Lukas den Svarte - Favola di una notte d'inverno

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Una breve storia di amore, paura, illusioni e delusioni. La purezza dell'adolescenza e la rassegnazione del demonio danzano nei campi gelati di un'aldilà scolpito nel ghiaccio, mentre le stagioni sfilano attorno a loro in un corteo di colori e nostalgie. Prima di quattro favole scritte tra il 2008 e il 2012, progettata per essere letta ad alta voce.

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Lukas den Svarte

~ Quattrofavole ~

Per ricordarsi di non avere paura del buio

I. Favola di una notte d'inverno

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1884. Vi ricorda qualcosa? No, immagino di no. In effetti,

sui libri di scuola non si trovano molti riferimenti a questa

data, come se non fosse successo nulla in quell’anno. Ma

qualcosa accadde, invece, oh, sì, potete starne certi. E io

sono qui proprio per raccontarvi una storia un po’ triste e un

po’ romantica, un po’ spaventosa e un po’ allegra. Mi hanno

detto che una storia così inverosimile può essere chiamata

solo favola e per questo così la chiameremo anche noi.

Deciderete voi, alla fine, se sarà davvero così.

La storia che vado a raccontarvi comincia, appunto, in un

qualunque pomeriggio invernale del 1884, in Germania.

Alcuni di voi sapranno che quella bellissima nazione è

ricchissima di boschi, dove gli alberi alti e robusti

nascondono pericoli e lupi feroci. Ma che spettacolo, quando

il sole filtra i suoi raggi tra le loro chiome e li depone sulla

neve bianchissima. E per tre giorni e tre notti aveva nevicato

senza sosta, seppellendo ogni cosa sotto quel morbido

manto. Ovunque si perdesse lo sguardo, c’erano praterie

bianche, colline bianche, montagne bianche. Rocciosi e

imperturbabili, i tronchi scuri degli alberi fornivano l’unica

eccezione, generando un paesaggio meraviglioso. Potete

immaginarlo, no? Allora immaginate anche due donne –

perché c’erano, ve lo garantisco – annaspare in quell’oceano

bianchissimo. Una era una donnona, una di quelle robuste

tedesche che sanno menare sberle come gli uomini,

vecchiotta ma non troppo, coi capelli raccolti tutt’intorno

alla testa da sembrare due ciambelle scure tutte intrecciate.

Qualche metro davanti a lei, ci appariva una fanciulla di

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tutt’altro stampo: sui vent’anni, alta e aggraziata, di quel

biondo chiarissimo che appena si distingueva sulla pelle

d’alabastro, e due occhi azzurri come il cielo di mattina. Era

invero una ragazza di rara bellezza, tanto più che era gioiosa

e felice, almeno a giudicare dal modo con cui scavalcava i

mucchi di neve. Entrambe le donne erano vestite di abiti

pesanti e ricchissime pellicce di ermellino, in special modo

la fanciulla, il cui abito era impreziosito di smeraldi e acque

marine di grande valore. Chiunque si sarebbe accorto di

come le due donne dovessero appartenere alla nobiltà di

quei tempi, quella di cui si parla appunto nei libri di storia o

nelle favole come questa. D’altronde, nessun abito sarebbe

stato più inadatto per correre tra i boschi che quelle gonne e

quelle pellicce di grande valore, che si sarebbero potute

strappare ad ogni arbusto nascosto che si affacciava lungo il

loro cammino.

«Ferma, ferma! Il cuore mi scoppia!» esclamò la donnona,

con la mano premuta al petto.

L’altra le rispose con una risata vivace e fresca come lo

scrosciare di un torrentello. Teneva la gonna con le mani,

mentre saltava ogni sasso, ramo e radice che incontrava.

«Per carità, Selina! Il Generale s’infurierà!

Meglio sarebbe non esser mai venute qua!».

«Che dici mai, cara nutrice? Lo zio?

Perché dovrebbe infuriarsi, l’unico parente mio?» la

fanciulla ancora rideva, ma si era infine fermata, ansimante.

«Ma il Generale Kannonanten è severo.

Oh, mai visto un uomo più austero!».

«Mai, mai, mai. Questa apprensione pare funesta,

mi piacerebbe sapere che ti ronza per la testa!».

«È il vento, Selina,

sprovveduta bambina.

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Non senti come s’alza impetuoso?

Nevicherà ancora, è pericoloso».

«Ah, pericoloso! Pericoloso!» e la giovane allargò le braccia,

girando su sé stessa con la grazia di un’abile ballerina.

«Se neve deve essere, che neve sia!

Non vedi che bellezza, nutrice mia?

Si alzi pure questo ambizioso vento,

che io possa ammirare il portento

di foglie e fronde che danzano soavi,

che risuonino i flauti dei tronchi cavi!

Il sole sia nostra guida magnanima

e colori d’oro la più vitrea anima.

Meraviglia, splendore della natura,

benigna ci accogli e ci scacci, dura,

per tornare al silenzio della casa vuota

dove la vita scorre come acqua immota.

Abbandonare il sogno, salutar Dio?

Qui sì manifesto, non lo rinnego io,

e anzi l’amo, lo ringrazio come figlia,

ma il separarmi m’inumidisce le ciglia!

Che fare, nutrice premurosa, tornare?

Questi boschi mi sembrano invocare,

m’invitano qui con loro, sì, a restare

e per sempre il sommo Dio contemplare!».

«Questi sono pensieri da donna dissennata.

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Vedere Dio in un’abbondante nevicata!» la nutrice rise,

prendendo per il braccio la fanciulla

«Ma via, Selina, torniamo in città,

che il Generale non s’abbia a preoccupar».

«Ma solo un attimo, per favore!

Quando potremo rivedere un tale splendore?» la giovane si

liberò con mossa brusca, indicando tutta la foresta intorno a

«Vieni, addentriamoci ancora un poco:

che non rimanga solo un ricordo fioco!» e riprese a

camminare a gran passi, nonostante le proteste della

nutrice.

Infatti quella era un continuo lamentarsi e metterla in

guardia, cosicché le parlava dei lupi, delle voragini che non

si scorgevano e delle mille altre insidie del bosco, ma se le

orecchie della bella Selina erano sorde ai suoi richiami, il

forte vento l’aiutava ancora di più a non ascoltarla. La

fanciulla era rapita dalla visione in cui si era tuffata, dallo

spettacolo della foresta d’inverno, del cielo sgombro

attraverso il quale si vedeva talvolta volare un falcone in

cerca di cibo. Ma mano a mano che camminavano, il cielo

era sempre più un triangolino piccolo piccolo, schiacciato

tra i rami fitti e i tronchi immensi talvolta anche difficili da

aggirare. Tuttavia, Selina avanzava imperterrita, ansiosa di

scoprire gli altri segreti della foresta, tanto che la sua

curiosità venne infine soddisfatta. Si accorse subito di un

particolare strano, una variazione di colore inaspettata, un

grigio troppo scuro che si ergeva da terra, sormontato

dall’immancabile tettuccio di neve. Distinse prima un basso

muricciolo, poi statue e pietre scolpite: trattenne il fiato

quando si accorse che si trattava di un vecchio cimitero,

inaspettatamente in buone condizioni. Selina era

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spaventata, ma è inutile precisare anche quanto fosse

sprovveduta. Tra le raffiche di vento che le sferzavano il viso

e le agitavano gli abiti, scavalcò delle pietre erose ed entrò

nel cimitero.

«Che strano. Ma chi l’avrà costruito?» si disse

«Forse vi è sepolto qualche bandito?

No, sciocca, questo è del tutto impossibile;

però chi l’ha costruito dev’esser definibile.

Che un tempo qualcuno vivesse nella selva?

Non avevano paura di qualche belva?

L’hai ripetuto in continuazione anche tu, nutrice cara:

non è vero che qui si nasconde qualche sorpresa amara?» e

si voltò, rendendosi conto troppo tardi che il vento e la

curiosità erano stati cattivi consiglieri.

Nessuno si intravedeva, né a destra né a sinistra, né davanti

né dietro: Selina fu presa dal panico. Si girò su sé stessa

innumerevoli volte, scrutò attraverso gli alberi e chiamò così

tante volte la nutrice che la voce gli si seccò. Qualsiasi cosa

gridasse, il vento copriva ogni rumore, come doveva aver già

fatto prima con i richiami che la stessa nutrice le aveva

rivolto. La fanciulla provò ad avventurarsi nella foresta nel

tentativo di riuscire a ritrovarla o, perlomeno, di trovare una

via di fuga. Vagò a lungo, tanto che la neve fitta la sorprese

che era ancora in marcia, tremante nelle spesse pellicce e

con gli occhi colmi di lacrime. D’un tratto, si arrestò nel

riconoscere un familiare muretto di pietra, ormai quasi

completamente ricoperto di bianco e le statue segnate dal

tempo al suo interno. Disperata, si accorse di essere tornata

al punto di partenza, il piccolo cimitero. Si guardò

nuovamente intorno e subito si accorse che la sua visuale

era ormai compromessa e limitata dalle continue folate di

vento e neve. Con le ultime forze, penetrò nel cimitero e si

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sedette con le spalle contro una piccola cappelletta, che era

peraltro la struttura più alta del cimitero. Sapeva che non

l’avrebbe protetta a sufficienza e che la bufera non l’avrebbe

risparmiata, ma volle illudersi di potersi salvare. Nel giro di

pochi minuti, tutto attorno a lei era un vorticare candido

attraverso il quale si scorgeva solo il buio della sera

incombente, prossima ad avvolgere tutto il mondo di

tenebra. Il suo viso pallido si era fatto livido e le braccia e le

gambe rispondevano appena ai suoi comandi. In quegli

attimi, ebbe la consapevolezza di stare per morire.

«Però io non voglio morire qua,

come un vecchio senza più dignità;

se cadrà la nobile Selina,

lo farà solo da eroina» pensò fra sé e, come in una tragedia

teatrale, s’alzo ad abbracciare la statua di un angelo che

levava la sua spada di pietra contro il cielo e la tempesta.

Proprio lì, accasciata ormai ai piedi della statua, ebbe come

una visione: vide nella bufera un puntino piccolo, poi

sempre più grande e straordinario. Un uomo tutto coperto

di una corazza come quella di un cavaliere dei tempi antichi,

ma nerissima, avanzava verso di lei, danzando tra i venti

come uno spirito etereo: dall’elmo vide che partivano due

corna come di cervo, ma erano trasparenti da sembrare

cristallo. Nelle mani stringeva uno scettro che sembrava

brillare come un nuovo sole d’avorio; infine, scorse il suo

mantello, una cappa nera su cui vedeva risplendere tutte le

stelle del firmamento. Poi le fu di fronte e lei, spossata,

crollò sulla neve, spossata e vinta.

È d’obbligo ora spostarci altrove: immaginatevi di sorvolare

la povera Selina, l’uomo misterioso in armatura e tutta la

foresta, di scavalcare la bufera come l’aquila che s’innalza

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più alta che mai. Ed ecco, là in basso, una città con le vie

sgombre e i comignoli fumanti, grande e variegata. È

Berlino, con le sue cattedrali e la sua maestosa Porta di

bronzo e marmo, i palazzi signorili e le botteghe coi battenti

chiusi a proteggersi dal vento e dalla nevicata. È proprio ad

una reggia che ci avviciniamo, veloci e indiscreti, sbirciando

oltre una finestra densa di umidità. L’arredamento era

ricercato e lussuoso, eppur conservava una sorta di rigido

militarismo. Là dove meglio avrebbe capeggiato l’immagine

di una nobile moglie stava la sciabola, e la bandiera della

patria era saldamente appoggiata ad un piedistallo. Sul

tavolo ben decorato era posato un libro, uno solo, che altro

non era che il regolamento dell’esercito. Il Generale Rodolfo

Kannonanten era uomo di ferree convinzioni e saldi

principi, la cui vita era legata unicamente all’esercito, alla

difesa del territorio e ai formalismi tra ufficiali. Addirittura,

sfogliava ogni sera qualche pagina del suo amato

regolamento e sentiva il suo amore per le tradizioni

guerresche cocente come lo era sempre stato. In tutto e per

tutto, non c’era uomo più fiero di indossare l’uniforme del

Generale Kannonanten: anche in quel momento, quando i

suoi soldati riposavano e i pensieri di tutti erano lontani da

campagne militari, lui era scattato in piedi all’udire un certo

trambusto provenire dal piano di sotto. Sistemato il

monocolo tra l’occhio e il naso adunco e lisciati i baffoni

neri, aprì la porta della sua stanza e con piglio marziale

percorse il ballatoio.

«Che mai succede qui? Che terribile baccano, che

schiamazzo!

Chi vuol finire in guardina? Si faccia avanti, quel pazzo!»

tuonò, guardando adirato verso il piano di sotto «C’è

fermento tra le donne di casa: stolte servette!

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Ripristinare l’ordine, innestare le baionette!».

C’era infatti un capannello di donne che vociferavano tra di

loro attorno a una figura esasperata, coperta di neve e di

paura, che il Generale non faticò a riconoscere.

«È Ulma, la nutrice! Che pazzia è questa?

Che confusione, siamo forse a una festa?» e afferrò un

bastone, scendendo severo giù per le scale «Rientrate nei

ranghi, donnette incoscienti!

Tornate al lavoro, prima di rimetterci anche i denti!».

«Ah, padrone, Generale! Alla disgrazia, alla sciagura!»

urlò quella, buttandosi alle sue ginocchia «Selina, vostra

nipote, la vidi scomparire nella radura!

