Luciano Lucadamo OTTO ANNI - avellinesi.it ANNI.pdf · Non conoscevo il significato della morte e...

26
1 Luciano Lucadamo OTTO ANNI Novella autobiografica-turistica, raccontata percorrendo la Città di Avellino e… dintorni, alla fine degli anni ’40

Transcript of Luciano Lucadamo OTTO ANNI - avellinesi.it ANNI.pdf · Non conoscevo il significato della morte e...

1

Luciano Lucadamo

OTTO ANNI

Novella autobiografica-turistica, raccontata percorrendo

la Città di Avellino e… dintorni, alla fine degli anni ’40

2

Luciano Lucadamo

OTTO ANNI

Avevo otto anni. Mio padre era scomparso da poco ed ero smarrito.

Vivevo con la speranza, che papà potesse, pur con un incomprensibile

miracolo divino, ritornare tra noi, ma non sapevo immaginare come.

Andavo in giro tra i miei parenti più stretti chiedendo: “ papà potrà

ritornare con noi ?”

Non conoscevo il significato della morte e quali fossero le sue naturali

conseguenze. Intuivo però che tutto era assolutamente irreversibile. Ma

insistevo nel rivolgere quella domanda assurda. L’avevo diretta a mia zia

Olga poche ore dopo che qualcuno (bontà sua!) mi avesse accompagnato

3

da mio padre, sul suo buio letto di morte, per l’ultimo saluto. In quel

momento, atterrito e piangendo, ero fuggito da quella stanza ad

abbracciare mia madre. Mia zia a quella domanda, mi aveva guardato con

un amorevole sorriso, ma era rimasta in un silenzio pietrificante.

Era ormai trascorso soltanto un breve periodo di tempo da quel

drammatico avvenimento e, in un pomeriggio di fine estate, stavo

percorrendo una stradina delle campagne di Avellino, affiancata e

ombreggiata da due filari di vecchi olmi che attenuavano il caldo afoso

tipico del periodo. Il selciato in terra battuta, era ricoperto ai margini da

foglie e sterpi secchi e a tratti sopravvivevano piccole zolle di prato verde.

In quei giorni, mia madre aveva dovuto recarsi a Chivasso, a dieci minuti

di treno da Torino, dove eravamo andati ad abitare, per il lavoro di mio

padre, un anno prima di quelle sconvolgenti vicende e dove non

avremmo mai più potuto prolungare la nostra permanenza. Tutto il

tempo che avevamo trascorso in quella caratteristica cittadina

piemontese, in riva al Po, era stato straordinariamente suggestivo.

Come potrei dimenticare il mio maestro di terza elementare? Portava la

barba da soldato alpino, con una piccola piuma sul suo cappello. Ludovico

Avalle di Biella. Questo era il suo nome, lo ricordo perfettamente dopo

quasi settanta anni. Suo fu il libro di lettura, FONTE CHIARA, che mi donò,

come premio per aver risolto un problema di aritmetica di ben quattro

operazioni e il ricordo della mia prima partita di calcio in un vero campo

4

da gioco, dove quell’uomo straordinario ci aveva condotto, in fila per due.

Purtroppo quel giorno feci molta panchina, ma mi piacque lo stesso. Di

Torino ricordo tutto, la Stazione ferroviaria, le grandi piazze del Centro, il

Palazzo Reale e l’Hotel “Principi di Piemonte” dove un giorno mi capitò di

vedere una gran folla. Papà mi teneva per la mano e mi spiegò che quel

capannello di curiosi attendeva l’uscita di un noto attore cinematografico,

in viaggio di nozze con la sua seconda moglie. Sarebbe diventato, dopo

qualche anno, padre della famosa Romina Power, che tanto ha coinvolto

e affascinato i romantici d’Italia. Che delizia quei marron glacé che

adornavano le vetrine delle pasticcerie del Corso e le cioccolate

“gianduia”, da acquolina in bocca. E stupendo mi sembrò il Parco del

Valentino, costeggiato dal mitologico fiume Po, con le sue acque

scintillanti al sole, solcate da numerose imbarcazioni di canottieri in

allenamento con le loro caratteristiche scie. Lì, scoprii una giostra davvero

affascinante per un bambino. Era semplicemente meravigliosa, con gli

aerei alla Topolino, che si sollevavano, ma fino ad una certa altezza. Per

anni desiderai, per il mio futuro, di diventare un pilota di caccia militari.

