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Riteniamo che la parola “evoluzione” sia equivalente a “storia”. Siamo convinti che la storia, e quindi l’evoluzione, siano la chiave per capire il presente. L’evoluzione è anche meglio della storia, essendo una teoria ben collaudata in un numero di discipline sempre crescente. Luigi Luca Cavalli Sforza Stanford University, USA

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Riteniamo che la parola “evoluzione” sia equivalente a “storia”.

Siamo convinti che la storia, e quindi l’evoluzione,

siano la chiave per capire il presente.

L’evoluzione è anche meglio della storia,

essendo una teoria ben collaudata in un numero di discipline

sempre crescente.

Luigi Luca Cavalli Sforza Stanford University, USA

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Prof. Luigi Luca Cavalli Sforza

Il razzismo è una idiozia. Lo dimostra la genetica.

Luigi Luca Cavalli Sforza, nasce a Genova il 25 gennaio del 1922. E’ cittadino italiano e statunitense. Laureatosi in medicina a Pavia (1944), già da studente si occupa di genetica delle popolazioni con Adriano Buzzati-Traverso, compiendo studi su Drosofile raccolte sui tini dove fermentava il vino nella cantina della sua villa di famiglia.

Fra il 1948 e il 1950 lavora a Cambridge con uno dei genetisti più bravi del secolo scorso: Ronald A. Fisher. In quei due anni Cavalli Sforza, già proveniente dalla ricerca sulla genetica delle popolazioni e sull'immunologia, compie un lavoro sperimentale sulla genetica dei batteri. Lavorando in quell'ambiente, comincia a sviluppare un crescente interesse per l'analisi dei gruppi sanguigni finalizzata allo studio dell'evoluzione umana.

L. Cavalli Sforza è stato Direttore dei Laboratori di Ricerca di Microbiologia all'Istituto Sieroterapico Milanese e dell'Istituto di Genetica all'Università di Pavia; ha insegnato nelle Università di Cambridge, Parma e Pavia ed è

attualmente Professore Emerito di Genetica all'Università di Stanford in California (dal 1992).

Da quarant'anni studia l'evoluzione umana e, a partire dal 1991, si occupa del programma di ricerca sulla diversità del genoma umano, lo "Human genome diversity project" da lui promosso, che punta a ricostruire, attraverso l'analisi del DNA mitocondriale, la mappa delle popolazioni del pianeta. E' autore di quasi 500 pubblicazioni scientifiche e di alcuni libri. Ha collaborato con vari periodici e numerosi sono i riconoscimenti che ha ricevuto, tra cui:

Medaglia d'oro del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR); Foreign Member della Royal Society, Londra; Lauree honoris causa dalle Università di Columbia, Cambridge, Calabria, Bologna, Cagliari, Roma; Premio Balzan per la completezza del suo lavoro sull'evoluzione umana.

Tra le sue opere in italiano si ricordano: "Analisi statistica per medici e biologi", "Introduzione alla genetica umana", "Genetica, evoluzione, uomo", "La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa", "Storia e Geografia dei geni umani". Il suo nome è diventato popolare negli ultimi anni grazie a una serie di brillanti libri scientifico-divulgativi tra cui "La storia della diversità umana" e "La scienza della felicità", "Geni, popoli e lingue" ed ultimo "Perché la scienza? L’avventura di un ricercatore".

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Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo:

www.comeallacorte.unina.it

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Il cammino dell’uomo: lingue, geni e popolazioni vedute sull’evoluzione dell’uomo moderno

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

VEDUTE SULL’EVOLUZIONE DELL’UOMO MODERNO

Luigi Luca Cavalli Sforza

Professore Emerito di Genetica all'Università di Stanford in California

(…)

Abbiamo detto che gli uomini

moderni (cioè indistinguibili da quelli

viventi) hanno cominciato a popolare il

mondo circa centomila anni fa, con la

moltiplicazione ed espansione geografica di

una piccola popolazione che viveva in Africa

orientale. Questa conclusione è basata su

dati archeologici e genetici.

