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FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA
DIPARTIMENTO DI STUDI PENALISTICI, FILOSOFICO - GIURIDICI, CANONISTICI SEZIONE DI DIRITTO E PROCEDURA PENALE
TESI DI DOTTORATO IN DIRITTO E PROCEDURA PENALE
L’OLTRAGGIO E LA LEGITTIMA REAZIONE AGLI ATTI DEL PUBBLICO UFFICIALE
Coordinatore Tutor Chiar.mo Chiar.mo Pror. Giorgio Spangher Prof. Fabrizio Ramacci
Dottoranda Dott.ssa FRANCESCA ROMANA FULVI
Anno Accademico 2007-2010 (XXIII° ciclo)
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INDICE
INDICE ................................................................................................................................................ 3
INTRODUZIONE ................................................................................................................................. 5
CAPITOLO I ........................................................................................................................................ 7
EVOLUZIONE STORICA DELLA FATTISPECIE DI OLTRAGGIO: DAL CODICE NAPOLEONICO AL CODICE ROCCO .............................................................................................. 7
I DUBBI E LE CENSURE D’INCOSTITUZIONALITA’ DEL REATO DI OLTRAGGIO ................. 13
INQUADRAMENTO DELLA PROBLEMATICA ................................................................................... 13
LA DOTTRINA .......................................................................................................................................... 16
LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE ............................................................. 26
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 341/1994 ...................................................... 35 L’ORDINANZA DI RIMESSIONE ....................................................................................................................... 35 LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE ....................................................................................... 36
L’ABROGAZIONE DELL’ART. 341 C.P. RILIEVI CRITICI ............................................................ 57
IL DIBATTITO SUGLI EFFETTI DELL’ABROGAZIONE E L’INTERVENTO DELLE S.U. DELLA CASSAZIONE 29023/2001 ................................................................................................................ 65
LA REINTRODUZIONE DEL REATO DI OLTRAGGIO: LE RAGIONI E LE ISTANZE SOTTESE. CENNI DI DIRITTO COMPARATO E PROFILI DI DIRITTO INTERTEMPORALE ..................... 89
I SOGGETTI ED IL BENE GIURIDICO TUTELATO ...................................................................... 98
L’ELEMENTO OGGETTIVO: LA CONDOTTA DI LESIONE CONGIUNTA ALL’ONORE ED AL PRESTIGIO DEL P.U. ..................................................................................................................... 104
L’ELEMENTO OGGETTIVO: LE MODALITÀ DI REALIZZAZIONE DELLE CONDOTTA ........ 113
L’ELEMENTO OGGETTIVO: L’AMBITO TEMPORALE DI SVOLGIMENTO DELLA CONDOTTA OVVERO LA NECESSITÀ CHE L’OFFESA SIA RECATA AL P.U MENTRE COMPIE UN ATTO D’UFFICIO ..................................................................................................................................... 120
L’ELEMENTO OGGETTIVO: IL NESSO FUNZIONALE OVVERO LA NECESSITÀ CHE L’OFFESA SIA RECATA AL P.U A CAUSA O NELL’ESERCIZIO DELLE SUE FUNZIONI....... 124
L’ELEMENTO OGGETTIVO: IL CONTESTO SPAZIALE ............................................................. 131
LA REALIZZAZIONE DEL FATTO IN LUOGO PUBBLICO O IN LUOGO APERTO AL PUBBLICO ................................................................................................................................................................... 134
LA REALIZZAZIONE DEL FATTO IN PRESENZA DI PIÙ PERSONE ............................................. 136
IL DIBATTITO SULLA NECESSARIA PRESENZA, O MENO, DEL PUBBLICO UFFICIALE .... 141
L’ELEMENTO SOGGETTIVO ........................................................................................................ 145
LA CIRCOSTANZA AGGRAVANTE DELL’ATTRIBUZIONE DI UN FATTO DETERMINATO ... 150
LA PROVA DELLA VERITÀ DEL FATTO DETERMINATO OGGETTO DELL’OFFESA .............. 156
LA SOPRAVVENUTA CONDANNA DEL P.U. PER IL FATTO, AVVENUTA DOPO LA SUA ATTRIBUZIONE AL P.U. ....................................................................................................................... 160
L’INTEGRALE RISARCIMENTO DEL DANNO NEI CONFRONTI SIA DEL P.U. SIA DELL’ENTE DI APPARTENENZA ....................................................................................................................... 163
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LE FORME DI MANIFESTAZIONE DEL REATO ......................................................................... 177
IL TRATTAMENTO SANZIONATORIO .......................................................................................... 181
CAPITOLO II ................................................................................................................................... 185
GLI ART. 192 E 199 DEL CODICE ZANARDELLI, LA SOPPRESSIONE DELLA LEGITTIMA REAZIONE AD OPERA DEL CODICE ROCCO E LA REINTRODUZIONE AD OPERA DELL’ART. 4 DEL D.LGS.LGT. N. 288/1944 ................................................................................. 185
LA SOPPRESSIONE DELL’ART. 4 DEL D.LGS.LGT. N. 288/1944 AD OPERA DELL’ART. 2 DEL D.L. N. 200/2008, IL SUCCESSIVO INTERVENTO DELLA LEGGE N. 9/2009 E LA DEFINITIVA COLLOCAZIONE NEL CODICE AD OPERA DELL’ART. ART. 1, COMMI 9 E 10, LEGGE N. 94/2009 ............................................................................................................................................ 194
IL DIBATTITO SULLA QUALIFICAZIONE GIURIDICA, ANCHE A SEGUITO DELLA REINTRODUZIONE DELL’OLTRAGGIO ..................................................................................... 198
L’AMBITO SOGGETTIVO ED OGGETTIVO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 393 BIS C.P. ..... 205
L’ARBITRARIETA’ DELLA CONDOTTA DEL PUBBLICO UFFICIALE: L’ECCESSO DAI LIMITI DELLE ATTRIBUZIONI .................................................................................................................. 207
L’ARBITRARIETA’ DELLA CONDOTTA DEL PUBBLICO UFFICIALE: GLI ORIENTAMENTI DOTTRINARI E GIURISPRUDENZIALI SUL CONCETTO DI ATTO ARBITRARIO ................... 214
LA RILEVANZA DELL’ARBITRARIETÀ PUTATIVA ....................................................................... 228
LE MODALITÀ DI ESPLICAZIONE DELLA CONDOTTA DI REAZIONE ................................... 232
I REQUISITI PER LA QUALIFICAZIONE DELLA CONDOTTA REATTIVA COME LEGITTIMA .......................................................................................................................................................... 239
CONCLUSIONI ............................................................................................................................... 245
BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................... 253
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INTRODUZIONE Recentemente il legislatore ha deciso di reintrodurre la figura del reato dell’oltraggio a pubblico
ufficiale, che è tornato, pertanto, a costituire un delitto dei privati contro la pubblica
amministrazione dopo l’abolizione della precedente fattispecie incriminatrice nel 1999.
In via preliminare si ritiene doveroso precisare che il giudizio sulla nuova formulazione non può
ridursi alla questione di principio circa la natura, in generale, dei rapporti tra autorità e individuo ed
i caratteri che essi debbono assumere nel quadro delle norme costituzionali, ma deve svilupparsi e
risolversi in un ambito più circoscritto e puntuale. È stato osservato che, sebbene non sia possibile
rinvenire nella Costituzione repubblicana disposizioni o “spie normative” indicative di una
concezione autoritaria dei rapporti tra amministrazione e cittadino, è necessario riconoscere che
l’attività dei p.u. non può essere equiparata in toto a quella dei privati, non soltanto perché è
istituzionalmente rivolta al perseguimento di interessi pubblici, ma anche perché è destinata a
svolgersi in un certo numero di casi in forma autoritativa. La stessa definizione di “funzione
amministrativa” dettata dall’art. 357, secondo comma, c.p. ne costituisce un riconoscimento “tanto
evidente quanto incontrovertibile” (Padovani). Si tratta di stabilire la congruità di una tutela
differenziata dell’onore e del prestigio del p.u. rispetto a quello del comune cittadino. Si rende,
pertanto, necessario procedere all’analisi della struttura della norma per verificare se dalla sua
esegesi emergano i requisiti necessari ad assicurarle diritto di cittadinanza nel sistema penale. In
particolare occorre accertare se la fattispecie si sia effettivamente uniformata alla tutela di una
funzione pubblica, personalizzata nell’agire di un determinato p.u. o se si limiti, invece, a riproporre
fuori tempo un incongruo privilegio dell’autorità.
Si anticipa che la novella recupera spunti di pensiero rivelatisi utili in termini di ripristino di un più
elevato livello di sistematica giuridica; ed in vero se la nuova fattispecie presenta alcune analogie,
non sono poche le differenze rispetto alla previgente ipotesi criminosa.
Nell’esaminare gli elementi qualificanti del nuovo reato si è tenuto conto, pertanto, anche dei
precedenti orientamenti dottrinari e giurisprudenziali formatesi con riferimento alla precedente
ipotesi delittuosa in quanto, per gli evidenti collegamenti con la nuova, conservano una loro
validità. Così per l’analisi della condotta si è fatto riferimento all’elaborazione dottrinaria e
giurisprudenziale antecedente concernente i concetti di onore e prestigio, mentre per il requisito di
luogo pubblico o aperto al pubblico si è attinto alla norma di cui all’articolo 266, comma 4, n. 2,
c.p., che riporta la nozione, agli effetti della legge penale, di reato avvenuto pubblicamente.
Pari disamina è stata svolta per gli ulteriori profili di novità contenuti nel secondo e nel terzo
comma dell’art. 341 bis c.p. e specificamente per il secondo si è proceduto ad un confronto con il
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dettato dell’art. 596 c.p., mentre per il terzo si è fatto riferimento a quanto già stabilito in relazione
all’art. 62, n. 6 c.p. e all’art. 35, D.lgs. 274/2000. La disposizione, infatti, riproduce da un lato
quella contenuta nell’articolo 62 n. 6 c.p., dall’altro l’istituto generale previsto per i reati di
competenza del giudice di pace ex art. 35 D.lgs. n. 274/00.
Perciò anche per sciogliere i dubbi interpretativi ed applicativi sorti dalla lettura della norma e
concernenti i nuovi requisiti costitutivi introdotti ci si è avvalsi della pregressa elaborazione
dottrinale e giurisprudenziale sviluppatasi nel corso degli anni con riferimento a fattispecie che
contenevano elementi analoghi.
Tale criterio di analisi ha consentito non solo di chiarire il contenuto della norma e delimitare, di
conseguenza, il suo ambito di applicazione, ma soprattutto d’indicare i profili applicativi
problematici e le incongruenze della previsione.
L’art. 1, commi 9 e 10, legge n. 94/2009 ha, infine, formalmente abrogato l’art. 4 del D.lgs.
luogotenenziale 14/09/1944 n. 288 e reintrodotto la disposizione, con formulazione immutata,
all’art. 393 bis c.p.
La riproposizione del medesimo testo, originariamente contenuto nell’art. 4 del d.lgs. lgt. n. 288 del
1944, da un lato ha consentito di valorizzare i risultati interpretativi che avevano segnato
l’applicazione di quest’ultima disposizione e di considerarli validi anche per la formulazione di cui
all’art. 393 bis c.p., dall’altro ha confermato gli interrogativi che hanno agitato dottrina e
giurisprudenza nel corso del tempo, ed in particolare quelli attinenti alla sua qualificazione giuridica
e all’arbitrarietà putativa.
La rubrica dell’art. 393 bis c.p. allude ad una generica e non meglio precisata “causa di non
punibilità”, che, però, non implica il richiamo ad una specifica categoria dogmatica tra quelle che
spiegano il perché il fatto non venga sottoposto ai rigori della sanzione penale. Inoltre, essendo
contenuta nella rubrica, non costituisce legge.
Sarà necessario, però, procedere ad un’interpretazione sistematica della norma e porla in
correlazione con il nuovo testo dell’art. 341 bis c.p. In particolare si dovrà tener conto del profilo
inerente al risarcimento dei danni nei confronti della persona offesa e dell’amministrazione previsto
al terzo comma del predettto articolo. Infatti, se lo si qualifica come scusante, il giudice potrà
disporre il risarcimento; mentre se lo si qualifica come causa di giustificazione, invece, quest’ultima
non opera anche in riferimento al risarcimento dei danni, perché diventa un danno da lecito e quindi
non è risarcibile. Di conseguenza l’art. 341 bis, terzo comma, c.p. potrebbe non trovare
applicazione.
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CAPITOLO I EVOLUZIONE STORICA DELLA FATTISPECIE DI OLTRAGGIO: DAL CODICE NAPOLEONICO AL CODICE ROCCO Storicamente, negli ordinamenti europei la rilevanza penale dell’oltraggio ha da sempre risentito
delle affinità strutturali con il delitto d’ingiuria1. Gli insulti nei confronti di persone dotate di
pubblica autorità hanno assunto, infatti, un’autonoma obiettività giuridica e una propria
collocazione sistematica solo in un’epoca relativamente recente2. Nel periodo della rivoluzione
francese l’oltraggio, infatti, era ancora annoverato alternativamente tra i crimina maiestatis o tra i
reati contro l’onore. Solo in seguito, con il codice penale napoleonico (1810),3 si configura una
specifica tutela penale con l’esplicita previsione di una fattispecie, distinta ed autonoma rispetto alle
semplici ingiurie, all’interno dei reati di manquements envers l’Autorité pubblique (reati contro la
pace pubblica, art. 222)4. Il Consiglio di Stato francese, inoltre, valutò se considerare oltraggio
l’ingiuria indirizzata al pubblico ufficiale anche al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni,
pronunciandosi a favore di una “speciale garanzia” che dovesse essere assicurata solo quando il
funzionario fosse oltraggiato nello svolgimento e per l’esercizio delle sue funzioni, e non quando il
“malefizio” fosse diretto alla sua vita privata fuori del suo ministero5. Si ritenne, infatti, illogico che
il funzionario ricevesse come privato una garanzia superiore a quella concessa a tutti i cittadini.
Ad eccezione di quello del Regno Lombardo Veneto del 18156 e di quello del Granducato di
Toscana del 1853,7 l’impostazione del codice penale napoleonico fu recepita dai (posteriori) codici
1 Casalbore G., Oltraggio ed altre offese alle autorità, in Dig. disc. pen., VII, Torino, Utet, 1994, p. 462 e ss. 2 C. Palazzo, Oltraggio, in Enc. Dir., XXIX, Varese, Giuffrè, 1979, p. 849 e ss. Nell’antica Roma costituiva oltraggio anche l’ingiuria al funzionario non per causa dell’ufficio. In merito E. Pessina, Del delitto di oltraggio, in Enc. Dir. pen. it., VII, Milano, Società editrice libraria, 1907, p. 281 ricorda che la ratio dell’incriminazione era ravvisata nel costume secondo il quale i giudici ed i funzionari incedevano per le vie sempre con i distintivi delle loro funzioni. Per il diritto romano: Von Theodor Mommsen, Romisches strafrecht, Leipzig, Duncker & Humblot, 1899, p 582 e ss. Per il diritto intermedio cfr. Manzini V., Trattato di diritto penale italiano, a cura di P. Nuvolone e G.D. Pisapia, vol. V, Delitti contro la Pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, Utet, Torino, 1982, p. 504; 3 Tale codice fu tradotto ufficialmente anche in italiano ed entrò in vigore nel nostro territorio, nel 1811 con la denominazione di Codice dei delitti e delle pene pel Regno d’Italia. 4 C.p. libro III, dei crimini, dei delitti e delle loro pene, titolo I, dei crimini e dei delitti contro la cosa pubblica, capo III, crimini e delitti contro la pace pubblica, sezione IV, resistenza, disobbedienza e altre mancanze verso la pubblica autorità, 2, oltraggi e violenze contro i depositari dell'autorità e della forza pubblica (art. 222-233, modificati dalla legge 13 maggio 1863). In merito E. Pessina, Del delitto di oltraggio, in Enc. Dir. pen. it., VII, Milano, Società editrice libraria, 1907, p. 278 e ss. osserva che il codice francese mantiene, rispetto al codice Zanardelli, l’illogica distinzione tra oltraggio con parole ed oltraggio con gesti, diminuendo la pena. Nel primo caso è previsto il carcere da due a cinque anni, nel secondo da un mese a due anni. 5 G. Locrè, Proces verbal du Conseil d’Etat, vol XV, p. 298 e ss.; E. Pessina, cit., p. 281; 6 Codice penale dei crimini, dei delitti e delle contravvenzioni colle ordinanze sulla competenza dei giudizi penali, e col regolamento sulla stampa del 27 maggio 1852 per l'impero d'Austria. [ed. Wien : Manz, 1869 in lingua originale] Das Strafgesetz über Verbrechen, Vergehen und Uebertretungen: die . Strafgerichts-competenz-verordnungen und die Press-ordnung vom 27. mai 1852 für das Kaiserthum Oesterreich. Parte prima. Dei crimini. Capo settimo. §63 Offesa alla maestà sovrana. Chi lede la riverenza dovuta all’Imperatore, sia che ciò avvenga mediante oltraggio personale, contumelie, improperii o dileggi proferiti in pubblico od in presenza di più persone, col mezzo di opere stampate o colla
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stranieri8 e da quelli italiani preunitari9, che, pertanto, sanzionarono le offese al prestigio dei
soggetti investiti di autorità quale reato autonomo a titolo di oltraggio10.
comunicazione o diffusione di disegni, figure o scritti, commette il crimine di offesa alla Maestà sovrana, ed è punito col duro carcere da uno a cinque anni. §64 Offese ai Membri della Casa Imperiale. Tali azioni od offese reali contro altri Membri della Casa imperiale verranno punite come crimini col carcere da uno a cinque anni, in quanto non costituiscano un crimine soggetto a più grave sanzione. Capo duodecimo. Dei delitti e delle contravvenzioni contro la sicurezza dell’onore da §487 a § 491 e da §492 a 499(§494 aggravante p.u.) 7 Codice penale pel Granducato di Toscana (1856). Firenze: nella Stamperia granducale, 1853. Libro secondo. Dei delitti e della loro punizione in particolare vedi 109, 140, Titolo settimo. Dei delitti contro la persona. Sezione II. Dei delitti contro la libertà personale e la privata tranquillità. Capo II. Dei delitti contro il buon nome altrui 368 e 369 (aggravante p.u.) rispetto agli altri codici seguiva un altro sistema, considerando il fatto non come un titolo delittuoso a sé ma come una qualifica dei delitti “contro il buon nome altrui”. 8 Per un’analisi delle disposizioni contenute nei codici stranieri cfr. E. Pessina, Del delitto di oltraggio, in Enc. Dir. pen. it., VII, Milano, Società editrice libraria, 1907, p. 278 e ss., che evidenzia le analogie e le differenze rispetto al codice Zanardelli. 9 Per un esame delle disposizioni contenute nei codici preunitari si rinvia a E. Pessina, Del delitto di oltraggio, in Enc. Dir. pen. it., VII, Milano, Società editrice libraria, 1907, p. 278 e ss. Codice penale per gli Stati di Parma, Piacenza ecc. ecc. ecc. 1820: ristampato con note e con un indice per materie. Parma: dalla Reale tipografia, MDCCCL [1850]. Libro secondo, De’ crimini e delitti, e della loro punizione, Capo III Della ribellione contro giustizia, della disobbedienza, e delle altre mancanze contro la pubblica autorità, Sezione II, Oltraggi e violenze contro i depositari dell’autorità e della forza pubblica, artt. 229- 231 distingueva tra ingiuria verbale e ingiuria reale, diminuendo la pena se l’oltraggio si era limitato a gesti o a minaccie. 229 Allorquando un magistrato o un pubblico uffiziale dell’ordine giudiziario o amministrativo avrà ricevuto nell’esercizio delle sue funzioni, o per ragione di tale esercizio qualche oltraggio di parole tendenti ad offendere il suo onore o la sua rettitudine, il colpevole di tale oltraggio sarà punito colla prigionia di un mese. Se l’oltraggio ha avuto luogo all’udienza d’un giudice o tribunale, sarà punito colla prigionia non minore di sei mesi. 230 Quando l'oltraggio di cui l’articolo precedente sia limitato soltanto a gesti o a minacce, il colpevole sarà punito nel primo caso colla prigionia non maggiore di sei mesi e nel secondo con prigionia non minore di un mese, né maggiore di un anno. 231 L’oltraggio di parole, gesti o minacce del carattere accennato ne’ due articoli precenti diretto ad un uffiziale ministeriale, agente, o depositario della pubblica forza nell'esercizio, o in causa dell'esercizio di sue funzioni, sarà punito da sedici a sei mesi di prigionia, e colla multa di lire 30 a 500. Ognuna di queste due pene potrà eziando giusta i casi essere imposta separatamente. Sotto la denominazione di agenti o depositarj della forza pubblica vengono pure le guardie di finanza, gli agenti di buon governo, le guardie forensi legittimamente comandate. Codice per lo Regno delle Due Sicilie, annotato dall'avvocato Giuseppe D'Ettore. Napoli: Stabilimento tipografico Servio Tullio, 1860. Libro II. De’ misfatti e de’ delitti, e della loro punizione. Titolo IV. De’ reati contro l’amministrazione della giustizia e le altre pubbliche amministrazioni. Capo II. Degli oltraggi e delle violenze contro la persona de’ depositarj dell’autorità e della forza pubblica. Distingueva, a secondo che le indire fossero pronunciate contro un pubblico ufficiale o contro una Corte o un Tribunale in udienza, nel qual caso era stabilita una pena maggiore. 174. Le ingiurie e le minacce contro un magistrato dell’ordine amministrativo o giudiziario, commesse in atto che esercita le sue funzioni, o per occasioni di questo esercizio, son punite col secondo al terzo grado di prigionia o continuo: salvi i casi in cui le minacce portassero per le loro stesse a pene maggiori. Se le ingiurie o minacce hanno avuto luogo nella udienza pubblica di una Corte o tribunale, la pena sarà quella della reclusione. 176 Se i misfatti o delitti mentovati ne’ due articoli precedenti si commettano in persona di un agente ministeriale, di un individuo qualunque legittimamente incaricato di un pubblico servizio, o in persona di condottiero della forza pubblica, il colpevole sarà punito colla pena ordinaria del misfatto o delitto commesso: ma questa non verrà mai applicata nel minimo grado. Le stesse distinzioni erano operate dagli altri codici. Codice criminale e di procedura criminale per gli Stati Estensi (Ducato di Modena e Reggio Codice penale. 14 dicembre 1855). Modena: Per gli Eredi Soliani Tipografi Reali, 1855. Vedi 142 Libro secondo. Dei delitti e della loro punizione. Titolo decimoterzo Degli oltraggi e delle violenze contro i depositari dell’autorità e della forza pubblica. §207 1. Allora quando un Magistrato od un pubblico ufficiale dell’ordine giudiziario, amministrativo, politico, o militare avrà ricevuto nell’esercizio delle sue funzioni o a causa del medesimo qualche oltraggio con parole tendenti ad offendere il suo onore, o la sua rettitudine, il colpevole di tale oltraggio sarà punito col carcere non minore di tre mesi. 2. Se l’oltraggio è stato fatto nella pubblica udienza di un tribunale, il colpevole sarà punito col carcere non minore di sei mesi. 208 1. Quando l’oltraggio, di cui all’articolo precedente, sia fatto soltanto con gesti o con minaccie ad un magistrato nell’esercizio o per causa dell’esercizio delle sue funzioni, il colpevole sarà punito col carcere di sei mesi. 2. Se l’oltraggio è stato fatto nell’udienza di un tribunale sarà punito col carcere non minore di sei mesi, né maggiore di un anno.
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Questa tradizione legislativa fu accolta anche dal codice Zanardelli11 (1889) che disciplinava la
fattispecie, agli artt. 194,12 195,13 19614 e 19815, in modo sostanzialmente analogo ai precedenti testi
Codice penale per gli stati di S.M. il re di Sardegna. Torino: Stamperia reale, 1859. Libro secondo. Dei crimini e dei delitti, e delle loro pene. Titolo III. Dei reati contro la pubblica amministrazione. Capo III. Della ribellione, della disobbedienza, e di altre mancanze verso la pubblica autorità. Sezione II. Degli oltraggi e delle violenze contro i depositari dell’autorità e della forza pubblica. 258 Allorquando un pubblico ufficiale dell’ordine giudiziario od amministrativo, od un Giurato, avrà personalmente ricevuto nell’esercizio delle sue funzioni, o causa del medesimo, qualche oltraggio con parole tendenti ad intaccare il suo onore e la sua rettitudine, il colpevole di tale oltraggio sarà punito col carcere da un mese a tre anni. Se l’oltraggio ha avuto luogo all’udienza di una Corte, o di un Tribunale, o di un giudice, sarà punito con il carcere non minore di tre mesi. 259 Quando l’oltraggio sia fatto soltanto con gesti o con minacce, il colpevole sarà punito nel primo caso previsto dall’articolo precedente col carcere estensibile a tre mesi, e nel secondo caso col carcere non minore di un mese. 260 L’oltraggio fatto con parole, con gesti o con minacce, a qualunque agente o depositario della pubblica forza o ad altra persona legittimamente incaricata di un pubblico servizio nell’esercizio delle funzioni, o a causa di esse,sarà punibile con la pena del carcere estensibile a un mese, o con la multa estensibile a lire duecento. Il Pessina osserva che la disposizione contenuta nell’art. 267 è particolare perché ammette nell’oltraggio la diminuzione di pena quando quest’ultimo avvenga nel caso in cui il reo voglia sottrarre all’arresto sé stesso od un prossimo congiunto. L’autore rileva che seppur sia facilmente comprensibile la ratio della disposizione (poiché la ribellione nel corso dell’arresto è una reazione umana comune e, pertanto, potrebbe giustificare la reazione ingiuriosa del privato) la predetta diminuzione di pena mal si concilia con l’oltraggio e appare illogico ammetterla con riferimento al delitto de quo, sempre che l’arresto fosse arbitrario. In quest’ultima ipotesi, però, il Pessina rileva che non si configura una circostanza attenuante, ma una scriminante. Stato pontificio. 1832. Regolamento su i delitti e sulle pene del 20 settembre 1832: regolamento organico e di procedura criminale col compendio per indice alfabetico: appendice per le Curie ecclesiastiche e tassa delle competenze e spese nei giudizi criminali. Roma: tipografia della Rev. Camera apostolica, 1863. Libro II. Dei delitti i specie, e della loro punizione. Titolo VII. Delle offese, e resistenze a Magistrature e ai Depositari della Forza pubblica. 138 Nel caso di offesa reale o di ferite, è accresciuta di un grado la pena stabilita per tali delitti 139 Le ingiurie o minaccie fatte al Magistrato in odio d’officio sono punite con il primo grado di opera pubblica. (258, 259).140 Le offese reali, o ferite fatte al Magistrato in odio di officio, sono punite colle pene stabilite al Tit. XXIII. Lib. II. delle ferite (art. 5·15)-(262). 10 Casalbore G., Oltraggio, cit., p. 462; Palazzo F., Oltraggio, cit., p.849. Prima del codice Zanardelli: Codice penale 20 novembre 1859 colle modificazioni portate dal Decreto Reale 26 novembre 1865 con indice analitico. Milano; Firenze: Sonzogno, 1865 Libro II. Dei crimini e dei delitti, e delle loro pene. Titolo III. Dei reati contro la pubblica amministrazione. Capo III. Della ribellione, della disobbedienza e di altre mancanze contro la pubblica Autorità. Sezione II. Degli oltraggi e delle violenze contro i depositari dell’autorità e della forza pubblica. 258. Allorquando un pubblico uffiziale dell’ordine giudiziario od amministrativo, od un giurasto, avrà personalmente ricevuto nell’esercizio delle sue funzioni, o a causa del medesimo, qualche oltraggio con parole tendenti ad intaccare il suo onore o la sua rettitudine, il colpevole il colpevole di tale oltraggio sarà punito col carcere da un mese a due anni. Se l’oltraggio ha avuto luogo all’udienza di una Corte, o di un Tribunale, o di un Giudice, sarà punito col carcere non minore di tre mesi. 259 Quando l’oltraggio sia fatto soltanto con gesti e con minaccie, il colpevole sarà punito nel primo caso previsto dall’articolo precedente col carcere estensibile a sei mesi, e nel secondo caso col carcere non minore di tre mesi. 260 L’oltraggio fatto con parole, con gesti, o con minaccie, a qualunque agente o depositario della pubblica forza o ad altra persona legittimamente incaricata di un pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni, o a causa di esse, sarà punito colla pena del carcere estensibile ad un mese, o con multa estensibile a lire duecento. 11 Levi N., Trattato di diritto penale. Delitti contro la Pubblica amministrazione, coordinato da Florian, IV ed., Milano, casa editrice Dr. F. Villardi, 1935, p. 419 ricorda che nei progetti anteriori allo schema Zanardelli-Savelli per il delitto di offese al Re si usava la parola “oltraggio”, che fu abbandonata perchè implicava la presenza dell’offeso. Il codice penale del 1989 ha attinto da quello sardo del 1859 (artt. 258-260) (Manzini V., cit, p. 504 e ss.). 12 Art. 194 del codice penale Zanardelli “Chiunque, con parole od atti, offende in qualsiasi modo l’onore, la riputazione o il decoro di un membro del Parlamento o di un pubblico ufficiale, in sua presenza e a causa delle sue funzioni, è punito: 1° con la reclusione sino a sei mesi o con la multa da lire cinquanta e tremila, se l’offesa sia diretta ad un agente della Forza pubblica; 2 ° con la reclusione da un mese a due anni o con la multa da lire trecento a cinquemila, se l’offesa sia diretta ad un altro pubblico ufficiale o ad un membro del Parlamento”. 13 Art. 195 del codice penale Zanardelli “Chiunque commette il fatto preveduto nell’articolo precedente con violenza o minaccia è punito con la reclusione da un mese a tre anni e con la multa da lire cento a lire mille.
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pre-unitari, apportando da un lato dei perfezionamenti tecnici (tra cui la parificazione dell’oltraggio
commesso con parole a quello commesso con gli atti e l’esplicita previsione dell’estremo della
“presenza” dell’offeso) e dall’altro introducendo delle innovazioni (tra le quali si citano la
specificazione, come fattispecie attenuata, dell’ipotesi di oltraggio “non a causa delle funzioni, ma
nell’atto dell’esercizio pubblico di esse”; il nesso tra le funzioni e l’offesa; la differenza tra i
soggetti passivi qualificati; la violenza e la minaccia come circostanze aggravanti; l’esclusione
dell’exceptio veritatis; la creazione della nuova fattispecie di oltraggio a corpo politico,
amministrativo e giudiziario o di un magistrato in udienza – art. 197 – perseguibile solo dietro
autorizzazione del corpo stesso;16 l’introduzione della reazione legittima agli atti arbitrari del
pubblico ufficiale17).18
Il codice Zanardelli prevedeva due forme di oltraggio: propter officium (a causa delle funzioni) e in
officio (nell’atto dell’esercizio pubblico delle funzioni).
Nella prima ipotesi (art. 194) era necessario che sussistesse un rapporto diretto tra la funzione e
l’offesa, e non di semplice “occasione” delle funzioni. In tal modo si configurava reato anche
quando l’ingiuria era proferita trascorso del tempo dal loro svolgimento, purchè si riferisse a un atto
proprio del ministero del pubblico ufficiale19.
