiana preparazione dei canti religiosi, il ragazzo della parrocchia vive, fa amicizia e si diverte all'oratorio, dove può giocare a pallone, a pallavolo o a ping pong ... La domenica poi, dopo la messa, l'adolescente

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parrocchiale va fuori città con i suoi simili per una scampagnata a base di preghiere e panini.

A rendere famoso questo tipo di adolescente, facendone una gustosa caricatura, è ancora una volta Alberto Sordi, dapprima in una serie di programmi radiofonici e, poi, nel film Mamma mia che impressione! del 1951. Il ragazzo di parrocchia sembra essere completamente disinteressato alle mode d'oltreoceano. A metà degli anni '60, però, si verificherà una inaspettata conversione, capace di cambiare le sue abitudini.

Il ragazzo della parrocchia si tiene prudentemente alla larga dal rock'n roll; nel 1964, però, avviene un singolare aggancio tra i due mondi. Tanto più singolare se si pensa che il fatto ha per protagonista il re del rock'n roll italiano, Adriano Celentano. Il molleggiato, infatti, in quell'anno cade preda di una crisi mistica e cerca conforto nelle sapienti parole di un consigliere spirituale, tale Padre Ugolino. Rinnega Elvis e scopre Gesù Cristo...; dichiara di leggere solo la Bibbia e incide canzoni che sono sincere dichiarazioni di fede, dai titoli Pregherò, Pasticcio in Paradiso e Chi era lui . La musica è sempre la stessa (rock, twist, surf), ma le parole non lasciano più spazio a dubbi: <<...nel nome di Gesù/ voi non piangerete più / è lui il Re dei Re/ un bimbo come voi...>>. I suoi fan della prima ora sono sbigottiti e anche un pò delusi; gli unici a prendere a cuore quelle canzoni e a strimpellarle con le chitarre sono i ragazzi della parrocchia di tutta Italia. Presi in giro e sbeffeggiati dai loro coetanei <<di mondo>> hanno anche loro un idolo <<americano>>.

La brusca sterzata di Celentano, capace di addomesticare il potenziale eversivo del rock'n roll

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nostrano, non è un fenomeno isolato: anche il grande Elvis, seppure in modo differente, cercò dopo il 1958 di ridimensionare la portata rivoluzionaria del suo personaggio. Nel saggio La terra promessa, quarant'anni di cultura rock Gino Castaldo, così, racconta la svolta di Elvis:

Lennon disse che Presley è morto quando è partito per il servizio militare, affermazione che contiene una gran parte di verità... Presley... divenuto il più potente idolo giovanile mai apparso, fa di tutto per frenare gli aspetti più ribellistici del suo personaggio. Quando viene chiamato alla leva, accetta di buon grado, sfruttando l'occasione per dimostrarsi buon patriota e bravo cittadino. In qualche modo da "rivoluzionario", sebbene in gran parte istintivo, si trasforma in conservatore, inaugurando una dinamica che sarà spesso presente nella storia del rock. Anche i suoi tanti film, sdolcinati e banali, sembrano andare in questa direzione rassicurante. Mai nella storia del rock, che pure di voltafaccia ne ha visti tanti, si è visto nello stesso personaggio un tale miscuglio di ribellismo e conservatorismo.

Tornando alla tipologia proposta da Giannotti e Donadio, accenniamo ora alla figura del <<pappagallo>>, che completa il quadro dei modelli adolescenziali italiani degli anni'50. Il <<pappagallo>> è il giovane playboy italiano che frequenta le coste romagnole in cerca di avventure occasionali con ragazze straniere.

Vittime dell'intensa attività dei propri ormoni, questi teenagers provengono perlopiù dalla piccola e media borghesia e le ragazze sono la loro unica, grande fissazione...

Questi giovani <<tipi da spiaggia>> ambiscono, innanzitutto, alla conquista di bellezze nordiche, in grado di

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incarnare i biondissimi e mitici modelli cinematografici, tipo Marylin Monroe o Brigitte Bardot.

Nasce così il mito della straniera, bella, bionda e disponibile, e l'adolescente <<pappagallo>> inizia a mettere a punto un vestiario e una tattica che lo assecondi nelle sue conquiste. Innanzitutto abiti eleganti per dare l'impressione di quell'<<italian look>> di cui già si parla tanto nel mondo. Per il <<pappagallo doc>> prepararsi è una cosa seria, anzi serissima: si fanno rapidi corsi di inglese e tedesco, si cura il fisico con rudimentali esercizi ginnici, per fare risaltare i muscoli, oppure si mandano a memoria i consigli di libretti, decaloghi e vademecum per il <<perfetto pappagallo>>, pubblicati da alcune case editrici in cerca di facili guadagni.

