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Michele Egli Luci e ombre

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  • Michele Egli

    Luci e ombre

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    I.

    Con un’adolescenza poco felice alle spalle ed un’infanzia della quale non serbavo nessun bel ricordo, non potevo resistere al fascino del college di Erie. Erie distava più di duemila chilometri da casa mia e si trovava a più di millecinquecento chilometri da qualsiasi persona che io conoscessi. Ero uno “straniero” lontano da casa, sconosciuto ed enigmatico. Nessuno mi conosceva ma tutti, ben presto, mi riservarono un piccolo spazio nei loro pensieri. Cosa poteva mai farci un californiano di L.A. ad Erie, nel college di una piccola città della Pennsylvania? Che cosa pensavano di me? Credevano che avessi problemi con la giustizia, che fossi un testimone del F.B.I. sotto sorveglianza o chissà cos‘altro. Tutti mi guardavano con ingorda curiosità. Io non facevo che stimolare la loro immaginazione perché facevo il solitario e passavo le notti in camera con la luce accesa a leggere o nei boschi lì attorno a passeggiare alla luce dei lampioni. Andavo a lezione, studiavo magari una mezz’ora in biblioteca e poi mi rifugiavo nella mia stanza o andavo a leggere nel bosco. Fin da piccolo sognavo sempre di andare in qualche scuola, liceo o college che fosse, e di sedermi in fondo all’aula, non parlare con nessuno e non essere disturbato da nessuno. Andare a lezione e poi sparire come un fantasma. Era quello che stavo facendo ad Erie. Non conoscevo ancora nessuno ed ero ad Erie da ben due mesi. I miei corsi di letteratura inglese erano iniziati da poco più di un mese e da allora solo il ragazzo che sedeva alla mia sinistra a letteratura, Bred, mi aveva rivolto la parola. Io però avevo replicato alle sue domande e alle sue osservazioni come un automa e gli avevo fatto perdere interesse ad instaurare un rapporto con me. Non credevo di volere una vita da eremita, altrimenti non sarei andato al college ma sarei andato a vivere su di una torretta in cima ad una collina ad avvistare gli incendi nella foresta. Non mi era rimasto molto di L.A. I miei genitori erano ai margini della mia vita e, ora che non vivevo più con loro e non avevo più nulla da dare a loro e loro nulla da dare a me (anche il mio sostentamento era garantito da una borsa di studio completa e dall’eredità dei miei nonni), sempre più diventavano immagini sfocate di un passato che volevo solo dimenticare. Si potrebbe pensare, a ragione forse, che dopo diciotto anni un po’ apatici potessi avere una gran voglia di divertimento. Alcool, droghe, feste tecno e cose del genere. Ma non era così. Ero rimasto al solito tran-tran di L.A., città alla quale pensavo solo per due motivi: Simone e Jennifer. Simone era la ragazza che aveva trafitto il mio cuore anni addietro e Jennifer era la mia migliore amica. A guardare la mia vita con distacco, con gli occhi di qualcun altro, mi chiedevo come potesse esserci una ragazza fantastica come Jennifer nella mia vita. Spesso qualche ragazzo che alloggiava nel mio stesso dormitorio, una palazzina semplice a tre piani con una cucina per piano e un bagno in ogni stanza, mi trovava ad uno dei telefoni pubblici dell’Hope House, così si chiamava il dormitorio, attorno alle due di mattina intento a telefonare a Jennifer, a sei ore di distanza. E la responsabile del piano, una certa Samantha, mi lasciava numerosi biglietti sulla porta. Biglietti recanti il messaggio “Richiamare Jennifer„. Mi ricordo quando dissi a Jennifer della mia decisione di studiare ad Erie. Non era affatto delusa, certo era triste ma non lo diede a vedere. Mi disse, pressappoco quello che le avrei detto io se fosse stata lei ad andarsene, che se io ero convinto lei era favorevole. Ma pensava anche che mi

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    avrebbe fatto bene cambiare aria, anche se questo non significava andare dall’altra parte degli U.S.A., perché a L.A. giravo come uno zombie e non sembravo affatto felice. - Forse,- mi disse - laggiù potrai cambiare, avere un rapporto diverso con il prossimo, far provare anche ad altri il piacere della tua compagnia. Per fortuna tutto quello che sapeva della mia vita ad Erie le giungeva dalle mie labbra. Non le dissi mai bugie ma tendevo a parlare più della scuola e delle cose interessanti che apprendevo e degli splendidi boschi che incorniciavano il paesaggio, che della mia solitaria vita tra le quattro mura della mia stanza. Jennifer stava studiando per diventare grafica pubblicitaria ed ero molto contento per lei. Non credevo che lei lo fosse altrettanto per me, perché temevo che avesse intuito che la mia vita ad Erie procedeva quasi di pari passo a quella trascorsa a L.A. La prima settimana di college giravo senza walkman. A L.A. non ne avrei fatto a meno, ma qui era divertente sentire gli altri bisbigliare alle mie spalle quando li superavo o addirittura parlare apertamente di me a pochi passi dalla mia persona. Ben presto però questa attività perse tutto il suo fascino. Ripresi ad usare il walkman e così tornai ad essere solo. A lezione non c’era tempo per chiacchierare, e se c’era io non davo agli altri l’impressione di volerlo fare, e fuori dalle aule vivevo in un altro mondo, fatto di Pearl Jam, Nirvana e R.E.M. a tutto volume. Anche se qualcuno avesse gridato il mio nome a due passi da me sarei rimasto all’oscuro di questo tentativo di comunicare con me. Quel giorno, un mercoledì soleggiato e caldo che mi rendeva ancora più cupo e depresso (perché potevo anche sembrare felice, non sempre, agli occhi di un osservatore estraneo, ma non lo ero), avevo finito la scorta di batterie per il Walkman e così mi trovavo in buvette a bere una Coca-Cola, in balia di qualsiasi rumore. Le voci degli altri clienti della buvette mi avevano fatto venire mal di testa e non riuscivo a concentrarmi sulla lettura di un libro di Byron. Avrei voluto alzarmi e rifugiarmi nella mia camera ma anche questa semplice operazione, e il dover percorrere i duecento metri che separavano l’edificio principale dell’Università dalla mia camera, mi sembrava uno sforzo impensabile. E nemmeno scendere un piano di scale per rifugiarmi in biblioteca era alla mia portata quella mattina. Mi convinsi che dieci minuti più tardi, quando sarebbero iniziate altre lezioni, sarei rimasto con pochi altri, seduto in buvette. Ma così non fu, e mezz’ora dopo guardavo fuori dalla finestra della buvette pensando alla mia camera e al mio letto. - Scusami.- sentii dire. - Hei.- sentii poco dopo. Mi voltai, ma non credevo dicessero a me. Chi poteva rivolgermi la parola? Non conoscevo nessuno... - Posso sedermi?- mi chiese una ragazza sul metro e settanta con degli splendidi ricci biondi. - Non ci sono molte sedie libere...- si giustificò. - Prego.- le dissi indicando la sedia senza nemmeno rivolgerle un sorriso. A L.A. lo avrei fatto ma ora ero ancora più depresso che a L.A. Stavo per tornare con lo sguardo fuori dalla finestra quando la ragazza riprese a parlarmi. Si era seduta di fronte a me. Ci separava un tavolino rotondo di circa settanta centimetri di diametro. - Vivi alla Hope House, vero?- mi chiese gentile. “Se quello lo chiami vivere…” pensai guardandomi bene dal dirlo. - Sì.- risposi, invece, freddo ma curioso. Forse veniva compilato un dossier su di me e tutti ne ricevevano una copia settimanalmente od ogni due settimane. - Anche tu?- chiesi, appunto, per curiosità. Lei parve sorpresa che io le rivolgessi una domanda. Mi chiesi se era questo che vedevano tutti in me... un eremita che aborriva qualsiasi contatto con gli estranei. Ricordai un film... Forse lei si era seduta con me per una scommessa. Aveva

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    scommesso con delle amiche che io non le avrei parlato? Mi guardai intorno per vedere se eravamo osservati. Per la verità, per un momento, ci guardarono quasi tutti (potevano essere circa una cinquantina i clienti della buvette in quel momento) ma ritenni che era ovvio essere sorpresi di vedere qualcuno al mio tavolo. - Sì. Abito anch’io lì. Te n’eri accorto?- replicò la ragazza. Io guardavo gli altri clienti della buvette. - Sinceramente no.- le risposi guardandola senza sentimento.- Non ho notato nessuno eccetto quel punk con il crestone rosso.- dissi. La ragazza rise sinceramente divertita. Io la guardai ancor più confuso e stupito. Non volevo fare una battuta. Certo, per la verità poteva sembrare che io... Le sorrisi. - Io mi chiamo Jasmine.- mi disse porgendomi la mano. Era la prima persona qui ad Erie che mi porgeva la mano. Stava cambiando qualche cosa? Da oggi sarebbe stato tutto diverso? Le strinsi la mano pensando che dovevo aspettare fino a stasera per dirlo a Jennifer. - Michael Stebbins.- mi presentai. Mi sorrise, una versione mimica del “piacere”. Contraccambiai il sorriso e mi chiesi che cosa potesse pensare lei del mio totale mutamento. Chiacchierammo per un quarto d’ora. Lei veniva da N.Y., città che mi affascinava parecchio (non l’avevo ancora visitata ma ero sicuro che mi sarebbe piaciuta molto più di L.A.), e studiava recitazione. Era qui, e non a Broadway, poiché anche Erie aveva una buona fama nel suo piccolo, non era carissima e le permetteva di vivere lontano dai suoi, anche se non così lontano. Ero stordito e la mia apatia mattutina non era ancora stata debellata, altrimenti credo che avrei perso la testa per quella ragazza anche solo dopo quei quindici minuti che avevamo condiviso ad un tavolino pieno di libri di letteratura miei, un grosso libro di recitazione suo, le sue sigarette e il portacenere con due mozziconi spenti all’interno. Io non dissi nulla di me, se non che abitavo a L.A. e studiavo letteratura inglese. Mi limitai ad ascoltarla e a commentare quello che mi diceva. Non diedi l’impressione di essere loquace ma senz’altro dopo questo incontro l’immagine che lei aveva di me uscì rivalutata in meglio. Jasmine scappò, volatilizzandosi tanto da farmi dubitare di averla veramente conosciuta e non solo sognata addormentato al tavolino (ma i mozziconi di sigaretta erano la prova della sua presenza), dicendo che aveva un appuntamento con un’amica per andare a fare shopping a Buffalo. Scesi ed uscii dall’edificio principale, che era chiamato Planet, e passeggiai a lungo nel prato che divideva il Planet dalla Hope House, il bosco dalla mensa. Il mio stomaco reclamò per la fame e allora tornai alla mia camera, lasciai libri e appunti e andai alla macchina, lasciata al posteggio pubblico dietro la mensa, di fronte alla biblioteca principale, un grosso edificio di sei piani tutto vetrate divise da minuscoli pilastri di acciaio. Un edificio piuttosto orrendo e sinistro. Salii sulla mia Chevrolet e mi diressi in città. Avevo passeggiato a lungo ad Erie prima dell’inizio dell’Università ma non mi ero mai fermato in un bar e nemmeno ero entrato in qualche negozio. Decisi di trovare un ristorante e di mangiare lì, sollevato dall’aver conosciuto Jasmine. Quel pomeriggio vagai con la macchina lungo le strade di campagna. Pensai ai picnic fatti con Jennifer, al lungo viaggio da L.A. ad Erie, a Jasmine e a Simone. Mi fermai ai margini di un boschetto. La strada sulla mia destra, un fiumiciattolo e il bosco alla mia sinistra. Il sole era nascosto dalle fronde degli alberi ed io mi godevo l’ombra seduto sul cofano della Chevrolet, ascoltando il rumore del fiumiciattolo e dei pochi uccellini che cinguettavano sui rami degli alberi.