La seconda (art. 19620), invece, oltre ai presupposti previsti nell’art. 194, richiedeva che l’offesa si
avverasse mentre il funzionario adempiva i doveri del proprio ufficio (attualità dell’esercizio delle
Alle stesse pene soggiace chiunque altrimenti usa violenza o fa minaccia contro un membro del Parlamento od altro pubblico ufficiale, a causa delle sue funzioni”. 14 Art. 196 del codice penale Zanardelli “quando alcuno dei fatti preveduti negli articoli precedenti sia commesso contro il pubblico ufficiale, non a causa delle sue funzioni, ma nell’esercizio pubblico di esse, si applicano le pene ivi stabilite, diminuite da un terzo alla metà”. 15 Art. 198 del codice penale Zanardelli “Il colpevole di alcuno dei delitti preveduti negli articoli precedenti non è ammesso a provare la verità e neppure la notorietà dei fatti o delle qualità attribuite all’offeso”. 16 Art. 197 del codice penale Zanardelli “Chiunque, con parole od atti, offende in qualsiasi modo l’onore, la riputazione o il decoro di un Corpo giudiziario, politico o amministrativo, al suo cospetto, o di un magistrato in udienza, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. Se contro il Corpo o il magistrato si usi violenza o si faccia minaccia, la reclusione è da sei mesi a cinque anni. Non si procede che dietro autorizzazione del Corpo offeso. Se il delitto sia commesso contro Corpi costituiti in collegio, non si procede che dietro autorizzazione del loro Capo gerarchico”. 17 Art. 199 del codice penale Zanardelli “Le disposizioni contenute negli articoli precedenti non si applicano quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo, con atti arbitrari, i limiti delle sue attribuzioni”. 18 Casalbore G., Oltraggio, cit., p. 462; Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 849. 19 Frola P. E., Ingiurie e diffamazioni. Degli oltraggi e delle altre offese all’ordine politico-sociale, IV ed., Torino, Unione tipografica editrice, 1903, p. 435 E. Pessina, cit., p. 282, il quale rileva che per determinare se l’oltraggio fu commesso a causa delle funzioni è necessario distinguere tra pubblici ufficiali, quali i carabinieri e le guardie di pubblica sicurezza, continuamente nell’esercizio delle loro funzioni, e quelli che sono tali solo in certi momenti, come gli uscieri, gli ufficiali sanitari, ecc. Con riferimento ai primi si dovrà sempre presumere che la “contumelia” gli sia rivolta a causa delle funzioni, salvo che il privato non provi in giudizio che l’offesa è stata proferita per una ragione privata. Con riferimento ai secondi, invece, non vi è alcuna presunzione ed è sempre necessario stabilire preventivamente quale era la mansione specifica del funzionario, la sua relazione con il cittadino e la sussistenza, o meno, di un rapporto diretto di causa ad effetto tra la funzione e l’oltraggio. 20 Pessina E., cit., p. 307 rileva che nella formulazione dell’art. 196 c.p., a differenza dell’art. 194 il soggetto passivo può essere solo il pubblico ufficiale, e non il membro del Parlamento, perché il senatore ed il deputato sono
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funzioni) e nel pubblico esercizio degli stessi. Di conseguenza il motivo dell’insulto era indifferente
e occorreva la presenza di più persone per assicurare il rispetto del requisito della pubblicità21.
La dottrina giustificava la più grave previsione sanzionatoria rispetto all’ingiuria argomentando che
l’offesa rivolta al privato “non turba che indirettamente l’ordine pubblico, per l’interesse sociale
alla tranquillità dei singoli: la lesione, invece, che ferisce l’onore di un pubblico ufficiale, oltre a
offendere il privato, torna pure a detrimento dell’intiero corpo sociale, obbligato a valersi
dell’opera di persone preposte all’amministrazione pubblica, ed importando, che queste siano
rispettate, acciò l’opera loro si renda accetta, ed affinchè essi possano, circondati dalla stima
dovuta, fiduciosi e tranquilli compiere la loro missione”.22
La formulazione della norma risentì in seguito del mutato contesto socio-politico degli anni ‘30,
caratterizzato dal differente rapporto, rispetto allo Stato liberale, tra cittadino e apparato statale: il
legislatore, infatti, non si limitò ad elevarne le pene, ma ne modificò la precedente disciplina, per
ampliarne l’ambito di applicazione.
Diverse sono le innovazioni23 introdotte rispetto alle corrispondenti disposizioni del codice
Zanardelli: fu sostituita sia l’espressione generica di “decoro” con quella specifica di “prestigio” sia
quella “nell’atto dell’esercizio pubbliche di esse” con quella “nell’esercizio delle funzioni”. Il
legislatore del ’30, infatti, osservò che l’utilizzo della dicitura “nell’atto dell’esercizio pubbliche di
esse” aveva portato la giurisprudenza ad escludere illogicamente dalla tutela sia tutti quei funzionari
che svolgono il loro ufficio “fuori ogni concorso dall’estremo della pubblicità” sia quelli che
potevano considerarsi, per le caratteristiche del loro lavoro, comunque in servizio permanente
(almeno in determinate ore ed in determinati posti), e che al momento dell’offesa non stavano
ponendo in essere un atto specifico del loro ufficio24.
La nuova formulazione della norma, inoltre, equiparò sotto il profilo sanzionatorio l’oltraggio
“nell’esercizio delle funzioni”’ a quello “a causa delle stesse”,25 perché si ritenne che la
consapevolezza e la scelta da parte dell’agente di offendere il pubblico ufficiale mentre svolgeva il
suo ufficio manifestasse un’intensità del dolo almeno pari alla seconda ipotesi criminosa26, e stabilì
nell’esercizio delle loro funzioni solo quando intervengono nelle sedute alle Camere o quando compiono un atto a loro demandato dalle Camere stesse ed in tali ipotesi l’ingiuria è punita più gravemente ai sensi dell’art. 123 c.p. 21 In merito a quest’ultimo profilo si era sviluppato un dibattito in dottrina riportato da cfr. Pessina E., cit., p. 308 e ss. 22 Frola P.E., cit., p. 451. 23 Nel codice Zanardelli non era possibile l’oltraggio per telegramma. Cfr. Pessina E., cit., p. 301. 24 Cfr. Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale, in Lavoratori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, II, Roma 1929, p. 150. 25 Giova specificare che nel testo ci si riferisce alla prima formulazione del reato di oltraggio. In merito Riccio S., Oltraggio alla pubblica amministrazione (Reati di), in Nuovissimo Digesto italiano, a cura di A. Azara ed E. Eula, XI, Torino, Unione tipografica editrice torinese, 1965, p. 828 a differenza del Codice Zanardelli, nel c.p. 1930 le ipotesi sono equiparate: l’offesa, attuata durante l’esercizio delle funzioni, per questo solo è offesa all’autorità d cui il soggetto è rivestito. 26 Cfr. Relazione del Guardasigilli, cit., p. 150.
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la necessità che l’idoneità dell’atto fosse valutata in correlazione alla dignità della pubblica
funzione. Si procedette anche all’eliminazione, rispetto all’art. 194, n. 1 del codice Zanardelli,
dell’attenuazione di pena per il caso di oltraggio ad agente della Forza Pubblica, rispetto a quello
rivolto verso un altro pubblico ufficiale, perché si reputò che non si potesse ravvisare una diversità
d’importanza tra le funzioni esercitate dai primi e dai secondi 27.
Inoltre, sempre al fine di rendere “più completa e vigorosa la tutela giuridica penale degli organi e
delle attività dei pubblici poteri”.28 furono soppresse le norme che rendevano legittima la reazione
del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale29 e introdotte tre nuove fattispecie, accomunate
con l’art. 341 c.p. dalla struttura oggettiva e soggettiva, ma sostanzialmente distinte quanto a
soggetto passivo:30 l’oltraggio a magistrato in udienza (art. 343 c.p.), che prima era invece previsto
unitariamente all’oltraggio a corpo politico, amministrativo e giudiziario; l’oltraggio a incaricato di
pubblico servizio che sia anche pubblico impiegato (art. 344 c.p.); il danneggiamento di affissione
dell’autorità “per disprezzo” verso quest’ultima (art. 345 c.p.),31 che nel codice Zanardelli costituiva
semplicemente una contravvenzione aggravata (art. 446 c.p.). La diffamazione del pubblico
ufficiale, prevista nel progetto preliminare subito dopo i delitti di oltraggio (art. 348 del progetto),
fu, invece, espunta dai reati contro la pubblica amministrazione poiché si stimò che, essendo
l’offesa arrecata in assenza del pubblico ufficiale, il contenuto lesivo del fatto non avesse rilievo
pubblicistico sufficiente a giustificare l’inserimento nel titolo II32. Il codice Rocco33, quindi,
prevedeva quattro principali ipotesi di oltraggio dalla struttura identica,34 differenziandosi, però,
27 Cfr. Relazione del Guardasigilli, cit., p. 150. Sul punto anche Migliori P.S., Pubblica amministrazione (Delitti dei privati contro la), in Nuovo Dig. It. N.D.I., a cura di M. D’Amelio, X, Torino, 1939, p. 914 e ss. 28 Cfr. Relazione del Guardasigilli, cit., p. 141 e ss. 29 Levi N., cit, p. 421 riporta che la mancata riproduzione della disposizione summenzionata aveva dato luogo a discussioni e allarmi circa la portata innovativa del codice. 30 Riccio S., cit., p. 828 31 In merito Pagliaro A., voce Oltraggio a un pubblico ufficiale, in Enc. Giur. Treccani, 1990, vol. XXI, p. 1 ricorda che una parte della dottrina non include la fattispecie dell’offesa all'autorità mediante danneggiamento di affissioni (insieme a quella delle offese all'onore o al prestigio del presidente della Repubblica ex art. 278 c.p.) nella nozione di oltraggio perché manca il requisito della presenza del soggetto offeso, altra parte, invece la considera una species dell’oltraggio sia per tradizione, sia a causa della collocazione legislativa. 32 Relazione del Guardasigilli, cit., 143. Palazzo F., Oltraggio, cit., 849. Nella formulazione della norma viene meno il riferimento al membro del Parlamento quale soggetto passivo. Si può, però, comunque ritenere che continuasse a costituire persona offesa perché rientrante nella nuova definizione di pubblico ufficiale. 33 Si ricorda che accanto alle previsioni contenute nel codice Rocco è possibile rinvenire nel nostro ordinamento un’altra ipotesi specifica di oltraggio: l’art. 1104 (Offesa in danno del comandante, di un ufficiale o sottufficiale o di un graduato) del c.nav. La dottrina, inoltre, mentre è unanime nell’escludere dal novero dei reati di oltraggio quello di offesa all'onore o al prestigio del presidente della Repubblica ex art. 278 c.p. – il quale, nonostante può concretizzarsi in un’offesa di carattere essenzialmente privatistico, è più accostabile ai delitti di vilipendio che a quelli di oltraggio – non è concorde nell’inclusione nella predetta categoria delle fattispecie di ingiurie previste nel c.p.mil.p (artt. 141 - resistenza, minaccia o ingiuria a sentinella, vedetta o scolta - 189 - insubordinazione con minaccia o ingiuria - 196 - minaccia o ingiuria a un inferiore – 226, 245, 248) nel c.p.mil.p. (art. 139) (pro Pagliaro A., Oltraggio, cit., 1 e contra Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 851, il quale osserva che le predette fattispecie sono sprovviste – ad eccezione dell’art. 131 c.p.mil.p. e dell’art. 139 c.p.mil.g. – del nesso tra l’offesa e l’attività funzionale). 34 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 850 tutte le fattispecie, infatti, presentano gli stessi elementi essenziali e il medesimo nucleo fondamentale comune ovvero l’offesa all’onore e al prestigio dell’organo, individuali e collegiale, dello Stato.
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nella identificazione del soggetto passivo: il pubblico ufficiale (art. 341), il corpo politico,
amministrativo e giudiziario (art. 342),35 il magistrato in udienza (art. 343) e il pubblico impiegato
(art. 344).36
Con riferimento alle su riportate modifiche parte della dottrina ha evidenziato come le stesse,
insieme all’esame dei lavori preparatori, rivelano non solo il proposito del legislatore del ‘30 di
prevedere una tutela rafforzata del prestigio dell’autorità, ma soprattutto il fine di proteggere tale
valore “nei suoi profili più esteriori e quasi sacrali, come dimostrano specialmente proprio certe
benevolenze del ministro Rocco, quali ad esempio l’ostinato rifiuto di estendere l’oltraggio a
magistrato oltre ai casi di offesa recata in udienza”.37
I DUBBI E LE CENSURE D’INCOSTITUZIONALITA’ DEL REATO DI OLTRAGGIO
INQUADRAMENTO DELLA PROBLEMATICA Nel suo impianto originario il codice Rocco ha previsto una disciplina completa e rigorosa di tutti
quei comportamenti che potevano risolversi in offesa al prestigio degli organi e dei soggetti investiti
di pubbliche funzioni, fondando tali ipotesi criminose sul particolare status di cui è titolare il
soggetto passivo del reato (pubblico ufficiale, magistrato ecc.). Secondo l'ideologia dell'epoca,
infatti, le predette fattispecie avrebbero dovuto tutelare il prestigio di chi esercitava pubbliche
funzioni, «in considerazione della loro posizione di supremazia all'interno dell'ordinamento»38.
Con il mutamento, a seguito della caduta del regime fascista, della realtà politico istituzionale ed il
suo conseguente evolversi verso la realizzazione in concreto del principio di eguaglianza il sistema
di tutela penale approntato dal Legislatore del 1930, basato, invece, sulla particolare qualifica
soggettiva rivestita dall'offeso dal reato, entrò in crisi con l’equiparazione, pertanto, della
condizione di coloro che appartenevano alla p.a. a quella di tutti i cittadini39.
35 In merito Riccio S., cit., p. 828. La norma riproduce l’art. 197 del codice Zanardelli rispetto alla quale sono state apportate alcune modifiche. In primo luogo si è precisato che soggetti passivi possono essere solamente un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio. La formulazione in tal senso fece venir meno le dispute originate da quella precedente contenuta nel codice Zanardelli e concernenti l’individuazione degli organi pubblici da considerare ricompresi dalla locuzione “o di altre Autorità, di uffici o istituti pubblici” contenuta nell’art. 188. In merito nella Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale si osservava che “per la chiara locuzione del Progetto, invero, è evidente che la costituzione in collegio è condizione inderogabile, perché le altre Autorità, che non siano un Corpo politico, amministrativo o giudiziario rientrino nella previsione dell’art. 344”. Per le altre modifiche si rinvia Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale 36 Per un commento di tutti i reati: Riccio S., cit., p. 828 e Relazione del Guardasigilli, cit., p.143. 37 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 850. 38 Cfr. Fiandaca G. - Musco E., Diritto penale, parte speciale, I, Bologna, Zanichelli, 2009, p. 292 ss. 39 Al riguardo Ariolli G, Il delitto di oltraggio tra principio di ragionevolezza e finalità rieducativa della pena, in Cass. pen., 1995, I, p. 25 osserva che a tale evoluzione contribuì la migliore dottrina, secondo cui, una volta postulata la equiparazione tra soggetti investiti di pubbliche funzioni agli altri cittadini, «non aveva senso parlare di prestigio della
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In particolar modo, tra gli anni ’60 e gli anni ’90 la dottrina e la giurisprudenza di merito hanno
avanzato dubbi e ripetutamente sollevato censure d’incostituzionalità dell’art. 341 c.p. in ragione
dell’asserito privilegio che irragionevolmente accordava alla tutela dell'onore di chi fosse investito
di un munus publicum. Si riteneva, infatti, che la previsione di una tutela rafforzata dell’onore e del
decoro dei pubblici ufficiali rispetto a quella già offerta ai comuni cittadini fosse sprovvista di un
aggancio costituzionale e, perciò, ingiustificata la differenza di trattamento sanzionatorio tra
l’oltraggio e l’ingiuria, considerate le innegabili assonanze strutturali tra le due fattispecie.
Strettamente connesse alle censure d’incostituzionalità mosse era il dibattito, dottrinario e
giurisprudenziale, concernente l’esatta identificazione del bene giuridico tutelato dall’art. 341 c.p.
La Relazione del Guardasigilli sul progetto definitivo del codice penale lo individuava nell’onore o
nel prestigio, quest’ultimo inteso quale particolare forma di decoro, “che attiene alla dignità e al
rispetto, da cui la pubblica funzione deve essere circondata”.40
Subito dopo l’emanazione del codice Rocco, la dottrina tradizionale41 affermava che l’oggetto
specifico protetto dalla norma de qua era il normale funzionamento ed il prestigio della Pubblica
amministrazione. Quest’ultimo costituiva, pertanto, un fondamentale, specifico e diretto interesse
pubblico la cui cura si attuava necessariamente attraverso la tutela giuridica dell’onore e del decoro
di quelle persone fisiche che agiscono come organi della pubblica amministrazione42. Si osservava,
infatti, che lo Stato e gli altri enti pubblici agivano necessariamente per mezzo di organi, i quali, a
p.a. e, di conseguenza, radicare su di esso una peculiare tutela rispetto a quella spettante ai cittadini». In merito anche Bricola F., Tutela della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Studi in onore di Santoro Passarelli, VI, 1970, p. 123. 40 Nella Relazione del Guardasigilli, cit., p.149 veniva, infatti, precisato che il bene giuridico offeso non doveva essere individuato nella “reputazione o fama o stima”, che costituiscono, invece l’oggetto giuridico tutelato dal delitto di diffamazione. In merito cfr. Levi N., cit, p. 421 il quale identifica l’interesse protetto in quello di salvaguardare i pubblici ufficiali e i pubblici impiegati, che prestino un pubblico servizio, da quelle offese che, per avvenire in loro presenza e nell’esercizio o a causa delle loro funzioni, sono dalla legge considerate tali da potersi risolvere in un turbamento della normale e decorosa prosecuzione delle funzioni stesse. 41 In merito cfr. Levi N., cit, p. 421 il quale identifica l’interesse protetto in quello di salvaguardare i pubblici ufficiali e i pubblici impiegati, che prestino un pubblico servizio, da quelle offese che, per avvenire in loro presenza e nell’esercizio o a causa delle loro funzioni, sono dalla legge considerate tali da potersi risolvere in un turbamento della normale e decorosa prosecuzione delle funzioni stesse; Manzini V., Trattato di diritto penale italiano, a cura di P. Nuvolone e G.D. Pisapia, vol. V, Delitti contro la Pubblica amministrazione e l’amministrazione della giustizia, Utet, Torini, 1982, p. 502 e ss.; Migliori P.S., cit., p. 915; Palazzo; F.C., Questioni di costituzionalità in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, cit., p. 1318; Vannini O., Quid iuris?, Manuale di esercitazioni pratiche in diritto penale, vol VII, Problemi relativi al delitto di oltraggio, Milano, Giuffrè, 1951, p 5, secondo il quale “l’oltraggio offende l’onore o il prestigio della persona fisica non in quanto tale, ma come rappresentante (od organo) dello Stato o di altro ente pubblico. Offende, nella persona del pubblico ufficiale l’interesse pubblico a quel particolare rispetto che, quale imprescindibile esigenza di un normale funzionamento della pubblica amministrazione – intesa in senso lato e generico – deve circondare i suddetti rappresentanti od organi; offende l’uomo in quanto funzionario, l’offende nella funzione che esso esplica”. 42 Aprile E., 341 bis, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, di G. Lattanzi - E. Lupo, Vol. VII, Milano, Giuffrè, 2010, p. 578; Migliori P.S., cit., p. 915 il quale rilevava che dalla suesposta impostazione conseguiva che la pubblica amministrazione era considerata soggetto passivo del reato in modo mediato e poteva, costituirsi parte civile; in giurisprudenza Cass., sez. VI, 24 ottobre 1978, Tarlao, in Cass. pen. Mass. Ann. 1981, p. 45 o in Foro it. 1979, II, p.184.
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loro volta, assolvevano i loro compiti mediante l’ausilio di persone fisiche. Di conseguenza le
offese recate a quest’ultime, per causa o nell’esercizio delle funzioni, risalivano all’organo al quale
appartenevano e dall’organo all’ente. Ciò comportava che il rispetto delle persone fisiche che
rappresentano la pubblica amministrazione divenisse oggetto di tutela solo riflessa43.
Si riteneva, infatti, che l’oltraggio costituisse un reato plurioffensivo44 perché la tutela penale
approntata dalla norma si sviluppava in una duplice direzione: l’art. 341 c.p., infatti, da un lato
garantiva il rispetto dovuto alle autorità inerenti ai pubblici uffici, impersonalmente considerati,
perché si individuava un interesse specifico della Pubblica amministrazione a che non fossero
menomati il proprio onore e prestigio, che costituiscono condizione essenziale per il buon
funzionamento della pubblica amministrazione. L’offesa era ricavabile dal nesso tra comportamento
offensivo ed esercizio funzionale, che orientava la lesione sullo Stato-amministrazione oltre che sul
soggetto privato45. Dall’altro tendeva a proteggere il rispetto dovuto alla Pubblica amministrazione
nelle persone dei suoi organi e rappresentanti, perché le offese proferite alla presenza dei pubblici
ufficiali e nell’esercizio o a causa delle funzioni erano considerate come turbamento della normale e
decorosa prosecuzione delle funzioni stesse. Attraverso la lesione del decoro delle persone fisiche
che la rappresentano, è lesa immediatamente la pubblica autorità, colpita nell’estrinsecazione della
sua volontà, rivolta all’attuazione dei fini statuali46.
L’offesa, dunque, poteva essere diretta alla persona del pubblico ufficiale o dell’incaricato di
pubblico servizio o all’organo in quanto tale47, ma oggetto della tutela era sempre la pubblica
amministrazione, in quanto l’offesa era diretta all’autorità: si osservava che, anche quando manca
l’esercizio della funzione, l’offesa si ricollega ed incide sulla stessa48.
43 Al riguardo Manzini V., cit., p. 508 afferma che la protezione penale è stabilita nell’interesse concernente il rispetto dovuto alla pubblica funzione (o al pubblico servizio nell’ipotesi ex art. 344 c.p.) e non nell’interesse riguardante la personalità individuale del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio) che riceve tutela solo riflessa; Perdonò G.L., Oltraggio a un pubblico ufficiale, in Trattato di diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la Pubblica amministrazione, vol II, a cura di A. Cadoppi, S. Canestrai, A. Manna, M. Papa, Torino, Utet, 2009, p. 637 e ss. 44 Casalbore G., Oltraggio, cit., p. 462 e ss., il quale osservava che l’oltraggio è un reato plurioffensivo perchè con esso s’intende proteggere da una parte il regolare esercizio dei compiti assegnati al pubblico ufficiale e, dall’altra parte, l’onore ed il prestigio della persona che tali funzioni esercita; Riccio S., cit., p. 828 e ss.; Vannini O., cit., p. 5 e ss. In giurisprudenza si rinvia a Cass. pen., sez. VI, 21 febbraio 1986, Pericchi, in Cass. pen., 1987, p. 1887, secondo la quale l’oltraggio è reato plurioffensivo perché offende, con l'onore e il decoro della persona investita di pubbliche funzioni, il prestigio della pubblica amministrazione, considerata come complesso di organi aventi scopi pubblici. Dall’asserita plurioffensività del delitto de quo la Corte stabilisce che, qualora si commetta un oltraggio a un carabiniere e poi si invii allo stesso nonché al comandante della stazione da cui quegli dipende una lettera di scuse, si possono applicare le attenuanti generiche e non più l'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p. 45 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 850. 46 Sisti U., voce Oltraggio a un pubblico ufficiale o ad un pubblico impiegato, in Enc. For., vol. V, Milano, Casa editrice dr. Francesco Vallardi, 1930, p. 261 e ss. 47 S. Riccio, cit., p. 828, il quale osserva che in tale ipotesi il contenuto e la direzione della condotta qualificavano le diverse fattispecie. 48 S. Riccio, cit., p. 828.
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Quest’orientamento, però, focalizzando la propria attenzione prevalentemente sul “prestigio” della
pubblica amministrazione, inteso non come “sentimento” del proprio valore sociale49, ma in senso
oggettivo - quale bene di pertinenza della pubblica funzione, consistente nel rispetto di cui essa
deve essere circondata50 - legittimava i dubbi espressi sulla meritevolezza di tutela del predetto
interesse, proprio perché privo di qualsiasi aggancio costituzionale.
Altra parte della dottrina, per superare le censure d’incostituzionalità, poneva l’accento sull’offesa
agli organi e rappresentanti pubblici, individuali o collettivi, direttamente lesi, ritenendo, di
conseguenza, il prestigio della Pubblica amministrazione oggetto di una tutela riflessa e attribuendo,
pertanto, il bene prestigio non alla pubblica funzione, ma direttamente ai soggetti passivi51.
Quest’ultima ricostruzione si basava su una definizione del concetto di “prestigio” intesa quale
specificazione di quella di decoro e identificata, pertanto, con quelle qualità personali che sono
presumibili nell’individuo proprio per il fatto di essere investito di una determinata funzione
pubblica52.
Tale indirizzo era più conforme alla lettera della legge perché teneva in considerazione, non solo il
dato dell’assenza nella struttura della fattispecie dell’elemento essenziale della comunicazione con
più persone, ma anche la circostanza per la quale, se si fosse fatto riferimento all’altra accezione di
“prestigio”, si sarebbe assimilata la fattispecie di oltraggio a quella di vilipendio, che prescinde
dalla necessaria presenza della persona offesa, come richiesto, invece, dalla prima.
Anche la ricostruzione sopra illustrata, però, è stata oggetto di critiche perché, sebbene
indubbiamente tendesse ad abbattere la distanza tra l’offesa tipica dell’oltraggio e quella
dell’ingiuria, superava solo in parte le censure d’incostituzionalità, vale a dire solo quelle inerenti
all’asserita mancanza di un referente costituzionale del bene “prestigio” della pubblica
amministrazione.
LA DOTTRINA La dottrina, fautrice di una lettura costituzionalmente orientata del codice Rocco, ha ripetutamente
sostenuto l’anacronismo dell’art. 341 c.p. perchè rifletteva un’originaria concezione dello Stato-
49 Nozione caratterizzante l’onore-decoro ex art. 594 c.p. 50 Secondo altra parte della dottrina la nozione di prestigio era intesa in senso oggettivo ma come “la reputazione o estimazione di cui il pubblico ufficiale gode presso gli altri” cfr. Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 850. 51 La giurisprudenza di legittimità concordemente ha ritenuto che la persona fisica che rappresenta la p.a. si debba considerare «soggetto passivo immediato del reato» (cfr. Sez. VI, 21 febbraio 1985, Pericchi, in Cass. pen., 1987, p. 1887, n. 1590; Sez. VI, 19 gennaio 1993, Pizziconi, ivi, 1994, p. 2081, n. 1289) 52 In merito cfr. Guerrini F., Osservazioni sulla legittimità costituzionale dell’art. 341 c.p., in Arch. Pen., 1973, I, p.135 secondo il quale il prestigio nel reato di oltraggio è il decoro del pubblico ufficiale, ovvero “la somma di quei valori intellettuali, morali e di capacità che lo rendono degno delle funzioni pubbliche cui è preposto”. Giova ricordare che secondo l’orientamento sopra riportato la nozione di onore, invece, era considerata la medesima sia per l’oltraggio che per l’ingiuria.
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amministrazione in cui quest’ultimo si trovava in una posizione di superiorità rispetto ai comuni
cittadini. Tale impostazione, invece, a seguito del mutato contesto politico-istituzionale, era ritenuta
estranea allo spirito della Costituzione e politicamente inopportuna53, in quanto rivelava una visione
dello Stato e una sensibilità politica diverse da quelle riflesse dalla Carta Costituzionale, e proprio
alla luce del diverso assetto dei rapporti tra cittadino e Stato si rendevano note le difficoltà di
conciliare gli obiettivi dell’efficienza da un lato, e del rafforzamento del prestigio e del regolare
funzionamento dell’amministrazione dall’altro,54.
Si sosteneva, inoltre, che l’art. 341 c.p. accordava alla pubblica amministrazione una tutela non
necessaria, perché in sua mancanza non si sarebbe aperta alcuna lacuna nel sistema, trovando
applicazione le norme sull’ingiuria, e, quindi, privilegiata, perché introduceva una differente tutela
tra soggetti pubblici e privati55.
Volendo schematizzare la dottrina da una parte ha percorso una via analoga a quella delle ordinanze
di rimessione, dall’altra ha percorso una via diversa, ritenendo l’oltraggio “antinomico” col
principio di libera manifestazione del pensiero.
In merito al primo profilo si osservava che la tutela privilegiata, accordata con l’art. 341 c.p. al
prestigio del pubblico ufficiale, in virtù della rilevanza giuridica e sociale del suo status, costituiva
una deroga al principio costituzionale di uguaglianza e a quello della pari dignità sociale; deroga
che poteva ritenersi ammissibile solo per assicurare la tutela di altri beni costituzionali. Il bene
giuridico “prestigio” della pubblica amministrazione, inteso in senso puramente formale, non era
stato fatto oggetto di riconoscimento costituzionale da parte del Legislatore costituente e, con
riferimento al pubblico funzionario, non legittimava una disciplina diversa rispetto a quella
approntata per il cittadino comune. Inoltre l’ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio
privava di ragionevolezza la disciplina vigente anche perchè comportava un irragionevole sacrificio
della libertà personale per la tutela del prestigio della p.a.: un interesse, quest’ultimo, come appena
detto, discutibile quale oggetto di tutela penale e, ad ogni modo, di rango notevolmente inferiore
rispetto a quello, sacrificato, della libertà personale.
53 Cfr. Bricola F., Tutela della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Studi in onore di Santoro Passarelli, VI, 1970, p. 123 secondo il quale dalla lettura analitica della Carta costituzionale è desumibile l’intenzione di qualificare le attività burocratiche come modi di esercizio del potere di partecipazione individuale, potendo così consentire di qualificare la condizione personale degli appartenenti alla burocrazia a quella dei normali cittadini p. 563-579, 573 e ss.; Curi F., L'attività “paralegislativa” della Corte Costituzionale in ambito penale: cambia la pena dell'oltraggio a pubblico ufficiale, in Giurisprudenza Costituzionale, 1995, n. 3, p. 1092; Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, cit., p. 212 ss., i quali sostengono che “la tutela rafforzata dei pubblici funzionari è tipica di uno stato autoritario e pertanto non più conforme al principio di uguaglianza quale canone fondamentale dello Stato di diritto: nell’ambito di quest’ultimo, la condizione personale degli appartenenti alla pubblica amministrazione non può che essere parificata a quella di tutti i cittadini”; Mantovani F., I reati di opinione, in il Ponte, 1971, p. 216, Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 866; Palazzo F., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1318 e ss. 54 A. Madeo, I delitti di oltraggio, in I delitti contro la Pubblica amministrazione, a cura di F. S. Fortuna, Milano, Giuffrè, 2010, p. 219 e ss. 55 Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1328.
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Seguendo questa direttrice si sono sviluppate e perfezionate le ragioni secondo le quali l’art. 341
c.p. doveva ritenersi in contrasto con l’art. 3 Cost. e con i principi generali della Costituzione (artt.
1, 3, 4, 35, 97, 98, 28, 51 e 54), dai quali si ricava, invece, la posizione paritaria dei soggetti
pubblici e di quelli privati56.
Partendo dal presupposto secondo il quale l’oltraggio costituiva un’ingiuria aggravata qualificata, si
affermava che la disciplina prevista dalla predetta fattispecie si traduceva in un’ingiustificata
disparità di trattamento rispetto a quest’ultimo reato, disparità rilevata sia sul piano sostanziale, sia
su quello processuale: non solo, infatti, la pena comminata per il primo delitto era più elevata
rispetto a quella stabilita nel secondo e tale, pertanto, da prevedere come obbligatorio l'arresto in
fragranza57, ma in riferimento all’oltraggio il codice Rocco non stabiliva nè la procedibilità a
querela, né la prova liberatoria58, né le cause speciali di esclusione del reato consistenti nella
provocazione, nella reciprocità delle offese o nella relazione con l’oggetto di una causa o ricorso
(artt. 596, 597, 598, 599 c.p.) 59. Tale situazione di privilegio era aggravata sia dalla circostanza che,
trattandosi di delitto perseguibile d’ufficio, non era possibile evitare l’esercizio dell’azione penale,
neppure nei casi di oggettiva minima gravità del fatto60, sia da quella che sotto il profilo processuale
la prova di responsabilità dell’imputato derivava nella maggior parte dei casi dalla sola
testimonianza della persona offesa. La disciplina, infatti, si prestava a facili abusi da parte del
pubblico ufficiale, proprio per la difficoltà di prova del comportamento da lui tenuto61.