L'attore che meglio rappresenterà sullo schermo questa figura di teenager, sfrontato e mammone allo stesso tempo, sarà Vittorio Gassman.

E' proprio l'attore romano ad essere preso a modello dagli adolescenti per aver incarnato in svariati film l'ideale del vitellone bugiardo e donnaiolo, che riesce a farsi perdonare tutto: specialmente in Se permettete parliamo di donne e ne Il sorpasso, il <<mattatore>> offre alcune dimostrazioni del miglior atteggiamento da seguire nei confronti dell'altro sesso.

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Terminata la presentazione dei modelli adolescenziali italiani degli anni '50, possiamo spostare ora il discorso sugli anni '60 in Italia. La prima cosa da rilevare è la grande confusione che esiste intorno al termine "beat", che viene, a torto o a ragione, utilizzato in maniera disinvolta per etichettare i fenomeni musicali e culturali più disparati. Giannotti e Donadio osservano a questo proposito:

Più dibattuta è invece l'origine della definizione <<beat>>: c'è chi, come i disc-jochey Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, la fanno risalire a motivi strettamente musicali (i Beatles, il tempo in <<battere>> anziché in <<levare>> come nella tradizione italiana precedentemente in voga); chi, invece, si rifà a quel filone di scrittori e poeti americani degli anni'50 <<beat>> o <<beatniks>>, giovani anticonformisti come Jack Kerouac, Allen Ginsberg e William Borroughs.

"Beat" diventa sempre più un termine-contenitore dove ci sta dentro di tutto: "beat", nella traduzione che lo stesso Kerouac propone significa "beato" e rimanda ad un sentimento mistico di estasi: "Beat non significa stanco, o sconfitto, bensì beato , la parola italiana per beatific: essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, cercare di amare tutta la vita, cercare di essere sinceri fino in fondo con tutti, praticare la sopportazione, la gentilezza, coltivare la gioia del cuore". "Beat", quindi, come <<beato>>; ma anche "beat" come <<tempo in battere>>, oppure come abbreviazione di Beatles. In mezzo a questo ginepraio di significati di "beat"

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risulta estremamente difficile districarsi: tanto più che, parlando degli anni '60 in Italia, ciascuno adotta questo termine come meglio gli pare. A complicare ulteriormente il quadro, ecco che nel 1967 si delinea una divisione tutta interna alla scena beat italiana. Amedeo Bruccoleri nel saggio Beat italiano , edito da Castelvecchi, così ricostruisce la situazione:

Il 1967 era stato l'anno delle grandi divisioni. All'interno della scena beat si delineavano due linee di pensiero divergenti che scatenavano un acceso dibattito culturale. I componenti della Linea Gialla, ovvero Lucio Dalla, Gianfranco Reverberi, Luigi Tenco, Sergio Bardotti, Piero Vivarelli, entravano in aperta polemica con la Linea Verde, sostenuta da Mogol, caratterizzata da un beat meno impegnato politicamente e più vicino a tematiche di fratellanza e amicizia. I sostenitori della Linea Gialla avevano pubblicato sulle pagine del settimanale <<Big>> un manifesto programmatico dai forti contenuti politici e culturali che annunciava chiaramente: Le persecuzioni razziali non sono e non possono essere viste solo da un punto di vista politico, perché i bombardamenti indiscriminati nel Vietnam sono quello che sono, perché la censura più assurda esiste ancora e ne abbiamo nuovamente avuto prova di recente. E perché per passare dall'altra parte della barricata, i liberi intellettuali nell' Urss finiscono in Siberia, il Muro di Berlino è ancora in piedi e in Cina un certo tipo di mentalità nazista torna di moda grazie alla cosiddetta Rivoluzione Culturale. Quanto all'Italia, da Agrigento a Longarone, è tutto un fiorire di scandali, mentre le persecuzioni della polizia, a Genova e a Roma, contro i ragazzi colpevoli solo di portare i capelli lunghi assumono forme sempre più preoccupanti. L'elenco potrebbe continuare ma ci sembra inutile... Perché dunque la Linea Verde ? A cosa serve? E soprattutto a chi serve? La risposta ci sembra abbastanza semplice. Serve a

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chi vuole intorbidare le acque o per cause bassamente pubblicitarie o comunque speculative. Chi ha orecchie per intendere intenda...