La chiamai con tutta l’aria che avevo nei polmoni,

ma era sparita dietro a rami e tronconi!».

Il Kannonanten si irrigidì e gonfiò il petto come un galletto

imbaldanzito.

«Siate chiara, Ulma, che io possa capirci qualcosa!

Ditemi di Selina, non farneticate senza posa!».

«Perduta nei boschi, è andata incontro alla bufera!

Io la seguivo, ma la persi prima che calasse la sera!».

«Perduta? Là fuori c’è la morte, bianca e impietosa!»

sentenziò il Generale «Avventurarsi nella foresta, una così

fragile rosa?

E voi, scriteriata, ce la portaste, megera?

E per di più l’abbandonaste, prima che calasse la sera?».

«Io l’ho cercata, ma era così difficil cosa!

Non la trovai e corsi qui, alla vostra casa!».

Il Kannonanten non ebbe nemmeno un tremito, tanto da

apparire una statua con in divisa e medaglie d’oro

massiccio.

«Abbandonar sul campo un compagno merita una

punizione:

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non foste una donna, vi spetterebbe la fucilazione.» disse,

inflessibile.

«Ma sono corsa qui proprio per poterla aiutare:

organizzate una spedizione, la dobbiamo trovare!».

«Che, i servi hanno di dar ordini l’ardimento?

Questo non è ammesso dal regolamento».

«Eccellenza, è per la vita di vostra nipote!

Guardate la bufera, gli alberi: come li scuote!

Vostro fratello sul punto di morir ve l’affidò,

e voi venite meno al giuramento, però».

«Alla nutrice, per prima, spetta di occuparsi di Selina».

«Dunque non l’aiuterete, lei, poco più di una bambina?

Io m’affannai nella foresta invocando il suo nome,

pregai Iddio, perché mi mandasse una benedizione!

E mi infangate, come un soldato che osa

un’insubordinazione…».

«Dovete sempre rispondere al regolamento di ogni vostra

azione. Andare ora! Stabilirò io come si debba agire,

prima che la mia pazienza giunga al finire».

Tremante e in lacrime, la povera Ulma si rialzò in piedi e si

asciugò debolmente il naso e il viso umido. Ancora, sotto la

coltre la pianto, si scorgeva chiaramente il rossore causatole

dalla fredda bufera. In un sospiro, ella disse:

«Dio legge nei cuori: Egli sa che non l’ho tradita.

Lo pregherò di far sì che la pietà non vi scappi tra le dita»

e uscì.

Il Kannonanten non batté ciglio, se non quando la porta fu

chiusa. Con un moto di stizza, batté il passo sino ad una

corda appesa alla parete e la tirò, facendo risuonare uno

scampanellio vivace in qualche altra parte della casa. Meno

di un minuto dopo, una figura alta, anch’essa in uniforme,

fece il suo ingresso nella sala. Si mise prontamente

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sull’attenti, senza smuovere di un centimetro la sciabola che

teneva appesa al fianco.

«Maggiore Von Fieren a rapporto, Generale» salutò da sotto

la barba appena ingrigita.

Il Kannonanten lo squadrò senza far commenti: il maggiore

Von Fieren aveva fama di essere uno dei più valorosi e fidati

ufficiali dell’intero esercito e lui per primo sapeva quanto

queste voci fossero fondate.

«Maggiore, fate conto che questo ordine vi arrivi dal

Kaiser di Prussia in persona:

radunate gli uomini e copriteli bene. Li voglio qui fuori

entro mezz’ora».

Il maggiore trasalì, sbigottito.

«Se permettete, com’è possibile radunarli in mezz’ora,

signore?

Siamo a Berlino, c’è la pace ed è a cinque miglia la

guarnigione».

Il Kannonanten parve finalmente ridestarsi dalla sua

rigidità: lui che viveva solo per la guerra diventava di pasta,

senza soldati a cui imporre il suo volere.

«Cinque miglia? Mia nipote è perduta! Scriteriata!

Nella bufera è rimasta intrappolata!».

«Intendete Selina, la bella figlia di vostro fratello?».

«Lei, lei, che ha vent’anni, muore così, sul più bello!».

«Ahimé, ahimé, sciagura! Cercarla si deve!

Se non la salveremo, alleviarle almeno le pene!».

«Salvarla, salvarla…» la ferrea disciplina del Kannonanten,

a quel punto, si incrinò.

«Anno dopo anno, ho appreso strategie,

vagato a lungo per contee e baronie,

il nemico ho sconfitto sulle vaste piane,

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l’ho schiacciato, inseguito come un cane;

con giovinetti e veterani esperti,

ho innalzato la bandiera su campi aperti,

ho anche saziato il tesoro regale

per conquistare il titolo di Generale…

Ma cos’è un Generale,

senza uomini da comandare?

Un perdente, uno sconfitto,

degno di pender dal soffitto».

«Parlar così, voi che la Patria onorate!

Vi son vicino, non reggo tali parlate!

Al vostro fianco, sempre, là ho combattuto

e voi, col tempo, m’avete qui cresciuto!

M’avete dato la vita, caro amico;

ricambiar devo un favore così antico:

sarò la vostra invincibile armata

e riporterò qua la nipote avventata».

«Fate così la vostra scelta fatale.

Per la nipote d’un povero Generale,

per il debito mio col defunto fratello,

per l’onore d’un altro, quel pesante fardello.

Armata che cade immortala il valore;

andate, siate giudice del vostro furore,

ma la perdita vostra grava al paese,

mentre una ragazzina è causa di spese».

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«Il vostro cuore è pietra, almen così sembra:

so però come la Prussia vi scalda le membra

e non vi critico, ché la Patria è di carne,

ma le leggi di Dio non sta a me cambiarle.

La nipote per amor vostro vi riporterò,

non per la Patria, ma per quel cuore che amò,

che amare ancora vuol e pago gioirà

potendo la bella Selina stretta riabbracciar».

Senza attendere oltre, Von Fieren girò sui tacchi e si affrettò

fuori dalla stanza, già pronto a far sellare il suo cavallo. Al

Kannonanten, rimasto solo nella stanza, quella

dichiarazione parve tanto assurda da esser quasi

riprovevole. Subito, la sua mente impregnata di regole e

schemi, colse quelle parole come un tradimento verso di lui,

i suoi ideali e la Prussia stessa. E convinto di ciò, risalendo

le scale, intonò di nuovo le sue tristi parole:

«Ma cos’è un Generale,

senza uomini da comandare?

Un perdente, uno sconfitto,

degno di pender dal soffitto».

Da tutt’altra parte, contrariamente a quello che chiunque si

sarebbe aspettato, gli splendidi occhi di Selina si aprirono.

Ma quanta fatica, quanto pesanti erano quelle palpebre e

quelle lunghe ciglia. Le ci volle un po’ per capire che la causa

di tanta sofferenza non derivava dal sonno o dalla

spossatezza fisica, ma dall’intensa luminosità che l’abbagliò.

Bianco, infinitamente bianco, un candore che mai si era

visto nel mondo mortale. Dopo alcuni secondi, riuscì ad

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abituarsi e a muoversi sotto le pesanti coperte che la

coprivano. Si mise infine a sedere, scoprendosi in un letto

d’incredibile lusso, vestita dei soliti indumenti che portava

prima di perdere i sensi, anche se adesso erano

completamente asciutti.

«Ecco,» pensò «ora sono morta,

ho varcato l’ultima porta.

Ma quell’uomo nero,

quel titano guerriero,

era dunque il mio pastore,

colui che ci guida quando si muore?».

Immaginate il suo stupore quando lo intravide poco

lontano, un’ombra scura in quel candore straordinario. E

quando lui parlò – con una voce meravigliosa, come il

risuonare dell’eco in una caverna vuota – capì che la stava

guardando.

«Infine ti svegli, creatura delicata;

lascia che ti dica bentornata».

La fanciulla non si mosse, fissando con un misto di paura e

curiosità quell’individuo misterioso: lo vide alzarsi in piedi

da un trono di ghiaccio trasparente, scolpito con squisiti

bassorilievi, e avvicinarsi a lei. Istintivamente, si ritrasse

dietro alle coperte quando poté distinguerne i tratti

somatici: sembrava un essere etereo, splendido nei

lineamenti aguzzi che si disegnavano sul viso pallidissimo,

più dell’innaturale stanza. Alto e bello come un angelo,

stempiato come un saggio monarca ed elegante nel suo

portare i lunghi capelli argentei sin sulle spalle, stupiva e

spaventava con gli occhi, due pozzi neri dove galleggiavano

come iridi bolle glaciali, e quelle corna ramificate alla pari di

un cervo reale, lucide e trasparenti. E su quel corpo mai

visto in natura era disposta la sua corazza, che Selina

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riconobbe come scaglie di ghiaccio, ma di un nero sinistro e

lugubre. Quando le fu tanto vicino da poter sentire il suo

respiro, ebbe un tremito glaciale.

«Non avrai di che temere da me, fanciulla.» sussurrò

«Sei al sicuro, piccola anima nella sua culla,

che covi il terrore nelle vene sottili,

e temi che le Parche abbian reciso i tuoi fili».

La giovane tacque, restando come pietrificata ad osservarlo.

Quello inclinò il capo e sorrise appena.

«Vedo in te una creatura d’oro e neve,

coi tuoi biondi capelli e la pelle sì lieve,

un’opera d’indicibile meraviglia,

della nuvola morbida devi esser figlia».

Rapido e silenzioso si allontanò da lei e sul suo mantello

buio si poterono scorgere brillare tutte le stelle e le

costellazioni. La giovane, pur spaventata, si fece forza e

parlò:

«Immagino, mio sire, di dovervi ringraziare.

Foste voi a trarmi via da quel ventoso mare?».

«Un mare, sì, con onde di nebbia e zaffate taglienti,

tolgono l’aria e la vista coi loro forti movimenti.

Sì, fui io, perché la neve voleva coprirti

e a me, come un mostro abietto, nasconderti.

Questo, mai, avrei potuto concedere al mondo,

che ignaro ti avrebbe relegato sullo sfondo».

La fanciulla che, per quanto fosse di notevole bellezza, era

sempre stata modesta e per nulla vanitosa, si trovò

imbarazzata da quell’elogio, per quanto quell’essere la

inquietasse.

«Mio zio è un Generale importante.» disse velocemente

«Saprà ricompensarvi con moneta sonante».

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L’essere tornò a sedersi sul suo trono, senza mostrare alcun

disagio per il freddo che doveva emanare.

«Non dirmi di lui, ma parlami di te.» sorrise ancora «Ad

esempio, il tuo nome qual è?».

La giovane trasalì nuovamente, guardandolo in faccia.

«Selina» confessò con un filo di voce.

L’essere annuì e sospirò, ondeggiando i brillanti capelli, e

quel gesto la sembrò ipnotico come il danzare di un

serpente.

«Ah, Selina, è la musica del vento,

e il sussurrare delle stalattiti, lento.

Un sogno tu mi ispiri, un lago e una cascata,

dove timide ninfe sfiorano coi piedini l’acqua ghiacciata».

La giovane ascoltava ora con trasporto, e quasi si era

scordata dell’aspetto strano e poco rassicurante del suo

misterioso soccorritore.

«C’è musica nel vostro parlare, prima che in me;

ma ditemi, vi prego, questo che luogo è?

E voi, gentile amico e prode salvatore,

ditemi come chiamarvi, con quale nome.

Io mi sento confusa e voi, ammetto, mi fate un po’ paura…

Per quanto il solo ascoltarvi mi faccia sentire come una

fonte pura».

«Cristallina è l’anima tua, e bene posso vederlo;

Avro son io, e tra i tuoi sei la sola a saperlo.

Perdonami per averti da solo accolto in un luogo a te

straniero,

e perdonami anche per essere di solo timore e spavento

foriero» e detto questo tacque per lungo tempo, restando

immobile a guardare Selina.

Persino lei si stupì di come riusciva a sostenere quello

sguardo e di come il nodo che le stringeva la gola nascesse

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unicamente dalla sua educazione, che le imponeva di non

far domande indiscrete. Alla fine, però, come sempre

accade, la curiosità ebbe il sopravvento.

«Avro… Questo nome mai sentito, sembra richiamare echi

lontani,

voci provenienti da anfratti sconosciuti e non meno strani:

sussurri e avvisaglie di un tempo perduto, ricordi

inconsapevolì...

Sì, di quando non esistevano né stati, né leggi o

convenevoli.

Avro, che persistete nella memoria o forse nella fantasia;

Avro, che tutti conoscono, ma nessuno sa chi sia».

L’essere non rispose, forse meditando sulla risposta da dare,

quindi si alzò in piedi, incedendo elegantemente verso di lei.

«Avro è il grido dell’orso e del falco,

sui monti e in cielo egli traccia un solco,

sconquassa i mari col gesto imperioso,

comanda i sogni dell’uomo timoroso.

Pur col sole gode della supremazia,

di valanghe e slavine traccia la scia.

È il corno del suonatore di disgrazia:

i rami spezza, le foglie sparge, i tronchi strazia.

Son io il Demone, il Dio dell’inverno,

quanti dei vivi l’han battezzato Inferno:

qui son castigati, al ghiaccio aggiogati,

qui gl’Incubi soffiano grandine sui dannati.

Avro regge fiero le sorti delle correnti,

e le bufere non son che passatempi.

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E tu, Selina, che hai rapito l’occhio mio;

tu, stretta al tuo angelo, così sarò stretto io.