1) Dati archeologici. L’ominide più

antico, cui si dà il nome Homo (cioè Homo

Habilis), vive 2.5 milioni di anni fa in Africa,

si distingue dai suoi antenati perché è sceso

dagli alberi, cammina sulle sue gambe,

comincia a fare i primi strumenti di pietra

piuttosto rozzi e ha il cervello di dimensioni

quasi doppie rispetto all’antenato più antico

in comune con gli scimpanzé, vissuto 5-6

milioni di anni fa, ma grande quanto la

metà del nostro cervello medio attuale. A

partire da 1,7 milioni di anni fa comincia a

fare strumenti migliori, forse conosce il

fuoco, si diffonde in Asia e in Europa e si

differenzia in vari tipi. Ma il primo uomo

molto simile agli uomini moderni è stato

ritrovato poco tempo fa in Etiopia ed è

molto più recente dato che la sua datazione

lo fa risalire a soli 150 000 anni fa.

(…)

2) Da dati genetici si è potuto datare

l’antenato comune più recente della linea

maschile a circa 103 000 anni fa, attraverso

la genealogia della linea maschile del

cromosoma Y che determina il sesso

maschile e si trova solo nei maschi. Quello

della linea femminile è stato datato a 153

000 anni fa, secondo gli ultimi dati, in base

a studi sul DNA mitocondriale (mtDNA), un

DNA diverso da quello genomico, molto

corto (16 600 basi) e contenuto in un

organello presente in ogni cellula trasmessa

dalle madri ai figli di entrambi i sessi. La

datazione genetica dell’antenato comune

più recente ha un forte errore statistico e

può precedere di qualche tempo la vera

data di biforcazione dell’albero genealogico

della specie, che corrisponde più da vicino

alla data archeologica delle migrazioni. La

differenza tra date di nascita degli antenati

della linea maschile e di quella femminile è

probabilmente dovuta alla maggior

frequenza di poligamia maschile (poliginia)

che femminile (poliandria) più in generale,

alla maggiore variazione del numero di figli

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per genitore maschile rispetto a quella per

genitore femminile. Si dimostra che questa

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differenza è sufficiente a creare la

differenza di date fra i due sessi.

(Tratto da L’evoluzione della cultura

di Luigi Luca Cavalli Sforza – Codice Edizioni, 2004)

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LA RIPRODUZIONE SESSUALE: UNA

NECESSITÀ PER AUMENTARE

IL "METICCIATO GENETICO"

Giuseppe Saccone1 e Catello Polito2

1 Ricercatore 2 Professore di Genetica; Direttore IGB “A. Buzzati-Traverso”, CNR, Napoli Università degli Studi di Napoli Federico II

Anche se esternamente non è così

ovvio, da un punto di vista genetico

molecolare possiamo considerarci tutti

“meticci”. Infatti è chiaro da tempo che due

individui appartenenti al medesimo gruppo

etno-geografico possono presentare una

maggiore variabilità genetica, rispetto a due

individui di due gruppi etnici differenti.

Anche se il detto recita che “chi si

assomiglia, si piglia”, la somiglianza è solo

esteriore, e non genetica. In ciascuna

nostra cellula sono presenti due genomi

aploidi che derivano da due essere viventi

profondamente distinti nei loro rispettivi

genomi, a prescindere se i due genitori

siano dello stesso villaggio, città, nazione o

continente. L’inganno della percezione del

diverso biologico deriva dalla nostra

moderna cultura occidentale eidetica tanto

influenzata ancora da antichi luoghi comuni

(ma anche da una lunga storia di

colonialismi e di schiavizzazioni di altri

popoli, e da prospettive filosofiche o

religiose basate su immanentismo, fissità,

concetto di perfezione, etc). Questo esteso

“meticciato genetico” che si sta rivelando

dalle analisi molecolari dei genomi

individuali, sembra essere una regola in

natura, prodotto collaterale del successo

evolutivo della riproduzione sessuale.

Ciascuno di noi ha in ogni sua cellula

somatica circa 50.000 geni, variamente

distribuiti sui 46 cromosomi, di cui 25.000

ricevuti dalla madre (su 23 cromosomi

materni) ed altri 25.000 geni dal padre (sui

23 cromosomi paterni). E’ interessante

notare che i due gruppi di geni materni e

paterni hanno una corrispondenza di uno ad

uno come sequenza di DNA, come funzione

e come localizzazione sui cromosomi. In

media le due versioni di ciascun gene

presentano nella sequenza di DNA (che

risulta 99,9% identica) differenze pari a

circa 1/1000 sostituzioni nucleotidiche.