Il manifesto programmatico della Linea Gialla prosegue in modo apertamente polemico:

I giovani dunque è bene che sappiano come, in chiara antitesi alla Linea Verde , ci troviamo ben saldamente ancorati alla linea del blues, di Dylan, di Kerouac e di tutti coloro che ancora credono, in termini musicali e no, nella insopprimibile necessità della pace e della libertà. Noi nella pace e nella libertà non vogliamo <<sperare>>, ma preferiamo ora lottare su una trincea fatta di splendide e significative note, per conservarle o conquistarle. Questo è bene che si sappia, come è bene che i giovani si guardino dai mistificatori della musica leggera .

A soffiare sul fuoco della polemica ci pensa un articolo firmato da Mogol, che compare sulle pagine dello stesso giornale:

Caro direttore, una cosa è certa: Tenco, Bardotti, Dalla, Reverberi e Vivarelli della Linea Verde non hanno capito niente. La colpa non è loro, anzi non esitiamo ad ammettere che è nostra. Purtroppo non abbiamo ancora avuto il tempo e l'opportunità di spiegare che cos'è e a che serve la Linea Verde... Linea Verde non è ottimismo: è speranza. Speranza non significa resa, né tanto meno vittoria. Noi non rinneghiamo la filosofia beat. Non neghiamo che da essa noi abbiamo attinto coraggio, purezza e quasi tutti i suoi credo. Non la consideriamo, però, un punto di arrivo, bensì un punto di partenza. La Linea Verde è per noi il perfezionamento della filosofia beat, più amore in senso universale. Amore è una parola che non è stata quasi mai usata dai beatnick.

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Mogol sicuramente non conosceva bene gli scritti di Kerouac che, nel 1958, dava una definizione di beat, più volte ricordata, che va proprio nella direzione che Mogol rivendica come esclusiva della Linea Verde : "Beat non significa stanco, o sconfitto, bensì beato, la parola italiana per beatific : essere in uno stato di beatitudine, come San Francesco, cercare di amare tutto nella vita, cercare di essere sinceri fino in fondo con tutti, praticare la sopportazione, la gentilezza, coltivare la gioia del cuore...". Mettendo, quindi, tra virgolette l'esclusività della proposta di Mogol e della Linea Verde, possiamo dire che questa anima del beat italiano trovava espressione con canzoni come Un mondo d'amore di Gianni Morandi, il cui testo è oltremodo esplicito: <<C'è un grande prato verde/ dove nascono speranze/ che si chiamano ragazzi/ è il grande prato dell'amore>>. Comunque, al di là delle differenziazioni interne alla scena beat italiana, è fuori da ogni dubbio che locali come il Piper di Roma e giornali come <<Big>> costituiscano elementi insostituibili per lo sviluppo del movimento. Donadio e Giannotti, nel saggio più volte citato Teddy boys rockettari e cyberpunk, così raccontano l'emergere della nuova stampa specializzata:

...a contendersi questo mercato ai primi vagiti sono tre settimanali, <<Ciao Amici>> e <<Giovani>>, più superficiali e dedicati ad un pubblico di tredicenni, e <<Big>>, il cui primo numero esce nel 1965, e che in breve tempo si afferma come lettura indispensabile dei ragazzi aderenti al movimento. La sua tiratura si assesta subito sulle 400-500.000 copie: <<Big>> azzecca la formula giusta perché, se da un lato ripropone

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alcuni schemi tipici dei rotocalchi sensazionalistici, con grandi foto dei belli della canzone <<beat>> del tempo, dall'altro stimola il dibattito tra i ragazzi nei confronti della società dei <<grandi>>, considerata vetusta e autoritaria. E nel far ciò utilizza lo stesso linguaggio dei ragazzi...

Sfogliando le pagine di questo tipo di stampa, s' intuisce come anche in Italia inizi a delinearsi un vero e proprio mercato "giovane". A questo proposito leggiamo nel saggio Beat italiano di Amedeo Bruccoleri:

Il mondo dell'industria individuava nei ragazzi una grande fascia di consumatori ai quali offrire prodotti... <<Big>>, <<Ciao amici>>, <<Giovani>> non reclamizzavano più solamente apparecchiature per la riproduzione musicale (giradischi, registratori, microfoni) ma anche cosmetici, motorini, viaggi e abbigliamento. Proprio l'abbigliamento si

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affermava come elemento fondamentale dell'estetica beat in grado di rappresentare simbolicamente la differenziazione tra le varie generazioni.

Amedeo Bruccoleri continua la sua analisi della scena beat italiana, individuando le connessioni tra oggetti di consumo e i luoghi di consumo.

