M. Barletta, Tra marosi e nebbie

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    Mariano Barletta Tra marosi e nebbie Seconda parte

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    Mariano Barletta

    Tra marosi e nebbie

    Memorie di un sopravvissuto all'eccidio di Cefalonia

    Seconda parte

    Indice

    Psom ch tir 2

    Col bordone e la bisaccia 9

    Da Socrtis 16Dall'inverno alla primavera 24

    Marius 35

    Sulla via del ritorno 48

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    Signore, fa ch'io mi ricordi!

    ... Nulla pi soave,

    Dio, che la fine del dolor; ma molto

    duole obliarlo; ch gettare grave

    il fior che solo odora quando colto.

    (G. Pascoli)

    8 - Psom ch tir

    Con il ritorno, dopo appena un giorno, a quel villaggio rupestre dal quale eravamo par-

    titi con tanta speranza, ebbe inizio un nuovo corso della mia odissea che, pur riservandomi pri-

    vazioni, sofferenze, ore d'indicibile tristezza e profondo sconforto, segn tuttavia la svolta deci-

    siva affinch un giorno, purtroppo ancora lontano, potessi ritornare a casa.

    Continuare a ritenere possibile un rimpatrio pi o meno prossimo, come ci aveva fatto

    intendere il partigiano incontrato per primo a Spilea, era ormai pura illusione dopo le inequivo-

    cabili prove di disinteresse della nostra sorte da parte di chi avrebbe dovuto condurci ad uno dei

    commandi inglesi che, ad onta della presenza delle truppe tedesche, erano sparsi un po' dovun-

    que sul suolo greco. Per il momento, quindi, l'unica cosa che potevamo fare era di tenerci nasco-sti in una localit recondita, lontana dai grandi centri urbani e raggiungibile con una lunga mar-

    cia a dorso di mulo e Achir, per la sua ubicazione del tutto rispondente a questi requisiti, ci

    parve che facesse proprio per noi.

    I tre soldati - Giuseppe Arrigo, Domenico Curci ed Ernesto Settimio - che con me e De

    Angelis avevano fatto ritorno al villaggio, senza troppe difficolt trovarono conveniente lavoro

    agricolo sul posto in cambio di vitto, alloggio e qualche indumento usato; Giuseppe ed Ernesto

    presso contadini benestanti, Domenico presso il pope che aveva anche lui qualche campicello da

    coltivare. Pertanto, soltanto per me e De Angelis si present il duplice problema: dove trovare

    ricetto e come provvedere al quotidiano sostentamento. Il primo fu risolto merc la magnanimit

    di Travalos, proprietario della capanna, che ci autorizz a farne la nostra dimora; il secondo fu

    risolto da noi stessi: affidandoci alla divina Provvidenza.

    Cominci cos una nuova vita tra quei montanari; contadini e pastori che spesso, concerti occhi neri e penetranti, avevano un aspetto burbero, forse anche truce, ma quasi sempre

    l'animo generoso.

    Ad ogni levarci al mattino, ci si domandava: chi ci dar da mangiare? Non era certa-

    mente facile prevederlo ed a volte pareva proprio che fossimo condannati al digiuno, ma, in ve-

    rit, per oltre un anno, non ci fu un giorno senza che qualcuno spontaneamente non venisse a

    noi col pane quotidiano.

    Non appena la luce del nuovo d si diffondeva nella capanna attraverso i numerosi spi-

    ragli, balzavamo in piedi dal nostro giaciglio di foglie di granturco; come buone massaie mette-

    vamo un po' d'ordine e quindi salivamo al villaggio. Giunti a quel larghetto rupestre che, con un

    po' di fervida immaginazione, poteva ritenersi la piazza principale, andavamo a sederci in un ri-

    trovo sui generis che gli abitanti del luogo chiamavano "magas".

    Era questo un vano rettangolare, circa tre metri per cinque, al quale si accedeva attraver-

    so una porta situata in un angolo. L'interno, imbiancato a calce, riceveva luce da tre piccole fi-

    nestre, due nella parete pi corta a sinistra di chi entrava, la terza nella stessa parte della porta.

    L'arredamento, in legno grezzo, era costituito da un paio di tavoli, da panche aderenti alle pareti

    e, in fondo a destra, da un banco di vendita dietro il quale, connessa alla parete c'era una scaffa-

    latura. Sul banco, immancabilmente, stava una bottiglia di anice con qualche bicchierino, oltre

    un annerito bricco per preparare la scura infusione che veniva detta caff. Sui ripiani della scaf-

    falatura, incredibile a dirsi, erano in mostra numerosi astucci azzurro scuro di "Super iride" un

    prodotto italiano abbastanza noto in quel tempo, consistente in polvere colorante per tingere in-

    dumenti. Il ritrovo era gestito da due giovanotti, due fratelli molto garbati, con la collaborazione

    della vecchia madre, ma quale utile ricavassero da quell'attivit era difficile capire.

    Quando io e De Angelis si entrava, scandendo un deferente "kalimra" l'attivit com-merciale del magazzino era gi bene avviata; dietro il banco di vendite, il pi atletico dei due

    fratelli era affaccendato con l'anice, col bricco, con i coloranti e sulle panche - se non era un

    giorno di pienone, per la ricorrenza di una festivit o perch la pioggia imponeva di stare al

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    chiuso - i pochi frequentatori abitudinari erano gi ai consueti posti. Pi o meno avanti negli an-

    ni, portavano il copricapo tondo e floscio a mo' di papalina, la corta cappa appesa alla spalla si-

    nistra, la pipa abilmente ricavata da un ramo di noce, un sacchetto con le foglie di tabacco ed il

    "macheri", l'immancabile coltello dalla lama curva, spesso di fattura pregiata, atto a tutti gli usi,

    custodito nella guaina mantenuta al fianco sinistro dalla fascia che girava intorno alla vita.

    Poi, col progredire del mattino, venivano altri ancora, meno anziani o giovani, unica-

    mente per incontrarsi, per parlare dei fatti del giorno o per giocare a poker, mentre le loro donne

    erano impegnate in duri lavori: attingere l'acqua che sgorgava a monte, da un anfratto della roc-

    cia; trasportare fascine per il focolare domestico; lavare il grano nelle acque del torrente che

    scorreva in fondo alla valle.

    Di preferenza, noi si andava a sedere presso la seconda finestra a sinistra, non lontano

    da una carta dell'Europa attaccata alla parete e grande quanto un comune atlante scolastico, e

    rimanevamo l lungo tempo, ora cercando d'identificare, sulla minuscola rappresentazione del

    continente insanguinato, le posizioni dei belligeranti, ora cercando di capire qualche cosa del-

    l'incomprensibile conversare di quei lontani discendenti degli Achei.

    Le discussioni su argomenti di poco conto, rivelando facilmente una sostanziale conver-

    genza di opinioni, erano serene, ma quando si affrontavano questioni spinose come il futuro as-

    setto sociale del paese, allora il divario delle idee a poco a poco riscaldava gli animi e il tonodelle voci raggiungeva altezze inusitate. Qualcuno balzava in piedi, arringava con veemenza e,

    gesticolando, pareva che volesse rafforzare l'espressione verbale del suo pensiero servendosi del

    bastone; l'oppositore reagiva in uguale misura e a volte sembrava che la contrapposizione delle

    argomentazioni stesse per degenerare in una zuffa; invece niente di questo: gradualmente le voci

    riprendevano la normale tonalit, il gesticolare veemente scemava, ciascuno ritornava alla sua

    panca ed infine i protagonisti di quella buriana, da buoni amici, lasciavano insieme il magazzi-

    no.

    Poco dopo il mezzod, gli avventori, annoiati della prolungata inerzia fisica e forse an-

    che perch sollecitati dal richiamo del desco, a uno o a due la volta prendevano la via di casa ed

    era a tal punto che qualcuno, leggendoci in viso la grande pena che ci avvinceva, sommessa-

    mente domandava:

    "Psom?" - oppure, ricorrendo ad un italiano storpiato, ma pi intelligibile - "Mange-ria?"

    No, non avevamo nulla da mangiare e allora il buon'uomo c'invitava a seguirlo e giunti

    alla casa, facendo uso dell'inseparabile coltello col quale poco prima aveva triturato foglie di ta-

    bacco e raschiato internamente il fornello della pipa, ci dava quanto poteva di "psom ch tir", il

    pane di granturco poco lievitato ed il formaggio pecorino pazientemente lavorato a mano con la

    zangola, i due commestibili di grande consumo locale.

    Nei rari casi di una maggiore disponibilit di generi alimentari, il nostro benefattore

    c'invitava ad entrare nel suo alloggio, a sedere alla turca insieme a lui, davanti al rudimentale

    camino per cuocere le vivande, e l la buona donna di casa ci dava da mangiare un piatto caldo,

    quasi sempre il tradizionale "dragan", un miscuglio di grano e latte essiccato al sole e conser-

    vato per l'inverno.

    In quel primo periodo della nostra permanenza clandestina ad Achir, oltre Travalos,che ci concesse l'uso della capanna, ci dimostrarono una particolare benevolenza due giovani,

    Vassili e Pips, appartenenti entrambi ad un'organizzazione segreta per la liberazione della Gre-

    cia, ma con finalit politiche non molto chiare. Spesso si allontanavano dal villaggio per breve

    tempo, ma quando erano al magazzino e pareva che per quel giorno le vie della provvidenza

    fossero ostruite, l'uno o l'altro, se non poteva provvedere di persona, sapeva a chi rivolgersi per-

    ch non ci mancasse il pane.

    Se non pioveva, il pomeriggio lo trascorrevamo lontano dal magazzino e dalla capanna,

    sdraiati a terra in qualche posticino appartato tra le rocce, al cospetto della valle che intristiva

    sempre pi col declinare dell'autunno. Quando potevano, si univano a noi i tre soldati e l, in

    cinque, le ansie e le pene di ognuno trovavano conforto nelle ansie e nelle pene degli altri.

    Ernesto e Giuseppe, due ragazzi di gran cuore, molto bravi nei lavori campestri, se la

    passavano abbastanza bene, ma ancor meglio Domenico in casa del pope, un brav'uomo dal viso

    schietto sul quale, nella cornice nero ebano della folta chioma e della lunga barba, spiccavano

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    gli occhi lucidi e sereni ed i baffi spioventi; questo ministro della religione greco-ortodossa

    l'aveva come di famiglia e forse non sarebbe stato alieno di dargli in moglie una delle figlie.

    Verso sera, scendendo a valle per rinchiuderci nel rifugio, passavamo davanti alla chie-

    setta che veniva aperta al culto nelle ore antimeridiane della domenica e dei giorni di particolare

    ricorrenza, e di l costeggiavamo il cimitero, una radura circoscritta da un muretto a calce ove,

    tra sterpi ed erbacce, non sempre era facile identificare le tombe.

    Giunti alla capanna, accendevamo con le dovute cautele un bel fuoco a pi della parete

    di fronte alla porta d'ingresso. A volte la legna non era sufficiente ed allora, mentre De Angelis

    s'industriava a mantenere viva la fiamma, io mi avventuravo nei dintorni a raccogliere rami sec-

    chi e quant'altro potesse essere utile; una sera, mosso dall'ansia di fare una buona provvista di

    legna, mi spinsi molto pi lontano e da una baracca in legno la cui costruzione appariva sospesa

    da lungo tempo, sfilai una trave di circa tre metri e la portai alla capanna. Il mio compagno di

    sventura ne fu compiaciuto, ma con qualche riserva perch, giustamente, bisognava evitare di

    arrecare danni a quanto apparteneva a quella brava gente.