Ma i sogni non sempre si avverano.

La crudeltà del sistema sociale Italiano, a quell’epoca, e forse ancor più

oggi, aveva abbandonato totalmente la famiglia di un Servitore dello

Stato, nonchè ex militare, che aveva perso la vita per una grave malattia

insorta subdolamente pochi anni prima, nel corso della guerra.

(Mio padre è il 2°da sx. Umberto di Savoia il 5°)

5

Mio padre aveva infatti svolto funzioni di Tenente, Istruttore nella Scuola

Allievi Ufficiali di Fanteria di Avellino, e per tali ragioni era venuto,

imprevedibilmente, a contatto con materiali bellici altamente pericolosi.

Si pensi a ciò che costituiva l’iprite, la letale componente chimica di

alcune armi difensive, in dotazione all’Esercito italiano dell’epoca. Ma per

tutto questo: quiescenza zero. Inoltre durante il servizio civile, prestato

prima e dopo l’evento bellico, egli non aveva, per la sua giovane età di

trentatré anni, potuto maturare il periodo minimo di lavoro necessario

per ottenere in suo favore o per i suoi familiari conviventi, alcuna

assistenza, a seguito del suo decesso. Quell’evento tragico non era stato

determinato dalla sua lealtà per le istituzioni e dal suo riconosciuto amor

di Patria?

Ma, vuolsi così…

Di conseguenza, l’intera sua famiglia superstite assunse le sembianze di

una barca senza remi e senza timone, nel pieno di una violenta

tempesta. Mia sorella aveva cinque anni e girava, ignara di tutto, alla

ricerca del padre, nella vecchia casa di nostro nonno Gerardo, che fu

l’unico porto di temporanea salvezza in quei frangenti.

Anche negli anni ’40, come avviene vergognosamente ancor oggi, i nonni

si sostituivano all’Italia per garantire una minima possibilità di

sopravvivenza ai loro derelitti figli Italiani. Mia madre, distrutta dal dolore

aveva dovuto assumere le redini e il timone della piccola e inerme

famiglia.

Ed era proprio mio nonno, in quel caldo pomeriggio di agosto che mi

guidava lungo la stradina, all’epoca chiamata “la cupa della valle”, di

6

Avellino. Era questa una strada che, attraverso boschi di castagni e di

noccioli, si inerpicava verso la montagna percorrendo la via dei pellegrini.

Ogni anno, a settembre, provenienti dall’Irpinia, da Napoli e da tutta la

Campania, su vecchie Fiat 1400, decappottate e i berretti unicolore o con

variopinti carretti inghirlandati e trainati da impennacchiati e altezzosi

cavalli di razza, i fedeli, in costumi tipici, si recavano verso l’Abbazia di

Loreto e poi, più su. Procedevano faticosamente lungo arroccati percorsi,

per raggiungere l’agognata meta del Santuario di Montevergine,

dedicato alla Vergine Nera, la Madonna dall’effigie scura di origine

bizantina. La Basilica fu edificata ad opera di un monaco eremita,

Guglielmo da Vercelli, poi santificato. Distrutta a seguito di un incendio fu

ricostruita nel 17° secolo e consacrata all’ immagine della Madonna

venuta dall’Oriente.

Molte modifiche e costruzioni di cappelle furono realizzate nei secoli

successivi e immensa è la devozione e i pellegrinaggi ancora attuali dei

fedeli provenienti da tutto il mondo per adorare quella sacra icona e per

invocare grazie e miracoli. Solo per motivi di mera cronaca devo ricordare

che la edificazione della chiesa nuova (nella foto, si eleva al fianco del

campanile) fu realizzata, per conto del Genio Civile, con la direzione dei

lavori di Claudio Morrison, mio zio, marito di mia zia Olga.