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    II. Simone era l’unica ragazza che avevo baciato sulla bocca e, se la mia memoria non mi tradiva, anche l’unica con la quale avevo fatto l’amore. La mia vita sentimentale non era incentrata su di lei... La mia vita sentimentale era lei. E da tre anni non la vedevo più e non sapevo dove abitava ne conoscevo il suo numero di telefono. Erano tre anni che lei era uscita dalla mia vita ma in realtà ne avrebbe fatto parte per sempre, come anche i miei genitori e il bidello delle scuole elementari. Ma lei era stata un raggio di luce nella mia tetra esistenza e se non avessi conosciuto Jennifer probabilmente ora sarei sottoterra, dopo essermi sparato in fronte o tagliato le vene. Jennifer sapeva di Simone, sapeva tutto di me. Io, però, dopo essermi sfogato con lei ed averle detto tutto di me e Simone, non avevo più parlato di lei. E Jennifer non aveva mai fatto il suo nome. Certe volte, però, io troppo giù o con gli occhi stanchi e arrossati, vedevo Jennifer guardarmi con una strana espressione e in quei momenti entrambi pensavamo a Simone. Al liceo facevo orari folli. Mi alzavo alle sei di mattina e mi addormentavo verso le due della mattina successiva. Dormivo quattro ore per notte, ma a volte anche di meno. Dopo scuola studiavo (ero l’unico intenzionato a prendere una borsa di studio) fino a quando crollavo dal sonno. Poi telefonavo a Jennifer o c’incontravamo per bere qualcosa. Verso le undici, o al più tardi a mezzanotte, comunque ero a casa e iniziavo a leggere o a scrivere romanzi mai terminati. Alle due o poco dopo crollavo e spesso mi svegliavo vestito, sommerso da fogli e libri, con i vestiti tutti stropicciati e i segni del cuscino o di un libro sul viso. In tutte queste ore passate a casa lo stereo era sempre acceso e dalle sei alle sette di mattina me ne rimanevo a letto ad ascoltare musica, sdraiato a letto e al buio. Poi mi alzavo, facevo una doccia, mi vestivo o mi cambiavo e andavo al liceo. Quest’ultima estate l’avevo passata folleggiando con Jennifer. Andavamo in discoteca, nessuno di noi due ballava molto (io meno di lei), in un bar o semplicemente ci trovavamo a casa sua o a casa mia a parlare fino a quando iniziava a fare giorno. A volte passeggiavamo pomeriggi interi, altre volte, quando io ero troppo giù, stavamo al telefono per ore. Facevamo le ore piccole sempre, ma sempre dormivo almeno sei ore per notte, a volte anche otto. Qui ad Erie avevo ripreso gli orari folli del liceo ma non mi ero ancora abituato. Non mi stupii di essermi addormentato sul cofano della mia Chevrolet, ai piedi del boschetto e al riparo dai raggi del sole. Mi svegliai verso le sei con il segno della cunetta che corre al centro del cofano sulla guancia destra e la consapevolezza di avere saltato quattro ore di lezione. Scesi fino al fiumiciattolo a sciacquarmi il viso, sperando che nessuna fabbrica scaricasse i suoi rifiuti in quell’acqua, e mi riavviai verso l’Università, tutto sommato felice. Entrai nella mia camera verso le sette. Dovevo aspettare ancora almeno sette ore per telefonare a Jennifer altrimenti, con la storia del fuso orario, non l’avrei trovata. Aprii la finestra lasciando entrare l’aria che non era ancora quella fredda di novembre ma che mi aiutò a svegliarmi, dopo il sonnellino pomeridiano. Entrava ancora un po’ di luce nella camera ma già intravedevo la luna in cielo e le stelle sarebbero state visibili entro un’ora. Mi misi a studiare e il tempo passò in fretta. Arrivarono le due ed io non mi accorsi del freddo che entrava dalla finestra da me lasciata aperta né dello stomaco che reclamava un pasto. Cena o colazione? Ero stanco, mi alzai dalla scrivania e allora mi decisi. Andai in cucina. Camminai per il corridoio del terzo piano della Hope House a piedi nudi sulla moquette, con indosso jeans e maglietta. In

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    cucina aprii il frigo. C’era solo una mela di mia proprietà. La presi e presi anche una lattina di Coca-Cola che non mi apparteneva. Sulla porta del frigo erano attaccati dei biglietti autoadesivi e una penna. Scrissi su di un biglietto queste parole: “Ti devo una lattina”. Attaccai il biglietto alla confezione da sei lattine, che ora erano diventate cinque, e chiusi il frigo. Dopo la stanchezza, la fame e il freddo mi accorsi anche dell’ora. Percorsi il resto del corridoio verso le scale che portavano agli altri piani. Sul pianerottolo, accanto all’uscita di sicurezza, c’era il telefono con cui avrei chiamato Jennifer. Riempii il telefono di monetine e composi il numero di Jennifer. Rispose dopo una decina di squilli. - Ciao.- dissi. - Ciao.- rispose lei contenta, riconoscendo la mia voce. Erano due giorni che non ci sentivamo. Troppi per lei e soprattutto per me. Non volevo sminuire i sentimenti che provava nei miei confronti ma forse lei era più importante per me di quanto io non lo fossi per lei. - Come stai?- le chiesi. - Benissimo. E tu?- domandò a sua volta, curiosa. Forse sentiva nella mia voce qualcosa di diverso. - Bene.- risposi.- Ho conosciuto una ragazza.- Verso di stupore di Jennifer. - Non mi piace.- mi affrettai a dire. Quando non ero troppo preso a guardarmi le punte delle scarpe, rimanevo colpito da molte ragazze.- Sì, mi piace ma non ho pensato subito di mettermi con lei.- aggiunsi per spiegare meglio la situazione. - Come vi siete conosciuti?- mi chiese. Le raccontai tutto. - Sono contenta.- mi disse quando ebbi finito. - Lo so.- dissi.- Ero quasi più felice perché sapevo come l’avresti presa che per il fatto di averla conosciuta...- Risatina di Jennifer. Rimasi in silenzio. Cinquemila chilometri sono molti e due mesi senza vederla... troppi! - Mi manchi.- confessai. - Lo so. Anche tu mi manchi, molto.- - Scusami.- le dissi.- Non dovrei fare certi discorsi... e poi è colpa mia.- - Smettila.- si finse arrabbiata per i miei discorsi. Risi. - Pensi che vi rivedrete?- mi chiese all’improvviso. - Io e Jasmine?- chiesi più a me stesso che a lei.- Può darsi, cioè... sì. Ma non so se diventeremo amici o ...- - Lo siete già. Dimmi come continua, ok?- - Certo. Com’è andata ieri e oggi?- le chiesi dopo mezz’ora di conversazione. Ero a disagio. Rise. - Bene. Ma te lo racconto domani, ok?- - Ok. Scusami.- - Non iniziare.- disse scherzando.- Ti chiamo io.- continuò.- Alle dieci?- - Ma sei a scuola.- reclamai.- Chiamami alle due. Sarò qui ad aspettare la telefonata.- - Non riuscirò mai a capire come fai a dormire così poco.- disse quasi frustrata.- Allora a domani... Buonanotte.- - Sogni d’oro.- le augurai. - Anche a te.- Appesi il telefono. Rimasi a guardare il telefono con il sorriso in volto. Guardai le rampe della scala illuminata e le deboli luci che invece illuminavano il corridoio. La mia camera era la penultima sulla sinistra, affacciata sul Planet. Tornai alla mia camera addentando finalmente la mela.

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    Mi svegliai alle cinque. Dai segni sul viso e dalle occhiaie giudicai di aver dormito ben poco. Avevo lezione alle nove: francese. Due ore e poi avevo letteratura. Decisi di starmene a letto e saltare francese. Così feci ma quando mi svegliai, (mi ero infatti addormentato sebbene non ne avessi avuto l’intenzione), era mezzogiorno e ormai avevo saltato anche letteratura. Mi feci una doccia, ci voleva, e andai in buvette. Nei corridoi della Hope House c’era fermento. Gente che andava e veniva. Si prendevano i libri per la lezione successiva o ci si liberava semplicemente di libri e appunti per poi andare a pranzo in mensa o in città. Mentre scendevo le scale mi chiesi se avrei incontrato Jasmine. Arrivai in buvette. Cercai con lo sguardo Jasmine ma non la vidi. Andai a sedermi al solito tavolo. Era sempre libero, forse perché tutti sapevano che io mi sedevo lì. Non era certo venerazione, forse compassione... Cercai nello sguardo degli altri ragazzi seduti in buvette qualche segno di cambiamento. C’era qualcun’altro che stava per farsi avanti per conoscermi? Mi alzai e andai al bancone ad ordinare un toast. Tornai al tavolino con una Coca-Cola e una mela. Il toast sarebbe stato pronto in due minuti. Presi a leggere Ford. Forse per il libro, o forse per l’assenza di Jasmine... non so per quale motivo ma non c’era più in me parte della felicità della scorsa giornata. Non era stato tutto un sogno? Bred entrò in Buvette. Di solito lo avrei ignorato, salutandolo solo se lui mi avesse visto, ma questa volta alzai il braccio per attirare la sua attenzione. Mi salutò a disagio, impacciato, e s’incamminò verso il mio tavolino. - E’ la prima volta che salti letteratura.- disse, acuto osservatore, ancor prima di essersi seduto di fronte a me. - Ho ritenuto più interessante dormire, questa mattina.- raccontai. Si poteva dire che fosse la prima volta che gli rivolgevo la parola. Mi guardò. Un misto di stupore e divertimento. - Saggia decisione.- dichiarò. Mi chiamarono per il toast. Bred era ancora seduto al tavolino al mio ritorno. Addentai il toast. - Ti ricordi l’ultima lezione?- mi chiese. Annuii, concentrato. - Se me la spieghi, io ti spiego la lezione di oggi.- propose. - Ok.- dissi. Ero contento. Per la proposta e perché odiavo perdere lezioni. Bred mi permetteva di riparare al danno fatto. - In biblioteca?- proposi. - D’accordo.- disse alzandosi. Lo guardai meravigliato con il toast in bocca. Lo riguardai interrogandolo. Intendeva andare in biblioteca immediatamente? Mi fece cenno di sì con la testa. Voleva proprio andarci in quel momento. Mi alzai racimolando le mie cose. Lo seguii fuori dalla buvette. Studiammo fino all’inizio delle lezioni pomeridiane e poi dovemmo precipitarci in aula per non arrivare in ritardo. Mentre ascoltavo il professor McGregor parlarci della vita sociale nell’1800 in America e in Inghilterra, pensai a Bred. Adesso mi sedeva accanto, come sempre, ma per la prima volta lo sentivo vicino. Ogni tanto scambiavamo qualche commento sulla lezione... In realtà, con la giusta compagnia, ero anch’io capace di chiacchierare e scherzare durante una lezione ma comunque tenevo molto a non perdere nulla d’importante di quello che veniva spiegato. Ora che io e Bred avevamo trovato un certo dialogo, fui piacevolmente sorpreso dal fatto che, malgrado entrambi (lui forse più di me) avessimo tanto da comunicare, Bred fosse uno studente serio e attento quanto lo ero io.