    Per quanto fossimo sul finire dell'autunno ed immersi nell'umidit notturna della valle,

    l'accensione del fuoco, pi che per riscaldarci, era dovuta alla necessit d'illuminare la capanna

    e di impegnarci in un passatempo. Seduti uno per lato accanto alla fiamma, rimanevamo l lungo

    tempo ad attizzare, a parlare di quanto ci era occorso durante il giorno, a rinvangare, se eravamoin vena, cose del nostro passato, a vagheggiare disegni per l'avvenire.

    "Quando sar a Roma, scriver un romanzo intitolato: Psom ch tir." - disse una di

    quelle sere De Angelis alludendo alla quotidiana elemosina di pane e formaggio che costituiva

    una delle cose pi caratterizzanti il nostro tenore di vita ad Achir. Invero, non sapevo quanta

    credibilit si potesse accordare a quel manifestato proposito, ma sta di fatto che anch'io pensavo

    che il ricordo di quel duro periodo della mia vita non dovesse disperdersi nelle nebbie dell'oblio;

    a questo fine, anzich affidare tutto alla memoria, sarebbe stato utile stendere un diario, cosa che

    mi avrebbe anche tolto dall'assoluta inerzia cerebrale, ma dove trovare un quadernetto e una

    matita?

    Durante uno di quei colloqui accanto al fuoco, improvvisamente la porta venne aperta e

    sullo sfondo buio della notte che tetra incombeva sulla valle, apparve un giovane, un pastore

    ben piantato che non conoscevamo, ma che sapeva di noi. Entr proferendo il rituale "kalinikta"e, come se ci conoscessimo da lungo tempo, venne a sedere fra noi, davanti al fuoco, e mentre

    s'informava ancor meglio delle nostre cose passate e presenti, tir fuori dalla bisaccia che porta-

    va a tracolla una schiacciata di granturco e, staccatene tre grosse fette, su entrambi i lati di cia-

    scuna, con la punta del coltello, pratic lunghe e profonde incisioni che s'incrociavano ed infine,

    sostenendole con mucchietti di cenere, le dispose verticalmente a breve distanza dalla brace.

    Quando, dopo avere invertito ciascuna faccia gli parve che le tre fette fossero abbrustolite al

    punto giusto, ne diede una a ciascuna di noi perch gli facessimo compagnia nella cena.

    Quel pastore, che aveva nome Iorg, curava un gregge di sua propriet di oltre cento pe-

    core che, secondo la consuetudine locale, erano tenute all'aperto giorno e notte con continui

    spostamenti da un pascolo all'altro; rifornito di pane e formaggio ogni tre quattro giorni da un

    galoppino, egli rimaneva lontano dalla casa anche due settimane, senza mai svestirsi e dormen-

    do avvolto nella cappa accanto al gregge, quando i lupi gli consentivano di dormire.Dopo quella prima visita, altre ne seguirono, sempre alla stessa ora, sempre con l'offerta

    di fette di schiacciata e qualche volta anche di tabacco che il pastore triturava minuziosamente,

    prima di darne parte a De Angelis perch ne facesse una sigaretta. Tutto questo, naturalmente,

    mentre si parlava degli ultimi eventi bellici di cui vagamente si sapeva; dei tedeschi che ancora

    non si accingevano a ritirarsi dalla penisola balcanica; della sua vita randagia con le pecore, e

    quando tutto ci veniva a noia allora il pastore si compiaceva d'insegnarci la numerazione in

    lingua greca: na, do, tra dca ecaton

    Trascorsi i primi giorni ci accorgemmo che nella capanna non eravamo soli; attratti for-

    se da qualche avanzo di granaglie, un imprecisato numero di grossi topi si aggirava soprattutto

    fra le secche foglie di granturco quando non si avevano sortite all'aperto.

    "Vai via!" - gridava talvolta De Angelis quando, col suo udito fine, avvertiva che l'in-

    traprendenza di uno di quei roditori stava per passare ogni limite. Alla perentoria intimazione

    seguivano alcuni secondi di silenzio assoluto, poi quell'immonda bestiaccia riprendeva a trame-

    stare le foglie. Si andava avanti cos per circa un paio d'ore poi, sia perch stanchi, sia perch le

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    braci erano per spegnersi, coprivamo quel fuoco residuo con uno strato di cenere ed infine an-

    davamo a distenderci sulle foglie, sempre allo stesso posto per non renderle tutte poco gradite al

    palato dei cavalli e dei muli ai quali erano riservate. Cominciava cos il tormento delle intermi-

    nabili ore al buio.

    Il pope, sollecitato da Pips, aveva donato a ciascuno di noi un piccolo consunto tappeto,

    di quelli che nei giorni di particolare solennit religiosa venivano distesi sul pavimento della

    chiesa, noi l'usavamo a mo' di coperta per difenderci alquanto dal freddo umido che cominciava

    a farsi sentire durante la notte.

    Giacendo su di un fianco sotto quel ruvido drappo alquanto rigido, che invano cercavo

    di tenere aderente al corpo, dopo il primo sonno propiziato da una giornata di pensieri assillanti,

    tante volte mi svegliavo con la poco lieta constatazione auditiva che un topo, tra la massa delle

    foglie, non era lontano dalla mia testa. Atterrito al pensiero di trovarmelo da un momento all'al-

    tro sul viso, cominciavo a tempestare di pugni il giaciglio, sperando che l'importuno roditore,

    spaventato, si allontanasse, ma, purtroppo, il mio battere aveva scarsa efficacia. Mi venne allora

    l'idea di munirmi di un vincastro di sufficiente spessore da infilare verticalmente tra le foglie

    quando avvertivo che quella specie di perforatrice animale era in azione; passai cos alla difesa

    attiva, ma non senza trepidazione perch sapevo che, se la punta del vincastro avesse casual-

    mente colpito il topo, c'era da temere la sua violenta reazione aggressiva, tanto pi temibile inquanto ero nell'assoluta oscurit.

    Purtroppo quei roditori, oltre a turbare la quiete notturna, ci procuravano anche danni

    materiali senza che potessimo in alcun modo contrapporre adeguati accorgimenti protettivi. Un

    pezzetto di sapone per la barba, donato da Vassili e subito, con grande cura, posto in una cavit

    a mezza altezza di una delle pareti, il mattino seguente non c'era pi, come non trovammo pi

    un grosso pezzo di pane che ponemmo sospeso come un lampadario al centro della capanna, al-

    l'estremit di un groviglio di fil di ferro spinato. Come se non bastasse, ci accorgemmo un mat-

    tino che durante la notte i tappeti erano stati qua e l abbondantemente rosicchiati.

    La forzata convivenza con quegli esseri ripugnanti mi condusse ad una singolare con-

    statazione: all'alba, quando il giorno si annunziava radioso, la loro attivit era frenetica; agilis-

    simi e fulminei si rincorrevano con acuto squittire da un capo all'altro sulle travi che reggevano

    il tetto, senza alcun timore di noi che, esterrefatti, stavamo a guardare; quando invece l'alba eracupa o senz'altro pioveva, se ne stavano tranquilli e silenziosi nelle loro tane. In seguito consta-

    tai che anche nelle notti di pioggia non si udiva il tramestare delle foglie; indubbiamente quei

    nostri indesiderati coabitanti erano sensibilissimi allo stato del tempo.

    Una notte, dopo il primo breve sonno, profittando che i topi non m'importunavano, me

    ne stavo zitto zitto sotto la rigida coltre e rimuginare il passato, quando De Angelis, che come

    me non riusciva a riaddormentarsi, accortosi che ero sveglio, mi rivolse all'improvviso una do-

    manda scellerata:

    "Che ne dici, mangeresti due uova al tegame?"

    E qui - senza che mi desse il tempo di rispondere che, date le circostanze, due soltanto

    erano poche, ma che comunque le avrei trangugiate - mettendo in mostra una certa conoscenza

    di buona cucina, con una meticolosit da gastronomo, De Angelis prese a dirmi come inizial-

    mente si debba sciogliere il burro nel tegamino e con quali accorgimenti si ottenga il tuorlomolle e caldo nel bianco ben rattrappito.

    Da quella notte, quando non si riusciva a dormire, il mio amico non fu avaro di disqui-

    sizioni gastronomiche ed io, spinto dal ricordo di tanti intingoli che per la privazione prolungata

    cominciavano a farmi gola, a poco a poco provai piacere ad interessarmi a quelle particolareg-

    giate esposizioni, degne di un'esperta donna di casa, fino a farmene un'ossessione al punto che,

    quando non era De Angelis a montare in cattedra perch dormiva, ero io a ripetere mentalmente

    quanto ricordavo di quelle ricette di culinaria apprese in circostanze cos singolari.

    Ma pi che per le assidue visite del pecoraro, pi che per l'incessante attivit subdola

    dei topi e le appetitose disquisizioni di De Angelis, le mie notti di quel primo periodo trascorse

    in quella recondita capanna della valle solitaria ai piedi di Achir, si distinsero dalle altre che

    seguirono per il costante impegno del mio inconscio a voler raccontare ai miei familiari la terri-

    ficante disavventura. Sempre che mi addormentavo, in un modo o in un altro, sognavo di arriva-

    re a casa dopo lungo cammino e di trovarvi tutti i miei cari, anche quelli che dai lontani giorni

    della mia giovinezza non erano pi di questo mondo; stavano tutti l come se si fossero riuniti

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    nell'attesa del mio ritorno, immobili e muti, ma non appena mi accingevo a raccontare, iniziando

    il mio dire sempre con le stesse parole:"Voi non sapete quanto mi capitato " istantanea-

    mente dal sogno passavo alla realt e sul momento ci restavo male.

    Mentre andavamo lentamente abituandoci a quel tenore di vita che, tra la capanna ed il

    magazzino, era terribilmente monotono e tetro anche per il sopraggiungere dei primi acquazzoni

    invernali, il mercoled 8 dicembre, sul tardi di un malinconico pomeriggio, avviandoci io e De

    Angelis alla dimora, c'imbattemmo nei pressi del cimitero in Travalos il quale, dopo i consueti

    convenevoli, sempre sulla bocca di quegli uomini semplici, premurosamente c'inform che al

    villaggio erano giunti dei militari inglesi. Essendo Achir un aggregato di poche decine di casu-

    pole sparse qua e l sul declivio di una montagna, ci parve strano che un siffatto avvenimento ci

    fosse sfuggito e mostrammo pertanto una certa incredulit, ma l'altro fu categorico nel confer-

    mare, anzi ci consigli di presentarci ad essi perch ne avremmo potuto trarre qualche insperato

    aiuto.