E da una delle macchie di prato verde vegetanti ai margini di quel

viottolo, mio nonno notò fra l’erba e raccolse un fiore nato spontaneo,

simile a una margheritina, e mi disse:” Questo è un anemone”. Mi

descrisse le caratteristiche botaniche e la preziosa bellezza di quel fiore,

7

interessando la mia curiosità e il desiderio di apprendimento tipico di

quella mia giovane età. In quel preciso momento, lui aveva iniziato a

colmare quel profondo senso di vuoto che mi aveva fin lì aggredito. Avevo

ritrovato il Maestro che mi era venuto meno. Quel pomeriggio conquistai

l’amore per la Natura, che non mi avrebbe più abbandonato, come una

delle mie certezze e uno dei miei primari ideali di vita. Iniziai così a

conoscere la mia città natia, che non avevo fin lì vissuto.

Mio nonno, alla sua veneranda età di ottantatré anni, assunse il delicato

ruolo di Guida, che sarebbe continuato ininterrottamente fino alla mia

adolescenza, come in effetti avvenne per Volere Superiore. Per queste

ragioni il Signore gli prolungò meritevolmente la vita ben oltre i

novant’anni.

Così dopo la Natura, egli mi condusse a conoscere la Civitas “Abellinense”,

la sua Storia, i suoi Personaggi Illustri, le Strade, Stradine e i vicoli con i

caratteristici negozi del Centro storico, le Chiese, i suoi Giardini Pubblici

elevati al rango di “Orto Botanico”, i suoi Monumenti e Palazzi nobiliari o

Istituzionali, le principali Scuole e, la domenica pomeriggio, anche le Sale

cinematografiche, ritrovi di svago per i laboriosi cittadini del Capoluogo.

Partimmo per la prima escursione cittadina dal Viale del Littorio, nel

dopoguerra denominato Via Don Minzoni, educatore e Martire, dove

ormai abitavamo con dimora fissa, ospiti di mio nonno stesso, al numero

civico 23. Era quello un viale alberato da Ligustri Giapponesi, sul quale

8

affacciavano due file di palazzine, vagamente riflettenti l’edilizia di

modello neoclassico in auge in quel particolare periodo di ”fine anni

1920”. La caratteristica peculiare urbanistica ed estetica era costituita dai

giardini che si mostravano ridenti e lussureggianti sul viale emanando

intensi profumi floreali in tutte le stagioni dell’anno. Quella strada fu per

me e per tutti i ragazzi, che la frequentavano, la nostra Via Paal, il nostro

campo di calcio, la nostra pista di pattinaggio, la nostra pista ciclabile

nonché il campo di battaglia per le due “compagnie”, la Marina e

l’Aviazione, che si affrontavano, in un tempo in cui i ragazzi non

conoscevano altri giochi o svaghi, ma esisteva ancora la filosofia del

gruppo, della squadra e forse della appartenenza.

Il selciato di strada era pieno di buche, ma in cambio, a quell’epoca, di

auto o di camion ne passavano raramente. Transitavano invece carri,

carretti e carrozzelle trainati da magri e affaticati ronzini. Era quella una

civiltà contadina e di venditori ambulanti con carrettini carichi di frutta e

verdure o di altri prodotti casalinghi o di utensileria varia. E c’erano le

lattaie che portavano il latte appena munto, casa per casa, nei loro

bidoncini lindi di alluminio cantando arie campestri e annunciando a tutti

il loro arrivo.

9

Si offriva così una rivendita ”a domicilio” per chi non aveva tempo per

recarsi al mercato giornaliero di Piazza del Popolo, alle botteghe e negozi

( dei De Silva, ricevitoria del Lotto, e i Della Bruna, famosi ristoratori, tutti

miei trisavoli ), che fiorivano lì o nella adiacente Via Nappi, denominata

lo “stretto”, perché le due file laterali dei palazzi si fronteggiavano, in uno

spazio frontista molto ridotto, alla maniera dei famosi vicoli napoletani,

senza marciapiedi. E la gente era costretta a camminarci anche nel mezzo.