Quindi approssimando ad esempio la

lunghezza media di un gene umano a

20.000 coppie di basi, otteniamo 20

nucleotidi differenti (per ciascun gene) x

25.000 geni = 500.000 nucleotidi differenti

nei due genomi aploidi.

Più che di riproduzione sessuale e di

neonato riprodotto, dovremmo quindi

parlare rispettivamente di co-produzione

sessuale (come già suggeriva negli anni ‘40

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l’antropologo cubano Fernando Ortiz) e di

ibrido di due gruppi genici, cioè un meticcio

genetico transitorio dove due corredi

cromosomici aploidi sconosciuti l’uno

all’altro si sono per la prima volta incontrati

per co-produrre un essere vivente.

Neanche la lunga pratica di selezione

artificiale per ottenere razze canine pure è

riuscita ad omogeneizzare i rispettivi

genomi: le sequenze del DNA di cani con

tanto di pedigree stanno rivelando

un’elevatissima variabilità genetica

nascosta che continua a persistere

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nonostante la costanza della forma esterna

di ciascuna razza selezionata. Sulle altre

possibili ragioni evolutive della comparsa

della riproduzione sessuale e quindi del

“meticciato genetico”, ancor oggi vi sono

differenti ipotesi in continua discussione,

quali ad esempio: maggiore efficacia della

selezione naturale mediante aumento della

variabilità genetica perché promuove

migliore adattamento evolutivo (August

Weismann, fine ottocento), maggior

efficienza nell’eliminare le mutazioni

deleterie, oppure maggior resistenza a

parassiti.

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LE POPOLAZIONI E LE LINGUE EVOLVONO: PARALLELISMI E DIFFERENZE

Alberto Varvaro

Professore di Filologia Romanza Università degli Studi di Napoli Federico II

Sembra ovvio che la storia delle

lingue debba essere parallela a quella delle

popolazioni umane, quale si va chiarendo

attraverso gli studi innovatori di Cavalli

Sforza. Ma il rapporto non è così chiaro e

lineare come ci si potrebbe attendere.

Dalla fine del Settecento, la linguistica

storica ha riconosciuto i criteri che

permettono di stabilire con rigore i rapporti

anche genetici tra lingue diverse ed ha

individuato un certo numero di famiglie

linguistiche, i cui componenti sono in

relazione genetica, vale a dire discendono

da un antecedente comune. Si prenda il

caso della famiglia detta indoeuropea.

L’italiano discende dal latino come il

francese, lo spagnolo e così via; il latino è

geneticamente affine al greco e alle lingue

germaniche ma anche, tra l’altro, all’iranico,

al sanscrito ed a molte lingue dell’India

moderna. A capostipiti differenti risalgono,

per esempio, l’arabo, il cinese e le lingue

degli indiani d’America. Questo lavoro è

risultato relativamente facile e sicuro, ma

non è così per il passo successivo, vale a

dire la definizione dei rapporti tra le poche

decine di capostipiti identificabili. Come

mai?

La lingua cambia assai rapidamente,

anche se i parlanti hanno l’impressione che

essa sia stabile. Nessuno di noi pensa che

negli anni della sua infanzia l’italiano fosse

diverso da quello di oggi se non per un

certo numero di parole, che è cosa molto

superficiale. Ma il fatto è che il modo di

esprimersi di Manzoni era molto diverso dal

nostro, anche se sono trascorse poche

generazioni.

La lingua cambia in due modi

differenti: da un lato essa si modifica

costantemente ed insensibilmente non

meno della moda, dall’altra è molto più

frequente di quanto si pensi che gli individui

o intere popolazioni sostituiscano la lingua

materna con un’altra, affine o no, che

diventerà la lingua materna dei loro figli.

Bastino due esempi. Buona parte degli

italiani nel corso degli ultimi 150 anni è

passata dall’uso esclusivo di un dialetto, ad

esempio del napoletano, a quello spesso

esclusivo dell’italiano, che rispetto al

dialetto napoletano è una parlata sorella;

ma nello stesso tempo un gran numero di

persone che parlavano dialetti italiani si

sono trasferiti negli Stati Uniti e sono

passati all’inglese, lingua della stessa

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famiglia indoeuropea ma molto meno

affine. Nell’impero romano intere

popolazioni abbandonarono le loro lingue,

che erano molto diverse tra loro e di cui

ben poco è sopravvissuto, ed adottarono il

latino. Se dunque ognuno di noi eredita il

patrimonio genetico dei genitori, molte

volte non ne eredita la lingua materna.