Pantaloni a righe larghe, minigonne disegnate da Mary Quant, camicie e cravatte colorate vivacemente, stivaletti, braccialetti esotici rappresentavano il simbolo della società di massa costituito dalla moda giovanile. L'accertata esigenza di consumo da parte dell'industria aveva trovato un'esauriente risposta nell'apertura del Piper Club. Il Piper era un grande garage sotterraneo con pista da ballo dalle pedane luminose, con una enorme gigantografia iperrealista alle spalle del palco dove si esibivano i complessi dal vivo.

Il Piper diventa ben presto uno spazio dove collaudare nuove forme di socialità, più libere e disinvolte: "...lì potevi star seduto per terra o scatenarti in pista a tempo di shake , senza alcuna inibizione. Si ballava, senza alcun condizionamento per la scelta del partner. I giovani beat esprimevano così, con lucida consapevolezza la propria diversità decretando il successo di personaggi come Renato Zero, Loredana Bertè, Patty Pravo, ospiti fissi del locale." Oltre ai singoli cantanti, al Piper si esibiscono spesso gruppi italiani con un ingaggio fisso, come l'Equipe 84 e i Rokes, e gruppi stranieri del calibro dei Pink Floyd, Soft Machine, Byrds e Genesis. Il Piper, oltre ad essere un punto di riferimento per tutto il movimento beat italiano, è un posto dove è possibile fare sperimentazione artistica, come già da tempo si faceva

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nei club newyorkesi. A questo proposito Amedeo Bruccoleri afferma:

Anche la nascente controcultura italiana eleggeva come punto di ritrovo importantissimo il locale di via Tagliamento. Anche al Piper...si tentavano nuove forme di spettacolo di avanguardia. Ispirati dagli Exploding Plastic Inevitables di Andy Warhol, nascevano gli happening , dei veri e propri esperimenti che combinavano con originalità arti visive e musica. Il più importante di questi era stato il concerto presentato al Piper da Le Stelle di Mario Schifano, in seguito documentato discograficamente.

D'altra parte, la logica commerciale che abbiamo visto all'opera tra le pagine della stampa specializzata "giovane" non tarda a fare la sua apparizione anche nel tempio del beat:

Nella primavera del 1966 era stato inaugurato ufficialmente il Piper Market: un grande negozio dai prezzi acessibili a tutti dove era possibile acquistare minigonne, pantaloni, camicie a fiori, collane. Ancora una volta - come era già successo per l'industria discografica - l'iniziativa commerciale strumentalizzava il movimento beat per scopi lucrosi.

Sul finire degli anni '60 si fa sempre più chiara la percezione di un cambiamento che non riguarda solo la scena beat italiana. Così, Donadio e Giannotti ricostruiscono questa fase:

Gli anni di massima fioritura del <<beat>> sono il 1966 e il 1967; i teenagers ora si vestono in modo più sofisticato con le giacche militari e gli stivali resi popolari dai Beatles nel loro LP Sergeant Pepper... i temi delle canzoni cominciano a

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cambiare, passando dai tipici rapporti lui-lei a canzoni di protesta impregnate di un generico pacifismo: è il caso di La bomba atomica e Proposta dei Giganti, con il suo memorabile ritornello <<mettete dei fiori nei vostri cannoni>>...e della celeberrima C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, sulla guerra in Vietnam. Altri come i Nomadi, cercano un dialogo con gli adulti, chiedendo: <<come potete giudicar/ per i capelli che portiam>>. Al di là delle provocazioni, non c'è un progetto politico alle spalle...Quando arriva il '68, il movimento <<beat>> è già in declino...

Il famoso ritornello <<come potete giudicar/per i capelli che portiam>> dei Nomadi indica il senso di una rottura profonda, che si verifica proprio in questi anni, a livello del costume maschile. I capelli lunghi, infatti, costituiscono una novità dirompente, per quanto riguarda l'aspetto maschile, forse ancora più forte e significativa dell'apparizione della minigonna nella moda femminile degli stessi anni. Nell'interessante volume La moda italiana. Dall'antimoda allo stilismo, a cura di Grazietta Butazzi e Alessandra Mottola Molfino, edito da Electa, è contenuto un saggio di Alessandra Gnecchi Ruscone, intitolato "L'antimoda. Esempi milanesi", che comincia in questo modo:

Gli anni Sessanta sono un periodo di grande rivoluzione dei costumi in tutto il mondo occidentale. Dagli Stati Uniti all'Olanda le giovani generazioni rifiutano improvvisamente i modelli esistenti e cercano forme nuove che rompano con il passato. E' un fenomeno di massa che contamina ogni settore della vita quotidiana: dai rapporti fra i sessi, alla concezione del lavoro e del tempo libero. Il veicolo principale di questo