    Rientrati al rifugio e messici come di consueto accanto al fuoco, stemmo un bel po' col

    pensiero intorno a quella nuova del tutto inaspettata. Indubbiamente, trattatasi di un commando

    venuto a stabilirsi ad Achir con chi sa quali compiti specifici non aventi nulla a che vedere con

    la tragedia di Cefalonia; presentandoci, come saremmo stati accolti da questi ex-nemici? D'altraparte, se era vero che gl'inglesi provvedevano al rimpatrio degli ufficiali italiani datisi alla mac-

    chia, come non potevamo non approfittare della favorevole occasione per un primo approccio?

    Sebbene con scarsa propensione, stavamo cercando il momento propizio a presentarci,

    quando nel pomeriggio del giorno seguente, mentre ce ne stavamo seduti all'aperto nei pressi del

    magazzino, vedemmo un tenente inglese, biondo e mingherlino, sulla soglia di una delle capsule

    sottostanti ove abitava il capo del villaggio; in breve decidemmo di parlargli e, detto fatto, per-

    corso il breve tratto di viottolo in discesa ci avvicinammo all'ufficiale. Dapprima, ritenendo che

    fossimo greci, ci guard benevolmente in attesa che gli dicessimo cosa si voleva, ma non appe-

    na ci qualificammo, i muscoli facciali gli si contrassero e gli occhi limpidi e chiari divennero

    irati tra le palpebre aggrottate.

    "Ah ah, siete italiani!" - disse sogghignando -"Noi non abbiamo pi nulla da dirci:

    molt'acqua passata sotto i ponti del Tamigi "A queste dure parole, parte in italiano, parte in francese, dette enfaticamente come se

    fossimo stati noi gli autori della reboante dichiarazione di guerra fatta dal famoso balcone, ci

    sentimmo raggelare ed augurata la buona notte a quel fiero figlio di Albione, battemmo in riti-

    rata.

    Dopo quell'infelice approccio, venimmo alla determinazione di lasciar perdere gl'inglesi

    venuti al villaggio, ma quel dignitoso proposito non pot reggere a lungo alle sollecitazioni di

    quanti, giorno dopo giorno, ci davano di che campare i quali, non potendo comprendere quanto

    male ci avessero fatto quelle parole, non sapevano capacitarsi perch fossimo tanto riluttanti a

    tentare ancora un approccio con chi poteva aiutarci.

    Naturalmente, non era neanche da pensarci di riprendere il discorso col tenente biondo e

    mingherlino che poi, come ci fu riferito, non era neanche il pi alto in grado, dell'esiguo gruppo

    di ufficiali e sottufficiali paracadutato perch spiasse le mosse del nemico. Il commando era agliordini di un maggiore che, con luccicanti monete d'oro, aveva allontanato da una casupola soli-

    taria, posta in alto sul declivio della montagna, quanti vi dimoravano e vi si era installato con i

    suoi uomini e la potente radio ricetrasmittente: era dunque al maggiore che dovevamo presen-

    tarci, poco curandoci dell'acqua defluita sotto i quindici ponti di Londra.

    Quando, con ancora una certa perplessit, io e De Angelis varcammo l'ingresso della ca-

    supola, contrariamente a quanto si temeva, fummo accolti con bonariet da un ufficiale alto e

    ben piantato il quale, con fare da gentleman, fug subito dal nostro animo ogni titubanza. Era

    costui il maggiore Le Brocq, nativo di una di quelle isolette di nazionalit britannica molto pros-

    sime alla costa francese del Golfo di Saint Malo; con l'ausilio di un sergente che conosceva ab-

    bastanza l'italiano, per essere stato a lungo nel nostro paese al sevizio dello spionaggio inglese,

    al tempo dei balenanti discorsi all'ombra degli otto milioni di baionette, gli dicemmo chi erava-

    mo, donde venivamo e come fossimo scampati all'eccidio e giunti poi ad Achir. Il maggiore,

    che certamente gi sapeva del dramma di Cefalonia, dopo averci ascoltato con comprensione,

    domand cosa intendessimo fare.

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    "Vorremmo rimpatriare." - rispondemmo senza esitazione.

    Sapevamo che non era cosa facile, ma il maggiore non fece obiezioni; ci disse anzi che

    ad intervalli pi o meno brevi, col favore della notte, un sommergibile inglese imbarcava uffi-

    ciali italiani al largo di Parga e li trasportava in patria. Occorreva quindi che con pi giorni di

    marcia ci recassimo nei pressi di quel piccolo porto di pescatori, all'imbocco dello Stretto di

    Corf, transitando per Brianza ove, da un altro commando inglese, avremmo ricevuto ulteriori

    istruzioni. A noi non pareva vero; soltanto, sentendoci in obbligo di avvertire i soldati che ave-

    vano riposto tanta fiducia in noi, ci riservammo di fissare il giorno della partenza.

    Rimanendo ancora a parlare del pi e del meno, ci fu offerto un bicchierino di gin molto

    forte e, tra un sorso e l'altro, venni a sapere che il maggiore, da civile, era ufficiale della marina

    mercantile e che prima di essere incorporato nei paracadutisti, allo scoppio della guerra era stato

    arruolato nei carristi ed inviato sul fronte cirenaico ove gl'inglesi, inizialmente, non avevano pi

    di quattro carri armati; quindi, all'inizio delle ostilit, se avessimo avuto una preparazione mili-

    tare efficiente, avremmo potuto spingerci facilmente fino ad Alessandria.

    Il fatto che gl'inglesi avessero assegnato ufficiali di marina ai carri armati destinati ad

    operare nel deserto, m'indusse, pur nelle angustie che mi tormentavano, a considerare ancora

    una volta quanto alcune delle nostre massime gerarchie, dalle quali dipendeva la condotta delle

    operazioni belliche, fossero prive di attitudine all'alto posto occupato. Un carro armato che simuove nel deserto sconfinato come una nave in pieno oceano; sempre che sia necessario, chi

    lo guida deve essere in grado di fare il punto e di determinare, altres, la direzione da seguire per

    raggiungere la meta prestabilita e ci possibile soltanto a chi possiede il corredo delle cogni-

    zioni dell'ufficiale di marina. Per siffatto motivo i nostri eroici carristi, nel corso delle varie

    battaglie manovrate tra Bengasi ed El Alamein, spesso si trovavano in difficolt e di ci ne ebbi

    una prova quando, qualche anno prima di partire per Santa Maura, a nome del Prof. Guerra, mio

    collega presso l'Istituto Nautico di Trieste, si present a casa un ufficiale della Divisione Ariete

    e mi preg d'indicargli un metodo spiccio per non smarrirsi nel deserto.

    Dopo l'incontro con il maggiore Le Brocq, la nostra immaginazione, che cominciava ad

    abbandonarsi al torpore della vita vegetativa, ebbe un risveglio di vivacit ed anche le forze fisi-

    che, fiaccate dalla scarsa alimentazione e dai duri disagi, come per incanto parvero rinvigorite.

    Senza indulgere al facile ottimismo, non riuscivamo a non cullare l'idea che forse la nostra odis-sea volgeva all'epilogo.

    I tre soldati, che con me e De Angelis godevano della benevola ospitalit del villaggio,

    venuti a conoscenza di quanto si era convenuto col maggiore inglese, si dichiararono pronti a

    partire e, ritenendo certo che fosse vicino il ritorno a casa, ne informarono, non so come, alcuni

    commilitoni che avevano trovato rifugio in lontani sperduti casolari e questi sventurati, alla no-

    tizia, si affrettarono a confluire su Achir per unirsi a noi quando avremmo iniziato il cammino

    della speranza.

    Presi ormai dall'ansia di passare all'azione, nel pomeriggio del giorno seguente ritor-

    nammo alla sede del commando per ricevere le necessarie istruzioni. Il maggiore Le Brocq,

    sempre con fare compito, fece mettere in tavola una bottiglia di gin con bicchierini, alti invero

    pi del normale, e, tra una sorsata e l'altra, c'inform dettagliatamente dei successivi itinerari da

    seguire nel corso dei cinque giorni fino a raggiungere Brianza. Ci raccomand di essere parti-colarmente guardinghi durante le prime due tappe ed infine, consegnataci una luccicante sterli-

    na, buona a superare, se ce ne fosse stato bisogno, particolari difficolt, cortesemente ci conged

    perch aveva un inderogabile lavoro da compiere.

    Quella notte nella capanna si dorm meno del solito; con me e De Angelis c'erano anche

    due soldati, di quelli venuti dai casolari lontani, e tutti eravamo in preda ad una latente eccita-

    zione che poi, a lungo andare, si manifest con una inconsueta loquela. Il maestro elementare

    che, in De Angelis, da tempo era caduto in letargo, quella notte si dest all'improvviso e, non ri-

    cordo come, prese a sostenere la superiorit del "Pinocchio" rispetto al "Cuore", cosa che m'in-

    dusse a fargli osservare che, trattandosi di due libri aventi finalit diverse perch destinati a let-

    tori con un diverso grado di maturit, ogni raffronto era da escludersi. Si scivol poi su questio-

    ni politiche, sul futuro assetto politico dell'Europa e qui De Angelis profetizz la costituzione di

    un unico stato comprendente tutte le nazioni europee.

    Mentre si facevano queste chiacchierate, che poi altro scopo non avevano che porre la

    sordina al pensiero dominante, cominciai ad avvertire una crescente sensazione dolorosa alla re-

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    gione anale; purtroppo siffatto male l'avevo gi sofferto altre volte e sempre per una causa bene

    identificata, ma con un'alimentazione cos scarsa e primordiale, con un regime di vita come

    quello, quale la causa? Non mi ci volle molto a trovarla: quel benedetto gin ad alto grado alcoli-

    co, sorseggiato pi che altro per compiacere gl'inglesi, aveva ridestato l'antico male contro il

    quale, lo sapevo bene, non avevo nulla per combatterlo se non il riposo assoluto ed invece, di l

    a poche ore, dovevo iniziare il lungo cammino. Se fossi stato solo, certamente avrei potuto ri-

    mandare la partenza, ma, stando con altri, manco a pensarci.

    Finalmente fu giorno; dolorante, mi levai dal giaciglio e cominciai a muovere i primi

    passi domandandomi sconfortato come avrei fatto, in quello stato, a percorrere le notevoli di-

    stanze lungo strade tutt'altro che pianeggianti. De Angelis ed i soldati, euforici al pensiero che

    stava per avere inizio il sospirato ritorno, non mettevano affatto attenzione alla mia penosa con-

    dizione, ma del resto era logico che fosse cos; come su di una nave che affonda, ciascuno aveva

    in mente il perentorio dettame: si salvi chi pu!

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    9 - Col bordone e la bisaccia

    Era domenica 12 dicembre; la temperatura fresca ed il dolce sole invernale di quel gior-

    no era quanto di meglio potessimo desiderare nell'intraprendere il lungo viaggio a piedi. Quando

    a met della mattinata fummo tutti riuniti, noi due ufficiali, abituali ospiti del rifugio, e settesoldati, spegnemmo il fuoco, chiudemmo la capanna e con De Angelis in testa, perch di noi

    tutti era il pi intraprendente e fiducioso, ci avviammo verso Trifos prima tappa del nostro lungo

    cammino. A pensarci bene ora, quel gruppo di uomini nell'aspetto stanchi e dimessi, coperti

    d'indumenti raccogliticci e sbrindellati, che procedevano parlottando per un deserto sentiero tra

    burroni e montagnole, se avesse avuto una croce da innalzare al puro cielo dicembrino, quel

    gruppo avrebbe richiamato alla mente i pellegrini del Tannhauser che, col bordone e la bisaccia,

    vanno a Roma implorando l'eccelso Creatore.