Questa doppia forma di mutamento,

interno ad una lingua e da una lingua

all’altra, complica molto il rapporto tra

storia della popolazione e storia linguistica.

La distribuzione dei tratti genetici in un’area

geografica può essere stabile nel tempo,

ma la lingua parlata sarà comunque

cambiata nel tempo fino ad essere

irriconoscibile e tutti o molti o alcuni gruppi

di quella popolazione possono aver adottato

lingue provenienti dall’esterno dell’area.

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La velocità di queste trasformazioni

è tutt’altro che uniforme. Se gli italiani colti

hanno scarsa difficoltà per intendere Dante,

i francesi non sono in grado di intendere

uno scrittore contemporaneo di Dante.

L’italiano è stato stabile perché per lungo

tempo è rimasta lingua prevalentemente

scritta. Ma in altri casi il mutamento è

assai rapido. Gli arcipelaghi sparsi nel

Pacifico sono stati colonizzati da pochi

secoli, ma le lingue in essi parlate si sono

differenziate tra di loro e non è facile

metterle in rapporto con le lingue parlate

oggi nelle aree (Indonesia, Filippine) da cui

devono essere partiti i colonizzatori.

La storia linguistica dell’umanità non

può non essere in relazione con quella

demografica. Ma non ci si può illudere che

il parallelismo sia stretto. In ultima analisi

la prima è propriamente una storia, nella

quale hanno peso soprattutto fattori

culturali, la seconda è una evoluzione

biologica. Torniamo al problema delle due

culture: certamente c’è, ci deve essere, un

nesso, ma non è facile né semplice

individuarlo.

Pieter Bruegel -La Torre di Babele

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TANTE FACCE, UN’UNICA RAZZA

Guido Barone

Professore di Chimica Fisica Ambientale Università degli Studi di Napoli Federico II

Le ricerche genetiche hanno consentito

di scrivere la storia del popolamento della

Terra da parte dell’umanità a partire dagli

anni ’60. Ciò per merito tra gli altri di

Cavalli-Sforza e allievi. Nei secondi anni

‘80, con la scoperta della DNA-polimerasi

termoresistente, si ottennero molte repliche

dei DNA da mitocondrio, l’organello

respiratorio delle cellule, che si trasmette

solo per via materna. Si potè così risalire ad

un gruppo di donne consanguinee (Eva

africana) vissute in Africa tra 160 e 130

mila anni fa e il cui patrimonio genetico è

comune, pur con delle lievi mutazioni, a

tutte le donne attuali. L’albero genealogico

ricostruito attraverso le mutazioni avvenute

in tempi successivi (delle vere e proprie

biforcazioni evolutive) coincide in modo

impressionante con l’analogo tracciato

dell’evoluzione dei linguaggi.

Le mutazioni, avvenute circa ogni 10

mila anni, hanno scandito il cammino fatto

dai discendenti di quel piccolo nucleo di

africani emigrati verso l’Asia circa 100 mila

anni fa. Gli europei sarebbero una

mescolanza di sette componenti (le sette

figlie di Eva) caratterizzate da singole

mutazioni conservative avvenute tra 45 e 8

mila anni fa. Paabo ha dimostrato che il

DNA mitocondriale dei Neanderthal è

sostanzialmente diverso da quello di tutti gli

europei, moderni e non. Si tratta di un’altra

specie, non ibridizzabile in maniera fertile

con l’Homo sapiens sapiens. Cann e Sykes

hanno infine dimostrato l’origine asiatica dei

polinesiani, contro l’ipotesi americana di

Eyerdall.

Dal 1994 si è iniziato ad analizzare le

mutazioni dei geni del cromosoma Y.