Dall’analisi della struttura della fattispecie, poi, emergeva con chiarezza che il contenuto offensivo
del prestigio della funzione pubblica era così evanescente da rendere fondato il sospetto che la
tutela dell’interesse non fosse altro che un “velo” sotto il quale celare il privilegio sostanzialmente
accordato alla persona del pubblico ufficiale62. A sostegno di tale affermazione si portavano due
distinte argomentazioni: da un lato si notava che solo l’ingiuria a pubblico ufficiale, e non invece la
diffamazione, era stata inclusa tra i reati contro la pubblica amministrazione, come se l’offesa al
56 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 867. 57 In merito Flora G., Effetti sui processi in corso della sentenza costituzionale in materia di oltraggio, in Dir. Pen. e Processo, 1995, 2, p. 198 osserva che la previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza di reato “finiva per innescare una spirale perversa: poiché non molti erano disposti a farsi docilmente arrestare, ne seguiva pressoché automaticamente il reato di resistenza, non di rado accompagnato da quello di lesioni volontarie ai danni di chi procedeva all'arresto, che la giurisprudenza riteneva aggravate nel nesso teleologico (art. 61 n. 2 c.p.) e quindi procedibili d'ufficio. Il risultato era disastroso: una "parola di troppo", spesso "tolta di bocca" dal comportamento magari non "arbitrario", ma nemmeno ineccepibile della vittima costava pene assai pesanti, finendo con il "rovinare" molti cittadini sostanzialmente onesti”. 58 In merito cfr. Antolisei F., cit., p. 360 che ammetteva la prova liberatoria quando si trattava di un fatto attribuito al pubblico ufficiale che si riferiva all’esercizio delle sue funzioni, escludendo, pertanto, i fatti che riguardavano la vita privata 59 Con riferimento alla provocazione giova rilevare che l’ex art. 4 svolge una funzione similare, Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 2. 60 Casalbore G., Oltraggio, cit., p. 462. 61 Casalbore G., Oltraggio, cit., p. 462, il quale rileva che la scriminante trova disagevole applicazione. 62 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 866.
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prestigio delle istituzioni fosse particolarmente intensa per il fatto di essere recata alla presenza,
quasi “sacrale”, dei rappresentanti del potere. L’assenza di un’autonoma fattispecie di diffamazione
a pubblico ufficiale confermava il dato secondo il quale la disciplina allora vigente era calibrata
sulla tutela del prestigio inteso in senso personalistico ovvero quale somma di quei valori
intellettuali, morali e di capacità che rendono il pubblico ufficiale degno delle funzioni pubbliche a
cui è preposto63.
Dall’altro si evidenziava che la mancata previsione, all’interno della formulazione del reato, dei
requisiti della pubblicità o della presenza di terzi come elementi costitutivi rendeva impalpabile
l’offesa al prestigio delle istituzioni, che sembravano essere protette non già per la stima e la
considerazione di cui godono o si presume che godano tra i consociati, ma per il rispetto che gli
organi pubblici devono ispirare in quanto tali. L’oltraggio, pertanto, incarnava una vicenda
conflittuale tra due soggetti per cui l’offesa, restando chiusa in questo rapporto, esprimeva una
mancanza di stima e di rispetto nei confronti di “quel” pubblico ufficiale (concretamente
determinato) e non necessariamente della p.a.64. Seguendo tale impostazione, oltre all’oggetto di
tutela, rischiava di smaterializzarsi anche il comportamento offensivo: solamente attraverso l’analisi
dell’elemento soggettivo e dei moventi del reato era possibile cogliere nella condotta descritta
dall’art. 341 c.p., che oggettivamente è diretta contro la persona del pubblico ufficiale, quella
direzione soggettiva dell’azione contro la funzione e il suo prestigio che ha giustificato la scelta
legislativa di rendere l’oltraggio una fattispecie autonoma ed il suo rigore sanzionatorio65.
L’altra via percorsa dalla dottrina consisteva nella rilevata incostituzionalità derivante dal contrasto
dell’oltraggio con il combinato disposto degli artt. 3 e 21 della Costituzione66. Presupposto di tale
impostazione è l’individuazione dell’ampiezza di tutela che promana dall’art. 21 Cost. e dei suoi
relativi limiti. Tra questi ultimi rientrerebbe non solo quello concernente il diritto di ognuno alla
propria onorabilità,67 derivante dal disposto dell’art. 3 Cost. che proclama la pari dignità sociale di
63 Guerrini F., cit., 135. 64 Cfr. Maizzi P., Minimo edittale della pena per il delitto di oltraggio e principio di proporzione, in Giur. Cost., 1995, n. 3, p. 1106. 65 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 867 66 Guerrini F., cit., 126; Mantovani F., I reati, cit., p. 216; C. Palazzo, Oltraggio, cit., p.866; Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1315; G. L. Perdonò, cit., p. 639. Guerrini in merito rileva che l’antinomia tra il principio costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero e l’incriminabilità dell’oltraggio si presenta come diretta derivazione della ragion d’essere di tale reato In senso contrario Flora G., Il problema della costituzionalità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, in Arch. Giur., 1976, p. 52 e ss.; Palazzo, Ingiuria, oltraggio ed eguaglianza dei cittadini, in Giur. It, 1971, II, p. 21 e ss.; Venturati P., In tema di libertà di critica e oltraggio a pubblico ufficiale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 485 67 Il bene dell’onore rappresenta una degli elementi essenziali della dignità sociale dei cittadini e il contenuto di uno dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost. Ciò implica che la società, e i suoi membri, non possono elevarsi a giudice dell’altrui indegnità: Venturati P., cit., p. 487. Al riguardo Guerrini F., cit., 134 e ss., osserva che anche nell’interpretazione dei limiti all’art. 21 Cost. è necessario tener conto dell’intero sistema costituzionale e dei suoi principi. Pertanto anche il limite del rispetto dell’onorabilità altrui – che incide in tema di oltraggio – non deve essere valutato in termini assoluti, ma all’interno del quadro costituzionale. Si dovrà considerare, nel contesto reale
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tutti i cittadini, ma anche quello autonomo del prestigio. Questa presa di posizione non muove
solamente dal riconoscimento di una speciale influenza e di una peculiare posizione dei pubblici
ufficiali68, ma soprattutto da un’interpretazione estensiva della nozione di prestigio rispetto a quella
di decoro69. Al riguardo, però, la dottrina maggioritaria ha concordato nel ritenere che non sia
possibile enucleare un concetto autonomo di prestigio quale bene a sé, diverso dal decoro ex art.
594 c.p., ma, anzi, che il primo costituisce una species del secondo. Ciò è suffragato dalla
constatazione che dal sistema dei diritti di libertà enunciati nella Costituzione non emerge una
garanzia costituzionale del prestigio come limite alla libertà di pensiero diversa da quella accordata
all’onorabilità in genere70. L’accoglimento di tale accezione dell’oltraggio, quale ipotesi speciale
aggravata del delitto d’ingiuria, e la sua ricollocazione, pertanto, nei reati contro l’onore comporta
di conseguenza la perdita di rilievo delle obiezioni sollevate in riferimento alla diversa incidenza,
rispetto all’ingiuria, dei limiti logici agli artt. 3 e 21 Cost.71. Si è osservato, inoltre, che il richiamo
all’art. 21 Cost. sarebbe stato pertinente solo assumendo preventivamente come premessa il
fallimento del tentativo di tracciare un sistema di limiti esegetici e scriminanti tali da assicurare la
compatibilità delle fattispecie tipiche di cui agli artt. 341 e 594 c.p. con l’art. 21 Cost.72.
Per le motivazioni sopra esposte parte della dottrina, auspicava l’abrogazione del delitto di
oltraggio, dovendosi ritenere sufficiente la tutela apprestata dall'ingiuria aggravata ex art. 61 n. 11
c.p., accompagnata magari dalla previsione di una procedibilità d’ufficio, non come forma di
protezione privilegiata, ma, al contrario, come mezzo idoneo a consentire il controllo democratico
sul comportamento di chi svolge mansioni pubbliche73.
Inoltre, i rilievi critici concernenti il mantenimento dei delitti di oltraggio erano stati anche recepiti
dagli ultimi progetti di riforma del codice penale, che ne avevano ridimensionato la figura in
della fattispecie, il bilanciamento equilibrato delle due opposte esigenze di rilevanza costituzionale (l’espressione del pensiero e la protezione dell’onore della persona) in modo che la dilatazione dell’una non schiacci il nucleo essenziale dell’altro. 68 Venturati P., cit., p. 489, la tutela del prestigio del pubblico ufficiale rispecchia una posizione qualificata e differenziata riconosciuta dalla stessa Costituzione e che, pertanto, si pone in astratto come limite alla libertà di espressione, contribuendo in maniera negativa a circoscriverne i leciti confini. 69 Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1970, I, p. 468, il quale ritiene che il prestigio sia un limite operante a tutela delle sole persone fisiche, alla stregua dell’onore, Zuccalà, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della libertà di pensiero, in Legge penale e libertà di pensiero, Atti del III° Convegno di Diritto penale di Bressanone, Padova, 1966, p. 82. 70 In merito Guerrini F., cit., 135 chiarisce che il limite dell’onorabilità si fonda sul coordinato disposto degli artt. 2 e 3 della Cost., come salvaguardia della persona nei suoi valori essenziali, nella sua “dignità”. In tal senso sia il decoro, sia il prestigio, possono avere risalto solo in quanto atteggiamento particolare della persona , come species della medesima. 71 Guerrini F., cit., p.135 evidenzia, in mancanza di un intervento legislativo in materia, la necessità di un’interpretazione adeguatrice della disciplina penale dell’art. 341 c.p. che espunga dal testo i potenziali significati incostituzionali in esso contenuti. 72 Palazzo C., Oltraggio, cit., p.866. 73 Cfr. Flora G., Effetti sui processi in corso, cit., p. 198.
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generale – e, di conseguenza, anche di quelle di cui agli artt. 342 e 343 c.p. – limitandosi a
prevedere un’aggravante del delitto d’ingiuria74.
Al riguardo parte della dottrina aveva affermato che in sede di riforma poteva essere mantenuta
l’autonomia del reato di oltraggio purché, conformemente al principio di offensività, fosse
riformulata in modo tale da renderla univocamente idonea a ledere l’interesse del buon andamento
ex art. 97 Cost., di sicuro rilievo costituzionale.75
A fronte delle censure sopraesposte, infatti, era possibile rinvenire un orientamento dottrinario
favorevole.
In primo luogo si osservava che il richiamo alla natura non costituzionale del bene prestigio,
sebbene fosse corretto, era al contempo inconferente, perché il principio di uguaglianza del
trattamento legislativo impone solamente di non prevedere diversità di disciplina – legislativa -
assolutamente irragionevoli76. Non solo, pertanto, non elimina la c.d. discrezionalità legislativa,
insindacabile da parte della Corte Costituzionale, ma neanche vieta quelle differenziazioni effettuate
a tutela di beni costituzionalmente irrilevanti. Se così non fosse, infatti, si riconoscerebbe un
principio secondo il quale il ricorso alla sanzione penale è legittimo solo se giustificato
dall’esigenza di garantire valori costituzionali e, di conseguenza tutte le leggi emanate non a tutela
di questi ultimi sarebbero necessariamente l’illegittime77.
74 La prima commissione ministeriale, nominata nel 1945, per la riforma del Codice penale, aveva proposto di reintrodurre l’ipotesi attenuata di oltraggio contro l’agente di forza pubblica contenuta nell’art. 194 n. 1 del codice Zanardelli . La seconda Commissione ministeriale, nominata nel 1956, lasciò cadere siffatta proposta, ma, invece, ne avanzò un'altra che prevedeva, oltre all'eliminazione del minimo della pena edittale, anche l'introduzione di una figura attenuata di reato qualora il fatto oltraggioso risulti di lieve entità, così da richiedere solo una pena pecuniaria. Norma questa che, ampliando il potere discrezionale del giudice, avrebbe reso superflua ogni più particolare statuizione legislativa perché avrebbe consentito all'organo decidente di adeguare, di volta in volta, la sanzione alla grande varietà dei casi che ad esso si presentano e lo sottrarrebbero così all'imbarazzo, assai spesso determinato dalla rigidezza delle attuali disposizioni (cfr. sentenza 19 luglio 1968, n. 109, in Giur.cost., 1968, p. 1697). In merito cfr. Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1330; C. Palazzo, Oltraggio, cit., p.867 e ss., il quale osserva i progetti di riforma si sono limitati ad attenuare il rigore sanzionatorio (abbassando il minimo edittale o sia il minimo che il massimo o prevedendo la possibilità di applicare la sola pena pecuniaria nei casi in cui il fatto risulti di lieve entità) senza innovare la struttura della fattispecie. Madeo A., cit., p. 219. Si veda anche il progetto della Commissione Pagliaro, La riforma del codice penale. Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, in Documenti giustizia, 1992, p. 425, art. 80.2 lett. a) dove si avanza l’ipotesi di costruire l’oltraggio non come fattispecie autonoma di reato, ma come circostanza aggravante per i casi in cui l’offesa ingiuriosa sia arrecata ad un pubblico agente, a causa o nell’esercizio delle sue funzioni. 75 Maizzi P., cit., p. 1109. 76 In merito al principio di uguaglianza quale limite alla libertà legislativa si rinvia a Guerrini F., cit., 137; Paladin L., Il principio costituzionale di uguaglianza, Milano, 1965, p.151 e ss. 77 Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1319; Palazzo C., Oltraggio, cit., p.865 il quale osserva che anche se l’offesa contenuta nell’oltraggio non ha a oggetto un valore costituzionale, si potrebbe comunque ritenere che l’art. 341 c.p. persegua lo scopo di assicurare la migliore e più completa realizzazione di un interesse di sicuro rilievo costituzionale ovvero quello del pronto ed integrale svolgimento delle funzioni pubbliche, che potrebbe essere pregiudicato dal timore di offese ingiuriose recate proprio a causa dell’esercizio funzionale. Nello stesso senso Vecchi M., Disvalore dell’oltraggio e comminatoria edittale della pena, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1996, 788 e ss. secondo la quale il ritenere che talune materie non attinenti alla struttura portante della Costituzione possano essere oggetto della legislazione ordinaria non incide minimamente su quella che può essere definita come legittimazione positiva della tutela sulla base dei beni giuridici costituzionalmente orientati. Tale legittimazione non può essere considerata
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In secondo luogo l’asserita plurioffensività sopra richiamata, portava parte della dottrina ad
affermare che l’oltraggio non costituisse un’ingiuria aggravata dalla presenza del soggetto passivo
qualificato78, ma fosse una figura strutturalmente diversa, poiché parte offesa è la pubblica
amministrazione, attraverso i suoi organi e i suoi uffici79. Si evidenziava, infatti, che quand’anche il
delitto d’ingiuria offendeva un interesse statale, quest’ultimo era un interesse riflesso, indiretto
ovvero “un interesse collettivo alla non violazione dell’interesse individuale”,80mentre
nell’oltraggio quello statale è un interesse diretto al pari di quello individuale e prevalente rispetto a
quest’ultimo. Pertanto la specialità dell’oltraggio rispetto all’ingiuria non era data dal solo soggetto
passivo e dall’elemento strutturale del richiesto nesso tra condotta offensiva ed esercizio funzionale,
ma e soprattutto dal bene giuridico tutelato81.
Tali argomentazioni portavano a ritenere non realmente efficace la critica consistente nella
violazione del principio di uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge82. La predetta
plurioffensività, infatti, riflettendo, un’offesa privatistica e una pubblicistica, rivelava che in realtà
la disciplina prevista non attribuiva una maggiore dignità sociale alla persona fisica del pubblico
ufficiale. La maggiore tutela di cui quest’ultimo godeva, tanto necessariamente quanto
indirettamente, costituiva solo una mera conseguenza giustificata dall’esigenza di proteggere un
altro bene giuridico83.
Si evidenziava, infatti, che quello dell’oltraggio costituisce indubbiamente un regime giuridico
pubblicistico in modo accentuato ma, in quanto tale, svela che il pubblico ufficiale non è tutelato in
quanto semplice privato, ma perché è portatore di un interesse pubblico84. A dimostrazione di
quanto affermato concorre la corretta interpretazione del concetto di onore, che deve essere inteso
in senso soggettivo, ovvero come sentimento di stima che il pubblico ufficiale ha sia di se stesso sia
della funzione pubblica che egli svolge. Da ciò consegue che il predetto sentimento non è tutelato
esclusiva: “in primo luogo perché la peculiarità dell'oggetto di tutela, pur muovendo da premesse costituzionali circa la politica dei beni, non rileva in modo radicale simile delimitazione, tanto più valido poi è questo ragionamento in relazione alla norma sull'oltraggio che ha come oggetto giuridico il prestigio della Pubblica Amministrazione, ma che è orientata finalisticamente verso la realizzazione di interessi costituzionalmente rilevanti. In secondo luogo perché si deve riconoscere un ruolo attivo del consenso, a livello comunque subordinato, nelle scelte di criminalizzazione o anche, a voler disconoscere ciò, si deve ritagliare la concreta dimensione sociale che il bene ha assunto all'atto di selezionarlo quale oggetto di tutela”. 78 Contra: Antolisei F., cit., p. 355 e ss. 79 Riccio S., cit., p. 828. 80 Cfr. Vannini O., cit., p. 6 e ss. 81 Riccio S., cit., p. 828. 82 E. Aprile, cit., p. 579. 83 Palazzo C., Oltraggio, cit., p.867; Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1320. 84 Concordemente Capalozza E., Aspetti e problemi dell’oltraggio a pubblico ufficiale, in Riv. Pen., 1938, 1333, il quale spiega che “la tutela penale relativa alla qualità di pubblico ufficiale è sempre disposta nel pubblico interesse, cioè nell’interesse della funzione, e che, quindi, per l’esistenza dell’oltraggio è richiesto che il fatto colpisca, attraverso la persona, l’esercizio della funzione, senza di che, nonostante la qualità del soggetto passivo, non potrà parlarsi di oltraggio”. Nello stesso senso Levi N., cit, p. 420.
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dall’art. 341 c.p. per i riflessi negativi che la sua offesa può avere sull’individuo, ma per la sua
connessione con l’interesse della Pubblica amministrazione85.
La tutela differenziata della pubblica amministrazione, corrisponde ad una necessità insopprimibile
dello Stato democratico, e la sua attuazione attraverso la particolare sanzione del reato di oltraggio
si adegua esattamente al principio costituzionale secondo cui "i pubblici impiegati sono al servizio
esclusivo della Nazione" (art. 98, primo comma, Cost.)86. Il legislatore, infatti, non ha inteso
proteggere una categoria di lavoratori ritenuti superiori perché dipendenti dello Stato, ma ha voluto
difendere quello speciale status in considerazione delle attribuzioni e dei poteri a essi affidati87. Le
norme ordinarie costituiscono solo lo svolgimento di quel quadro di doveri, responsabilità e
garanzie delineato dalla Costituzione, ove è indicato il diverso status del pubblico ufficiale88.
Si è rilevato, inoltre, che la ratio della particolare tutela dell’onore del pubblico ufficiale è duplice.
Da un lato risulta logico che lo Stato si assuma il compito di garantire il soggetto a cui ha richiesto
di agire per suo conto e che viene offeso proprio “a causa” delle sue funzioni attribuitegli89.
Dall’altro il turbamento psicologico provocato dall’offesa al pubblico ufficiale quando è ingiuriato
“a causa” o “nell’esercizio” delle sue funzioni potrebbe comportare un’alterazione del suo processo
decisionale. Egli potrebbe, ad es., assumere delle scelte sbagliate o rendere l’azione esitante ed
incerta.
Si è, pertanto, osservato che l’offesa arrecata al suo onore può comportare una lesione al bene
costituzionale del buon andamento ex art. 97 Cost.90. Specificamente si sosteneva che l’andamento
della pubblica amministrazione poteva essere “buono” solo in quanto il funzionamento fosse
“regolare” e, costituendo l’oltraggio una turbativa della suddetta “regolarità” si poteva dedurre la
coincidenza tra l’interesse protetto dall’art. 341 c.p. ed il valore costituzionale affermato dall’art. 97
85 A. Pagliaro, cit., p. 2 chiarisce che il pubblico ufficiale, in quanto agisce al servizio della pubblica amministrazione (e, pertanto, al servizio dello Stato), merita una tutela più accentuata da parte dello Stato stesso perché in questo modo quest’ultimo tutela se medesimo. 86 Curi F., cit, p. 1099. 87 Venturati P., cit., p. 487 e ss. per il quale il conferimento di uno speciale status ai pubblici funzionari in considerazione delle attribuzioni ad essi affidati, se da un lato comporta un favor legis con conseguente maggiore protezione, dall’altro è fonte di aggravamento e di ampliamento delle responsabilità. Secondo l’autore anche l’art. 54, 2 comma, Cost., stabilendo un dovere di fedeltà specifica e qualificata per i cittadini investiti di pubbliche funzioni, colloca “in una sfera di autonomia questi soggetti che si pongono nei confronti dello Stato, e, quindi, della collettività, in un rapporto particolare, rimettendo al legislatore ordinario di specificare e concretizzare il contenuto di tale relazione mediante la regolamentazione del comportamento e la fissazione di obblighi e poteri”. 88 Venturati P., cit., p. 488. 89 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 2 osserva che la suesposta spiegazione comunque non possono giustificare le offese arrecate “nell’esercizio delle funzioni” che possono avere anche un contenuto privato. 90 A. Pagliaro, Oltraggio,cit., p. 2 rileva che il pericolo di un’offesa al buon andamento della pubblica amministrazione è stato individuato come fondamento dell’incriminazione a titolo di oltraggio anche da autori che hanno approfondito la problematica prima dell’entrata in vigore della Costituzione. Cfr. anche Venturati P., cit., p. 488
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Cost.91. L’individuazione, quale ulteriore oggetto di tutela, del normale funzionamento della
pubblica amministrazione giustificava la previsione di una sanzione molto più grave e afflittiva di
quella prevista per il reato d’ingiuria92.
Quest’impostazione è stata oggetto di critica93, perché richiedeva un ampliamento semantico della
nozione di “buon andamento” tale da comprometterne la determinatezza concettuale. Per essere
direttamente offeso dalle espressioni oltraggiose esso dovrebbe essere inteso come “funzionamento
normale” perché “esente da ogni perturbamento interno o esterno”. La dilatazione del contenuto
del buon andamento, affinchè quest’ultimo possa costituire l’oggetto immediato di offesa
nell’oltraggio, comporta la perdita della sua capacità selettiva (e di proteggere il funzionamento tout
court, cioè ogni attività amministrativa)94. In tal modo, la tutela dell’interesse de quo si risolve in
un’intangibilità totale, quasi sacrale dei pubblici ufficiali.
Pertanto, secondo un altro orientamento, che seguiva l’impostazione della Corte Costituzionale con
la sentenza n. 51 del 1980, non solo era necessario accogliere una concezione più ristretta del buon
andamento, ma anche specificare che tale nozione non costituiva il bene tutelato dall’art. 341 c.p.,
ma la sola ratio dell’incriminazione95. Secondo tale concezione la struttura dell’oltraggio, pur non
presentando un contenuto offensivo del buon andamento, è funzionale allo scopo di salvaguardare il
predetto valore costituzionale96. Poiché quest’ultimo è sicuramente un bene di rilievo
costituzionale, la finalità di predisporne una tutela avanzata può giustificare il trattamento
sanzionatorio più elevato, non solo perché, a differenza dei beni rilevanti in altri settori di attività
privata, è espressamente menzionato nella Costituzione, ma anche perché risulta ragionevole
accordare una tutela più intensa all’efficienza della pubblica amministrazione a cui è
istituzionalmente affidato il perseguimento di interessi pubblici. Mentre nell’oltraggio “a causa
delle finzioni” lo scopo del buon andamento è perseguito incriminando un fatto che può
negativamente influire sulla fase motivazionale dell’esercizio della funzione, nell’oltraggio
91 Riccio S., cit., p. 828; Spizuoco R., La tutela penale e le ipotesi delittuose del capo II del titolo II del codice penale, in Giust. Pen., 1964, II, p.447; diversamente cfr. Relazione del Guardasigilli, cit., 143 dove si sottolinea che l’oltraggio non intralcia l’andamento del servizio ma lede il prestigio della funzione. 92 Casalbore G., Oltraggio, cit., p. 462 e ss.; Sisti U., cit., p. 261. 93 Palazzo, Ingiuria, cit., p. 25; Maizzi P., cit., p. 1107. 94 Maizzi P., cit., p. 1107. 95 La ratio della norma penale e il bene da essa tutelato sono concetti che devono restare distinti. La loro sovrapposizione, infatti, segna la crisi del concetto di bene giuridico poiché elimina la sua funzione critica “di riscontro oggettivo della norma, di spiegazione e di prova della necessarietà dell’opzione penale”. Sul punto cfr. Ramacci F., Corso di diritto penale, Torino, 2007, p. 28 e ss. 96 In questo senso De Sanctis I., Il soggetto passivo del reato di oltraggio, in Riv. Pen., 1972, I, p. 709. In senso contrario cfr. Maizzi P., cit., p. 1106 e ss. secondo la quale proprio la circostanza di rappresentare lo scopo dell’incriminazione, il buon andamento non coinciderebbe, se non in modo marginale, con il contenuto dell’oltraggio, e non sarebbe, pertanto, idoneo a legittimare costituzionalmente la fattispecie de quo.
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“nell’esercizio” quel medesimo scopo è perseguito incriminando un fatto che può negativamente
influire sulla fase esecutiva della funzione.97
Una composizione tra le due opposte posizioni era costituita da un orientamento dottrinario98
secondo il quale alla luce del bene giuridico prestigio formale della pubblica amministrazione, gli
esiti interpretativi delle due ipotesi di oltraggio, offesa recata “a causa delle funzioni” e
“nell’esercizio delle funzioni” (ovvero per motivi privati), erano diversi: nel primo caso, infatti, il
fatto è, almeno soggettivamente, diretto proprio contro le funzioni medesime più che contro la
persona dell’offeso, tanto da configurarsi come una resistenza o reazione verbale all’esercizio
funzionale “da cui l’offesa è psicologicamente condizionata e al quale è in definitiva
soggettivamente diretta”;99 nel secondo, invece, anche se contestualmente all’esercizio funzionale,
il contenuto offensivo del fatto è esclusivamente diretto, sul piano sia oggettivo sia soggettivo, alla
persona del pubblico ufficiale e, pertanto, non si differenzia da quello dell’ingiuria, poiché la
presenza del nesso di semplice contestualità non sembra sufficiente a modificare l’oggettività
giuridica specifica del reato100. Di conseguenza solo nella prima ipotesi la maggior gravità della
pena può essere fondata sull’esigenza di tutelare un ulteriore bene giuridico rispetto a quello della
dignità sociale della persona direttamente offesa. Il nesso di causalità psicologica (oltraggio a causa
delle funzioni), infatti, si identifica con il movente del reato descritto all’interno del fatto tipico101 e
attribuisce al fatto un contenuto offensivo del prestigio dotato di consistenza ed autonomia
sufficiente da giustificare un trattamento sanzionatorio più elevato rispetto all’ingiuria. Quello di
mera contestualità (oltraggio nell’esercizio delle funzioni) non sembra idoneo ad attribuire un
contenuto offensivo diverso da quello dell’ingiuria perché non contribuisce a rendere univoca
l’offesa nei confronti della p.a., sicchè la maggior tutela può essere ascritta alla sola qualità della
persona offesa. La contestualità, infatti, esprime soltanto il collegamento temporale tra l’esercizio
della funzione e l’offesa e non rappresenta né la causa materiale né quella psicologica dell’offesa
stessa102.
Asserita l’inidoneità del nesso funzionale a incidere sul contenuto obiettivo dell’espressione
ingiuriosa in modo da indirizzarla univocamente sulla pubblica funzione si è affermato, pertanto,
che l’art. 341 c.p. rivela più che un carattere di plurioffensività una doppia e separabile valenza
97 Per un approfondimento della tematica si rinvia a Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1325 e ss.; 98 Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1321; Palazzo C., Oltraggio, cit., p. 867 e ss. 99 Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1320. 100 Contra la Relazione del Guardasigilli, cit., 149 e ss. che fa leva su una presunta non minore intensità del dolo rispetto all’ipotesi “a causa”. In senso critico Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1321 e ss. 101 Maizzi P., cit., p. 1105 la quale osserva che proprio dalla previsione del nesso di causalità psichica inteso come movente del reato descritto all’interno del fatto tipico discende la configurabilità dell’oltraggio come “delitto di tendenza”, punito più gravemente rispetto all’ingiuria perché sintomatico di un atteggiamento interiore di riprovevole mancanza del senso di rispetto nei confronti dell’autorità. 102 Maizzi P., cit., p. 1105.
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offensiva103. Nell’ambito applicativo della norma de quo, infatti, rientrerebbero accanto ai fatti
lesivi del prestigio anche quelli esclusivamente offensivi dell’onore privato del pubblico ufficiale.
Stante l’evidenziata diversità strutturale tra le due figure, l’omologazione sanzionatoria deriva dalla
preminenza accordata dal legislatore al rimprovero per l’atteggiamento colpevole di disobbedienza,
così come testimoniato dai lavori preparatori al codice Rocco104. Tale psicologizzazione dell’offesa,
però, è stata criticata perché comporta che il disvalore dell’evento assuma un ruolo di secondaria
importanza nei confronti del disvalore dell’atteggiamento interiore105.
LA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE Dal 1966 si sono succedute numerosissime ordinanze di rimessione106 secondo le quali, sulla scorta
del principio costituzionale di uguaglianza, non era ammissibile che l’onore del pubblico ufficiale
fosse tutelato in modo molto più rigoroso di quello di un cittadino comune e che, rilevando
l’asserita ingiustificata disparità di trattamento in relazione al reato di ingiuria e, di conseguenza,
implicitamente il disagio dei giudici di merito chiamati ad irrogare la più grave pene prevista
dall’art. 341 c.p. per fatti che talvolta possono rivelare un tenue disvalore sociale, hanno chiesto alla
Corte Costituzionale di eliminare tale disposizione dal codice penale.
La dottrina ha individuato le ragioni di un numero così elevato di ordinanze in due fenomeni diversi
ma interdipendenti107. Da un lato il mutamento del clima politico-culturale rispetto al periodo
fascista e un’accentuata sensibilità della magistratura per i problemi di costituzionalità favorirono
l’acquisizione della consapevolezza del carattere sostanzialmente autoritario della disposizione,
riconosciuto in più occasioni anche dalla stessa Corte Costituzionale108. Dall’altro l’ampliamento
dell’ambito di applicazione dell’art. 341 c.p., dovuto alla progressiva estensione della qualifica di
pubblico ufficiale, soggetto passivo del reato, a categorie sempre più ampie di individui (in ragione
sia dell’interpretazione estensiva, da parte della Cassazione, degli artt. 358 e ss. e sia dell’avvertita
espansione della presenza dello Stato in seguito all’assunzione delle più svariate attività economico-
103 Maizzi P., cit., p. 1107. 104 Cfr. Relazione del Guardasigilli, cit., p. 150. 105 Maizzi P., cit., p. 1106. 106 Il numero elevato delle ordinanze di rimessione ha indotto alcuni autori a parlare di “attacco in massa”. Cfr. Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1309 e ss. Per un elenco più dettagliato si rinvia a Grosso C.F., I delitti di oltraggio, in giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretta da F. Bricola e V. Zagrebelsky, 2ª ed., I, Utet, 1984, p. 317 e ss. Tra le ordinanze degli anni 1968-1980 Palazzo C., Oltraggio, cit., p. 865, segnala, per l’originalità degli argomenti addotti Pret. Mogoro, 30 novembre 1970, in Quale giustizia, 1971, p. 74 (combinato disposto degli artt. 341 del codice penale e 236 del codice di procedura penale, in riferimento all'articolo 13 della Costituzione, in quanto - per l'entità della pena prevista nell'art. 341 cod. pen. - è consentito l'arresto facoltativo in flagranza anche quando l'ufficiale od agente che procede all'arresto sia la stessa persona offesa dal reato, questione dichiarata infondata da C. Cost. sent. 14 luglio 1971, n. 173, in Giust. pen., 1972, I, p45) e Pret. Prato, 15 gennaio 1975, ivi, 1975, p. 1732. 107 Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1309 e ss. 108 Sentenza 19 luglio 1968, n. 109, in Giur.cost., 1968, p. 1697.
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sociali in ogni campo della vita nazionale109), ha comportato delle difficoltà da parte dei giuridici di
merito, costretti ad irrogare la pena più grave prevista dall’art. 341 c.p. in riferimento ad episodi
dotati sovente di un tenue disvalore sociale.