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    Anche se ci scappava qualche commento che ci faceva ridere a crepapelle restavamo con un orecchio attento alle parole del professore ed eravamo, senz’altro, tra gli studenti più attenti. Finita storia contemporanea Bred si volatilizzò. Aveva, mi disse, appuntamento dal dentista ed era già in ritardo. Io mi ritrovai in buvette, sempre con la speranza di incontrare Jasmine. Io e Bred non avevamo parlato molto di noi stessi visto che eravamo impegnati a studiare, eravamo quindi ancora quasi degli sconosciuti, ma avevo avuto modo di capire di che pasta fosse fatto. Era simpatico e gentile. Non era chiuso come lo ero io ma non era immaginabile vederlo seduto ad una tavolata a parlare con foga davanti a venti persone che lo ascoltavano attente. Mi domandai se anche Bred abitasse alla Hope House sebbene non l’avessi mai visto tra quelle mura, ma del resto non vi avevo visto nemmeno Jasmine. Stavo leggendo “La mascherata della Morte Rossa”, uno dei miei racconti preferiti, scritto da Edgar Allan Poe, quando sollevai lo sguardo, prendendomi una pausa dalla lettura, e scorsi Jasmine passare davanti all’entrata della buvette, lungo il corridoio. Analizzai in tutta fretta le possibilità che mi si presentavano. Potevo tornare al racconto (stavo arrivando al punto cruciale, e più interessante) facendo finta di nulla o potevo prendere le mie cose e correre in corridoio per raggiungerla. Forse, però, Jasmine era in ritardo per una lezione e non sarebbe servito a nulla raggiungerla... Mi alzai chiudendo il libro di Edgar Allan Poe. Impilai in fretta il libro di Byron sotto quello di E.A. Poe e quello di Ford sopra al libro di testo di letteratura e corsi attraverso la buvette. Piombai nel corridoio e dovetti frenare per guardare nella direzione in cui era scomparsa Jasmine. Ero fermo in mezzo al corridoio, appena affannato, e guardavo Jasmine che mi guardava a meno di due metri da me. Aveva superato la buvette e si era fermata a leggere gli annunci lasciati dagli studenti su di un pannello appeso alla parete del corridoio. Jasmine mi sorrise. Pensai, in un momento di follia, di riprendere la corsa (non era da molto che mi ero fermato...), salutare velocemente Jasmine e fingere di essere in ritardo per un appuntamento. Ma era folle e dalla mattina di ieri la cosa che più volevo era passare del tempo con questa ragazza. Sorrisi a Jasmine che mi osservava divertita e la salutai. Lei non cessò di guardarmi divertita ed io non riuscivo a dissimulare il mio imbarazzo. Mi portai una mano al volto come a volermi nascondere. - Ti ho vista passare...- spiegai. Lei rise. Io mi sentii stupido. Avevo già dato l’impressione di volere qualcosa di più dell’amicizia, mentre ancora non ci avevo pensato... - Come stai?- mi chiese con la sua voce dolce. Mi dava una calma inusuale sentire quella sua vocina. - Bene.- le dissi. Era vero! Ed era strano. Mi ritrovai a pensare a quante ore mancavano alla telefonata di Jennifer ma Jasmine mi stava parlando. - Scusa?- chiesi imbarazzato. - Siamo con la testa tra le nuvole?- mi chiese. Sollevai le spalle non sapendo bene se volesse alludere a qualcosa... - Hai lezione Michael?- Mi soffermai a guardarla. Indossava una gonnellina nera corta, un pull bianco piuttosto aderente e collant neri. Feci finta di guardarmi il piede sinistro che muovevo come se mi facesse male e notai che anche lei calzava un paio di anfibi, e vidi le calze bianche di cotone che erano ripiegate sugli anfibi di qualche centimetro. Un dettaglio che mi piaceva da morire. Michael, aveva detto. Sì, era il mio nome ma mi piaceva che ogni tanto lei lo dicesse anche se non era necessario. - No.- risposi. Era passata un’eternità da quando mi aveva posto la domanda. Tornai a pensare a quanto ero stupido e di colpo ero giù di morale e avevo perso la voglia di parlare con lei. Anche stare lì con lei non mi dava nessun piacere.

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    - Ti va di fare una passeggiata?- mi chiese sorridendomi ma non ci fu bisogno che le rispondessi per farle sparire quel meraviglioso sorriso dal suo viso angelico. - Che cos’hai?- mi chiese preoccupata sfiorandomi una spalla con la mano destra. Non risposi. Temevo di essere sul punto di piangere, non ne sapevo il motivo e non avrei saputo come fare a smettere se solo una lacrima fosse scesa sulle mie guance. La testa mi esplose e adesso ero proprio in crisi totale. Cos’era successo? Vedevo Jasmine preoccupatissima. I suoi occhioni marroni sondavano il mio viso per capire che cosa mai potessi avere ed io mi sentivo ancora più in colpa ma non riuscivo ad evitare che la situazione fosse così tragica. - Senti...- mi disse con la voce tranquilla anche se sembrava un po’ spaventata. - Se non fossi passata, cosa avresti fatto adesso? Saresti andato in biblioteca? In camera tua?- - In camera mia.- riuscii a dire. - Ok.- disse lei abbozzando un sorriso. Mi porse la mano sinistra ed io la strinsi nella mia, senza quasi accorgermene. Jasmine mi condusse fino alla Hope House. Io camminavo guardando le punte dei miei anfibi come facevo quando ero triste e camminavo da solo con il Walkman a tutto volume. Scendemmo gli scalini del Planet e attraversammo il vasto prato che ci separava dalla Hope House, mano nella mano, senza dire una parola. Iniziammo a salire le scale della Hope House. Io arrancavo al fianco di Jasmine che mi osservava ogni qual volta arrivavamo ad un pianerottolo chiedendosi a che piano fosse la mia camera. Arrivammo al terzo piano e lì mi diressi verso destra dov’era la mia camera. Jasmine ed io percorremmo il corridoio sempre senza che una sola parola uscisse dalle nostre bocche. Non sapevo se Jasmine era preoccupata, a disagio o chissà cos’altro perché per tutto il tragitto fino alla mia camera non l’avevo guardata una sola volta. Mi fermai di fronte alla porta della mia camera e presi le chiavi dalla tasca dei miei jeans. Aprii la porta e guardai Jasmine per la prima volta. Non sapevo cosa mi dicesse il suo viso. - Non mi fai entrare?- chiese stupendomi. Mi scostai e la lasciai entrare. Non avevo lasciato vestiti sporchi in giro per fortuna, ma c’erano libri dappertutto. Sulla scrivania sotto la finestra, sul mio letto e anche in bagno. Sul comodino, posizionato sul lato del letto dove di solito mettevo i piedi, c’erano almeno dieci libri uno sopra l’altro. Appena entrata Jasmine si ritrovò la porta del bagno aperta, sulla destra. Camminando verso la finestra, di fronte a se, sulla sinistra c’era un armadio alto e largo che faceva parte dell’arredamento standard delle camere della Hope House. Sulla destra, superato il bagno, un comodino e, dietro, il letto che era sistemato contro due pareti, parallelamente al muro con la finestra. La sedia della scrivania era per terra. Non mi ricordavo di averla lasciata lì, quando ero uscito, questa mattina. La finestra era aperta e le pagine di un libro giravano e giravano spinte dalla leggera brezza che entrava nella mia camera. Mi sedetti sul letto disfatto (le lenzuola erano per metà per terra, così come il cuscino) e posai i libri sulla pila già presente sul comodino. Guardai Jasmine sistemare la sedia al suo posto e chiudere le ante dell’armadio. Si sedette sulla sedia in modo da potermi guardare. Fossi stato un altro avrei potuto godermi il panorama... le sue gambe accavallate con la gonna troppo corta. Ma poteva anche essere nuda, non me ne sarei accorto. - Lasciami solo.- la supplicai mentre guardavo la moquette che copriva il pavimento della mia camera. - Scordatelo.- mi disse dura. Sollevai lo sguardo, triste e cupo, e la vidi determinata. - Non uscirò da qui fino a quando tu non mi dirai che cos’hai?- spiegò. - Io vorrei dormire.- dissi. Non avevo sonno ma se fossi riuscito a dormire almeno non avrei potuto pensare...

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    - Dormi pure.- mi disse lei, tranquilla.- Io studierò qui, alla scrivania.- Si voltò e aprì lo zainetto che in precedenza aveva portato sulla schiena. La guardai sbalordito. Tolse un libro di testo e lo depose sulla scrivania. Socchiuse la finestra. Prese un bloc-notes e una penna e si sedette alla scrivania iniziando a studiare. Faceva sul serio. Mi tolsi gli anfibi e le calze e mi adagiai sul letto. Lei non si mosse né si voltò per vedere quello che facevo. Chiusi gli occhi e, con mio grande stupore, poco dopo dormivo. Mi risvegliai parecchie volte. Non ero abituato a dormire con tutta questa luce che faceva capolino nella mia camera e non riuscivo a dormire come facevo di solito. Ma del resto non sono mai riuscito a dormire bene in vita mia. Un paio di volte mi svegliai e vidi Jasmine intenta a studiare alla scrivania. Altre due volte (in un’occasione era ancora giorno, nell’altra era ormai sera) aprii gli occhi e incontrai lo sguardo di Jasmine fisso nel mio. Mi svegliai per l’ultima volta alle nove e un quarto. Jasmine dormiva con la testa su di un libro sulla scrivania, il corpo proteso verso la scrivania, seduta sulla sedia. Mi alzai muovendomi in silenzio. Mi mossi verso la scrivania e osservai il suo viso addormentato. Il mio cuore sussultò. Mi accorsi che il mio malumore era svanito e non era merito del sonno recuperato ma di Jasmine. Le accarezzai i capelli. Con delicatezza, e a disagio, le passai un braccio sotto le ginocchia e uno contro la schiena. La sollevai e lei si mosse, disturbata, ma non si svegliò. L’adagiai nel mio letto. L’avrei portata nella sua camera ma non sapevo quale fosse. Si mosse di nuovo nel sonno disturbata dal cambiamento di posizione. Si rannicchiò come facevo anch’io nel sonno e si rilassò quando trovò la zona del letto riscaldata dalla precedente presenza del mio corpo. La coprii con le lenzuola e lei mosse un braccio a stringere il lembo delle lenzuola sfiorandomi inconsapevolmente. Facendo attenzione a non svegliarla, le sfilai gli anfibi e le calze di cotone. Le lasciai collant e gonna perché sarebbe stato imbarazzante per me toglierli e per lei svegliarsi senza di essi, nel mio letto. La baciai sulla fronte e poi mi sedetti a gambe incrociate sulla moquette a guardarla. Presi un libro a caso, un libro di Stephen King che avevo letto e riletto, e iniziai a leggerlo per far passare il tempo. Arrivò velocemente mezzanotte senza che io me ne accorgessi e Jasmine dormiva serena. Mi alzai e uscii in silenzio dalla camera. In tutto il giorno avevo mangiato solo una mela e un toast e avevo una fame pazzesca. Andai in cucina e aprii il frigo. Non c’era nulla di mio, me n’ero dimenticato, e non volevo avere troppi debiti con i miei compagni di piano. Andai fino alla mensa, preferendo la buvette della mensa a quella del Planet perché c’era meno gente e non sarebbe passato inosservato il fatto che giravo a mezzanotte passata a piedi nudi per il prato dell’Università. Presi tre panini, due mele e due Coca-Cola, e ritornai alla Hope House. Mi fermai sotto la mia finestra e vidi che la luce della mia camera era l’unica accesa al terzo piano. Al secondo piano, sul lato della Hope House che dava sull’Uni, c’erano due stanze illuminate. Al primo piano tutte le luci erano spente. Salii i cinquantotto gradini che portavano al terzo piano e percorsi il corridoio fino alla mia camera. Sulla mia porta c’erano due messaggi. Uno era delle cinque del pomeriggio e l’altro delle dieci di sera e. Entrambi dunque erano già lì quando io ero uscito dalla mia camera ma io non me n’ero accorto. Il messaggio delle cinque, la telefonata era di Jennifer che mi diceva che mi avrebbe richiamato sabato perché andava via con i suoi genitori, mi era stato lasciato da Boris che non conoscevo. Il messaggio delle dieci di sera era di Bred. Mi aveva cercato per telefono. Samantha, la responsabile del piano, aveva risposto e aveva bussato alla mia porta per dirmi della telefonata ma io dovevo essere troppo assorto nella lettura del libro di Stephen King perché non avevo sentito nulla. Jasmine doveva aver pensato che sarebbe stato imbarazzante per me che lei aprisse la porta per prendere il mio messaggio. O forse era lei quella imbarazzata. Presi i messaggi ed entrai in camera. Jasmine continuava a dormire tranquilla. Decisi di fare una doccia, avevo i piedi pieni d’erba ed erano neri, e poi di mangiare. Feci la doccia e quando uscii dal bagno ero sicuro di trovare Jasmine sveglia ma lei era sempre nel mio letto, nel mondo dei sogni. Mi sedetti di nuovo di fronte a lei e ripresi il libro di Stephen King. Ne avevo letto più di un