Un solo viso per chi vede ogni volto,

un sorriso come ghiaccio appena sciolto,

e quel calore che minaccia la mia fine,

che stronchi ogni fiato e le mie rime!».

Avro allargò le braccia in uno scatto e le pareti si fecero irte

di mille spunzoni di ghiaccio, tanto che la stanza sembrava

ora la bocca feroce di uno squalo. Selina ne rimase tanto

impressionata da cacciare un grido. Subito si rannicchiò nel

grande letto e rifuggì la mano che Avro le offrì per aiutarla

ad alzarsi. Grande era lo sgomento della fanciulla, che si era

trovata ora nella peggiore delle situazioni che aveva potuto

immaginare. Aveva creduto di essere morta, per poi illudersi

di esser stata in qualche modo salvata da quel misterioso

individuo, solo per scoprire ora di essere prigioniera di una

sorta di Demone. Silenziosamente, cominciò a piangere

sotto le coperte. Avro la guardò come risentito, ma rimase

fermo di fianco al letto.

«Ti vedo soffrire e me ne dolgo con te;

dimmi perché piangi, dimmi perché» le chiese con voce

calma.

«Piango perché la mia sorte non poteva essere più

sventurata;

ho perso tutto e un diavolo mi ha catturata.

Che importa se l’Inferno è di ghiaccio o di fuoco?

Io son prigioniera, io servo al vostro scopo!

E adesso il vostro desiderio è la mia dannazione;

o quella o i tormenti, ah, che ingiusta condizione.

Affiancarvi, magari, per il vostro malvagio diletto,

Page 21: Lukas den Svarte - Favola di una notte d'inverno

21

sorridere mentre schiacciate ogni forma di affetto;

con una valanga e una coltre di neve,

soffocate senza pietà il fiore più lieve».

A questo punto Avro scattò in piedi in un moto di rabbia e

orgoglio.

«Distruggere, rovinare, è tutto qui quello che riesci a

immaginare?

Seppellire, rovesciare, son per te null’altro che un mostro

da odiare?

Io, il Re delle Correnti, un assassino senza pietà,

un folle senza pace che annienta ogni città?

Un pazzo, ecco come ti appaio, un cieco esecutore:

una bestia senza senso che strappa via, così, un esile

fiore…».

Si portò una mano a coprirsi il viso e chiuse gli occhi;

quando la tolse, sottili lacrime di cristallo gli scendevano

lungo le guance. Lentamente, distante da tutto quel furore

che aveva prima manifestato, Avro avanzò verso la giovane,

le braccia abbassate. Selina, come lo vide di nuovo

avvicinarsi, ebbe paura, ma quel suo brillante lacrimare e la

sconfinata tristezza che gli leggeva in viso la indussero a non

arretrare una seconda v0lta. E quando lui le porse ancora la

mano, con un invito che era più una supplica che altro, lei la

accettò. Il solo posare il palmo su quello di Avro le fece

provare un brivido glaciale, come se si fosse appoggiata ad

una statua di marmo. Lui però la fece alzare con una posata

grazia che riscaldava il cuore.

«Se la tua visione è tanto nefasta e spaventosa,

permettimi di mostrarti una realtà ben più gioiosa,

un mondo fatto, se lo vorrai, di luce e di colore,

dove non risplende solo questo immobile candore».

Page 22: Lukas den Svarte - Favola di una notte d'inverno

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Selina, per quanto esitante, acconsentì con educazione: per

quanto le sue gambe tremassero, dentro di sé la giovane

avvertiva che quel Demone o Dio che fosse non aveva

intenzione di farle del male. Quello, indicando con un gesto

la stanza, parlò:

«Questo bianco immacolato affascina e accarezza;

mi ricorda sempre i mesi in cui tengo il mondo per la

cavezza;

ora mansueto, ora furioso, lo custodisco e lo punisco:

dell’inverno son padrone, come dell’albero lo è il vischio».

«Per questo, qui tutto è neve, bianco e freddo?» chiese

Selina.

«Ogni attimo mi rivela il mondo che io reggo.

Bada, attenta, perché qui puoi anche scivolare:

il pavimento è ghiaccio, ti puoi far male.» e Selina, resasi

conto della cosa, si affidò al forte braccio di Avro.

«Così le sedie, i tavoli, così anche le sculture:

armadi di neve, lampadari di cristalli e pietre dure.

Bianco è il dì, ma le lunghi notte nere:

nel cielo le mie nubi s’agitan come fiere».

La fanciulla alzò lo sguardo e scorse come tetto un

firmamento scuro come la pece.

«Le stelle, o bellissima Selina, son fissate sul mio manto:

qui fuggono all’avanzar delle tempeste, come per incanto.

Il buio senza orientamento è la mia corazza:

da qui io la sprigiono e con me la notte avanza.

Ma ora, giacché ti spaventai, mia ospite così piacevole e

gradita,

ti mostrerò assai da scacciare il timore che t’ha ferita».

E così, giunti su un balcone da cui pendevano lunghi

ghiaccioli, fece un ampio movimento col braccio e l’ombra

che prima accerchiava ogni cosa svanì in un alone

Page 23: Lukas den Svarte - Favola di una notte d'inverno

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biancheggiante. Un attimo dopo, una musica soave e

trasportante giunse alle orecchie della giovane. Per sempre

Selina ricordò quella musica, quelle note ammalianti che le

fecero pensare al canto di una sirena, poi le mani

freddissime di Avro che si appoggiavano sul suo corpo e la

guidavano in una danza delicata e coinvolgente.

«Oh, sogna, sogna, bella Selina, nel regno mio:

tra realtà e fantasia, m’ha deposto Dio;

non m’odia, capisci, com’io non odio lui,

per rispetto a quell’angelo e vassallo che fui.

D’inverno e nell’anno intero s’affida a me

e vedrai quant’è facile capirne il perché:

i tuoi occhi vedranno la terra e gl’elementi,

il mio dominio su uomini, belve e venti».

In quel momento, lo sfavillio indefinito parve a Selina chiaro

e limpido: sotto di lei si estendeva tutto il creato. Lei poteva

avvicinarcisi come un uccello da preda, posarsi su di esso e

poi, di nuovo, librarsi più in alto delle montagne.

«Spiri la corrente brutale, la madre Tramontana,

assalga le foreste e si plachi sulla piana.

Per prati nevosi corrano i bimbi sulle slitte,

sino alla boscaglia con le piante fitte fitte:

tra gli agrifogli e la neve posata al suolo,

avanzi il lupo, pianti le zampe, oda il tuono;

scuota l’ululato il corpo e raggiunga la Luna:

alle feste gli uomini si augurino fortuna».

Page 24: Lukas den Svarte - Favola di una notte d'inverno

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Avro fece girare Selina su sé stessa e ben altro fu lo scenario

che le apparve ora.

«Che il bucaneve annunci la nuova primavera!

Corriamo tra foglie e fiori alla stessa maniera,

tra i capelli liberi siam brezza di vanità:

le fanciulle specchino nei laghi le fresche voluttà.

Dei petali facciamo un tappeto d’amore,

che il poeta si sdrai a quel magico calore;

si adagino le rondini sulle nostre braccia,

della rinascita dipingiam la più vivace faccia».

Avro strinse Selina nel suo freddo abbraccio e le fece

muovere qualche altro passo, che lei seguì con facilità

istintiva e leggerezza di fata.

«Ah, l’estate, non si tralasci la calda stagione;

per noi l’oceano è un immenso telone,

da affrescar con cavalli dalle bocche smisurate:

lo Scirocco le increspi di ampie pennellate.

E là, salda su scoscesi dirupi abissali,

la Stella, la prima, rammenta le nevi invernali

e superba guarda giù, severa conta i giorni;

presto si spegneran del sole cocente i forni».

Selina si mosse ancora e stavolta lo fece da sola: rapita,

sorrideva ed emanava tutta la sua bellezza, che gli occhi

incantati dalla straordinaria vista parevano voler effondere

ancora di più.

Page 25: Lukas den Svarte - Favola di una notte d'inverno

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«Giunge il tempo di malinconia e passione:

spicchiamo il volo a fianco del nobil airone!

S’annunci coi fuochi la nostra vincente giunta,

che ogn’uomo si stringa piano alla moglie assunta.

Diffondiam l’odor dell’uva dalle aspre cantine,

i vecchi trascinino i ricordi per le stradine.

Spogliam le fronde dei loro suggestivi colori

per un nuovo ciclo, nuove storie, nuovi amori».

E, con quelle ultime parole, si spense in un ultimo flebile

richiamo la musica. Avro e Selina mossero gli ultimi passi di

quel ballo, tanto inusitato eppure infinitamente facile e

naturale. Attorno al balcone era tornato un buio pungente,

comune a una notte d’inverno. La fanciulla rimase immobile

a guardare il volto fermo di Avro. Dentro, si sentiva strana,

come ripulita da quel vento che si era immaginata di

essere… O che era veramente stata? Provava un bisogno di

abbandonarsi su un letto, o di sprofondare almeno in una

poltrona, ma da ogni suoi pensiero non riusciva più a tenere

estraneo Avro: era come se con quella danza avesse colmato

ogni suo vuoto con la sua presenza e ora qualsiasi attività,

persino il riposo, le appariva inutile senza lui accanto. Era,

però, consapevole solo a stento di quello che provava,

perché quella sensazione si era appena insinuata in lei e

ancora non aveva avuto il tempo di germogliare. Così, alla

fine, riuscì a pronunciare poche flebili parole.

«Dio, mio Dio, ma quanto tempo è mai passato?

Mi sembrava eterno e ora… Tutto è cambiato.

Star lì, con voi, in voi, a udir quel canto…

Ora il silenzio è la voce del mio rimpianto».

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Avro sorrise, e lo fece con una dolcezza che Selina non aveva

ancora visto, ma le parve subito come l’espressione più

adatto a quel pallido viso, più di quella maschera di potenza

dietro cui si era prima nascosto.

«È la danza delle stagioni, sempre nuova ed eterna:

la danza di una vita che non puoi tenere ferma.

La immagini, la vivi e un istante dopo la ricordi:

ti passa accanto, ti sorpassa e tu neanche te ne accorgi.

Oh, graziosa fanciulla, per te nulla è qui mutato,

ma per la gente, che vive alla cieca, un anno è già

passato».

Selina allargò il suo sorriso nello stupore, senza perdere

alcunché della sua allegria: le emozioni che aveva vissuto, il

baluginare di immagini e suoni era stato così intenso – e

Avro così vicino – da non meravigliarsi che fosse trascorse

una così minuscola briciola di eternità, qual è effettivamente

un anno.

«Se voi mi dite che è trascorso un anno, io vi dico che è

stato ben speso.

E lo dico con cuor leggero, giacché né sul corpo né

sull’anima sento alcun peso.» replicò, guardando serena il

viso di Avro «Ma come potete esser malvagio? Dio tra gli

angeli vi dovrebbe richiamare».

«Si esige un tristo tributo, anno dopo anno, che l’uomo

deve pagare.

Piangono cherubini e serafini a veder causare tanto

dolore:

chi fa il mestier mio ha scelto un’anima di un solo colore.

L’odio che contro il vento e la bufera l’uomo sì spesso ci

lancia,

torna indietro a lui, qui non si porge l’altra guancia.

Ma ora vieni, per favore, nel mio regno lasciati guidare:

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ci son qui tante cose che a te voglio mostrare».

«Un tributo, un colore, un regno intero da scoprire…

Mi attrae e mi spaventa, non c’è che dire.

All’Inferno trovo il ghiaccio e sopra di esso un Dio…

Ma perché l’ho meritato, cosa mai ho fatto io?

Credevo d’esser stata sequestrata

e mi ritrovo vezzeggiata;

sono stata io, non voi, a rapirvi:

ma che avrò mai fatto per così colpirvi?».

Avro scosse piano il capo, abbassando lo sguardo sul

pavimento di ghiaccio.

«Lo chiedi a me, che scorgo dame da millenni?

Io che sugli uomini ho tenuto puntati gli occhi perenni?

Solo da voi viventi ho capito che mi prende,

ho appreso da voi da che cosa questo dipende;

e se anche non posso avere nel petto un cuore rosso,

io lo sento battere, battere a più non posso.

Il solo parlarne mi fa temere d’esser lì per morire:

io son nato dal nulla e tremo dal patire.

Vieni via, ti prego, mia leggera colomba:

mi basta pensarci per bramare la tomba».

Così Avro porse il braccio a Selina e la scortò attraverso il

suo regno bianco di neve e nero di tenebra. Le fece visitare il

palazzo in ogni sua abbagliante sala ornata di ghiaccio e

diamanti, le mostrò le sorgenti dei venti che sgorgavano nei

sotterranei e si contorcevano in balzi e piroette luminose;

presentò ad una ad una le meravigliose sculture di ghiacci

eterni, alcune delle quali raffiguravano esseri dalla

corporatura fiera e nobile, mentre altre rappresentavano

creature macabre, diavoli con ali di pipistrello e grandi

bocche spalancate: c’erano addirittura composizioni

maestose, come città fantastiche in miniatura, con torri

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slanciate e ben rifinite, forse le case di gnomi e folletti. E poi

montagne e fiumi e draghi serpentini, con le scaglie rilucenti

come specchi. Era una visione stupefacente che creava un

ambiente tanto lussuoso da far impallidire le più ricche

regge d’Europa. E fuori, poi, in un cortile ampio, grande

forse quanto la stessa Berlino, c’erano fiori a bizzeffe, di ogni

stagione, che sfidavano ogni regola ineccepibile, almeno

sulla Terra. Lì, al contrario, crescevano freschi e vivissimi,

attingendo a chissà quale magica fonte, orgogliosi nella loro

fragilità: c’erano rose di tutti i colori e margherite, tulipani e

gerani, orchidee e denti di leone. Ma su tutte queste

primeggiava, sia per quantità che per bellezza, la Stella,

ancor più straordinaria di come Avro l’aveva decantata,

simile ad una leggera coperta di neve che si agita leggera

sulla brezza, tante piccole cuspidi come batuffoli di cotone.