Il cromosoma Y determina il sesso maschile

e si trasmette solo per via paterna. E’ il più

piccolo dei cromosomi ma è enormemente

più grande del DNA mitocondriale che ha

solo 37 geni. Sembra confermato che

l’umanità discenda per intero da un piccolo

gruppo africano costituito da qualche

centinaio di individui consanguinei, da cui

un gruppo consistente si sarebbe staccato

emigrando in Asia e di lì in due ondate in

Europa: circa 40 mila anni fa (cacciatori-

raccoglitori) e circa 9 mila anni fa

(agricoltori-allevatori). I primi avrebbero

convissuto con i Neanderthal, che pure

avevano sviluppato una cultura complessa,

sopraffacendoli alla fine con la loro migliore

organizzazione sociale e con le loro

tecnologie di sopravvivenza. Prima ancora i

discendenti di Eva africana popolarono

l’Asia e giunsero in Australia e Nuova

Guinea 40-60 mila anni fa e molto più tardi

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alle Hawaii e alla Nuova Zelanda. Altri

gruppi asiatici attraversarono lo stretto di

Bering in due ondate e popolarono le

Americhe, come dimostrato dall’analisi delle

mutazioni di Y.

Le mutazioni accumulate nel DNA sono

una traccia nel tempo e nei luoghi che ci

connette tutti in una grande famiglia, con

differenze solo nei tratti somatici. Le

differenze all’interno di una etnia sono più

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disperse di quelle fra i valori medi di tutti i

popoli della Terra.

Le sorti dell’umanità sono state a lungo

a rischio. Un piccolo incidente iniziale e la

nostra orgogliosa specie sarebbe stata

cancellata dall’evoluzione. Nulla fa pensare

che altre specie avrebbero potuto

succederle con un cammino analogo:

l’evoluzione infatti non è finalistica.

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UN FILO COMUNE NELL’EVOLUZIONE DEL CERVELLO?

Antonio Simeone

Ricercatore CEINGE Biotecnologie Avanzate, Napoli; IGB “A. Buzzati-Traverso”, CNR, Napoli; MRC Centre for Developmental Neurobiology, King's College London I

Comprendere i meccanismi che

hanno determinato l’evoluzione del cervello

è uno degli argomenti più affascinanti e

complessi. Infatti se per altre strutture del

corpo è abbastanza ovvio o quantomeno

intuibile identificare i corrispondenti in

specie molto distanti fino agli insetti, è

abbastanza difficile comprendere come si

sia potuto evolvere il cervello dei mammiferi

ed in particolare quello dell’uomo da

organismi invertebrati come vermi ed insetti

il cui sistema nervoso è essenzialmente

costituito da gangli nervosi in connessione

con cellule sensoriali superficiali ed il cui

principale scopo è quello di determinare

reazioni motrici a stimoli esterni. E’ da

questo tipo di sistema nervoso che si è

evoluto quello dell’uomo oppure, come per

molto tempo si è pensato, anche sotto

l’influenza di dottrine filosofiche e/o

religiose, il sistema nervoso è stato

inventato e reinventato più volte durante

l’evoluzione senza la presenza di un comune

antenato? Negli ultimi quindici anni e per

merito degli enormi avanzamenti delle

biotecnologie è stato possibile iniziare a

dare delle risposte ai molti interrogativi. Il

primo interrogativo era capire se gli

elementi genici che codificano per le

proteine che controllano lo sviluppo del

sistema nervoso degli invertebrati sono

conservati durante l’evoluzione. La risposta

è stata affermativa e priva di ambiguità.

Ciononostante questa non era una

prova ma solo una indicazione, seppure

necessaria, dell’esistenza di un meccanismo

comune alla base dello sviluppo del sistema

nervoso anteriore di invertebrati

(protocerebro) e vertebrati (cervello). In

altre parole questo dato non rappresentava

una prova funzionale. Una prova funzionale

della conservazione è venuta quando sono

stati prodotti dei modelli genetici murini che

sostituivano il proprio gene con quello degli

invertebrati, e insetti, Drosofile nel caso

specifico, che portavano il gene di uomo e

mancavano di quello proprio. Questi

esperimenti hanno prodotto un risultato

eccitante: il gene degli invertebrati

compensava completamente le funzioni di

quello murino e permetteva lo sviluppo di

un cervello normale; in maniera analoga il

gene umano permetteva lo sviluppo

normale del cervello rudimentale

dell’insetto. Era la prima prova funzionale

che due geni conservati e cruciali per lo

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sviluppo del cervello, erano funzionalmente

equivalenti. Questi risultati hanno così

suggerito che una funzione genica

essenziale allo sviluppo del cervello dei

mammiferi era già presente oltre 500

milioni di anni orsono in un antenato

comune agli invertebrati e vertebrati.

Ma allora se i meccanismi di base

sono gli stessi perché i cervelli degli insetti

e dei mammiferi non sono almeno simili?