La Corte Costituzionale ha sempre respinto le relative eccezioni110. Da un’analisi complessiva delle
ordinanze di rimessione è possibile individuare due principali censure: i giudici a quo, infatti,
partendo dalla premessa della mancanza di rilievo costituzionale del bene giuridico “prestigio”111
della pubblica amministrazione, che non consentiva di giustificare una deroga al principio
costituzionale di uguaglianza, da un lato sottolineavano la «dimensione privatistica» dell'oltraggio
consistente nell’offesa all’onorabilità della persona fisica del pubblico ufficiale, e dall’altro
sostenevano conseguentemente una presunta identità sostanziale tra le fattispecie dell’oltraggio e
dell'ingiuria112.
Sotto un profilo metodologico i contenuti delle ordinanze di remissione e della giurisprudenza
costituzionale possono essere divisi in due fasi.
Durante la prima113, che va dalla fine degli anni Sessanta agli inizi degli anni Ottanta, le ordinanze
di remissione hanno eccepito, salvo rarissime eccezioni114, l’illegittimità costituzionale
109 S. Scuto, Il nuovo delitto di oltraggio a un pubblico ufficiale, in Il Penalista, Pacchetto sicurezza, 2009. Nella sent. 19 luglio 1968, n. 109, cit., p. 1697, la Corte precisa che “nessuna influenza poi sulla questione può evidentemente esercitare la circostanza dell'ampliamento del numero degli investiti di pubbliche funzioni, verificatosi in conseguenza del progressivo estendersi del campo di azione dei pubblici poteri. Questa circostanza assume senza dubbio notevole rilevanza, ma solo in base a considerazioni affidate alle valutazioni del legislatore”. 110 G. Scandone, Il nuovo e diverso reato di oltraggio a un pubblico ufficiale, in Il sistema di sicurezza pubblica, a cura di F. Ramacci, G. Spangher, Varese, Giuffrè, 2010, p. 450 ricorda che le eccezioni di incostituzionalità sono state sollevate in riferimento agli artt. 1, 3, 24, 27, 28, 35, 51, 54, 97, 98 e 113 Cost. In merito Vecchi M., cit., p. 788 e ss. osserva che sussiste una differenza qualitativa tra le ordinanze: quelle che hanno sottolineato il problema della costituzionalità del bene giuridico della norma evidenziano la consapevolezza da parte dei giudici che la differenza di trattamento riservata ai cittadini è il riflesso del diverso valore attribuito al bene giuridico protetto. 111 Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1318 e ss., sottolinea che le censure mosse dai giudici rimettenti attenevano ad entrambe le accezioni del bene prestigio, inteso in senso sia sostanziale sia formale. In riferimento alla prima si affermava che non può ritenersi che il prestigio della pubblica amministrazione rappresenti un valore maggiore, per esempio, del prestigio della proprietà industriale, o del culto religioso, o dell’insegnamento o della professionalità medica o forense. In merito a questa prima censura, però, l’Autore osserva che sebbene nella realtà dei fatti spesso il prestigio sostanziale di molti settori della Pubblica amministrazione sia inferiore rispetto a quello goduto da alcune branche dell’attività privata e che una tutela paritaria di tutti i “corpi sociali” operanti nel Paese risponderebbe indubbiamente meglio a una reale concezione autoritaria liberale ed anti-autoritaria dello Stato, da ciò non è comunque possibile dedurre una conclusione di incostituzionalità dell’oltraggio per disparità di trattamento assolutamente irragionevole. Non è semplice, infatti, rinvenire nella Costituzione, nonostante le numerose norme dedicatale, una considerazione della Pubblica amministrazione assolutamente paritaria anche agli effetti della legge penale rispetto agli altri “corpi sociali”. 112 In merito Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1315 osserva che l’identità sostanziale “secondo il primo modo di affrontare il problema della costituzionalità dell’oltraggio, sarebbe irragionevolmente misconosciuta con conseguente violazione del principio di uguaglianza di trattamento legislativo; in base invece alla seconda impostazione del problema, l’identità sostanziale delle due fattispecie sarebbe dettata dal principio della pari dignità sociale, che risulta pertanto vulnerato dal privilegio rappresentato dall’art. 341 c.p.”. 113 R. Bartoli, Reazione oltraggiosa agli atti arbitrari e provocazione: verso la parificazione della tutela dei soggetti pubblici e privati, in Cass. pen., 1998, 11, p. 2825 osserva che “sotto il profilo dei rapporti tra il principio di autorità ed il principio di libertà emerge come durante questa prima fase, da un lato, sia esistita una diversità, se non addirittura una vera e propria opposizione, tra la concezione dei giudici remittenti e quella della Corte, e come, dall'altro, entrambe le concezioni si ponessero in contrasto con il rapporto di equilibrio tra libertà e autorità sancito
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dell’oltraggio facendo riferimento a numerose e differenti argomentazioni115, in base alle quali è
possibile suddividerle in due gruppi distinti.
Un primo è composto da quelle ordinanze tra loro accomunate nel ritenere la tutela privilegiata,
offerta dall’art. 341 c.p. al pubblico ufficiale rispetto al privato cittadino, contrastante con il
principio di uguaglianza e di pari dignità sociale116. All’interno del medesimo possono, poi, alcune
si differenziano per l’aver invocato, oltre all’art. 3 Cost., anche il fondamentale principio
democratico di cui all’art. 1 Cost.117, attributivo “dal basso” della sovranità istituzionale; altre
quello della pari dignità e valore sociale del lavoro, sia pubblico sia privato (artt. 4 e 35 Cost.)118;
dalla nostra Costituzione. I primi, infatti, nel costante tentativo di cancellare la fattispecie dell'oltraggio dal nostro ordinamento, hanno aderito in modo più o meno esplicito ad una visione, per così dire, «costituzionalmente rigida» del diritto penale, che non teneva conto della possibilità di giustificare l'esistenza della norma in funzione del perseguimento di uno scopo - il buon andamento della pubblica amministrazione previsto dall'art. 97 Cost. - pregiudicabile dal fatto ingiurioso, con ciò dimostrando non tanto la tendenza a privilegiare il principio di libertà rispetto a quello di autorità, quanto la volontà di eliminare quest'ultimo termine del confronto. Al contrario, la Consulta, fino alla sentenza n. 51 del 1980, nel difendere le scelte operate dal legislatore fascista mediante il solo richiamo al valore del prestigio, pur adottando una visione altrettanto rigida del diritto penale, dietro la quale si nascondeva l'incapacità di trovare una legittimazione costituzionale della norma che tenesse conto del principio di libertà, ha finito per privilegiare in modo assoluto quello di autorità”. 114 Pret. Francavilla al Mare, 28 novembre 1966, in Giur.cost., 1967, p. 375 in cui il pretore lamenta anche che l'unicità della sanzione prevista dalla norma penale renda impossibile distinguere la parte della pena riguardante la difesa della dignità della parte offesa da quella relativa alla tutela della pubblica Amministrazione; Pret. Fiorenzuola d'Arda, 4 giugno 1973, ivi, 1973, p. 1911. 115 Per un’analisi dettagliata delle varie argomentazioni adottate e dei diversi parametri di riferimento richiamati dai giudici remittenti fino al 1980, Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1309. 116 Pret. Bologna, 13 marzo 1970, in Giur.cost., 1970, p. 1256 (in relazione all’art. 344 c.p.); Pret. Carpi, 22 giugno 1971, ivi, 1971, p. 2359; Trib. Cassino, 16 novembre 1971, ivi, 1972, p. 428; Trib. Torino, 24 novembre 1971, ivi, 1972, p. 426; Pret. Livorno, 11 gennaio 1972, ivi, 1972, p. 149; Pret. Pisa, 10 febbraio 1972, ivi, 1972, p. 1651; Pret. Alba, 1 marzo 1972, ivi, 1973, p. 1962; Pret. Avigliana, 15 giugno 1972, ivi, 1973, p. 143; 117 Al riguardo la Corte Cost. nella sent. 19 luglio 1968, n. 109, cit., p. 1697 chiarisce che “la censura di incostituzionalità dell'art. 341 del Codice penale, che l'ordinanza fa derivare dalla violazione dell'art. 1 della Costituzione, non è fondata, dato che questo, se riconosce al popolo l'appartenenza della sovranità, ne consente poi l'esercizio solo "nelle forme e nei limiti della Costituzione", e pertanto nulla da esso può desumersi in ordine alla concreta disciplina delle situazioni giuridiche a favore o a carico dei singoli soggetti”. In senso critico di quanto affermato dalla Corte. Cost. cfr. Guerrini F., cit., 144. Si sono richiamate all’art. 1 Cost. insieme all’art. 3 Cost., oltre tutte quelle che hanno fatto appello anche agli altri principi (ad eccezione di Pret. Bologna 17 giugno 1971, in Giur.cost., 1971, p. 2355; Pret. Castelnuovo della Daunia, 27 gennaio 1972, ivi, 1972, p. 1650; Pret. Lungro29 maggio 1972, ivi, 1972, p. 2430) le seguenti ordinanze Pret. Francavilla al Mare, 28 novembre 1966, cit.; Pret. Massa 20 novembre 1970, ivi, 1971, p. 263; Pret. Riva del Garda 2 marzo 1971, ivi, 1971, p. 1265; Trib. Milano, 15 dicembre 1971, ivi, 1972, p. 422; Trib. Milano, 10 luglio 1972, ivi, 1972, p. 2428, Pret. Sampierdarena 4 ottobre 1972, ivi, 1973, p. 493; Pret. Bologna 17 novembre 1972, ivi, 1973, p. 1908. 118 In merito la Corte Cost. con la sentenza 28 novembre 1972, n. 165, in Giur. cost., 1972, p. 2060, ha affermato che “una volta negata la violazione dell'art. 3, cade quella dell'art. 4 e del correlativo art. 35 Cost., perché se è vero che tutti i cittadini hanno diritto al lavoro e che quest'ultimo è oggetto, nel suo complesso, di apposita garanzia costituzionale, è vero altresì che proprio dall'art. 35, nel suo primo comma, si evince il potere del legislatore ordinario di attuare una distinta protezione delle svariate forme ed applicazioni del lavoro. Ciò implica che ai doveri dei pubblici funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, quali sono posti, genericamente o specificamente, da varie norme della Costituzione, possano corrispondere un'adeguata normativa diversa da quella dei lavoratori autonomi e dei prestatori d'opera dipendenti da privati, ed una particolare valutazione, sul piano giuridico-penale, la quale - ferma restando la pari dignità delle persone uti singuli - sia conforme alle esigenze di protezione delle mansioni esercitate, che, tra l'altro, postulano efficienza e serenità di espletamento”. Per un commento alla sentenza n. 165 si rinvia a Guerrini F., cit., p 126 e ss. Si sono richiamate gli artt. 4 e 35 Cost. le seguenti ordinanze: giudice istruttore del Trib. Torino 5 aprile 1971, in Giur.cost., 1971, p. 1815; Pret. Bassano del Grappa Massa 25 giugno 1971, ivi, 1971, p. 2353; Pret. Bologna 17 giugno 1971 ivi, 1971, p. 2355; Pret. Conegliano, 15 gennaio 1972, ivi, 1972, 1664; Pret. Castelnuovo
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altre ancora i principi in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione
(artt. 97, 98 e 113119 c.p.), al fine di contestare la tutela privilegiata dei soggetti della pubblica
amministrazione, in altre parole le norme costituzionali relative alla responsabilità dei pubblici
funzionari nei confronti dei privati e al loro rapporto con l’amministrazione e con l’esercizio
funzionale (artt. 28120, 51, e 54121 Cost. per i quali nel nuovo assetto istituzionale in cui si
inseriscono sia la burocrazia sia i cittadini, tutti partecipano alla vita della società e dovrebbero
godere dello stesso prestigio, senza possibilità di distinzione tra funzioni, mestieri e lavori e per cui
non è riconosciuto ai pubblici ufficiali il privilegio dell’onore ma il dovere dell’onore, cioè
l’obbligo a meritarsi sul campo la stima dei cittadini 122)123.
Riguardo alle ordinanze di rimessione di questo primo gruppo si è consolidata una giurisprudenza
della Corte costituzionale confermativa della sua prima sentenza in materia, la n. 109 del 1968124. In
quest’ultima la Corte, pur riconoscendo il carattere chiaramente autoritario della previsione e, nel
rispetto delle prerogative del legislatore in materia, invitandolo a una riforma della fattispecie in
della Daunia 27 gennaio 1972, ivi, 1972, 1650; Pret. Massa, 20 aprile 1972, ivi, 1972, 1647; giudice istruttore del Trib. Torino 17 novembre 1972, ivi, 1973, p. 495. 119 In merito alla censura d’incostituzionalità avente ad oggetto il contrasto con l’art. 113 Cost. la Corte Cost. nella sentenza 28 novembre 1972, n. 165, in Giur.cost., 1972, p. 2060, ha rilevato che “il denunziato art. 341 cod. pen., norma di diritto penale sostanziale, non limita in alcun modo la guarentigia giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi del cittadino”. 120 Dal quale è possibile dedurre la sottomissione della p.a. e dei suoi dipendenti al principio generale di responsabilità ex art. 28 cost. 121 Dal quale discende il dovere specificamente imposto ai cittadini, cui sono affidate funzioni pubbliche, di adempiere con disciplina d onore. 122 Guerrini F., cit., p 136 secondo il quale la condizione del funzionario pubblico si lega “in modo stretto all’osservanza da parte del medesimo dei doveri posti a suo carico dalla Costituzione e dalle leggi; e così la “onorabilità” dello stesso non è qualcosa che si aggiunga dall’esterno, quasi con forza carismatica alla sua persona, ma è la rifrazione del suo operare nella vita comunitaria in modo legale, democratico e tecnicamente corretto”. 123 Trib. Venezia, 17 febbraio 1970, in Giur.cost., 1970, p. 1257; Pret. Montebelluna, 24 febbraio 1970, ivi, 1972, 423; Pret. Caltanissetta 13 marzo 1970, ivi, 1970, 1727; Pret. Carrù 11 luglio 1970, ivi, 1970, 2297; Pret. Bassano del Grappa Massa 25 giugno 1971, ivi, 1971, p. 2353; Pret. Sarzana dicembre 1971 ivi, 1972, 423; Pret. Padova, 25 ottobre 1971, ivi, 1972, 1647; Pret. Conegliano, 15 gennaio 1972, ivi, 1972, 1664; Pret. Castelnuovo della Daunia, 27 gennaio 1972, ivi, 1972, p. 1650; Pret. Lodi 22 marzo 1972, ivi, 1972, p. 1649; Pret. Massa, 20 aprile 1972, ivi, 1972, 1647; Pret. Lungro29 maggio 1972, ivi, 1972, p. 2430; giudice istruttore del Trib. Torino 17 novembre 1972, ivi, 1973, p. 495. 124 Sentenza 19 luglio 1968, n. 109, in Giur.cost., 1968, p. 1697. In seguito la Corte è tornata sull’argomento con la sentenza 28 novembre 1972, n. 165, ivi, 1972, p. 2060 in cui da un lato ha dichiarato l’infondatezza della questione concernente l’art. 344 c.p. richiamandosi alla motivazione della sentenza n. 109 del 1968, dall’altro ha affrontato ulteriori profili della costituzionalità dell’art. 341 c.p., che non è stato ritenuto contrastare con gli artt. 4 e 35 Cost. La Corte ha sempre confermato la sua originaria giurisprudenza, solitamente con ordinanze di manifesta infondatezza (ordinanza 1 febbraio 1973, n. 6, ivi, 1973, p. 18; ordinanza 9 maggio 1973, n. 61, ivi, 1973, p. 777; ordinanza 6 giugno 1973, n. 80, ivi, 1973, p. 866; ordinanza 30 gennaio 1974, n. 22, ivi, 1974, p. 85; ordinanza 19 giugno 1974, n. 182, ivi, 1974, p. 1622 (relativa al trattamento sanzionatorio); ordinanza 25 febbraio 1975, n. 39, ivi, 1975, p. 164; ordinanza 15 dicembre 1980, n. 165, ivi, 1980, p. 1499). Altre volte è intervenuta con sentenze di manifesta infondatezza che decidevano anche questioni diverse (sent. 23 maggio 1973, n. 68, ivi, 1973, p. 817, che ha deciso, con identiche motivazioni, sulla costituzionalità dell’art. 336 c.p.; sentenza 27 giugno 1973, n. 95, ivi, 1973, p. 967, che affrontava anche questioni relative alla sospensione condizionale; sentenza 16 luglio 1973, n. 133, ivi, 1973, p. 1369; sentenza 26 giugno 1974 n. 192, ivi, 1974, 1666 che dichiarava incostituzionale la norma che attribuiva indiscriminatamente la qualifica di pubblico ufficiale agli addetti alle Ferrovie dello Stato). Unica sentenza d’infondatezza fino alla n. 51 del 1980 è stata quella del 13 marzo 1971, n. 65, ivi, 1974, 256 con cui la Corte aveva escluso che l’art. 341 c.p. potesse essere dichiarato incostituzionale perché estende la tutela anche alle guardie giurate.
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linea con l’assetto dei valori disegnato dalla Carta fondamentale, ha sempre dichiarato la fattispecie
di cui all'art. 341 c.p. costituzionalmente legittima. Ha ritenuto, infatti, quest’ultima eterogenea
rispetto all’ingiuria, essendo posta a garanzia di un bene (il prestigio della pubblica
amministrazione) che trascende quello della persona fisica125 e tale da giustificare la maggior tutela
fornita. La Corte, inoltre, con riferimento all’eccepita eccessiva sperequazione tra le pene previste
ha giudicato che la differenza di trattamento sanzionatorio non fosse del tutto ingiustificata e tale,
perciò, da “non uscire dal campo della politica legislativa per entrare in quello del sindacato
costituzionale”126 poiché non oltrepassava i limiti della ragionevolezza.
Il secondo gruppo è costituito da quelle ordinanze che, nel tentativo di aggirare la presa di posizione
della Corte, hanno prospettato la questione sotto profili diversi127. Alcune hanno ravvisato un
contrasto con l’art. 13 Cost. perché la pena prevista dall’art. 341 c.p. consentiva l’arresto in
flagranza128 da parte dello stesso pubblico ufficiale offeso;129 altre hanno eccepito che l’elevatezza
125 La Corte nella sentenza 19 luglio 1968, n. 109, in Giur.cost., 1968, p. 1697 spiega che “la diversità delle sanzioni disposte nei casi di offesa all'onore e al decoro di una persona, nelle due ipotesi previste rispettivamente dagli artt. 341 e 594 del Codice penale, trova un'ovvia giustificazione nella eterogeneità delle fattispecie criminose in essi considerate: una riguardante l'offesa recata ai privati cittadini, l'altra, invece, rivolta contro chi riveste la qualifica di pubblico ufficiale, e nell'atto dell'esercizio dei poteri a lui conferiti. É chiaro che in questo secondo caso la tutela penale dell'onore della persona fisica titolare del pubblico ufficio, è assorbita in quella del prestigio della pubblica Amministrazione che in essa si incarna, che viene colpito nel momento stesso in cui la sua autorità si fa concretamente valere, e pertanto dà luogo ad una nuova e diversa fattispecie legale. Così essendo, non sorge il problema prospettato nell'ordinanza della difficoltà di discriminare fra parte e parte della sanzione prevista dall'art. 341, allo scopo di stabilire quanto della medesima riguardi l'interesse del singolo e quanto quello della Pubblica Amministrazione”. 126 Cfr. Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1312. 127 In tale gruppo è possibile ricomprendere anche l’ordinanza della Pret. Sassari 10 novembre 1977, in Giur.cost., 1978, II, p. 575, che, seppur con riferimento all’art. 342 c.p., ha eccepito l’incostituzionalità dell’oltraggio a Corpo politico, amministrativo o giudiziario in quanto, a differenza di quanto previsto dall’art. 596 c.p. in tema di diffamazione non sarebbe prevista la possibilità della prova liberatoria. La questione è stata respinta con ord. 13 dicembre 1985 n. 338 Al riguardo C. Palazzo, Questioni di costituzionalità, cit., p. 1313 osserva che il problema dovrebbe ritenersi superato se si ammette l’applicabilità della scriminante dell’esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero anche alla fattispecie di oltraggio. 128 Pret. Mogoro, 30 novembre 1970, cit., che ha sollevato questione di costituzionalità del combinato disposto degli artt. 341 del c.p. e 236 del c.p.p. del 1930, con riferimento all'articolo 13 della Costituzione, in quanto - per l'entità della pena prevista nell'art. 341 c.p. - è consentito l'arresto facoltativo in flagranza anche quando l'ufficiale od agente che procede all'arresto sia la stessa persona offesa dal reato. Il notevole turbamento psichico causato dall’oltraggio lo porrebbe nella concreta impossibilità di comportarsi con la lucidità e serenità necessarie a ridurre al minimo indispensabile i casi di restrizione della libertà personale. Al riguardo, il pretore ricorda che “l'agente od ufficiale che si ritenga oltraggiato dovrebbe giudicare della sussistenza, oltre che dell'eccezionalità necessità ed urgenza di cui al precetto costituzionale, e, altresì, degli estremi della flagranza (o quasi flagranza), ai sensi dell'art. 241 del codice di procedura penale, e dovrebbe, poi, tenere conto delle qualità morali dell'autore di un reato contro di lui commesso: così come, ai termini dell'art. 240 dello stesso codice, dovrebbe valutare se, per ipotesi, il fatto non appaia compiuto, ad esempio, come reazione all'atto arbitrario dello stesso procedente. Agendo questi in una situazione di sospetto e di parzialità, analoga a quella prevista per la magistratura dagli artt. 60 del codice di procedura penale e 51 del codice di procedura civile, sarebbe vulnerato il principio di cui al precetto costituzionale sull'inviolabilità della libertà personale; e dato che la condizione di scarcerato sarebbe assai diversa da quella di chi non sia stato affatto arrestato, alla suddetta violazione non potrebbe porre riparo neppure il successivo intervento dell'autorità giudiziaria”. La questione è stata dichiarata infondata da C. Cost. sent. 14 luglio 1971, n. 173, in Giust. pen., 1972, I, p 45. La Corte spiega che “A prescindere che vi sono numerosi altri reati, accanto all'oltraggio, in cui parte offesa è, o può essere, colui al quale è conferito il potere di arresto, le garanzie per il prevenuto, sotto la prospettazione dell'art. 13 della Costituzione, sono le stesse, sia che l'arresto venga effettuato direttamente dall'oltraggiato, sia che venga effettuato da altri, perché non mutano le condizioni poste dalla legge, né i controlli ad opera dell'autorità giudiziaria…Sarebbe,
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del minimo edittale e la mancata previsione della pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva
non consentivano al giudice di adeguare la pena in concreto alla reale gravità dei fatti oltraggiosi
che, seppur conformi alla fattispecie di cui all’art. 341 c.p., si rivelavano di un disvalore tenue: con
l’ulteriore conseguenza di trattare in modo egualmente grave fatti diversi quanto alla loro gravità e
di violare, oltre al principio di uguaglianza, quelli dell'umanità, della proporzionalità e della
funzione rieducativa della pena ex art. 27 Cost. 130. A questo secondo gruppo di ordinanze, che non
provocarono un sostanziale mutamento d’indirizzo della Corte, si deve ascrivere anche quella131 che
ha dato causa alla sentenza n. 51 del 1980132, con la quale termina la prima fase.
oltre tutto, irrazionale e addirittura paradossale che l'ufficiale o l'agente di polizia giudiziaria o della forza pubblica, parte lesa di un fatto di reato contro la pubblica amministrazione, dovesse subire, inerte e impotente, un'offesa anche se grave, anche se reiterata, anche se commessa in presenza di più persone: dovesse, cioè, rinunciare ad esercitare quel potere che la legge gli attribuisce a protezione non di se stesso, ma del pubblico interesse, che è oggetto della tutela giuridico-penale nel reato di oltraggio. È vero che l'offeso non si trova nelle migliori condizioni per una serena valutazione e che, in elevata percentuale, gli incolpati di oltraggio vengono tratti in arresto dallo stesso offeso nell'onore o nel prestigio; ma l'inconveniente si neutralizza o, quanto meno, si attenua col rispetto rigoroso delle altre regole contenute nell'art. 13, terzo comma, Cost., che afferma e conferma che il principio della inviolabilità della libertà personale, contenuto nel primo comma, non esprime un'astratta postulazione ideologica, bensì impone ai pubblici poteri precisi imperativi giuridici”. Per un commento al problema specifico si rinvia a Spizuoco R., Il pubblico ufficiale offeso e la riforma penale, in Giust. Pen., 1957, II, p.637 129 In merito si rinvia alle considerazioni svolte da Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1320 sul principio secondo il quale il sacrificio della libertà personale è legittimo solo quando giustificato dalla necessità di prevenire e punire 130 Pret. di Fiorenzuola d'Arda 4 giugno 1973, in Giur. cost., 1973, p. 1911, e Pret. Gubbio 25 ottobre 1973, ivi, 1974, p. 382 alle quali la Corte ha risposto con ordinanze di manifesta infondatezza: ord. 19 giugno 1974, n. 182, cit., e ordinanza 25 febbraio 1975, n. 39, cit. Si veda anche Pret. Langhirano 23 maggio 1975, ivi, 1975, 2298, che riteneva violato l'art. 3 della Cost. perché a seguito della modifica dell'ultimo comma dell'art. 69 c.p., introdotta con l'art. 6 del d.l. 11 aprile 1974, n. 99, è possibile punire più lievemente, a seguito del giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, un reati circostanziato più grave rispetto a quello di oltraggio semplice, producendo una illegittima disparità di trattamento. La Corte ha respinto la questione con la sentenza 2 giugno 1977, n. 100, ivi, 1977; II, p. 762, motivando che il pretore avrebbe dovuto impugnare l’art. 69 c.p. 131 Pret. Prato, 15 gennaio 1975, cit., p. 1732. Il pretore afferma che l’art. 341 sembra in contrasto con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, “giacché esso comporta, sul piano processuale, una disparità di trattamento tra pubblici ufficiali e comuni cittadini che si risolve in una discriminazione e in un privilegio odioso a danno delle persone titolari di pubblici uffici. Queste infatti a causa della procedibilità d'ufficio del reato di oltraggio, sono private del potere di proporre (o di non proporre) e di rimettere la querela a tutela della loro personale onorabilità e perciò del personale e privato interesse da questa costituito. In tal modo i pubblici ufficiali non hanno come gli altri cittadini la facoltà di deliberare discrezionalmente a tutela della loro personale onorabilità e del loro interesse alla riservatezza, in ordine all'opportunità di provocare o invece di sottrarsi ad un processo penale”. Per un commento si rinvia a Palazzo F.., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1313 e ss., il quale osserva che il secondo profilo (sopra riportato) in riferimento al quale il Pretore di Prato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 341 cod. pen. è più originale, tanto da giustificare la decisione della Corte con sentenza anziché con semplice ordinanza. Si pone il problema della costituzionalità dell’oltraggio con il riferimento al principio di uguaglianza di trattamento legislativo. 132 Corte Cost., sentenza 14 aprile 1980, n. 51, ivi, 1980, I, p. 359. Per un commento alla sentenza si rinvia a Palazzo C., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1324 e ss.; R. Bartoli, cit., p. 2826 rileva che la Corte con la sentenza n. 51 del 1980 “ha gettato le basi per un nuovo modo di concepire il rapporto tra autorità e libertà. Infatti, dichiarando la legittimità costituzionale della norma attraverso un giudizio più aperto e valutativo, fondato sullo scopo della norma, e mediante un'argomentazione aderente ai principi della Costituzione, la Corte ha - per così dire - implicitamente riconosciuto la portata costituzionale del principio di libertà ovvero la sua valenza quale termine di confronto con il principio di autorità. In sostanza, l'adozione di un giudizio più sensibile a valutazioni contenutistiche ha comportato il riconoscimento che le scelte di criminalizzazione sono il risultato di un bilanciamento di interessi opposti e contrastanti, i quali, con riferimento all'oltraggio, sono costituiti dal principio di libertà e da quello di autorità. Al contrario, se la Corte avesse continuato a ritenere la legittimità della norma perché posta a tutela del bene del prestigio, oppure se avesse accolto le questioni di legittimità costituzionale così come prospettate dai giudici remittenti,
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Nella predetta sentenza la Corte costituzionale, dopo aver ribadito che l'art. 341 c.p. appresta una
tutela che trascende la persona fisica del titolare dell'ufficio, per risolversi nella protezione del
prestigio della Pubblica amministrazione impersonata da suddetto titolare, ha reinterpretato il bene
giuridico del delitto di oltraggio, identificandolo con l’interesse al buon andamento della pubblica
amministrazione133, precisando che tale finalità non deve essere riferita esclusivamente alla fase
organizzativa iniziale dell'amministrazione, ma ne investe tutto il complesso funzionamento. Da tali
premesse la Corte fa scaturire una duplice conseguenza: la previsione «ragionevole» di un
trattamento sanzionatorio più grave rispetto al delitto d’ingiuria e la sua perseguibilità di ufficio.
Pertanto, l’asserita disparità rispetto ai comuni cittadini in cui si trova il pubblico ufficiale, privato
del potere di querela (la prospettiva d’incostituzionalità, infatti, era stata capovolta dal Pretore di
Prato) è giustificata dalla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e che
trova fondamento nella Carta costituzionale. La Corte, pertanto, individuando nel buon andamento
lo scopo della norma e la ragione giustificatrice della fattispecie, fuga ogni dubbio sulla diversità
sostanziale delle due disposizioni (artt. 594 e 341 c.p.), e, di conseguenza, sulla legittimità
dell'oltraggio, quanto meno con riferimento alla sua incriminazione134.
Nella seconda fase, che va dalla metà degli anni Ottanta fino alla metà degli anni Novanta
(specificamente fino alla sent. 341/1994), i giudici remittenti: da un lato non hanno più posto in
discussione il fondamento giustificativo della diversità di disciplina tra le fattispecie dell’oltraggio e
dell’ingiuria, perchè hanno accettato l’idea che tra le due non esistesse un’identità sostanziale tra la
posizione giuridica del privato e quella del pubblico ufficiale; dall’altro hanno individuato nel
trattamento sanzionatorio dell’oltraggio, e non più, pertanto, nella sua incriminazione, il punto in
cui si realizzava un privilegio del principio di autorità costituzionalmente illegittimo135.
essa sarebbe caduta nella stessa rigidità logica di chi affermava l'esistenza di un catalogo chiuso dei beni meritevoli di tutela penale, con ciò continuando ad estraniare le scelte di criminalizzazione dalla dialettica democratica e dal più complesso rapporto di equilibrio ricavabile dalle norme costituzionali, e quindi ad estromettere dal confronto il principio di libertà”. 133 ha affermato che la tutela del prestigio «corrisponde alla finalità del buon andamento amministrativo prevista dall'art. 97 Cost.». 134 Sul punto, Palazzo F., Questioni di costituzionalità, cit., p. 1324; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 8. 135 Pret. Pietrasanta, 27 settembre 1979, in Giur.cost., 1980, II, p. 365 (in cui è posta questione di legittimità costituzionale dell'art. 341 del codice penale, nell’assunto che la norma denunziata contrasti con l'art. 3 della Costituzione sotto due profili: per ciò che attiene alla procedibilità ex officio dell'azione penale e per ciò che attiene alla determinazione della pena in limiti edittali sproporzionati ai criteri posti dallo stesso legislatore, per la tutela dell'onore rispetto a quella della reputazione); Pret. Soave, 29 ottobre 1982, ivi, 1983, II, p. 992; Pret. Velletri 6 aprile 1983; Pret. Verona, 31 maggio 1983, ivi, 1984, II, p. 86; Pret. Verona, 14 giugno 1983, ivi, 1984, II, p. 730; Pret. Thiene, 25 ottobre 1983, ivi, 1984, II, p. 732; Pret. Thiene, 17 aprile 1984, ivi, 1985, II, p. 32 (le quali sollevano questione di legittimità costituzionale dell'art. 341 c.p., con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, per il diverso trattamento sanzionatorio recato da questa norma rispetto agli artt. 186, 189 C.P.M.P., i quali, a seguito delle pronunzie della Corte Costituzionale nn. 26 del 1979 e 103 del 1982, puniscono l'insubordinazione con violenza e con minaccia con le pene previste dall'art. 594 c.p. ovvero dagli artt. 226 e 229 C.P.M.P., e quindi in misura meno grave rispetto alle pene previste per il reato di oltraggio a p.u.); Pret. Sampierdarena, 7 febbraio 1985, ivi, 1985, II, p. 1200 (secondo la quale, dovendosi escludere che chi offende il pubblico ufficiale intenda ledere altresì il prestigio dello Stato, la sanzione
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Nelle ordinanze di rimessione, infatti, non solo si eccepiva la sua sproporzione rispetto a quello
dell’art. 594 c.p., ma veniva anche rilevato che sia l’inapplicabilità all’art. 341 c.p., (a causa
dell’elevato minimo edittale della pena, delle sanzioni sostitutive ex art. 77 della legge 24 novembre
1981 n. 689 e di quelle sostitutive di cui all'art. 53 della stessa legge, eccezion fatta per quella della
semidetenzione)e sia la mancata previsione della pena pecuniaria in alternativa a quella detentiva,
non consentivano al giudice di adeguare la pena in concreto alla reale gravità dei fatti oltraggiosi
che, pur conformi all’art. 341 c.p., si rivelassero in concreto di tenue disvalore.