Le prime botteghe di cui ho un ricordo nitidissimo erano quella delle

Suore Paoline che gestivano una libreria religiosa e di letteratura per

ragazzi. Al fianco, invece c’era il negozio di articoli per abbigliamento e da

viaggio. Straordinari e rinomati i cappelli “Borsalino” che tutti i maschi

della mia famiglia di appartenenza e collaterali acquistavano lì, in via

esclusiva. Le valigie da viaggio di nozze che mia madre aveva comprato

nel 1940, erano uscite da quel negozio . E non c’era ombrello che non si

acquistasse con la consulenza, forse un po’ interessata, ma leale di una

persona che era anche una “istituzione” in città sia per la competenza, ma

soprattutto per la simpatia e il senso dell’humor anglo-avellinese che lo

distingueva. Si raccontava un aneddoto che non posso non ricordare.

Infatti, un giorno di chissà quando, un cliente un po’ semplicione chiese al

nostro caro don Antonio Gengaro: “Don Anto’ cosa mi consigliate per far

durare più a lungo quest’ombrello che mi avete venduto?”

10

Sornionamente il Cavalier Antonio, fingendo di pensarci su, per dare

l’impressione di meditare per un più efficace suggerimento, rispose serio:

“ Non fargli mai prendere la prima acqua !”

E soprattutto devo annotare che dopo qualche tempo strinsi amicizia con

suo figlio e quel rapporto fraterno sopravvive immutato da quasi

sessanta anni.

La via Nappi appariva ancora più stretta perché nasceva dalla spaziosa

Piazza della Libertà che per la sua ampiezza era denominata “ ’o largo”.

Infatti per la legge dei contrari al largo si oppone lo stretto!

Della piazza vorrei fornire i principali cenni della sua Storia e i peculiari

elementi architettonici:

quell’enorme piazzale aveva, ed ha ancora, una forma a quadrilatero

irregolare, quasi trapezoidale, che si apriva alla vista e alla sensazione di

spazialità, per chi proveniva dal Corso Vittorio Emanuele.

Proseguiva linearmente fino alla citata via Nappi, ‘o stretto, con un

tracciato carrozzabile delineato da due file di lecci, tosati bassi ogni anno

da giardinieri comunali. Perimetralmente la piazza era impreziosita dalla

presenza di palazzi storici, due chiese, nel tempo poi demolite, un

architettonico monumento ai caduti della Grande Guerra e due edicole a

mò di pagoda per la vendita dei giornali o tabaccheria. Gli enormi spazi

11

liberi erano utilizzati per lo svolgimento di feste civili e religiose o per i

comizi politici. Vi parlò anche il De Gasperi, di “ irpinese” memoria.

Ricordiamo innanzi tutto la festa della Assunta, il 15 agosto di ogni anno,

caratterizzata da favolose luminarie ad archi, che si estendevano a tutto il

centro città, ad opera di grandi artisti specializzati in tali coreografie.

Prima dell’avvento della filovia, a fine ”anni quaranta”, c’era poi lo

stazionamento delle carrozzelle, come quelle identiche, in uso turistico e

da passeggio, in alcune grandi città come Firenze, Roma, Napoli e

Palermo. Qui, in città, in verità, fornivano un servizio di collegamento

urbano sostitutivo, con il Cimitero, la Ferrovia o con la limitrofa città di

Atripalda.

Tra i palazzi spiccavano per bellezza architettonica e per importanza

storica, sopra a tutti, la residenza dei principi Caracciolo, come voluta

dalla Principessa Antonia Spinola-Colonna, consorte di Marino III

Caracciolo, completata nel 1730, ad opera dell’ingegnere Filippo

Buonocore.