    Poco dopo aver perso di vista le bianche casupole di Achir, incontrammo un pastore

    che, sapendo di noi, ci guard strabiliato.

    "Dove andate?" - domand col tono di chi, avendo intuito che ci trasferivamo altrove,

    pensa: non stavate bene qui? Uno dei soldati che si era aggregato a noi, manifestando il suo fa-

    cile ottimismo, rispose che andavamo a casa, ma l'altro non cap e continu a guardarci con ariainterrogativa.

    "Andiamo a Trifos" - tagli corto Ernesto senza aggiungere altro anche perch non con-

    veniva che si diffondesse troppo dove e perch si andava.

    Lasciato il sentiero, c'immettemmo in una strada tutt'altro che facile per me che pativo;

    stringendo i denti ad ogni fitta, lungo i tratti pi sconnessi arrancavo come meglio mi riusciva

    con l'unica preoccupazione di non fare pesare sui miei compagni le conseguenze della mia in-

    fermit. Eravamo gi al tardo pomeriggio quando, trovandoci impegnati in una lunga salita,

    scorgemmo un gruppetto di persone che, da una piccola spianata molto pi in alto, incuriosite ci

    guardavano: lass stava Trifos.

    Quell'aggregato di case basse che si susseguivano senza soluzione di continuit su due

    file, l'una di fronte all'altra, abbozzando cos una strada con qualche rudimentale bottega, fu una

    piacevole sorpresa per noi che si proveniva da un villaggio rupestre. Saputo in breve chi erava-mo e perch fossimo l in quel tardo pomeriggio domenicale, pietose persone del posto ci diede-

    ro da mangiare e quindi ci condussero alla scuola perch vi trascorressimo la notte. Ma, prima di

    distendermi sul nudo pavimento insieme agli altri, ebbi il piacere di essere accolto, insieme a De

    Angelis, in una bottega ove, per merito di un caro giovine, mi liberai della zazzera e della bar-

    baccia.

    Stando sul duro, la notte non fu certamente di piacevole riposo e fu proprio per questo

    che quando mi parve che gi fosse giorno, perch attraverso qualche spiraglio filtrava una di-

    screta luce che pareva dell'alba, non potendone pi per le membra intirizzite e indolenzite, bal-

    zai in piedi ed aprendo cautamente la porta per non svegliare chi, malgrado tutto, dormiva sodo,

    andai sulla strada; no, non era l'alba: era il nostro satellite che, al plenilunio, sullo sfondo terso

    del cielo, si avviava al tramonto, dando ad ogni cosa un aspetto nivale.

    Malgrado che fosse ancora troppo presto per rimetterci in cammino e che la temperatura

    fosse alquanto pungente, preferii rimanere all'aperto per sgranchirmi e respirare aria pura in at-

    tesa degli altri che, invero, non tardarono molto a levarsi dal duro gelido pavimento.

    Il Sole non era ancora sorto quando ci avviammo per raggiungere Kekhrini, seconda

    meta del nostro lungo penoso andare. Dapprima andammo facilmente per stradette e sentieri

    pianeggianti, ma, dopo poco, dovemmo affrontare la discesa di un ripido canalone dal fondo ri-

    coperto di massi franati dalle pareti. Soprattutto per quel male che ancora m'infastidiva, l'andare

    in gi saltando di qua e di l non fu cosa da poco per me, comunque non tardai molto a raggiun-

    gere il grosso del gruppo che, dopo avermi preceduto con molta bravura, si era poi fermato, non

    perch era stanco, n per attendere i ritardatari tra i quali ero l'ultimo, bens perch occorreva

    prendere, di comune accordo, una decisione.

    Dal punto ove ci trovavamo, si vedeva la parte restante del canalone da superare gra-dualmente allargarsi ed infine confluire dolcemente in una larga strada trasversale della quale

    vedevamo un breve tratto. Su quella strada, che attraversa l'Acarnania da nord a sud, congiun-

    gendo Anfilochia e Missolungi, quel giorno, oltre a transitare frequenti mezzi motorizzati tede-

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    schi, sul tratto a noi visibile, un paio di squadre di prigionieri italiani fiaccamente lavoravano a

    rabberciare il manto di terriccio.

    Noi dovevamo attraversare la strada per inoltrarci poi fra i rilievi montuosi del lato op-

    posto; ora, come compiere l'attraversamento senza inciampare in qualche pattuglia, senza essere

    riconosciuti dagli italiani che involontariamente avrebbero potuto richiamare l'attenzione di chi

    li sorvegliava? Io, ispirandomi a quella prudenza raccomandata dal maggiore Le Brocq, asserivo

    che convenisse attendere la notte; De Angelis, invece, spinto soprattutto dall'assillo che non si

    dovesse perdere un giorno, asseriva che l'attraversamento si poteva fare anche subito; fra le due

    opposte opinioni i soldati, titubanti, non sapevano che dire.

    In verit, ognuno aveva la sua parte di ragione, ma era innegabile che la riuscita o meno

    dell'attraversamento immediato dipendeva dal caso: valeva la pena di rischiare? Ad un certo

    punto, mentre il traffico nei due sensi continuava, De Angelis, stanco di quel discutere senza co-

    strutto, si lev in piedi e, lasciandoci in asso, si avvi verso il basso, saltando da un masso al-

    l'altro con l'agilit di un camoscio. Terminata la discesa, dopo avere alquanto esitato in attesa

    del momento propizio, lo vedemmo attraversare la strada ed inoltrarsi in salita sul lato opposto

    fin quando poi lo perdemmo di vista.

    Quell'improvviso voltarci le spalle non suscit naturalmente favorevoli commenti: non

    era cos che si poteva sperare di raggiungere Parga senza che qualcuno ci rimettesse le penne.Decisi ad attendere la notte, rimanemmo per un bel po' acquattati, pensando come pro-

    curarci frattanto un pezzo di pane quando, all'improvviso, vedemmo De Angelis risalire il ca-

    nalone. Compiuto l'attraversamento, egli pensava che, incoraggiati, l'avremmo seguito, ma visto

    poi che nessuno di noi si muoveva, ritorn sui suoi passi. Con maggiore convinzione ci esort a

    non attendere la notte e tante ne disse che infine ci decidemmo a rischiare. Per non dare nell'oc-

    chio saremmo passati uno alla volta, fino a raggiungere un posto convenuto, visibile dal nostro

    punto di osservazione. De Angelis, che gi aveva rischiato due volte, sarebbe passato per ulti-

    mo, ma, dei rimanenti, chi sarebbe passato per primo? Non ebbi esitazioni: ero stato il pi deci-

    so oppositore di quel transito immediato ritenendolo un rischio che si doveva evitare, ora per,

    avendo deciso altrimenti, toccava a me l'onere di passare per primo.

    Senza alcuna titubanza, mi avviai per l'ultimo tratto di discesa impervia e, giunto in bas-

    so, m'inoltrai lungo il raccordo con la grande arteria carrozzabile quando vidi venire un uomo.Un greco anziano con barba e papalina. A pochi metri, come se fossimo stati amici di vecchia

    data, egli proruppe in un sonoro "kalimra" e fermatosi prese a parlarmi nella sua lingua che per

    me, purtroppo, era tanto incomprensibile. Evidentemente, mi credeva della sua terra; fingendo-

    mi sordo, non risposi neanche al saluto e mantenendo l'andatura gli passai accanto mentre qual-

    che auto procedeva a velocit moderata e, ad una certa distanza, gl'infelici prigionieri miei con-

    nazionali, con badili e carriole, s'industriavano a come far passare un altro giorno col minimo

    danno. Il vecchio s'impermal e, seguendomi con lo sguardo, vomit una sequela di parole cer-

    tamente poco benevoli e ne aveva ben donde.

    Quando tutti fummo nel punto convenuto, riprendemmo il cammino dopo un altro pic-

    colo rattristante incidente; un soldato che a Trifos si era aggregato a noi e rivelatosi abituale be-

    stemmiatore per un nonnulla, non ricordo perch usc in una volgarit blasfema che, credenti o

    non credenti, infastid gli altri. Io lo rimproverai al che egli, con rabbia, si allontan dal gruppoe fuori di s si avvi per un'altra strada; molto tempo dopo sapemmo che era morto dopo mesi di

    stenti.

    Raggiunto Kekhrini poco prima del tramonto, l'indomani ci portammo a Yannopoulon

    e l'indomani ancora, mercoled 15 dicembre, a Malasciada e di l poi, attraversato il torrente

    Vargas, giungemmo finalmente a Brianza.

    Furono lunghe tappe sempre pi dure; si partiva all'alba e quando a sera, dopo aver vali-

    cato alture, dirupi, boscaglie, si giungeva alla meta e la pietosa solidariet umana di un pope o di

    un contadino ci dava qualche cosa da mangiare ed un cantuccio per dormire, la resistenza fisica

    di ognuno era agli estremi ed appena possibile ci si gettava sulla nuda terra e l, come cosa

    inerte, si rimaneva per tutta la notte. All'alba, per i piedi ancora gonfi, stentavo a calzare le scar-

    pe e con muto grande sgomento pensavo al cammino che mi attendeva.

    Anche moralmente, a misura che si andava avanti, le tappe erano sempre pi penose per

    la benevolenza degli indigeni che si rivelava pi tiepida e la generosit pi raffrenata. Dappri-

    ma, questo graduale cambiamento di umore dei greci nei nostri riguardi ci parve strano, inspie-

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    gabile, ma poi finimmo col trovare il motivo: andando verso settentrione ci avvicinavamo a

    quelle regioni ove, contro le nostre truppe, si era combattuto con grande accanimento; si andava

    tra quelle popolazioni che maggiormente avevano sofferto per la nostra invasione e ne avevano

    ancora tanto triste ricordo.

    "Vedete questa terra bruciata?" - ci disse con malcelato rancore un viandante che, caval-

    cando un mulo, ci aveva raggiunto un giorno ai margini di un bosco di cui, in quel punto, del

    folto verde di un tempo altro non rimaneva che avanzi di tronchi e rami carbonizzati che, nel-

    l'insieme, avevano un non so che di spettrale. "Tutto questo opera di lanciafiamme italiani." -

    soggiunse; poi, tentennando il capo, diede di sprone e si allontan di gran carriera.

    Nel corso di quelle lunghe tappe estenuanti, si rimaneva sempre lontano dai centri abi-

    tati e se ci ci garantiva dal pericolo di cattivi incontri, d'altro canto non ci offriva altra possibi-

    lit per sfamarci se non bussando a qualche sperduto casolare intravisto lontano che poi spesso,

    o era disabitato o dava ricetto a contadini indigenti che nulla potevano per noi.