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contagio è la musica rock inglese e poi americana impersonata da gruppi e cantanti che diffondono la loro popolarità al di là di ogni confine e barriera linguistica. E poiché questi cantanti sono per lo più uomini, è proprio l'abbigliamento maschile quello che per primo subisce le più traumatiche trasformazioni. I capelli, che già sembrano scandalosi quando coprono le orecchie e la fronte, diventano sempre più lunghi; ai primi stivaletti, maglie a righe e pantaloni attillati di derivazione dall'abbigliamento per il tempo libero americano subentra la più sfrenata libertà di accostamenti di colori, materiali e stili. Personaggi carismatici come Mick Jagger o Brian Jones, il leggendario chitarrista dei Rolling Stones considerato l'uomo più elegante del mondo rock, ostentano jabots, velluti, lamé, pellicce, calzamaglie, stivali alla moschettiera, vestiti in tessuto da tappezzeria e da biancheria intima, accompagnati da collane, orecchini e un trucco sempre più smaccato. E' dal Settecento che l'uomo non presentava un'immagine di sé altrettanto vistosa e sessualmente provocatoria, arrivando quasi a mettere in ombra quella femminile.

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I cambiamenti a livello dell'immagine maschile, superficialmente connotabili nel senso di una "femminilizzazione" del costume, costituiscono una reazione all'ingessatura e alla standardizzazione della moda maschile, fenomeni che affondano le proprie radici in un terreno di grandi cambiamenti storici. Nel XIX secolo, infatti, l'affermazione della classe borghese e, conseguentemente, l'affermazione della propria concezione della vita, del lavoro e dei rapporti sociali, provocarono una brusca rottura sul piano del costume, in particolare di quello maschile. A questo proposito, sono interessanti le considerazioni fatte da Isabella Pezzini nel suo saggio "Il borghese uniforme: un percorso letterario", contenuto nel volume L'uniforme borghese , edito da De Agostini nella collana "Idee di moda".

Il nuovo costume,"uniforme" perché non più "opera" singolare e irripetibile degli artisti-artigiani di corte, ma ormai avviata all'era della riproducibilità tecnica, ideologicamente incarna una professione verso l'uguaglianza e la democrazia, l'etica del lavoro e una virtuale apertura delle classi, la sovranazionalità, non disgiunte da un franco conservatorismo. Il borghese è economicamente produttivo, e dunque il suo vestire richiama la serietà del mondo del lavoro, e concede poco di appariscente alla frivolezza delle occasioni mondane. La distinzione è la nuova parola d'ordine che domina incontrastata su tutte le manifestazioni borghesi La distinzione, e in particolare di status, è una delle funzioni generalmente affidate all'abito. I valori del borghese sono il lavoro, la saggezza pratica e calcolatrice, la prudenza, l'ordine, la regolarità. Ripudia il lusso, l'ornamento, la frivolezza e l'eccesso. Allo stesso tempo il borghese deve riconoscersi all'interno della propria classe, come portatore di

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una cultura e non solo di un censo: ne fa parte l'impiegato come il libero professionista, il banchiere oppure l'industriale come il maestro di scuola.

Il testo di Isabella Pezzini prosegue, analizzando il rapporto di continuità e rispecchiamento tra abito e ideologia borghese, dove l'anello di congiunzione è costituito dal concetto di distinzione:

La distinzione diventa allora cifra di un'apparenza di semplicità che omologa al di sopra delle differenze, rende "presentabile" il membro anche più modesto della classe, riuscendo pur sempre a distinguerlo dalle classi inferiori. Inoltre, se nobili si nasce, non bisogna dimenticare che borghesi si può diventare. Anche per questo il borghese sembra sacrificare al "decoro" la funzione decorativa del proprio vestito, demandata semmai a sua moglie. Il suo abito non si limita a indicarlo come borghese, ma proprio lo costituisce in quanto tale. La moda borghese come attualizzazione della barriera e del livello, i due termini chiave nella dinamica di questa classe, secondo l'analisi di Edmond Goblot: barriera, per chi non vi appartiene, non tanto nel senso di un limite invalicabile ma piuttosto di un ostacolo da superare; livello per chi ha raggiunto l'agognato status.

