M apparsa a · 2010. 10. 22. · INDRO MONTANELLI (Fucecchio 1909 - Milano 2001) è stato il più...

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  • M olti lettori considerano la Storia di Roma, apparsa a puntate sulla «Domenica del Corriere» negli anni Cin-quanta e pubblicata in volume nel 1957, il primo capito-lo della successiva «Storia d'Italia». Hanno ragione. Perché se da un lato è indiscutìbile che gli antichi romani abbiano ben poco in comune con gli italiani di oggi (la Roma repubblicana e imperiale era, ad esempio, la culla del diritto, mentre cercare di sfuggire alle leggi è un'arte da sempre praticata nel Bel Paese), dall'altro è inne-gabile che la storia romana ci offre chiari esempi di come alcuni vi-zi che ci affliggono siano tutt'altro che nuovi. Speculazione, tan-genti, corruzione, trasformismo, retorica, violenza politica, cliente-lismo e nepotismo sono una costante delle vicende di Roma dalla sua fondazione, avvenuta secondo la leggenda il 21 aprile del 753 a.C, fino alla caduta dell'impero d'Occidente nel 476 d.C. In que-sta Storia di Roma Indro Montanelli infranse tutti i tabù accade-mici con Usuo metodo di indagare e raccontare il nostro passato. Lo rese accessibile a milioni di lettori appassionandoli su vicende a vol-te giudicate noiose sui banchi della scuola. Montanelli, in queste pagine, è un grande inviato speciale che scrive un'impareggiabile inchiesta sulla Roma dei primi re, sull'età repubblicana, sulle guer-re civili, sulla nascita dell'impero, sul suo apogeo e sul suo lento e inesorabile declino segnato dall'anarchia militare, dalla disgrega-zione del potere centrale, dalle invasioni barbariche. E come un giornalista dalla penna affilata Montanelli ci presenta i protagoni-sti di questa avventura secolare rivelandone ì piccoli segreti, le de-bolezze, l'umanità e spogliandoli da quella retorica con la quale erano stati nascosti dagli umanisti del Rinascimento, dagli storici ufficiali e dalla propaganda fascista. I primi re, Annibale e Scipio-

  • ne, Mario e Siila, Cicerone, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Augusto e Tiberio, Nerone e i cristiani, gli imperatori soldati, Co-stantino, Ambrogio e Teodosio compaiono attraverso uno stile dissa-crante, fedele ai fatti ina non ai luoghi comuni. Scrisse Montanelli nella prefazione alla prima edizione di questo libro: «Tutto ciò che qui racconto è già stato raccontato. Io spero solo di averlo fatto in maniera più semplice e cordiale, attraverso una serie di ritratti che illuminano i protagonisti in una luce più vera... Se riuscirò ad af-fezionare alla storia di Roma qualche migliaio di italiani fin qui re-spinti dall'accademismo di chi gliel'ha raccontata prima di me, mi riterrò un autore utile e fortunato». Era una scommessa; e questa scommessa l'ha vinta.

    INDRO MONTANELLI (Fucecchio 1909 - Milano 2001) è stato il più grande giornalista italiano del Novecento. Laureato in legge e in scienze politiche, inviato speciale del «Corriere della Sera», fonda-tore del «Giornale nuovo» nel 1974 e della «Voce» nel 1994, è tor-nato nel 1995 al «Corriere» come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre c inquanta libri. Tra i suoi ultimi successi, tutti pubblicati da Rizzoli, ricordiamo: Le stanze (1998), Eltalia del Nove-cento (con Mario Cervi, 1998), La stecca nel coro (1999), LItalia del Millennio (con Mario Cervi, 2000), Le nuove stanze (2001).

  • Indro Montanelli

    STORIA DI ROMA

  • I N T R O D U Z I O N E

    Pessimo amministratore di me stesso e delle mie cose, non so nemme-no io quante edizioni ha avuto questa Storia di Roma. Da un con-to approssimativo, credo di poter dire che ha venduto oltre cinque-centomila copie senza contare le traduzioni. Non me ne faccio un vanto: non sempre, anzi quasi mai, il successo di un libro dà la mi-sura del suo valore. Ne conosco parecchi che, proclamati a gran voce «libri dell'anno», lo sono stati veramente, nel senso che l'anno dopo tutti li avevano dimenticati. Quando però un libro dell'anno lo ri-mane per trentacinque anni (tanti ne ha, o pressappoco, questa Sto-ria), vuol dire che qualche merito, piccolo o grande, deve averlo.

    Costretto a rileggerlo prima di dare il via a questa ennesima edi-zione, non ho trovato nulla da aggiungervi né da togliervi. Ho solo dovuto aggiornare certi riferimenti al presente, che nel frattempo erano cambiati: per esempio il rapporto fra la moneta di allora (il sesterzio e il talento) e la lira di oggi, il cui potere d'acquisto va-ria in continuazione. Ma niente altro. Col che non voglio dire che questa Roma sia completa e perfetta. Nessun libro di storia lo è. Se-condo una recente scuola francese - cui si debbono, intendiamoci, opere di altissimo livello - lo storico dovrebbe sapere di tutto, e di tutto dare, nelle sue ricostruzioni, il quadro completo: non solo di politica e di economia, ma anche di scienza, di urbanistica, di nu-mismatica, di dietetica, di medicina, di tecnologia, eccetera. Che mi sembra la scoperta dell'acqua calda. Si capisce che lo storico do -vrebbe sapere tutto questo. Ma di fatto nessuno storico, per quanto enciclopedico, lo sa. E se lo sapesse, forse non sarebbe più in grado di scrivere un libro di storia perché sarebbe trascinato a frammen-tarsi e perdersi nel labirinto di tutte queste tematiche. Il grande Strachey diceva che fra le tante qualità che occorrono allo storico,

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  • c'è anche un pizzico d'ignoranza: quella che, impedendogli di ap-profondire l'analisi di tanti particolari, gli consente di cogliere la sintesi dei grandi avvenimenti. E a riprova citava l'esempio di Ac-ton che, da tutti considerato il padre della storiografia inglese, non scrisse mai un libro perché mai riuscì a metterci dentro tutto quello che riteneva necessario alla sua completezza.

    Io non ho mai avuto l'ambizione di scrivere una storia completa: so benissimo dì aver sacrificato molti particolari al quadro genera-le. Ma il quadro generale, coi suoi grandi eventi e trasformazioni, credo di averlo reso. Trentacinque anni fa, ad epilogo della prefa-zione apposta alla prima edizione, scrivevo: «Non ho scoperto nul-la, con questo libro. Esso non pretende di portare "rivelazioni", nemmeno di dare una interpretazione originale della storia dell'Ur-be. Tutto ciò che qui racconto è già stato raccontato. Io spero solo di averlo fatto in maniera più semplice e cordiale, attraverso una serie di ritratti che illuminano i protagonisti in una luce più vera, spo-gliandoli dei paramenti che fin qui ce li nascondevano. A qualcuno potrà sembrare un'ambizione modesta. A me, no. Se riuscirò ad af-fezionare alla storia di Roma qualche migliaio di italiani fin qui re-spinti dall'accademismo di chi gliel'ha raccontata prima di me, mi riterrò un autore utile e fortunato».

    Nemmeno a questo ho alcunché da aggiungere o da togliere.

    I. M. Milano, ot tobre 1988

  • CAPITOLO PRIMO

    AB URBE C O N D I T A

    N o n sappiamo con precisione q u a n d o a Roma furono isti-tui te le p r i m e scuole regolar i , cioè «statali». P lu tarco dice > che nacque ro verso il 250 avanti Cristo, cioè circa c inque-cen t ' ann i d o p o la fondaz ione della città. F ino a que l m o -men to i ragazzi romani e rano stati educati in casa, i più po-veri dai genitori , i p iù ricchi da magistri, cioè da maestr i , o istitutori, scelti di solito nella categoria dei liberti; gli schiavi liberati, che a loro volta e rano scelti fra i prigionieri di guer-ra, e preferibi lmente fra quelli di origine greca, che e rano i p iù colti.

    Sappiamo però con certezza che dovevano faticare meno di quelli di oggi. Il latino lo sapevano già. Se avessero dovu-to s tudiar lo , diceva i l poeta tedesco He ine , n o n avrebbero mai trovato il t empo di conquistare il m o n d o . E quan to alla storia della loro patria, gliela raccontavano press'a poco così:

    Q u a n d o i greci di Agamennone , Ulisse e Achille conqui-s tarono Troia, nell'Asia Minore, e la misero a ferro e a fuo-co, u n o dei pochi difensori che si salvò fu Enea, for tunata-m e n t e «raccomandato» (certe cose usavano anche a que i tempi) da sua madre , ch 'era n i en t epopod imeno che la dea Venere-Afrodi te . Con u n a valigia sulle spalle, p i ena delle immagini dei suoi celesti protet tor i , fra i quali na tu ra lmente i l posto d ' o n o r e toccava alla sua b u o n a m a m m a , ma senza u n a lira in tasca, il povere t to si d iede a g i rare il m o n d o , a casaccio. E d o p o n o n si sa quant i anni di avventure e di di-savventure, sbarcò, s empre con quella sua valigia sul g rop-pone , in Italia, prese a risalirla verso no rd , g iunse nel La-zio, vi sposò la figlia del re Latino, che si chiamava Lavinia,

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  • fondò u n a città cui d iede il nome della moglie, e insieme a costei visse felice e contento tutto il resto dei suoi giorni.

    Suo figlio Ascanio fondò Alba Longa, facendone la nuo -va capi tale . E d o p o ot to generaz ion i , cioè a d i re qua lche duecento anni dopo l 'arrivo di Enea, d u e suoi discendenti , Numi tore e Amulio, e rano ancora sul t rono del Lazio. Pur-t r o p p o sui t ron i in d u e ci si sta stret t i . E così un g io rno Amul io scacciò il fratello p e r r e g n a r e da solo, e gli uccise tutti i figli, meno una : Rea Silvia. Ma, pe rché n o n mettesse al m o n d o qualche figliolo cui potesse, da g r ande , saltare i l ticchio di vendicare il n o n n o , la obbligò a d iventare sacer-dotessa della dea Vesta, vale a dire monaca.

    Un g iorno Rea, che p robab i lmen te aveva u n a g r a n vo-glia di mar i to e si rassegnava male al l ' idea di n o n poters i sposare, p rendeva il fresco in riva al fiume perché era un 'e-state m a l e d e t t a m e n t e calda, e si a d d o r m e n t ò . Per caso in quei paraggi passava il dio Marte che scendeva sovente sul-la terra , un po ' pe r farvi qualche guerricciola, ch 'era il suo mestiere abituale, un po ' pe r cercare delle ragazze, ch 'era la sua pass ione favorita. Vide Rea Silvia. Se ne i n n a m o r ò . E senza n e m m e n o svegliarla, la rese incinta.

    Amulio, q u a n d o lo seppe, si arrabbiò moltissimo. Ma non la uccise. Aspettò ch'essa partorisse non uno , ma d u e ragaz-zini gemelli. Poi li fece caricare su u n a microscopica zattera che affidò al fiume p e r c h é se li por tasse , sul filo della cor-r en te , fino al mare , e lì li lasciasse affogare. Ma n o n aveva fatto i cont i col vento , che quel g io rno spirava abbastanza forte, e che condusse la fragile imbarcaz ione a insabbiarsi poco lontano, in ape r t a campagna . Qui i d u e derelit t i , che p iangevano r u m o r o s a m e n t e , r i ch i amarono l 'a t tenzione d i u n a lupa che corse ad allattarli. Ed è perciò che quella be-stia è diventata il simbolo di Roma, che dai d u e gemelli poi fu fondata.

    I maligni dicono che quella lupa non era affatto u n a be-stia, ma una d o n n a vera, Acca Larentia , chiamata Lupa pe r via del suo carat tere selvatico e delle molte infedeltà che fa-

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  • ceva a suo mar i to , un povero pas to re , a n d a n d o s e n e a far l 'amore nel bosco con tutti i giovanotti dei dintorni . Ma for-se non sono che pettegolezzi.