  • 11

    quarto in precedenza. Avevo indossato una tuta nera con due sottili strisce bianche su entrambi i lati. Lessi fino alle cinque senza rendermene conto e mi ricordai dei panini e delle mele che avevo lasciato sulla scrivania. Mangiai due panini e lasciai il terzo per Jasmine, per quando si fosse svegliata. Mangiai la mela seduto al contrario sulla sedia, lo schienale contro il petto, ad osservare Jasmine. Era davvero incantevole ed era bello osservarla dormire con quell’espressione di pace che aveva in viso, raggomitolata sotto le lenzuola, un piedino che spuntava da sotto le lenzuola coperto dai collant. Io non avevo ancora sonno, otto ore prima dormivo ancora, ma mi obbligai a dormire qualche oretta altrimenti avrei accusato la stanchezza proprio a lezione. Mi sdraiai sulla moquette, con un maglione come cuscino, regolai la sveglia alle sette (avevo lezione alle dieci ma non sapevo a che ora dovesse essere in classe Jasmine) e chiusi gli occhi. Dormii profondamente pensando a Jennifer e a Simone, come al solito, ma anche a Bred e a Jasmine. Suonò la sveglia, puntuale alle sette, mi mossi per spegnerla e mi ricordai che Jasmine dormiva nel mio letto. Sollevai lo sguardo da terra e vidi lei aprire gli occhi proprio in quel momento. Mi vide per terra e la sua espressione fu buffissima e lei era comica, ma non meno affascinante, così, appena svegliata. Poi fu ancora più confusa quando si rese conto di aver dormito nella mia camera e nel mio letto. Le sorrisi e lei, con un’idea più o meno vaga di quello che era successo quella notte, mi sorrise a sua volta. - Non è successo nulla... se te lo stai chiedendo.- le dissi. Lei continuava a guardarmi con quello sguardo sornione. - Buongiorno.- dissi. - Buongiorno.- mi fece eco. Si stiracchiò allungandosi sotto le lenzuola. Io mi misi a sedere con la schiena contro la parete. Lei mi imitò mettendosi a gambe incrociate sul letto, coperta dalla vita in giù dalle lenzuola. Sentivo di doverle qualche spiegazione o delle scuse... - Mi dispiace per ieri.- iniziai.- A volte mi succede... Sei stata molto dolce a comportarti in quel modo.- - Anche tu.- replicò lei guardando il letto e i suoi anfibi posati con cura ai bordi del letto. Sollevai le spalle. Lei mi guardava intensamente. Mi alzai e aprii la finestra. - Non sapevo a che ora avevi lezione e così ho messo la sveglia alle sette.- le spiegai. - Sono le sette?- chiese poco contenta. - Le sette e dieci.- precisai. Jasmine si alzò. - Se vuoi puoi fare la doccia qui... posso andare a prenderti dei vestiti in camera tua... - proposi. Mi baciò sulla guancia. - Sei tanto caro.- mi disse.- Ma è più semplice se faccio la doccia in camera mia.- Presi il panino e la mela avanzate e la Coca-Cola. Misi il tutto in un sacchetto che le porsi dopo che ebbe raccolto anfibi e calze. - Se vuoi fare colazione...- le dissi.- Un panino con la marmellata, una mela e una Coca. Anche se forse preferisci un caffè...- - Grazie.- disse sorridendomi e se ne andò. Guardai il cielo per la prima volta, quella mattina, e sapevo già che avrei visto la pioggia cadere sul prato e sul Planet. Lo sentivo dentro di me. Mi piaceva la pioggia ed era il giusto coronamento, per me, per queste belle ore passate in camera mia con Jasmine.

    III.

    Alle dieci ero a lezione. Avevo i capelli e gli abiti bagnati dalla fitta pioggia che spazzava il prato di fronte al Planet e che cadeva fredda sulla cittadina di Erie. Bred mi guardava storto.

  • 12

    - Non sai che hanno inventato uno strano aggeggio per ripararsi dalla pioggia? Si chiama ombrello.- mi disse, sarcastico. A pranzo lasciai la sua compagnia per rifugiarmi nella mia camera. Aprii la finestra, faceva freddo ma non troppo, e ascoltai il rumore della pioggia sul tetto della Hope House. Studiai e il tempo passò velocemente. Saltai le lezioni del pomeriggio. Verso le sei, quando ormai il freddo mi era entrato nelle ossa, chiusi la finestra, misi da parte i libri di testo e presi invece un romanzo di Ford ed uscii dalla camera. Il corridoio, illuminato fiocamente come sempre, era deserto. La Hope House sembrava deserta. Percorsi il lungo corridoio e arrivato al vano scale m’imbattei in Jasmine. - Ciao.- la salutai felice di quell’inaspettato incontro. - Ciao. Dove sei stato? Ti ho cercato dappertutto.- disse lei. - E’ dall’ora di pranzo che sono in camera a studiare.- spiegai. - Allora non mi hai sentito bussare. Per ben tre volte...- sorrise facendomi capire che non se l’era presa.- Stavi andando a cena?- - No.- risposi. Ci guardammo. Ero stato piuttosto freddo, non dicendole quello che avevo intenzione di fare. - Stavo uscendo.- le dissi.- Ma senza meta.- La guardai. - Se vuoi venire con me...- - D’accordo. Grazie.- Scendemmo le scale. Lei indossava jeans, maglione, anfibi e giacca di jeans. Io jeans, maglione, chiodo e anfibi. Eravamo silenziosi. Dopo sei ore passate a studiare, mi sentivo svuotato di ogni energia ed ero a corto di idee per una conversazione. Lo stesso sembrava valere anche per Jasmine. Fuori dalla Hope House, in mezzo al prato, c’imbattemmo in un gruppo di sue amiche. - Vieni con noi?- le proposero.- Andiamo da Nick. Dà una festa.- Sembravano tutte felici all’idea della festa. Io e Jasmine le guardavamo, in piedi sotto i loro ombrellini colorati mentre io e lei ci inzuppavamo sotto la pioggia che ora cadeva leggera. - Veramente stavo uscendo con Michael.- spiegò Jasmine riuscendo nello stesso tempo a presentarmi senza lunghe cerimonie. - Porta anche lui.- propose una ragazza stupenda che sembrava uscita dalla copertina di una rivista di moda. Indossava un vestitino corto, malgrado le condizioni ambientali, e molto sexy. Aveva due gambe lunghissime ed era molto più alta di Jasmine, quasi quanto me. Jasmine mi fissò un istante chiedendomi, senza parole, di dire la mia. - Vai tu.- le dissi. Era evidente, dalla sua espressione, che voleva andare a quella festa. - O vieni anche tu... o non ci vado.- mi disse guardandomi con un’espressione di finta supplica in viso. - Andiamo.- dissi infine. Era meglio per tutti. Non le rovinavo la serata e sarei riuscito a stare con lei. Era certo la situazione migliore. E allora perché non ero contento? Presi la mia macchina e accompagnai alla festa Jasmine e due sue amiche, Helena “la fotomodella” e Patricia “l’intellettuale”. Io guardavo la strada concentrato. Era buio e la visibilità, a causa della pioggia, era scarsa e dovevo tenere d’occhio la macchina che mi precedeva con a bordo Judy, Francine e Camilla. Helena mi chiese che facoltà frequentassi e mi fece tante altre domande, quelle d’uso fare tra studenti di università. Io risposi in modo meccanico, senza enfasi, e lo capii guardando per un attimo Jasmine. Guardava a lato della macchina, fuori dal finestrino, lo sfrecciare di case, alberi e lampioni della luce colpiti dalla pioggia. Non sembrava più molto contenta di andare alla festa. - Fate gli stessi corsi di Jasmine?- chiesi. Non sapevo nulla di loro eccetto i loro nomi. - Sì.- rispose Helena, la più interessata a me. Lei veniva da Boston e Francine da Chicago. Entrambe erano fuggite dalle metropoli per rifugiarsi in una cittadina di campagna. Helena era la tipica ragazza ricca, sofisticata e altezzosa,

  • 13

    con poca classe ma, dote non necessariamente delle ragazze ricche, molto sexy. Francine non era molto carina ed era piuttosto timida. Non parlò molto nemmeno alla festa. Non so come mi aspettassi che fosse l’appartamento di Nick, comunque non pensavo di ritrovarmi ad una festa in una villetta di due piani con più di 200 invitati. Ero stordito dalla confusione, dalla musica a tutto volume e dal chiacchierio delle persone. Dopo cinque minuti non sapevo più dove si trovasse Jasmine. Mi ritrovai ben presto stretto in un angolo al primo piano, pericolosamente vicino alla porta di una camera da letto, con Helena che mi parlava con foga con le nostre labbra troppo vicine per i miei gusti. Spesso mi metteva una mano sul braccio o sul petto ed io le sorridevo imbarazzato. Mi parlò di tutto. Della sua famiglia, di sua sorella che studiava psicologia ad Harvard, dei suoi ex, dei suoi gusti in fatto di ragazzi... Alla fine mi parlò solo di sesso. Io l’ascoltavo e recepivo tutto ma non ero molto interessato, anzi cercavo solo il modo per svignarmela prima che lei mi saltasse addosso. Ero lì da tempo imprecisato, senza dubbio da più di mezz’ora, in quell’angolo, quando colsi lo sguardo di Judy, lungo il corridoio. Lei chiacchierava in modo animato con due sue amiche e ogni tanto mi lanciava un’occhiata. Era di gran lunga la ragazza che mi piaceva di più, dopo Jasmine. Non era sexy come Helena ma era affascinante per la sua semplicità, gli occhi da cerbiatto, il viso dolcissimo, i capelli castani che le ricadevano lisci poco sotto le spalle, il corpo minuto ma ben proporzionato. Mi sorrideva ed io la guardavo ancora più intensamente. Indossava minigonna e pullover grigi, con anfibi ai piedi (anche lei!). Io, lei e Jasmine eravamo gli unici a portarli tra gli invitati alla festa. Soffocato da Helena mi ritrovai ubriaco. C’erano ragazzi che passavano con coppe di champagne e bicchieri di vari drinks e birra ed io allungavo un braccio attorno al corpo di Helena e mi rifornivo in continuazione, esasperato dalla situazione, e scoprii di guardare Judy in modo sempre più intenso e con molto meno tatto, purtroppo, di quanto facevo solitamente con qualsiasi altra ragazza. Lei lo capì, non era difficile vederlo, e non sembrò affatto offesa e, al contrario, iniziò a guardarmi con la stessa intensità. Helena mi parlava di un certo Max e aveva il seno schiacciato contro il mio petto. Ma non si accorgeva che non la guardavo? Io non riuscivo più a seguire i suoi discorsi... Chi era questo Max? Il suo ex-tipo di Boston o quello di Erie? Era suo cugino, quello che faceva il brooker a N.Y.? Helena mi baciò sulla bocca. Mentre lo faceva io guardavo Judy e lei guardava me. Helena mi fissò ed io la guardai dopo molti minuti in cui l’avevo ignorata. Voleva vedere qual’era la mia reazione. - Devo vomitare.- le dissi. La scostai camminando per il corridoio con passo dondolante. Tutto l’alcool che avevo in corpo aveva fatto effetto anche perché era dalle cinque della mattina precedente che non toccavo cibo. Superai Judy, ci scambiammo un saluto, che diceva molto, e mi rinchiusi nel bagno. Era una scusa, quella del vomito, però in bagno mi resi conto che se non avessi fatto qualcosa avrei potuto aver bisogno di vomitare prima della fine della festa. Uscii dal bagno stravolto. Helena mi aveva sostituito con un tipo più basso di me che doveva stare in punta di piedi per baciarla ma che non aveva problemi, come potevo vedere con i miei occhi, a tenerle la testa tra il seno prosperoso. Judy era ancora con le sue amiche, in mezzo al corridoio, a meno di cinque metri da me. Stavo per raggiungerla quando Jasmine mi prese per il braccio sinistro, comparsa da chissà quale punto della casa. Era con Francine. Mi disse che Camilla aveva tenuto lei e Francine a bere vodka e tequila dopo che avevano tentato una seduta spiritica dagli sviluppi alquanto inquietanti. Francine aveva l’aria di essere sul punto di vomitare per terra e sembrava anche scossa, forse dalla seduta spiritica. Sembrava una balla madornale ma accantonai la possibilità che Jasmine potesse mentirmi. - Andiamo a ballare?- mi chiese Jasmine. La musica che rimbombava al piano di sotto era ben udibile anche quassù. Musica tecno.