La maestosa facciata, a tre livelli con splendidi stucchi, balconi e

marcapiani, mostra anche una antica meridiana solare e una lapide di

epoca successiva in memoria dell’eroico generale Giuseppe Garibaldi. Il

maestoso portale d’accesso è reso ancor più austero da due stupendi

leoni in pietra di marmo. Si narrava, nel volgo cittadino, che dal palazzo

12

Caracciolo si dipanassero dei cunicoli segreti che portavano al Castello

Longobardo, attraverso la collina del Duomo. Era questa la via di fuga per

i Principi, che tuttavia, nei secoli successivi, era diventata nascondiglio per

i briganti che infestavano la zona. Questi, per evitare intrusi o interventi

delle Guardie, avevano diffuso la credenza che, lì, allignassero crudeli

Fantasmi. Tornando alla Piazza, dopo circa due secoli di preziosa

raffinatezza architettonica, qualcuno decise cinquanta anni orsono di

arredarla con due” fontanelle”, di stile improbabile, la prima con getti

d’acqua proiettati verso l’alto con l’unico effetto di ridurre la sua visione

spaziale e la seconda, a forma di laghetto, dove peraltro per un po’

sopravvissero malinconicamente due cigni, che sembravano chiedere ai

visitatori di quel discutibile ”impianto: “ Ma noi che ci facciamo, qui ?”.

Ancora oggi ignoti seguaci del Bernini, cercano di migliorarla con revisioni

architettoniche dai futuri e incerti esiti. Eterno sarà sempre il dilemma

amletico se il novum in arte sia preferibile ai ”certi ” canoni del passato.

Considerato che la speranza è l’ultima a morire, propendiamo per la

praticità di adeguare ogni struttura alle esigenze della funzionalità che

velocemente si evolve nel tempo. Ma auspichiamo che siano sempre

salvaguardati i contenuti immortali di opere d’Arte già compiute,

ammirate e apprezzate ab immemorabile.

Durante una delle festività che si celebravano su quegli estesi spiazzi,

una sera, in compagnia di mia sorella, mi attardai, oltre il consentito, per

13

due ragazzini della nostra età, perché rimanemmo incantati ad osservare

una “bancarella” che esponeva per la vendita alcune ampolle piene

d’acqua nelle quali nuotavano volteggiando alcuni pesciolini rossi e altri

degni dell’Acquario Oceanografico di Montecarlo. Tornati a casa, per

punizione di quel ritardato rientro, “fui condannato” a scrivere sul mio

quaderno, su cinque pagine intere, la espressione piuttosto pertinente:

”chi tardi arriva, male alloggia”….e senza cena fui spedito a letto! Ma

salvai almeno un sereno “alloggiamento” notturno, passata la tempesta…

In un tiepido pomeriggio della fine dell’estate del 1949, venne a trovarci,

a casa di nonno Gerardo, un suo caro amico, che per una strana

combinazione era anche lo zio materno di mia madre.

_______________

1) Giuseppe De Silva 2) Alfonso De Silva, padre 3) Maria Teresa Della

Bruna, madre 4) Francesco Saverio Della Bruna, nonno-( aveva

partecipato ai moti carbonari del 1920/21 con i Gen.li Silvati e Morelli).

________________

Si erano conosciuti nel Tribunale di Avellino, perché nonno era Cancelliere

Capo della sezione di Corte d’Appello, mentre Zio Peppino De Silva era il

Procuratore del Re (ora sarebbe della Repubblica !) della medesima

struttura giurisdizionale.

Entrambi erano diventati amici e l’amicizia era rafforzata da quella affinità

di parentela sopraggiunta con il matrimonio tra mio padre e mia madre.

Entrambi erano persone speciali e avevano congiuntamente intuito che

un “certo” bambino, poteva aver bisogno della loro guida esemplare e

14

culturale. Li ricorderò sempre come uomini ricchi di saggezza e di una

grande esperienza per la loro pregressa e intensa vita professionale e

sociale.

Così utilizzando il loro tempo libero, iniziarono a farmi da “ciceroni”

accompagnandomi a visitare gli angoli più interessanti e storici della città.

La prima volta, iniziammo l’escursione dalla nota Piazza della Libertà e

percorremmo il Corso Vittorio Emanuele III, o antica Strada dei Pioppi. In

origine era una larga via, voluta dai Borboni, introdotta ad est da una

antica porta, ora non più esistente, detta Porta ”Napoli”, perché portava

in direzione di quella grande città, e si ergeva all’altezza del palazzo del

Governo, chiudendo architettonicamente la attigua piazza dei Caracciolo.