    I d u e gemelli succhiarono il latte, poi passarono alle pap-pine , poi misero i p r imi dent i , r icevettero il n o m e l 'uno di Romolo, l'altro di Remo, crebbero, e alla fine seppero la lo-ro storia. Allora t o r n a r o n o ad Alba Longa , o rgan izzarono u n a rivoluzione, uccisero Amulio, r imisero sul t rono Numi-tore. Eppoi , impazienti di far qualcosa di nuovo come tutti i giovani, invece di aspettare un regno bell'è fatto dal nonno , che ce r t amente gliel 'avrebbe lasciato, a n d a r o n o a costruir-sene u n o nuovo un po ' più in là. E scelsero il p u n t o in cui la loro zattera si era arenata, in mezzo alle colline fra cui scor-re i l Tevere , q u a n d o sta p e r sfociare in m a r e . Qu i , come spesso succede tra fratelli, l i t igarono sul n o m e da da re alla città. Poi decisero che avrebbe vinto chi avesse visto più uc-celli. Remo, sull'Aventino, ne vide sei. Romolo, sul Palatino, ne vide dodici: la città si sarebbe d u n q u e ch iamata Roma. Agg ioga rono d u e b ianchi buoi , scavarono un solco, e co-s t ru i rono le m u r a g i u r a n d o di uccidere ch iunque le oltre-passasse. Remo, di ma lumore pe r la sconfitta, disse che era-no fragili e ne r u p p e un pezzo con un calcio. E Romolo, fe-dele al g iuramento , lo accoppò con un colpo di badile.

    Tut to ciò, d icono, avvenne se t tecentoc inquanta t ré ann i p r ima che Cristo nascesse, esat tamente il 21 aprile, che tut-tora si festeggia come il compleanno della città, nata, come si vede , da un fratricidio. I suoi abi tant i ne fecero l'inizio della storia del mondo , f in q u a n d o l 'avvento del Redentore n o n ebbe imposto un'al t ra contabilità.

    Forse anche i popoli vicini facevano al t ret tanto: o g n u n o di essi da tava la storia del m o n d o dalla fondaz ione della p ropr i a capitale, Alba Longa, Rieti, Tarquinia, o Arezzo che fosse. Ma n o n r iusc i rono a farselo r iconoscere dagl i altri , p e r c h é commise ro i l piccolo e r r o r e di p e r d e r e la g u e r r a , anzi le gue r re . Roma invece le vinse. Tutte. Il p o d e r e di po-chi et tari che Romolo e Remo si tagl iarono con l 'aratro fra

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  • le colline del Tevere d iventò nello spazio di pochi secoli il c en t ro del Lazio, poi dell ' I talia, poi di tut ta la t e r r a allora conosciuta . E in tu t ta la t e r r a allora conosciuta si pa r lò la sua lingua, si r ispet tarono le sue leggi, e si contarono gli an-ni ab urbe condita, cioè da quel famoso 21 apr i le del 753 avanti Cristo, inizio della storia di Roma e della sua civiltà.

    Na tu ra lmen te le cose n o n e rano anda te prec isamente così. Ma così i babbi romani pe r molti secoli vollero che venissero raccontate ai loro figli: un po ' perché ci credevano essi stes-si, un po ' perché , gran patrioti , li lusingava molto il fatto di poter mescolare degli dèi influenti come Venere e Marte, e delle personali tà altolocate come Enea, alla nascita della lo-ro Urbe . Essi sent ivano o s c u r a m e n t e ch ' e ra mol to impor -tante allevare i loro ragazzi nella convinzione di appar tene-re a una patr ia costruita col concorso di esseri sopranna tu-rali, che cer tamente n o n vi si sarebbero prestati se n o n aves-sero inteso assegnarle un g rande destino. Ciò diede un fon-d a m e n t o religioso a tut ta la vita di Roma, che infatti crollò q u a n d o esso venne m e n o . L'Urbe fu caput mundi; capitale del m o n d o , finché i suoi abitanti seppero poche cose e furo-no abbas tanza ingenu i da c r e d e r e in quel le , l eggendar i e , che avevano loro insegnato i babbi e i magistri; finché furo-no convinti di essere i discendenti di Enea, di avere nello lo-ro vene sangue divino e di essere «unti del Signore» anche se a quei tempi si chiamava Giove. Fu q u a n d o cominciarono a dub i t a rne che il loro I m p e r o a n d ò in f rantumi e il caput mundi diventò una colonia. Ma non precipit iamo.

    Nella bella favola di Romolo e Remo, forse n o n tu t to è favola. Forse c'è anche qualche e lemento di verità. Vediamo di sviscerarlo sulla base dei pochi dati abbastanza sicuri che l 'archeologia e l 'etnologia ci h a n n o fornito.

    Già t rentamila anni p r ima della fondazione di Roma, pa-re che l 'Italia fosse abi ta ta da l l ' uomo . C h e u o m o fosse, i competent i dicono di averlo ricostruito da certi ossicini del suo scheletro trovati qua e là, e che r imontano alla cosiddet-

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  • ta «età della pietra». Ma noi ci fidiamo poco di queste indu-zioni, e quindi saltiamo a pie pari a un'era molto più vicina, quel la «neolitica», di qualcosa come ot tomila ann i fa, cioè cinquemila p r ima di Roma. Pare che la nostra penisola fos-se allora popolata da certi liguri a n o r d e siculi a sud, gente con la testa a forma di pera , che viveva un po ' in caverna, un po ' in capannucce ro tonde , fatte di sterco e di fango, ad-domesticava animali e si nutr iva di caccia e di pesca.

    Facciamo ancora un salto di quat t romila anni , cioè ar r i -viamo al 2000 avanti Cristo. Ed ecco che dal Se t ten t r ione , cioè dalle Alpi, g iungono altre tr ibù, chissà da quan to tem-po in marcia dalla loro patr ia di origine: l 'Europa centrale. Costoro non sono molto più progredi t i degli indigeni con la testa a pera ; ma h a n n o l 'abitudine di costruire le loro abita-zioni non in caverna, sibbene su travi immerse nell 'acqua, le cosiddette «palafitte». Vengono, si vede, da posti acquitrino-si, e infatti, arr ivat i da noi , scelgono la r eg ione dei laghi , quel lo Maggiore , quel lo di Como , quel lo di Garda , antici-p a n d o di qualche mil lennio il gusto dei turisti m o d e r n i . E i n t roducono nel nos t ro paese a lcune g rand i novità: quella di allevare greggi, quella di coltivare il suolo, quella di tesse-re stoffe e quella di c i rcondare i loro villaggi con bastioni di mo ta e di t e r r a ba t tu t a p e r d i fender l i t an to dagli at tacchi degli animali quanto da quelli degli uomini .

    Piano piano cominciarono a scendere verso il sud, si abi-tua rono a costruire capanne anche sull'asciutto ma sempre punte l landole su palafitte; impara rono , da certi loro cugini, pa re , installatisi in Germania , l 'uso del ferro con cui si fab-br icarono un sacco di aggeggi nuovi, asce, coltelli, rasoi, ec-cetera, e fondarono u n a città vera e p ropr ia , che si chiamò Villanova, e che doveva trovarsi nei pressi di quella che og-gi è Bologna. Fu questo il centro di una civiltà che si chiamò a p p u n t o «villanoviana» e che p iano p iano dilagò in tut ta la penisola . Da essa si c r ede che der iv ino , come razza, come lingua, come costumi, gli umbri , i sabini e i latini.

    Cosa facessero degl ' indigeni liguri e siculi questi villano-

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  • E L V E Z I N O R I C I

    Le antiche popolazioni dell'Italia

  • viani, q u a n d o si stabilirono nelle te r re a cavalcioni del Teve-r e , n o n si sa. Forse li s t e r m i n a r o n o , come si usava a que i t empi cosiddetti «barbari» pe r dist inguerl i da quelli nostri in cui si fa altrettanto sebbene si chiamino «civili»; forse vi si mescolarono d o p o averli sottomessi. Fatto si è che, verso il 1000 avanti Cristo, tra la foce del Tevere e la baia di Napoli, i nuovi venuti fondarono molti villaggi che, sebbene abitati da gente del medes imo sangue, si facevano gue r r a t ra loro e n o n si rappacificavano che di fronte a qualche c o m u n e ne-mico o in occasione di qualche festa religiosa.

    La più g rande e potente di queste cittadine fu Alba Lon-ga, capitale del Lazio, ai piedi del mon te Albano, che corri-sponde p robab i lmente a Castel Gandolfo. E a lbalongani si rit iene che fossero quel p u g n o di avventurosi giovanotti che un bel g iorno emigra rono qualche decina di chilometri più al nord , e fondarono Roma. Forse e rano dei braccianti, che andavano cercando un po ' di t e r ra da appropr iars i e da col-tivare. Forse e rano dei poco di b u o n o che avevano qualche conto da regolare con la polizia e i tr ibunali della loro città. Forse e rano degli emissari manda t i dal loro governo a sor-vegliare quel pun to , al confine con la Toscana, sulle cui co-ste e ra p r o p r i o allora sbarcata u n a nuova popolaz ione , gli etruschi, che non si sapeva da che par te del m o n d o venisse-ro , ma di cui si d icevano peste e co rna . E forse t ra quest i pionieri ce n 'e rano davvero d u e che si chiamavano u n o Ro-molo e l 'altro Remo. C o m u n q u e , n o n dovevano essere più di un centinaio.

    Il posto che scelsero aveva molti vantaggi e molti svantag-gi. Era a u n a ventina di chilometri dal mare , e questo anda-va benissimo per tenersi al r iparo dai pirati che lo infestava-no, senza r inunziare a farne un por to: perché dalle imbarca-zioni di quel tempo, il braccio di fiume che lo separava dalla foce era facilmente navigabile. Ma gli stagni e gli acquitrini che lo circondavano lo condannavano alla malaria, malanno che ha battuto alle sue por te sino a pochi anni orsono. Però c 'erano le colline, che a lmeno in par te proteggevano gli abi-

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  • tanti dalle zanzare. E infatti fu su una di esse, il Palatino, che d a p p r i m a si acquar t i e ra rono , col propos i to di popo la re in seguito anche le altre sei che stavano tut t 'a t torno.

    Ma per popolarle , occorreva fare dei figli. E pe r fare dei figli, occorrevano delle mogli. E quei pionieri e rano scapoli.

    Qui , in mancanza di storia, dobbiamo pe r forza to rna re alla leggenda, che ci racconta come fece Romolo, o comun-q u e si chiamasse il capoccione di que i tipacci, a p r o c u r a r d o n n e a sé e ai suoi c o m p a g n i . Indisse u n a g r a n d e festa, forse con la scusa di celebrare la nascita della sua città, e in-vitò a p renderv i par te i vicini di casa sabini (o quiriti), col lo-ro re , Tito Tazio, e soprat tut to le loro figlie. I sabini venne-ro . Ma, men t r e e rano intenti a gareggiare nelle corse a pie-di e a cavallo, ch 'era il loro sport preferito, molto poco spor-t ivamente i pad ron i di casa ruba ron loro le ragazze e li but-ta rono fuori a peda te .

    I nos t r i ant ichi e r a n o mol to sensibili alle ques t ioni di d o n n e . Poco p r ima , i l ra t to di una , Elena, e ra costato u n a g u e r r a d u r a t a dieci a n n i e f ini ta con la d i s t ruz ione di un g rande regno : quello di Troia. I roman i ne rap i rono a doz-zine, ed è quindi na tura le che il g iorno d o p o dovessero far fronte ai loro babbi e fratelli, tornat i in armi pe r recuperar -le. Si asserragliarono sul Campidogl io, ma commisero l'im-perdonabi le e r ro re di affidare le chiavi della fortezza a u n a di quelle loro improvvisate mogli, che ev iden temen te non era stata molto soddisfatta del mari to toccatole in sorte: Tar-peia, u n a ragazza r o m a n a che d icono fosse i n n a m o r a t a d i Tito Tazio. Costei apr ì una por ta agl'invasori. I quali, gente cavalleresca e q u i n d i refra t tar ia a tut t i i t r ad imen t i , com-pres i quelli p e r p e t r a t i in loro favore, la c o m p e n s a r o n o schiacciandola sotto i loro scudi. I roman i più tardi d iedero il suo n o m e alla r u p e dalla quale solevano precipi tare i tra-ditori della patr ia condannat i a mor te .