  • 14

    - No.- le risposi.- Devo mangiare.- guardai l’orologio e mi accorsi con stupore che era quasi mezzanotte. Il viaggio in macchina era durato poco più di mezz’ora... questo voleva dire che ero stato più di tre ore con Helena! - Sono più di diciotto ore che non mangio e ho bevuto troppo.- spiegai. Francine annuì e io e Jasmine la guardammo stupiti. - Anche lei farebbe meglio a mangiare e a bersi un caffè.- osservò Jasmine. Salutai Judy con un gesto della mano, malvolentieri, e scesi le scale con Jasmine e Francine. Quindici minuti dopo addentavo una fetta di pizza in un ristorantino vicino a Jamestown. Francine iniziò con il caffè mentre Jasmine, che pure aveva bevuto tanto, mangiava tranquillamente una pizza. Divorai la mia pizza e guardavo con ingordigia quella di Jasmine, che me ne lasciò una grossa fetta. Francine ordinò un toast e quando l’ebbe finito iniziammo a parlare. Come un fidanzato in colpa raccontai a Jasmine della tortura a cui mi aveva sottoposto Helena. Non tralasciai nulla, nemmeno il bacio, ma non dissi nulla di Judy. La storia di Judy sembrava più complicata... Una volta smaltito un po’ quello che avevo bevuto, mi chiesi quanto dell’interessamento che avevo provato verso Judy fosse merito dell’alcool. - Anche un tipo voleva baciare Jasmine ma lei lo ha buttato per terra con uno spintone.- disse Francine impedendomi di capire quale fosse la reazione di Jasmine al mio racconto. Il ritorno in macchina fu alquanto silenzioso. Io pensavo a Jasmine e a Judy (almeno non avevo pensato a Simone per tutto il giorno) e mi chiedevo quale delle due mi piacesse, ma avevo ancora troppo alcool in corpo. Francine dormiva sul sedile posteriore e Jasmine a stento teneva gli occhi aperti. Dovetti portare in braccio Francine fino al suo appartamento, alla Kent House, ad un centinaio di metri dalla Hope House, nel bosco. Jasmine riuscì a trovare le chiavi dell’appartamento che Camilla divideva con Francine nella borsa di quest’ultima. Entrammo e depositai Francine sul suo letto. Aspettai in salotto che Jasmine la spogliasse e le rimboccasse le coperte e poi ce ne andammo insieme. - Ti piace Helena?- mi chiese Jasmine mentre tornavamo alla Hope House. Piovigginava ancora. Jasmine sembrava molto interessata dalla mia risposta. - No. Affatto.- le dissi. Ero sincero ma sembravo tutto l’opposto. Lo dissi triste perché non sapevo se mi piaceva Judy... E Jasmine, così credevo, voleva sapere se c’era una ragazza che mi piacesse in questo momento, oltre a lei... Dire che non mi piaceva Helena per lei equivaleva a dire che non ero interessato a nessun’altra. Ma forse Judy mi piaceva. Quando arrivammo al terzo piano della Hope House erano le tre e un quarto di sabato mattina. - Abiti a questo piano?- chiesi a Jasmine. - Forse.- rispose lei. Mi voltai per guardarla negli occhi. Lei era impassibile. - Devi ancora dirmi quello che avevi l’altro giorno.- spiegò. Scossi la testa sorridendo perché non credevo a quello che mi aveva detto. - Sei ubriaca?- le chiesi. Lei ridacchiò. - Sì, ma sono anche preoccupata per te.- disse. Ecco, pensai, la tipica frase che mi butta giù di morale... - No! No!- disse lei vedendo mutare l’espressione del mio viso. Ricordando quello che era successo l’ultima volta, mi obbligai a fare qualcosa. Presi le mani di Jasmine nelle mie. Lei tremò, per un attimo. Forse pensava a qualcosa di più intimo... Una dichiarazione? - Jasmine...- iniziai. Lei mi guardava nervosa e concentrata.- Non so cosa vuoi da me ma io sono fatto così... e adesso non posso darti nulla di più di questo.-

  • 15

    - Buonanotte.- mi disse fredda lasciandomi le mani. Si girò e scese le scale. - Jasmine.- la chiamai. - Jasmine.- gridai anche se erano le tre del mattino. La rincorsi. Lei correva. Arrivò presto all’uscita e corse per il prato. Ora diluviava. Corsi più veloce e la bloccai in mezzo al prato. La luna piena ci illuminava da sopra le nostre teste. Jasmine tentò di liberarsi ed io strinsi per un attimo la presa ma poi me ne resi conto e la lasciai. Lei si fermò dinanzi a me. Stava piangendo? Oppure era solo la pioggia? Io piangevo... ma lei lo sapeva? I suoi ricci stavano scomparendo sotto la pioggia e i capelli le si attaccavano alla fronte. Le scostai qualche ciocca per poterla guardare negli occhi. - Mi prendi in giro?- mi chiese. La guardai per interrogarla. - Perché me lo chiedi?- la interrogai. - Stai giocando con i miei sentimenti?- chiese di nuovo. - Non so quali sono i miei... come puoi pretendere che conosca i tuoi?- domandai. Ci guardammo. La sua giacca di jeans era nera, ora, lavata dalla pioggia. - Baciami.- mi disse. Scossi la testa. Era difficile per me baciarla e fare finta che non fosse successo. - Baciami.- disse più forte. Ora piangevamo entrambi, senza dubbio. - Fai l’amore con me.- disse disperata. Rimasi a bocca aperta. - Hai bevuto troppo... - dissi. Fece per andarsene ma la bloccai per un braccio. Mi tirò uno schiaffo ed io la lasciai. - So benissimo quello che sto facendo, l’alcool non mi ha annebbiato il cervello.- disse dura. Mi veniva da vomitare. Mi sentivo un verme anche se le mie intenzioni erano buone. - Fai l’amore con me o sparisci per sempre.- disse. - Non puoi fare sul serio.- esclamai. Mi guardava imperterrita.- Vuoi davvero che sparisca?- le chiesi. Non disse nulla ne mutò l’espressione del suo viso. Presi tutto il coraggio che avevo e le strinsi il viso tra le mani. Fece per liberarsi dalle mie mani ma poi si fermò. Avvicinai il suo viso al mio. Per me era difficile come la prima volta. Tremavo per il nervosismo e avevo ancora la nausea per via dell’alcool e del freddo. La baciai sulla bocca. Pochi istanti, un bacio da favola per entrambi. Mi scostai. Adesso avrei voluto abbracciarla e stringerla fino all’alba... ma non potevo. - Spero che ti accontenterai di questo.- dissi mentre le lacrime mi scendevano copiose. Erano lacrime che tenevo dentro da mesi. - Non voglio perderti perché sei fantastica e se mi ignorerai lascerò l’Università. Mi sarebbe impossibile studiare con te che mi ignori.- Feci due passi indietro per vedere la sua reazione. Era triste quanto me. Non si mosse. Mi voltai e m’incamminai verso la Hope House a testa bassa. Non ci vedevo quasi, per le lacrime, per la pioggia e per i capelli bagnati che mi erano scesi sugli occhi. - Posso dormire con te?- la sentii chiedere quasi gridando. Ero già lontano. Mi girai. - Sì.- dissi. Forse non mi udì ma mi raggiunse lo stesso e mi abbracciò. Facemmo la doccia, prima lei e poi io, e quando mi coricai, con addosso dei pantaloncini e una maglia, Jasmine, che indossava un paio di miei calzoncini e una mia vecchia camicia, si mosse nel letto e si sdraiò abbracciata a me. Ci addormentammo così, anche se io ci misi parecchio, come mia abitudine, nonostante fossi esausto e stravolto dagli eventi della notte appena passata.

    IV.

  • 16

    Mi svegliai a mezzogiorno. Sentivo che fuori pioveva ma non sapevo quanto perché avevo gli avvolgibili abbassati e non entrava nemmeno uno spiraglio di luce nella camera. Jasmine dormiva accanto a me. Rimasi a fissare il soffitto, sdraiato sulla schiena, fino a quando lei non si svegliò, un’ora più tardi. In quell’ora pensai a tante cose. Pensai all’ultima volta che avevo visto Jennifer. Avevamo pranzato facendo un picnic nel parco vicino a casa sua. Un pasto veloce e semplice, una conversazione stanca e poco vivace. Io ero contento di cambiare aria ma questo voleva anche dire abbandonare l’unica cosa a me cara di L.A.: Jennifer. Nessuno di noi sapeva cosa dire prima dell’addio che fu drammatico: io e lei che piangevamo come due fontane, l’uno abbracciato all’altra senza volerci staccare. Ed io che stavo per mandare a quel paese Erie per rimanerle vicino. Pensai all’ultima volta che io e Simone facemmo l’amore. Non era una relazione basata sul sesso, la nostra, anche perché eravamo timidi anche dopo la prima volta. Avevamo fatto l’amore circa una decina di volte. Eravamo alla fine di novembre, era notte e fuori era freddo. Eravamo nella mia camera, una camera fredda dieci mesi all’anno. Fu una notte bellissima e più delle altre volte c’era il suo corpo che era l’unica cosa che scaldava il mio, c’erano i suoi occhioni tristi che guardavano i miei e che dichiaravano la gioia del momento e la tristezza per un futuro diverso da questo. Quando Jasmine si svegliò io piangevo. Poco dopo piangeva anche lei, abbracciata a me. Non so per quale motivo piangesse, non glielo chiesi. Ci eravamo appena ripresi quando bussarono alla porta. Dissi “Avanti” istintivamente, guardando l’orologio. Era l’una e mezza di pomeriggio. Quando Bred entrò e vide me e Jasmine a letto mi resi conto di quello che avevo fatto. Guardai Jasmine che mi guardava a disagio. Non era arrabbiata. - Passo dopo, ok?- disse Bred a disagio. - No, no. Non ti preoccupare.- dissi io imbarazzato.- Bred, lei è Jasmine.- li presentai. Loro si sorrisero imbarazzati. - Sai, - continuai.- abbiamo solo dormito insieme... non farti ingannare dalle apparenze.- Mi sentii uno stupido a dire così. Potevo anche passare per omosessuale. - E’ solo che non voglio che tu ti faccia un’idea sbagliata di Jasmine.- aggiunsi, non so se migliorai la situazione. Bred mi guardava storto e Jasmine era confusa. Chiesi a Bred che cosa voleva, sconvolto da quello che avevo combinato. - Bè, - disse a disagio.- io e qualche amico andiamo a giocare a basket. Volevo chiederti se tu... anche se piove...- - Ok.- dissi io balzando fuori dal letto.- Andiamo.- Bred e Jasmine mi guardarono meravigliati. - Vieni così?- mi chiese Bred. Presi le scarpe da ginnastica in una mano e il pallone nell’altro e lo guardai, sollevando le spalle. Bred mi imitò e fece per uscire. Salutò Jasmine. Io mi mossi per baciarla sulla bocca ma poi vidi Bred alle mie spalle e le dissi solo “Ciao”. Mi guardò male. - A presto.- le dissi poi, e mi dileguai. Mentre percorrevamo il corridoio, io a piedi nudi, con i calzoncini e la maglia tutti stropicciati, Bred mi disse queste parole: - Non avrai fatto l’amore con Jasmine ma qualcosa devi averla fatta per ridurti in questo stato.- Tornai alla Hope House alle cinque del pomeriggio. Mi sedetti sul pianerottolo del terzo piano. Ero tutto bagnato per via della pioggia e avevo i piedi a pezzi ma mi sedetti lì, ad aspettare la