    Fu durante la marcia verso Yannopoulon che, scorgendo alcuni casolari in diverse dire-

    zioni, sostammo per cercare qualche cosa da mangiare; io, particolarmente stanco ed ancora sof-

    ferente, ebbi il torto di non partecipare alla questua e di starmene seduto in attesa che gli altri

    ritornassero e ci mi procur un'aspra rampogna di De Angelis. Punto nell'orgoglio, per tutto il

    resto del cammino non dissi parola n accettai una briciola e quando a sera, ospitati in unascuola, con parte della sterlina che il maggiore Le Brocq aveva donata a noi due, De Angelis ri-

    usc ad ottenere da una buona donna un piatto caldo per tutti, sdegnosamente ricusai la mia ra-

    zione: colui che il destino mi aveva messo accanto in quella dolorosa odissea, mi aveva rimpro-

    verato di voler trarre profitto dalle fatiche degli altri. Malgrado tutto per, fu quello uno screzio

    che, come tanti altri, dur poco; il giorno seguente tutto era gi dimenticato.

    Il guado del torrente Vargas, durante la tappa che ci port a Brianza, per me non fu fa-

    cile. Nel punto prescelto, le limpide acque poco profonde defluivano sopra una bianca ghiaia

    dalla quale, qua e l, si levavano affiorando piccoli massi levigati; imitando gli altri che erano

    gi sull'altra sponda, presi ad attraversare il torrente poggiando i piedi sui massi, ma ben presto

    scivolai e fortunatamente il bagno non fu totale. Decisi allora di levarmi le scarpe e rimboccarmi

    i calzoni, ma uno dei soldati insistette perch gli montassi sulle spalle e cos, a cavalcioni di

    quel giovine, che poi non aveva proprio una costituzione erculea, passai sull'altra sponda.Pur senza scivolare, tutti gli altri, chi pi chi meno, avevano le scarpe pregne d'acqua; fu

    cos che prima di proseguire ci mettemmo in tondo con al centro un mucchio di sterpaglie al

    quale era stato appiccato il fuoco. Quando si riprese la marcia, avemmo la ventura d'immetterci

    in un grande bosco ove abbondavano i fragoloni selvatici che, per quel giorno, valsero a rendere

    meno languido lo stomaco.

    Il gioved 16 dicembre, molto per tempo, ci presentammo al commando inglese instal-

    latosi a Brianza, ma non ci fu consentito di entrare e prima di poter dire cosa si volesse dovem-

    mo attendere un bel po' ed il motivo c'era: per gli inglesi, popolo dai cinque pasti, era quello il

    momento del primo sostanzioso spuntino. Infatti, durante l'attesa, da una vicina casupola ove si

    provvedeva alle necessit gastronomiche del commando, venne fuori un uomo che si apprestava

    a servire la colazione, sorreggendo una tavoletta, a guisa di vassoio, sulla quale erano alcuni

    piatti di terracotta con altrettante uova al tegame che, superfluo dirlo, fecero dilatare le nostrepupille.

    Quando finalmente ci fu possibile esporre ad un ufficiale inglese la nostra intenzione di

    andare a Parga per rimpatriare, ci accorgemmo ben presto di avere a che fare con una persona di

    mentalit ben diversa da quella del maggiore Le Brocq. Non che l'ufficiale ci trattasse con la

    burbanza del vincitore, ma si limit a dirci con molto distacco che del rimpatrio degli italiani se

    ne occupavano i generali Tom e Infante, l'uno inglese e l'altro italiano, e che, pertanto, non per

    Parga dovevamo proseguire bens per Agnanda, nella regione montuosa dell'Epiro, ove i due uf-

    ficiali clandestinamente operavano.

    Queste notizie cos diverse da quelle apprese ad Achir, furono per noi una doccia fred-

    da. Ci aspettavamo nuove concrete istruzioni ai fini del vagheggiato rimpatrio ed invece quel-

    l'ufficiale, pago di quanto aveva detto, si disinteressava di noi; ancora una volta venivamo ab-

    bandonati a noi stessi, con i pochi indumenti per coprirci consunti e lerci, con le scarpe che co-

    minciavano a spaccarsi, con l'energie fisiche e morali fiacche, con l'inverno che da un momento

    all'altro poteva erompere in pioggia e saette.

  • 8/3/2019 M. Barletta, Tra marosi e nebbie

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    Che fare? Alcuni proposero di abbandonare il suadente pensiero di un prossimo ritorno,

    altri, e tra questi De Angelis, asserivano che bisognava persistere nel tentativo. Io ero convinto

    che, nelle condizioni in cui eravamo, non convenisse mettere a pi dura prova le nostre forze

    andando alla ventura, ma non volli che, ancora un volta, prevalesse la mia opinione e cos, dopo

    lungo valutare il pro e il contro, fu deciso di proseguire con l'intesa che saremmo ritornati sui

    nostri passi non appena la meta ultima si fosse chiaramente rivelata irraggiungibile.

    Ma qual'era la strada che si doveva percorrere? Ci demmo pertanto a chiedere informa-

    zioni e finalmente, un po' da questo e un po' da quello, riuscimmo a sapere che per andare ad

    Agnanda, occorreva raggiungere prima Embes, uno dei pochi villaggi di quella regione povera

    e montuosa.

    Ci rimettemmo in cammino e mai tappa fu pi dura di quella; dapprima ci fu facile l'an-

    dare lungo una rotabile, poi, da un solitario viandante, avemmo indicazioni poco chiare che, mal

    comprese, finirono col portarci fuori strada. Superammo ripide mulattiere, scoscesi sentieri, at-

    traversammo un bosco, valicammo alture e sempre che c'imbattevamo in qualche viandante ci

    sentivamo ripetere che fra qualche ora al massimo saremmo giunti alla meta. Ma l'ora passava,

    ne passavano altre, e di Embes neanche il miraggio. La sera era ormai prossima e noi ci trova-

    vamo sopra un pianoro, coperto di piante d'alto fusto, che si estendevano in lunghezza nella

    stessa direzione di una stretta valle che lo fiancheggiava; quando finalmente, da un montanarodel posto, avemmo indicazioni esatte: il villaggio era prossimo, dietro alcune elevazioni del ter-

    reno che si vedevano a ponente; per giungervi facilmente bastava seguire un sentiero che si sno-

    dava in fondo alla valle.

    Per discendere dal pianoro non vi era altro mezzo che calarsi mani e piedi lungo il ripi-

    do pendio, cosa che cominciai a fare cautamente, ma poi, mancatomi un appiglio, andai gi

    sdruccioloni ma senza gravi conseguenze.

    Quando giungemmo ad Embes, una languente luce proveniente dall'occaso vermiglio

    conchiudeva il giorno. La povera gente si era gi rinchiusa nelle casupole che qua e l sorgeva-

    no isolate: non ombra di uomo si vedeva, non una voce si udiva. Trovammo finalmente la pic-

    cola chiesa e con essa la piet del pope che ci offr tutto quello che aveva: un po' di pane ed una

    stanza vuota ove trascorrere la notte.

    Il mattino seguente, rimessici alquanto in sesto, tenemmo un altro consiglio, ma questavolta, provati dalla dura marcia del giorno precedente ed ammoniti dalla gelida tramontana, la

    maggior parte del gruppo si dichiar contraria a proseguire. Sulle prime, pareva che De Angelis

    e qualche altro dissenziente fossero intenzionati a proseguire verso Agnanda, ancora molto lon-

    tana, ma poi, anche perch il primitivo ottimismo si era affievolito, non se la sentirono di af-

    frontare da soli altre dure prove. Cos, senza defezioni, iniziammo il ritorno al Achir, quel vil-

    laggio che per la seconda volta si rivelava il rifugio pi ospitale e sicuro.

    Evitando di ripassare per Brianza, allo scopo di abbreviare il cammino, poco prima di

    sera di quello stesso giorno giungemmo a Malasciada, dopo una marcia senza notevoli difficol-

    t, con il cielo terso ma con un vento persistente freddo e secco. Il 18 dicembre eravamo a

    Kekhrini e il giorno a Trifos. Prima di concludere quest'ultima tappa, sostammo per qualche

    ora lungo un ruscello ed ottemperammo alle pi elementari norme d'igiene personale: ne ave-

    vamo proprio bisogno!Secondo la nostra tabella di marcia, il 20 dicembre, luned, avremmo dovuto riprendere

    il cammino e rientrare ad Achir, ma ci non avvenne perch, dopo l'inutile maratona fino ad

    Embes io e De Angelis avevamo cominciato a considerare che non si poteva vivere di elemo-

    sina, tra quelle poche case, per lungo tempo ancora, fino a quando una decisiva svolta degli

    eventi bellici non ci avesse consentito di rimpatriare alla luce del sole. Occorreva quindi che

    cercassimo un lavoro per guadagnarci il pane quotidiano, ma quale lavoro, necessariamente ma-

    nuale, se noi eravamo abituati alla sola fatica cerebrale della cattedra? E poi, dove trovarlo? Non

    certamente ad Achir perch - a parte il fatto che l era ben noto che non avevamo alcuna dime-

    stichezza con quelle cose che ordinariamente riempiono la giornata di un contadino o di un pa-

    store - quella povera gente, che molto spesso traeva i mezzi di sussistenza per un anno intero dal

    modesto raccolto che poteva dare un piccolo campo scarso di humus e cosparso di pietrame,

    quella povera gente aveva gi fatto tanto per noi. Era quindi opportuno che cercassimo altrove

    un'attivit che ci procurasse quanto strettamente occorreva al nostro sostentamento.

  • 8/3/2019 M. Barletta, Tra marosi e nebbie

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    Durante quel mattino trascorso a Trifos, dopo aver girovagato con i soldati sofferman-

    doci a parlare con questo e con quello, soprattutto per un cauto sondaggio delle possibilit di la-

    voro, ci recammo al magazzino, un locale analogo a quello di Achir, ma alquanto pi grande e

    con pi generi da smerciare. Quando entrammo, destammo subito la curiosit dei tanti seduti

    tutt'intorno con la schiena alla parete; qualcuno che forse era assente dal villaggio durante la no-

    stra precedente apparizione, chiese chi fossimo; qualche altro, che gi sapeva di noi, ci manife-

    st considerazione e simpatia.

    Mentre io e De Angelis, per l'impossibilit d'intavolare una scorrevole conversazione, ce

    ne stavamo taciturni, l'uno seduto accanto all'altro, Giuseppe, sempre pronto a prodigarsi per chi

    pi degli altri era privo del bisognevole, venne a riferirci che uno dei presenti era disposto a

    prenderci al suo servizio per un lavoro al quale avremmo potuto assuefarci facilmente perch

    non richiedeva una particolare perizia.

    Ci avvicinammo a questo greco, un uomo di mezza et, piuttosto alto e asciutto, poco

    loquace, e chiarito quale genere di lavoro richiedesse da noi, fu convenuto, non senza nostre

    perplessit, che l'avremmo aiutato a governare un branco di numerosi animali che possedeva nei

    pressi di Aets, un altro grosso villaggio, ed in compenso ci avrebbe dato vitto e alloggio, se co-

    s pu dirsi l'angoletto di una stalla o di una stamberga ove potersi distendere a dormire.

    Concluso quell'accordo, rimanemmo ancora un poco al magazzino: il greco al suo postocon viso enigmatico e noi in disparte, pi dubbiosi che mai; infine egli si lev in piedi, noi taci-

    tamente capimmo che bisognava andare e, salutato frettolosamente i soldati lo seguimmo.