Selina, a quel vedere, si commosse profondamente e si

divincolò gentilmente dal braccio di Avro. A piccoli passi

raggiunse quella bianca distesa e si chinò sulle ginocchia,

sfiorando quegli inusuali petali con le dita: anch’essi, come

tutto il resto, erano gelidi, come cristallizzati nella loro rara

bellezza, ma la fanciulla non ebbe il cuore di ritrarsi da quel

contatto.

«I fiori agli Inferi non li ho mai immaginati,

eppur ci sono, eppur qui son nati;

e già so che le devono a voi, Re di un mondo sognato,

e so anche che d’animo siete lor parimenti delicato.

Ma perché siete offeso e ripudiato?

Io non capisco, però vi ho odiato,

come tutti, come nessuno, disprezzavo l’ignoto,

solo perché vivevo in un immenso vuoto» disse, e si coprì il

bel viso con le mani per la vergogna.

«Ahimé, ahimé, Selina, non c’è da farsi illusioni:

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qui la realtà è diversa, non come nelle canzoni.

L’amore, la gioia, o anche solo un soave sentimento:

solo in questo giardino li puoi portare a compimento.

Fuori c’è l’Inferno vero, di mostri e cattivi spiriti;

fuori non c’è felicità, solo paura e gemiti.

Queste turbe di guerrieri sono a me sottoposti,

tocca a me di guidarli, costi quel che costi.

Su, vieni, e scaccia i tuoi armoniosi pensieri,

domani è già oggi, oggi è già ieri».

Così Avro condusse fuori dal magnifico campo di fiori e di

colpo lo scenario fu ben altro: oltre il muro che circondava

la reggia, c’era davvero l’Inferno, con gli spunzoni di

ghiaccio che spaccavano il terreno e le urla dei dannati.

Tacerò su questi ultimi, giacché anche Avro lo fece, visto che

Selina, come ben comprenderete, era spaventatissima. Il Re

dei Ghiacci la guidò attraverso quel mondo di malvagità,

stringendole forte la mano che lei gli porgeva. Le permise di

vedere dall’alto quel luogo terrificante, le coprì gli occhi

quando avrebbe potuto scorgere qualcosa di

particolarmente impressionante. Lei lo lasciava fare e, con

quegli orrori dinnanzi, non poteva che essergliene grata. A

un tratto, però, vinta dallo sgomento, disse:

«Oddio, signore, vi prego, portatemi via;

a casa, nel mondo vero, ovunque esso sia.

La mia pelle si accappona, non voglio veder più:

portatemi via, non lo reggo, su, su, su!».

Avro la portò lontano e si fermò solo quando quel regno

(che oltretutto pareva sterminato, molto più grande persino

dell’America o della Cina) non fu alle loro spalle. Allora,

chinato il capo, dischiuse nuovamente le labbra:

«Capisco bene la paura che t’incuto:

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la senti colare come in un imbuto;

vedo il terrore disegnartisi sul viso;

vedo una paura che fa scordare il riso.

Tu temi il peggio, lo so e lo vedo:

e temi anche me, lo so e ci credo.

Ancor mi odi, ancor di più mi detesti

e una sola carezza non mi faresti.

Oh, fanciullina, ma che avrò mai fatto?

Io con Iddio ho firmato un patto.

Ha bisogno di audaci punitori:

punir dannati non è viver da signori.

Ma perché m’affanno? È mia la colpa.

Io sono il cane che l’ossa ti spolpa!

Se potessi almen spiegare, sì, giuro,

per te abbatterei qualsiasi muro!

Rinnegherei l’inverno ed il potere:

senza di te, non condurrò più le bufere.

È così vuoto, spaventoso, sì, lo so…

Ma resta, ti scongiuro, ancora un po’».

Selina, colpita dall’ambiguità del luogo e del suo rapitore-

salvatore, lo guardò a lungo senza parlare. Poi, dopo un

lungo tremito, chinò il capo.

«Perdonatemi, signore, ho di nuovo sbagliato:

ho temuto quello che ho immaginato…

Ma non è la realtà, è un riflesso distorto:

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chi soffre, quaggiù, non lo fa certo a torto» sussurrò,

alzando infine gli occhi ancora luminosi di spavento verso

quelli innaturali di Avro.

Lui tornò a porgerle la freddissima mano.

«È il destino del malvagio, non hai di che impallidire:

la gente buona con questi qua non ha nulla a che spartire.

Io comando i loro aguzzini, è questo da sempre il mio

ruolo,

ma non so esser tale e non capisco e sto qui, solo».

Avro emise un sospiro che pungeva la pelle e faceva

raggelare. Selina, reprimendo i brividi, gli si fece vicino per

consolarlo.

«Non abbiate a esser triste per me:

parlate, su, ditemi che altro c’è».

A quelle parole, il Re dell’Inverno ebbe come uno scatto di

euforia.

«D’altro c’è la gloria, la forza prorompente!

La luce del giorno non rivela niente!

Ma vieni e osserva, tiello nella mente:

davvero or si va nella Città Dolente!».

E, rapido come un falco e forte come un’aquila, le cinse la

vita con un braccio e assieme volarono in alto, senz’ali,

sospesi in aria da una spirale di grandine. Da lì,

incredibilmente, Selina riusciva a vedere tutto quello che

Avro le indicava e nient’altro.

«Scruta fino in fondo, guarda tutto quanto!

Qui c’è la fantasia, senz’ombra né manto!

So ch’è pauroso, persin raccapricciante;

ci strizza l’occhio, sai, la Luna calante.

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Ecco laggiù il demonio con le zanne:

guida le belve, di pietà non sa che farne.

Lui, indomito, ha cura dei suoi boschi:

non s’avvicini l’uomo o son tempi foschi.

Ma guarda in su: il gigantesco rapace,

con un colpo di becco spacca un torace,

bada bene che non passi l’invasore:

lui punirà qua il folle distruttore.

Il guerriero del ghiaccio più resistente,

mai troverai acciaio più tagliente:

combatte sempre nell’armata che non perde

e spinge indietro le reclute acerbe».

«Mio zio proverebbe ammirazione!

Ai suoi fanti fa sempre attenzione.

Lo seguono quando parla la violenza,

ma di cavalleria non si può far senza».

«Ma certo che c’è, ci son gli Incubi quaggiù,

dopo averli visti non li scordi più:

neri come pece, cavalli poderosi:

soffian la grandine, sconvolgon i marosi!

L’Erinni urlanti sui lor finimenti

stringono le mani, fan schioccare i denti;

grida tenebrose, stridule e ferine:

qui trovi le bestie alate o marine.

Decisi, fedeli alla loro condanna,

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un’armata valorosa che non s’affanna,

combatteran quel Giorno, sapendo di cadere,

e torneranno qui, al loro tristo mestiere».

Così concludendo, Avro si fermò a contemplare l’orizzonte

lontano: evidentemente, rifletteva su quale sarebbe stata la

sua sorte dopo il Giudizio. A noi, tuttavia, che ci limitiamo a

tramandare questa storia, non è dato di sapere cosa avverrà.

Selina lo distolse dai suoi pensieri prendendolo con

delicatezza per il braccio. Lei gli indicò una distesa simile a

un deserto, una sterminata piana coperta di un velo leggero

di nevischio. Tutt’intorno s’aggiravano ombre bianche,

pallidi riflessi opachi, in un silenzio assoluto e desolante.

Avro le rispose con voce atona:

«È il luogo più vuoto, terra dei dimenticati,

uomini e donne perduti, indietro lasciati.

Scordàti nel vento, prede della bufera,

freddi nella morte prima che cali la sera.

Nessun figlio o parente ha dato loro sepoltura:

non provano gioia, né dolore, neanche paura».

Selina si adombrò e i suoi occhi persero la loro luce

brillante, quindi mosse qualche passo verso la distesa.

«Dovrei essere qui anch’io» mormorò con voce flebile.

«Salva sei, per l’aiuto mio» disse Avro, ma le sue parole si

persero nel vuoto.

La fanciulla avanzò ancora per alcuni metri, scendendo per

il declivio che l’avrebbe condotta in quell’infelice luogo.

Certo il suo lento camminare e il suo stesso odore di vivente

dovette bastare a farla scorgere dalle creature di guardia a

quello spento gregge. Primo fra tutti, si fece avanti un

individuo che poteva addirittura sembrare un essere umano,

non fosse stato per il suo colorito cinereo e per quegli occhi

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anomali, uguali in tutto e per tutto a quelli di Avro. Lunghi

capelli neri sembravano muoversi di vita propria attorno al

suo bel viso, quando la fermò, facendo uso del suo tridente.

«Ferma qui, attenta a te:

qui c’è da rispondere a me.

Che? Sei viva e ancor respiri?

Qui tra i morti tu ti aggiri?».

«Tutti voi rispondete a me!» tuonò Avro, circondando col

braccio la fanciulla «Questo, Cassiano, val anche per te!».

Subito quello indietreggiò e, abbassato il tridente, si

inginocchiò davanti ad Avro.

«O portatore dello scettro, perdonate il mio zelo,

ma vedere una donna viva camminare sotto questo cielo!

Non vi ho visto assieme a lei e ho dato l’allarme:

per voi combatto, per voi impugno l’arme!».

Avro lo squadrò senza batter ciglio, quindi riprese a parlare.

«Alzati, non ho bisogno di servitori in ginocchio:

viva è Selina, vide bene il tuo occhio.

Io stesso l’ho condotta oltre la soglia,

io dall’albero dei mortali ho colto la più verde foglia.» e si

rivolse così alla giovane «Selina, costui è il valente

Cassiano:

di questo tristo giardino è lui il guardiano».

«Perdonate il mio ardire, vigile Cassiano.» si scusò Selina

con un piccolo inchino «Un grigio presentimento m’aveva

presa per mano».

«Mi auguro di non vedervi in futuro tra questi sventurati:

non è un bel destino ritrovarsi qui abbandonati.» ribatté

Cassiano, alzandosi in piedi «Ma la vostra grazia è tale da

indurmi a sperare il contrario;

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peccato che, a quanto pare, avrei un pericoloso

avversario.» e qui guardò con un sorriso poco rassicurante

Avro «Sebbene qui, vicina, in eterno potervi rimirare…

Ah, questo sì che sarebbe un dolce naufragare».

Il Re dei Venti, non apprezzando tali parole, si fece ancora

più stretto a Selina, come a voler dimostrare il suo possesso

su di lei. Selina, tuttavia, che si guardava intorno in uno

stato di viva apprensione, fu lesta a scostarsi da lui,

indicando la distesa.

«Oddio, che mi sbagli, ma io un volto là riconosco!»

esclamò, bianchissima in viso «Oddio, il suo volto: che ci fa

in questo posto?».

E, correndo senza freno, si precipitò tra quelle vuote anime.

Avro, fatto un cenno a Cassiano affinché lo seguisse, tenne

dietro alla fanciulla. Selina, terribilmente angosciata, passò

come un lampo di luce tra quegli spiriti che non si voltarono

a guardarla, pregando in cuor suo d’essersi sbagliata.

Quando fu vicina all’ombra che aveva scorto, però, sentì una

dolorosa fitta al cuore, come se fosse stata ferita da una

spina di ghiaccio. Davanti a lei, trasparente come un riflesso

opaco, con una neve eterna che gli gravava sulle spalle e gli

punteggiava la barba, stava il Maggiore Von Fieren, dal cui

sguardo vacuo non trapelava più alcuna forma di orgoglio e

valore. Selina, che fin da piccola aveva conosciuto e tenuto

in grande stima quell’uomo, prese a parlargli.

«O Maggiore, siete dunque voi a vagar qui condannato?

Mio amico, per qual motivo siete avvinto a un simil fato?

Parlate, vi prego: che, non mi riconoscete?

Sono Selina, nipote del Generale, voi questo lo sapete!».

Ma il Von Fieren continuò a fissare altrove come se non solo

non l’avesse sentita, ma neanche avesse avuto qualcuno

davanti. Al che Selina crollò in un debole pianto affannato,

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che perdurò anche quando Avro e Cassiano l’ebbero

raggiunta.

«Conoscevi tu quest’uomo desolato?» le chiese il Re

dell’Inverno.

«Mio zio egli ha sempre affiancato.» rispose brevemente: a

quel punto, tacquero tutti, finché la fanciulla non parlò con

voce ferma «Com’è che è qui un soldato così prode?

Lo voglio sapere, c’è di certo una frode».

Avro, evidentemente incapace di darle una risposta, si volse

verso Cassiano, attendendo che fosse lui a fornire le dovute

spiegazioni.

«Non so i particolari, se è uom povero o regale,

ma la sua anima inerme scese, come tutti, giù per il

Canale.» e qui indicò una sorta di sentiero nella neve che

conduceva verso un banco di nebbia: lì, disperse e sparute,

un pugno di anime scendevano nella piana. «Da lì discese

che ancora dal corpo non si era separato;

come ogn’altro non fece domande, parlò solo se

interrogato.