Per avere un'idea più concreta di ciò di cui stiamo parlando, basti pensare all' efficace descrizione dell'uniforme borghese propostaci da Flaubert nella sua Madame Bovary :"Tutti quei signori si rassomigliavano,... le basette abbondanti sfuggivano dai grandi colletti duri, ch'erano sostenuti dalle cravatte bianche con l'orlo di trina ben spiegato. Tutti i panciotti erano di velluto col risvolto a

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scialle; tutti gli orologi portavano in capo a un lungo nastro qualche sigillo ovale di corniola; e ognuno teneva appoggiate le mani sulle cosce, abbassando con cura la forca dei calzoni, ch'erano di panno lustro e brillavano più del cuoio delle grosse scarpe". Ritenere che la moda maschile sia sempre stata "uniforme" è, quindi, la conseguenza di quel processo di naturalizzazione del dato storico che per Roland Barthes coincide il fenomeno della mitizzazione. In tutta la sua storia, infatti, la moda maschile è stata, per lo meno, altrettanto ricca e decorativa di quella femminile. Riprendiamo a questo proposito le osservazioni di Lipovetsky, contenute nel suo saggio l' Impero dell'effimero , edito da Garzanti:

Dal XIV al XVIII secolo la sovranità del capriccio e dell'artificio si impone ugualmente ai due sessi. Durante questo lungo periodo la moda ha indotto uomini e donne alla ricerca di un lusso sofisticato e spettacolare. Anche quando le differenze d'aspetto fra i sessi raggiunge l'estremo, uomini e donne si dedicano in egual misura al culto delle novità e delle preziosità... Nel secolo di Luigi XIV il costume maschile è ancora più elaborato, infiocchettato, ludico...che non l'abito femminile... Perché la moda maschile si eclissi dietro quella femminile bisogna attendere la <<grande rinuncia>> del XIX secolo, quando i nuovi canoni dell'eleganza virile (sobrietà, discrezione, rifiuto di colori ed orpelli) fanno della moda e dei suoi artifici una prerogativa femminile.

La <<grande rinuncia>> della moda maschile alla decorazione e ai preziosismi, quindi, fa sì che questi elementi vengano a connotarsi come "femminili": infatti, solo alla donna è socialmente permesso l'uso di vestiti ricchi

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sia dal punto di vista decorativo che di quello dei materiali. Ai maschi rimane la magra consolazione di ricavare indirettamente prestigio dall'eleganza femminile: una buona immagine sociale del borghese, infatti, dipende anche dal fatto che la propria coniuge sappia vestirsi in modo adeguato in società. Ritornando agli anni '60 in Italia, quindi, fenomeni come gli abiti maschili fortemente decorativi e i capelli lunghi implicano una rottura profonda a livello di costume. Tanto più che l'Italia, agli inizi degli anni'60, è, più di altri, un paese dove l'abbigliamento è estremamente uniforme e sobrio. E' così comprensibile l'allarme sociale generato dall'apparizione della nuova moda maschile -capelli lunghi e abiti con forti elementi decorativi-, sfociato nelle persecuzioni di Genova e Roma da parte della polizia, contro cui protestarono i sostenitori della Linea Gialla del beat italiano -Tenco, Dalla e compagni- nel manifesto del '66 pubblicato su <<Big>> e già ricordato. L' "antimoda" beat in Italia risulta essere influenzata sia dalle stravaganti proposte vestimentarie delle rockstar britanniche, di cui abbiamo parlato, sia dal contemporaneo movimento hippy americano. Tra le testimonianze raccolte da Fernanda Pivano nel doppio volume L'altra America ne troviamo alcune, infatti, che confermano la linee generali del cambiamento nel vestire maschile: l'hippy <<decora il proprio corpo come un'opera d'arte. Lo ricopre di collane, lo dipinge, lo addobba con i colori dell'arcobaleno e nello stile composito formato dalla mescolanza stridente di tutti i tempi e di tutti i paesi...>>. Anche a proposito dei capelli lunghi si può leggere un passaggio significativo: <<i capelli