    Raggiungemmo ben presto una strada carrozzabile tra alture dall'uno e dall'altro lato e

    senza ombra di anima viva: il greco procedeva pi taciturno che mai e noi, uno di qua ed uno di

    l, con l'animo turbato da quel silenzio. Dopo un certo tratto egli acceler il passo e, accelerando

    anche noi, ritenemmo dapprima che quel cambiamento di andatura fosse dovuto ad un qualche

    motivo che richiedesse di giungere a destinazione il pi presto possibile. Ma il greco, dopo po-

    co, acceler ancora come un atleta che, impegnato in una gara podistica, cerca con uno sprint di

    staccare gli avversari; noi gli tenemmo dietro fin quando fu possibile ma poi, tutt'altro che alle-

    nati a quella prova, col fiato grosso ci fermammo mentre l'altro, con incalzante ritmo del passo,

    si allontanava sempre pi senza curarsi di noi. Gli gridammo che si fermasse, ma quello strano

    individuo non si volt neppure e continu imperterrito, con passo da maratoneta, fino a quandolo vedemmo sparire in lontananza ad una svolta della strada. Il nostro inqualificabile individuo,

    prima ancora di metterci alla prova, ci aveva ripensato: non facevamo per lui e, per svincolarsi,

    aveva escogitato l'espediente di piantarci in asso su quella deserta strada di campagna.

    Fummo presi da un vago sgomento: che fare? Comunque, l'accaduto ci rivelava quanto

    fosse illusorio il nostro intendimento di cercare, fuori di Achir, come guadagnarci il pane quo-

    tidiano: in quelle terre scarsamente abitate erano molto apprezzati e richiesti i nostri soldati dalle

    mani incallite dai lavori campestri; le nostre invece erano aduse soltanto al modesto uso della

    penna. In quel frangente quindi, malgrado le valide considerazioni che ci avevano consigliato di

    trovare lavoro altrove, non potevamo non ritornare tra i contadini ed i pastori del villaggio rupe-

    stre dal quale eravamo partiti.

    Per non ripassare per Trifos, ove inevitabilmente avremmo dovuto raccontare l'accadu-

    to, dopo un certo tratto di strada deviammo per Katona pur sapendo che ci comportava uncerto rischio perch, trattandosi di un centro urbano di una certa importanza, allacciato al set-

    tentrione e al meridione da una strada carrozzabile, i tedeschi vi facevano frequenti scorrerie.

    Vi giungemmo intorno al declinare del giorno e non tard molto che qualcuno ci notas-

    se, che si fermasse intorno a noi un capannello di curiosi ai quali fu d'uopo raccontare in breve

    la nostra odissea. Su quei volti intenti al nostro parlare, necessariamente lento e stentato per la

    difficolt di esprimerci in greco, leggemmo la commiserazione per quanto avevamo sofferto, la

    compassione per il nostro stato: qualcuno ci offr da mangiare, altri, infine, ci condussero in un

    granaio perch vi passassimo la notte.

    Il giorno seguente, con un cielo plumbeo che infondeva nell'animo una pi acuta tristez-

    za, ci avviammo verso Achir. Prima di lasciare l'abitato, notammo un negozietto e De Angelis

    volle entrarvi per acquistare alcune cosucce di prima necessit assottigliando cos ancora un po-

    co quanto rimaneva della sterlina; io, notato che erano in vendita modesti oggetti di cancelleria,

    mi fornii di un piccolo blocco notes e di una matita: potevo cominciare cos un succinto diario.

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    Mariano Barletta Tra marosi e nebbie Seconda parte

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    Eravamo da poco in una gola che, stando a quanto riferitoci, ci avrebbe portato in breve

    alla meta, quando constatammo che un giovane ci seguiva ad una certa distanza; il suo aspetto

    non ispirava fiducia tanto pi che, portato a tracolla, ostentava un fucile di quelli che avevano

    fatto la guerra nei decenni a cavallo dei due secoli. Per poco si and taciturni, noi avanti e lui

    indietro di alcuni metri, nel silenzio profondo della tetra ed umida gola rocciosa.

    "Tu sei carabiniere?" - mi chiese all'improvviso quando, accelerando il passo, fu alle

    nostre calcagna.

    Intuito che avevo a che fare con un malintenzionato, gli risposi docilmente che era in er-

    rore perch fino a tre mesi innanzi indossavo la divisa della marina.

    "Ma io ti ho visto a Missolungi: tu sei carabiniere." - insist quel provocatore di baruffe

    che si faceva forte del fucile e della cupa solitudine che regnava tutt'intorno.

    Gli replicai con umilt che non ero carabiniere, che a Missolungi non c'ero mai stato e

    per levargli ancor meglio quelle nebbie dalla testa, gli accennai che eravamo ufficiali sopravvis-

    suti all'eccidio di Cefalonia.

    "Allora sei tu che ho visto a Missolungi." - disse rivolto a De Angelis, senza raccogliere

    le mie parole -"Tu sei finanziere."

    Questa subdola ostinazione nel voler riconoscere in noi carabinieri e finanzieri, aveva il

    suo recondito motivo nel fatto che, durante la nostra occupazione, carabinieri e finanzieri ave-vano ottemperato al precipuo compito di combattere la delinquenza comune ed i fermenti ever-

    sivi antitaliani e, di conseguenza, erano quelli pi malvisti da certi ambienti greci.

    Gli ripetemmo, con quanto vigore era possibile, che non eravamo n carabinieri n fi-

    nanzieri, che a Missolungi mai avevamo messo piede e quando finalmente quel ceffo credette

    opportuno non insistere pi con le sue cervellotiche invenzioni, tir fuori una bella pretesa: con

    l'arroganza consentitagli dalle circostanze, chiese che uno di noi gli cedesse le scarpe; lui ne

    aveva diritto, oltre che bisogno, perch era un combattente e noi che non lo eravamo pi aveva-

    mo il dovere di dargliele.

    Presi da sgomento al pensiero che se quella prepotenza fosse stata soddisfatta, uno di

    noi due non avrebbe avuto pi la possibilit di usare il cavallo di San Francesco, cercammo in

    tutti i modi di fargli intendere che le nostre ciabatte, tanto prossime a sfasciarsi, non potevano

    essere utili ad un partigiano costretto, ad ogni mutar di vento, a valicare monti, ad attraversarevalli, mentre noi, con le accortezze suggerite dal nostro misero stato, avremmo potuto usarle, sia

    pure ancora per poco, per difendere i piedi dal freddo e dalle asperit del terreno.

    Convintosi forse che le nostre calzature non valevano granch, quel rompiscatole in ar-

    mi cambi obiettivo e perentoriamente chiese uno dei piccoli tappeti donatici dal pope di Achir

    e che il mio compagno di sventura portava sulle spalle, a guisa di scialle, per difendersi dal

    freddo umido. A quella nuova pretesa, De Angelis reag con una certa vivacit, ma l'altro non si

    diede per vinto ed in breve la concitata discussione degener in litigio e quell'individuo da gale-

    ra, che con tanto impegno dava prova del suo spirito combattivo affrontando noi, fiacchi ed

    inermi, visto che con le parole non otteneva nulla, fece all'improvviso un passo indietro e im-

    bracciato il fucile mand il proiettile in canna.

    "Se non me lo dai, ti ammazzo!" - disse con volto truce.

    Temendo che quella brutta faccenda sfociasse nel sangue, incitai De Angelis a cedere,ma inutilmente; gli strappai allora dalle spalle il paramento ecclesiastico, oggetto di tanta conte-

    sa, e lo consegnai a quell'individuo che per malasorte avevamo incontrato sulla nostra strada.

    Rimasti noi due, De Angelis non manc di rimproverarmi di aver ceduto a quel cattivo

    soggetto che, a suo giudizio, mai e poi mai avrebbe fatto uso del fucile. Dal canto mio, convinto

    che sarebbe stato del tutto inutile non mi ci provai neanche a convincerlo che, cos com'eravamo

    ridotti, potevamo soltanto chinare il capo di fronte ai prepotenti.

    Il resto del cammino lungo la gola sempre pi aspra fu fatto senza scambiarsi una sola

    parola, non perch fosse sorta fra noi una certa animosit, bens perch entrambi eravamo mo-

    ralmente depressi. In alcuni punti bisogn decidere se proseguire o avviarci per un sassoso sen-

    tiero confluente e ogni volta, non avendo come identificare la via giusta, ci lasciammo guidare

    dal nostro senso di orientamento che per non sempre c'indusse per la giusta via.

    Cominciarono poi a venire gi minutissime gocce di pioggia e noi continuammo ad an-

    dare di qua e di l sotto quello sgocciolio apparentemente inconsistente, ma che, a lungo andare,

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    non si poteva non avvertire. Finalmente sulla sinistra vedemmo in alto un casolare ed un caratte-

    ristico gruppo di alberi a noi ben noto: era l che bisognava andare.

    Con rinnovata lena iniziammo l'ultima arrampicata che ci port ad una spianata dalla

    quale riuscimmo a scorgere le vicinanze del nostro rifugio; ci dirigemmo da quella parte mentre

    dal cielo plumbeo la minuta pioggia continuava a cadere e tutt'intorno, nella quiete agreste, non

    si udiva l'eco di una voce, lo squittire di un uccello. Vedemmo infine la capanna; ci avvicinam-

    mo con l'animo di chi, dopo peripezie, ritrova il focolare domestico: tra poco, l dentro, avrem-

    mo acceso un bel fuoco e, come nei giorni andati, ci saremmo messi a riposare, a riscaldarci, a

    meditare le ultime disavventure, ma non fu cos: quella porta sempre pronta a dischiudersi, pri-

    ma che ne uscissimo l'ultima volta con l'illusoria speranza di un prossimo ritorno a casa, quella

    porta, per noi, era chiusa per sempre.

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    10 - Da Socrtis

    Durante la nostra assenza, il buon Travalos, credendo forse che fossimo ormai bene in-

    camminati sulla lunga tortuosa strada in fondo alla quale, di ognuno di noi, c'era la casa, aveva

    adibito la capanna, oltre che a deposito di attrezzi agricoli, anche a ricovero di un limitato nume-ro di pecore e capre. Non era quindi pi lecito servircene come nostro ricetto e questo ci pose

    inaspettatamente di fronte ad un difficile problema da risolvere, mentre il giorno declinava e la

    pioggerella continuava a cadere monotona, uguale: dove avremmo potuto trovare un altro rifu-

    gio?

    Dopo essere rimasti per un po' disorientati e delusi, a guardare quella modesta costru-

    zione che fino a pochi giorni innanzi era stata la nostra dimora, ci recammo lass, tra le sparse

    casette pi in alto, ove aveva sede il commando.

    Il maggiore, con la tradizionale flemma che distingue gl'inglesi, ascolt il succinto rac-

    conto della nostra escursione fino ad Embes, estern il suo rincrescimento per il fallito scopo

    della maratona e, quasi per darci ristoro fisico e morale, ci offr un bicchierino dell'immancabile

    gin che io, fatto accorto dalla recente esperienza, cortesemente rifiutai.

    Mentre sorseggiava quell'acquavite di ginepro, De Angelis, spinto dall'ansia di liberarsidallo stato d'indigenza, manifest la sua propensione ad operare al servizio degli inglesi, cos

    come faceva un altro ufficiale italiano, da noi scorto da lontano, ma mai potuto avvicinare, il

    quale, con alcuni muli a sua disposizione, curava i servizi logistici del commando. A quella of-

    ferta, anche per me inaspettata, il maggiore si limit a prenderne atto, riservandosi di accoglierla

    nel caso che ne avesse ravvisata l'opportunit.