    Tutto f inì in un pantagruel ico banchet to nuziale. Perché le altre d o n n e , in nome delle quali la battaglia si e ra accesa, a un certo p u n t o s ' interposero fra i d u e eserciti e dichiara-

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  • r o n o che n o n i n t e n d e v a n o res ta re or fane , come sa rebbe successo se i loro mari t i r o m a n i avessero vinto, o vedove , come sarebbe successo se avessero vinto i loro babbi sabini. E ch 'era ora di finirla perché con quegli sposi, sebbene spic-ciativi e maneschi , s 'eran t rovate benissimo. Meglio valeva regolarizzare i matr imoni , invece di cont inuare a scannarsi. E così fu. Romolo e Tazio decisero di g o v e r n a r e ins ieme, a m b e d u e col titolo di re , quel nuovo popolo nato dalla fu-sione delle due tribù, di cui por tò congiuntamente il nome : romani quiriti. E siccome Tazio, subito dopo , ebbe la compia-cenza di mor i re , l ' esper imento di r e g n o a d u e quella volta a n d ò bene .

    Chissà cosa c'è sotto a questa storia. Forse essa non è che la vers ione , sugger i ta dal pa t r io t t i smo e dal l 'orgogl io , di u n a conquista d i Roma da pa r t e dei sabini. Ma p u ò anche darsi che i due popoli si siano davvero volontar iamente me-scolati e che il famoso ra t to fosse soltanto la n o r m a l e ceri-monia del mat r imonio , come lo si celebrava allora, cioè col furto della sposa da par te dello sposo, ma col consenso del pad re di lei, come si fa ancora presso certi popoli primitivi.

    Se così fu veramente , è probabile che questa fusione fos-se, più che suggerita, imposta dal pericolo di un nemico co-m u n e : quegli etruschi che frattanto, dalla costa tirrenica, si e r ano sparpagliati in Toscana e in Umbr ia e, a rmat i di u n a tecnica molto più p rogred i t a , p r e m e v a n o verso i l sud. Ro-ma e la Sabina e rano sulla direttrice di questa marcia e sotto diret ta minaccia. Infatti n o n vi scamparono.

    L'Urbe era a p p e n a nata, e già doveva vedersela con u n o dei più difficili e insidiosi rivali di tutta la sua storia. Lo ab-batté at traverso prodigi di diplomazia pr ima, di coraggio e di tecnica poi. Ma le occorsero dei secoli.

  • CAPITOLO SECONDO

    POVERI E T R U S C H I

    All 'opposto dei roman i d'oggi, che fanno tut to pe r scherzo, quelli dell 'antichità facevano tut to sul serio. E specialmente q u a n d o si met tevano in testa di d is t ruggere un nemico, n o n solo gli muovevano g u e r r a e n o n gli davano t r egua p r ima di averlo sconfitto, anche a costo di r imet te rc i eserciti su eserciti e quat t r ini su quattr ini ; ma poi gli en t ravano in casa e n o n vi lasciavano pietra su pietra.

    Un t ra t t amento par t icolarmente severo r iservarono agli etruschi, quando , dopo aver subito da loro molte umiliazio-ni, si sent i rono abbastanza forti pe r poterl i sfidare. Fu u n a lotta lunga e senza esclusione di colpi, ma al vinto non furo-no lasciati neanche gli occhi p e r p i ange re . R a r a m e n t e si è visto nella storia un popolo scomparire dalla faccia della ter-ra, e un altro cancellarne le tracce con sì ostinata ferocia. E a ques to si deve il fatto che di tut ta la civiltà e trusca n o n è r imas to quasi p iù nul la . N o n ne sopravvivono che a lcune o p e r e d 'a r te e qualche migliaio d'iscrizioni, di cui solo po -che parole sono state decifrate.

    Su quest i scarsissimi e lement i , o g n u n o ha r icos t rui to quel m o n d o a modo suo.

    In tanto , nessuno sa con precisione di dove questo popo-lo venisse. Dal m o d o come si sono rappresen ta t i essi stessi nei b ronz i e nei vasi di te r racot ta , pa r e che avessero corpi più tracagnotti e crani più massicci dei villanoviani, e linea-ment i che r icordano la gente dell'Asia Minore. Molti infatti sostengono che ar r ivarono da quelle cont rade , pe r mare ; e la cosa sarebbe confermata dal fatto che furono i pr imi, tra gli abitatori dell'Italia, ad avere u n a flotta. Certo, furono lo-

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  • ro a da re il n o m e di T i r r eno , che vuol dire a p p u n t o «etru-sco», al mare che bagna la costa della Toscana. Forse arriva-rono in massa e sommersero la popolazione indigena, forse sbarcarono in pochi e si l imitarono a sottometterla con le lo-ro a rmi più progredi te e la loro tecnica più sviluppata.

    Che la loro civiltà fosse super iore a quella villanoviana è d imos t ra to dai c rani che h a n n o t rovato nelle t ombe e che m o s t r a n o o p e r e di p ro tes i den ta l i abbas tanza raffinate. I dent i sono un g ran segno, nella vita dei popoli . Essi si dete-r io rano con lo svilupparsi del progresso che r e n d e più im-per ioso il b isogno di cu re perfezionate . Gli e t ruschi cono-scevano già il «ponte» pe r rinforzare i loro molari e i metalli che occorrevano pe r fabbricarlo. Infatti sapevano lavorare n o n solo il ferro che a n d a r o n o a cercare, e t rovarono, all'i-sola d'Elba e che t r a s fo rmarono da greggio in acciaio; ma anche il rame, lo stagno e l 'ambra.

    Le città che si d i e d e r o subito a cos t ru i re ne l l ' i n te rno , Tarquinia, Arezzo, Perugia, Vejo, e rano molto più m o d e r n e dei villaggi fondati dai latini, dai sabini e dalle altre popola-zioni villanoviane. Tutte avevano dei bastioni pe r difender-si, delle s trade e soprat tut to le fogne. Seguivano, insomma, un «piano urbanist ico», come si d i rebbe oggi, r i m e t t e n d o alla compe tenza degl ' ingegner i , che e r ano pe r quei tempi bravissimi, ciò che gli altri lasciavano al caso e al capriccio degl ' individui . Sapevano organizzarsi pe r lavori collettivi, di utilità generale, e lo d imost rano i canali con cui bonifica-r o n o quelle cont rade infestate dalla malaria. Ma soprat tut to e rano formidabili mercanti , attaccati ai soldi e pront i a qua-l u n q u e sacrificio p u r di moltiplicarli. I r o m a n i ignoravano ancora cosa ci fosse d ie t ro il Sorat te , mon tagno la poco di-scosta dalla loro città, che gli e t ruschi già e r ano arr ivat i in Piemonte , Lombard ia e Veneto, avevano varcato a piedi le Alpi e, r isalendo il Rodano e il Reno, avevano por ta to i loro p rodo t t i sui mercat i francesi, svizzeri e tedeschi p e r scam-biarli con quelli locali. Furono loro a por t a re in Italia come mezzo di scambio la m o n e t a , che i r o m a n i poi cop ia rono ,

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  • tanto è vero che vi lasciarono incisa la p r u a di u n a nave pri-ma di averne mai costruita una .

    Erano gente allegra, che p rendeva la vita dal lato più pia-cevole; e pe r questo alla fine persero la gue r ra contro i ma-linconici roman i che la p r endevano dal lato più austero. Le scene r iprodot te sui loro vasi e sepolcri ci most rano uomini ben vestiti con quella toga, che poi i r o m a n i cop ia rono fa-c e n d o n e il loro cos tume nazionale , l ungh i capelli e ba rbe inanel late , molti gioielli al polso, al collo, ai diti, e s e m p r e intesi a bere , a mangiare e a conversare, q u a n d o n o n lo era-no a prat icare qualcuno dei loro esercizi sportivi.

    Questi consistevano soprat tut to nella boxe, nel lancio del disco e del giavellotto, nella lotta e in altre due manifestazio-ni che noi crediamo, a torto, squisitamente mode rne e fore-stiere: il polo e la corr ida. Na tu ra lmente le regole di questi giuochi e rano diverse da quelle che si usano oggi. Ma sin da allora lo spettacolo della lotta fra il toro e l 'uomo nell 'arena era considerato di pregio, tanto è vero che chi moriva se ne voleva por ta re nella tomba qualche scena-ricordo dipinta sui vasi, pe r cont inuare a divertircisi anche nell'aldilà.

    Un gran passo avanti rispetto agli arcaici e patriarcali co-stumi roman i e degli altri indigeni , era la condizione della donna , che presso gli etruschi godeva di g ran libertà, e in-fatti viene rappresen ta ta in compagnia dei maschi, parteci-pe dei loro divertimenti . Pare che fossero d o n n e molto belle e di liberissimi costumi. Nei d ipint i a p p a i o n o ingioiellate, asperse di cosmetici e senza t r o p p e preoccupaz ioni di pu -dore . Mangiano a crepapelle e bevono a garganella, distese coi loro uomin i su amp i sofà. O p p u r e s u o n a n o il flauto, o danzano . U n a di loro, che poi diventò molto impor t an t e a Roma, Tanaquilla, era una «intellettuale», che la sapeva lun-ga di matematica e di medicina. Il che vuol dire che, a diffe-renza del le loro col leghe lat ine, c o n d a n n a t e alla p iù ne ra ignoranza, andavano a scuola e s tudiavano. I romani , ch 'e-r a n o g r a n moralist i , ch iamavano «toscane», cioè e t rusche , tutte le d o n n e di facili costumi. E in u n a commedia di Plauto

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  • c'è u n a ragazza accusata di seguire il «costume toscano» per-ché fa la prosti tuta.

    La religione, che è sempre la proiezione della morale di un popolo, era centrata su un dio di nome Tinia, che eserci-tava il suo potere col fulmine e il tuono. Egli non governava d i re t tamente gli uomini , ma affidava i suoi ordini a u n a spe-cie di gabinet to esecutivo, compos to di dodic i g r a n d i dèi , così g rand i ch 'era sacrilegio perfino p ronunc i a rne il nome . Asteniamocene quindi anche noi, pe r n o n confondere la te-sta di chi ci legge. Tutt i insieme costoro formavano il g r an t r ibunale dell'aldilà, dove i «genii», specie di commessi o di guard ie municipali , conducevano le an ime dei defunti, ap -p e n a avevano a b b a n d o n a t o i loro r ispett ivi corpi . E lì co-minciava un processo in piena regola. Chi n o n riusciva a di-mos t ra re di aver vissuto secondo i precet t i dei giudici, e ra condanna to all ' inferno, a m e n o che i pa ren t i e gli amici ri-masti in vita n o n facessero pe r lui tante preghie re e sacrifici da o t t ene rne l 'assoluzione. E in questo caso veniva assunto in paradiso, pe r con t inuare a godervi quei terrestr i piaceri a base di bevute, mangiate , cazzotti e canzonette, di cui s'era fatto scolpire le allegre scene sul sepolcro.

    Ma del paradiso gli e t ruschi pa re che par lassero poco e di r ado , lasciandolo piut tosto nel vago. Forse t r o p p o pochi ce ne andavano, pe r saperne qualcosa di preciso. Quello su cui e r ano informatissimi era l ' inferno, di cui conoscevano, u n o pe r uno , tutti i to rment i che vi si soffrivano. Evidente-mente i loro pret i pensavano che, pe r tenere in riga la gen-te, valevano più le minacce della dannazione che le speran-ze dell 'assoluzione. E questo m o d o di veder le cose si è per-pe tua to sino in tempi più recenti, sino a quelli di Dante che, nato in Etrur ia anche lui, è r imasto dello stesso pa re re e sul-l ' inferno ha scialato molto più che sul paradiso.