Il trattamento sanzionatorio edittale, essendo, dunque, eccessivo e del tutto sproporzionato riguardo
a talune concrete manifestazioni della fattispecie e all’effettivo disvalore del fatto nonchè
irragionevole rispetto a quelli di altre fattispecie molto più gravi dell'oltraggio, violava sia il
principio di cui all'art. 27, comma terzo, della Costituzione, della finalità di rieducazione e di
risocializzazione del condannato, sia quello dell'art. 3 della Costituzione.
La Corte, però, ha continuato a emanare pronunce di rigetto136, fino a quando, con la sentenza n.
341 del 1994, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma sull’oltraggio nella parte in cui
prevedeva come minimo edittale sei mesi di reclusione.
Nelle predette pronunce da un lato ha riconosciuto che la disciplina legislativa dell'oltraggio, così
come disegnata dal codice Rocco, “troppo risente dell'ideologia del regime dal quale ebbe origine”,
particolarmente quanto all'entità della pena;137 dall’altro ha sottolineato che la predetta disciplina
“non è tale da non riuscire sorretta da qualche giustificazione, in guisa da incrinare i poteri
discrezionali del legislatore nella valutazione della congruenza fra reato e pena affidata a criteri di
politica legislativa”. Quest’ultimo, infatti, secondo la Corte non ha inteso tutelare una categoria di
lavoratori ritenuti superiori perché dipendenti dello Stato, ma soltanto di proteggere quello speciale
status che è conferito in considerazione delle attribuzioni e dei poteri a essi affidati: status che,
comminata è assolutamente sproporzionata al disvalore del fatto, e perciò del tutto inadeguata a raggiungere le finalità di risocializzazione che l'art. 27 Cost. prevede); Pret. Sampierdarena, 23 giugno 1988, ivi, 1988, II, p. 2916 (secondo la quale il trattamento sanzionatorio edittale a causa dell'elevato minimo edittale della pena erano inapplicabili all’art. 341 c.p. le sanzioni sostitutive ex art. 77 della legge 24 novembre 1981 n. 689 e quelle sostitutive di cui all'art. 53 della stessa legge - eccezion fatta per quella della semidetenzione - doveva considerarsi eccessivo e del tutto sproporzionato in relazione a talune concrete manifestazioni della fattispecie, in ordine alle quali veniva a risultare impeditivo rispetto alle finalità di rieducazione del condannato e di risocializzazione, così violandosi il principio di cui all'art. 27, comma terzo, della Costituzione);Pret. Padova, 29 marzo 1993, in G.U., n. 6 del 2 febbraio 1994. 136 Ordinanza 15 dicembre 1980 n. 165. Ordinanza 02 maggio 1985 n. 135, Ordinanza 17 dicembre 1987, n. 529, in Giur.cost., 1987, II, p. 3442 (insubordinazione); ordinanza 17 marzo 1988 n. 323, ivi, 1988, I, p. 1335; ordinanza 16 marzo 1989, n. 127, ivi, 1989, I, p. 621. Per un’analisi della concezione dei rapporti tra autorità e libertà dei giudici remittenti e nella giurisprudenza della Corte in questa seconda fase si rinvia a R. Bartoli, cit., p. 2826 . 137 A tal riguardo la Corte nell’ordinanza 17 marzo 1988 n. 323, ivi, 1988, I, p. 1335 osserva che “è stata però ripristinata la scriminante conosciuta dalla democrazia liberale prefascista, per la quale la tutela vien meno ogniqualvolta il pubblico ufficiale stesso, con il suo comportamento, tradisce le finalità che la pubblica amministrazione intendeva perseguire attraverso la pubblica funzione, talché oggi non può più affermarsi che la disciplina normativa sia ancora completamente ispirata al principio autoritario del travolto regime, al punto da contrastare con la XII Disposizione della Costituzione, peraltro da definirsi "finale" e non "transitoria”.
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peraltro, è anche fonte di aggravamento di responsabilità ogniqualvolta la qualità in parola viene
assunta ad elemento costitutivo (reati propri) o a circostanza aggravante di talune fattispecie. Per il
legislatore, infatti, non rileva il fatto che il cittadino abbia o meno l’intento di offendere il prestigio
della pubblica amministrazione, ma l’obiettiva lesione del prestigio che si rintraccia proprio
nell’esercizio della pubblica funzione o la causa dell’offesa, che proprio in quella funzione ha
trovato origine, “e ciò al fine di evitare che, nel diffondersi del dileggio o della irrisione, la
funzione stessa venga svilita al punto da favorire la generale inosservanza”.
La Corte, pur ammettendo che tra la pubblica amministrazione e la società esiste un rapporto di
«strumentalità» tale da rendere necessario un ridimensionamento, sotto il profilo sanzionatorio,
della tutela del pubblico funzionario e che specie in talune ipotesi di fatto rimane sicuramente una
effettiva sproporzione fra sanzione comminata e disvalore del fatto138 (sproporzione rilevata dallo
stesso legislatore, come manifestano i progetti di riforma delle due commissioni ministeriali del
1945 e del 1956, che proponevano una lieve pena pecuniaria quando il fatto oltraggioso risultasse di
lieve entità), ribadì la sua giurisprudenza costante secondo la quale la competenza in merito alla
determinazione della sanzione irrogabile e alla valutazione della congruenza della pena al fatto di
reato è una esclusiva prerogativa del legislatore139 e, poichè rientra nei suoi poteri discrezionali, è
operata sulla base di criteri eminentemente politici insindacabili da parte nella Corte. Quest’ultima
può intervenire solo in ipotesi eccezionali in cui la sanzione comminata, così come formulata e
voluta dal legislatore nel quadro generale della sua politica legislativa, sia di per sé palesemente
irrazionale ed arbitraria, rispetto al disvalore della fattispecie, e la sperequazione assuma dimensioni
tali da non riuscire sorretta dalla benché minima giustificazione superando ogni limite di
ragionevolezza140.
Anche se il minimo edittale e lo stesso disvalore della fattispecie non corrispondono più all’attuale
stato della coscienza sociale ed allo spirito informatore della Costituzione repubblicana, compete
solo al legislatore avvertirlo e deciderlo141.
Inoltre, con riferimento alle censure mosse – e sopra riportate - la Corte chiarisce che l'impossibilità
di far luogo a talune sanzioni sostitutive è la risultanza della scelta del legislatore nell’aver attribuito
alla fattispecie quel certo astratto disvalore e determinate conseguenze sanzionatorie, ritenute ad
esso congrue; conseguenze che si riverberano poi necessariamente anche sull’applicabilità delle
sanzioni sostitutive. Inoltre, la mera previsione legislativa (a livello astratto) di un elevato minimo
138 Casalbore G., Oltraggio, cit., p. 462. 139 In merito, però, nell’ordinanza 17 marzo 1988 n. 323, cit., la Corte si rivolge in senso critico al legislatore, rilevando che “per rendere più congrue le pene, non è necessario attendere la riforma generale del codice penale, in ritardo di quarantatré anni”. 140 sentenze nn. 109/1968 e 18/1973. 141 Cfr. sentenza 19 luglio 1968 n. 109 e sentenza 28 novembre 1972 n. 165.
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edittale della sanzione penale non poteva, sic et simpliciter, contrastare col fine rieducativo e di
risocializzante della pena ex art. 27, terzo comma, della Costituzione, poiché tale fine andava
riferito esclusivamente alla fase di esecuzione della pena142, che la legislazione aveva adeguato ai
più moderni, ovvero all’epoca moderni, concetti del trattamento penitenziario143 in modo che, la
precedente pronunzia aveva ritenuto assorbente il profilo concernente il parametro di cui all'art. 3
della Costituzione.
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 341/1994 L’ORDINANZA DI RIMESSIONE Con argomentazioni già note, quali la necessità di considerare l’offesa recata al pubblico ufficiale
equivalente a quella recata a ciascun cittadino a seguito dell’avvenuto mutamento dei valori morali
e giuridici propri della collettività, nell’ordinanza di rimessione alla Corte il Pretore di Padova144
asseriva che la pena minima prevista per il delitto di oltraggio (mesi sei di reclusione) risultava allo
stato «sperequata in eccesso». La rilevante differenza, infatti, tra il trattamento sanzionatorio
minimo previsto per il reato di oltraggio (mesi sei di reclusione) rispetto a quello risultante
nell’ipotesi d’ingiuria aggravata ex artt. 594 e 61 n. 10 c.p. violava l'art. 3 Cost. poiché non trovava
«adeguata giustificazione nella diversità del bene giuridico tutelato»145. Inoltre, la norma
impugnata si poneva anche in contrasto con altre disposizioni costituzionali146, tra cui con l'art. 27
comma 3 Cost., «poiché l'irrogazione di pene sproporzionate al grado d’effettivo disvalore dei fatti,
142 ordinanza n. 127 del 1989, cit. 143 Consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale: sentenze n. 119 del 1975; n. 143 del 1974; n. 18 del 1973, n. 22 del 1971. 144 Pret. Padova, 29 marzo 1993, in G.U., n. 6 del 2 febbraio 1994 sollevò questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma e 97, primo comma, della Costituzione, dell'art. 341 del codice penale, "nella parte in cui prevede il limite minimo edittale di sei mesi di reclusione". 145 Pret. Padova, 29 marzo 1993, cit., spiegava che, ad esempio, “colui che offendesse l'onore di un agente di polizia, in sua presenza e a causa delle sue funzioni sarebbe punito, nell'ipotesi minimale, con la pena della reclusione di mesi sei, mentre colui che offendesse il decoro di un agente consolare di uno Stato estero nell'atto del suo servizio, con la pena di giorni venti di reclusione ovvero con lire 100.000 di multa”. 146 L’oltraggio si poneva anche in contrasto con l'art. 97 Cost. (inteso come espressione del principio del buon andamento dell’amministrazione e, di quella giudiziaria, in particolare), poiché, l'elevato minimo edittale previsto per il reato di oltraggio (mesi sei) non consentirebbe al giudice di sostituire ex art. 53 l. 24 novembre 1981, n. 689 la pena detentiva con quella pecuniaria (dovendo quella essere contenuta in mesi tre). Il pretore di Padova osservava, altresì, che “tale pena minima osterebbe alla definizione del procedimento per oltraggio in sede predibattimentale (ossia ex art. 459 c.p.p.) con la conseguenza di un «ingolfamento» dei ruoli dibattimentali, rendendo inevitabili «istruttorie da assise, così da determinare costi processuali rilevanti e l'inutile occupazione di una struttura delicatissima, già di per sé quasi moribonda»”. La predetta censura rimane assorbita. Al riguardo, le modifiche legislative dell'art. 53 della l. 24 novembre 1981, n. 689, Modifiche al sistema penale, ha elevato i limiti entro i quali il giudice può applicare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi. Tale innovazione dovrebbe consentire di utilizzare il procedimento ex art. 459 c.p.p per la definizione predibattimentale dei procedimenti aventi ad oggetto il reato di oltraggio (mesi sei - 1/2 ex art. 459 comma 2 c.p.p. = mesi tre, che sostituiti ex art. 53, l. 689/81 con pena pecuniaria, consentono la definizione con decreto penale di condanna).
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spesso di lieve entità, in cui si concreta il reato di oltraggio, comprometterebbe la finalità
rieducativa della pena».
L’ordinanza di rimessione, pertanto, sembrava, apparentemente sollevare una questione circoscritta,
poiché la censura sollevata non investiva né gli aspetti concernenti la previsione del limite massimo
della sanzione, né l'oggetto giuridico della tutela della fattispecie e né la sua giuridica esistenza. Di
contro la sentenza 25 luglio 1994, n. 341 della Corte147, non solo ha operato una reinterpretazione
costituzionalmente orientata dell’oggetto della tutela della norma in parte censurata, ma si è posta
anche come un chiaro monito al legislatore per gli indirizzi futuri nella determinazione dei limiti di
pena delle fattispecie incriminatrici148. Sostanzialmente, infatti, asserendo che la differenza del
trattamento sanzionatorio tra le due figure di reato non può trovare una spiegazione esclusivamente
nella diversità del bene giuridico tutelato, si afferma di conseguenza che l’irragionevolezza del
minimo edittale dipende dalla possibilità di ordinare gerarchicamente gli interessi tutelati, che
condizionerebbero in modo corrispondente alla rispettiva rilevanza costituzionale le scelte
sanzionatorie del legislatore ordinario149. Si è osservato che l’accoglimento della questione così
prospettata sembrerebbe segnare la recezione da parte della Consulta della concezione del reato
come fatto lesivo di un valore di rilievo costituzionale150. Sarebbe, infatti, la significatività di tale
valore a condizionare la misura astratta della pena introducendo un limite di legittimità per il
legislatore e, quindi, un parametro per la Corte cui rapportare la ragionevolezza delle scelte
legislative in sede di previsione d’illecito e di graduazione della sanzione penale151.
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE Diverse sono le argomentazioni sostenute a sostegno della declaratoria d’incostituzionalità. In
motivazione la Corte premette l’enunciazione di alcuni principi generali per poi applicarli
concretamente con riferimento alla fattispecie de qua. In primo luogo, infatti, ribadisce il principio
secondo il quale appartiene alla discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità e
147 Sentenza 25 luglio 1994, n. 341, in Giur.cost., 1994, II, p. 2802, con note di Curi F., cit, p. 1091; Fiandaca G., Nota redazionale a sent. Corte Costituzionale n. 341/1994, in Foro it., 1994, I, p. 2585; Maizzi P., cit., p. 1101; Spasari M., Riflessioni minime in tema di oltraggio e principio di eguaglianza, ivi, p. 2810 e ss.; Vecchi M., cit., p. 788 e ss. Per un’analisi della tecnica argomentativa utilizzata dalla Corte cfr. Pinardi R., Riflessioni sul giudizio di ragionevolezza delle sanzioni penali, suggerite dalla pronuncia di incostituzionalità della pena minima prevista per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ivi, p. 2815. in Foro It., 1994, I, p. 2585; Vecchi M., cit., p. 788 e ss. 148 Ariolli G, cit., p. 25. 149 Cfr. Maizzi P., cit., p. 1103. 150 Cfr. Bricola, Teoria generale del reato, in N.mo. Dig. It., Torino, 1974, XIX, nota 9 p 19, il quale sostiene che “la sproporzione tra misura della sanzione penale e valore tutelato dipende … altresì a principalmente dal rapporto di gerarchia (e dall’entità dello stesso) intercorrente tra bene tutelato e libertà personale sacrificata dalla sanzione penale e quindi non solo da un giudizio estrinseco alla norma penale ma anche da un giudizio intraneo ad essa”. Diversamente Fiandaca G. , Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in AA.VV., Bene giuridico e riforma nella parte speciale, a cura di Stile A.M., Napoli, 1985, p.17 e ss. 151 Cfr. Maizzi P., cit., p. 1103.
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qualità della sanzione penale e la valutazione della congruenza tra i reati e le pene, per cui non le
compete il compito di rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, né stabilire
quantificazioni sanzionatorie152.
Al contempo, però, chiarisce che le spetta il compito di verificare che l'uso della discrezionalità
legislativa in materia penale rispetti il limite della ragionevolezza153, che costituisce, pertanto un
limite generale ed insuperabile all’attività legislativa. Quest’ultimo viene a sua volta ricollegato al
principio di proporzionalità154 a cui la dottrina, nella prospettiva di un diritto penale
costituzionalmente orientato, riconosce da tempo un ruolo centrale, in quanto assolve una
fondamentale funzione di garanzia della libertà del cittadino155. Esso, infatti, opererebbe nel diritto
penale a vari livelli “fungendo da metro o indice dei modi di rilevanza dei diversi fattori che
influiscono sull’an, la species ed il quantum della punibilità”156. Risulterebbe, inoltre,
“mediatamente costituzionalizzato per implicazione logica” poiché costituirebbe il limite interno ad
ogni teoria razionale della pena (retribuzione, prevenzione generale o speciale)157. Anche la
giurisprudenza della Consulta ha riconosciuto la valenza costituzionale del principio di proporzione
152 L’art. 28 della legge 11 marzo 1953 n. 87 recita, infatti che “il controllo di legittimità della Corte costituzionale … esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”. In ambito penalistico ciò significa che le scelte concernenti la meritevolezza e il bisogno di pena, e le scelte sull’opportunità di una tutela, penale ed extrapenale, e i limiti della stessa, implicando il ricorso ad intese e comprensioni sociali, hanno un’ineludibile natura politica, pertanto, come tali, restano d’esclusiva pertinenza del Parlamento. Sul punto cfr. Curi F., cit, p. 1095. 153 Sentenza 25 luglio 1994, n. 341, cit., In dottrina sul sindacato di costituzionalità in termini di ragionevolezza Agrò R., Contributo ad uno studio sui limiti della funzione legislativa in base alla giurisprudenza sul principio costituzionale di uguaglianza, in Giur. Cost.,1967, p. p. 900; Cerri A., Sindacato di costituzionalità alla stregua del principio di uguaglianza: criteri generali ed ipotesi specifica di pari formazione in ordine a situazioni diverse, in Giur. Cost., 1974, 2160 e ss.; Latagliata, Principio di uguaglianza davanti alla legge ed equiparazione di condotte “diverse” sotto un unico titolo di reato, in Giur. Merito, 1971, p. 94 e ss.; Padovani, La questione di legittimità costituzionale della pena del furto aggravato, in Studi Graziani, 1974, p. 489; Pizzorusso A., Le norme sulla misura delle pene e il controllo della ragionevolezza, in in Foro it., Giur. It., 1971, II, parte IV, p. 192; Rossetti, Controllo di ragionevolezza ed oggettività giuridica dei reati di insubordinazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, p. 200 e ss. Sull'irragionevolezza come vizio d'incostituzionalità per violazione dell'art. 3, 1° comma, Cost. cfr. Palazzo F., Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova 1979, p.80; Lavagna, Ragionevolezza e legittimità costituzionale, in Studi in memoria di C.Esposito, II, Padova 1974; Zagrebelsky G., La giustizia costituzionale, Bologna 1977, p.26 ss. Sulla giurisprudenza della Corte si rinvia a Cerri A., L'eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1976, p. 53 e ss. 154 Il giudizio di proporzione si sostanzia in una triplice valutazione comparativa, condotta tra l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice e 1) il bene della libertà personale (direttamente o indirettamente) compromesso dalla realistica sanzione; 2) gli altri beni tutelati all’interno del sistema penale di riferimento; 3) i “controinteressi”, cioè gli interessi che confliggono con quello tutelato dalla norma incriminatrice presa in considerazione. In merito si rinvia a Palazzo F., I confini della tutela penale: selezione dei beni e criteri di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p.445, il quale ritiene che se per l’idea stessa di retribuzione l’entità della pena va proporzionata alla gravità del fatto, nel diritto contemporaneo anche per le teorie preventive della pena “la proporzione tra illecito e sanzione assume rilevanza se non come connotato essenziale, almeno come limite modale della funzione penale”. 155 Fiandaca G., Nota, cit., p. 2585. 156 Angioni, Contenuto e funzione del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, p. 165 e ss.; in riferimento al rapporto specifico tra depenalizzazione e principio di proporzione Pulitanò, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in AA.VV., Bene giuridico, cit., p. 187. 157 Angioni, cit., p. 164, il quale ritiene che se per l’idea stessa di retribuzione l’entità della pena va proporzionata alla gravità del fatto, nel diritto penale contemporaneo anche per le teorie preventive della pena “la proporzione tra illecito e sanzione assume rilevanza se non come connotato essenziale, almeno come limite modale della funzione penale”.
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sulla base di quello di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.158 Quest’ultimo, infatti, "esige che la
pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema
sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle
posizioni individuali; .. le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere
discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità
costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza"159. Il
principio di proporzionalità, pertanto, “nel campo del diritto penale equivale a negare legittimità
alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di
prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed
alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con
la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni”160. Con tale affermazione la Corte si
allinea a quell’impostazione secondo la quale il sindacato di costituzionalità riguarda la
corrispondenza delle norme controllate (leggi ed atti legislativi) alle norme costituzionali, non solo
dal punto di vista oggettivo, cioè di stretta conformità al precetto, ma anche dal punto di vista
teleologico, di conformità al fine indicato dalla norma costituzionale161. In merito all’individuazione
dell’ambito del sindacato di costituzionalità162, infatti, si erano sviluppati due diversi orientamenti
dottrinari: secondo il primo il controllare se una legge persegue un certo fine oppure no, significa in
un certo qual modo sostituirsi all'attività politica del legislatore, cosa che la Corte non può fare,
dovendosi limitare ad una valutazione della conformità della legge alla Costituzione163; per il
secondo, al quale la Corte in sentenza aderisce, tutte le volte che la Carta costituzionale indichi
chiaramente il fine che la norma deve perseguire, la legge può essere controllata anche sotto il
profilo della finalità che deve essere raggiunta164.
158 Vecchi M., cit., p. 788 e ss. 159 Cass. sentenza 6 luglio 1989 (18 luglio 1989) n. 409, in Giur. Cost.,1989, I, p. 1913, (v. pure nello stesso senso Cass. sentenza 25 maggio 1979 – 5 maggio 1979 – n. 26, in Giur. Cost., 1979, I, p. 292; 28 luglio 1993, n. 343 in Cass. pen. 1993, 2474 e Giur. cost., 1993, p. 2668; n. 422 del 1993). 160 Corte Costituzionale, sentenza n. 409 del 1989, cit. 161 Cfr. Pizzorusso, Sul controllo della Corte costituzionale e sulla ragionevolezza delle leggi, osservazioni a Corte cost. 8 aprile 1976, n. 71, in Foro it., 1976, I; Lavagna, Ragionevolezza e legittimità costituzionale, cit.. 162 Vecchi M., cit., p. 788 e ss. 163 In dottrina v. Sandulli, Considerazioni in tema di sindacato della Corte costituzionale sul profilo delle leggi, in Studi vent. Ass. cost. VI, Firenze, 1969; Modugno, Legge (vizi della), in Enc. dir., vol. XXIII, Giuffrè, 1973; Villone, Interessi costituzionalmente protetti e giudizio sulle leggi. Logiche e politiche della Corte costituzionale, Giuffrè, 1974; Mezzanotte, Giudizio sulle leggi e ideologie del Costituente, Milano, 1979; Abbamonte, Illegittimità costituzionale ed eccesso di potere, in Studi Zanobini Giuffrè, 1965; AA.VV., La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale. Bilancio di venti anni di attività, Zanichelli, 1978. 164 Secondo autorevole dottrina la Corte deve poter accertare, in relazione al principio di eguaglianza, se un determinato fine, previsto espressamente dalla Costituzione, sia o meno perseguito dalla legge. E ciò in due casi: a) «quando la difformità della legge dal fine indicato dalla Costituzione sia ricavabile dalla interpretazione stessa della legge, senza ricorrere ad elementi estranei»; b) «quando il ricorso ad elementi estrinseci di interpretazione rilevi una indiscutibile irragionevolezza, vale a dire la non pertinenza o la incongruità delle disposizioni rispetto al fine». Cfr. Lavagna, Istituzioni, cit., p. 968.
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La Corte, pertanto, riafferma la possibilità di verificare la ragionevolezza delle valutazioni compiute
dagli organi legislativi in ordine al rapporto che s’instaura tra la quantità e la qualità della sanzione
prevista per un determinato reato e l’effettivo disvalore sociale e, quindi, giuridico, della condotta
illecita165 e di esercitare il suo “sindacato giurisdizionale sugli arbitri del legislatore, cioè sulle
sperequazioni che assumano una tale gravità da risultare radicalmente ingiustificate”166. Tale
giudizio, nelle sue linee essenziali, si è articolato secondo lo schema tipico e complesso di una
valutazione sostanzialmente relazionale. La decisione, infatti, non si è basata sul riscontro
dell’irragionevolezza “in assoluto” della sanzione dichiarata incostituzionale, ma sulla
considerazione dell’ingiustificata disparità che si era venuta a determinare tra il trattamento
sanzionatorio previsto dalla norma censurata e quello dell’art. 594 c.p.167
La Corte, inoltre, fonda la violazione del limite di ragionevolezza non solo sull’art. 3 Cost., ma
anche sull’art. 27, terzo comma, Cost., circostanza che, secondo alcuni, caratterizza in modo
peculiare la decisione168. La Consulta, infatti, ricorre al principio di proporzione anche sotto altro
aspetto, ovvero desumendolo come finalità rieducativa della pena ex art. 27 Cost.. Quest’ultima non
si limita alla sola fase dell'esecuzione169, ma opera già al momento della previsione normativa della
165 Per un giudizio favorevole in ordine alla possibilità per la Corte di estendere il proprio controllo sulla ragionevolezza delle leggi anche nel campo delle sanzioni penali cfr. Pizzorusso A., Le norme sulla misura delle pene, cit.,. 197 e 203 e ss. Per una posizione più sfumata si rinvia a Cerri A., Sindacato di costituzionalità, cit., p. 2160 e ss. 166 In tal senso Cass., sentenza 25 maggio 1979 – 5 maggio 1979 – n. 26, cit., 28. Si precisa che in dottrina, invece, ci si interrogava sulla possibilità di riconoscere al parametro del criterio di ragionevolezza un’automatica valenza anche in ambito penalistico, perché l’ammissione di un tale tipologia di sindacato comportava come effetto anche l’affidamento di scelte di politica criminale ai giudici costituzionali, piuttosto che al legislatore. In merito cfr. Curi F., cit, p. 1096. In senso positivo si è espresso, invece Pizzorusso A., Le norme sulla misura delle pene, cit., p. 192, 207 e 203, secondo il quale “bisogna muovere dalla considerazione che non esiste alcun valido motivo il quale consenta di affermare che il controllo della ragionevolezza debba avere, in relazione a questa categoria di norme, oppure in relazione alla generalità delle norme penali, caratteristiche diverse da quelle che esso ha in relazione alla generalità delle norme di cui la Corte può sindacare la legittimità costituzionale”. Per un commento in senso critico a tale posizione cfr. Curi F., cit, p. 1096, secondo la quale se si potessero fornire delle garanzie che il sindacato si fondi esclusivamente su presupposti di tipo logico-razionali le riserve ad una sua estensione in ambito penale svanirebbero immediatamente. 167 Per un approfondimento si rinvia a Pinardi R., cit., p. 2817, il quale osserva che in merito all’impostazione complessiva e alle singole modalità del giudizio compiuto dalla Corte in ordine alla ragionevolezza della norma impugnata, la pronuncia appare in perfetta sintonia con l’orientamento pregresso, riscontrandosi sia quelle considerazioni di carattere generale che hanno contraddistinto la Corte in materia, sia quella struttura tipicamente relazionale del sindacato di costituzionalità che caratterizza il giudizio della Corte. 168 Curi F., cit, p. 1092, la quale evidenzia che l’art. 3 Cost. richiede che vi sia il rispetto della proporzione tra fatto commesso e sanzione, al fine di garantire lo stesso trattamento a tutti i cittadini indistintamente mentre l’art. 27, terzo comma, Cost., invece, proclamando la finalità rieducativa della pena postula un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione da una parte e offesa dall’altra. 169 In generale si rinvia a Corte Cost. sentenza 9 luglio 1990 n. 313, in Giur. cost., 1990, p. 1981, nella quale afferma che “la passata giurisprudenza di questa Corte (come, del resto la dottrina imperante nei primi anni di avvento della Costituzione) aveva ritenuto che il finalismo rieducativo, previsto dal comma terzo dell'art. 27, riguardasse il trattamento penitenziario che concreta l'esecuzione della pena, e ad esso fosse perciò limitato (quale esempio del lungo percorso di questo leit motiv si vedano le sentenze n. 12 del 1966; n. 21 del 1971; n. 167 del 1973; nn. 143 e 264 del 1974; 119 del 1975; 25 del 1979; 104 del 1982; 137 del 1983; 237 del 1984; 23, 102 e 169 del 1985; 1023 del 1988). A tale risultato si era pervenuto valutando separatamente il valore del momento umanitario rispetto a quello rieducativo, e deducendo dall'imposizione del principio di umanizzazione la conferma del carattere afflittivo e retributivo della pena. Per tal modo si negava esclusività ed assolutezza al principio rieducativo, che - come dimostrerebbe l'espressione testuale - doveva essere inteso esclusivamente quale <tendenza> del trattamento. Ne è derivata quella
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fattispecie penale e del suo trattamento sanzionatorio170. La prospettiva della rieducazione opera su
di un triplice piano, orientando a monte il legislatore sia nella strutturazione della fattispecie
incriminatrice, sia nella scelta del tipo e dell’entità della sanzione punitiva e, successivamente, il
giudice nella fase della commisurazione giudiziale. Il principio di proporzione, pertanto, costituisce
per la Corte uno dei criteri guida che presiedono allo stesso esercizio della potestà legislativa,
vincolando il legislatore nell'attività di predeterminazione del tipo e della misura edittale della
pena171. La palese sproporzione del sacrificio della libertà personale provocata dalla previsione di
una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito, investendo il
rapporto di proporzionalità tra qualità e quantità della sanzione penale, da un lato, e lesione del bene
giuridico dall’altro172, porta, a considerare costituzionalmente illegittime tutte quelle fattispecie
penali che, prevedendo una sanzione manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito,
producano una «vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27 comma 3 Cost.,
che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione »173.
nota concezione polifunzionale della pena che -ad avviso della Corte-non solo non sarebbe contraddetta, ma sarebbe anzi ribadita dal disposto costituzionale (cfr. sentenze n. 12 del 1966; n. 22 del 1971; n. 179 del 1973; n. 264 del 1974 ed altre). Per essa, le finalità essenziali restavano quelle tradizionali della dissuasione, della prevenzione, della difesa sociale, mentre veniva trascurato il novum contenuto nella solenne affermazione della finalità rieducativa; questa, perciò, veniva assunta in senso marginale o addirittura eventuale e, comunque, ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario”. Per l’applicazione del suddetto principio specificamente in riferimento al delitto di oltraggio cfr. ordinanza n. 127 del 1989, cit. 170 Al riguardo la Corte si rifà alla sua recente giurisprudenza, Cfr. Corte Cost. sentenza n. 313 del 1990, cit., (e in Foro it., 1990, I, p 2385 con nota di Fiandaca G.) secondo la quale sussiste “la necessità costituzionale che la pena debba <tendere> a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. Ciò che il verbo <tendere> vuole significare è soltanto la presa d'atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l'adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione: com'è dimostrato dall'istituto che fa corrispondere benefici di decurtazione della pena ogniqualvolta, e nei limiti temporali, in cui quell'adesione concretamente si manifesti (liberazione anticipata). Se la finalità rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (nè in sede normativa nè in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto”.. 171 Secondo Vecchi M., cit., p. 790 nella sentenza in esame c’è stata “la prima utilizzazione del principio di proporzionalità non più solo come mero criterio di politica criminale ma come criterio le cui valenze si riverberano sulla tecnica di strutturazione della fattispecie … la Corte ha in esso ricompreso il rango che il bene giuridico, tutelato dalla norma, occupa nel sistema dei valori costituzionali, nonché la gravità e intensità dell'offesa al bene, implicitamente costituzionalizzando poi il principio di proporzionalità così inteso, cioè come criterio regolativo del rapporto illecito-pena incidente sulla fattispecie, sulla base dell'unico parametro costituzionale che lo consentisse: l'art. 27 Cost.”. In generale, secondo parte della dottrina gli elementi base per determinare, a livello legislativo, la gravità del fatto e stabilire l'entità della sanzione penale, sono, sotto il profilo oggettivo: a) il rango dei beni secondo la gerarchia che si desume dalla Costituzione e dalla realtà socio-culturale del momento; b) il grado e la quantità dell'offesa; sotto in profilo soggettivo: c) il tipo di colpevolezza. Criterio complementare ed eccezionale è quello intimidativo della generalprevenzione. Cfr. Mantovani, Diritto penale, Cedam, 1988, p. 723. 172 Perplesso sulla strumentalizzazione di questo criterio operata al fine di giudicare l’adeguatezza delle pene: Cerri A., Novità della Corte in tema di oltraggio, in Critica del diritto, 1994, n. 4, p. 58-60. Critica anche Curi F., cit, p. 1098, secondo la quale la Corte ha ignorato la posizione prodromica e di confine del principio di legalità. Sebbene, infatti, il rispetto della finalità rieducativa di cui la pena è espressione conservi un’indiscutibile valenza, non va negata le preminenza logica, prima ancora che di contenuti, della legalità formale. 173 In questo senso Corte Cost. sentenza 28 luglio 1993, Cospito, n. 343, cit., p. 2680 e in Foro it., 1994, I, c. 342, con nota di Sassi e Sciarretta. In applicazione di questi principi la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittime, come
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La finalità rieducativa, infatti, postula che l’autore del reato avverta il trattamento punitivo
inflittogli come non ingiusto, eccessivo, ma adeguatamente proporzionato al disvalore del fatto
commesso.