Questa domanda è intrinsecamente

complessa e per il momento non c’è una

chiara risposta. Ciononostante la

spiegazione è probabilmente da ricercare

nei meccanismi che controllano

l’espressione genica e negli eventi che

hanno modificato il corredo genetico

durante l’evoluzione quali ad esempio

traslocazioni e duplicazioni.

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Queste modificazioni hanno

determinato cambi nei livelli di espressione

e nei territori di epressione di geni

necessari alla morfogenesi nonché un più

alto numero di interazioni tra prodotti genici

differenti.

Questo ha probabilmente

determinato la nascita di nuove catene

regolatorie e l’espressione di preesistenti

funzioni in cellule che non le esprimevano.

In questo modo e da questo apparente caos

sono stati probabilmente generati e

selezionati nuovi processi che hanno

modificato la morfogenesi di antiche

strutture corporee contribuendo durante

l’evoluzione alla crescente complessità del

cervello fino a quello dell’uomo.

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IL CIRCOLO EVOLUZIONE-FORMAZIONE Aldo Masullo

Professore Emerito di Filosofia morale Università degli Studi di Napoli Federico II

Le scienze fisiche oggi, riallineandosi

con la nuova criticità delle scienze storiche,

fanno piazza pulita delle mitizzazioni,

ottimistiche o pessimistiche, cioè delle

ideologiche fantasie sulla necessaria

progressività del cambiamento o sul suo

fatale decadere verso la «morte termica»,

verso la definitiva stagnazione

dell’indifferenziato. A questo punto acquista

un senso nuovo la domanda se si possa

parlare di un rapporto circolare tra il

cambiamento naturale, ancora denominabile

«evoluzione» (ma senza alcuna

connotazione «progressistica»), e il

cambiamento culturale che, spogliato ormai

anch’esso di ogni ottimismo

«progressistico», deve tuttavia venir detto,

a pena d’essere contraddetto,

«formazione» ovvero (secondo l’idea

maturata nel pensiero classico tedesco)

Bildung, che vuol dire la spontaneità della

formazione di sé, l’autoformazione, ossia in

uno «formazione originaria», Urbildung, e

«trasformazione», Umbildung.

Se si dà per ammesso il suddetto

rapporto circolare, un punto decisivo del

circolo sarebbe quello in cui l’evoluzione

naturale, di volta in volta saltando d’un

colpo da un gradiente di relativa stabilità (o

meglio: di moderata instabilità) ad un altro,

perviene a un gradiente in cui

l’organizzazione della materia – vita,

animalità, sviluppo e centralizzazione del

sistema nervoso – riesce tale, che si rende

possibile l’emergere di un ramo inedito, con

un suo modo di propulsione evolutiva

divergente dal naturale.

Ben intuì questa divergenza Giordano

Bruno, eloquentemente mitizzandola,

quando nel 1584, nello Spaccio della bestia

trionfante, scriveva: «Gli dei aveano donato

a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’aveano

fatto simile a loro, donandogli facoltà sopra

gli altri animali; la qual consiste non solo in

poter operar secondo la natura ed ordinario,

ma, ed oltre, fuor le leggi di quella; acciò,

formando o possendo formar altre nature,

altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con

quella libertade, senza la quale non arrebe

detta similitudine, venesse ad serbarsi dio

de la terra».

Giordano Bruno

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Dal momento in cui l’evoluzione

naturale giunge a fornire un essere vivente

di cervello e di mano comincia un’altra

evoluzione, fuori e al di là di quella:

s’inaugura una nuova «natura», un’altra via

del nascere e del trasformarsi. Qui non

funziona, casualmente, il processo evolutivo

della natura propriamente detta, con i suoi

gradienti di cambiamenti impercettibili, le

sue rotture e i suoi salti; bensì opera,

motivatamente, secondo la pensata ragione

di ogni agito cambiamento, il processo

formativo dello «spirito», l’autoformazione

come incessante superamento, conforme

alla visione cristiano-protestantica,

secolarizzata nell’idealismo post-kantiano e

assunta nello hegeliano negare-

conservando, nell’Aufhebung.

Posta in questi termini, la

trasformazione spirituale, se risulta

autonoma rispetto all’evoluzione naturale, in

quanto condizionatane ma non

determinatane, tuttavia non acquista alcun

potere d’influenza su di essa, il suo

cammino essendo «interiore», tutto interno

allo «spirito».