Un ciclo fa, un anno per i vivi, è giunto alla distesa:

qui è rimasto, senza destare né gioia né sorpresa.

Ancora qui permane, senza pace, dal mondo isolato:

segno che il suo corpo ancor non è stato trovato».

Selina rimase in silenzio a fissare il Maggiore Von Fieren: la

sua espressione spenta lasciava trasparire una tristezza

incredibile, una sofferenza che contaminava anche l’animo

della fanciulla. Poi, piena di risentimento, si rivolse ad Avro:

«Dunque egli era partito per me, per cercare di salvarmi,

mentre voi al mondo mortale eravate in atto di

strapparmi.

Ma che mal vi diede, che lo faceste perir nella tormenta?

Era uno scambio e credete forse che io vi acconsenta?

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Era forte e generoso, non meritava affatto questa sorte:

perché è qui recluso, lui che neanche doveva toccar la

morte? Liberarlo dovete, a lui spettano le chiavi del

Paradiso:

il vostro è un oltraggio, che io perda per sempre il

sorriso!».

La fanciulla era livida di rabbia e d’indignazione al vedere il

fato che aveva colpito un uomo così nobile come il Von

Fieren.

«Calmati, Selina, qui la colpa non è certo mia,» disse però

Avro «ma di color che hanno permesso che dimenticato sia.

Il vento non si placa, una volta scatenato:

ma un tal uomo va cercato e anzi onorato.

Guarda dunque ai mortali che l’han lasciato nel niente,

a chi la morte di quest’uomo è passata indifferente».

La bella fanciulla, messa di fronte a questa evidenza, dovette

tacere, per quanto non riuscisse a placare la furia che la

scuoteva sin nel profondo. Il rimorso le stringeva il petto e,

attimo dopo attimo, capiva sempre più come il povero Von

Fieren fosse caduto nel tentativo di salvarla dalla bufera e se

ne doleva, maledicendo la sua imprudenza. Oltretutto, se

prima era riuscita ad affezionarsi ad Avro e ai suoi modi

garbati, ora già non riusciva a sopportare quel luogo che, più

che malvagio, le sembrava immensamente triste e fonte di

brutti ricordi. Così, quando Avro, portole il braccio, la

condusse via dalla distesa e dallo sguardo vuoto del

Maggiore, lei lo lasciò fare, senza trovare la forza di opporsi.

Il viaggio di ritorno verso il palazzo del Re dei Ghiacci fu

rapido e muto: Selina, chiusa in sé stessa, neanche si accorse

delle cruente visioni attorno a lei. Avro la osservava con

preoccupazione, ma non osava di parlarle per non

abbatterla ancora di più. Quando poi raggiunsero il palazzo,

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38

la scortò sino ad una sala che la giovane non aveva avuto

modo di vedere, meravigliosa sino all’inverosimile, adornata

com’era dalle sculture più aggraziate, da diamanti e cristalli

di dimensioni straordinarie, tali da far rilucere tutta la

stanza di eterei bagliori. Il Re dell’Inverno lasciò allora

andare la fanciulla che subito, umile e spaurita, congiunse le

mani davanti al ventre. Avro, che le dava le spalle, cominciò

a parlare con tono mesto.

«Ecco, adesso hai visto tutto… Fors’anche più.

Gli orrori e i dolori che s’annidano quaggiù.

Dimmi, anima mia, quanta sofferenza ti costo».

Selina tacque, senza osare di voltarsi verso il Re dei Ghiacci,

che la fissava angustiato; Avro sospirò e tornò a guardare

davanti a sé.

«Dunque, per te, non son diverso da un mostro…»,

Ancora, la fanciulla tacque per un lungo periodo,

rabbrividendo involontariamente.

«Mi spaventate, è tutto qui, o mio signore.» disse infine

«Tutto qui è grigio, senza traccia di colore».

«Viviamo così, abbiamo scelto la nostra condanna:

ma anche a noi perduti la vista, sai, si appanna,

se c’è una luce così forte

da offuscar sciagura e morte…».

Avro si passò una mano sul viso e Selina poté solo

immaginare le brillanti lacrime che dovevano avergli

inondato gli occhi. Con un gesto rapido, il Re dell’Inverno

afferrò poi una tenda candidissima, rifinita da fili d’argento.

Come quella cadde, la fanciulla riconobbe dietro di essa uno

splendido abito da sposa, trapuntato di gemme scintillanti e

ornato da una pelliccia squisita che l’avvolgeva come un

manto regale. Avro, fiaccato nello spirito, si avvicinò a lenti

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passi verso il vestito e lì, accarezzata una manica ricamata,

parlò con un filo di voce:

«Oh, Selina, sei un sogno che mi appare,

un lampo, gl’occhi tuoi, non so più che fare:

tu, fragile com’uno specchio di cristallo,

mi vinci e continuerai a farlo.

Par misero questo regno al tuo cuore,

quel gioiello abbagliante tra il candore,

ma qui nient’altro c’è che ti possa piegare

né nulla puoi per impedirmi d’amare.

Oh, se disgrazia è mai esistita,

certo l’animo mio l’ha or sentita;

si spezzi pure il mio sperar nel niente,

come una donna piangerò debolmente.

All’amore, è volato il senno mio,

salito al cielo a scongiurar Iddio.

Per te, Selina, cancellerei me stesso:

ad ogni desìo ti darei accesso.

Tremo di tristezza, non son che un bambino!

Se vuoi, mi prostrerò al tuo cammino

e non mi muoverò: se solo tu volessi!

Lascia che il viso tuo accarezzi.

Ahimè, il cuore! Lo sento che si spacca,

mi piega le gambe, per terra qui mi fiacca!

Mia cara, o mi salvi o mi uccidi,

tu, la più bella che nell’eternità vidi.

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40

Non posso eliminare questo Inferno

O toglier dal mondo il peso dell’inverno;

sognare un regno nuovo non m’è concesso

ma scegli tu, ché la libertà t’ho promesso».

Lentamente, Avro raccolse una coroncina di diamanti posta

vicino all’abito e la posò con delicatezza sui biondi capelli

dell’ancor immobile fanciulla.

«Bellissima Selina, or per favore

ascolta la supplica del mio cuore:

vuoi tu, alto amore, sposarmi qui?

Dio o Demonio, fa che sia un sì,

divenir da oggi la mia consorte,

affiancare me in vita e in morte?».

Selina, come udì quelle parole e sentì la coroncina sul capo

si irrigidì, ma pochi secondi dopo riuscì finalmente a

voltarsi verso Avro e, incrociato il suo sguardo, non poté

fare a meno di arrossire. Distolse così subito l’attenzione e

approfittò di quei pochi secondi per pensare. Così, per

quanto fosse grata ad Avro per averla salvata, colse al volo

l’occasione che, come capì subito, le offriva l’opportunità di

tornare nel mondo dei vivi. Per cui, alzati nuovamente gli

occhi verso Avro, così parlò:

«Mio signore, della proposta vi son grata,

ma seguite i costumi cui son abituata.

È in uso tra i vivi che il pretendente

chieda la sposa al suo più vicin parente.

Pertanto chiedete la mia mano al caro zio,

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poiché già da tempo ho perso il padre mio».

C’è da dire che Avro, per quanto avesse assistito al

susseguirsi di infinite epoche, non possedeva una grande

conoscenza delle abitudini dei vivi e, oltretutto, l’amore per

Selina era tale che avrebbe creduto a qualsiasi cosa parola

della giovane. Così il Re dei Ghiacci acconsentì senza

discutere alla sua richiesta.

«È ormai tempo, allora, di tornare sul mondo mortale:

poi farem gran festa, vedrai, al banchetto nuziale» disse

Avro, su di giri per la felicità, e prese sotto braccio la

fanciulla.

Selina, allarmata, sussultò sotto la sua stretta.

«Mio sire, che volete voi fare?» gli domandò.

«Non temere e sta a guardare» e, per tutta risposta, Avro

fece dei lenti movimenti col suo scettro.

Subito una nebbiolina leggera prese a vorticare attorno ai

due, a cui si unirono rapidamente morbidi fiocchi di neve.

Nel giro di pochi secondi, tutto attorno a loro fu freddo e

bianco e Selina rabbrividì, ripensando alla bufera in cui si

era perduta. Poi, gradualmente, sopra le loro teste comparve

il nero della notte e qualche metro sotto di loro il grigiore

delle strade di Berlino non ancora innevate; infine, davanti a

sé, la fanciulla riconobbe il familiare palazzo dove lei stessa

aveva vissuto sino ad allora. Fluttuavano nell’aria, celati agli

occhi del mondo dal vento e dalla neve che Avro aveva

evocato. Selina, nel ritrovarsi miracolosamente a casa sana e

salva sorrise con suo grandissimo sollievo. Chiese Avro:

«È qui, amore mio?».

Rispose la giovane:

«Sì, sì, lodato Iddio!».

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Il Re dell’Inverno fece un altro movimento col braccio,

ancora una volta fluido ed elegante: subito cominciarono a

planare dolcemente verso le finestre del palazzo, buie nella

notte. Selina fece per avvicinarsi, ma il secco spalancarsi dei

battenti la ammutolì. Dentro la stanza penetrò il soffio

gelido di Avro, che spinse avanti le tende con vigore e ribaltò

alcuni leggeri soprammobili. Da un letto nei pressi della

finestra saltò giù come un gatto una figura in camicia da

notte che Selina riconobbe all’istante: il Generale

Kannonanten.

«Che è, che è? Che notte oscura e infame!» sbottò quello,

avvicinandosi tutto intirizzito alla finestra: quando però

scorse le due figure si arrestò, sbalordito «Che mai, che mai,

nel mezzo al sonno mi s’assale?

Infido nemico, lascia che prenda la mia spada:

non ti lascio scappare, dovunque te ne vada!».

«Zio, amato zio, non mi avete forse riconosciuta?

Son Selina, vostra nipote, non m’avete voi veduta?».

A quelle parole, il Kannonanten strabuzzò gli occhi,

fissandoli sulla fanciulla.

«Selina? Cos’è mai questo portento?

Persa eravate e tutto qui era un lamento!

Nella foresta, immensa e furibonda,

v’han cercata sino a notte fonda».

«Invero questa vita temevo d’aver trapassata,» rispose la

fanciulla, felicissima «ma ora è tutto a posto, ora son

tornata!».

Selina cercò di leggere quella stessa allegria anche nel viso

dello zio, senza riuscirvi: lo sguardo del Kannonanten era

puntato su Avro.

«Quale strana creatura è questa che ti accompagna?

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Un uomo, un demone, venuto qui in pompa magna» chiese,

fissando altezzoso quel bizzarro essere che fino ad allora era

stato in silenzio.

«Il Re dei Ghiacci depone la corona:

giunge a voi Avro in persona

a chieder di vostra nipote la mano,

qui, nel suo piccolo mondo umano:

la renderò immortale regina

del regno mio, la vostra Selina».

Il Kannonanten spalancò di nuovo gli occhi nell’udir quella

richiesta e il suo colorito si fece livido di rabbia.

«Giammai!» tuonò «Che follia è mai questa?

Via di corsa, o ti mozzerò la testa!».

«A me? Al Re dei Ghiacci in persona?» rispose Avro

«Mortale, odi prima ciò che Egli ti dona!

È più che un onore per la nipote vostra

scampare alla spenta e monotona giostra

di giorni uguali, destinati a finire

quando alla carne toccherà di perire».

Per tutta risposta, il Kannonanten mise davvero mano alla

sciabola che teneva orgogliosamente appesa alla parete e la

puntò minaccioso contro Avro. Selina cacciò un breve grido,

ma il signore dell’Inverno non si mosse.

«Che razza di discorsi vai a pronunciare?

Creatura blasfema, com’osi parlare?

Compari nella notte, demonio sconosciuto,

parli come chi non tollera un rifiuto!» con mossa repentina,

il Generale vibrò due affondi a vuoto, tenendo così la

distanze dal Re dei Ghiacci. «Nei ranghi, nei ranghi! Mia

nipote era morta

e io non voglio patti con diavoli d’alcuna sorta!».

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Il viso di Avro si corrugò, gli occhi chiarissimi affondarono

nel nero e i suoi denti candidissimi furono ben visibili,

serrati dietro le labbra.

«Questo a me, che dei venti sono il reggitore?

Parole incoscienti, potrei strapparti il cuore

e calpestarlo come un viscido insetto,

schiacciarti come una pulce trovata nel letto».

Selina, accortasi di come la situazione stesse precipitando, si

accostò al Kannonanten, aggrappandosi al suo braccio.

«Fermatevi, vi prego, magnanimo zio!

Sedate la vostra ira, in nome di Dio!

Avro mi salvò, un anno fa, da morte certa:

egli è potente, smettetela alla svelta!».

«Che accidente dici, nipote scriteriata?

Imponi a un Generale l’infame ritirata?» e, con uno

strattone, si divincolò dalla presa della fanciulla, tornando

ad indirizzare la sciabola contro il Re dell’Inverno «Uomo o

demonio, il tuo è un affronto:

pretendi anche mia nipote come tornaconto!

La rapisci e poi forzi la mia magione:

vattene di corsa, prima che perda la ragione!».

Avro, stavolta, non riuscì a trattenersi e, brandendo il suo

magico scettro, lo protese verso il Kannonanten.

«Pazzo, pazzo e imbecille. Presuntuoso!