In tal senso si era espressa anche quella dottrina secondo cui la minaccia di una pena troppo severa
corre il rischio di suscitare “sentimenti di insofferenza nel potenziale trasgressore e alterare nei
consociati la percezione di quella corretta scala di valori che dovrebbe riflettersi nel rapporto tra i
singoli reati e le sanzioni corrispondenti” compromettendo sin dall’inizio l’obiettivo di prevenzione
speciale. L’equilibrio tra fatto tipico e sanzione penale viene quindi a costituire «una premessa
ineliminabile dell'accettazione psicologica di un trattamento diretto a favorire nel condannato il
recupero della capacità di apprezzare i valori tutelati nell'ordinamento»174.
Coerentemente con le appena esposte premesse di carattere generale, l’accoglimento della questione
di legittimità sollevata viene affrontata sotto il duplice profilo della rispondenza dell’art. 341 c.p. ai
sopra illustrati criteri di giudizio della ragionevolezza, e segnatamente al principio di
proporzionalità e da quello, necessariamente correlato, della funzione rieducativa della pena.
In riferimento al primo aspetto viene osservato che in altri Paesi europei di democrazia matura non
solo non esistono, per le ipotesi corrispondenti, pene così severe, ma è quasi sempre ignorato lo
stesso reato di oltraggio: al di là di ipotesi particolari, riguardanti i membri del Parlamento o i
soggetti che partecipano alla vita politica, le ingiurie e le diffamazioni nei confronti dei pubblici
ufficiali sono infatti normalmente colpite nello stesso modo con cui sono punite quelle rivolte ai
privati cittadini. Si ricorda, poi, che, nello stesso ordinamento italiano, la sanzione per l'oltraggio
prevista nel codice penale del 1889 era assai più lieve di quella odierna, essendo limitata alla
reclusione sino a sei mesi, o alla multa. Queste argomentazioni, però, sono state oggetto di critica da
parte di alcuni commentatori che hanno sottolineato come in realtà la Corte nei suesposti passaggi
faccia riferimento a vere e proprie considerazioni di «politica legislativa», le quali alimentano il
dubbio circa il rispetto della sfera di autonomia riservata al legislatore175.
La comparazione con la legislazione straniera e previgente secondo la Consulta dimostra che il
modello proposto dal codice Rocco è il «prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei
palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazioni dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione. In particolare la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che “la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale” provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito “produce .. una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione”, consentendo, quindi, ai giudici della consulta di caducare la sanzione impugnata. 174 Che nei periodi di recrudescenza della criminalità e di conseguente allarme sociale sia legittimo un inasprimento della sanzione edittale per motivi di intimidazione generale, cfr. Mantovani, Diritto penale, Cedam, 2007, p. 723. Nello stesso senso Fiandaca-Musco, Diritto penale, Parte generale, Milano, 1995, 3a ed., 525 e Fiandaca G., Nota, cit., p. 2586; Fiore C., voce Oltraggio a un pubblico ufficiale. Postilla di aggiornamento, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1998. 175 Ariolli G, cit., p. 25.
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rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini, tipica di quell'epoca storica e discendente dalla matrice
ideologica allora dominante, estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione
repubblicana»176. La previsione di sei mesi di reclusione come minimo della pena e, quindi, come
pena inevitabile anche per le più modeste infrazioni non solo non è consona alla tradizione liberale
italiana né a quella europea, ma non rispecchia neanche la Carta costituzionale. Infatti il rapporto tra
pubblica amministrazione e cittadini delineato dalla Carta costituzionale non è un rapporto di
imperio, ma di carattere strumentale177, volto alla cura degli interessi della collettività, che la stessa
amministrazione impersona (si pensi anche all'art. 28 Cost. secondo cui i pubblici dipendenti sono
al servizio della Nazione). Questo nuovo modo di intendere i rapporti tra cittadino e autorità
amministrativa comporta una serie di conseguenze: in primo luogo porta l’esigenza di riconsiderare
sul piano assiologico178 i beni giuridici tutelati dall’art. 341 c.p. e, conseguentemente, di procedere
ad una reinterpretazione costituzionalmente orientata dell'oggetto della tutela del delitto di
oltraggio. In secondo di effettuare un ragionevole bilanciamento di interessi in quanto quest’ultimo
presiede alla determinazione della misura della pena e, di conseguenza, di quelle fattispecie penali
che, tutelando gli interessi dell'amministrazione e dei soggetti pubblici che la impersonano,
sacrificano «irragionevolmente» la libertà personale del soggetto. Già questa prima, più generale,
considerazione induce, dunque, a ritenere che la rigidità e severità del minimo edittale previsto dal
legislatore del 1930 sia frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra tutela
dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento dell'amministrazione) anche
nei casi di minima entità, e quello della libertà personale del soggetto agente.
Ulteriore segno della definitiva affermazione, nella coscienza sociale, della convinzione della palese
incongruenza della previsione sanzionatoria impugnata è dato dall'atteggiamento dei giudici di
merito che, nel ritenere la norma incriminatrice dell'oltraggio volta a colpire una gamma
estremamente vasta di comportamenti, compresi quelli di tenue o minima offensività, per di più in
riferimento ad una platea notevolmente estesa di soggetti passivi, hanno continuato ad avvertire il
176 Tale censura era già stata espressa nelle sent. n. 109/1968, 165/1972, 51/1980 e nelle ordinanze n. 323/1988 e 127/1989. 177 R. Bartoli, cit., p. 2826, il quale nota come con la sentenza n. 341 del 1994 la Corte non si sia limitata ad ammettere esplicitamente l'esistenza di un rapporto tra i due princìpi di autorità e di libertà, ma sia passata anche alla definizione del suo contenuto - «il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima» - aprendo così una nuova fase diretta alla concreta individuazione della linea di tutela della autorità e quindi dell'estensione dei due interessi in gioco. Da ciò emerge anche la complessità del rapporto fra lo Stato e i cittadini i cui termini di confronto se da un lato non sembrano così contrapposti come si riteneva in un primo momento, vista appunto la relazione di «strumentalità» che intercorre tra loro, dall'altro, proprio a causa di questa «strumentalità» e delle relative implicazioni, hanno caratteristiche intrinseche dalle quali non si può prescindere. “In sostanza … un equilibrio tra il principio di libertà e quello di autorità lo si può trovare non solo se non si compie una totale equiparazione tra la posizione giuridica del cittadino e quella del pubblico ufficiale, ma anche, e soprattutto, se si traggono tutte le conseguenze che discendono dalla particolare dimensione pubblicistica in cui quest'ultimo si trova ad operare”. 178 Fiore C., voce Oltraggio, cit., p.1.
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disagio di essere tenuti a dare risposte sanzionatorie manifestamente eccessive, tanto da continuare
a investire la Corte di ripetute questioni di costituzionalità. Simile situazione di disagio nei giudici e
nella società, d'altra parte, è stata aggravata, fino a superare ogni limite di ragionevole tollerabilità
dal fatto che, nonostante i ripetuti inviti rivoltigli da questa Corte perché provvedesse ad adeguare la
disciplina in oggetto ai principi costituzionali, il legislatore non è intervenuto, non essendo state mai
portate a compimento le varie iniziative di riforma avanzate nel corso degli anni.
L’esigenza di una riconsiderazione della valutazione normativa alla luce del principio di
ragionevolezza risalta con maggiore evidenza dal raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto
dall'art. 594 c.p.. Basti pensare alla possibilità per il giudice di applicare alternativamente la pena
della reclusione o quella della multa. Se, infatti, da un lato, tale diversità di trattamento si giustifica
sulla base della plurioffensività del reato di oltraggio, diretto a tutelare non solo l'onore ed il decoro
del soggetto che è investito di pubbliche funzioni, ma un interesse che supera quello della persona
fisica ovvero il prestigio ed il buon andamento della pubblica amministrazione (da qui la natura
plurioffensiva di tale reato)179; dall’altro l’irragionevolezza della norma traspare con tutta evidenza
se si pensa a quei casi «minimali», ossia quei comportamenti di tenue o minima offensività, in cui
neppur la tutela di un interesse preminente quale quello del buon andamento della pubblica
amministrazione può giustificare un trattamento sanzionatorio che, nel minimo edittale, sia dodici
volte superiore a quello previsto per il reato di ingiuria. Anzi in questi casi è più che mai evidente
l'irragionevole bilanciamento tra la tutela dell'amministrazione e del pubblico ufficiale e il valore
della libertà personale.
Il giudizio sulla irragionevolezza della norma in esame trova, infine, a giudizio della Corte, indiretta
ma significativa conferma nella disciplina proposta, nel 1992, dalla Commissione ministeriale per la
riforma del codice penale180. Con essa si prevedeva che l'offesa all'onore e al prestigio del pubblico
ufficiale non costituisse più una figura autonoma di reato, ma solo una aggravante del reato di
ingiuria (in questo caso perseguibile d'ufficio). Una riforma che, secondo la relazione, vuole essere
"in armonia con una visuale democratica dei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini" e
che fa seguito alle numerose proposte di modifica che si sono succedute dal 1945 (dopo che era
stata ripristinata con l'art. 4 del decreto-legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288
179 Cfr.: C. cost., 12 giugno 1977, n. 100, in Foro it., 1977, I, c. 1069, con nota di richiami; Sez. VI, 24 ottobre 1978, Tarlao, in Foro it., 1979, II, c. 184; Sez. VI, 24 maggio 1978, Valpreda, in Foro it., 1979, II, c. 185; Sez. VI, 22 marzo 1978, Marini, in Foro it., 1979, II, c. 197. 180 Secondo Fiore C., voce Oltraggio, cit., p.2, il riferimento nella motivazione allo schema di legge delega per la riforma del codice penale può essere letto come “una sorta di rammarico per non aver potuto operare un intervento radicale (e definitivo!) sulla fattispecie di oltraggio, oltre, ovviamente, all’ennesimo richiamo al legislatore a fare finalmente la sua parte”.
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l'esimente del fatto arbitrario del pubblico ufficiale) tutte dirette ad attenuare il trattamento
sanzionatorio minimo previsto nel reato di oltraggio.
Per tutte le ragioni sopra esposte la Corte ritenne che la sanzione prevista fosse manifestamente
sproporzionata rispetto ai fatti di reato risultando illegittima per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo
comma, della Costituzione, poiché produceva un’arbitraria disparità di trattamento e
comprometteva la finalità rieducativa della pena, e dichiarò l'art. 341, primo comma, del codice
penale, incostituzionale nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione per mesi
sei181.
Venuto meno così il limite censurato, la Consulta individuò la pena minima d’applicare per il reato
in questione facendo riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale per la pena della
reclusione dall'art. 23 c.p.182, asserendo che in tal modo non invadeva l’ambito di competenza
discrezionale del legislatore, il quale restava libero di stabilire, per il reato medesimo, un diverso
trattamento sanzionatorio, purché ragionevole nei sensi e secondo i principi illustrati nella
pronunzia.
La pronuncia della Consulta, seppur accolta con favore dalla maggior parte della dottrina, è stata
oggetto di numerose annotazioni e di alcune critiche.
Si è osservato che uno degli elementi di novità della pronuncia rispetto alla pregressa
giurisprudenza della Corte non doveva essere ravvisato nella circostanza che all’adozione di un
dispositivo di mero accoglimento si accompagni la contestuale indicazione della pena da applicare
in luogo di quella dichiarata illegittima, ma nel fatto che la declaratoria di illegittimità
costituzionale concerneva esclusivamente il minimo edittale della pena contemplata per un certo
reato183.
Questa constatazione ha indotto ad ulteriori riflessioni in merito al pregresso mancato accoglimento
delle precedenti questioni di legittimità costituzionale sollevate in materia. Si è detto che la
differente presa di posizione della Corte Costituzionale non è dipesa da un mutamento delle sue
valutazioni, ma, piuttosto, dalle caratteristiche peculiari che ha assunto la questione prospettata dal
giudice a quo184. Le precedenti pronunce, infatti, concernevano quesiti di legittimità costituzionale
181 Rimanendo assorbita la censura relativa all'art. 97 della Costituzione. Giova ricordare che la soluzione dell’eliminazione del minimo edittale (e quella di una previsione di una figura attenuata per i fatti di lieve entità) era stata più volte suggerita dalla dottrina: Guerrini F., cit., 142; Venturati P., cit., p. 489. 182 In merito Fiore C., voce Oltraggio, cit., p.2, osserva che la possibilità di applicare l’art. 23 c.p., norma generale, ha consentito di superare o quanto meno di attenuare le perplessità che accompagnano gli interventi manipolativi della Corte. 183 Cfr. Pinardi R., cit., p. 2817 e ss. 184 Cfr. Pinardi R., cit., p. 2818 e ss. nello stesso senso Fiore C., voce Oltraggio, cit., p.2, il quale osserva che se la questione di costituzionalità avesse investito l’intera fattispecie di cui all’art. 341 c.p. la Corte, in base ai principi da essa stessa riaffermati, non sarebbe potuta intervenire sulla scelta incriminatrice del legislatore. Secondo Curi F., cit, p. 1098, invece, l’intervento della Corte è sintomatico di un arretramento sotto il profilo delle garanzie istituzionali,
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che attenevano alla sanzione intesa nella sua globalità185. A fronte della prospettazione di siffatta
questione, la Consulta poteva procedere in due modi diversi per annullare la disposizione
impugnata. Poteva, infatti, pervenire alla caducazione della norma sub iudice adottando una
sentenza di mero accoglimento che, però, avrebbe automaticamente portato alla depenalizzazione
della fattispecie fino al futuro ed incerto intervento del Legislatore. Questa soluzione contrastava
con l’esigenza di evitare il prodursi di soluzioni di continuità nella vigenza di una previsione
punitiva che trovava, a giudizio della Corte stessa, il suo fondamento giustificativo nella tutela di un
interesse che trascende la persona fisica ed investe il prestigio, e quindi il buon andamento, della
Pubblica amministrazione. In alternativa la Corte avrebbe potuto emanare una pronuncia a carattere
manipolativo, eliminando la disciplina impugnata e contestualmente ricostruendo la previsione
sanzionatoria di cui all’art. 341 c.p. Tale intervento ricostruttivo, a prescindere dalla sua
ammissibilità186, si sarebbe sostanziato nella parificazione quoad poenam delle due fattispecie
dell’oltraggio e dell’ingiuria187. Anche tale operazione, però, non era possibile perché, sebbene la
Corte avesse in diverse occasioni affermato che la sperequazione riscontrabile nel trattamento
sanzionatorio previsto per i due predetti reati fosse eccessiva e, perciò, censurabile, aveva anche
ritenuto che la differenza tra i due delitti potesse essere giustificata dal carattere di plurioffensività
dell’oltraggio che rendeva ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello
riservato all’ingiuria188. Si è sostenuto, pertanto, che l’impugnazione complessiva della previsione
sanzionatoria contemplata dall’art. 341 c.p. ha comportato, in occasioni precedenti, “una sorta di
provocato da una manipolazione del sistema di regole vigenti che spiega la crescita asimmetrica di un potere a discapito degli altri. 185 Giova precisare, però, che la Corte con l’ord. n. 127 del 1989, cit., si è pronunciata su di una questione di legittimità costituzionale che riguardava il limite del minimo edittale della pena prevista dall’art. 341 c.p. Cfr. Pinardi R., cit., p. 2817 e ss. giustifica tale apparente contraddizione operando due distinte considerazioni. In primo luogo la Corte respinse le censure prospettate in relazione all’art. 27 Cost. in quanto non aveva ancora modificato la propria interpretazione del precetto costituzionale secondo il quale il fine rieducativo della pena ex art. 27 Cost. va riferito esclusivamente alla sola fase dell'esecuzione e non, come sostenuto a partire dalla sentenza n. 313 del 1990, cit., avendo riguardo anche al momento della previsione legislativa della stessa. In secondo, nel caso di specie né il giudice a quo né la Corte stessa avevano preso in considerazione la possibilità di applicare, a seguito dell’annullamento della norma sub iudice, il limite minimo previsto dall’art. 23 Cost. Pertanto l’autore ipotizza che la Corte non abbia accolto la questione sottoposta al suo sindacato nel timore di pervenire ad una depenalizzazione, sia pure temporanea, della fattispecie di oltraggio a pubblico ufficiale. 186 All’epoca, infatti, la Corte Costituzionale aveva adottato un dispositivo di natura sostitutiva solo con la sentenza 1989 n. 409, cit., nella quale ha equiparato (sia nel minimo che nel massimo) la pena prevista per chi rifiuta il servizio militare per motivi di coscienza alla sanzione prevista, dall’art. 151 c.p.m.p., per il militare che manca alla chiamata alle armi senza alcun motivo o per futili motivi. La decisione suscitò diverse critiche, cfr. Pinardi R., cit., p. 2819, nota 23. In generale, per una chiara esposizione dei problemi che si pongono in materia in relazione all’adozione di sentenze a carattere manipolativo cfr. Rescigno G.U., Riflessioni sulle sentenze manipolative e sulla delimitazione della questione di costituzionalità dall’altro, suggerite dalla sentenza n. 138 del 1989, in Giur. Cost., 1989, I, p. 654 e ss. 187 Pinardi R., cit., p. 2819 secondo il quale il vuoto legislativo che si viene a creare quando una sanzione è dichiarata illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost. può essere colmato, direttamente dalla Corte, solo rifacendosi alla pena prevista, per una fattispecie analoga che funge da tertium comparationis nel giudizio sulla ragionevolezza della sanzione impugnata. 188 Cfr. sentenza n. 51 del 1980, cit.
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impossibilità di fatto, per i giudici della Consulta, ad accogliere la questione sindacata”189. Dalla
lettura della sentenza emerge chiaramente che le ragioni di merito che impedivano alla Consulta di
adottare una dichiarazione d’illegittimità costituzionale non erano, in realtà, insormontabili. Ciò è
confermato dalla circostanza che il particolare tenore della quaestio sindacata, e la conseguente
possibilità d’individuare ex art. 23 c.p. il nuovo minimo edittale da applicare al posto di quello
dichiarato illegittimo, ha consentito ai giudici della Consulta di censurare la norma sub iudice, ma
senza per questo dover pervenire né ad una depenalizzazione – sia pure temporanea – della
fattispecie, né ad una parificazione complessiva della pena prevista per l’oltraggio rispetto a quella
contemplata per l’ingiuria190. È stato, inoltre, evidenziato che la soluzione interpretativa indicata
dalla Corte era valida in quanto non appariva irragionevole, in relazione all’art. 341 c.p.,
l’applicazione del limite minimo ex art. 23 c.p. Se, infatti, oggetto delle censure di costituzionalità
fosse stato un reato punito in modo molto più grave dell’oltraggio la soluzione non sarebbe stata
applicabile, perché la pronuncia di accoglimento adottata dalla Corte avrebbe prodotto un’eccessiva
dilazione dell’intervallo di pena tra il minimo originariamente previsto dalla norma censurata e
quello ex art. 23 Cost.
Un altro aspetto che è stato oggetto di riflessione da parte dei commentatori concerneva il bene
giuridico tutelato dall’art. 341 c.p. Secondo alcuni, infatti, l’abbassamento del minimo edittale ha
posto il prestigio della pubblica amministrazione in una posizione ridimensionata rispetto a
prioritari interessi costituzionali (es. beni personali)191. D’altra parte, però, stante la plurioffensività
del reato di oltraggio, esso continua a mantenere una pena più elevata rispetto all'ingiuria, ma nel
massimo edittale che funzionalmente risponde all'esigenza di assicurare una tutela efficace192. La
Corte, pertanto, censurando il minimo edittale ha, sia pure indirettamente, ridefinito il grado di
rilevanza dell’interesse protetto perché “il minimo edittale sancisce la collocazione gerarchica
dell’interesse tutelato, in rapporto alle modalità della sua offesa e contrassegna l’ultimo gradino al
189 Pinardi R., cit., p. 2819 il quale osserva altresì che la Corte avrebbe potuto delimitare autonomamente l’oggetto della questione sottoposta al suo sindacato, perché “il dubbio relativo alla legittimità della pena minima prevista per il reato di oltraggio può ritenersi logicamente ricompreso, e quindi sindacabile, all’interno della questione più generale concernente, nel suo complesso, la pena contemplata dall’art. 341 c.p.”. 190 Pinardi R., cit., p. 2820. 191 Vecchi M., cit., p. 795 e ss. secondo la quale “l'eliminazione del minimo di pena, prevista per il reato di oltraggio, da parte della Corte e la conseguente individuazione della pena minima da applicare per il reato in questione, facendo riferimento al limite di quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dall'art. 23 c.p., comporta un ridimensionamento e una ricollocazione nella gerarchia di valori dei cosiddetti beni "istituzionali" da subordinare senz'altro ai beni personali. Specificando si potrebbe dire che i beni che pertengono a complessi organizzativi di persone e mezzi, cui è affidata la cura di altri interessi "finali", ma che sono direttamente tutelati nella loro esistenza organizzativa e nel loro funzionamento, ben possono continuare ad essere tutelati purché detta tutela sia giustificata dalla presenza nella fattispecie di un contenuto offensivo tipico effettivamente lesivo di quel bene giuridico”. 192 Vecchi M., cit., p. 795 e ss.
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di sotto del quale non può scendere la tutela giuridico-penale”193. Attraverso, dunque, il filtro del
principio di proporzionalità-ragionevolezza la Corte ha inciso sui gradini che costituiscono la scala
penale indicando al legislatore la direzione da seguire per ristabilire tra la pena dell’oltraggio e le
pene edittali degli altri reati un rapporto valutabile in termini di congruità-corrispondenza194.
Un’altra critica che è stata rivolta alla Consulta consiste nell’essere ricorsa a criteri di tipo
sostanziale-sociologico-fattuali, quali, ad es., la stessa “coscienza sociale”195, fattore sociologico
evanescente e manipolabile, svalutando l’autonomia offensiva riconosciuta all’oltraggio nella
conformazione codicistica196. La Corte avrebbe concentrato nella sua analisi la propria attenzione
soprattutto sugli aspetti della perdita di valore del bene giuridico tutelato dall’art. 341 c.p., senza
soffermarsi adeguatamente sull’indagine relativa alla definizione del suddetto bene, la cui
fisionomia viene sbrigativamente individuata in modo incidentale in una “sequenza” che comprende
l’onore, il prestigio del pubblico ufficiale ed il buon andamento197 e lasciando sullo sfondo il
problema della legittimità dell’autonoma incriminazione dell’oltraggio198. Inoltre, il raffronto con il
trattamento sanzionatorio previsto dall’ingiuria in realtà non consente di recuperare una dimensione
normativa intrasistemica, persa con l’utilizzo di criteri di valutazione che trascendono la specifica
dimensione normativa dell’art. 341 c.p. (e attingono, come poc’anzi detto, al piano sostanziale-
193 Padovani, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 451. In riferimento specifico al delitto di oltraggio Vecchi M., cit., p. 795 osserva che “il minimo edittale originariamente previsto (sei mesi di reclusione) sanciva, in modo coerente con la funzione ad esso assegnata, la collocazione gerarchica dell'interesse protetto e contrassegnava dunque l'ultimo gradino al di sotto del quale non poteva spingersi la tutela giuridico-penale per il prestigio della pubblica amministrazione. Nella struttura originaria della fattispecie, infatti, rilievo preminente assumeva il profilo offensivo pubblicistico, in quanto l'offesa all'onore e al prestigio delle persone fisiche veniva del tutto subordinata alla tutela del pubblico ufficiale, che in quanto al servizio della pubblica amministrazione e quindi dello Stato, meritava una tutela più accentuata. Prova ne sia che il reato di ingiuria, che presenta caratteristiche strutturali comuni all'oltraggio per ciò che concerne invece il profilo offensivo privatistico, veniva e viene punito nel massimo edittale con sei mesi di reclusione”. 194 Maizzi P., cit., p. 1109. Nello stesso senso Vecchi M., cit., p. 794. 195 Secondo Vecchi M., cit., p. 790 la Corte, giudicando il limite minimo edittale troppo elevato anche rispetto all'evoluzione della coscienza sociale, riconosce implicitamente il ruolo del consenso, inteso come scala dei giudizi di valore dominante tra i consociati, per quanto riguarda non solo la fattispecie incriminatrice e il bene giuridico da essa protetto ma anche la sanzione. 196 Fiandaca G., Nota, cit., p. 2587. 197 Cfr. Maizzi P., cit., p. 1104 e 1108, la quale osserva che se l’oltraggio tutelasse effettivamente anche il buon andamento amministrativo sarebbe difficile contestare la congruenza del minimo edittale rispetto alla salvaguardia di un interesse rilevante espressamente a livello costituzionale ex art. 97. Cost. L’autrice, inoltre, osserva la Corte nella sentenza non si è di altre due importanti questioni: quella dell’idoneità del nesso di contestualità e di causalità psicologica a determinare da soli il profilo pubblicistico del disvalore dell’oltraggio e quella del rapporto tra la struttura della fattispecie e la proporzione della pena, confermando sotto questo aspetto il tradizionale atteggiamento di self restraint nei confronti delle scelte di criminalizzazione discrezionalmente operate dal legislatore. 198 Maizzi P., cit., p. 1108, secondo la quale la Corte prenderebbe incidentalmente posizione in riferimento al summenzionato problema nel passaggio della sentenza ove afferma che il giudizio di irragionevolezza dell’art. 341 c.p. trova indiretta ma significativa conferma nella proposta della Commissione Pagliaro di prevedere che l’offesa all’onore ed al prestigio del pubblico ufficiale non costituisca più una figura autonoma di reato, ma soltanto un’aggravante speciale del reato d’ingiuria.
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sociologico-fattuale)199. Riproponendo l’argomentazione secondo cui l’oltraggio è, di fatto,
un’ingiuria aggravata ai sensi dell’art. 61, n.10, c.p., la Corte ridimensiona la specifica offensività
dell’oltraggio alla stregua della valutazione legislativa, pur riconosciuta in linea teorica astratta,
prendendo atto di quanto accade nella realtà empirica ovvero che nei casi di tenue lesività concreta
del fatto i beni giuridici del prestigio e del buon andamento della Pubblica Amministrazione
appaiono colpiti in modo talmente irrisorio da non giustificare una pena minima così elevata. In
realtà, però, tale argomentazione comporta dei nuovi sviluppi ovvero produce una duplicazione
dell’oggettività giuridica della fattispecie d’oltraggio, in funzione del grado d’offensività che il
comportamento oltraggioso presenta in concreto: il prestigio della Pubblica amministrazione, quale
bene giuridico specifico che tradizionalmente giustifica l’autonomia della fattispecie incriminatrice
de qua, assurgerebbe ad oggetto di tutela soltanto nei casi più gravi d’oltraggio, mentre, in quelli
più lievi l’oggetto della protezione penale si identificherebbe con il prestigio delle singole persone
che incarnano la pubblica funzione200.
Seguendo quest’impostazione201, altra parte della dottrina, che disconosce la plurioffensività
dell’oltraggio riconoscendogli esclusivamente una doppia valenza offensiva, ha evidenziato che
l’irragionevolezza del minimo edittale previsto dall’art. 341 c.p. non dipende, come sostiene la
Corte, dalla circostanza che nei casi di lieve gravità il prestigio ed il buon andamento della P.a.
sarebbero lesi in modo così irrisorio da non giustificare la notevole disparità di trattamento rispetto
all’ingiuria. Il problema, infatti, non doveva essere individuato nel bilanciamento irragionevole, nei
casi più lievi, tra tutela del prestigio pubblico e il bene della libertà personale compromesso dalla
sanzione penale, ma nel difetto di determinatezza della fattispecie normativa che è rivelato dalla
sproporzione del limite inferiore della pena edittale ex art. 341 c.p. Gli elementi descrittivi della
fattispecie de qua non permettono d’individuare un unico “tipo criminoso” espressivo di un solo e
omogeneo contenuto di disvalore, quello designato dalla misura astratta di pena, nel minimo e nel
massimo202. L'art. 341 c.p., infatti, può essere considerato una “norma composta di più
sottofattispecie” dotate di un diverso, anche se non eterogeneo, significato di disvalore: il momento
precettivo risulta alquanto complesso, poiché esso può articolarsi in più fattispecie che presentano
199 Fiandaca G., Nota, cit., p. 2587. 200 Fiandaca G., Nota, cit., p. 2587. 201 Maizzi P., cit., p. 1107 e ss. 202 Sulla determinatezza della fattispecie penale come corrispondenza tra il disvalore del fatto e la misura astratta della pena si rinvia a Palazzo F., Orientamenti dottrinali ed effettività giurisprudenziale del principio di determinatezza-tassatività in materia penale, in Giur. Cost., 1992, p. 354. Sul principio di determinatezza in generale Palazzo F., Il principio di determinatezza nel diritto penale, cit.; Ramacci F., Corso, cit., p. 73.
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un diverso grado di offensività203. I comportamenti oltraggiosi che la Corte definisce lievi in realtà
non denotano soltanto una minore quantità ma, piuttosto, una diversa qualità dell’offesa, poiché in
tale ipotesi ciò che è offeso è soltanto l’onore del pubblico ufficiale. L’operazione posta in essere
dalla Corte di abbassare al minimo “legale” quello “edittale” se, da un lato, consente di
commisurare adeguatamente la pena nei casi di minore gravità, non risolve, dall’altro, il problema
della determinatezza della fattispecie, perché all’interno dell’ambito applicativo della’art. 341 c.p.
continuano ad essere accumunate situazioni di fatto diverse.
Si è osservato, inoltre, che pur ammettendo che rientri nella competenza della Corte operare una
ricostruzione correttiva del piano originario della tutela, comunque tale prospettazione pecca per
difetto, perché la concezione politico-criminale che ravvisa nell’oltraggio un’ingiuria aggravata
dalla posizione rivestita dal soggetto passivo appare, secondo l’orientamento maggioritario,
plausibile non solo limitatamente ai casi più lievi, ma con riferimento all’intera gamma dei possibili
comportamenti oltraggiosi204. È stato evidenziato, però, che la soluzione compromissoria di
ricostruire l’oltraggio come un’ingiuria aggravata soltanto con riferimento ai casi di minore gravità
sebbene compromette la piena coerenza e linearità dell’iter argomentativo sviluppato nella
motivazione, è stata una conclusione strumentale obbligata dovuta ai limiti specifici della questione
di costituzionalità, che non contestava l’intera fattispecie ma solo la ragionevolezza della pena
minima avuto riguardo ai casi di tenue offensività. Conclusione giudicata accettabile nel merito
sostanziale ma sulla quale sono stati avanzati seri dubbi e perplessità in ordine al rispetto dei limiti
intrinseci del sindacato di costituzionalità.
L’ampliamento della pena edittale, però, ha comportato soltanto una delega al giudice nella
determinazione dell’uno e dell’altro contenuto di offesa, in aperto contrasto con il principio di
legalità, rendendo, pertanto, ineludibile l’intervento del legislatore.