    Andammo poi nei pressi del magazzino e l sostammo, rimuginando dove trascorrere la

    notte quando c'imbattemmo in una nostra conoscenza, un vecchietto alto e ancora vigoroso, un

    po' barbuto, vestito alla maniera classica dei contadini delle montuose regioni interne della Gre-

    cia i quali, perch lontani da ogni centro urbano, conservano consuetudini e tradizioni immuni

    dagli influssi innovatori delle grandi citt; era costui Barba Costa, uno di quelli che per la sua

    notoriet e per il rispetto che riscuoteva poteva ben dirsi un notabile del villaggio. Egli ci aveva

    visto partire con la nostra grande illusione e quindi fu alquanto sorpreso di vederci di nuovo trale bianche casupole della sua Achir, ancora pi mal ridotti di prima. Appreso che non poteva-

    mo disporre del rifugio che ci aveva ospitati per due mesi, egli mise a nostra disposizione un suo

    capanno posto gi nella valle, verso Kombot.

    La pioggia minuta era cessata. Dopo che ci fummo informati dell'ubicazione di quel

    nuovo ricetto, ci avviammo in compagnia di Ernesto verso il fondo della valle con tre grosse

    fette di schiacciata di granturco che il nostro caritatevole uomo volle dare perch non ci man-

    casse la cena.

    Quando arrivammo al posto indicatoci era gi notte. Nel buio scorgemmo una specie di

    baracca fatta di pali, frasche e paglia; spinta la porticina appena accostata, constatammo che lo

    spazio interno in buona parte era ingombro di cartocci secchi di granturco cosa che, nel timore

    che qualche favilla facesse del capanno una grande fiammata, ci fece desistere dal proposito di

    accendere un bel fuoco tra quel frascame, per toglierci di dosso l'umidit assorbita durante l'in-

    fausta giornata.

    Il fuoco l'accendemmo all'aperto; ci accoccolammo intorno e nell'attesa che le fette di

    schiacciata si abbrustolissero al punto giusto, come ci aveva insegnato Iorg il pecoraio, parlam-

    mo delle vicende per noi non liete di quel marted 21 dicembre. Sotto la cappa di nubi, la valle

    silenziosa e buia sembrava sterminata; soltanto il nostro fuoco era segnacolo di vita ed io, anco-

    ra scosso da tanti angosciosi eventi, temevo che quel fiammeggiare attirasse l'attenzione di

    qualcuno che, da lontano, stesse a spiare, a tramare meglio la nostra rovina. Ben presto, anche i

    miei compagni di cena si convinsero che non era prudente ravvivare a lungo quel fuoco e cos,

    trangugiata la cena, andammo a rinchiuderci nel capanno.

    Il giorno dopo mi svegliai con i piedi pi gonfi del solito perch, non avendo avuto la

    possibilit di distendermi come conveniva, erano rimasti penzoloni durante la notte. Infilate lescarpe con grande pena, ci avviammo tutti al villaggio, Ernesto per ripresentarsi al suo padrone

    ed io e De Angelis per intrattenerci al magazzino, secondo l'inveterata usanza, ove, col nostro

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    dolente aspetto, tacitamente chiedevamo l'elemosina cos come sogliono fare i poveri vergogno-

    si che, dimessi e smunti, siedono alla turca sul sagrato delle chiese.

    Giunti che fummo al piccolo spiazzo antistante il magazzino, avemmo la gradita sorpre-

    sa di vedere il maggiore che ne usciva in compagnia dell'interprete e di alcuni greci tra cui Nico

    che aveva la carica di capo del villaggio. Il maggiore si avvicin e prese ad interessarsi di noi,

    poi si appart a parlare con Nico ed infine si avvi verso il suo rifugio. Sapemmo pi tardi che

    aveva dato incarico di trovare una famiglia del villaggio disposta a darci vitto ed alloggio, con il

    corrispettivo di una sterlina a testa che avrebbe corrisposto mensilmente per tutto il tempo della

    sua permanenza ad Achir. Come si pu intuire, noi non speravamo tanta benefica generosit: ci

    parve di sognare e le seguenti ore di quel giorno e dell'indomani trascorsero tra congetture, nel-

    l'ansiosa attesa che qualcuno rispondesse favorevolmente all'iniziativa del maggiore Le Brocq.

    Dopo una notte di vento impetuoso che la paglia e le frasche del capanno a malapena ri-

    uscirono a contenere, il mattino del venerd - vigilia di Natale - mentre de Angelis si spingeva

    verso Kombot in cerca di una fonte di cui si avevano vaghe indicazioni, rimasto solo, m'indu-

    striai a riparare con pezzi di filo di ferro le mie povere calzature ridotte ormai allo stato di scar-

    pacce consunte e sconnesse. Rabberciate, come meglio potevo, le crepe e le sdruciture pi

    preoccupanti, mi dedicai poi agli avanzi di quegli indumenti che un tempo - ahim, quanto lon-

    tano! - a buon diritto erano chiamati calzini e dei due paia residui ne rimediai uno solo, menomarcito e maleolente.

    Ritornato De Angelis, dopo aver trovato la sorgente dalla quale, come ebbi modo di

    constatare in seguito, sgorgava una limpida acqua leggera e fresca, ci avviammo sotto un cielo

    plumbeo al magazzino, seguendo il sentiero pianeggiante in margine alla valle e quindi l'erto

    tratto finale che si snodava tra ciuffi di cardi.

    Al magazzino trovammo l'allegra animazione dei particolari giorni di festa; intorno a

    due tavoli si giocava a poker con alte poste di dracme svalutate mentre, alle spalle dei giocatori,

    occasionali avventori s'indugiavano a sorbire un bicchierino di gin, tra una battuta e l'altra sulle

    alterne vicende del gioco. Anche Nico fece la sua apparizione e, pi cordiale e premuroso del

    consueto, in ossequio forse all'interessamento del maggiore, c'inform che prima di sera sarem-

    mo stati accolti in una casa, ma per il momento non poteva dirci altro perch mancava l'accordo

    formale tra le due parti contraenti; poco dopo Pips ce ne diede conferma.Alla notizia del nostro prossimo trasferimento, De Angelis volle ritornare al capanno

    per prendere i nostri due tappetini che ci davano un certo tepore durante la notte; il pope, venuto

    a sapere della rapina subita dal mio compagno di disavventure, impietosito, gliene aveva dato un

    altro.

    Frattanto, non reggendo all'inattivit, mi accompagnai a Pips e lo seguii fin presso la ca-

    supola degli inglesi, ma poi ritenni opportuno ritornare al magazzino ove, ben presto, mi rag-

    giunse De Angelis col prezioso fardello. Insieme rimanemmo l per buona parte del pomeriggio,

    con il gioco che ferveva pi che mai tra frequenti esclamazioni di gioia per un tris azzeccato e

    scoppi di rabbia per una scala reale mancata, mentre i policromi bigliettoni, da migliaia di

    dracme deprezzate, si accumulavano, ora qua ora l, sui tavoli ai quali mancava soltanto il tradi-

    zionale tappeto verde.

    Anche Vassili era tra i giocatori, ma, dopo aver tentato per un po' la fortuna senza con-quiderla si era allontanato dal tavolo. Profittai subito della circostanza e, come gi avevo fatto in

    altre occasioni senza riuscire nell'intento, lo pregai di prestarmi quanto occorreva per radermi la

    barba. Questa volta non seppe trovare un plausibile motivo per rimandare l'operazione ad altro

    giorno e, allontanatosi, ritorn di l a poco con gli ingredienti, ma non volle che fossi io ad ado-

    perare il rasoio: avrebbe fatto lui da barbiere. Usciti all'aperto, ci appartammo in un angolino

    conveniente tra i massi rocciosi e, prima che il caro giovine iniziasse l'insaponamento mi accorsi

    che si era munito anche di uno specchietto, invero tutt'altro che in buono stato, ma dotato ancora

    di una discreta funzionalit; me ne servii per constatare lo stato del mio viso, ma ahim, quanto

    diverso ci che vidi da quello che ricordavo delle mie sembianze!

    Mentre Vassili procedeva alla rasatura tutt'altro che indolore, perch il rasoio non era

    affatto adeguato al suo compito, De Angelis m'inform che saremmo stati ospitati in casa di So-

    crtis Pacapanus, un individuo da noi mai notato n al magazzino n altrove.

    Verso sera mi recai alla nuova dimora con i tappetini e un pezzo di pane che la nostra

    parsimonia ci aveva indotti a conservare per il giorno seguente. Feci cos conoscenza della mo-

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    glie del nostro ospite, di nome Statula, e di due suoi figli: Vangelo ed Agata. Poco dopo, in

    compagnia di De Angelis che lo aveva rintracciato non lontano dal magazzino, venne Socrtis,

    un tipo di statura normale, dal volto piuttosto emaciato e dall'occhio spento: sicuramente prima

    di allora non l'avevamo visto. Come i suoi compaesani, non abituato a trattare persone estranee

    al suo piccolo mondo, era palese il suo disagio nel vedersi in casa due individui che, pur laceri e

    privi di tutto, gl'incutevano soggezione perch intuiva che il loro stato sociale doveva essere

    molto diverso dal suo; ma anche a noi l'impatto con quella nuova realt procur un certo diso-

    rientamento.

    Dopo aver consumato la cena che, grazie al maggiore Le Brocq e a Socrtis, quella sera

    fu pi varia e soddisfacente, andammo a distenderci, per la notte, sull'impiantito di legno, al po-

    sto assegnatoci presso la porta d'ingresso. Noi si dormiva cos per necessit, ma anche i monta-

    nari e i pastori, tra i quali ci trovavamo, non facevano uso del letto; i componenti di una fami-

    glia, cos come si trovavano vestiti, si avvolgevano ciascuno in una coperta o pi semplicemente

    nella cappa se questa era piuttosto ampia, e dormivano cos distesi sul pavimento tutti riuniti in

    una stanza.

    Verso l'alba del giorno seguente, sabato 25 dicembre, sentimmo la campanella della

    chiesa che chiamava a raccolta i fedeli: stavano per avere inizio i sacri riti del Natale ortodosso,

    Avremmo voluto andarci, ma ce ne astenemmo perch pioveva a dirotto e il cammino da farsinon era breve. Socrtis e i figli invece, protetti alla meglio da un telo impermeabile, si avviarono

    solleciti verso il sacro edificio.

    Un po' per quella pioggia scrosciante e un po' per la ricorrenza che richiamava alla

    mente struggenti ricordi, la giornata si annunziava quanto mai triste: l'anno prima, nello stesso

    giorno, i miei cari mi avevano con loro nella solennit natalizia, ora invece, senza di me ed igna-

    ri di ogni cosa, trepidavano.