  • 17

    telefonata di Jennifer, sperando che visto il giorno festivo non telefonasse alle due del mattino. Risposi a sei telefonate portando i messaggi ai destinatari. Un ragazzo di nome Tom e una ragazza che si chiamava Clarissa aprirono la porta per ricevere il messaggio e furono molto sorpresi di riceverlo da me, combinato in quel modo. Alle otto e un quarto chiamò Jennifer. - Ciao.- dissi troppo emozionato. - Che è successo?- mi chiese subito senza chiedermi come stavo. - Di tutto.- spiegai.- Sono andato ad una festa con...- - Cosa?- m’interruppe lei stupita. - Mi ci hanno “trascinato”...- mi giustificai.- Ero a questa festa con Jasmine e delle sue amiche. Una di loro ci ha provato con me. Io ho bevuto perché non la sopportavo e ho perso la testa per un’altra amica di Jasmine, Judy. Adesso che sono sobrio non so dirti se mi piace o meno. Ieri notte Jasmine mi ha quasi costretto a scegliere tra fare l’amore con lei o dirle addio per sempre.- - Davvero?- mi chiese Jennifer, sempre più stupita. - Sì.- confermai. - Era brilla anche lei? E...bè, insomma cosa hai fatto?.- - L’ho baciata sulla bocca....- Jennifer emise uno strano verso di stupore.-... velocemente, e le ho detto di accontentarsi. Non volevo fare l’amore con lei perché non ero sicuro di quello che provavo e le ho detto che non volevo perderla ma che non sarei sceso a compromessi per averla...- - E lei?- chiese preoccupata Jennifer dopo che mi ero zittito. - Mi ha seguito. Abbiamo dormito insieme. E oggi sono scappato lasciandola nella mia camera. Non so cosa fare!- - Ma ti piace?- mi chiese Jennifer. - Molto. Ma non sono... Non credo di essere innamorato di lei. Non so.- dissi confuso. - Hai paura, come al solito. Devi dimenticarti di ....- Jennifer si fermò.- Scusami.- mi disse tirando su con il naso, cercando di trattenere le lacrime. Alludeva a Simone. - Non ti preoccupare. Hai ragione. Ma vedi... non offro garanzie, divento triste per niente e intrattabile. L’ho fatto anche con lei. Si è rintanata in camera mia per obbligarmi ad aprirmi con lei.- le dissi. - Che dolce!- esclamò Jennifer. - Lo so.- dissi sghignazzando. Jennifer stava cercando di convincermi a farmi avanti. Forse non se ne rendeva conto ma lo stava facendo. - Sarà anche giusto quello che dici ma senza qualcuno al tuo fianco non offrirai mai garanzie, come dici tu.- continuò Jennifer.- Lascia che qualcuno ti ami e vedrai che starai meglio anche tu.- Rimasi in silenzio un attimo, toccato dalle sue parole e dall’amore per me che rivelavano. - Ci proverò, grazie.- le dissi. - Di cosa?- scherzò lei. - Non iniziare.- l’ammonii scherzando. Ridemmo entrambi, felici di questa chiacchierata. - E tu, dimmi, come te la sei passata negli ultimi giorni? Parliamo solo di me da un po’ di tempo a questa parte.- le domandai. - Va tutto come al solito. Con i miei va così così anche se siamo stati in campagna insieme... Non mi lamento.- - Bene.- commentai. - Senti, ho ancora un paio di lezioni a scuola. Ti devo lasciare.- - Ok.- ero un po’ deluso che se ne dovesse andare. - Chiamami tu quando puoi, d’accordo? E non aver paura.- aggiunse. - D’accordo. Buona giornata.- le augurai. - Buona serata a te. Un bacione.-

  • 18

    - Anche a te. Stammi bene. Ciao.- dissi infine salutandola. - Ciao.- mi disse la sua bella vocina. Raggiunsi camera mia. Jasmine non c’era. Allora doveva proprio essersi offesa. Non la rimproveravo. Feci la doccia e mi cambiai. Fuori pioveva e una bella passeggiata nei boschi mi avrebbe fatto piacere. Aprii la porta della mia camera e davanti a me, con la mano stretta a pugno pronta a bussare, c’era Helena. Con lei c’era anche Judy. Mi affacciai sul corridoio e guardai se Jasmine era con loro. No. Ritornai all’interno della mia camera, sulla soglia. - Ciao.- dissi sorridendo. Non avevo nessuna intenzione di fare qualcosa con Helena. Ma con Judy... - Ciao.- mi salutarono in coro. - C’è una festa, questa sera. Vuoi venire?- mi chiese Helena. Avrei voluto rispondere di no. Guardai Judy che mi sorrise incantandomi. Del resto dovevo pur conoscerla per sapere se mi piaceva o meno. - Sì.- risposi. La festa era una delle solite feste del sabato sera di cui avevo sentito parlare. Si teneva, come le precedenti, dietro al Planet, in un capannone di legno. Era una festa tecno. Helena indossava uno dei soliti vestitini ultra sexy. Judy, invece, indossava jeans, anfibi e un pull di cotone bianco con giacchetta di jeans. La sera era fredda e così mi ero munito di chiodo e maglione di lana. L’alcool scorreva a fiumi e non riuscì a trovare nemmeno un bicchiere di Coca-Cola. Era obbligatorio ubriacarsi... Non c’era nulla da mangiare e la droga girava in grandi quantità. Helena rimase con me e Judy quel tanto che bastava a farmi bere cinque Martini. Judy ne prese due, insieme ad una birra. Le dissi che non era molto saggio mischiare gli alcolici ma non mi diede retta. Restammo seduti ore sui primi scalini di una scala che portava al piano superiore. Un nastro bianco e rosso però indicava che era vietato salire di sopra. Helena si scelse un ragazzo, lo sedusse e se ne andò con lui mezz’ora dopo averlo adocchiato. Judy scosse la testa vedendola uscire dal capannone con il ragazzo che le teneva una mano sul sedere. Io e Judy parlammo del più e del meno ma era come se non ci dicessimo nulla, infatti quello che ricordavo la mattina dopo, e non era colpa dell’alcool, era che lei frequentava gli stessi corsi di Jasmine. Nient’altro. Un po’ poco visto che questo lo sapevo già da un giorno. Judy si alzò e ritornò con una bottiglia di Martini. M’invitò ad uscire ed io uscii, mano nella mano con lei. Ci rifugiammo, sotto la pioggia, in un angolo del capannone. Un posto molto isolato. Si sentiva la musica tecno e bisognava parlare forte per riuscire a sentirsi. Judy bevve un lungo sorso di martini. Io le presi la bottiglia. - Hai bevuto abbastanza.- le dissi. Era vero. E anch’io avevo bevuto troppo. La testa mi scoppiava e avevo difficoltà a reggermi in piedi anche se ero ancora abbastanza lucido. Tendevamo entrambi a ridere troppo o a tenere troppo il muso come capita di solito agli ubriachi. Avevamo reazioni estreme. - Non sono affari tuoi!- disse strappandomi la bottiglia di mano. Cercai di recuperarla ma lei scappò o tentò di farlo. Mi ricordo un inseguimento ridicolo, io e lei che cadevamo di continuo anche per merito della pioggia che aveva reso scivoloso il prato. E poi non ricordo più nulla. So solo che io e lei ci risvegliammo nudi, nel suo letto. Le lenzuola e il piumino erano in giro per la camera. Eravamo alla Hope House con mia grande sorpresa. Mi accorsi, prima di tutto, della testa che scoppiava. Mi alzai e andai in bagno per cercare le pastiglie che tenevo nell’armadietto sopra il lavandino. Quando trovai assorbenti, profumi di

  • 19

    donna e un set di trucco per il viso mi resi conto che non era la mia camera. Mi resi conto anche che ero nudo. Faceva freddo. Cercai il letto e vi trovai Judy, nuda. Potevo vederla in tutta la sua bellezza ma l’unica cosa alla quale riuscivo a pensare era una domanda che mi tormentava. Avevamo fatto l’amore? La risposta sembrava ovvia. Vidi il mio maglione per terra e lo raccolsi. Sollevai Judy per la schiena e glielo infilai per la testa. Era abbastanza lungo da coprire tutta la sua bellezza e arrivava quasi fino alle sue ginocchia. Così facendo la svegliai e la prima cosa che fece fu di tirarmi un pugno in pieno volto. Rimasi a terra a lungo, nudo, con lei che mi guardava adirata, anzi, furiosa. Scomparì nel bagno mentre io cercai di vestirmi. Per fare prima lasciai perdere le mutande ed infilai subito i jeans. Intendevo svignarmela il più presto possibile per poi pensare a cosa fare. Quando Judy ritornò non ero ancora riuscito ad infilarmi la maglietta. Lei si sedette a gambe incrociate sul letto, coprendosi per bene con il mio maglione. Non sembrava più arrabbiata. Mi sentivo in colpa, sensazione che avevo provato troppe volte in questi ultimi giorni. - Scusami.- le dissi. Mi toccavo la fronte perché credevo mi sarebbe esplosa. - Scusami tu.- disse lei. Io la guardai stupito. - Non è successo nulla.- continuò.- Quindi mi devo scusare per il pugno.- - Non è successo nulla?- non riuscivo a credere alle mie orecchie.- E come fai ad essere sicura che...- Non mi fece concludere la domanda. - Perché sono ancora vergine.- disse imbarazzata. La guardai scioccato. Non era incredibile che lei fosse vergine ma... Ci guardammo senza sapere che cosa dire o cosa fare quando la porta della camera si aprì ed entrò Helena. Indossava l’abito che portava alla festa ed era spettinata. Pensai che stesse tornando dall’appartamento del suo amante. Vide solo me (Judy era sul letto quindi coperta dalla parete del bagno) ed io ero seduto per terra, sulle lenzuola del letto di Judy, con indosso solo un paio di jeans. - Allora è andata bene!- esclamò e prima che io e Judy gridassimo in coro “Noooo!” lei se n’era già andata. Tornammo a guardarci confusi. - Chiudo la porta a chiave, ok?- proposi. Judy annuì, stanca e pallida. Chiusi la porta a chiave e Judy mi sfiorò entrando in bagno. Poco dopo la sentii vomitare. Le avevo detto di non mischiare l’alcool. Ritornai a sedermi per terra, intento ad indossare calze e anfibi. Judy ritornò. Era più colorita ma era molto provata. Si risedette sul letto. - Come stai?- le chiesi preoccupato. - Meglio. Grazie.- accennò ad un sorriso. - Ascolta.- le dissi.- Non abbiamo fatto l’amore ma qualcosa è successo... Eravamo nudi!- Volevo sentirla dire “Tra noi non c’è niente, siamo solo amici.” oppure “E’ meglio così, meglio che non l’abbiamo fatto. Non sarebbe stato bello per me non ricordarmi la prima volta. Ma adesso potremmo...”. Volevo che si tradisse, che facesse capire quali erano le sue intenzioni, quali erano i suoi sentimenti. - Ma non sappiamo cosa è successo.- disse invece. Sorrisi e poi mi toccai la fronte con una smorfia di dolore dipinta sul volto. - Hai mal di testa?- mi chiese Judy, preoccupata. - Sì, un fortissimo mal di testa.- spiegai. - Aspetta.- disse e si alzò. Il maglione salì a mostrare la curva delle natiche prima che lei scomparisse nel bagno. Tornò con un bicchiere d’acqua di rubinetto e due pastiglie. - Grazie.- le dissi. Mi sorrise e si sedette accanto a me.