    Con questo non dobbiamo credere che gli etruschi fosse-ro fiorellini di gentilezza. Ammazzavano con relativa faci-lità, e sia p u r e con la b u o n a intenzione di offrire in sacrificio la vi t t ima p e r la salvezza di qua lche amico o p a r e n t e . So-

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  • Le principali città etrusche

  • pra t tu t to i prigionieri di guer ra e rano adibiti a questa biso-gna. Trecento romani , catturati in u n a delle tante battaglie che si combat te rono fra i d u e eserciti, furono uccisi pe r lapi-dazione a Tarquinia. E sul loro fegato ancora palpi tante di vita gl 'indovini cercarono di de te rminare i futuri eventi del-la gue r ra . Ev iden temente n o n ci r iuscirono, a l t r imenti l'a-vrebbero smessa subito. Ma l'uso era frequente, anche se in genere ci si serviva delle viscere di qualche animale, pecora o toro che fosse, e i romani lo copiarono.

    Poli t icamente, le loro sparse città n o n r iusc i rono mai a unirsi , e p u r t r o p p o n o n ce ne fu nessuna abbastanza forte pe r t ene re in p u g n o le al tre, come fece Roma con le rivali latine e sabine. Ci fu u n a federazione domina ta da Tarqui-nia, ma non venne a capo delle t endenze separatiste. I do-dici piccoli stati che ne facevano par te , invece di unirsi con-t ro il c o m u n e nemico, si lasciarono ba t te re e fagocitare da esso u n o p e r u n o . La loro d ip lomazia e ra come quel la d i certe m o d e r n e nazioni eu ropee che preferiscono mor i re da sole piuttosto che vivere insieme.

    Tut to questo è stato r icostrui to, a furia d ' induzioni , dai resti dell 'arte etrusca che sono giunti sino a noi e che costi-tuiscono la sola e red i tà lasciataci da quel popo lo . Si t ra t ta specialmente di vasi e di bronzi. Fra i vasi ce ne sono di belli, come 1'«Apollo di Vejo», detto anche «Apollo che cammina», di terracotta policroma, che denunzia nei coroplasti etruschi una g rande perizia tecnica e un gusto raffinato. Sono quasi s empre d' imitazione greca e, salvo qualche r a ro esemplare come il «bucchero nero», n o n ci sembrano gran che.

    Ma pe r q u a n t o scarsi s iano quest i resti , ba s t ano a farci capi re come i r o m a n i , u n a volta ch ' ebbe ro sopraffatto gli etruschi, d o p o essere andat i pe r un pezzo a scuola da loro e averne subito la superiori tà soprat tut to nel campo tecnico e organizzativo, n o n solo li distrussero, ma cercarono di can-cellare ogni traccia della loro civiltà. La consideravano ma-lata e corruttr ice. Copiarono da essa tut to quello che faceva loro comodo. Mandarono alle scuole di Vejo e di Tarquinia

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  • i loro ragazzi p e r addo t to ra r l i spec ia lmente in medic ina e ingegneria . Imi ta rono la toga. Adot tarono l'uso della mone-ta. E forse presero a presti to anche l 'organizzazione politica, che pe rò gli etruschi ebbero in c o m u n e con tutti gli altri po-poli dell 'antichità e che passò, anche in casa loro, da un re-gime monarchico ad u n o repubblicano, retto da un lucumo-ne, magis t ra to elettivo, e infine a u n a forma di democrazia domina ta dalle classi ricche. Ma i p rop r i costumi, stoici e sa-ni, basati sul sacrificio e sulla disciplina sociale, Roma volle preservarl i dalle mollezze di quelli etruschi. Is t int ivamente sentì che vincere in g u e r r a il nemico e occupa r ne le t e r r e non bastava, se poi gli si dava il destro di contaminare le ca-se del p a d r o n e , a s sumendove lo in qual i tà di schiavo o di precet tore , come si usava a quei tempi coi vinti. E lo distrus-se. E ne volle sepolti tutti i document i e monumen t i .

    Q u e s t o p e r ò successe mol to t e m p o d o p o che i l p r i m o contat to venisse stabilito fra i d u e popoli , i quali s ' incontra-rono a p p u n t o a Roma, q u a n d o vi giunsero gli albalongani e vi t rovarono, a quan to pare , già installata u n a piccola colo-nia etrusca, che aveva dato al sito un n o m e di casa sua. Sem-bra infatti che Roma venga da Rumon che in etrusco vuol di-re «fiume». E se questo è vero, bisogna d e d u r n e che la pri-ma popolazione del l 'Urbe fu formata n o n soltanto di latini e di sabini, popoli dello stesso sangue e dello stesso ceppo , come lascerebbe credere la storia del famoso «ratto», ma an-che di etruschi, gente di tutt 'al tra razza e l ingua e religione. Anzi, secondo certi storici, e t rusco sarebbe stato lo stesso Romolo. E c o m u n q u e fu ce r t amente etrusco il ri to con cui fondò la città, scavando il solco con un ara t ro trascinato da un toro e da u n a giovenca bianchi , d o p o che dodici uccelli di b u o n augur io avevano volteggiato sulla sua testa.

    Senza volerci met tere in concorrenza coi competent i che da secoli vanno discutendo di queste faccende e non riesco-no a mettersi d 'accordo, d i remo quella che ci sembra la più probabile di tutte le versioni.

    Gli e t ruschi , che avevano la pass ione del tu r i smo e del

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  • commercio, avevano già fondato un piccolo villaggio sul Te-vere, q u a n d o latini e sabini vi g iunsero . E questo villaggio doveva servire da stazione di smistamento e di r i fornimento pe r le loro linee di navigazione verso il sud. Qui , e special-men te in Campania , avevano già impiantato ricche colonie: Capua , Nola, Pompei , Ercolano, dove le popolazioni locali che si chiamavano sannite e ch 'e rano di origine villanoviana anch'esse, venivano a scambiare i loro prodot t i agricoli con quelli indust r ia l i in a r r ivo dalla Toscana. Era difficile, da Arezzo o da Tarquinia , g iungere fin laggiù via te r ra . Man-cavano le s trade e la regione era infestata da belve e da ban-diti. Molto più facile, visto ch 'e ran gli unici a possedere una flotta, e ra per gli etruschi venirci via mare . Ma il viaggio era l ungo , r ichiedeva in te re se t t imane . Le navi, g r a n d i come gusci d i noce, n o n po tevano imbarcare molti r i forniment i pe r gli uomini , e avevano bisogno di port i , lungo la strada, dove provveders i di farina e d 'acqua pe r il resto del tragit-to. La foce del Tevere , giusto a metà del percorso , forniva u n a comoda baia p e r r i empi re le stive vuote , e pe r di p iù , navigabile com'e ra a quei tempi , offriva anche un comodo mezzo pe r risalire al l ' interno e combinare qualche affaruc-cio coi latini e sabini che lo abi tavano. La con t rada era co-stellata n o n si sa se d 'una t rent ina o d 'una settantina di bor-ghi, o g n u n o dei quali rappresen tava un piccolo mercato di scambio. Non che vi si potessero fare grandi affari perché il Lazio, a quei t empi , n o n e ra ricco che di l egname p e r via (chi lo direbbe oggi?) dei suoi meravigliosi boschi. Per il re-sto, n o n produceva neanche f rumento, ma soltanto farro, e un po ' di vino e di olive. Ma gli etruschi, p u r di far quattr i-ni, si contentavano del poco, e il vizio gli è r imasto.

    Per questo fondarono Roma, chiamandola così o con un a l t ro n o m e , ma senza d a r e t r o p p a i m p o r t a n z a alla cosa. Chissà quante ce n 'e rano , di Rome, scaglionate lungo la co-sta t i r ren ica fra L ivorno e Napol i . E ci misero , a badarv i , una guarnigione di marinai e di mercant i che forse conside-ravano quel t rasfer imento un castigo. Dovevano t ene re in

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  • o r d i n e sopra t tu t to i l cant iere p e r le r iparaz ioni delle navi danneggia te dalle tempeste , e i magazzini per rifornirle.

    Poi, un bel giorno, presero ad arrivare a gruppet t i i latini e i sabini, un po ' forse pe rché in casa cominciavano a stare stretti, un po ' perché anch'essi avevano voglia di commercia-re con gli e t ruschi , dei cui p rodo t t i e r a n o bisognosi . Che avessero già allora un piano strategico di conquista dell 'Ita-lia pr ima, e del m o n d o poi, e che pe r questo ri tenessero in-dispensabile la posizione di Roma, son fantasie degli storici d'oggi. Quei latini e sabini e rano degli zoticoni di stoffa con-tadina, per i quali la geografia si riassumeva nell 'orto di casa.

    È p robab i le che quest i nuov i ar r ivat i s iano venu t i alle mani tra loro. Ma è al t ret tanto probabile che poi, invece di d is t ruggers i a vicenda, si siano alleati, p e r fare fronte agli e t ruschi che dovevano g u a r d a r l i un p o ' come gl ' inglesi gua rdavano gl ' indigeni, nelle loro colonie. Davanti a quella gente forestiera che li trattava dall'alto in basso e che parla-va un id ioma a loro incomprensibi le , dove t te ro accorgersi di essere fratelli, accomunat i dallo stesso sangue, dalla me-desima l ingua e dalla identica miseria. E pe r questo misero in c o m u n e i l poco che avevano: le d o n n e . I l famoso ra t to n o n è p robab i lmen te che il simbolo di questo accordo, dal quale è natura le che gli etruschi siano rimasti esclusi, ma di p ropr i a volontà. Essi si sentivano super ior i e n o n volevano mescolarsi con quella plebaglia.

    La divisione razziale cont inuò a lmeno cento anni, du ran -te i quali latini e sabini, ormai fusi nel tipo romano , dovette-ro ingoiare parecchi rospi . Q u a n d o , d o p o Tarquin io i l Su-perbo che fu l 'ultimo re, essi p resero il sopravvento, la ven-det ta fu indiscriminata. E forse l 'accanimento che misero a d i s t ruggere l 'Etrur ia n o n solo come stato, ma anche come civiltà, gli fu ispirato a p p u n t o dalle umil iazioni che dagli e t ruschi avevano subito anche in pa t r ia . E di essi vollero e p u r a r e tut to , perfino la storia, d a n d o un certificato di na-scita latino anche a Romolo che forse lo aveva etrusco e fa-cendo risalire al l 'unione coi sabini l 'origine della città.

  • CAPITOLO TERZO

    I RE AGRARI

    Q u a n d o Romolo morì , molti anni dopo aver seppellito Tito Tazio, i romani dissero ch 'era stato il dio Marte a rapir lo e a condur lo in cielo pe r t rasformarlo in dio, il dio Qui r ino . E come tale d 'al lora in poi lo vene ra rono , come fanno oggi i napoletani con san Gennaro .

    A lui successe, come secondo re di Roma, N u m a Pompi-lio, che la tradizione ci d ipinge mezzo filosofo e mezzo san-to, come lo fu, parecchi secoli dopo , Marco Aurelio. Quelle che p iù lo interessavano e r ano le questioni religiose. E sic-come in ques ta mate r ia c i doveva essere u n a grossa anar -chia perché o g n u n o dei tre popoli venerava i p rop r i dèi, fra i quali n o n si riusciva a capi re chi fosse il p iù i m p o r t a n t e , N u m a decise di mettervi ord ine . E per imporlo, quest 'ordi-ne , ai suoi riottosi sudditi , fece spargere la notizia che ogni not te , men t r e dormiva, la ninfa Egeria veniva a visitarlo in sogno da l l 'O l impo p e r t r asmet te rg l i ene d i r e t t a m e n t e le istruzioni. Chi vi avesse disobbedito, n o n e ra col re , u o m o fra gli uomini , che avrebbe dovuto vedersela, ma col Padre-te rno in persona.

    Lo s t ra tagemma p u ò sembrare infantile, ma anche oggi seguita ad attaccare, di q u a n d o in q u a n d o . In p ieno secolo ventesimo, Hitler, pe r farsi obbedire dai tedeschi, non sep-pe escogi ta rne u n o migl iore . E ogni tan to scendeva dalla mon tagna di Berchtesgaden con qualche nuovo ord ine del b u o n Dio in tasca: quello di s terminare gli ebrei, per esem-pio , o di d i s t rugge re la Polonia. E il bello è che , a q u a n t o p a r e , ci c redeva anche lui. L 'umanità , in ques te faccende, n o n ha molto progred i to , dai tempi di Numa .