Il tuo acciaio non è che un bastoncino gommoso!

Pretendi persino di poter dare ordini a me;

piccolo uomo, sfidare così dell’Inferno il Re!».

La sua voce crebbe di potenza, la sua mano si strinse attorno

allo scettro e un vento gelido prese a vorticare nella stanza.

In un baleno, la stanza si riempì di neve e ghiaccio,

coprendo il letto, la scrivania e le poltrone con una coltre

candida e brillanti; le pareti si rivestirono anch’esse di quel

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gelo vischioso. Il Kannonanten, sbalzato dalla forza

impetuosa della tormenta, cadde a terra e perse la spada.

Peggio ancora, avrebbe rischiato di finir sommerso nella

neve, se se la fanciulla non si fosse gettata su di lui per

proteggerlo.

«Basta, basta! Una tregua, per pietà!» urlò, disperata

«Conservate, vi prego, un poco di umanità!».

Avro, nell’udire le parole della sua amata, non poté far altro

che obbedire e, come un bambino, si fermò, guardandola

con occhi colpevoli. Il Kannonanten, sul pavimento, si rizzò

a sedere con un grugnito, scuotendo via la neve dalle spalle e

dai baffi.

«Zio, zio, va tutto bene? Come state?

Ci son io, state calmo e, su, parlate».

Il Generale la fissò a lungo, lanciando saette dal suo sguardo

solitamente altezzoso.

«È una maledizione, allora! Un patto vergognoso!

Mia nipote in sposa ad un demonio velenoso!» ringhiò,

senza toglierle gli occhi di dosso «Dimmi, Selina, è dunque

tutto vero?

Ti sei promessa a quel diavolo nero?».

Selina alzò il bellissimo viso verso Avro, carica di dolore e

rimorso, e lo fissò a lungo; poi chinò il capo e rispose con un

filo di voce.

«Mi ha aiutato a tornar qui, a gustar la vita,

a sentir la sua brezza risanante tra le dita;

ma io sono donna mortale, questo è il mio posto:

tra uomini e carne, non all’Inferno, come un mostro».

Quelle parole ebbero un tale effetto che il Re dell’Inverno

vacillò: si dice persino che Selina e il Generale poterono

udire il rumore secco del suo cuore di ghiaccio che si

spezzava. Egli cercò più di una volta, invano, di tornare a

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incrociare lo sguardo della fanciulla, ma quella, rannicchiata

nella vergogna, teneva il viso affondato nella spalla del

Kannonanten. Avro pronunciò un’ultima volta il nome

dell’amata, senza ottenere alcunché. Poi, senza neanche la

compagnia del vento, scomparve e di lui non restò traccia,

se non quella camera rivestita di neve che andava già

sciogliendosi.

Nei giorni che seguirono, il clima fu straordinariamente

mite. La neve si dileguò sotto il sole limpido e la prateria

smise di colpo di esser spazzata dal vento. L’aria non era più

pungente e frizzante, bensì tiepida come se fosse giunta

anzitempo la primavera. Qua e là spuntavano addirittura dei

timidi fiori, e uccellini spaesati facevano udire il loro

confuso canto tra gli alberi. Gli uomini gioirono e pregarono

in cuor loro che il tempo dell’inverno fosse finito.

Negli Inferi di Avro, invece, i demoni erano spaventati e si

lagnavano ripetutamente dell’improvviso cambio d’umore

del loro sovrano.

«È impazzito! È impazzito!» dicevano i diavoli, tirandosi le

corna.

«Da tempo, ormai, gli Incubi non emettono un nitrito!»

strillavano le Erinni sui loro destrieri.

«È impazzito! È impazzito!» gridavano gli scheletri,

schioccando le mandibole.

«Né la bufera fa udire il suo ruggito!» grugnivano gli

zannuti.

«È impazzito! È impazzito!» gracchiavano i guerrieri,

battendo assieme le lance di ghiaccio.

«Non gli importa più di ciò che ho visto e udito!»

piagnucolava, offeso, il Grande Falco.

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«È impazzito! È impazzito!» urlavano in coro, e le loro voci

raggiunsero anche i più nobili dei demoni.

Avro, barricato nel suo palazzo, era l’unico a non udirli.

Tutta la sua mente non badava a null’altro che al dolore

straziante che stava provando e il Re dei Ghiacci trascorreva

le sue giornate in un pianto continuo, logorando

estenuantemente i suoi strani occhi; laghi di cristallo si

erano distesi sul pavimento bianchissimo. Il candore stesso

della stanza dava l’impressione di piangere con lui, tanto

quel colore sembrava essersi fatto spento e opaco. Il

poveretto barcollava tra un singulto e l’altro, andando ad

appoggiarsi con la mano alla parete per non cadere.

«Impazzito, son impazzito. Niente di me

è rimasto, in questa terra che non c’è.

Niente di lei, neanche un bagliore,

il riflesso lontano del Sole che muore.

Dormiva lì, la più fine porcellana,

una bambola di bellezza arcana,

eppur chiara come acqua d’una fonte;

gl’occhi ghiacciai sulla vetta d’un monte.

Le labbra nuvole di balsamo soffuso:

mio sogno ardente, mio sogno recluso!

La risata, squillo di trombe incantate,

argento divino in grotte indiamantate.

Le correnti son solo un brontolare

ribollente sulla terra e sul mare

e così il fiume che scroscia nella foce:

il vento ha perso la squisita voce.

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T’avrei donato la Luna e le stelle,

ricamato un velo con quelle più belle,

o avrei fatto rombare i cupi tuoni,

corni e tamburi dai più bassi suoni.

Com’un reietto m’hai invece bandito;

io sono il mostro che ti ha rapito!

Così diranno le genti del tuo fato:

così il demonio sarà due volte condannato!».

E più e più strofe vi aggiungeva, tanto che solo di quelle si

curava e l’inverno, giorno per giorno, andava scomparendo.

Fu così che i demoni, allarmati dalla situazione, si videro

costretti a prendere drastici provvedimenti. Cassiano, il

guardiano della piana dei dimenticati, il quale aveva molti

motivi per provare rancore nei confronti di Avro, ordì una

vera e propria congiura, convincendo anche i più

recalcitranti della necessità di una tale presa di posizione.

«Tradimento voi lo chiamate!» diceva, davanti al suo

uditorio «E, intanto, qui vi lagnate!

Egli ha perso il lume ed è sconvolto:

questa situazione non può durar per molto!».

«Tu parli di rivolta, astuto Cassiano.» gli rispose uno tra i

tanti diavoli «Tu intendi strappargli lo scettro di mano».

«E impugnarlo tu, in futuro!» aggiunse un’audace Erinni

«Questo è poco ma sicuro!».

«Dovrei forse nascondere le mie intenzioni?» replicò

Cassiano, aprendo le braccia «Rinunciar, per caso, a nobili

ambizioni?

Un altro Re dell’Inverno occorrerà,

quando Avro più non ci sarà!

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O preferite magari, fratelli guerrieri,

che egli continui oggi e domani come ieri?».

«Allora perché non io?» ruggì uno zannuto, battendosi il

petto «Il posto di Avro può essere anche mio!».

Cento altri, dopo di lui, alzarono le braccia e la voce,

proclamandosi come nuovi candidati per il trono di

ghiaccio. Fu di nuovo Cassiano a spezzare quella baraonda.

«Dunque, fratelli guerrieri, duelleremo:

l’uno contro l’altro combatteremo.

Colui che vincerà sarà il nuovo sovrano.

Avanti, su, chi vuol sfidare Cassiano?».

Ma i demoni sapevano che nessuno di loro poteva

sconfiggere da solo il guardiano dal tridente e tutto il loro

entusiasmo andò così scemando rapidamente.

«Cos’è che proponi, ordunque?» chiese il Grande Falco,

abbassando la testa rassegnato.

«Un lavoro facile per chiunque,» rispose Cassiano «ma che

per te sarà ancora più abbordabile.

Voi tutti sapete quanto la mente di Avro sia labile:

presto le sue sofferenza l’avranno prostrato;

allora il Re dei Venti cadrà addormentato.

Veloci e silenziosi, lo spoglieremo senza lotte:

avremo così il mantello della notte,

lo scettro per comandare le tempeste

e la magica corazza che lo riveste.

Al loro potere non si potrà ribellare:

sarò un rivale troppo grande da affrontare».

A nessuno dei demoni piaceva l’idea di lasciarsi sfuggire

un’occasione del genere per diventare Re dell’Inverno, ma,

alla fine, le parole di Cassiano persuasero anche i meno

convinti. Così il Grande Falco prese a spiare Avro, scrutando

con la sua vista eccezionale attraverso le finestre del palazzo

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di ghiaccio. Guardò a lungo la figura di Avro che camminava

avanti e indietro, il suo agitare le braccia in preda a scatti

d’ira, sino a quando i suoi movimenti non si fecero incerti e,

di colpo, vinto dal dolore, il Re dell’Inverno stramazzò a

terra privo di sensi. Allora il Grande Falco diede il segnale e

Cassiano, affiancato da un pugno di suoi seguaci, penetrò

silenziosamente nel palazzo. Con estrema cautela

raggiunsero la stanza di Avro e lo trovarono riverso a terra,

col volto trasfigurate dalle sofferenze patite per amore.

Allora, senza parlare, Cassiano lo privò di tutti i suoi oggetti

e li indossò, sentendo come la sua forza veniva centuplicata.

Infine, lo fece sollevare e lo destò, attendendo che Avro

riprendesse possesso della ragione. Quando questi ci riuscì,

fissò con aria stranita Cassiano che vestiva i suoi indumenti

e brandiva il suo scettro, ma non parlò.

«Non fai domande né ti dibatti:

cosa ti prende, perché non mi attacchi?» chiese Cassiano,

insospettito.

Avro scosse piano il capo e sospirò un alito gelido.

«Dovrei, Cassiano, mostrarmi adirato?

Per urla ed improperi non ho il fiato».

L’usurpatore si accigliò a quelle parole e le sue dita si

strinsero con più forza attorno allo scettro.

«Dunque non t’è rimasta la dignità?

Re dell’Inverno, m’induci a pietà.

Ti strappo il trono e tutti i tuoi averi:

gridare e maledirmi è uno dei tuoi doveri».

«Il tradimento è degno della feccia come te:

non perderò tempo a chiedermi il perché.

E non ce n’è uno tra tutti voi che possa capire,

nemmeno tu che hai tante cose da dire,

che pena ti dia l’amore non corrisposto:

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distruggerei il mio trono e tutto questo posto.

A nulla vale la tua insolente rappresaglia,

nel mio dolor non hai aperto mezza faglia.

Che rimane di me, senza gli occhi di Selina?

Un corpo da seppellire su una brulla collina».

Cassiano e i suoi compagni tremarono a quelle parole, tanto

erano appassionate e colme di sentimento: il Re dell’Inverno

non aveva bisogno dei suoi oggetti per incantare i demoni

per mezzo della sua voce.

«La mia prima delibera, Avro, sarà farti tacere.» replicò

con rabbia Cassiano, quando si fu riscosso «Da nessuno di

noi ti farai più vedere:

ricordi la mia piana, quel deserto sterminato?

Alla sua guardia ti condanno, lì sarai confinato».

Avro non rispose, né protestò.

In terra di Germania, Selina aveva ripreso possesso della

sua vita. Aveva riscoperto il fragore delle risate, il piacere

delle chiacchiere scambiate davanti al camino, il calore degli

abbracci di Ulma, la vecchia nutrice. Godeva, segretamente,

di quell’inverno atipico, quasi una primavera giunta in

anticipo e, immancabilmente, pensava ad Avro. Certo era lui

a concedere quel clima e la fanciulla non sapeva se il Re dei

Ghiacci si comportasse così per dolcezza o perché caduto

nello sconforto.

«Ma son qui, nuovamente immersa nella vita:

devo scordarmi di quella creatura che m’aveva rapita» e,

in verità, la giovane ci provava a farlo ma, così come

ricordava il terrore provato negli Inferi, allo stesso modo

non poteva scordarsi la tenerezza dell’amore che Avro aveva

nutrito per lei.

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Intanto, mano a mano che tale ricordo si faceva più vivido e

pressante, il clima mutò drasticamente e il gelo più rigido

prese di colpo possesso di quella terra. Gli uomini si

affrettarono a chiudersi nelle proprie case; gli uccelli

scapparono e molti di loro morirono per aver troppo

indugiato; i fiori, appena sbocciati, si raggrinzirono e la loro

innocenza fu violata: perirono, infine, sotto una coperta di

ghiaccio. Selina, nell’assistere ad una tale brutalità, si chiese

sgomenta se Avro fosse di colpo impazzito.

Paradossalmente, si pose le stesse domande che si erano

fatti i demoni prima che il Re dell’Inverno venisse deposto.