Proseguendo invece verso ovest, il Corso giungeva fino al rione,

cosiddetto Speranza, dove fu poi istituita la importante Caserma militare

dell’Esercito, ex Scuola Allievi Ufficiali ”Avellino”. Quella parte

conclusiva del percorso era chiamata, con espressione popolare, “fore ‘e

chioppe” (fuori o oltre i Pioppi). L’ampiezza straordinaria del Corso e i

caratteristici lampioni, a quattro globi, uno in alto e tre al di sotto a forma

di grappolo, denominati “le Pastorali”, bellissime anche se installate in

epoca…“infausta”, impreziosivano i palazzi settecenteschi che si

elevavano sui due lati per tutto il tragitto fino all’Orto botanico e

15

all’imponente edificio che fronteggiava l’ingresso di quella Villa e la sua

recinzione monumentale antistante alle secolari piante di Plantani e

Ippocastani.

Era quella la sede storica del glorioso Liceo Classico ”Pietro Colletta”, a

quattro piani, decorati con stucchi e balconate imperiali e sormontati al

centro della facciata da un grande orologio, che scandiva, col suono di

una armoniosa campanella, ogni quarto d’ora, il tempo che scorreva

inesorabile, ma con la gioia dei numerosi Allievi. La poverina fu però

vittima di sequestro dimostrativo, per rappresaglia ideale, al tempo delle

proteste e manifestazioni studentesche avvenute in tutta la Nazione in

favore della Città di Trieste ”libera”. Gli Inglesi, che ne detenevano il

Protettorato, in base ai trattati di ”pace“ del 1945, non si decidevano a

lasciarla annessa alla martoriata Italia post-bellica della quale Trieste era

assolutamente parte integrante. Il 6-X-1954, con decisione internazionale

Trieste fu restituita agli Italiani e la campanella fu resa al nostro Liceo!

Il Corso era il luogo dello “struscio avellinese”, degli incontri sociali, delle

16

rumorose frotte di ragazzi festanti, dei bar rinomati con i tavolini,

posizionati all’esterno nella stagione favorevole, dove si consumavano il

”latte di mandorla”, l’”orzata” o il “succo di tamarindo”, bevande tipiche

dell’epoca. Per rinfrescarsi invece si potevano gustare i sorbetti e le

granite al limone o alla fragola e il delizioso gelato denominato “ lo

spumone” o la cosiddetta “coviglia“ servita in un bicchiere di acciaio al

quale aderiva sull’interno uno strato di cioccolata fondente e nel mezzo

vari gusti gelati con un nucleo centrale di pan di Spagna, imbevuto di

liquore cordiale, piuttosto annacquato! Ne ricordo uno di quei Bar Caffè:

aveva l’insegna che manifestava un invito inequivocabile: ”Al Polo Nord”.

La “cassata” la gustavamo il 15 agosto con mio cugino Sergio e suo padre.

I due miei “Spiriti Guida”, durante il percorso, non mancarono di farmi

visitare la Chiesa del Rosario, tempio di stile “gotico moderno” con la

facciata decorata con guglie e tabernacoli di un imprecisabile indirizzo

architettonico. Lì, avrei preso la mia Prima comunione, dopo aver

frequentato il corso di catechismo, grande occasione di nuove

conoscenze e aggregazione con tanti ragazzi della mia stessa parrocchia.

Era ormai l’imbrunire e i miei non più “atletici e maratoneti”

accompagnatori stabilirono che “la mia giovane età richiedeva di

affrettare la ritirata” e malinconicamente guadagnammo la strada di

casa, programmando per fortuna una prossima tappa “turistica”.

17

E così dopo qualche giorno, attraversando la ben nota Piazza della Libertà

e il famoso “stretto“, giungemmo, tutti e tre, in un piccolo piazzale, Piazza

Centrale, dove erano concentrati i tre più noti ed importanti Monumenti

della Città. Mi riferisco all’ antico palazzo della Dogana, il cosiddetto” Re

di Bronzo” e la Torre dell’Orologio, tutti realizzati dal grande architetto

bergamasco, trapiantato temporaneamente a Napoli e, per creare queste

stupende opere, ad Avellino. Parliamo di Cosimo Fanzago.