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  • Tuttavia anche in questa leggenda forse c'è un fondo di vero, o a lmeno un' indicazione che ci pe rmet te di ricostruir-lo. Quali che siano stati i loro nomi e la loro origine, quelli dell 'antichissima Roma, più che re veri e p ropr i , dovet tero essere dei papi , come del resto lo era l '«arconte basileo» ad Atene.

    Tut te le autori tà , a quei tempi , e r ano punte l la te soprat-tutto sulla religione. Il po tere dello stesso paterfamilias, o ca-po di casa, sulla moglie, sui fratelli minori , sui figli, sui nipo-ti, sui servi, era più che altro quello di un alto sacerdote cui il b u o n Dio aveva delegato certe funzioni. E pe r questo era così forte. E pe r questo le famiglie r omane e rano così disci-plinate. E pe r questo o g n u n o sentiva tanto i p rop r i doveri e li assolveva in pace e in guer ra .

    Numa , stabilendo un o rd ine di precedenza fra i vari dèi che o g n u n o dei vari popoli che la formavano si era porta to a Roma, compì forse un 'ope ra politica fondamentale: quella che poi consentì ai suoi successori, Tulio Ostilio e Anco Mar-zio, di c o n d u r r e il popolo uni to alle gue r r e vittoriose contro le città rivali della cont rada . Ma, come poter i politici veri e p ropr i , non doveva averne molti, pe rché quelli più grandi e decisivi restavano nelle mani del popolo che lo eleggeva ed a cui doveva sempre rispondere.

    Questo, di pe r sé, non vorrebbe dir nulla, pe rché in tutti i tempi e sotto qualsiasi regime, chi comanda dice di farlo in n o m e del popo lo . Ma a Roma n o n si t ra t tò di chiacchiere, a lmeno fino alla dinastia dei Tarquini , i quali del resto per-sero il t rono a p p u n t o pe rché vollero starci seduti come pa-droni invece che come «delegati». E la divisione del coman-do era fatta press 'a poco così.

    La città era divisa in t re tribù: quella dei latini, quella dei sabini, quella degli e t ruschi . Ogn i t r ibù e ra divisa in dieci curie, o quar t ie r i . Ogn i cur ia in dieci gentes, o casate. Ogn i casata era divisa in famiglie. Le curie si r iunivano in genere d u e volte a l l 'anno, e in queste occasioni facevano il comizio curiato, che fra le al tre cose si occupava anche dell 'elezione

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  • del re , q u a n d o u n o moriva. T u t ù avevano i l medes imo di-ritto di voto. La maggioranza decideva. Il re eseguiva.

    Era la democrazia assoluta senza classi sociali, e funzionò finché Roma fu un piccolo pacifico villaggio abitato da poca gente che di r ado met teva la testa fuor delle m u r a . Poi gli abi tant i c r ebbe ro , e c r ebbe ro anche le esigenze. Il re che dappr ima , oltre a dir messa, cioè a celebrare i sacrifici e gli altri riti della liturgia, doveva anche applicare le leggi, cioè fare il giudice, non ebbe più il t empo di assolvere tutti que-sti compiti, e cominciò a nomina re dei «funzionari» a cui af-fidarli. Così nacque la cosiddetta «burocrazia». Colui ch 'era stato sopra t tu t to un p r e t e , d iventa vescovo, e des igna dei pa r roc i e curat i che lo a iu t ino nelle funzioni religiose. Poi ha bisogno anche di chi provveda alle strade, al censo, al ca-tasto, all 'igiene, e nomina dei competent i che si occupino di ques te faccende. Così nasce il p r i m o «ministero»: il cosid-det to Consiglio degli Anziani o Senato, costituito da un cen-tinaio di membr i ch 'e rano discendenti , per diritto di p r imo-genitura, dei pionieri venuti con Romolo a fondare Roma e che dappr ima h a n n o soltanto il compito di consigliare il so-vrano, ma poi diventano sempre più influenti.

    E infine nasce, come stabile organizzazione, l'esercito, ba-sato anch'esso sulla divisione nelle t renta curie, o g n u n a del-le quali doveva fornire u n a centuria, cioè cento fanti, e u n a decima, cioè dieci cavalieri col cavallo. Le t ren ta centur ie e le t renta decurie, cioè t remilatrecento uomini , facevano tut-te insieme la legione che fu il p r imo e unico corpo d ' a rmata del l 'ant ichiss ima Roma . Sui soldati i l r e , che ne e r a il co-m a n d a n t e supremo, aveva diritto di vita o di mor te . Ma an-che questo po te re militare n o n lo esercita in manie ra asso-luta e senza cont ro l lo . Egli d i r ige le operaz ion i , ma d o p o aver chiesto consiglio al comizio centurialo, cioè alla legione in a rmi , d i cui sollecita a n c h e l ' approvaz ione p e r la n o m i n a degli ufficiali che a quei tempi si chiamavano pretori.

    In somma, tut te le precauzioni e r ano state p rese dai ro -mani pe rché il re n o n si t ramutasse in un t i ranno . Egli do-

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  • veva restare un «delegato» della volontà popolare . Q u a n d o un branco d'uccelli passava per aria o un fulmine schianta-va un albero, e ra compi to suo r iun i re i sacerdoti , con loro s tudiare cosa volessero di re quei segni e, se gli pareva che significassero qualcosa di poco buono , decidere che sacrifici b isognava fare p e r p lacare gli dèi ev iden t emen te offesi di qualcosa. Q u a n d o d u e privat i venivano a litigio fra loro e magar i u n o de rubava o scannava l 'altro, n o n era affar suo occuparsene. Ma se u n o commetteva qualche delitto contro lo stato o la collettività, allora se lo faceva c o n d u r r e davanti da qualche guard ia , e magar i lo c o n d a n n a v a a mor t e . Per tut to il resto, decisioni non poteva p r e n d e r n e . Doveva chie-derle in t empo di pace ai comizi curiati e in t empo di guer-ra a quelli centur ia t i . Se e ra furbo, riusciva, come avviene anche oggi, a p resen ta re come «volontà del popolo» quella sua personale . Altrimenti doveva subirla. Ma sempre dove-va fare i conti, pe r eseguirla, col Senato.

    Tale era l ' o rd inamento che il p r imo re di Roma, sia egli stato Romolo o no, e a qua lunque delle t re razze sia appar -tenu to , d iede al l 'Urbe. E tale fu quello che il saggio N u m a lasciò al suo successore Tulio Ostilio, ch 'era di t emperamen-to molto più vivace.

    Egli aveva nel sangue la politica, l ' avventura e l 'avidità. Ma il fatto che il comizio avesse scelto p rop r io lui come so-vrano, significa che, d o p o i quaran t ' ann i di pace assicuratile da N u m a , tu t t a R o m a aveva u n a g r a n voglia d i m e n a r le man i . Dei bo rgh i e città che la c i r condavano , Alba L o n g a era la più ricca e impor tan te . Non sappiamo quale pretesto escogitasse Tulio pe r muover le gue r ra . Forse nessuno . Ma fatto si è che un bel giorno l'attaccò e la rase al suolo, sebbe-ne la l eggenda abbia t rasformato questa p r e p o t e n z a in un episodio cavalleresco e quasi gent i le . Dicono infatti che i d u e eserciti r imisero la sorte delle a rmi a un duel lo fra t re Orazi r o m a n i e t r e Curiazi a lba longani . Cos toro uccisero d u e Oraz i . Ma l 'u l t imo a sua volta uccise loro e decise la gue r ra . Fatto sta pe rò che Alba Longa fu distrut ta , e il suo

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  • re fu legato con le d u e gambe a d u e carri che, lanciati in di-rez ione oppos ta , lo squarc ia rono . Fu così che Roma t ra t tò quella ch'essa considerava la sua madrepat r ia , la ter ra don-de diceva che i suoi fondatori e r ano venuti .

    N a t u r a l m e n t e l ' avven imento dove t te a l l a rmare u n po ' tutti gli altri villaggi della con t rada che, n o n avendo subito l ' influenza e t rusca , e r a n o r imast i i nd ie t ro , nel cos iddet to progresso, e qu indi si sentivano più deboli e peggio armat i dei romani . Un po ' con tutti Tulio Ostilio e il suo successore Anco Marzio, che ne seguì l 'esempio, attaccarono briga.

    Per concludere , il g iorno che al t rono fu elevato Tarqui-nio Prisco come il quinto re, Roma era già il nemico pubbli-co n u m e r o u n o di quel la r eg ione di cui n o n s i conoscono con esattezza i confini, ma che doveva estendersi press 'a po-co fino a Civitavecchia a n o r d , fino verso Rieti a est, e fin verso Fresinone a sud.

    Ora , è molto probabi le che questa politica di conquiste , des t ina ta a d iven ta re ancora p iù aggressiva con gli ul t imi t re re di famiglia Tarquinia , fosse d ' ispirazione sopra t tu t to etrusca. E questo pe r un semplice motivo: che, men t r e lati-ni e sabini erano,agricoltori , gli etruschi e rano industriali e mercant i . I primi, ogni volta che scoppiava u n a nuova guer-ra, dovevano a b b a n d o n a r e i l p o d e r e lasciandolo a n d a r e in m a l o r a p e r a r ruo la r s i nel la legione, e r i schiavano di pe r -der lo , se il nemico vinceva. I secondi invece avevano tu t to da g u a d a g n a r e : a u m e n t a v a n o i consumi , p iovevano le «commesse» del governo; e in caso di vittoria si conquistava-no nuovi mercati . In tutti i tempi e in tutte le nazioni è sem-p r e stato così: gli abitanti delle città, capitalisti, intellettuali, commercianti , vogliono le gue r re contro la volontà dei con-tadini che poi devono farle. Più u n o stato s ' industrializza, più la città p r e n d e il sopravvento sulla campagna , e più la sua politica diventa avventurosa e aggressiva.

    Fino al qua r to re , l ' e lemento con tad ino prevalse in Ro-ma e la sua economia fu soprat tut to agricola. Que i tremila-trecento uomini che costituivano il suo esercito ci dimostra-

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  • no che la popolazione complessiva doveva a m m o n t a r e a un trentamila anime, di cui forse la maggior par te e rano disse-minate nel contado. Nella città vera e p ropr ia ce ne sarà sta-ta, sì e no, la metà, che dal Palatino ora si e rano sparpaglia-te anche sugli altri colli. La maggior pa r t e di loro vivevano in c a p a n n e di fango venu t e su alla r infusa e d i so rd ina ta -mente , con una por ta pe r entrarvi , ma senza f inestre, e una sola stanza in cui mang iavano , bevevano , d o r m i v a n o tut t i ins ieme babbo, m a m m a , f i g l i uo l i , n u o r e , gene r i , n ipot i , schiavi (chi ne aveva), polli, somari , vacche e porci . Gli uo-mini , al mat t ino , scendevano al p iano pe r a ra re la te r ra . E fra loro c 'erano anche i senatori che, come tutti gli altri, ag-giogavano i buoi e spargevano il seme o falciavano la spiga. I ragazzi li aiutavano, perché il lavoro dei campi era la loro unica e vera scuola, il loro unico e vero sport . E i padr i ap-profittavano dell 'occasione pe r insegnar loro che il seme da-va b u o n frutto solo q u a n d o il cielo mandava acqua e sole in giuste dosi sulla zolla; che il cielo mandava acqua e sole in giuste dosi sulla zolla solo q u a n d o gli dèi lo volevano; che gli dèi lo volevano solo q u a n d o gli uomini avevano compiu-to tut t i i loro dover i verso di essi; e che il p r i m o di questi doveri consisteva nell 'obbedienza dei giovani ai vecchi.