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crescono, sì fluiscono: guarda ancora: non è bello?! I capelli tenuti lunghi quando sono in grado di crescere possono essere considerati solo una cosa desiderabile sul piano estetico. Che altra funzione hanno? ... Perché ti tagli la bellezza ogni giorno, ogni settimana, ogni mese?>>. Nonostante le differenze particolari tra subculture, quindi, negli anni'60 si verifica una profonda linea di frattura per quanto riguarda l'estetica dell'abito maschile In Italia, in quegli anni, alcuni cercarono di sintonizzarsi sulle onde delle nuove tendenze, cercando di rispondere alla crescente domanda dei giovani di un nuovo modo di vestire. Basti ricordare, a titolo di esempio, la catena di negozi Equipe 84 e Fiorucci. La catena di negozi Equipe 84 è un caso, per certi aspetti, unico. Nasce da una società, la Equipe 84 Saloon, sorta dall'iniziativa di Bruno Manturini e Pierre Farri, agente dell'Equipe 84, il più famoso gruppo di beat italiano degli anni '60. L'idea è quella di utilizzare l'immagine del gruppo musicale per distribuire abiti, prodotti per l'80% in un'azienda di abbigliamento di Trecate, in provincia di Novara. A cavallo tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70 vengono aperti, utilizzando il sistema del franchising, 6 negozi a Milano e 38 in tutta Italia. Il gruppo musicale partecipa alle inaugurazioni, assicurando un'attenzione immediata da parte dei giornali, letti proprio dal pubblico a cui le boutiques si vogliono rivolgere. La produzione, soprattutto di moda maschile, ha un'immagine d'avanguardia, legata alle trasgressioni di stile tipiche dell'Equipe 84: camicie di tessuto per strofinacci da cucina, di pizzo, di velo trasparente, di raso damascato, giacche stile guru in batik indiano, abiti confezionati con

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tessuti per arredamento o per abbigliamento ecclesiastico, ponchos, stivali alti, giacche di pelle stile tramviere, bisacce, collane hippy. Il grosso della produzione, dietro questa facciata quasi provocatoria, è in realtà di abiti molto più mettibili anche se caratterizzati da un taglio molto in linea con i tempi: giacche attillate con spalle insellate, calzoni a vita bassissima, aderenti fino al ginocchio e scampanati in fondo. Grande interprete delle nuove tendenze, a cavallo tra gli anni '60 e'70, è stato sicuramente Elio Fiorucci, che nel 1967 apre una boutique a Milano in Galleria Passarella . Aveva iniziato la sua attività lavorando per il negozio di calzature del padre e nel 1962 ne aveva aperto in via Torino uno suo, sempre di calzature, per il quale aveva iniziato una produzione molto fantasiosa. Famose erano diventate, proprio nel 1962, le galosce colorate, gli stivali in tutte le tinte, compreso l'oro e l'argento, i sandali in plastica con margherite applicate, gli zoccoli, le scarpe di corda, i mocassini multicolori di velluto a coste,e, con l'arrivo della minigonna, gli stivali calza alti fino a metà polpaccio. Il negozio in Galleria Passarella è su tre piani ed è allestito da Amalia Dal Ponte in stile modernissimo, utilizzando tra l'altro scaffalature in acciaio sottile con ripiani in plexiglass bianco, lampade alogene e sedili da trattore smaltati al posto dei tradizionali sgabelli. Le ragazze addette alla vendita sfoggiano gli abiti più appariscenti di Fiorucci, e la musica rock suona ininterrottamente a tutto volume. Per l'inaugurazione viene organizzata una sfilata nella vetrina con modelle in minigonna e con pantaloni aderentissimi e scampanati. La folla è tale che devono intervenire i vigili.

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Nel negozio si vendono scarpe, accessori, magliette, maglioni, pantaloni per uomo e donna, minigonne hot pants. Quasi tutto all'inizio è di produzione esterna, importato da ogni parte del mondo: prima da Londra (Carnaby Street, Portobello Road, Kensington Market), poi anche da Parigi, dagli Stati Uniti, dall'Oriente, dal centro e sud America. La produzione di Fiorucci si limita a scarpe, stivali e sandali e accessori come bisacce in pelle stile western, borse pop, cinture e cinturoni a stelle o con paesaggi e farfalle applicate. Dopo il 1969 si aggiunge una prima e sporadica produzione di abiti, quali minigonne di panno lenci ad ampi spicchi colorati, camicioni da pittore con carré davanti in tinte unite, scozzesi o a fiori, magliette aderenti di tutti i colori con stampati fiorellini provenzali, jeans scampanati con papaveri ricamati. Il negozio sforna novità a ritmo continuo. La velocità nel captare le richieste del pubblico e dar loro una risposta è una delle ragioni del successo di Elio Fiorucci, il quale sostiene che una nuova moda per essere efficace deve raggiungere il mercato entro 15 giorni. Fiorucci capovolge così i vecchi criteri commerciali, che assegnano al negozio un ruolo passivo tra produttore e consumatore. Il pubblico di Fiorucci è molto più vasto di quello abituale delle boutiques. I prezzi sono bassissimi, accessibili proprio alla massa dei giovani che costituiscono il vero grande mercato che si è aperto alla nuova moda. La qualità dei tessuti e della confezione spesso non è molto elevata, ma il costo particolarmente contenuto rende anche possibile una nuova filosofia di acquisto, che prevede tempi brevi di utilizzo e continui rinnovamenti. Allo stesso tempo l'offerta molto eterogenea dei capi in vendita lascia liberi i