Parte della dottrina, pertanto, ha espresso delle perplessità sul percorso seguito per giungere alla
ridefinizione del minimo adottato, in altre parole la ricostruzione in via indiretta del nuovo termine
sanzionatorio attraverso la declaratoria d’incostituzionalità205. Si è ritenuto contraddittorio, infatti,
da un lato richiamare il principio della competenza legislativa e dall’altro l’assunzione in via di
fatto da parte della Consulta del potere d’intervenire sulla norma. Si è asserito, infatti, che non è
possibile accondiscendere all’utilizzo di mezzi impropri anche se diretti all’ottenimento di un fine
203 Vecchi M., cit., p. 791 secondo la quale si pone dunque un problema di compatibilità con l'art. 3 Cost., poiché la Corte, per la prima volta, ha ritenuto che l'eterogeneità delle condotte da esso potenzialmente contemplate esiga una loro distinta valutazione normativa o quantomeno una non cumulabilità in un minimo di pena eccessivo. 204 Tale osservazione secondo Fiandaca G., Nota, cit., p. 2587, non sfugge neanche alla stessa Consulta che, nella motivazione della sentenza adduce a conferma dell’irragionevolezza della disciplina anche il progetto di riforma del codice penale redatto dalla Commissione Pagliaro. 205 Curi F., cit, p. 1091.
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condivisibile ed auspicato. Pertanto la necessità di sopperire senza ulteriori dilazioni ad una
situazione non più sostenibile non giustifica l’intervento della Corte, che si è sostanziato in uno
sconfinamento di competenze206.
LA GIURISPRUDENZA SUCCESSIVA ALLA SENTENZA N. 341/94 DELLA CORTE
COSTITUZIONALE
Le ricadute principali della pronuncia si sono avute su due distinti versanti: sono state sollevate
questioni di costituzionalità in riferimento anche alle altre fattispecie di oltraggio e la Cassazione è
stata chiamata a pronunciarsi sui rapporti in corso.
A seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 341 c.p. parte della dottrina207 sottolineò
come, quale conseguenza della predetta sentenza del giudice delle leggi, si ponesse “la necessità
razionale e l’obbligo costituzionale (dettato dagli artt. 3 e 27)”208 che il legislatore provvedesse ad
un adeguamento sanzionatorio di tutte le fattispecie di oltraggio, essendo, in caso contrario,
fortemente probabile che tutte le altre fattispecie di oltraggio previste dal codice penale sarebbero
state fatte oggetto di censura di costituzionalità.
Detta previsione si avverò perchè i giudici remittenti209, traendo spunto dalle affermazioni
contenute in quella sentenza, sollevarono questioni di legittimità costituzionale degli artt. 343 e 342
c.p. nella parte in cui, punendo rispettivamente i reati di oltraggio a un magistrato in udienza e di
oltraggio a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, prevedono un minimo edittale di pena,
per il primo reato di un anno di reclusione e per il secondo di sei mesi di reclusione. In particolare
essi deducevano la violazione degli artt. 3 e 27 Cost., in quanto il mutamento della «scala
gerarchica dei valori morali e giuridici» prodottosi nel tempo «non giustifica più la sanzione
edittalmente prevista nel minimo per i reati in esame», impedendo al giudice di applicare una pena
206 Curi F., cit, p. 1092. 207 Flora G., Effetti sui processi in corso, cit., p. 198; Spasari M., cit., p. 2813. Richiamandosi ai principi espressi nella sentenza n. 341/1994 fu sollevata questione di costituzionalità in riferimento al minimo edittale anche dell’art. 336 c.p., dichiarata manifestamente infondata con sentenza 28 giugno 1995 n. 314 in Cass. pen. 1995, 3272, Giur. cost. 1995, fasc. 4, Giust. pen. 1995, I, 329 e con ordinanza 12 dicembre 1996 n. 427 in Giur. cost. 1996, fasc. 6 , dell’art. 337 c.p., dichiarata manifestamente infondata con sentenza 12 dicembre 1996 n. 425 in Giur. cost. 1996, fasc. 6, Cass. pen. 1997, 957, Dir. pen. e processo 1997, 28 e con ordinanza 18 giugno 1997 n. 179 in Giur. cost. 1997, 1789 e dell’art. 344, dichiarata manifestamente infondata con ordinanza 13 maggio 1996 n. 162 in Cass. pen. 1996, 3236, Giur. cost. 1996, 1513, Dir. pen. e processo 1996, 801 e con ordinanza 19 giugno 1997 n. 223 in Giur. cost. 1997, 2189 Riv. pen. 1997, 987. 208 Spasari M., cit., p. 2813, il quale rilevava che risulta sperequato per difetto anche il limite inferiore della reclusione fissato per l’art. 344 c.p. 209 Le ordinanze in parola possono leggersi in Gazz. Uff., I Serie speciale, rispettivamente, Pret. Venezia, sez. distaccata di Chioggia, 8 febbraio 1995, al n. 16 del 1995; Pret. Trieste, 14 febbraio 1995, al n. 18 del 1995; Pret. Cremona, 9 novembre 1994, al n. 4 del 1995; App. Reggio Calabria, 27 ottobre 1994, al n. 4 del 1995; Pret. Potenza, 1° dicembre 1994, al n. 7 del 1994; Pret. Trieste, 30 novembre 1994, al n. 15 del 1995.
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«effettivamente proporzionata all'entità della lesione» nelle ipotesi di modesta rilevanza, e ciò tanto
più dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell'art. 341 c.p. La irrogazione di una pena
sproporzionata al grado di effettivo disvalore del fatto comprometterebbe la finalità rieducativa
della pena, venendo a mancare la necessaria proporzionalità fra disvalore del fatto ed entità della
pena comminata, e l'art. 3 della Costituzione «in quanto si avrebbe violazione del principio di
eguaglianza sostanziale», punendosi in maniera diversa illeciti che offendono il medesimo bene210.
La Corte costituzionale211, applicando nuovamente il canone di ragionevolezza, ha dichiarato la
questione non fondata, affermando l'inesistenza di quella manifesta irragionevolezza nella scelta
della pena edittale minima, in relazione ai beni lesi dai reati in oggetto, che ha portato alla
pronuncia d'incostituzionalità della sentenza n. 341 del 1994. Tale conclusione è stata giustifica con
la considerazione che, venuta meno l'idoneità a fungere da parametro della sanzione prevista per il
reato di oltraggio, l'incostituzionalità degli artt. 342 e 343 c. p, poteva ritenersi sussistente solo se
«l'opzione normativa contrast[a] in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire
si appales[a], in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalità che raggiunga
una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura sintomatica di eccesso di
potere»212. Ciò, però, nel caso degli artt. 342 e 343 c. p, non accade per valutazioni che investono
210 Inoltre, le disposizioni penali menzionate sono state denunciate anche per contrasto con gli artt. 24 e 97 Cost., laddove la previsione di una pena edittale minima così severa «ostacolerebbe nei casi meno gravi l'accesso ai riti alternativi... «essendo più difficile teoricamente riuscire ad ottenere pene pecuniarie sostitutive di quelle detentive», con conseguente compromissione anche del buon andamento ed imparzialità dei pubblici uffici». per queste considerazioni, si vedano le ordinanze App. Reggio Calabria, 27 ottobre 1994 e Pret. Trieste, 30 novembre 1994. 211 Corte Costituzionale, sentenza 12 luglio 1995 n. 313. in Giur. it. 1996, I, 40, Riv. pen. 1996, 27 Cass. pen. 1995, 3267, Giust. pen. 1995, I, 295. Per un commento si rinvia a Felicetti F., Previsione di una pena minima edittale per i reati di oltraggio, in Corriere Giur., 1995, 10, 1200. Successivamente sono state sollevate questioni di costituzionali in riferimento all’art. 342 c.p. dichiarata manifestamente infondata con ordinanza 12 dicembre 1996 n. 428 in Giur. cost. 1996, fasc. 6; e dell’art. 343 c.p. con ordinanza 18 ottobre 1995 n. 443 in Giur. cost., 1995, p. 3502 e con sentenza 30 settembre 1999 n. 380 in Corriere giuridico 1999, 1554, e Dir. pen. e processo 1999, p. 1387. 212 La Corte Costituzionale nella sentenza 12 luglio 1995 n. 313 prima ricorda che affinchè possa “operare uno scrutinio che investa direttamente il merito delle scelte sanzionatorie operate dal legislatore, è necessario che l'opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza” e poi chiarisce che “non è, quindi, qualsiasi mutamento del costume o della coscienza collettiva a poter indurre nuove gerarchie di valori idonee a compromettere, sul piano della ragionevolezza costituzionalmente rilevante, la ponderazione che dei beni coinvolti sia stata operata in sede normativa attraverso l'individuazione delle condotte penalmente rilevanti e la determinazione del conseguente trattamento sanzionatorio, giacché, ove così fosse, alla relatività di un giudizio di valore - quello legislativo - finirebbe ineluttabilmente per sovrapporsi un controllo di ragionevolezza anch'esso relativo e, come tale, idoneo a realizzare una funzione eminentemente "creativa" che sicuramente fuoriesce dai compiti riservati a questa Corte”. “l'apprezzamento in ordine alla manifesta irragionevolezza della quantità o qualità della pena comminata per una determinata fattispecie incriminatrice finisce, dunque, per saldarsi intimamente alla verifica circa l'effettivo uso del potere discrezionale, nel senso che, ove uno o più fra i valori che la norma investe apparissero sviliti al punto da risultare in concreto compromessi ad esclusivo vantaggio degli altri, sarà la stessa discrezionalità a non potersi dire correttamente esercitata, proprio perché carente di alcuni dei termini sui quali la stessa poteva e doveva fondarsi”.Il profilo maggiormente interessante delle pronunce in epigrafe rimane la possibilità, per il giudice delle leggi, di operare un controllo di costituzionalità su norme prescriventi trattamenti sanzionatori, valutando la conformità a Costituzione della tipologia e dell'entità della sanzione applicanda: sul punto cfr. Papa, Considerazioni sul controllo di costituzionalità relativamente alla misura edittale delle pene in Italia e negli U.S.A., in Riv. It., 1984, 726 e Modugno-D'Alessio, Verso una soluzione legislativa del problema dell'obiezione di coscienza? Note in margine alla più recente giurisprudnza della Corte costituzionale, in Giur. It., 1990, IV, 97.
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tanto la ragione storica e l'impatto sociale delle disposizioni stesse quanto la struttura e
l'interpretazione giurisprudenziale delle norme denunciate. Da un lato, infatti, sono proprio le
connotazioni fortemente "storicizzate" che caratterizzano l’oltraggio ad impedire una qualsiasi
estensione dei principi enunciati nella sentenza n. 341 al di fuori del circoscritto tema che con essa
si è inteso affrontare e risolvere. Dall’altro la struttura degli artt. 342 e 343 c.p., differenzia
nettamente i reati ivi previsti dalla figura dell'oltraggio a pubblico ufficiale, essendo nel reato punito
dall'art. 342 c.p.213 «la specifica qualità dell'organo e delle attribuzioni che esso esprime a
rappresentare la connotazione tipizzante e, dunque, un valore da tutelare adeguatamente anche
sotto il profilo dell'onore e del prestigio, per i naturali riverberi negativi che l'offesa può in sé
determinare sul corretto e sereno svolgimento delle funzioni che il corpo o il collegio è chiamato a
esercitare»214, ed analoghe considerazioni potendosi fare per il reato previsto dall'art. 343 c.p., in
relazione al quale il primario risalto che nell'ordinamento assume la natura delle funzioni che il
magistrato svolge in udienza ancor più renderebbe impropria qualsiasi assimilazione - sia pure sotto
il circoscritto profilo della individuazione del minimo edittale - alla figura di «genere» rappresentata
dall'oltraggio a qualsiasi pubblico ufficiale215. Tali caratteristiche dei reati, giustificano, secondo la
Corte, i minimi edittali per essi previsti, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.216, mentre gli artt. 24 e 97
Cost. sono invocati fuori luogo, prospettandosi in relazione al primo violazioni che non attengono al
processo, bensì a norme sostanziali217 ed, in relazione al secondo, violazioni che non attengono agli
aspetti organizzatori degli uffici giudiziari218. Il giudice delle leggi, pertanto, nega che vi sia
213 l'offesa all'onore o al prestigio di un corpo politico, amministrativo o giudiziario o di una pubblica autorità costituita in collegio non può affatto ricondursi, sul piano della lesività, ad una mera ipotesi di oltraggio "plurimo", 214 In merito la Corte Costituzionale nella sentenza 12 luglio 1995 n. 313 chiarisce che le argomentazioni addotte non sono sconfessate dal diverso e più blando trattamento previsto per il reato di diffamazione a corpo politico, amministrativo o giudiziario dall'art. 594, quarto comma, del codice penale, dal momento che “è proprio l'offesa "al cospetto" ad integrare una condotta che direttamente aggredisce il bene tutelato, esponendolo, quindi, ad una lesione certo più grave rispetto a quella che scaturisce da una offesa soltanto "indiretta" realizzata comunicando con altri, i quali, a loro volta, tali offese possono anche non condividere o, addirittura, contrastare”. 215 D'altra parte, se questa Corte non mancò di osservare, nella richiamata sentenza n. 341 del 1994, come in altri paesi "di democrazia matura" il delitto di oltraggio fosse punito meno severamente o risultasse addirittura "ignorato", un simile rilievo non può certo valere con riferimento all'ipotesi prevista dall'art. 343 del codice penale, posto che in paesi di antica e consolidata tradizione liberale il prestigio degli organi di giustizia è assicurato da norme assai rigorose che testimoniano come un simile bene assuma un rilievo del tutto peculiare nel quadro di qualsiasi assetto democratico. 216 Dissolto, quindi, il dubbio di costituzionalità delle norme censurate con riferimento al principio di ragionevolezza, le questioni si rivelano infondate anche in relazione all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, essendo stata la funzione rieducativa della pena invocata dai giudici a quibus per i medesimi profili dedotti a sostegno dell'asserito contrasto delle disposizioni impugnate con l'art. 3 della Carta fondamentale. 217 Del tutto improprio si rivela, poi, il richiamo all'art. 24 della Costituzione operato dal Pretore di Trieste sul presupposto che la previsione di un minimo edittale inadeguato per eccesso renderebbe meno agevole l'accesso ai riti alternativi, e ciò sia perché tra editto e scelte processuali possono intravedersi esclusivamente relazioni di mero fatto, sia perché si invocano profili del tutto ipotetici ed eventuali, quali la difficoltà "teorica" di "riuscire ad ottenere pene pecuniarie sostitutive di pene detentive". 218 Ugualmente infondata è, infine, la pretesa violazione dell'art. 97, primo comma, della Costituzione, che alcuni giudici hanno desunto dai "rilevanti costi processuali" e dalla minor propensione per i riti alternativi che scaturirebbero dagli elevati minimi edittali previsti dalle norme oggetto di impugnativa. Questa Corte ha infatti
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un’unicità del bene giuridico nei delitti di oltraggio, essendo la previsione dei reati di cui agli artt.
342 e 343 c.p., finalizzata alla tutela di un bene diverso rispetto a quello considerato nella
fattispecie normativa dell'oltraggio a pubblico ufficiale. In questo senso, la decisione della Consulta
è assolutamente conforme all'orientamento, dominante, della giurisprudenza della Corte di
legittimità, la quale ha più volte affermato la diversità di bene giuridico fra i reati di cui agli artt.
341 c.p. e 342, 343 c. p.219.
Sotto un altro versante la Cassazione ha dovuto affrontare i riflessi della pronuncia di
incostituzionalità della pena minima edittale dell'oltraggio (Corte cost., 25 luglio 1994, n. 341) sui
processi non ancora decisi con sentenza passata in giudicato220.
L'art. 136, 1° comma, Cost. stabilisce che «quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di
una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione»; l'art. 30, penultimo comma, L. 11 marzo 1953, n.
87, precisa che «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno
successivo alla pubblicazione della decisione»: «in forza di tale disposizione, ed in particolare
dell'espressione in essa contenuta "non possono avere applicazione", si ritiene oggi che la
dichiarazione di incostituzionalità abbia effetto ex tunc, ragion per cui la legge invalidata non può
più essere applicata neppure alle situazioni verificatesi sotto la sua vigenza»221.
costantemente affermato che il principio del buon andamento e della imparzialità dell'amministrazione, alla cui realizzazione l'indicato parametro vincola la disciplina dell'organizzazione dei pubblici uffici, pur potendosi riferire anche agli organi dell'amministrazione della giustizia (v. sentenze n. 18 del 1989 e n. 86 del 1982), attiene esclusivamente alle leggi concernenti l'ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, mentre è del tutto estraneo al tema dell'esercizio della funzione giurisdizionale nel suo complesso e in relazione ai diversi provvedimenti che costituiscono espressione di tale esercizio (v., sentenza n. 376 del 1993 e ordinanza n. 275 del 1994). 219 Cfr., da ultimo, Cass., Sez. V, 24 gennaio 1995, n. 798, in Guida al Diritto, n. 10 del 1995; cfr. anche Id., Sez. VI, 3 marzo 1984, n. 2044; Id, Sez. VI, 17 giugno 1985, n. 5970 220 Differenti sono state le questioni affrontate: Cassazione penale sez. VI, 25 gennaio 1995, n. 3578, in Giur. it. 1996, II, 140 nella quale si precisa che “Pur essendo la pattuizione intervenuta fra le parti la risultante di una base negoziale per la parte concernente la misura della pena comunque rebus sic stantibus, anche a prescindere dalla persistente diretta operatività dell'art. 2 c.p.p., nessun intervento nè di tipo demolitorio nè di tipo correttivo può essere, nella specie, adottato da questa Corte risultando la pena base determinata con riferimento al più grave reato di resistenza, mentre l'aumento per la continuazione (relativamente, oltre che all'oltraggio, alle lesioni aggravate) è stato fissato nella misura di mese uno di reclusione. E poiché, una volta ritenuta la continuazione tra più reati, il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per i reati "satelliti" non esplica più alcuna efficacia, dovendosi solo aumentare la pena prevista per la violazione più grave (cfr. Sez. un., 27 marzo 1992, C.), l'effetto scaturente dalla sentenza n. 341 del 1994 è da ritenere del tutto ininfluente nel presente procedimento”, per un commento si rinvia a Mazzocco F., Nota sulla pronuncia di incostituzionalità della pena minima edittale dell'oltraggio, in Giur. It., 1996, p. 3; Cassazione penale sez. VI, 25 gennaio 1995 n. 5759, Cimolai, in Cass. pen., 1996, p. 1441 (s.m.) per la quale “la dichiarazione di illegittimità costituzionale avendo efficacia retroattiva ha eliminato la norma in esame rispetto a tutti i rapporti processuali pendenti, introducendo previsione più favorevole per il ricorrente, che va applicata nel presente giudizio. Pertanto, deve ritenersi caducato negli effetti l'accordo intervenuto tra le parti, in quanto non più rispondente al riferimento normativo considerato al fine della composizione del rapporto; con la conseguenza che il giudizio deve essere rinviato al Tribunale di Pordenone (art. 623 c.p.p.)”. 221 Fiandaca G.-Musco E., cit., p. 87; sulla natura della declaratoria di illegittimità cfr.. Gallo M., La «disapplicazione» per invalidità costituzionale della legge penale incriminatrice, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1956, 726: “non è abrogazione, perché... la decisione della Corte vincola tutti i giudici, indipendentemente dal tempo in cui è sorto il
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Quanto alla comminazione del nuovo minimo edittale dell'oltraggio, è la stessa Corte costituzionale,
nella sentenza n. 341/1994, a preoccuparsi delle conseguenze del proprio decisum, affermando che,
a seguito della pronuncia di incostituzionalità del minimo edittale della reclusione di mesi sei, è
possibile individuare (è ovvio, interlocutoriamente, fermo restando il potere discrezionale del
legislatore, "libero di stabilire, per il reato medesimo, un diverso trattamento sanzionatorio, purché
ragionevole") «la pena minima da applicare per il reato in questione facendo riferimento al limite di
quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dell'art. 23 c. p., senza con ciò
effettuare alcuna opzione invasiva della discrezionalità del legislatore, il quale peraltro resta libero
di stabilire, per il reato medesimo, un diverso trattamento sanzionatorio, purché ragionevole nei
sensi e secondo i principi illustrati nella presente pronuncia».
La Cassazione ha dovuto affrontare due problematiche:
a) ancorché la dichiarazione di incostituzionalità, per giunta riguardante non il precetto, ma la
sanzione, non possa assimilarsi al fenomeno di successione di leggi nel tempo e, men che mai, al
fenomeno abrogativo, in base all'art. 30 commi 1 e 4 della l. 11 marzo 1953, n. 87, la sentenza della
Corte costituzionale n. 341 del 1994 ha un immediato effetto demolitorio sui processi in corso
“soprattutto quando, come nel caso di specie, la pena sia stata irrogata in misura corrispondente al
minimo”;
b) in sede di giudizio di cassazione, tuttavia, la Corte non può ricorrere alla procedura ex art. 619
comma 3 essendo necessario un nuovo giudizio di merito per rideterminare la pena.
In primo luogo la Cassazione chiarisce non è possibile assimilare la dichiarazione d’illegittimità,
che colpiva la sola sanzione e non il precetto, al fenomeno abrogativo e che, pertanto, non si
potevano ravvisare, in conseguenza della detta pronuncia, considerata la natura invalidante della
sentenza della Corte, gli effetti propri della successione di leggi nel tempo. In seguito, però, afferma
che i riverberi di tale decisum riguardo ai processi non ancora definiti con sentenza passata in
giudicato sono in ogni modo agevolmente riscontrabili alla stregua delle disposizioni dell'art. 30, 1
e 4 comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, non essendo possibile astrattamente individuare un
esatto rapporto di rispondenza tra la misura della pena inflitta e l'entità dell'editto222. Questa seconda
statuizione è stata oggetto di critica da parte della dottrina223 secondo la quale il fenomeno
rapporto controverso e, quindi, anche se questo è anteriore alla decisione stessa. Non è disapplicazione, perché riguarda tutte le conseguenze, comprese quelle future, ed erga omnes»: si tratta pertanto di una decisione di annullamento”. 222 Cassazione penale sez. VI, 03 ottobre 1994, Burgazzi, in Giur. it. 1996, II, 108 (nota di: MENICHETTI); Cassazione penale sez. VI 25 gennaio 1995 n. 3578 in Giur. it., 1996, II, 140; Cassazione penale sez. VI 03 aprile 1995, n. 6177, Di Mario, in Cass. pen. 1996, 2964 (s.m.), Giust. pen. 1996, II, 129 223 Al riguardo Cfr. Flora G., Effetti sui processi in corso, cit., p. 198 rilevava che se pur poteva convenirsi che “la sentenza della Corte costituzionale non ha ovviamente determinato un qualcosa di analogo ad un' abolitio criminis, non
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originario della dichiarazione d’illegittimità costituzionale in oggetto era assimilabile ad un'ipotesi
di successione di leggi modificative, costituendone, anzi, quasi un esempio classico: quello in cui
viene per provvedimento successivo diminuito il minimo edittale della sanzione. In tal caso, qualora
il giudice opti per il contenimento della concreta misura della pena nel minimo, deve trovare
applicazione, a parità delle altre condizioni, la disciplina sopravvenuta, essendo quella in concreto
più favorevole al reo (art. 2 comma 3 c.p.). Non risultava, inoltre, chiaro il senso del richiamo
all'art. 30 della l. n. 87 del 1953 nell' iter argomentativo della sentenza, poiché la norma in
questione concerne le sentenze di illegittimità tout court, che vengono in tutto e per tutto equiparate
ad un abolitio criminis (in grado, dunque, di travolgere anche il giudicato) e non quelle di
incostituzionalità "parziale" (categoria di creazione giurisprudenziale, sconosciuta al legislatore del
1953)224.
La Corte costituzionale rileva che la sentenza del 25 luglio 1994, n. 341, non solo ha efficacia
retroattiva rispetto a tutti i rapporti pendenti225 ma anche esplica un'immediata efficacia invalidante
nei processi tuttora in corso, quando la pena sia stata irrogata in misura corrispondente al
minimo226.
La seconda affermazione importante della sentenza in esame, ritenuta anch'essa condivisibile dalla
dottrina, ha un duplice contenuto: insussistensa di un giudicato "intero" in punto di pena;
inoperatività, nel caso di specie, del meccanismo di rettificazione previsto dall'art. 619 c.p.p. Infatti,
la decisione di annullamento con rinvio per la rideterminazione della pena ha per presupposto il
altrettanto può affermarsi in ordine alla diversità di effetti rispetto a quella che si determina in caso di successione di leggi nel tempo”. 224 Nel caso di sentenza passata in giudicato si è aperto un dibattito dottrinario/giurisprudenziale se si debba applicabile il disposto dell'art. 30, 4° comma, L. 11 marzo 1953, n. 87 (di cui costituisce applicazione l'art. 673 c. p. p.), in base al quale «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali», o piuttosto, in via analogica, il disposto dell'art. 2, 3° comma, che fa salvo il caso di sentenza irrevocabile di condanna. È prevalsa la seconda soluzione. Del resto, l'orientamento giurisprudenziale limita l'ambito di operatività dell'art. 30, 4° comma, considerando un'eccezione, da mantenere entro i casi tassativamente stabiliti dalla legge, la possibilità di superamento del giudicato: «la dichiarazione di illegittimità costituzionale, avendo per presupposto l'esistenza di un vizio che inficia sin dall'origine la norma in contrasto con il precetto costituzionale, ha efficacia invalidante e non abrogativa, producendo conseguenze simili a quelle dell'annullamento; essa pertanto esplica i suoi effetti non soltanto per il futuro, ma, entro certi limiti, anche retroattivamente nei confronti di fatti o rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, con esclusione però delle situazioni giuridiche ormai consolidate e, come tali, non suscettibili di essere rimosse o modificate» (Cass., Sez. I, 10 settembre 1991, Maffei, in Giust. Pen., 1992, II, 204). Si è osservato, inoltre, che «la sentenza abolitrice della Corte costituzionale non travolge il giudicato di condanna, come si evince dall'art. 30, 4° comma, L. 11 marzo 1953, n. 87, che, nel regolare espressamente gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità sulla sentenza irrevocabile di condanna emessa in applicazione della norma incostituzionale, si limita a disporre la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli effetti penali, con formulazione analoga a quella dell'art. 2, 2° comma, c. p., relativa all'abrogazione legislativa della norma incriminatrice, dimostrando così di escludere ogni effetto diverso da quelli tassativamente indicati» (Cass., Sez. I, 18 dicembre 1981, Braibanti, in Giust. Pen., 1982, III, 586). In riferimento all’oltraggio si rinvia a Mazzocco F., Nota sulla pronuncia di incostituzionalità della pena minima edittale dell'oltraggio, in Giur. It., 1996, p. 3. 225 Cassazione penale, sez. VI, 25 gennaio 1995 n. 5759, Cimolai, in Cass. pen., 1996, p. 1441 (s.m.) 226 Cassazione penale, sez. VI, 03 ottobre 1994, Burgazzi, in Giur. it. 1996, II, p. 108.
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"superamento" del giudicato formatosi sul quantum di pena inflitta, non fatto oggetto di motivo di
gravame, nei limiti in cui può esserlo il capo sulla determinazione della pena, per l'assorbente
ragione che già la pena era stata stabilita nel minimo (allora) possibile.
Pur potendo la Corte individuare la pena minima da applicare facendo riferimento al limite di
quindici giorni fissato in via generale per la pena della reclusione dall'art. 23 cod. pen., non è però
possibile procedere ad un'automatica rideterminazione della pena in sede di giudizio di Cassazione
utilizzando un simile parametro. L'esercizio del potere discrezionale del giudice nell'irrogazione
della pena resta, infatti, condizionato all'editto vigente prima della pronuncia di illegittimità,
cosicché diviene impossibile individuare, nella verifica complessiva del disvalore, l'entità della pena
che sarebbe stata irrogata in presenza dell'assetto sanzionatorio derivante dalla parziale
invalidazione dell'art. 341, 1 comma, c.p. Un ostacolo che sarebbe stato superabile solo ove fosse
risultato che la decisione censurata si era sicuramente attestata al minimo della previsione edittale
con specifico giudizio di valore sul punto227.
Quanto all'insussistenza di uno sbarramento da giudicato interno, questa viene argomentata
rilevando semplicemente, ma persuasivamente, come non possa essersi formato giudicato
("interno") sull’irrogazione di un minimo all'evidenza condizionato "all'entità dell'editto vigente
prima della pronuncia di illegittimità". Insomma - sembra dire la Corte - sarebbe profondamente
ingiusto ritenere che sia divenuta immodificabile la quantità della pena per il solo fatto che la
proponibilità del ricorso sul punto è maturata successivamente allo spirare dei termini. E, del resto,
una simile conclusione risulta pienamente giustificata dal testo dell'art. 619 comma 3 c.p.p., che ben
consente alla Corte di intervenire nel caso di sopravvenienza di "legge più favorevole" (e quindi,
estensivamente, di "norma" più favorevole determinata da una sentenza costituzionale),
indipendentemente dalla circostanza che il punto investito dalla modifica favorevole sia stato fatto
oggetto o meno di impugnazione.
Molto sensatamente ed in modo giuridicamente corretto la Corte sembra aver invocato una sorta di
limite implicito alla formazione del giudicato interno, costituito dalla deducibilità "sopravvenuta"
del motivo di ricorso, secondo una prassi per vero ormai consolidata.
Quanto alla ritenuta preclusione dell'intervento correttivo ai sensi dell'art. 619 c.p.p., la Corte ritiene
di non poter automaticamente sostituire il minimo legale irrogato dai giudici di merito, con quello
"nuovo" (quindici giorni di reclusione) risultante dall'azione combinata dell'intervento demolitore
della Corte costituzionale e di quello "integratore" dell'art. 23 c.p.; dietro la considerazione che il
227 Cassazione penale, sez. VI, 03 aprile 1995, n. 6177, Di Mario, in Cass. pen. 1996, 2964 (s.m.), e in Giust. pen. 1996, II, 129; nel senso che, qualora risulti che i giudici di merito hanno inteso in realtà applicare il minimo edittale della pena base, la Corte di cassazione può procedere direttamente alla sostituzione della pena inflitta ex art. 619 comma 3 c.p.p. cfr. Cassazione penale sez. VI, 11 aprile 1995, n. 6190, Bonina, in Cass. pen. 1997, 418 (s.m.).
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contenimento della pena in quei limiti non può non essere stato condizionato dalla previsione
edittale d'allora. Ed è infatti un dato di esperienza, più volte sottolineato nella letteratura penalistica,
che la giurisprudenza tenda ad irrogare pene vicine od uguali al minimo edittale, proprio per
temporale l'eccessivo rigore sanzionatorio del codice del 1930, non più rispondente alle valutazioni
della comunità sociale né al quadro dei valori emergente dalla Carta costituzionale.
Conseguentemente, l'individuazione della concreta gravità oggettiva e soggettiva del fatto non
risulta automaticamente effettuabile, ma richiede una nuova valutazione nel merito, sottratta alla
competenza del giudice della legittimità. Con un unico ovvio vincolo per il giudice di rinvio:
infliggere una pena inferiore a quella irrogata con la sentenza annullata228.
Gli arresti della Cassazione successivi alla sentenza 349/1994 sono stati considerati da quella parte
della dottrina che auspicava l’abrogazione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale e di tutte le
altre figure di oltraggio come un ulteriore passo verso la "pacifica convivenza" del primo con i
principi costituzionali. La caducazione del minimo edittale di sei mesi, la sua sostituizione ex lege
con quello di quindici giorni e l’intervento di alcune modifiche normative, quali la cancellazione
con il codice Vassalli della possibilità di arresto in fragranza e l’applicabilità della sostituzione con
pena pecuniaria della pena definitiva fino a tre mesi, pena che può anche essere concordata con il
p.m. in base all'art. 444 c.p., la presenza dell'art. 341 c.p. nell'ordinamento veniva giudicata meno
ingombrante , soprattutto perché le summenzionate modifiche consentivano al giudice di valutare
più serenamente la concreta gravità del fatto229.