    Così crescevano i ci t tadini r o m a n i , a lmeno quelli di di-scendenza latina e sabina, che dovevano costi tuire la mag-gioranza. L'igiene e la cura della p ropr ia persona dovevano essere r ido t te a l m i n i m o , anche pe r le d o n n e . Nien te co-smetici, niente civetterie, poca o p u n t a acqua, che le d o n n e dovevano andare ad at t ingere in basso e r ipor tare in anfore sospese sulla testa. Non c 'erano gabinett i di decenza né fo-gne . Si facevano i p r o p r i bisogni fuori dell 'uscio e si lascia-vano lì. Le barbe e i capelli crescevano incolti. Q u a n t o ai ve-stiti, non state a c redere ai monumen t i , che del resto appar-t e n g o n o ad epoche mol to più recent i , q u a n d o Roma ebbe u n a vera e p ropr ia industr ia tessile ed u n a categoria di sarti evoluti, che pe r la maggior par te e rano di origine e di scuo-la g reche . In que i t empi lon tan i la toga, che poi acquistò

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  • tanta impor tanza , o n o n era ancora nata , o e ra r idot ta alla sua foggia più e lementare . Forse somigliava alla futa che at-tua lmente po r t ano gli abissini: un cencio bianco, tessuto in casa dalle mogli e dalle figlie con lana di pecora, con un bu-co in mezzo per infilarci la testa. Pochi ne avevano una di ri-cambio . In g e n e r e p o r t a v a n o s e m p r e la stessa, d 'es ta te e d ' inverno, di giorno e di notte , immaginate con quali conse-guenze.

    Non s ' indulgeva a nessun piacere, n e m m e n o a quelli di gola. Con t ro le teorie dei m o d e r n i scienziati americani , se-condo i quali la forza di un popolo è condiz ionata dal suo consumo di calorie e di vitamine, che a sua volta è condizio-nato dalla varietà del suo nu t r imento , i roman i dimostraro-no che si p u ò conquis tare i l m o n d o anche m a n g i a n d o sol-tanto un impasto mal cotto d 'acqua e di farina, d u e olive e un po ' di cacio, annaffiato solo nei giorni di festa da un bic-chier di vino. L'olio sembra che sia venuto più tardi , e dap-p r ima pare che lo abbiano usato solo pe r ungersi la pelle, a difesa dalle brucia ture del freddo e da quelle del sole. Il che doveva aumen ta re n o n poco i l puzzo generale.

    A questo regime non sfuggiva n e m m e n o il re , che soltan-to con la dinast ia dei Tarquin i ebbe u n a divisa, un e lmo e delle insegne speciali. Sino ad Anco Marzio egli fu ugua le t ra gli uguali , anche lui arò la te r ra diet ro i buoi aggiogati, sparse il seme e falciò la spiga. N o n risulta n e m m e n o che avesse una reggia o comunque un ufficio. Risulta invece che andava fra la gente senza u n a scorta di protez ione perché , se ne avesse avuta una , tutti lo avrebbero accusato di voler r egnare con la forza invece che col consenso del popolo. Le decisioni le p r e n d e v a sotto un albero, o a sedere sull 'uscio di casa, d o p o aver sentito l 'opinione degli anziani che gli fa-cevano corona torno torno. Saliva in cat tedra e forse indos-sava anche un abito speciale, solo q u a n d o doveva compiere un sacrificio o qualche altra cerimonia religiosa.

    Anche in gue r ra i romani andavano senza niente che so-migliasse ad u n a vera e p rop r i a organizzazione militare. Il

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  • pre to r e che comandava la cen tur ia o la decur ia non aveva insegne di g rado . Le armi e rano soprat tut to bastoni, sassi e rozze spade. Ci volle del t empo p r ima che si arrivasse all'el-mo, allo scudo e alla corazza, invenzioni che allora dovette-ro fare l'effetto che ai giorni nostri fecero la mitragliatrice e il carro armato . Sicché le g rand i campagne che Roma intra-prese sotto i pr imi suoi bellicosi re dovet tero somigliare più che altro a spedizioni puni t ive e risolversi in g ran mazzate di u o m o contro uomo , senz 'ombra di tattica e di strategia. I romani le vinsero n o n tanto perché e rano i più forti, quan-to p e r c h é e r a n o i p iù persuas i che la loro pa t r i a e r a stata fondata dagli dèi pe r realizzare grandi imprese e che mori-re pe r essa costituiva non un meri to, ma solo il pagamen to di un debito contrat to nel m o m e n t o in cui si era nati.

    I l nemico , u n a volta ba t tu to , cessava di essere un «sog-getto» pe r diventare soltanto un «oggetto». Il r o m a n o che lo aveva fatto pr ig ioniero Io considerava cosa sua p ropr ia : se era di ma lumore , lo ammazzava; se era di b u o n u m o r e , se lo portava a casa come schiavo, e poteva farne quel che voleva: ucciderlo, vender lo , obbligarlo a lavorare. Le t e r re veniva-no requisi te dallo stato e da te in affitto ai suddi t i . Le città molto spesso e rano distrut te e le popolazioni depor ta te .

    Con questi sistemi, Roma crebbe a spese dei latini a sud, dei sabini e degli equi a est, degli etruschi a nord . Sul mare , da cui distava pochi chilometri , non osava avventurarsi per-ché non aveva ancora u n a flotta, e la sua popolazione conta-dina ne diffidava per istinto. Sotto Romolo, Tito Tazio, Tul-io Ostilio e Anco Marzio, i roman i furono «terrieri» e la loro politica «terrestre».

    Fu l 'avvento di u n a dinast ia e t rusca a m u t a r e radical-men te le cose, sia nella politica interna che in quella estera.

  • CAPITOLO QUARTO

    I RE MERCANTI

    Non si sa con precisione q u a n d o e come Anco Marzio morì . Ma dovette essere a un centocinquant'anni dal giorno in cui la leggenda vuole che Roma sia stata fondata, cioè verso il 600 avanti Cristo. Pare comunque che in quel momento si trovasse in città un certo Lucio Tarquinio, personaggio molto differente da quelli che i romani usavano scegliersi come re e magistrati.

    Non era del posto. Veniva da Tarquinia , ed era f igl io di un greco, Demara to , emig ra to da Cor in to e sposatosi con una d o n n a etrusca. Da questo incrocio era nato un ragazzo vivace, bri l lante, spregiudicato , ambiziosissimo, che forse i romani , q u a n d o venne a stabilirsi fra loro, g u a r d a r o n o con un misto d 'ammirazione, d'invidia e di diffidenza. Era ricco e scialacquatore fra gente povera e taccagna. Era e legante in mezzo ai bifolchi. Era l 'unico a sapere di filosofia, geogra-fia e matematica in un m o n d o di poveri analfabeti. Q u a n t o alla politica, sangue greco più sangue etrusco dovevano far di lui un diplomatico di mille risorse fra concittadini che ne dovevano aver poche. Tito Livio dice di lui: «Fu il p r imo che intrigò pe r farsi eleggere re e p ronunc iò un discorso pe r as-sicurarsi l 'appoggio della plebe».

    Che sia stato il pr imo, ne dubitiamo. Ma che abbia intriga-to, ne siamo sicuri. Probabi lmente le famiglie e trusche, che costituivano una minoranza, ma ricca e potente, videro in lui il loro u o m o ; e, s tanche di essere governate da re pastori e contadini, di razza latina e sabina, sordi ai loro bisogni com-merciali ed espansionistici, decisero di innalzarlo al t rono.

    Come siano andate le cose, s'ignora. Ma l 'accenno di Tito Livio alla plebe ci consente di farcene un' idea. Essa è un ele-

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  • mento nuovo nella storia romana , o per lo meno un elemen-to che non si era fatto sentire sotto i pr imi quat t ro re, che al-la p lebe n o n avevan nessun bisogno di pa r l a r e p e r venire eletti, p e r il semplice motivo che la plebe ai loro tempi n o n c'era. Nei comizi curiati, che procedevano all'investitura del sovrano, non esistevano differenze sociali. Tutti e rano citta-dini , tut t i e r ano piccoli o g r a n d i p rop r i e t a r i di t e r ra ; tutt i quindi avevano, formalmente, gli stessi diritti, anche se, pe r forza di cose, nella pratica, poi, a p r e n d e r e le decisioni e ad imporle agli altri e rano alcuni professionisti della politica.

    Era una perfetta democrazia casalinga, dove tut to veniva fatto alla luce del sole e si d iscuteva fra ci t tadini ugual i e quel che contava, pe r la d is t r ibuzione delle cariche, e ra la stima e il prestigio di cui si godeva. Ma essa p r e supponeva la piccola città che Roma fu in quel suo p r imo secolo di vita, chiusa nella sua angus ta cerchia di ca tapecchie , e dove o g n u n o conosceva l 'al tro e sapeva di chi e ra figlio e cosa aveva fatto e come trattava la moglie e quanto spendeva pe r mangiare e quant i sacrifici celebrava in nome degli dèi.

    Ma alla mor te di Anco Marzio la situazione era del tut to cambiata. I bisogni di gue r ra avevano stimolato l ' industria e qu ind i favorito l ' e lemento e t rusco , quel lo che dava i fale-gnami , i fabbri, gli a rmier i , i mercant i . N ' e r a n o arrivati da Tarquinia, da Arezzo, da Vejo, le bot teghe s 'erano r iempi te di garzoni e d ' app rend i s t i che, i m p a r a t o b e n e il mest iere , avevano messo su altre bot teghe. Il rialzo dei salari aveva ri-chiamato in città la mano d 'opera contadina. I soldati, d o p o aver fatto la g u e r r a , t o r n a v a n o malvolent ier i sui campi e preferivano restare a Roma, dove si t rovavano con più faci-lità d o n n e e vino. Ma soprat tut to le vittorie vi avevano fatto confluire rivoli di schiavi. Ed e ra questa mol t i tud ine fore-stiera che formava il plenum da cui viene la parola plebe.

    Lucio Tarquin io e i suoi amici e truschi dove t te ro veder subito che profitto si poteva t rar re da questa massa di gente, per la maggior par te esclusa dai comizi curiati, se si fosse po-tu to convincerla che solo un re forestiero come lui avrebbe

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  • potu to farne valere i diritti. E per questo l 'arr ingò, promet-t endo le chissà cosa, magar i ciò che poi fece davvero . Egli aveva dietro di sé quella che oggi si chiamerebbe la Confin-dustria: i Cini, i Marzotto, gli Agnelli, i Pirelli, i Falck dell 'an-tica Roma: gente che quattr ini per la p ropaganda elettorale aveva da s p e n d e r n e quant i ne voleva, ed era decisa a farlo pe r garantirsi un governo più disposto di quelli precedent i a tutelare i suoi interessi e a seguire quella politica espansioni-stica ch 'era la condizione della sua prosperità.

    Cer tamente ci r iuscirono perché Lucio Tarquinio fu elet-to col n o m e di Tarquinio Prisco, r imase sul t rono t rentot to anni , e per liberarsi di lui [patrizi, cioè i «terrieri», dovet tero farlo assassinare. Ma inut i lmente . Pr ima di tut to pe rché la corona , d o p o di lui, passò a suo figlio, eppo i a suo n ipote . In secondo luogo pe rché , più che la causa, l 'avvento della dinast ia dei Tarqu in i fu l'effetto di u n a cer ta svolta che la storia di Roma aveva subito e che n o n le consentiva più di to rnare al suo primitivo e arcaico o rd inamen to sociale e alla politica che ne derivava.

    Il re della Confindustria e della plebe fu un re autoritario, guerr iero, pianificatore e demagogo. Volle una reggia e se la fece costruire secondo lo stile etrusco, molto più raffinato di quello romano . Poi nella reggia fece innalzare un t rono, e lì si mise a sedere, in pompa magna, con lo scettro in mano, e un elmo r ip ieno di pennacchi . Dovette farlo un po ' pe r vanità, un po ' perché conosceva i suoi polli e sapeva benissimo che la plebe, cui doveva la sua elezione e di cui in tendeva conser-varsi il favore, amava il fasto e il re lo vuol vedere in alta uniforme, circondato da corazzieri. A differenza dei suoi pre-decessori che la maggior par te del loro tempo la passavano a dir messa e a fare oroscopi, egli la trascorse a esercitare il po-tere t empora le cioè a far politica e g u e r r e . Pr ima soggiogò tut to il Lazio, poi attaccò br iga con i sabini e rosicchiò loro un'altra par te di terre. Per fare questo, ebbe bisogno di molte armi che l ' industria pesante gli fornì facendoci sopra grossi affari, e di molti rifornimenti che i mercanti gli assicurarono

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  • guadagnandoci sopra larghe p rebende . Gli storici repubbli-cani e anti-etruschi scrissero poi che il suo regno fu tutto un intrallazzo, u n a generale manger ia , il trionfo delle mance e delle «bustarelle», e che il bottino ch'egli prese ai vinti lo usò per abbellire non Roma, ma le città etrusche, particolarmen-te Tarquinia, che gli aveva dato i natali.