La Dogana, edificata nel XIV° secolo, originario deposito delle derrate di

grano provenienti dalla Puglia e dirette a Napoli, nonché sede per i

pagamenti tributari e daziari, dove si fissavano anche i listini dei prezzi di

materiali vari, fu poi restaurata dal medesimo Fanzago.

Fu opera sua la sistemazione della facciata con la creazione di nicchie e

lunette per alloggiare statue di origine romanica o rinascimentale, e la

18

apposizione di iscrizioni latine e due leoni in pietra di marmo, portanti lo

scudo araldico dei Marino -Caracciolo, posti “a custodia” dell’ingresso

principale.

Costoro ne avevano curato in tal modo l’abbellimento del prospetto e la

completa ristrutturazione della struttura interna. Quell’opera, oggi, risulta

martoriata dall’incuria irresponsabile di coloro i quali dovrebbero

combattere fino all’impossibile per la sua conservazione!

Mio nonno e zio Peppino, intanto, facevano a gara a chi riuscisse a

fornirmi il maggior numero di notizie storiche su quel gioiello

architettonico, che costitutiva una delle visioni fantastiche della Città.

Passarono quindi a raccontarmi la preziosità della Torre dell’Orologio e

del secolo XVII, in cui fu edificata, sul basamento di una torre

preesistente. Detta Torre é alta trentasei metri in stile barocco, con un

orologio a quattro quadranti e graziosi puntali su tutti gli angoli del primo

e dell’ultimo livello del corpo di fabbrica. Le mie Guide raggiunsero

l’apoteosi storiografica su tutte le vicende che avevano ispirato

19

l’ideazione progettuale e la costruzione di quell’opera. Erano stanchi

ormai, quando alla fine della visita alla triade architettonica della Piazza,

vollero precisare l’anno 1668, in cui il solito Cosimo elevò la stele in onore

di Carlo III d’Angiò, figlio di Filippo VI re di Spagna, divenuto Re all’età di

soli quattro anni, dopo la morte del padre.

Era quasi notte e ancora i miei ductores entusiasti, seppur esausti, mi

descrissero il significato del rosone con fiore e foglie di natura barocca e

festaiola, l’identità discussa del medaglione alla base della stele, che forse

rappresentava la figura del Fanzago, o secondo alcune antiche cronache,

quella di Francesco Marino Caracciolo. Costui avrebbe voluto il

monumento, per ingraziarsi la simpatia del re Spagnolo regnante.

I nostri tours continuarono, nelle seguenti settimane, proseguendo da

quella precedente piazza, lungo il Corso Umberto I°, fino alla fontana di

Bellerofonte, barocca, in pietra, decorata con preziose statue romaniche

e da tre fontanini detti ”i tre cannoli”. La antistante vasca veniva usata dal

popolo anche come lavatoio o abbeveratoio per cavalli e forse anche

per…”asini cittadini”! Nel tempo purtroppo furono trafugate da

personaggi infami, mai individuati, le statue alloggiate nelle due grandi

nicchie, forse provenienti dalla antica Abellinum, e, certamente dopo il

terremoto dell’80, anche la stupenda statua di ”Bellerofonte che uccide la

Chimera”. L’acqua, che sgorga limpida e leggera, proviene da una

sorgente che scende direttamente dal vicino monte Partenio. Nel retro,

salendo per una scaletta romantica e pittoresca, giungemmo al Duomo,

cattedrale romanica del XII° secolo. Qui fu possibile ammirare una

elegante facciata neoclassica, con tre porte bronzee impreziosite dalle

formelle dell’artista Giovanni Sica, e le statue di S. Modestino, patrono di

Avellino e S. Guglielmo, patrono dell’Irpinia. La scalinata di accesso alla

chiesa è in stile barocco, mentre la sottostante Cripta, a disegno

romanico, è caratterizzata da tre navate, separate da colonne in pietra.