  • 20

    Presi le pastiglie e le mandai giù con l’acqua. Non sopportavo l’acqua dopo tutto quell’alcool ne la sopportavo appena alzato, ma mi feci forza. - Ho bevuto troppo. E’ stata colpa mia.- disse Judy, stupendomi. - Io ti ho lasciata bere. E poi, non mi avrai portato qui con la forza!- osservai. Judy sorrise. - Volevi sapere che cosa ne penso... Come vedo il nostro rapporto, quanta importanza do a quello che è successo?- mi chiese. Annuii. - Senti. Due giorni fa ho dormito per terra e Jasmine nel mio letto. Venerdì, io e lei abbiamo dormito insieme ma eravamo sobri. E ieri io e te abbiamo dormito insieme, nudi, e chissà cosa abbiamo fatto senza saperlo. Io non so cosa pensare. Tu mi piaci molto ma anche Jasmine. Non posso farmi influenzare da quello che è successo mentre eravamo ubriachi...- le dissi prima che lei dicesse la sua. Judy abbassò il capo e poi lo rialzò, lentamente, annuendo. Poi si protese verso di me e mi baciò sulla bocca. - Ti prego.- le dissi allontanandola. I suoi occhi mi guardavano con amore. - Potrei cedere ma potremmo anche lasciarci domani. Non lo faccio solo per me... lo faccio anche per te. Fammi capire quello che provo.- la supplicai. - Hai ragione.- mi disse abbracciandomi. L’abbracciò più eccitante della mia vita. E queste due parole erano più importanti della sua bellezza e di quello che potevamo aver fatto quella notte.

  • 21

    V.

    Ero in camera mia. Erano le due del pomeriggio. Era domenica. Avrei dovuto studiare, ripassare le lezioni di venerdì per prepararmi a quelle che avrei frequentato lunedì. Ma non mi andava. Ero un tipo pieno di dubbi, pieno di complessi e di pensieri. Dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni, delle ultime notti, non sapevo cosa fare. Non mi riusciva di pensare perché erano troppe le cose alle quali avrei dovuto pensare. Non dovevo più preoccuparmi di capire se Jasmine mi piaceva... ora c’era di mezzo anche Judy. “Le tre j” pensai. Jasmine, Judy e Jennifer. Se solo Jennifer fosse qui ad aiutarmi... Era la prima volta che dovevo decidere tra due ragazze. Ero proprio sfortunato. Erano passati tre anni dalla fine della mia storia d’amore con Simone e ora mi ritrovavo con due ragazze che giocavano con il mio cuore. Non potevo conoscerne una sola? Accesi lo stereo e misi un cd dei R.E.M. Mi sdrai sul letto con il cuscino sulla faccia e rimasi ad ascoltare quel cd per qualcosa come sette ore. Mi addormentai, cullato dalla musica, e quando mi svegliai avevo la sensazione che Jasmine e Judy fossero entrate nella mia camera mentre dormivo. Immaginavo Jasmine seduta alla scrivania, con lo schienale della sedia contro il petto, che mi guardava. E vedevo Judy, con addosso solo il mio maglione, seduta a gambe incrociate sul letto, accanto a me che dormivo. Era un incubo. Ero disperato e non vedevo soluzioni. Uscii dalla mia camera pregando, mentre percorrevo il corridoio, di non incontrare Jasmine o Judy che venivano a trovarmi. Non le incontrai... Percorsi il prato, superai la mensa e arrivai alla macchina. Avevo portato con me il libro di Ford, i libri di testo per domani e un blocco di fogli. Salii in macchina e partii senza una meta precisa. Ero nella periferia di Erie quando fermai la macchina dietro ad una stazione di servizio. La mia Chevrolet non era visibile dalla strada. Presi un maglione che avevo dimenticato in macchina e lo posi contro la portiera, a fungere da cuscino. Dormii in macchina quella notte. Lunedì frequentai tutte le lezioni. Avevo due ore libere a pranzo e le passai ad un seminario nell’aula di biologia. Un certo Sig. Thompson parlava a me, e ad una trentina di studenti e professori, di amebe e protozoi. Bred, all’inizio delle lezioni pomeridiane, mi chiese dove fossi finito. Non gli risposi. Non se la prese, ora mi conosceva meglio e iniziava a capire che tipo fossi. Non sapeva però tutto quello che avevo passato durante il week-end. Avevo dimenticato Jennifer. Avevo dimenticato tutti. A mezzanotte me ne andai dalla biblioteca. Ero stato in una saletta di studio. Molti studenti erano entrati ed usciti durante il pomeriggio e la sera. Dalle undici di sera ero rimasto solo. La biblioteca rimaneva aperta ventiquattr’ore su ventiquattro ma non mi trovavo a mio agio, lì dentro, e l’addetta alle pulizie che arrivò pochi minuti prima della mezzanotte mi guardava come se fossi un pazzo assassino con la bava alla bocca. Dovevo uscire. Fuori si gelava. Guardai le luci della Hope House. Il lunedì era un giorno terribile e tutti sembravano dormire. Salii le scale fino al terzo piano, cercando di non fare troppo rumore, quindi arrivai alla mia camera. Sulla porta c’erano cinque messaggi. Uno era di Boris che mi diceva che era ora che gli restituissi la Coca-Cola che gli avevo fregato. Era a corto di soldi e anche a viveri stava male... Il secondo e il terzo messaggio erano di Jasmine e Judy. Entrambe mi chiedevano che fine avessi fatto. Il quarto messaggio era di Bred che mi chiedeva gli appunti della lezione di storia. Aveva segnato il numero della sua camera, la 15 al primo piano. L’ultimo messaggio era di Samantha, la responsabile del piano. Quando vidi il suo nome in fondo al messaggio “Passa da me, devo parlarti. Fino alle due va bene. Camera 41.” pensai che qualcuno avesse reclamato perché passavo da una camera all’altra o perché la notte che mi ero ubriacato con Judy gli avevo vomitato davanti alla porta. Bussai alla porta di Samantha a mezzanotte e diciassette. Mi resi conto che non avevo la minima idea di quando avevo consumato l’ultimo pasto.

  • 22

    Samantha aprì. Indossava una tuta da ginnastica nera e bianca e un cappellino all’indietro. Era la prima volta che la vedevo. - Ciao.- le dissi.- Sono...- - Ciao Michael.- m’interruppe. Non le chiesi nulla. Non volevo pensare più del minimo indispensabile. Sapeva chi ero? Ok. Non m’importava. - Entra.- disse. Entrai. Samantha si sedette sul letto. Vidi un reggiseno sul cuscino. Vicino al cuscino un piatto con due mega-sandwiches e una lattina aperta di Coca-Cola. Lo spazio del letto che rimaneva era occupato da libri di storia e riviste di moda. Cercai di ricordarmi Samantha seduta ad un banco vicino al mio a storia ma non ce la feci. - Siediti pure.- disse indicandomi la sedia della scrivania. Mi sedetti. Normalmente avrei fatto qualche commento, avrei almeno palesato grande imbarazzo, ma ero di nuovo svuotato da qualsiasi emozione. - Devo darti un messaggio di Jennifer.- disse sorridendomi. Un bel sorriso... Jennifer? Lei mi lasciava molti messaggi di Jennifer sulla porta... Ora voleva riferirmi una sua telefonata a voce? Erano forse diventate amiche, lei e Jennifer, a forza di sentirsi al telefono? - Non volevo lasciarti il messaggio sulla porta... L’ho scritto ma non bastava un intero foglio. E poi era così...dava nell’occhio!- continuò. La guardai stranito. - Jennifer mi ha detto che ti può chiamare solo domani alle due... cioè alle due di mattina di mercoledì. Poi non potrete più sentirvi per una settimana perché lei andrà ad un convegno a San Francisco e sarà molto presa. Sai, lezioni il giorno e seminari la sera fino a tardi. Ti prega di scusarla ma sarà veramente una settimana d’inferno. Ha detto di dirti che se domani non potrai rispondere al telefono non devi preoccuparti... non se la prenderà.- A sentire parlare Samantha in questo modo di Jennifer mi sembrava di ricordarle vecchie amiche e mi vedevo anch’io come un vecchio amico di Samantha. Vedevo noi tre al bar a bere e a raccontarsi buffi aneddoti... - Tu e Jennifer... Sì, siete amiche? Cioè, avete scambiato qualche parola oltre allo scambio di messaggi?- chiesi incuriosito. Samantha arrossì. - Sì.- rispose.- Spero non ti dispiaccia.- disse preoccupata. Le sorrisi. Era il primo momento di tranquillità da due o tre giorni. - No, figurati. Come ti sembra?- - E’ molto simpatica e gentile. Sai, io rispondo all’80% delle telefonate di questo piano e un po’ mi scoccia. Molto, per la verità. Ma ho preso un impegno e ne traggo anche dei vantaggi a fare la responsabile del piano. Anche se ti danno un sacco di seccature.- rise a questo gioco involontario di parole. Io la seguii a ruota. Guardai per la prima volta i suoi sandwiches e lei prese il piatto e me lo porse. - Vuoi?- mi domandò. Scossi la testa e finalmente ero a disagio. - No, non vorrei toglierti il cibo di bocca...- dissi rosso in volto. - Sono piena. E’ tutto il giorno che mangio. Puoi mangiarli entrambi. Uno è al tonno e l’altro al roastbeaf.- disse con gentilezza. Sollevai le spalle. - Allora te ne mangio uno. Ti ringrazio. Quello al tonno.- conclusi rispondendo ad un suo sguardo interrogativo. Addentai il sandwich. Doveva essere una vita che non mangiavo, forse da domenica. - Dicevi?- le chiesi. Samantha mi guardò colta di sorpresa. - Sì, di Jennifer... Il fatto di rispondere sempre alle telefonate.- accennai al suo discorso.