    Levatici con una certa pigrizia ed ammucchiati i pochi stracci tra i quali avevamo tra-

    scorso la notte, ce ne stemmo zitti zitti nella stanzetta tuttora in ombra per non disturbare chi

    eventualmente dormisse ancora, ma non dur a lungo quel silenzio che induceva alla meditazio-

    ne perch Statula, che era sveglia da un pezzo, venne a portarci la colazione, di consistenza del

    tutto inconsueta per noi: carne di maiale e pane che , malgrado il nostro stato di assoluta indi-

    genza, consumammo con riluttanza.Quando si ebbe finalmente una buona schiarita, ci recammo al magazzino ove si era ri-

    preso a giocare, poi, vagando qua e l avemmo occasione di entrare per la prima volta in un se-

    condo magazzino pi ampio che, ordinariamente chiuso, per la ricorrenza natalizia era stato ec-

    cezionalmente aperto al pubblico. Fu qui che incontrammo Pips che ci cercava per consegnarci

    un cesto con tanto pane di grano e tanto formaggio offerto da quanti recatisi in chiesa per il sa-

    cro rito; quei montanari e quei pastori dal fare semplice e talvolta dall'aspetto rude, non avevano

    voluto che a noi, lontani dagli affetti familiari, mancasse in quel giorno ricordevole una pi si-

    gnificante solidariet. E come se non fosse pi che sufficiente per molti giorni tutta quella prov-

    vista, Travalos, il benefattore della prima ora, ed Attanasio Bacoiorgos, il maestro elementare

    che nel tempo di pace teneva a scuola i ragazzetti del villaggio, ci offrirono un piatto di riso cu-

    cinato secondo una consuetudine locale.

    Ma i doni della provvidenza in quel particolare giorno non erano terminati. Eravamoancora l, presso il grande magazzino, intrattenendoci a parlare con questo e con quello, soprat-

    tutto per dominare la grande tristezza tenacemente attaccatasi al pi profondo dell'animo, quan-

    do uno dei soldati italiani che prestavano servizio per il commando inglese, venne ad avvertirci

    che il maggiore ci attendeva per le ore 12 per averci a pranzo.

    Era ancora presto per ottemperare a quell'invito tanto gradito; continuammo, pertanto, a

    soffermarci qua e l in attesa che scoccasse il mezzod. Fu cos che, trovandoci a passare davanti

    alla sua casa c'intrattenemmo a parlare con la moglie di Fotio Janaris: erano nostre buone cono-

    scenze che spesso ci avevano dato da mangiare. Lui, alto, magro e dall'aspetto piuttosto truce,

    aveva provato il carcere per una questione d'onore conclusasi nel sangue; lei, di pari comples-

    sione, col viso rugoso che palesava una sfiorita bellezza, aveva un naturale incedere da gran

    dama, anche se procedeva per un sentiero scosceso e pietroso con una pesante fascina in bilico

    sulla testa. La carne di maiale mandata gi ad ora cos insolita ci aveva procurato una grande ar-

    sura; la buona donna ci disset, poi volle che entrassimo in casa e fattici sedere davanti al fuoco

    del caminetto, ci offr un piatto di ciccioli, quanto aveva di prelibato per il banchetto natalizio.

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    Era presso a poco l'ora indicataci, quando io e De Angelis giungemmo dagli inglesi.

    Dapprima c'intrattenemmo con i due soldati italiani che collaboravano con quel commando poi,

    dopo un breve scambio di convenevoli con l'interprete, dal suo covo, appositamente rivestito

    internamente di pesanti tappeti affinch dall'esterno fosse impossibile ascoltare o udire quando

    si faceva, venne fuori il maggiore. Col suo solito tratto da gentleman, ci diede da bere l'imman-

    cabile gin, poi fece apparecchiare per il pranzo e quando in sei - il maggiore, il sergente inter-

    prete, noi due ed i due soldati italiani - sedemmo intorno al grezzo tavolo privo di tovaglia, sul

    quale erano sparse le poche modeste stoviglie avute in prestito da una casa poco lontana, un

    greco, venuto fuori da non so dove, serv un troneggiante tacchino allo spiedo, un piatto di pa-

    tate lesse che, in conformit di una tradizionale usanza inglese, sostituivano il pane, ad un paio

    di bottiglie di vino dei famosi vigneti di Samo. Sul punto di dare inizio a quel banchetto natali-

    zio di eccezione, il maggiore, che mi aveva alla sua destra, dalla guaina, sorretta dal cinturone,

    estrasse il coltello greco dalla lunga lama e me lo porse perch facessi le porzioni. Sorpreso che

    mi venisse usata tanta deferenza, lo ringraziai con lo sguardo e lo pregai di dispensarmi dall'as-

    solvere quella mansione.

    In un clima di diffusa rassegnata mestizia, dalla quale pi volte si cerc di evadere con

    qualche battuta di spirito, facemmo onore a quel prelibato tacchino innaffiato dall'ottimo vino.

    Poi il maggiore diede da fumare a chi ne sentiva il bisogno ed infine, dopo averci invitati al ri-cevimento serale che offriva ai maggiorenti del villaggio, si scus di doversi ritirare perch ave-

    va inderogabili impegni.

    Ritornammo al grande magazzino. Il desiderio di trascorrere in letizia le ore di quell'ec-

    cezionale pomeriggio festivo aveva un po' conquiso i villici che affollavano il locale con insolita

    animazione. Seduti ai piccoli tavoli, alcuni giocavano a carte, altri a dama, altri ancora chiac-

    chieravano davanti a bicchieri di vino o di birra e tutto ci tra rumorose risate, arguti frizzi lan-

    ciati anche da un estremo all'altro con voce stentorea, s che, incrociandosi come stelle filanti,

    creavano una risonante allegrezza. Con De Angelis sedetti ad un tavolo, quasi come se mi com-

    piacessi di osservare e di ascoltare, ma in realt, insensibile a quanto si faceva e si diceva, ero

    con la mente ed il cuore molto lontano da quella gaiezza natalizia, ero accanto a chi, tra le mura

    della mia casa lontana, stava in ansia per me e pregava.Uno dopo l'altro, sedettero al nostro tavolo anche Domenico, Ernesto e Giuseppe, i tre

    soldati che dalla sera dell'incontro a Pillaro spartivano con noi ansie e speranze. Stemmo l per

    un bel po' tutt'insieme, parlando a volte di quanti apparivano pi euforici e fu proprio durante

    questo passatempo che conobbi un quarto soldato rifugiatosi ad Achir, un calabrese che disse

    di chiamarsi Antonio Ciaravolo; egli per non faceva parte della guarnigione di Cefalonia e

    pertanto le sue peripezie non erano angosciose come le nostre.

    Gl'inglesi non disponevano ovviamente di una sala adatta a ricevere gl'incliti invitati;

    dovettero pertanto accontentarsi di sgombrare il tavolo da quella prima stanzetta, ove avevamo

    consumato il pranzo natalizio, e fece sedere gl'intervenuti tutt'intorno, alcuni sulle poche sedie,

    altri su casse, altri ancora seduti alla turca. Eravamo in tutto una dozzina di persone, tutti uomi-

    ni, tra i quali spiccava Fotio Janaris armato di fucile, pistola e del tradizionale coltello; a veder-lo, non so come, mi parve di ravvisare in lui l'Innominato prima del provvidenziale incontro con

    il cardinale.

    Il maggiore Le Brocq, compitissimo, offr certi dolcetti molto in uso nel medio oriente,

    pi uva passita, novelline ed un gustoso vino limpido ed aromatico. Mentre si assaporavano quei

    dolciumi fuori delle regola e si sorseggiava il vino prelibato, improvvisamente, da non so dove,

    venne fuori un violino ed il maggiore, sembrandogli forse impossibile che uno come me, nato e

    vissuto nella Napoli canora, non sapesse in qualche modo arrabattarsi con quel delicato stru-

    mento ad arco, fece cenno di darmelo perch suonassi. Ahim! Pur essendo amante della buona

    musica, non ho mai avuto a che fare con il pentagramma e cos il violino pass nelle mani del

    soldato inglese che aveva le precipua funzione di traduttore dal greco e che, in breve, rivel una

    certa bravura nel sapere trarre dalle quattro corde armoniose successioni di note. Il maggiore,

    allegrissimo, si diede a cantare canzonette della sua terra accompagnato dal violino e dai greci

    che, non sapendo fare di meglio, s'industriavano a seguire il canto con improvvisati cori a bocca

    chiusa; io e De Angelis, seduti l'uno accanto all'altro, guardavamo trasognati.

  • 8/3/2019 M. Barletta, Tra marosi e nebbie

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    Mariano Barletta Tra marosi e nebbie Seconda parte

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    Quando per la stancante monotonia dei tradizionali motivi anglosassoni, il flusso canoro

    cal di tono, non per questo si affievol la serena gaiezza di quella eterogenea riunione; i greci

    iniziarono un loro canto, poi, quasi per una preordinata intesa, il maggiore ed i suoi ospiti di lin-

    gua greca si disposero in circolo per una danza collettiva e, tenendosi l'un l'altro mediante un

    fazzoletto impugnato in alto, con mani congiunte, presero a girare in tondo, a suon di musica,

    con passi lenti e striscianti. Fotio Janaris, naturalmente, non trovava scomodo e sconveniente

    danzare senza prima deporre le vistose armi e, con grande disinvoltura, ancheggiava secondo il

    ritmo.

    Venne poi il momento che anche la danza cedette alla noia ed allora ognuno torn a se-

    dere come poteva, a sgranocchiare noccioline, ad assaporare i dolciumi o l'uva passita, a sorseg-

    giare il vino generoso. Il soldato violinista, libero ormai dall'impegno di eseguire motivi con-

    duttori di canzoni o di danze, si sbizzarr ad evocare successi internazionali, alcuni appena ac-

    cennati, quasi come se cercasse frasi musicali che, ben note in un tempo lontano, erano adesso

    per lui monche reminiscenze.

    Dopo una pausa il violino pass nelle mani di Costa, un giovane contadino pi evoluto

    che, dopo qualche accordo, attacc con slancio la celebre serenata di Toselli e le maliose note,

    che gi altra volte, in ben altre circostanze, mi avevano dato un ineffabile godimento, misero in

    vibrazione le corde della mia ipersensibilit emotiva procuratami dai dolorosi eventi. Con lepalpebre socchiuse per meglio astrarmi da quanto mi circondava, mi diedi a seguire con tutto me

    stesso quel rivo sonoro che, senza parole, esprimeva cos bene il desio accorato della casa lonta-

    na, la struggente tristezza per l'incerto domani.

    Improvvisamente Pips si lev ed accorse verso De Angelis; il mio infelice compagno,

    non reggendo forse ai ricordi destati dalla malinconica serenata, era caduto in deliquio. Spruz-

    zatogli un po' d'acqua sul viso, fu portato all'aperto e, investito dall'aria pura e fresca della pio-

    vosa notte dicembrina, si riprese del tutto, ma per noi, ormai, il ricevimento era finito. Preso

    commiato dal maggiore e dai suoi ospiti, con De Angelis al braccio di Pips, mestamente ci av-

    viammo sotto la pioggia verso la casa di Socrtis.

    Nei giorni seguenti continuammo a beneficiare dei doni della provvidenza, tuttavia il

    mio animo non smise dal sentirsi attanagliato da un diffuso malessere. L'impossibilit di soppe-rire a quanto urgentemente mi necessitava e le precarie condizioni dell'igiene personale, soprat-

    tutto per gl'insetti parassiti che sempre pi