Le comunicazioni con le altre città, visto il maltempo,

vennero interrotte, e una sinistra carestia si profilò

all’orizzonte: le malattie si diffusero tra la popolazione e gli

animali. Selina, in cuor suo, sospettava di essere la causa di

quell’improvvisa sciagura e, nell’ansia delle sue stanze,

pregò e implorò continuamente Dio e Avro affinché

quell’inverno si placasse, ma non ottenni risposta. Il

rimorso prese a tormentarla senza tregua: smise di

mangiare e il suo corpo dimagrì; smise di ridere e il suo

volto perse vitalità; smise di dormire e i suoi occhi si

spensero. Consapevole dello stato in cui versava, non si

stupì quando il Generale Kannonanten la convocò assieme

alla nutrice. Lei la aiutò ad indossare, come se nulla fosse, i

consueti abiti; lei le impreziosì il collo e le dita di oro

fulgente. Così agghindata, giunse nel salone dei ricevimenti,

pallida e smunta, senza emozioni. Il Kannonanten sedeva

dietro alla sua scrivania, intento a scartabellare un

voluminoso mucchio di documenti. Quando alzò lo sguardo

e la vide, fu ben lesto ad alzarsi in piedi e, impettito

nell’uniforme, mise una mano su quei fogli e lì la tenne. La

fanciulla, avvezza sin dalla nascita a tenere un determinato

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contegno e istruita all’etichetta di corte, eseguì un inchino

che per nulla peccò di eleganza, nonostante l’automatismo

con cui Selina, ormai, svolgeva quel gesto.

«M’avete chiamata e son giunta al vostro cospetto» disse la

giovane, rialzando il capo.

«Perché, invero, son preoccupato del vostro aspetto.»

ribatté il Kannonanten «Guardate: la vostra giovanil

bellezza svanisce

e il motivo, qui in casa, nessuno lo capisce».

«Son contenta di essere oggetto della vostra premura,

ma la primavera, credo, sarà la mia sola cura».

«Figliola, questo inverno è come un’ascia che separa:

la sua durezza è per noi bevanda amara,

ma a me mio fratello v’avea affidata;

in punto di morte eravate la sua gemma più adorata.

V’ho cresciuta, vi ho vista farvi bella:

la vostra grazia un inverno non cancella.» il Kannonanten

sembrava preoccupato; anzi, visibilmente angosciato:

Selina, che non ricordava di averlo mai visto così, ne fu

sinceramente commossa «Non v’angustiate il cuore, piccola

fanciulla:

ne avete meno ragioni di un bimbo nella culla».

«Io…» mormorò Selina, imbarazzata «Son felice di vedervi

così attento».

«Dunque fate che io sia di voi contento.» replicò il

Kannonanten «Siete, cara figliola, così fresca e stupenda

che non trovereste un uomo che non vi s’arrenda.

Pur io, che sono un vecchio e rude soldato,

vi corteggerei, se non v’avessi adottato.

Or, io vi chiedo, rendetemi fiero e grato:

il Conte d’Adulter l’avete mai incontrato?».

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«Ebbene sì, qualche volta l’ho veduto qui in città.» rispose

cortesemente la fanciulla «Ma nulla di più: non so chi è né

che fa».

«Egli è signore di vasti possedimenti:

ha molto denaro e influenza parimenti.» il Kannonanten

suggellò quella precisazione con una lunga occhiata rivolta

alla nipote «Egli rimase vedovo, purtroppo, due anni or

sono:

la vostra mano richiede ed è un degno uomo».

Selina inorridì a quelle parole e il suo perfetto portamento si

incrinò: era come se, di colpo, le fosse franato il cielo

addosso, gravandogli sulle spalle. Fissava sgomenta il

Kannonanten, che, senza scomporsi, si rimetteva a sedere.

«Ma, mio adorato zio,» balbettò la giovane «come vi dissi,

io non lo conosco.

Egli è certo nobile uomo e non furfante losco,

però è un signore ormai attempato:

come può un tal uomo avermi desiderato?».

«Già prima vi dissi che l’età non conta.» rispose il Generale

«E rifiutare sarebbe, per noi, peggio che un’onta».

«Ma zio, non l’ho mai neanche sentito parlare!

È dunque questo l’uomo che dovrei amare?».

«Parlate di argomenti che per nulla conoscete:

datevi un contegno e, per l’amor di Dio, tacete» replicò

bruscamente il Kannonanten.

Per Selina fu come essere di colpo imprigionata in una

stanza minuscola e oscura, priva di spiragli: si voltò. carica

di disperazione, in direzione di Ulma, che l’aveva

accompagnata, implorando il suo aiuto.

«Nutrice, nutrice mia, l’unica che potrei chiamar mamma,

dite qualcosa, vi scongiuro, e riportate la calma!

Mi par d’essere preda di un incubo senza uscite:

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mai ho sentito, in vita mia, farmi pretese così ardite!».

Ma Ulma abbassò la fronte segnata dalle rughe e chiuse gli

occhi.

«È dovere, piccolina, di donna d’alto lignaggio

contrarre matrimoni e accettarne l’ingaggio» disse

soltanto, senza aggiungere altro.

La fanciulla, a quel punto, rimase senza appigli: sprofondata

in un baratro nero, neanche poteva sperare di graffiarne le

pareti, mentre precipitava sempre di più. I suoi occhi si

inumidirono e vacillarono, ma non cedettero, ed anzi

brillarono orgogliosamente: si dice che la loro luce

splendesse a tal punto da far impallidire il più puro gioiello

e che il loro azzurro fu invidiato per tutti i secoli a venire dal

cielo al mattino.

«Allora è così: una trama ben architettata.

Ad un uomo son promessa, quando sono appena tornata.

E che aitante giovanotto, il vostro caro Conte:

tra l’ozio e la lascivia sa ben far da ponte.

Un vecchio pancione a cui dovrei donare me stessa:

io sia dannata se quest’infamia sarà mai ammessa».

«Attenta, nipote, a quello che dite

o le vostre offese al Conte saranno riferite!» sbottò il

Kannonanten, indignato.

«Volesse il cielo che si levasse di torno:

farei festa per tutto quanto il giorno!

Ma dov’è andata, ora, la vostra profonda preoccupazione?

M’insospettiva, improvvisamente, così tanta attenzione.

Non una donna, credete d’aver allevato,

ma una bella giumenta con già scritto il fato».

«Questo è troppo, mai son stato così insultato!» il

Kannonanten balzò in piedi, sbattendo il palmo sulla

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scrivania «Chiedete scusa alla svelta per avermi

disonorato!».

«Parlar d’onore non vi si addice, incauto Generale:

voi vi siete macchiato di un crimine senza eguale.

Dov’è il Von Fieren, dov’è il prode?

Da quanto la sua voce più non s’ode?

Forse che s’è smarrito per cercarmi, quello sventurato,

e la morte ai suoi cari l’ha strappato?».

«Vostra è la responsabilità, nipote, di quella sciagura:

ricordàtelo, è meglio, alla vostra anima impura».

«Ognun farà i conti con la propria coscienza:

io convivo col rimpianto, ma voi campate senza.» la voce

della giovane era intrisa di veleno come mai s’era sentita

prima: il suo sguardo risoluto scagliava bagliori al pari di

una terribile dea «In pasto alle belve avete lasciato il

Maggiore:

neanche avete riscattato il suo limpido cuore.

Niente omaggi per la salma di un sì giusto signore:

lo ignorate come un cane ed egli di nuovo muore».

«La foresta è ampia e la bufera non s’acquietava.» si

giustificò il Kannonanten «Ha pianto la sua scomparsa la

Patria che l’amava.

Tempo perso, cercarlo dopo qualche giorno:

non c’era motivo per tenere l’esercito qui attorno,

quando il confine sarebbe rimasto sguarnito.

La vostra voce, poi, è degna di chi v’ha rapito:

il demonio stesso, sopra il suo trono assiso,

v’ha scelta e voi, infame, gli avete sorriso.

Avete venduto a un mostro l’intero vostro destino:

questo gli avete permesso, quando vi stringeva vicino».

Selina rialzò il capo con la grazia e l’autorità di una matrona.

«Della vostra ingiuria, zio, dovrei esser lieta:

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le sue parole per me erano lievi come seta,

mente voi mi sferzate, quasi fossi una schiava,

quando lui da eterna regina mi trattava.

Mai avrei sognato che un uomo dipingesse un paesaggio

d’emozioni e melodia, un campo di maggio,

solo per dirmi quanto amore dolente lo consumava.

Ma la mia mente, illusa, a questo mondo pensava:

no, mio zio, a lui non mi son promessa e ho sbagliato;

le speranze più dolci, ora vedo, ho cancellato.

Però, prima che me ne vada, cogliete un avvertimento:

là, in quelle lande di ghiaccio, risuona un lamento:

tra urla, scongiuri e suppliche infinite,

non v’è un solo luogo in cui sospiri non udite

e io, laggiù ho visto, terribile Generale,

la pena ch’attende chi semina il male» e Selina si voltò,

uscendo a testa alta dalla sala, su cui era calata una cappa di

denso silenzio.

Uomini e donne della servitù riferirono in seguito di averla

vista passare per le stanze così com’era vestita e uscire dal

palazzo senza scorta né accompagnatori, priva di pesanti

abiti che potessero proteggerla dal gelo tagliente che

imperversava all’esterno. E come una furia corse attraverso

le strade di Berlino, sollevando la gonna con entrambe le

mani, come una sposa fremente, mentre i nodi elaborati con

i quali erano avvolti i suoi capelli si scioglievano, lasciando

che quei raggi di sole spiccassero tra la neve, il vento e la

nebbia. Corse verso il bosco che era già affannata e i suoi

piedi erano divenuti freddi come quelli di un morto.

Avanzava, stancamente, arrancando tra l’alta neve, coi rami

che le frustavano la pelle, ghermendo con gli artigli di legno

esigui brandelli di prezioso tessuto. E vide, la fanciulla, la

marcia inspiegabile delle bestie: lupi e cervi correvano

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fianco a fianco, cercando scampo fuori dalla foresta dal gelo

che si era però diffuso ovunque. Vide i corpi dei vecchi

animali a terra, sommersi dalla neve e ancora rantolanti; i

cuccioli non si scorgevano, ma si poteva immaginare che

quelli fossero periti da tempo. Gli alberi erano rivestiti da un

manto di ghiaccio e molti dei loro rami erano caduti a terra

come arti inerti. Ansimava, sfiancata, la bellissima fanciulla,

già livida in viso. I suoi occhi lucenti, così stanchi, vedevano

il mondo in bianco e nero attraverso una tenda sempre più

scura: presto il buio avrebbe offuscato ogni sorgente di luce

quand’ecco, d’un tratto, una striscia bruna comparire

attraverso la bufera. Il basso muricciolo che circondava il

misterioso cimitero era coperto di neve quasi interamente;

le tombe all’interno erano cumuli di candore. Solo,

immacolato, l’angelo a cui la giovane si era stretta quando

s’era smarrita si ergeva come un taciturno guardiano dagli

occhi chiusi. E ad esso, in un ultimo spasimo, si avvinghiò

senza badare al contatto freddissimo che le pietrificò il bel

corpo. Lì, con le braccia che circondavano il collo della

statua, cantò per l’ultima volta e, finalmente, le sue gote si

rigarono di lacrime liberatorie:

«Bagno il ricciolo tuo eterno

per giorni e notti, rosa dell’inverno;

la guancia liscia è fredda e bianca,

la mano è salda, giammai stanca.

Ultimo orizzonte dei mortali,

su di te io leggo i miei mali;

tu solo sai quanto vedi lontano

e leggi in cuore cos’è che amo,

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se questo mondo sporco e ubriaco,

viscido a toccarlo, com’un baco,

o la placida tregua di un abbraccio.

Sai, angelo mio, che sogni faccio!

Ho tradito il miglior pretendente

per pochi anni sul mondo sfuggente;

in bilico tra la paura e l’inganno

ho compiuto, m’accorgo, il mio danno.

L’offesi, lo scacciai, lo ripudiai

senza parola aver detto mai:

braccia fraterne ho immaginato,

dure parole m’hanno rinfacciato.

Ti graffierei, due volte spergiura,

il collo a cui m’aggrappo, ma dura

è la pietra, fragili le mie dita,

che mi sento scappar via la vita.

Nuda, eppur, leverei il lamento

senza avvertir raffica di vento.

Blasfema, alzo il viso al cielo

e prego che sia tolto il velo

alle nubi che ci separan, Dio;

chiamo, supplicante, l’amore mio.

Se sei Signor di giustizia e luce

sai ben qual sentimento qui m’induce

a scongiurare il Re dell’Inverno:

gli darei l’anima in eterno

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perché tu sai, certo, non v’è uomo

degno del Diavolo, né tanto buono.

Lo chiama la mia disperazione,

la mia follia, la mia ragione!

Pazzo dev’esser per me di rancore:

io vergogna, madre del dolore.

Piega i fiori che ha tanto amato

dentro al suo palazzo incantato;

piango, mio sire, ma non badarmi:

hai diritto di non ascoltarmi.

Lasciami svanir dentro il tuo manto,

tra neve e stelle va il mio canto:

son fredde come le mani e il petto

del Signore che m’avrebbe protetto.

Sol ora capisco e chino la testa:

qui ti vidi, qui il mio corpo resta.

Bagnerò col mio ultimo fiato

la terra che diverrà un verde prato.

Diverrò il suo spettro dolente,

del mio destino parlerà la gente:

per amore vagherò, evanescente,

ombra di questa bambina morente».

E le candide braccia della fanciulla mollarono piano la

presa, lasciando un’ultima carezza sulla statua dell’angelo:

Selina si accasciò così, vinta dal freddo, ai piedi del suo

immobile guardiano.