Contiguo, si erge il Palazzo gentilizio, De Conciliis, dove aveva soggiornato

all’età di sei anni, in una tranquilla e memorabile permanenza familiare, il

grande Victor Hugò. Riguadagnando, poi, l’adiacente Corso Umberto I°,

noi tre, come in una vaga e irriverente similitudine con i tre famosi

20

pellegrini, nel viaggio epico del Divino poeta Dante, guidato dall’Altissimo

Virgilio e con Catone l’Uticense, pervenimmo al monumentale Cimitero

della città. L’ austero ingresso a colonnato dorico, edificato su progetto

dell’architetto Luigi Obertj, conduce in particolare alle tombe

monumentali dei Caduti della Grande Guerra.

Più avanti ci spingemmo fino alla Stazione ferroviaria, ove le romantiche

Littorine a diesel ”sfumacchiavano” sui vecchi binari, che molti definivano

la “ferrovia di Cartone”. La predetta ferrovia, sospesa per motivi di scarsa

affluenza ed esigenze di ammodernamento strutturale, oggi sembra

stabilmente ripristinata, soprattutto per itinerari turistici e vinicolo-

gastronomici lungo le amene località attraversate.

Ma, l’ora é tarda, anche per il nostro paziente lettore e ci impone di dare

a questo nostro racconto una giusta conclusione e una sua “morale della

favola”. Resta tuttavia l’obbligo, come ultima testimonianza del Tour della

Città, di fornire la disamina dei suoi Cinematografi storici e il ricordo dei

films ai quali assistemmo durante quell’ autunno fatidico del 1949. Anche

queste ulteriori esperienze di svago, furono importanti occasioni di

formazione culturale per un ragazzo, quasi adolescente, alla ricerca della

propria identità intellettiva e affettiva.

In verità, al Cinema “Eliseo”, che era allocato nella sede dell’ex G.I.L, nella

Villa Comunale, andai con zia Olga ad assistere al film “ Le favolose

avventure di Gulliver”, nel Pese di Lilliput. Quanto soffrii nel vedere quel

gigante buono, prigioniero dei minuscoli Lillipuziani e quanto vera risultò

quella storia. Tante volte, nel corso della mia vita, ho dovuto costatare

come individui di scarsa statura possano soggiogare giganti, tali per valori

culturali ed etici.

Al Cinema ”Umberto”, da sempre allestito nel Palazzo della Dogana,

allora proiettavano “Sangue e Arena”, tragica storia di un grande torero

che irretito da vili personaggi fu trascinato alla distruzione di tutti i suoi

valori etici e religiosi, nella Spagna di più di un secolo fa.

Non posso tacere di un altro affermato capolavoro,” Via col vento”,

esemplare vicenda di vita vissuta, molto apprezzato per la grandiosità

della interpretazione degli attori protagonisti e per gli effetti scenografici,

21

straordinari per l’epoca. Quella storia americana è certamente la sintesi

dei valori ottocenteschi che in passato hanno reso grandi gli Stati Uniti

d’America.

Ma il ricordo più rilevante e significativo va a quella piovosa domenica di

autunno, in compagnia dei due miei cari e indimenticabili cugini Sergio ed

Ela. Alla loro memoria dedico questo racconto, per tutto ciò che anche

loro seppero donarmi in un momento importante della mia vita.

Nell’accogliente e moderno “Cinema Teatro Giordano”, al Corso Vittorio

Emanuele, nella insperata e inconsapevole felicità, riconquistata alla

nostra giovane età, noi, affettuosamente insieme, assistemmo alla

proiezione di un film dal titolo oltremodo profetico e simbolico:

DOMANI…E’ UN ALTRO GIORNO

___________________

Una Storia, con intenti umilmente culturali per i cenni a capolavori artistici e architettonici di una Città

Capoluogo della nostra bella Italia, non può concludersi senza una adeguata illustazione dei luoghi e delle

principali strade che danno lustro e nobiltà di valori.

La fontana di Bellerofonte nel XIX secolo.

22

Piazza della Libertà Monumento ai Caduti della guerra ’15-’18

Corso Vittorio Emanuele-bombardamento del 14 settembre 1943

23

IL DUOMO

24

Piazza della Libertà nel 1800

25

La fontana, dopo il 1980, privata di alcune statue e Stemma frontale

26