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compratori di selezionare tra un numero di alternative molto maggiori del solito, e stabilire così una propria immagine, indipendentemente dai dettami della moda del momento. Fiorucci non è uno stilista in senso proprio, per sua stessa ammissione. La sua attività si sviluppa gradualmente, dal semplice acquisto di vestiti di altri a una produzione in gran parte imitata, fino ad affermarsi con una propria impronta riconoscibile in tutto il mondo. La sua abilità è quella di reinterpretare e riproporre cose già esistenti, senza pregiudizi sui materiali o sui colori. Tipici in questo senso sono la tuta tradizionale militare riproposta in rosa shocking o la salopette di carta, lavabile in lavatrice fino a dieci volte. Durante gli anni'60, accanto a questi innovatori, si sviluppa il mercato della confezione che, però, non riesce ancora a trovare una propria identità, limitandosi, per lo più, a copiare le proposte dell'Alta Moda. I valori che si affermano con la confezione sono riconducibili alla vestibilità: si esprime, in sostanza, il concetto "fatto meglio che dal sarto". Nel 1965, in un servizio dedicato alle grandi sarte apparso sul Corriere della Sera , Mila Schon, alla quale viene chiesto se a suo avviso la confezione abbia le carte in regola per imporsi sempre più, afferma che il futuro è della moda pronta, a condizione che prenda esempio dalla confezione americana, aumentando cioè di molto il numero delle taglie "per offrire la massima garanzia di una perfezione bell'e pronta". La confezione, concepita in questi termini, risulta essere passiva: attende che le nuove idee discendano dall'Olimpo dell'Alta Moda, per riprodurle poi in serie.

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Risponde, così, ad un processo ristrutturazione profonda della società che chiede anche una democratizzazione della moda. Gli anni '50 avevano segnato l'affermazione dell'american way of life , fatto di cibi industriali, automobili, gadgets domestici, oggetti in plastica, tutte cose assolutamente nuove rispetto alle abitudini di consumo dell'Italia tradizionale, orientate sull'idea di "focolare domestico", di cibi genuini, di prodotti artigianali, ecc. Il consumo del "nuovo" risponde, in primo luogo, all'esigenza d'integrazione nella nuova società urbana industriale. Negli anni '60, invece, emerge una forte ed allargata esigenza di distinzione, coerente con un'accelerata mobilità sociale. Al consumo delle "novità", tipico degli anni'50, si sostituisce, quindi, durante gli anni '60, il consumo di beni che rispondono al bisogno di distinzione. In questo periodo il lusso vestimentario comincia a diventare fenomeno di massa. Per dirla con le parole di Hirsch, contenute nel suo saggioI limiti sociali dello sviluppo , edito da Bompiani, componenti "posizionali" cominciano a presentarsi intensamente nel settore della moda. Fino a quel momento, infatti, il lusso vestimentario aveva riguardato unicamente le classi superiori. Solo ai livelli più elevati della società cioè circolavano capi costosi e fogge originali. Agli altri livelli, invece, o giocava fortemente il ruolo della tradizione -ad esempio nel mondo rurale- o ci si accontentava di imitazioni a buon mercato di ciò che si presumeva fosse di moda tra le elites agiate. Negli anni del boom economico, invece, il lusso vestimentario comincia a diventare un ragionevole obiettivo per larghi strati di popolazione. La grande ripresa

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economica della metà degli anni'60 aveva provocato una ricomposizione del sistema di stratificazione sociale, in particolare un suo allargamento. Aumentava, cioè, a tutti i livelli della stratificazione la disponibilità di posizioni sociali: tutti sono spinti a fare qualche passo in avanti, a guadagnare una posizione migliore. Ma è proprio questo processo di ristrutturazione sociale a comportare un'accentuazione dei fenomeni di simbolizzazione dello status. Per essere socialmente riconosciuti i passaggi di status richiedono, infatti, l'esibizione di una prova. Diventano perciò importanti i "segni di riconoscimento". Ecco perché, a proposito degli anni '60, si parla di consumismo della "distinzione". La confezione, quindi, offre l'opportunità di esibire il raggiungimento di un nuovo status, fungendo da segno visibile di quella dinamica di democratizzazione del consumo signorile, presente in tutti gli ambiti merceologici.