Ancora una volta Bruno, scavalcando

quella stessa «modernità» che annunziava,

anticipò la «postmodernità» e la crisi del

modello religioso-idealistico della

«formazione». In una pagina della Cabala

del cavallo pegaseo si legge che, se anche

l’uomo avesse il doppio dell’ingegno, ma le

mani gli si trasformassero in piedi, non

potrebbe restare indenne la «conversazion

de gli uomini», cioè quel complesso

commercio d’idee, gesti e opere che noi

comunemente chiamiamo «cultura». «Per

conseguenza dove sarrebono le instituzioni

de dottrine, le invenzioni de discipline, le

congregazioni de cittadini, le strutture de gli

edificii ed altre cose assai che significano la

grandezza ed eccellenza umana, e fanno

l’uomo trionfator veramente invitto sopra

l’altre specie? Tutto questo, se

oculatamente guardi, si riferisce non tanto

principalmente al dettato de l’ingegno,

quanto a quello della m a n o , organo degli

organi». Ingegno e mano sono le

innovazioni biologiche, per cui si rende

possibile nell’uomo l’aprirsi di un cammino

trasformativo divergente dall’evoluzione

biologica, perché non determinato da essa.

Certo nel modello religioso-idealistico

«moderno», il mondo naturale non restava

fuori della formazione-trasformazione,

essendo in esso inglobato anzi

originariamente radicato, secondo il

principio della mistica di Meister Eckhart,

per cui «nella parte più intima e alta

dell’anima Dio creò l’intero mondo».

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Il cammino dell’uomo: lingue, geni e popolazioni vedute sull’evoluzione dell’uomo moderno

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

La novità del modello

«postmoderno» sta tutta invece nel fatto

che, come scrive Mario Gennari, «la

formazione del mondo-dell’-intimità […] ha

ceduto il passo alla cultura superficiale (alla

Halbbildung), in cui la perdita della

formazione è compensata dalla produttività

dell’individuo, dalla sua prepotente capacità

d’imitazione (Nachbildung).

Qui, a prescindere dal negativo

giudizio di valore, si coglie il senso della

divergenza evolutiva culturale, a cui Bruno

verso la fine del XVI secolo pensa con

entusiasmo, e a cui invece Gennari alla fine

del XX pensa con preoccupazione, ma che

né Bruno né Gennari chiamano con il nome,

tanto semplice quanto complessa è la cosa

designata, di «tecnica».

La «tecnica» non è le macchine e i

computer, i prodotti dell’ingegno e della

mano, ma i modo dell’ingegno e della mano,

la meccanica e l’informatica, le forme

mentali che, a partir da lontano, da vissute

intuizioni e praticate manipolazioni, si sono

venute plasmando. «Tecnica» sono il

concetto aristotelico di «limite» come

artificio intellettuale, grazie a cui si rendono

misurabili le grandezze continue di spazio e

di tempo; il concetto leibniziano di calcolo

infinitesimale; l’equazione einsteiniana di

massa ed energia. Insomma l’essenza della

«tecnica» sta nell’idea (in cui

l’epistemologia riconosce il suo principio

fondamentale) che il «concetto è sinonimo

del corrispondente gruppo di operazioni»,

cioè riuscito effetto adattivo della mente,

innovativo abito nel pensare le risposte ai

problemi emergenti.

La «tecnica» è l’azione dell’uomo

modificatrice delle condizioni ogni volta

date, non solo materiali, «naturali», ma

anche immateriali, «culturali». La

trasformazione autoformatrice inventa le

condizioni di apertura non solo del proprio

ulteriore modificarsi ma pure del proprio

potere di modificare, in limiti sempre meno

stretti (mai del tutto però sopprimibili), il

mondo materiale, di decidere cioè le

condizioni nuove secondo cui, al tempo

lungo, la stessa evoluzione biologica potrà

prodursi.

E’ con la «tecnica» che il circolo

evoluzione (naturale) – formazione

(culturale) si chiude.

Riconoscere la forza di questo circolo ci

costituisce, nel decidere le scelte presenti,

responsabili verso il futuro lontano e i suoi

abitatori.