    Ne dubi t iamo, pe r ché fu p r o p r i o sotto di lui che Roma fece un balzo avanti, specie in fatto di m o n u m e n t i e di urba-nistica. Anzitutto vi costruì la Cloaca Massima, cioè le fogne, che finalmente l i be ra rono i ci t tadini dai loro rifiuti, con i quali avevano sino ad allora convissuto. Eppo i f inalmente l 'Urbe cominciò a d iven ta r tale davvero , con s t rade ben tracciate, quart ier i definiti, case che non e ran più capanne , ma costruzioni vere e p ropr ie , col tetto spiovente da ambe-d u e i lati, finestre e atrio, e un foro, cioè u n a piazza centrale, dove tutti i cittadini si r iunivano.

    Pur t roppo, per compiere questa autentica rivoluzione, che sconvolgeva non soltanto la faccia esterna di Roma, ma anche il suo costume di vita, egli dovette subire l'ostilità del Senato, depositario dell'antica tradizione e poco disposto a rinunziare al suo diritto di controllo sul re. In altri tempi esso lo avrebbe deposto o costretto alle dimissioni. Ma ora bisognava fare i conti con la plebe, cioè con u n a molt i tudine che ancora non aveva una adeguata rappresentanza politica, ma sperava che Tarquinio gliene desse una ed era pronta a sostenerlo anche con le barr icate . Era più facile ucciderlo, e così fecero. Ma commisero l ' imperdonabile e r rore di lasciare in vita sua mo-glie e suo figlio, convinti che quella pe r il suo sesso e questi per la sua giovane età non potessero mantenere il potere.

    Forse avrebbero avuto ragione , se Tanaquilla fosse stata r o m a n a , cioè abi tua ta sol tanto a obbed i r e . Ma invece e ra etrusca, aveva studiato, con suo mari to aveva diviso non sol-tanto il letto ma anche il lavoro interessandosi ai p roblemi di stato, a l l 'amminis t razione, alla politica estera, alle rifor-me; e su tutto la sapeva più lunga degli stessi senatori, mol-ti dei quali e rano analfabeti.

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  • Seppellito il re , essa ne occupò il posto sul t rono, e lo ten-ne caldo pe r Servio che frattanto cresceva e che fu il p r imo e l 'ultimo re di Roma a eredi tare la corona senza venire elet-to. Non si sa bene se costui fosse figlio suo o di u n a sua ser-va, come sembra indicare il nome . C o m u n q u e , anche di lui gli storici romani , tutti repubblicani ferventi, h a n n o cercato di dir male . Ma non ci sono riusciti. Pu r controvoglia, essi h a n n o dovuto ammet te re che il suo governo fu illuminato e che sotto di lui furono condot te a te rmine alcune fra le più i m p o r t a n t i imprese . Anzi tu t to egli costruì u n a cerchia d i m u r a in torno alla città, d a n d o così lavoro a mura tor i , tecni-ci e ar t ig iani che v idero in lui il loro p r o t e t t o r e . Poi pose m a n o alla g r ande riforma politica e sociale, che fu di base a tutti i successivi o rd inament i romani .

    La vecchia divisione in t r en t a cur ie p r e s u p p o n e v a u n a città di t renta o quarantamila abitanti, tutti press 'a poco con gli stessi titoli, le stesse benemerenze e lo stesso pat r imonio . Ma o ra essa e ra s t r a o r d i n a r i a m e n t e cresciuta, e c'è chi fa ascendere a sette o ottocentomila anime la popolazione cit-tad ina del t e m p o di Servio. Probabi lmente son calcoli sba-gliati: a tanto dovevano a m m o n t a r e n o n gli abitanti di Ro-ma, ma quelli di tut to il terr i tor io da essa conquistato. Tut-tavia la città doveva superare a lmeno i centomila, e i g randi lavori pubblici che Tarquinio e Servio in t rapresero dovette-ro essere imposti anche da un 'acuta crisi di alloggi.

    Di questa massa, solo quella già iscritta ai comizi curiati aveva voce in capitolo e poteva votare. Gli altri seguitavano a restare esclusi, e fra costoro c 'erano anche i più grandi in-dustriali e commerciant i e banchieri : quelli che fornivano i qua t t r in i allo stato p e r fare le g u e r r e e le g r a n d i o p e r e di bonifica. Essi avevano ora diritto a una r icompensa.

    Come pr ima cosa, Servio diede la cit tadinanza ai libertini, cioè ai figli degli schiavi liberati, o liberti. Dovet tero essere parecchie e parecchie migliaia di persone , che da quel mo-m e n t o fu rono i suoi p iù accanit i sosteni tor i . Poi abolì le t renta curie divise secondo i quart ieri , e al loro posto istituì

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  • cinque classi, differenziate in base n o n al loro domicilio, ma a l lo ro p a t r i m o n i o . Alla p r i m a a p p a r t e n e v a n o coloro che avevano a lmeno centomila assi; all 'ultima quelli che ne pos-sedevano meno di dodicimilacinquecento. E difficile stabili-re a cosa c o r r i s p o n d e , in m o n e t a d 'oggi , un asse. Forse a cento, centotrenta lire, forse più. C o m u n q u e , furono queste differenze economiche a d e t e r m i n a r e anche quel le politi-che. Perché men t re nelle curie tutti e r ano pari , a lmeno for-malmente , e il voto di o g n u n o valeva quello di ogni altro, le classi votavano pe r centur ie , ma n o n ne avevano un n u m e -ro ugua le . La p r i m a ne aveva novan to t to . In tu t te e r a n o cen tonovan ta t r é . Sicché in pra t ica bas tavano i novan to t to voti della p r ima classe pe r de te rminare la maggioranza. Le altre, anche se si coalizzavano, non riuscivano a batterla.

    Era un reg ime capitalista o plutocratico in p iena regola, che dava il monopol io del po te re legislativo alla Confindu-stria, togliendolo alla Federterra, cioè al Senato che di denaro ne aveva molto meno . Ma cosa poteva esso fare? Servio n o n gli doveva n e p p u r e l'elezione perché la corona l'aveva eredi-tata dal pad re ; e aveva con sé i quat t r ini dei ricchi che a lui erano debitori della loro nuova potenza, e l 'appoggio del po-polino cui egli aveva dato impiego, salario e cittadinanza. Sor-retto da queste forze, si circondò di una guardia armata pe r proteggere la propria vita dai malintenzionati, si recinse la te-sta di un diadema d'oro, si fece fabbricare un trono d'avorio e su esso sedette, maestosamente, con uno scettro in mano, sor-montato da un'aquila. Patrizio o non patrizio, senatore o men-dicante, chiunque volesse avvicinarlo doveva farsi annunziare e aspettare pazientemente il suo turno in anticamera.

    Era difficile el iminare un u o m o simile. E infatti i suoi ne-mici, p e r riuscirci, dovet te ro affidarne il compi to a suo ni-po te -gene ro , che , come tale, poteva circolare l i be ramen te nella reggia.

    Q u e s t o secondo Ta rqu in io , p r i m a di r i schiare i l colpo, tentò di far d e p o r r e lo zio pe r abuso di po tere . Servio si p re -sentò alle centur ie che lo r iconfermarono re con plebiscita-

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  • ria acclamazione (lo racconta Tito Livio, gran repubblicano, e d u n q u e dev'esser vero).

    N o n restava q u i n d i che i l p u g n a l e , e Ta rqu in io lo usò senza t roppi scrupoli. Ma il respiro di sollievo che trassero i senatori , coi quali si era alleato, r imase loro in gola, q u a n d o videro l'uccisore sedersi a sua volta sul t rono d'avorio senza chieder il loro permesso, come avveniva a quei buoni vecchi tempi ch'essi speravano di res taurare .

    Il nuovo sovrano si mostrò subito più t irannico di quello che aveva spedito all 'altro m o n d o . E infatti lo bat tezzarono «il Superbo» pe r distinguerlo dal fondatore della dinastia. Se gli d iedero quel nomignolo, qualche ragione ci dovette esse-re , anche se n o n è vero quel che poi si è raccontato della sua caduta. Pare che si divertisse a uccidere la gente nel Foro. E di carat tere aggressivo fu cer tamente perché la maggior par-te del suo tempo, come re , la trascorse a fare guer re . Gue r r e fortunate, perché sotto il suo comando l'esercito, che ora di-sponeva di a lcune decine di migliaia di uomin i , conquis tò n o n soltanto la Sabina, ma anche l 'Etrur ia e le sue colonie mer id iona l i a lmeno fino a Gaeta . Di qui sin quasi alle foci dell 'Arno, Roma faceva in quel momento il buono e il cattivo tempo. La guer ra non sempre era calda. Spesso era soltanto «fredda», come si dice oggi. Ma insomma Tarquin io fu, un po' in forza di armi, un po ' in grazia di diplomazia, il capo di qualcosa che , pe r que i tempi , e ra un piccolo impe ro . Esso n o n arrivava all'Adriatico, ma ormai dominava il T i r reno .

    Forse Ta rqu in io m e n ò t an to le man i anche p e r far di-ment icare il m o d o in cui era salito al t rono sul cadavere di un re generoso e popolare . I successi esterni servono molte volte a masche ra r e la debolezza i n t e rna d ' u n r eg ime . Co-m u n q u e , è a questa smania di conquista che Tarquinio do-vette, a quanto pare , la sua caduta.

    Un giorno, raccontano, egli e ra al campo, con i suoi sol-dati , suo figlio Sesto Tarquin io e suo n ipo te Lucio Tarqui -nio Collatino. Costoro, sotto la tenda, cominciarono a discu-tere della virtù delle loro rispettive mogli, o g n u n o sostenen-

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  • do , da b u o n mar i to , quel la della p r o p r i a . P robab i lmen te u n o disse al l 'a l t ro: «La mia è u n a sposa onesta . La tua t i met te le corna». Decisero di to rnare quella notte a casa pe r sorprender le sul fatto. Inforcarono i cavalli, e via.

    A R o m a t r o v a r o n o la mogl ie di Sesto che si consolava della m o m e n t a n e a vedovanza banche t tando con amici e la-sciandosene cor teggiare . Quel la di Collatino, Lucrezia, in-gannava l'attesa tessendo un abito pe r suo mar i to . Collati-no , t r ionfante, intascò la scommessa e t o rnò al campo . Se-sto, mortificato e smanioso di rivincita, si mise a fare la cor-te a Lucrezia, e alla fine, un po ' con la violenza, un po ' con l'astuzia, ne vinse la resistenza.

    Commessa l'infedeltà, la povera d o n n a m a n d ò a chiama-re suo marito e suo padre , ch 'era un senatore, confessò loro l 'accaduto e si uccise con una pugnalata al cuore. Lucio Giu-nio Bruto, anche lui nipote del re , che gli aveva ucciso il bab-bo, a d u n ò il Senato, raccontò la storia di quell'infamia e pro-pose la decadenza dal t rono del Superbo e l 'espulsione dalla città di tut ta la sua famiglia (eccetto lui, si capisce). Tarqui-nio, informato, si precipitò a Roma, m e n t r e Bru to contem-p o r a n e a m e n t e galoppava verso il campo , e p robab i lmente s ' incontrarono pe r strada. Ment re i l re tentava di r imet tere ordine nella città, Bruto gli seminava il disordine nelle legio-ni che decisero allora di ribellarsi e di marciare su Roma.