  • 23

    - Ah, sì. E’ proprio palloso, non voglio far finta di avere tutta questa pazienza, ma mi fa piacere rispondere e sentire la voce di Jennifer. Scambiamo qualche parola e lei è sempre educata. Certi ragazzi, e anche delle ragazze, telefonano e appena sentono che la persona che cercano non c’è attaccano senza neanche salutare. La maggior parte dice “Voglio parlare con Boris.” o “Passami Trudy” senza un minimo di educazione. Non è carino sentirtelo dire e certe volte mi viene voglia di attaccare il telefono in faccia a questi... Ma Jennifer è sempre gentile, è per questo che l’ho presa in simpatia e abbiamo iniziato a parlarci. Mi parla spesso di te.- cercò di leggere la mia reazione a queste ultime parole sul mio viso.- Avete un rapporto fantastico.- concluse. Annuii. Mi faceva sempre piacere sapere che Jennifer parlava di me a qualcuno. Anche perché non parlava mai male di me. - Lei è fantastica.- dissi dopo aver finito il sandwich. Lo avevo divorato.- Se viene a trovarmi te la farò conoscere.- dissi alzandomi.- Ti ringrazio. Per il messaggio e per il sandwich. Morivo di fame.- sorrisi e lei ridacchiò. - Ti lascio allo studio.- dissi avvicinandomi alla porta. - No, grazie! Per stanotte ho chiuso!- disse scuotendo la testa in modo buffo. - Allora posso offrirti qualcosa da bere al Planet?- chiesi. Mi stupii di averlo fatto più di quanto si stupì lei. - Perché no? Grazie.- disse sorridendo felice. Si alzò, dette un’occhiata in giro per la stanze e sollevò le spalle. - Vengo così.- disse vedendo che io la guardavo chiedendomi che intenzioni avesse. Sorrisi e poi guardai il suo letto. Indicai il reggiseno. - Forse è meglio se ti rimetti quello. Sono stanco e sconvolto. Un eccesso di dondolamenti e saltellamenti potrebbe farmi partire del tutto.- dissi. Samantha rise di gusto. Io feci altrettanto. - Dammi un secondo.- mi disse quasi due minuti dopo. Uscii dalla camera. Guardai a sinistra verso la mia camera e a destra dove c’erano solo le scale e il telefono. Nessuno in vista. Samantha uscì subito dopo. Prendemmo due tazze di caffè alla buvette del Planet che come il bar della mensa, la biblioteca e il ristorante Inn a Erie, rimaneva aperta 24 ore su 24. Samantha era simpatica. Parlammo molto. Io troppo per le mie abitudini. Ero stanco da morire ma Samantha sembrava così sveglia e così vitale, malgrado l’ora, da tenermi sveglio. Lei studiava storia americana e europea. Quella di Erie era una delle poche università che dava la laurea in storia europea. Come corso d’appoggio seguiva alcune lezioni di letteratura inglese e, cosa che mi sorprese molto, un corso di letteratura greca. Aveva vent’anni come me e veniva da Brooklyn, N.Y. Erano le due passate quando lasciai Samantha davanti alla sua camera. Sulla porta mi disse questo: - Ho visto un sacco di biglietti sulla tua porta... stai fuggendo da qualcuno?- - Fuggo da due ragazze... e da me.- le risposi. Mi baciò sulla guancia e chiuse la porta. Ero stufo di dormire in macchina e allora andai nella mia camera e mi buttai sul letto. Dormii vestito, con la porta della camera pericolosamente non chiusa a chiave. La radiosveglia mi buttò giù dal letto alle sei in punto. Feci una doccia, mi cambiai e alle sei e mezza ero in biblioteca chino sul libro di Ford. Lo finii alle nove e un quarto. Alle dieci ero a francese. A pranzo incrociai Bred e accettai il suo invito a mangiare in buvette. Non vedevo Judy da domenica e Jasmine da sabato e avevo rimosso parte dei timori e delle paure che m’incuteva un possibile incontro con una delle due. Judy era seduta vicino a me. La salutai imbarazzato. Helena era con lei e con Francine. Francine mi sorrise e Helena mi squadrò come una stronza. Dopo un quarto d’ora si alzarono e se ne andarono. Judy mi salutò un po’ triste ma non sembrava arrabbiata con me.

  • 24

    Non avevo più visto Jasmine. Volevo sapere come l’aveva presa. Ero stato proprio uno stronzo con lei. Certo, però, non era il caso di chiedere sue notizie a Helena o a Judy. Dovevo prendere in disparte Francine. Passai il pomeriggio a lezione e in biblioteca. Iniziai un secondo libro di Ford e di colpo le ore di sonno che avevo perso si fecero sentire... Mi addormentai in biblioteca. Mi svegliai alle cinque di mattina con il viso tra le pagine del libro. Tre studenti mi guardavano ridendo da un tavolo ad una decina di metri dal mio. Mi accorsi dell’ora e mi resi conto che avevo perso l’appuntamento con la telefonata di Jennifer. Corsi ad un telefono e invano cercai di contattarla. A L.A. erano le undici di sera ma sapevo che non l’avrei svegliata. Disinseriva il telefono alle dieci e lo reinseriva quando si svegliava. Erano le cinque e otto minuti di mercoledì. Il sole non era ancora spuntato, bisognava attendere ancora più di un’ora, ed io ero già incazzato. Incazzato con me stesso. Mi sedetti su di una panchina davanti al Planet e osservai la finestra di Samantha. Gli avvolgibili erano abbassati. Verso le sette Samantha sollevò gli avvolgibili. Le diedi mezz’ora e poi salii fino alla sua camera. Bussai. Mi aprì e mi sorrise. - Ciao.- disse. - Ciao.- replicai sorridendo a mia volta. - Hai dormito per terra?- mi chiese ridendo. - No. In biblioteca, ad un tavolo, con la faccia dentro un libro.- spiegai. Rise a lungo. - Scusami.- le dissi cercando di farla smettere.- Volevo chiederti se sapevi in che camera stava Jasmine Cunningham. Studia recitazione.- - Camera 45.- rispose guardandomi con malizia. - Ti ringrazio. Scusami ma devo scappare.- dissi evitando eventuali domande. Ci salutammo con un gesto della mano ed io camminai verso la mia camera, fermandomi prima, alla camera 45. La mia camera era la 57. Bussai. Jasmine aprì la porta solo per uno spiraglio. Mi vide e mi fissò stupita. Non seppi capire, però, quale espressione prese il posto dello stupore . - Ciao.- dissi il più dolcemente possibile. - Ciao.- fece eco lei.- Ho appena finito la doccia. Se vuoi entrare mi vesto in un attimo.- disse gentile. - Se vuoi passo più tardi.- proposi. Ero teso e nervoso. - Non ti lascio fuggire di nuovo.- disse senza particolare emozione nella voce. Si scostò e aprì la porta. Entrai. Jasmine lasciò che le passassi accanto nel corridoio della camera. Indossava un accappatoio e i capelli gocciolavano sulla moquette. Chiuse la porta e, mentre io andavo verso il letto, entrò nel bagno. - Siediti pure.- mi disse dal bagno. Mi sedetti sulla sedia della scrivania. Mi ricordava la visita a Samantha. Per terra, accanto al letto, c’era una montagna di vestiti ammassati. Vidi ben più dell’unico reggiseno della stanza di Samantha. Distolsi lo sguardo e osservai i libri su di uno scaffale appeso alla parete. Proust, Kierkegaard, Kafka, Shakespeare, Prèvert, Shelley, Moliere, S.King, ecc... Un po’ di tutto, grandi libri. Sentivo Jasmine armeggiare nel bagno. Asciugacapelli, asciugamano, vari tubetti e barattoli che cadevano per terra. Uscì dopo cinque minuti. Indossava ancora l’asciugamano ma sotto aveva indossato collant e, supposi, anche la biancheria intima. - Non aspettavo visite.- disse quando notò la direzione del mio sguardo. Prese un paio di jeans e una maglietta.

  • 25

    - Metti una minigonna. Stai molto bene...- mi guardò stupita.- ... con la minigonna.- conclusi imbarazzatissimo. Sembrò valutare le mie parole. Prese la minigonna e lascio i jeans. Rientrò in bagno. Uscì vestita di tutto punto e si calzò gli anfibi sotto i miei occhi. Indossava collant e minigonna neri, calze di cotone bianche, maglietta blu e anfibi. Mentre la osservavo allacciare gli anfibi guardai un istante fuori dalla finestra. C’era il sole, non me n’ero accorto prima. Jasmine concluse l’operazione e mi guardò. Mi sorrise. Io non contraccambiai. - Mi dispiace.- dissi sincero.- Sono stato uno stronzo.- - Io credevo di avere paura, di essere timida... ma tu sei molto peggio.- osservò lei. Suonava come un modo per dirmi che non dovevo scusarmi. - Io e Judy abbiamo...- - Lo so.- disse lei fredda, interrompendomi.- Judy mi ha assicurato che non avete fatto l’amore anche se non sapete cosa sia successo di preciso.- La guardai sconvolto. - Helena mi ha spifferato tutto. Se non l’hai ancora capito Helena vuole entrare in più letti possibili...- si fermò. Si doveva sentire una stronza a parlare in questo modo, era evidente.- Judy lo ha saputo e ha voluto chiarire tutto anche se mi ha detto che le piaci molto.- - E lei piace a me.- conclusi io.- Ma non sono qui a dirti che ho scelto lei. Non è una lotteria e nemmeno una gara. E’ da due anni che non sono più innamorato. Ho conosciuto prima te di Judy ma non sapevo se era amore o meno. E poi è arrivata lei a complicare il tutto. E’ tutto pazzesco e non posso sperare che tu e lei aspettiate che io mi decida...- - Che cosa intendi? Tu mi piaci molto e se devo lasciarti capire i tuoi sentimenti aspetterò con pazienza. Non voglio perderti.- mi disse guardandomi con occhi languidi. La guardai ammirato e grato per quello che stava facendo. - Grazie.- riuscii a dire con un filo di voce. - Chiederti di abbracciarti sarebbe contro le regole?- mi chiese sorridendo a disagio. - No.- risposi felice. Ci alzammo, lei dal letto e io dalla sedia, e ci abbracciammo. A lungo. Molto a lungo. In quei momenti di intimità, con lei ma anche con Judy, ero sicuro di sapere quello che volevo ma era solo illusione. Quando ci lasciammo gettai un’occhiata nel suo armadio e guardai nuovamente il mucchio di vestiti per terra. - Sei pronta per andare a lezione?- le chiesi. - Sì.- disse dopo un attimo di riflessione. Prese lo zaino. Le presi la mano e la condussi in corridoio. Lei chiuse la porta a chiave e si girò per guardarmi. - Vieni un minuto in camera mia?- chiesi. Mi guardò curiosa. - Aspettami un minuto.- le dissi poi, decidendomi a cambiare tattica. - Vengo anch’io.- decise. Camminammo fino alla mia camera. Aprii la porta e lessi il biglietto affisso alla porta. Lasciai entrare prima Jasmine. La vidi aprire la finestra. - E’ da più di 24 ore che non entro qui.- spiegai. Il biglietto era di Boris che era incazzato nero con me. Entrai. Jasmine era seduta sul letto e mi guardava ispezionare la stanza, aprire l’armadio, i cassetti dell’armadio e quelli della scrivania. Poi vidi quello che stavo cercando sul letto. Presi il maglione bordeaux che era accanto a Jasmine. Glielo porsi. - Se vuoi metterlo... Prima ero fuori. C’è il sole ma non fa poi così caldo.- le dissi. Jasmine mi sorrise rendendomi felicissimo alla vista del suo bel viso che s’illuminava. - Sei venuto qui per questo? Che dolce.- disse. Mi baciò sulla guancia e poi indossò il maglione. Era un po’ lungo alla vita e di manica, ma non troppo.

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    - Grazie.- disse. Qualche minuto dopo camm