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Avro era perso, impassibile, nella propria indifferenza:

sedeva davanti alla piana dei Dimenticati, reggendosi con le

mani al tridente che fino a pochi giorni prima era

appartenuto a Cassiano, quando ancora l’usurpatore non gli

aveva sottratto il potere. Sedeva e non parlava, ignaro di

come il nuovo Re dell’Inverno stesse tormentando il mondo

senza scrupoli. Di tanto in tanto alzava il capo, seguendo

apaticamente il flusso continuo delle anime che scendevano

il Canale. Senza emozioni come lui. Non gli importava più di

niente, da che Selina l’aveva rifiutato. Neanche aveva dato

peso al colpo di mano di Cassiano. L’eternità che Avro si

figurava, ora, era fatta di malinconia senza fine, d’un

tormento comune a chissà quanti dannati; perché dannato,

e nulla di diverso, egli si definiva. Poi, d’un tratto, quando

sollevò gli occhi la scorse ed il suo cuore di ghiaccio prese a

palpitare furiosamente. Selina discendeva il Canale, gli abiti

laceri, i luminosi capelli appannati dalla brina, il carnato

pallidissimo. S’immobilizzò, Avro, ed il terrore prese

possesso del suo corpo. Col tridente in mano, corse verso di

lei a perdifiato, incurante degli sventurati che scansava

come ostacoli nel silenzio del loro castigo. Quando la

raggiunse, lei alzò lo sguardo e sorrise appena, tenue e

leggera come una colomba ferita.

«Vi vedo, alfin, dopo avervi tanto pregato» sussurrò con un

filo di voce: gelava il sangue, tanto il suo tono era spento, e

continuava a camminare.

Avro dovette far appello a tutta la sua forza d’animo per

parlarle.

«Selina, amore mio, che mai t’è capitato?».

Ella rispose dopo alcuni secondi, guardando fisso davanti a

sé.

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«Il gelo vostro mi strappa al mio mondo,

della mia vita credo d’aver toccato il fondo.

L’anima mia fugge così dal corpo;

resterà di me un involucro morto».

«No, no, questo giammai lo permetterò!» esclamò Avro,

ostacolandole la via col tridente «Che la tua anima vaghi

qui non ammetterò!».

Ma la fanciulla, senza utilizzare neanche un grammo di

forza, scansò con la mano il tridente e Avro dovette farla

passare: nemmeno lui poteva impedire la morte, che lo

volesse o meno.

«Avro, mio amato, son io che ho scelto questa via.»

mormorò la fanciulla «Mi son gettata nella foresta di

volontà mia:

ho corso per il bosco per poter morire

davanti all’angelo che ci ha visti unire.

Il mondo è un carcere, o mio adorato:

l’avessi saputo, non vi avrei ingannato.

E il vento soffia, la tormenta è regina;

per la mia gente, sento, la fine s’avvicina».

A quelle parole, Avro sussultò e non ebbe bisogno di udire

altro: Cassiano, ebbro del potere delle correnti e dei ghiacci,

doveva aver scatenato una sorta d’Inferno in Terra. Valutò

in un’occhiata quanta distanza ancora separava l’anima di

Selina dalla piana e comprese di aver pochi minuti per

trovare il suo corpo e metterlo in salvo. Come un lampo,

quindi, corse sino alla sorgente del Canale, armato solo di

quel tridente, e varcò la soglia tra il mondo dei vivi e quello

dei morti.

Sorse dalla neve e dalla terra stessa, rabbrividendo per la

prima volta in mezzo ad una bufera: senza la sua corazza, il

suo scettro e il suo mantello, Avro provava freddo come un

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mortale e tale, difatti, era divenuto. A questo, però, non

volle pensare. Arrancava tra la neve senza fermarsi, diretto

verso il luogo dove sapeva avrebbe trovato Selina: in mezzo

al gelo, ardeva delle fiamme ineguagliabili dell’amore e

dell’angoscia che pulsavano nel suo petto. A tratti, scorgeva

gli animali fuggire via, incrociare il suo sguardo e non

curarsene. Eppure loro, prima di ogni altro, potevano

avvertire di avere a che fare con un una creatura degli Inferi.

Sul terreno giacevano gli alberi schiantati, coperti dalle

coltri di fiori rinsecchiti, nati fuori dal tempo e morti

nell’improvvisa brinata. Avro guardò quei resti ed il suo

spirito si accese di indignazione. Infine, poi, giunse in vista

di quell’antico cimitero e ne scavalcò il muricciolo con un

balzo affannato. Con la voce rotta dalla fatica, gridò e gridò

il nome della sua amata, senza ottenere risposta. Stravolto,

poi, trovò la statua dell’angelo e, ai suoi piedi, un fagottino

rannicchiato fra la neve. Annaspò fino a raggiungerlo e

trasse dalla neve la fanciulla. Cinerea in viso, sembrava però

una bambina addormentata: un tiepido sorriso le increspava

le labbra, di una tale dolcezza che doveva aver ammansito la

morte stessa. Avro le mise una mano sul petto e, flebile

come la luce d’una candela, udì battere il cuore della

fanciulla. Acceso di speranza, alzò gli occhi verso l’angelo e

lodò senza remore il Signore, stringendo tra le braccia l’esile

fanciulla. Velocemente, poi, spaziò con gli occhi per il

cimitero e trovò una cappella. Verso di essa si diresse e,

aperti senza mezzi termini i suoi vecchi cancelli, depose

all’interno il corpo della fanciulla. La pulì dalla neve in

eccesso e le drappeggiò accuratamente gli abiti che

indossava: forse, in tal modo, aveva ritardato di alcuni

istanti il suo decesso. Pregò di aver abbastanza tempo per

far ciò che doveva e corse fuori dalla cappella. Sfidò il vento

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e vi si gettò contro, senza piegarsi sotto l’assalto delle

raffiche impietose. Andava verso la fonte stessa della bufera

dove, lo sapeva, avrebbe trovato Cassiano. Più di una volta il

gelo minacciò di arrestare la sua avanzata, ma Avro trovava

ogni volta sostegno nell’amore sconfinato che portava a

Selina e, incurante della sua stessa vita, lui che fino a così

poco tempo prima era immortale, continuò a correre e, ogni

volta che le forze lo abbandonavano, costringendolo a

piegarsi sul ginocchio, si rialzava e riprendeva la terribile

marcia. Gli occhi si erano ridotti a due fessure offuscate e il

volto era una maschera gelida e paralizzata quando scorse la

sagoma dell’usurpatore. Allora le sue palpebre si

spalancarono e le sue mani divenute violacee si strinsero

attorno al manico del tridente. Cassiano si comportava come

un ubriaco o un esaltato: inebriato dallo straordinario

potere del Re dell’Inverno, danzava in mezzo alla tormenta,

dividendo le correnti in cielo con furiosi fendenti dello

scettro per poi intrecciarle in micidiali tempeste che

venivano scagliate in ogni direzione. Attorno a lui, gli alberi

erano divelti e giacevano a terra, travolti dalla foga della

bufera; la neve si riversava ovunque in ondate d’un bianco

accecante e, lontano, si udiva il rumore delle valanghe. Avro,

con quella sua ridicola arma, sapeva di non avere alcuna

possibilità contro di lui ma, con un ruggito degno del più

possente dei leoni, lo chiamò:

«Cassiano! Frena la tua pazzia, sconsiderato!

Fermati e guarda il disastro che hai causato!».

Cassiano si voltò a guardarlo con gli occhi sbarrati e, per un

breve attimo, la tormenta parve quietarsi.

«Avro?» domandò, incredulo «Torna di guardia alle genti

che di là avete!

Questo non è più affar che ti compete!».

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«Parli da incapace e da incosciente!» ribatté Avro «Non sei

qui solo per distruggere, tiello a mente!

Guarda cos’hai fatto al mondo dei vivi:

hai ucciso e devastato senza veri motivi!».

Cassiano si arrabbiò notevolmente a sentirsi muovere tali

accuse.

«Stringo ogni motivo qui, nella mia mano.» tuonò,

sollevano lo scettro «Questo è il potere del Re dei Ghiacci, di

Cassiano!

E tu ad esso, suddito, devi sottometterti:

piega la testa, non puoi che arrenderti».

Ma Avro tenne lo sguardo fiero bene in alto e non si mostrò

impressionato.

«Pongo io le condizioni, sciacallo.» disse «Non ti do modo

di cadere in fallo:

rendimi lo scettro e torna nei ranghi.

Non di più il mio nome s’infanghi

per aver permesso la tua atrocità:

posa la mia roba e vattene di qua».

Cassiano, per tutta risposta, sputò a terra in segno di

disprezzo.

«Hai perduto il diritto di reclamare il mio trono.» ringhiò

«Ora non aspettarti il mio perdono» e, con gesto rabbioso,

manovrò la bufera contro di lui.

Avro si piegò e socchiuse gli occhi, ma riprese ad avanzare;

allora Cassiano imbrigliò le nubi stesse e gliele riversò

contro: Avro sobbalzò e indietreggiò di un passo; un attimo

dopo, ricominciava a camminare. Infuriato, Cassiano brandì

lo scettro con entrambe le mani e chiamò a sé il ghiaccio e la

neve sino a prosciugare il terreno su cui i due rivali si

fronteggiavano: Avro vacillò e cadde, ma ostinatamente si

sollevò su un ginocchio. Cassiano, rosso d’ira, gli si lanciò

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contro e, stringendo lo scettro come una mazza, lo abbatté

contro il cranio di Avro. E Avro stesso vide l’arma calare su

di lui per colpirlo e seppe di non poter far nulla: fissò quello

scettro senza paura e pensò, gonfio di rammarico:

«Ecco, giunge qui la fine del Re dell’Inverno:

perisco io, con me danno Selina all’Inferno» e una lacrima

di cristallo fece appena in tempo ad inumidire i suoi occhi.

Improvvisamente, prima che il colpo potesse raggiungerlo,

un raggio di luce trapassò imperioso la bufera e illuminò la

figura di Avro piegato e pronto a ricevere la morte.

Cassiano, che era ormai sicuro di averlo colpito, si scottò le

mani e gridò di dolore. Si dice che, alzando gli occhi verso

quel raggio dorato, entrambi scorsero una figura fatta di

luce purissima e accecante con ampie ali che risplendevano

sopra lo sfacelo del bosco. Avro ne approfittò per alzarsi di

scatto in piedi, sollevare il tridente e stordire il suo

avversario con un colpo alla tempia che fece risuonare

cupamente il suo elmo. Cassiano crollò a terra con un tonfo

e la bufera prese a diradarsi: quando Avro sollevò lo sguardo

per ringraziare il cielo e il misterioso angelo, la luce era

scomparsa di colpo. Sbrigativamente, allora, il Re

dell’Inverno spogliò Cassiano e riprese possesso dei suoi

beni. Stava per andarsene, quando si fermò per la prima

volta ad osservare con cura la scia di distruzione che

l’usurpatore aveva tracciato sul mondo e più che mai montò

d’ira nei suoi confronti. Raccolse i rami al suolo e li intrecciò

sino a farne una corda tanto robusta che nemmeno lui

sarebbe stato in grado di sciogliere e con essa legò Cassiano

ad uno dei pochi tronchi rimasti in piedi. Poi sen e andò per

recuperare il corpo della sua amata Selina e lo abbandonò lì.

Quando Cassiano riprese conoscenza, davanti a lui si

ergevano gli animali del bosco, erbivori e carnivori, amici e

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nemici: il cervo lo fissava con l’orgoglio di un severo

sovrano; l’orso snudava i denti e raspava il terreno con le

unghie, feroce come non mai; i lupi lo accerchiavano in

branco, pazienti e attenti strateghi; i conigli annusavano

l’aria e si facevano vicini, a centinaia, ed essi erano le

creature di cui più aver paura; gli uccelli stavano sui rami e

giudicavano, inflessibili, il colpevole. Il loro assordante

strillo sancì la condanna di Cassiano.

Selina riaprì gli occhi davanti a un bianco incontaminato,

avvolgente nel suo riecheggiare all’infinito. Il suo corpo era

sprofondato in un gradevole tepore, l’aria era accogliente e

un leggero profumo di serenità si spandeva in ogni dove.

Sorrise, stavolta, ancor prima di scorgere Avro al suo

capezzale, e lo fece con una tale gioia che le sua guance si

bagnarono di lacrime: quella fu la ricompensa più cara mai

tributata la Re dell’Inverno.

«Tristo è stato il sogno, lieto il risveglio» mormorò Avro,

passandole una mano sulla fronte liscia.

«Giammai ne ho immaginati di meglio» rispose la

fanciulla.

Il Signore dei Ghiacci sorrise a sua volta, quando la giovane

si volse a guardarlo: lesse nei suoi occhi, in quegli

ineguagliabili zaffiri, finalmente la pace.

«Potrò dire, ora , che ho trovato la mia sposa?» chiese

gentilmente.

La fanciulla sollevò una mano ad accarezzargli il viso.

«Potrai dire che d’esserlo sarò orgogliosa» rispose, lieve

come una nuvola: Avro ebbe un tremito di gioia a sentirla

parlare così.

«Ti offro quanto m’è più caro in dono:

ti cedo le stelle e del vento il suono.

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Carezzerai le foglie e i soavi fiori:

per clivi e prati spanderai i loro odori.

Madama Brezza sarai tra i vivi chiamata:

da uomini e poeti verrai decantata».

Selina si sollevò allora a sedere e posò con delicatezza il dito

indice sulle labbra del suo consorte.

«Domani» disse soltanto.

Poi lo baciò dolcemente e si abbracciarono, sentendo i

propri corpi, caldi, l’uno stretto all’altro.

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«Avro regge fiero le sorti delle correnti,

e le bufere non son che passatempi.

E tu, Selina, che hai rapito l’occhio mio;

tu, stretta al tuo angelo, così sarò stretto io.»