    Tarquinio fuggì verso il nord , rifugiandosi in quell 'Etru-ria da cui i suoi antenati e rano discesi e di cui egli aveva umi-liato l'orgoglio r iducendone le città alla condizione di vassal-le di Roma. Dovette essere u n a ben a m a r a mortif icazione per lui chiedere ospitalità a Porsenna, lucumone, cioè p r imo magistrato di Chiusi, che a quei tempi si chiamava Clusium.

    Ma Porsenna, gran gent i luomo, gliela concesse. A Roma p r o c l a m a r o n o la repubbl ica . C o m e più t a rd i

    quella dei Plantagenet i in Inghi l te r ra e quella dei Borboni in Francia, anche la monarchia di Roma era du ra t a sette re .

    Correva l 'anno 509 avanti Cristo. Ne erano trascorsi due-centoquarantasei ab urbe condita.

  • CAPITOLO QUINTO

    PORSENNA

    C o m e s e m p r e i popol i q u a n d o cambiano r e g i m e , anche i r o m a n i sa lutarono quello nuovo con g r a n d e entusiasmo, e in esso r iposero tutte le loro speranze, comprese quelle del-la l ibertà e della giustizia sociale. Fu convocato un g r a n d e comizio centur ia to cui p resero par te tutti i cittadini-soldati che p roc lamarono definitivamente seppellita la monarchia , le a t t r ibu i rono la responsabili tà di tutti gli e r ro r i e soprusi di cui si e ra macchiata l 'amministrazione della cosa pubblica in quei pr imi d u e secoli e mezzo di vita; e al posto del re no-m i n a r o n o d u e consoli, scegliendoli nelle p e r s o n e dei d u e protagonist i della rivoluzione: il povero vedovo Collatino e il povero orfano Lucio Giunio Bruto . Il p r imo avendo decli-nato, fu sostituito da Publio Valerio.

    Publio Valerio passò alla storia col nomignolo di «Publi-cola», che vuol dire «amico del popolo».

    Ques t a amicizia, Publicola la d imos t rò s o t t o p o n e n d o e facendo a p p r o v a r e dal comizio a lcune leggi che r imase ro basilari p e r tu t to i l p e r i o d o che d u r ò la repubbl ica . Esse comminavano la pena di mor te a ch iunque tentasse d ' impa-dron i r s i d i u n a carica senza l ' approvaz ione del popo lo . Consentivano al cittadino che fosse stato condanna to a mor-te il ricorso in appello all'Assemblea, cioè al comizio centu-riato. E concedevano a tutti il diritto di uccidere, anche sen-za processo, chi tentasse di farsi p roc lamare re . Quest 'ul t i -ma legge dimenticava pe rò di precisare in base a quali ele-ment i si poteva at tr ibuire a qualcuno quell 'ambizione. E ciò consentì al Senato, negli anni che seguirono, di liberarsi di parecchi incomodi nemici additandoli , appun to , come aspi-

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  • rant i - re . Il sistema è ancora in uso presso parecchi popoli : gli aspi rant i - re si c h i a m a n o a volta a volta «deviazionisti», «nemici della patr ia», «agenti al soldo de l l ' imper ia l i smo straniero». I delitti, col progresso , non cambiano. Ne cam-bia solo la rubrica.

    Nel suo zelo democratico, Publicola introdusse anche l'u-so, da par te del console, q u a n d o entrava nel recinto del co-mizio centuriato, di far abbassare, dai littori che lo precede-vano, le insegne: quei famosi fasci, che poi Mussolini rimise di moda, e che costituivano il simbolo del potere . Per dimo-strare plasticamente che questo potere veniva dal popolo: il quale, dopo averlo delegato al console, ne restava l 'arbitro.

    Erano tutte bellissime cose, che lì pe r lì fecero un g rande effetto. Ma, una volta sbolliti gli entusiasmi, la gente comin-ciò a d o m a n d a r s i in cosa si concre tavano , p r a t i camen te , i vantaggi del nuovo sistema. Tutti i cittadini avevano il voto, va bene , ma nei comizi si seguitava a prat icare quel diri t to pe r classi, sempre combinate su quello schema serviano, per cui i mil ionari della p r ima , a v e n d o novanto t to cen tur ie , e qu ind i novantot to voti, bastavano da soli a impor r e la p ro -pr ia volontà a tutti gli altri. Infatti, u n a delle p r ime decisio-ni che presero fu quella di revocare le distribuzioni di t e r re fatte ai poveri dai Tarquin i nei paesi conquistat i . Sicché ci furono parecchi piccoli propr ie tar i che si videro confiscare, da un giorno all 'altro, la casa e il pode re e, n o n sapendo co-me t irare avanti, t o rna rono a Roma in cerca di lavoro.

    Ma a Roma di lavoro n o n ce n ' e ra p e r c h é i consoli, es-sendo nominat i pe r un a n n o soltanto, n o n potevano intra-p r e n d e r e nessuna di quelle g rand i ope re pubbliche ch'era-no la specialità dei re, eletti a vita i pr imi c inque, e addiri t-tura a titolo eredi tar io gli ultimi due . Inol t re la repubblica, dominata dal Senato che l'aveva fatta e che era costituito di propr ie tar i terrieri di origine sabina e latina, era taccagna, a differenza della scialacquona monarchia , domina ta dagl ' in-dustriali e dai mercant i di origine etrusca e greca. Essa vole-va «risanare il bilancio», come si direbbe oggi, cioè prat icare

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  • u n a politica f inanziar ia sparagnala anche perché n o n aveva nessun interesse a moltiplicare la categoria dei nuovi ricchi, suoi natural i avversari.

    In somma, la città era in crisi, e i poveri cafoni che veni-vano a cercarvi scampo dalla d isoccupazione e dalla fame delle c a m p a g n e vi t rova rono altra fame e al t ra disoccupa-zione. I cant ier i e r a n o fermi, r imas te a mezzo le case e le s t rade . Gli audaci imprend i to r i , ch ' e r ano stati i g r and i so-stenitori dei Tarquini e avevano dato impiego a migliaia di tecnici e a decine di migliaia di operai , e rano al bando o te-mevano di esserci messi. I pubblici locali ch iudevano u n o dietro l'altro pe r mancanza di clienti, diradati dalla scarsez-za di circolante e dal clima pur i tano che tut te le repubbliche d i f fondono o cercano di d i f fondere . I p ropagand i s t i del nuovo r e g i m e a r r i n g a v a n o c o n t i n u a m e n t e la folla p e r ri-cordar le i delitti che i re avevano commesso. Gli ascoltatori si gua rdavano in to rno e pensavano che fra i «delitti» c 'era anche il Foro, dove in quel m o m e n t o si t rovavano, e ch 'era stato costruito dagli esecrati re .

    Un altro p u n t o su cui i propagandis t i insistevano e rano i misfatti perpet ra t i dall 'ultima dinastia, che aveva cercato di far di Roma u n a colonia etrusca. C'era del vero, ma a p p u n -to in grazia di questo Roma aveva ora il suo Circo Massimo, la sua Cloaca, i suoi ingegneri , i suoi artigiani, i suoi istrioni (ch 'erano gli attori del tempo) , i suoi pugilatori e gladiatori, protagonist i di quegli spettacoli di cui i romani e rano tanto ghiotti , e le sue m u r a , e i suoi canali, e i suoi indovini, e la sua liturgia pe r adora re gli dèi: ch 'era tutta roba impor ta ta a p p u n t o dall 'Etruria.

    Non tutti na tu ra lmen te lo sapevano, pe rché n o n tutti in Etruria e rano stati. Ma n 'erano più degli altri coscienti i gio-vani intellettuali, che avevano studiato, e preso la laurea nel-le università etrusche di Tarquinia, di Arezzo, di Chiusi, dove i babbi li avevano mandat i a studiare, e di cui conservavano un g ran r icordo. Essi non appa r t enevano in genere alle fa-miglie patrizie, che i loro figli se li educavano in casa, badan-

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  • do a farne non uomini istruiti, ma uomini di carattere. Veni-vano da famiglie borghesi, e la loro sorte era legata a quella dei traffici, delle industrie e delle professioni liberali, ch'era-no appun to le più colpite dal nuovo andazzo delle cose.

    Per tutte queste ragioni, lo scontento fece presto a nasce-re . E p u r t r o p p o esso coincise con la dichiarazione di guer-ra, lanciata da Porsenna, su istigazione di Tarquinio.

    Come sia andata questa faccenda, con certezza non si sa. Ma, data la situazione, n o n è difficile immaginare quali do-vet tero essere gli a rgoment i che il depos to mona rca svolse p e r i n d u r r e i l l u c u m o n e a prestargl i a iuto. Costui dovet te certo fargli osservare che i Tarquini , pe r quan to di sangue etrusco, verso l 'Etruria n o n si e rano poi dimostrati buoni fi-gli, se l 'avevano c o n t i n u a m e n t e t o r m e n t a t a con g u e r r e e spedizioni punitive fino a r idur la quasi tutta sotto la loro si-gnor ia . Ma il S u p e r b o p robab i lmen te gli r ispose che , nel m o m e n t o stesso in cui egli e i suoi due predecessori faceva-no romana l 'Etruria, facevano anche etrusca la stessa Roma, conquis tandola pe r così d i re dal di d e n t r o a spese dell 'ele-m e n t o latino e sabino che dappr inc ip io l 'aveva domina ta . La lotta n o n era stata fra potenze s traniere, ma fra città ri-vali, figlie della stessa civiltà. Roma, sebbene u l t ima na ta , aveva cercato n o n di d i s t rugger le , ma di r iun i r le sotto un comando unico per condur le al p redomin io in Italia. Forse aveva sbagliato, forse aveva qua e là calcato la m a n o , con poco rispetto delle loro au tonomie municipali . Ma a nessu-na i Tarquini avevano serbato la sorte cui avevano sottopo-sto pe r esempio Alba Longa e tanti altri borghi e villaggi del Lazio e della Sabina, d is t ru t t i dalle fondamen ta . Nessuna città etrusca era stata mai messa a sacco. I mercanti , gli arti-giani , g l ' ingegner i , gli a t tor i , i p u g n a t o r i di Tarqu in ia , di Chiusi, di Volterra, di Arezzo, appena emigravano a Roma, n o n vi t rovavano la sorte degli schiavi, ma vi d iven tavano p r e m i n e n t i , e tu t ta l ' economia, la cu l tu ra , l ' indust r ia , il commercio delle città e rano prat icamente nelle loro mani .

    Cioè lo e rano stati finché i Tarquini e rano rimasti sul t ro-

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  • no , a pro tegger l i . Ora , con la repubbl ica , che sarebbe suc-cesso? La repubblica significava il r i to rno al po te re di quei latini e sabini zoticoni, avari, diffidenti, reazionari e istinti-vamente razzisti, che avevano sempre covato un sordo odio pe r la borghes ia e t rusca liberale e progressis ta . N o n c 'era da farsi illusioni sul m o d o in cui l ' avrebbero t ra t ta ta . E la sua scomparsa significava l 'affermazione, alle foci del Teve-r e , di u n a po tenza forest iera e nemica , al pos to di quel la consanguinea e amica (anche se un po ' litigiosa e manesca), che d o m a n i po teva uni rs i agli al tr i nemici de l l 'E t ru r i a e contr ibuire al suo t ramonto .

    Se la sentiva, Porsenna , di dis interessars i a u n a simile ro t tu ra di equilibrio? O non trovava conveniente prevenire la catastrofe, sal tando addosso a Roma, ora che il marasma vi regnava all ' interno, e all 'esterno, specie nel Lazio e nella Sabina, le ossa della gente dolevano per le botte ricevute dai soldati romani? A un cenno del potente lucumone di Chiu-si, tut te quelle città sarebbero insorte contro le scarse guar-nigioni che le presidiavano, e Roma si sarebbe trovata, sola e discorde, alla mercé del nemico.

    Non sappiamo quasi nulla di Porsenna. Ma dal m o d o co-me si condusse , dobb iamo d e d u r r e che alle doti del bravo genera le doveva accoppiare quelle del sagace u o m o politi-co. Egli si rese conto che negli argomenti di Tarquinio c'era del vero. Ma pr ima d ' impegnarsi , volle essere sicuro di d