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Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

LA “RAZZIALIZZAZIONE” DELL’ALTERITÀ CULTURALE

Adelina Miranda

Professoressa di Mediterraneo e movimenti di popolazione Università degli Studi di Napoli Federico II

L’abbandono della “razza” come

concetto esplicativo delle differenze umane

non ha portato alla fine di sistemi di

pensiero persuasivi nel gerarchizzare

l’alterità culturale. Numerosi gruppi sociali e

nazionali continuano ad essere

“razzializzati” attraverso un dispositivo

operativo che, mediando dal linguaggio

razzista schemi, metafore e eufemismi,

adotta la “cultura” come base

interpretativa. Allorché l’antropologia

decostruisce il concetto di cultura, ne

propone una interpretazione sempre più

relazionale e dinamica, ne rileva il carattere

polimorfo, ne svela la configurazione

mutevole, ne risalta i significati ed i sensi

contingenti oltre che distintivi, nel senso

comune, la cultura viene essenzializzata.

Questo processo performativo ingloba

quegli elementi psico-somatici utilizzati dal

razzismo trasformandoli in significati

significanti delle specifiche appartenenze

culturali.

Questa “razzializzazione” produce

pertanto delle essenze naturali isolate,

mentre l’antinomia esistente fra la

singolarità e la pluralità culturale si libera

attraverso la comunicazione. Per Lévi-

Strauss, l’opposizione natura-cultura si

risolve attraverso lo scambio e le invarianti

culturali, comuni a tutte le società,

costituiscono le fondamenta di alcuni

istituti e funzioni universali. Certo, come ha

chiarito Barth, l’attraversamento delle

demarcazioni dei gruppi sociali non porta

necessariamente alla creazione di

ibridazioni o sincretismi. È il caso dell’area

mediterranea. Al di là dei contatti, degli

scambi, del commercio, degli incontri che si

sono tessuti e continuano a tessersi intorno

al Mare Nostrum, le barriere religiose

raramente sono state superate, come

dimostra il radicamento differenziale dei

simboli delle tre religioni monoteiste: il

porco, il bue e il montone. Le frontiere

semantiche agiscono per separare e per

unire poiché all’interno di ogni cultura opera

tanto la tensione verso l’universalismo

quanto quella verso il particolarismo per

mezzo della (ri)costituzione di articolate

frontiere esterne e interne. L’attuale

contesto mondiale le rende, molto spesso,

più invisibili e intangibili, soprattutto

quando le banlieues si ritrovano nel cuore

del mondo occidentale. Si generano allora

scarti differenziali inediti che impongono un

ritorno critico sul “nostro” pensiero.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Il cammino dell’uomo: lingue, geni e popolazioni vedute sull’evoluzione dell’uomo moderno

L’appropriazione (o il rifiuto) dei

valori proposti come “universali” produce

nuove gerarchie mettendo in crisi quello

che Mondher Kilani ha definito

l’“universalismo particolare”, questa

situazione culturale dove l’universale si

identifica con colui che parla di universalità,

che detta le norme, che controlla i

meccanismi e che resta, quindi, in una

posizione gerarchicamente superiore. Il

nesso storico elaboratosi fra i principi della

uguaglianza, della laicizzazione e della

democrazia, è sospeso. Questi valori non

costituiscono più l’orizzonte culturale

condivisibile perché non sono mai stati

condivisi. In effetti, questo orizzonte

culturale che si è proposto come

condivisibile attraverso il riferimento

all’égalité universale, ha inglobato e

giustificato le forme estreme di

sfruttamento della differenza: il

colonialismo e la schiavitù. La fine di questi

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

sistemi ha modificato le linee di

demarcazione fra “noi” e gli “altri” senza

però superare i meccanismi di esclusione

che ve ne sono alla base.

La “razzializzazione” delle differenze

culturali eredita di questa storia. La sua

efficacia simbolica manifesta come il nostro

vocabolario, anche scientifico (si pensi al

concetto di etnia), spesso si riferisce alla

razza anche se non la investe di significati

biologici, genetici o eugenetici. Il razzismo

differenziale raggiunge così il relativismo

culturale senza passare attraverso

quell’esercizio fondamentale dell’auto-

riflessività antropologica che dovrebbe

permettere di ripensare la “nostra” cultura,

la “nostra” identità, i “nostri” modelli di

integrazione sociale alla luce di ciò che ci

siamo rappresentati e continuiamo a

rappresentarci come l’alterità, sia essa

lontana o vicina.

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