L’ABROGAZIONE DELL’ART. 341 C.P. RILIEVI CRITICI A pochi anni di distanza dalla pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 341 del 1994) è
intervenuto il legislatore che con l’art. 18 (Abrogazioni e modifiche al codice penale), della legge
25 giugno 1999, n. 205230, ha abrogato al primo comma gli artt. 341, oltraggio a un pubblico
228 Cassazione penale sez. VI, 03 ottobre 1994, Burgazzi, in Giur. it. 1996, II, p. 108. 229 Cfr. Flora G., Effetti sui processi in corso, cit., p. 198. 230 Legge 25 giugno 1999, n. 205, recante delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale, pubblicata in G.U. 28 giugno 1999, n. 149. In generale su tale novella si veda Aghina-Cantone, La depenalizzazione dei reati minori, ed. Simone, 1999, p. 125; Di Giovine O., La nuova legge delega per la depenalizzazione dei reati minori tra istanze deflattive e sperimentazione di nuovi modelli, Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 4, p. 1407, la quale osserva che l'art. 18 “finisce con prolungare l'agonia della parte speciale del codice Rocco, stemperandone l'impronta statolatrica attraverso l'eliminazione delle fattispecie che più compromettono una moderna visione del rapporto Stato-cittadino, fattispecie tuttavia neutralizzate da un'applicazione giurisprudenziale in alcuni casi inesistente, in altri quanto meno sporadica. Come era peraltro prevedibile, l'intervento di asportazione, operato su un corpus ispirato ad una logica (superata, ma) ferrea nella sua coerenza interna, non è perfettamente riuscito. Potrebbe provocatoriamente dirsi che il risultato finale dell'operazione di cosmesi legislativa lascia insoddisfatti anche sotto il profilo estetico. L'intervento, della cui opportunità in questa sede è lecito dubitare, ha manifestato, infatti, un carattere disorganico, ed ha finito se mai con l'accentuare l'urgenza di una normazione di ampio respiro, che rimediti la parte speciale del codice, sia sotto il profilo del catalogo dei beni giuridici, sia sotto quello delle tecniche di tutela, in relazione ai mutati scenari criminologici ed alle nuove sensibilità politiche”; Li Vecchi R., Osservazioni e rilievi alla
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ufficiale, e 344, oltraggio ad un pubblico impiegato, del codice penale e al secondo ed al terzo
comma ha rimodulato la cornice sanzionatoria delle fattispecie “speciali” di oltraggio di cui agli
artt. 342 e 343 c.p. (risparmiate, invece, dalla Corte costituzionale), abbattendo il tetto minimo e
livellando la risposta, quanto al massimo, a tre anni di reclusione.
Con riferimento alla soluzione normativa adottata nel 1999, la dottrina ha assunto due distinte
posizioni. Secondo una parte231 quella del Legislatore fu una scelta di politica legislativa che si
poneva in linea non solo con la citata sentenza della Corte Costituzionale del 1994, ma anche con le
sue successive pronunce232, perché portava a compimento la precedente opera di progressiva
eliminazione delle disparità sussistenti tra i reati di oltraggio e d’ingiuria. Secondo
quest’orientamento, infatti, l’elemento di continuità delle summenzionate decisioni era ravvisabile
nel costante ed espresso riferirsi delle argomentazioni impiegate dalla Consulta al delitto d’ingiuria
come tertium comparationis, rispetto al quale la Corte di volta in volta aveva misurato la
ragionevolezza della diversa disciplina dettata dall’art. 341 c.p. Pertanto ragioni storico-
sistematiche inducevano a ritenere che la legge n. 205/99 rappresentasse, in parte qua, una sorta di
tardiva ottemperanza ai ripetuti appelli ad una rivisitazione della fattispecie di oltraggio operati
dalla Corte costituzionale nel corso degli anni della sua vigenza nel sistema penale.
Inteso in questo senso l’intervento legislativo del 1999 è stato salutato con favore e soddisfazione,
perché considerato espressione del superamento di una concezione autoritaria dello Stato, laddove
veniva rimossa la ritenuta asimmetria, giudicata inaccettabile, tra la posizione del p.u. e quella del
privato cittadino233.
Secondo un’altra parte della dottrina234, sebbene l’abrogazione da un lato recepiva alcune
indicazioni della Corte Costituzionale, dall’altro ne superava il decisum in più punti.
legge delega 25 giugno 1999, n. 205, in Riv. Pen., 1999, p. 949 e ss.; Id., Il contenuto della legge 25 giugno 1999, n. 205, in AA.VV. (a cura di Lattanzi-Lupo), Depenalizzazione e nuova disciplina dell’illecito amministrativo, Giuffrè, 2001. 231 Secondo Scuto S., Il nuovo delitto di oltraggio a un pubblico ufficiale, in Il Penalista, Pacchetto sicurezza, 2009, l’arresto giurisprudenziale sopra menzionato deve essere considerato come la base culturale sulla quale il Legislatore del 1999 ha deciso l’abrogazione dell’art. 341 c.p. 232 In particolare cfr. C. cost., 23 aprile 1998, n. 140, in Cass pen, 1998, p. 2302, n. 1272 in tema di reazione ad atti arbitrari; Corte Cost., 7 ottobre 1999, n. 380, in tema di oltraggio al p.m. in udienza ad opera dei difensori o delle parti private costituite in giudizio. 233 In merito cfr. Bisori L., cit., p. 3029 qualifica l’intervento abrogativo nel senso di una “riforma pienamente condivisibile”; Giunta F., cit., p. 1423 rileva che “nel contesto di una giurisprudenza costituzionale che si è mostrata incline per lo più alla difesa del delitto di oltraggio, la scelta di abrogare tale fattispecie delittuosa costituisce dunque un'autentica svolta, che sancisce la sostanziale uguaglianza del cittadino e del pubblico ufficiale per quel che concerne la tutela penale dell'onorabilità personale”; Scandone G., cit., p. 458. 234 Scandone G., cit., p. 451. In merito cfr. anche Bisori L., L’abrogazione dell’oltraggio tra abolitio criminis o successione di leggi penali nel tempo, in Cass. pen., 2000, p. 3029, il quale, però, precisa che la lettura «conseguenziale» proposta dalla novella del 1999 costituisce “il frutto di un'opera interpretativa - se si vuole «sistematizzante», che vuol supplire alla pressoché totale mancanza di indicazioni in tal senso da parte del legislatore” e che una riformulazione della fattispecie (specie in punto di pena) avrebbe forse maggiormente corrisposto agli auspici della Corte costituzionale.
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In primo luogo, infatti, si è osservato che in realtà l’art. 18, primo comma, della legge n. 205/1999,
il quale disponeva l’eliminazione dell’art. 341 c.p., non può essere inteso come provvedimento
attuativo della sent. 341/94 della Corte, poiché l’intervento caducatorio del minimo edittale operato
da quest’ultima aveva già rimodulato la fattispecie in termini di internità al quadro costituzionale di
riferimento235, facendo, quindi, venir meno l'esigenza di provvedere ad una equiparazione della
tutela accordata al pubblico ufficiale con quella stabilita per il cittadino comune. D’altra parte la
stessa Corte, già nella sentenza n. 313/1995, manifestava prudenza sull’idoneità della sua azione ad
incidere sulla legittima discrezionalità del potere legislativo e, fondamentalmente, sulla possibilità
di produrre una giurisprudenza “creativa”236. Da queste premesse ne discende che quella del
legislatore nel 1999 è stata una scelta del tutto libera, e non condizionata dalle richieste della Corte,
e che, da un punto di vista sostanziale, risultava, altresì, inutile237.
Un altro aspetto oggetto di riflessione era costituito dalla circostanza che in realtà la legge n.
205/1999 aveva esondato dagli argini tracciati dalla decisione della Corte Costituzionale, perché
quest’ultima non aveva espresso dubbi o riserve sull’antigiuridicità della condotta, ritenendola tra
l’altro sempre più grave rispetto a quella posta a base del delitto d’ingiuria238. Il costrutto logico-
giuridico sotteso alla sentenza n. 341/1994, invece, non solo non è stato interpretato correttamente,
ma è stato addirittura stravolto, perché l’oltraggio, con riferimento ai fatti di reati posti in essere
prima del 1999, è stato addirittura depenalizzato.
E' stato rilevato239 che anche volendo ravvisare nella giurisprudenza costituzionale del 1994 una
dichiarazione di non contrarietà all’abrogazione (anche se, è bene precisare, nella pronuncia non
c’era un’esplicita esortazione rivolta al Parlamento in tal senso) il legislatore, se avesse voluto
seguire le indicazioni della Corte, avrebbe dovuto scegliere la soluzione contenuta nella disciplina
proposta nel 1992 dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, nella quale si
prevedeva che l’offesa all’onore e al prestigio del pubblico ufficiale non costituisse più una figura
autonoma di reato, ma solo un’aggravante dell’ingiuria, perseguibile, in questo caso, d’ufficio.
In relazione, poi, alle altre due fattispecie oggetto d’intervento ai sensi del secondo e del terzo
comma dell’art. 18, si è evidenziato che la prevista riduzione di pena edittale minima per il reato di
cui all’art. 343 c.p. non solo non era stata sollecitata dalla Corte Costituzionale, ma, in senso
opposto, la questione di legittimità costituzionale specificamente sollevata in merito era stata
rigettata nella sentenza n. 313/1995. La Corte, inoltre, non ha in seguito espresso alcun giudizio
235 Scandone G., cit., p. 453. 236 Si tratta di una posizione prudenziale che si rafforzerà nel 2007 con la sent. n. 22. 237 Locatelli G., Abrogazione del reato di oltraggio e revocabilita' della sentenza di condanna passata in giudicato, in Dir. Pen. e Processo, 2000, 5, p. 630. 238 Scandone G., cit., p. 458. 239 Scandone G., cit., p. 455.
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sulla predetta rimodulazione della pena edittale, ma si è limita a prenderne atto, senza commentarla,
nella sentenza n. 380/1999, di pochi mesi successivi alla novella dello stesso anno.
Questa parte della dottrina, pertanto, ha ritenuto che la cancellazione della fattispecie penale fosse
stata “inutile ed anzi foriera di conseguenze negative”.240
Al suesposto indirizzo di politica legislativa sono state, infatti, rivolte diverse critiche: in primo
luogo si giudicava inadeguato e non corrispondente alle esigenze di quel particolare momento
storico, in cui dalla collettività provenivano lamentele per la presenza di una delinquenza sempre
più aggressiva e, pertanto, si richiedeva allo Stato un’azione di protezione più efficiente e incisiva
contro la proliferazione di reati, anche gravi, a volta neanche denunciati dalle parti offese, convinte
dell’inesistenza di strumenti di reazione efficaci. 241
Inoltre, si affermava che l’obiettivo di equiparare “democraticamente” la tutela del pubblico
ufficiale a quella del comune cittadino, eliminando i noti asseriti privilegi, si rivelasse in realtà una
proposizione demagogica e sostanzialmente ingiusta: dall’analisi della casistica, infatti, emergeva
che i fatti di oltraggio statisticamente di assoluta prevalenza riguardavano ingiurie rivolte ad
appartenenti alla polizia giudiziaria (in primis i vigili urbani, a seguire, ex aequo, gli agenti della
Polizia di Stato ed i carabinieri), i quali non erano oggetto di contumelie nella veste di “semplici”
privati cittadini, bensì a causa ed in ragione dell'ufficio ricoperto242.
La concreta esperienza243 dimostrava, poi, che l’aggravante di cui all’articolo 61, n. 10 non si
rivelava utile al raggiungimento dello scopo, perchè non incideva sul regime di procedibilità,
lasciando al solo offeso il compito di decidere se sporgere o meno querela244. La secca abolizione
del delitto de quo costituiva fonte di palesi incongruenze perché l’esistenza, in molti casi, di norme
interne ponenti limiti alla proposizione della necessaria querela tutte le volte che l’offesa sia
arrecata a causa o nell’esercizio delle funzioni prestate245, come nel caso in cui il soggetto passivo
sia un esponente della polizia giudiziaria, finiva per dar luogo a un passaggio da una tutela
privilegiata ad una tutela inferiore a quella dell’ordinario cittadino. Pertanto si auspicava quanto
240 Locatelli G., cit., p. 630. 241 Antolisei F., cit. p. 375 e ss. 242 Locatelli G., cit., p. 630. 243 Cfr. Santoro V., Alcune considerazioni sul reato di oltraggio a pubblico ufficiale (legge 94/09), in www.ratioiuris.it, il quale rileva che non può sottacersi come sempre dalla concreta esperienza traessero origine i dubbi e le perplessità che avevano messo in moto il processo di abrogazione del reato di oltraggio, talvolta ravvisato in meri contegni di aspra contrapposizione dialettica ed al quale si addebitava di costituire una pesante ipoteca sui diritti di critica dei cittadini. 244 Con la riqualificazione a titolo d’ingiuria, inoltre, divenne altresì applicabile la exceptio veritatis di cui all’articolo 596 c. 3 n. 1 (ingiuria commessa a danno di pubblico ufficiale e per il tramite dell’attribuzione di un fatto determinato riferito all’esercizio delle sue funzioni). Antecedentemente, invece, la costante giurisprudenza della Corte di cassazione escludeva la possibilità di applicare tale causa di non punibilità al reato di oltraggio, in ragione della diversità del bene giuridico tutelato ed in assenza di espressa previsione in tal senso. 245 Conti L., cit., p. 375, esclude che il legislatore abbia voluto, nei confronti della polizia giudiziaria, passare una da tutela privilegiata ad una tutela inferiore a quella dell’ordinario cittadino.
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prima un intervento del legislatore volto quantomeno a introdurre, con riferimento all’ingiuria
aggravata ex art. 61, n. 10, c.p., la procedibilità d’ufficio246.
La mancata previsione di quest’ultima ha comportato, infatti, conseguenze sia sul piano concettuale
sia su quello fattuale correlato. Da un lato, infatti, a fronte della lesione del suo prestigio e,
potenzialmente, del suo buon andamento, la pubblica amministrazione non poteva agire in prima
persona affinché il responsabile fosse perseguito in sede penale. Dall’altro si riteneva singolare che
dovesse essere il pubblico ufficiale, agente non certo uti singoli, a darsi carico di adire l’Autorità
giudiziaria per salvaguardare il prestigio ed il buon andamento della pubblica amministrazione, in
nome e per conto della quale era stato esposto all’offesa che, solo collateralmente, aveva attinto
anche lui247. Appariva, quindi, irrazionale e ingiusto: da un lato che lo Stato-amministrazione, sulla
base della disciplina vigente dopo il 1999, abdicasse al dovere di tutela dei propri dipendenti che
subiscono ingiustizie a causa del servizio espletato; dall’altro porre a carico della persona fisica, che
ricopriva la carica pubblica, l’onere di attivarsi personalmente, mobilitando energie personali e
private, per ottenere la riparazione di offese ingiuriose subite nel corso ed a causa del servizio
istituzionale, e non in veste di privato cittadino248. Dalla prassi, inoltre, emergeva che a seguito
della soppressione dell’art. 341 c.p. ed in assenza di procedibilità d’ufficio, la propensione a
rivendicare la sanzione da parte del pubblico ufficiale del comportamento delittuoso subito,
preclusa alla pubblica amministrazione, si era notevolmente attenuata per demotivazione o, anche,
per i costi economici della querela249.
L'abrogazione si rivelava, infine, dannosa per una considerazione “di fatto”: si riteneva che gli
appartenenti alla polizia giudiziaria, privati della già richiamata previsione della procedibilità
d’ufficio per gli autori dell'oltraggio e assolutamente refrattari a ricorrere al mezzo della querela,
anche solo per i tempi richiesti dalle incombenze processuali, si sarebbero determinati a
comportamenti “alternativi” assunti di fatto e per le vie brevi per risolvere “il problema”. Si
pronosticava, altresì, che dall’eliminazione del reato di oltraggio sarebbe scaturito un incremento
delle comunicazioni di notizie di reato per resistenza a pubblico ufficiale, con conseguenze di
maggior gravità per il denunciato, passibile anche di arresto facoltativo in flagranza ai sensi dell'art.
381 c.p.p.250
246 Conti L., cit., p. 375 247 Scandone G., cit., p. 455 e ss. 248 Locatelli G., cit., p. 630. 249 Scandone G., cit., p. 455 e ss. osserva che sebbene non sia possibile disporre di un dato certo, è comunque plausibile ipotizzare che i comportamenti oltraggiosi siano notevolmente aumentati anche a seguito dello speculare decremento dei casi di avvio dell’azione penale, a discapito dell’atteggiamento di diffuso rispetto per la pubblica amministrazione tipico di una società democratica e ordinata. 250 Locatelli G., cit., p. 630.
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Sotto un profilo, invece, di carattere sistematico, diverse erano le critiche avanzate. Lo stesso
reiterarsi delle questioni di costituzionalità251, come quella respinta con l’ordinanza n. 36 del 24
gennaio 2007 della Corte Costituzionale, costituiva l’indice di una più diffusa insoddisfazione circa
le soluzioni proponibili in materia, a seguito delle lacune di previsione cagionate dalla cancellazione
del delitto de quo. Sebbene dalla predetta pronuncia non si potessero trarre elementi di rilievo in
punto di diritto, non si poteva negare che il giudice a quo si facesse portatore di un’esigenza
obiettiva: la richiesta di un intervento legislativo volto a coordinare la legge n. 205/1999 con la
disciplina dettata dall’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288/1944 e con la residua disciplina in materia del
Codice Rocco. La legge 205/1999, difatti, aveva profondamente alterato l’organica logicità del
sistema, creando indubbiamente un vuoto nell’apparato normativo del Codice Rocco. Da un lato la
reazione legittima all’atto arbitrario del pubblico ufficiale continuava a costituire una causa di non
punibilità per effetto del suo disposto, ma limitatamente ai reati ex art. 336 e 337 c.p. Dall’altro nel
caso d’ingiuria aggravata ex art. 61 n. 10 c.p., ovvero rivolta ad un pubblico ufficiale, la non
punibilità poteva discendere solo dall’applicazione dell’art. 599, comma secondo, c.p., peraltro
tratteggiata diversamente rispetto alla prima perché diversa ne era la finalità originaria252.
Si osservava, inoltre, che il legislatore, sopprimendo l’oltraggio a pubblico ufficiale, cioè la prima e
più importante norma sugli oltraggi, che costituiva un punto di riferimento per l’interpretazione
delle altre figure, non aveva eliminato i profili di contraddizione sussistenti nella materia in
esame253. Se, infatti, la ratio dell’intervento legislativo del 1999 andava individuata nell’illegittimità
o nell’inopportunità di prevedere una tutela specifica dei pubblici ufficiali rispetto ai privati, tale da
richiederne la scomparsa dall’ordinamento, le medesime valutazioni dovevano ritenersi valide
anche per le residue figure di oltraggio, la cui modesta maggiore gravità non costituisce e non
251 Ci si riferisce alla questione di legittimità costituzionale sollevata con ordinanza del 14 novembre 2005 (iscritta al n. 45 del registro delle ordinanze 2006 e pubblicata nella G.U., prima serie speciale, n. 9 del 1 marzo 2006), emessa dal Giud. pace Ferrara, dichiarata infondata dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 36 del 24 gennaio 2007. Il giudice rimettente riteneva che fosse possibile ravvisare una violazione del principio di uguaglianza, poiché la disciplina contenuta nell’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288/1944 non si applica nell’ipotesi del reato di ingiuria (ex art. 594 c.p.) aggravato (ai sensi dell’art. 61, n. 10, c.p.), il quale risulta configurabile in forza della diversa qualificazione del fatto originariamente previsto nell’abrogato art. 341 c.p. Il giudice rimettente asseriva che l’abrogazione del reato di cui all’art. 341 c.p. dovesse essere spiegata con l’applicazione in parte qua del principio di uguaglianza che, tuttavia, veniva nuovamente violato ogni qual volta il delitto di ingiuria fosse commesso contro un pubblico ufficiale, perché esso risulta così aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 10, c.p. Il giudice a quo reputava, perciò, che la questione di costituzionalità fosse fondata in riferimento all’art. 3 Cost., e rilevante nel caso di specie, perché sosteneva la sostanziale affinità del reato di oltraggio con quello d’ingiuria, aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale della persona offesa, pur nella diversità degli interessi protetti e aggiungeva che la mancanza di coordinamento tra la legge n. 205/1999 e l’art. 4 d.lgs.lgt. n. 288/1944 aveva di fatto reintrodotto, con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 594 c.p., aggravata ai sensi dell’art. 61, n. 10, c.p., una disciplina non paritaria tra il comune cittadino ed il pubblico ufficiale. 252 Scandone G., cit., p. 460. 253 Perdonò G.L., cit., p. 641.
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costituiva una spiegazione soddisfacente dell’opposta soluzione normativa254. Si reputava, infatti,
che per assicurare coerenza sistematica al sistema sarebbe stato opportuno abrogare nel loro
complesso tutte le norme sanzionatrici dei delitti di oltraggio, lasciando le punizioni delle rispettive
condotte tipiche affidate all’art. 594 c.p., ovviamente nell’ipotesi aggravata (o introducendo delle
circostanze nuove ad hoc) e prevedendone, auspicabilmente, la già citata perseguibilità d’ufficio255.
Non si comprendeva come si potesse giustificare la maggiore protezione accordata ad un corpo
amministrativo rispetto ad un comitato di cittadini o ad un giudice in udienza rispetto ad un arbitro
nominato dalle parti in analoga incombenza posto che la stessa non era più riconosciuta ad un p.u.
rispetto ad un soggetto privato, neppure nell’esercizio della propria funzione256.
L’eliminazione dell’art. 341 c.p., dunque, aveva prodotto una disparità di trattamento tra pubblici
ufficiali a seconda che facessero parte, o meno, di un corpo politico, amministrativo o giudiziario ex
art. 342 c.p.257, pur essendo l’oggetto della tutela penale delle due summenzionate norme il
medesimo: garantire il corretto e libero funzionamento delle Pubbliche Amministrazioni. La
fattispecie di cui all’art. 341 c.p. prevedeva un quid pluris, in altre parole che l’offesa fosse rivolta a
causa o nell’esercizio delle funzioni, rispetto all’oltraggio ex art. 342 c.p., il quale richiede
semplicemente che l’insulto sia proferito al cospetto del corpo.
Ai sensi dell’art. 357 c.p., poi, la qualità di pubblico ufficiale spettava (e spetta) a chi esercita una
pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria: non si spiegava perché l’oltraggio al
pubblico ufficiale, che concorreva a formare con la sua volontà quella dello Stato o di un altro ente
pubblico vale a dire esercitava poteri autoritativi o certificativi, non fosse punito con una
disposizione ad hoc, mentre quello nei confronti del magistrato, esercente una funzione giudiziaria,
fosse sanzionato espressamente dall’art. 343 c.p. Un’ulteriore disparità veniva, poi, rinvenuta nella
circostanza che, dopo l’entrata in vigore del codice di rito del 1988, accusa e difesa si confrontano
entrambe come parti innanzi al giudice, ma la stessa condotta in un caso - frasi offensive dell'onore
o del prestigio del pubblico ministero pronunciate nel corso della discussione in un’udienza penale
dal difensore dell'imputato - configura la fattispecie prevista dall'art. 343 del c.p., mentre
254 Perdonò G.L., cit., p. 641. 255 Scandone G., cit., p. 460. 256 Perdonò G.L., cit., p. 641. 257 Perdonò G.L., cit., p. 641. La soppressione dell’art. 341 c.p. ha determinato uno squilibrio sistematico ulteriore, particolarmente evidente nel caso di oltraggio corporativo, qualora l’offesa arrecata con un unico atto al Corpo e ai suoi componenti venga ritenuta tale da integrare, secondo l’orientamento prevalente, un concorso tra gli artt. 342 e 594 c.p., così evocando una difficilmente comprensibile diversità dei piani di tutela ed un inasprimento sanzionatorio ancor meno giustificabile in termini di ragionevolezza.
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nell’altro, le stesse offese, se arrecate dal pubblico ministero al difensore, sarebbe punita più
lievemente, perché realizza il reato di ingiuria (art. 594 c.p.)258.
Vero è che la norma in questione, disponendo che l’oltraggio avvenga in udienza, specifica non solo
che il magistrato deve trovarsi nell’esercizio delle sue funzioni, ma anche che queste ultime devono
essere individuate in quelle che esigono la presenza del giudice e delle parti processuali, in
contraddittorio, almeno potenziale, tra di loro, così chiarendo che la tutela approntata dalla legge
non è riferita alla figura, ma alla funzione esercitata259.
Ci si chiedeva, quindi, se fosse corretto ridurre sul piano privato una parte di tutela riservata al
pubblico ufficiale, quella relativa al prestigio, o se fossero ancora valide le considerazioni svolte in
merito dal legislatore del 1930. L’oltraggio era un reato plurioffensivo nel quale i soggetti passivi
erano identificati nello Stato-Amministrazione e nel pubblico ufficiale ingiuriato. Ciò che non si è
tenuto in debita considerazione con l’abrogazione dell’art. 341 c.p. è che nell’atto della
commissione del delitto di oltraggio era leso o messo in pericolo il normale e corretto
funzionamento della pubblica amministrazione, sicuramente anch’esso leso dall’offesa alla dignità e
al prestigio di chi concretamente la rappresentava. La tutela fornita dalla norma, perciò, trascendeva
la persona fisica titolare della funzione, per risolversi nella protezione della finalità del buon
andamento amministrativo, valore tutelato dall’art. 97 della Costituzione.
Si auspicava, dunque, un intervento normativo, perché l’espediente escogitato dalla giurisprudenza,
e cioè l’utilizzazione della previsione dell’aggravante comune di cui all’art. 61, n. 10, c.p., come già
accennato, non è risultato commisurato all’esigenza: infatti, in quanto circostanza comune, essa
rientrava nel giudizio di bilanciamento e, pertanto, poteva risultare in concreto vanificato l’intento
sanzionatorio. Oltre all’introduzione di una specifica circostanza aggravante dell’ingiuria e la
258 Si tratterebbe, difatti, di condotte identiche, tenute da soggetti che si trovano in condizioni di parità, giacché nell'udienza il pubblico ministero ed il difensore rivestirebbero la medesima qualifica di "parte" e parteciperebbero al processo penale "su basi di parità". In merito si rinvia alla sentenza della Corte Cost. del 7 ottobre 1999, n. 380, in Giur. cost. 1999, 2924, Riv. pen. 1999, 1080 (nota di: Tandura, Tonion) nella quale la Corte, dichiarando non fondata la questione di costituzionalità, ha osservato che lo strumento penale intende proteggere la dignità della funzione giurisdizionale e non è arbitrario o irragionevole avere esteso la medesima protezione anche all'attività del p.m. in udienza; ed in quanto, sotto il profilo del principio di eguaglianza, la parità delle parti, pubblica e privata, che è inerente al processo, non implica necessariamente che sia identica la qualificazione soggettiva di esse, né impone l’eguaglianza del loro stato e della loro condizione, al di là della "parità delle armi" che è propria del processo. Per alcune riflessioni critiche si rinvia a Scandone G., cit., p. 451. 259 Al riguardo, inoltre, Scandone G., cit., p. 486 rileva che l’abrogazione dell’art. 341 c.p. aveva creato un’ulteriore distonia sanata con l’introduzione dell’art. 341 bis c.p.: l’autore osserva, infatti, che a seguito dell’introduzione del nuovo c.p.p., che ha conferito maggiore spazio al ruolo svolto dall’Autorità giudiziaria anche nelle fasi antecedenti al dibattimento, appare irragionevole che il magistrato, mentre compie un interrogatorio, assiste ad una perquisizione, procede direttamente all’acquisizione di documenti (adempimento a cui deve provvedere personalmente in alcuni casi, come quelli disciplinati dall’art. 256 bis c.p.p.) proprio per la grande dignità del ruolo istituzionale assolto debba vedere l’oltraggio arrecatogli e, per suo tramite, all’ufficio che rappresenta, trattato come una ingiuria. La previsione di una pena edittale identica nell’ipotesi base degli artt. 343 e 341 bis c.p. indubbiamente risolve la contraddizione che derivava da un diverso trattamento tra l’oltraggio a magistrato in udienza e quello fuori udienza, entrambi sussumibili nell’ambito di applicazione dell’art. 357 c.p.
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perseguibilità d’ufficio260, si proponevano altre distinte soluzioni. Una di queste consisteva nella
previsione, tra i delitti contro l’onore, di una distinta ed autonoma fattispecie d’ingiuria qualificata
dalla funzione di pubblico ufficiale svolta dal soggetto passivo, offeso a causa e nell’esercizio delle
sue funzioni261; in tal modo l’art. 4 del d. lgs. lgt. n. 288/1944 sarebbe stato non applicabile, mentre
residuava l’applicazione della provocazione ex art. 599, c. 2, c.p.
Poiché, però, l’applicazione dell’ingiuria aggravata forniva al pubblico ufficiale, sotto altro aspetto,
proprio quella tutela differenziata speciale, che aveva prodotto le note censure di costituzionalità in
riferimento all’art. 341 c.p., omettendo di tutelare, invece, il buon andamento amministrativo, si
proponeva, per giungere a un più giusto contemperamento tra tutela della funzione pubblica e pari
dignità del privato, di riformulare la fattispecie di oltraggio, specificando che l’offesa deve avvenire
a causa e nell’esercizio delle funzioni assegnate d’ufficio al pubblico ufficiale, prevedendo, altresì,
una pena analoga a quella dell’ingiuria aggravata. Alla fine è stata quest’ultima l’opzione prescelta
nel testo della nuova formulazione, ove si specifica che l’offesa all’onore e al prestigio del pubblico
ufficiale deve avvenire «mentre» questi «compie un atto di ufficio» e dunque «a causa o
nell’esercizio delle sue funzioni».
IL DIBATTITO SUGLI EFFETTI DELL’ABROGAZIONE E L’INTERVENTO DELLE S.U. DELLA CASSAZIONE 29023/2001
All’indomani dell'entrata in vigore della legge 25 giugno 1999, n. 205 giurisprudenza e dottrina non
erano concordi sul significato normativo dell’eliminazione dell’art. 341 c.p.262 e, anche al loro
interno, si sono registrati orientamenti contrapposti in ordine agli effetti263 che l’espunzione della
260 Scandone G., cit., p. 455 e ss. 261 L’inserimento della fattispecie dell’ingiuria qualificata dalla funzione di pubblico ufficiale svolta dal soggetto passivo è stata proposta dalla Commissione Nordio. Per un commento al progetto di riforma si veda Pagliaro A., Il reato nel progetto della commissione Nordio, in Cass. pen., 2005, I, 4; F. Ramacci, La riforma del codice penale, in Dir. Pen. Proc., 2006, 6, pag. 665. 262 Per le ulteriori questioni di natura processuale affrontate dalla giurisprudenza di legittimità si rinvia in giurisprudenza a Cass. Pen., 19 aprile 2002, n. 17038, in Riv. Pen., 2003, p. 167 e a Cass. Pen., 15 dicembre 1999, in Cass. Pen., 2000, p. 3342, e, per un commento in dottrina a: Perdonò G.L., cit., p. 650. 263 Sugli effetti dell’abrogazione del reato di oltraggio si rinvia a: Albano, La controversa abrogazione dell'oltraggio, in Questione giustizia, 1999, n. 6, p. 1187; Bisori L., cit., p. 3029; Carcano D., Abrogazione del delitto di oltraggio: una lenta e dolorosa agonia dovuta al divieto di eutanasia giuridica, in Cass. Pen., 2000, p. 1600; Geraci R.M., Nota sulle conseguenze dell'abrogazione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, in Giur. It., 2001, p. 5; G. Giammona, Questioni di diritto transitorio in seguito all'abrogazione del delitto di oltraggio, nota a Corte Cass., I, 11 aprile 2000, Speranza in Foro it., 2000, II, c. 293 ss.; Giunta F., Abrogazione dell'oltraggio e procedibilita' dei giudizi pendenti, in Dir. Pen. e Processo, 1999, 11, p. 1423; Lazzari C., L'abrogazione del reato di oltraggio: la parola delle Sezioni unite, in Cass. pen. 2002, 2, p. 487; Locatelli G., cit., p. 630; Mannucci M., Nota a trib. Livorno 7 luglio 1999, in Cass. pen., 1999, p. 3274; Nitti R., L'offesa dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale commessa prima dell'entrata in vigore della l. 25 giugno 1999, n. 205, in Giur. Merito, 2000, 1, p. 94; Scandone, cit., p. 458; Spagnolo P., Le sentenze di condanna per oltraggio fra abolitio criminis e successione di leggi nel tempo, in Giur. It., 2000, p. 10; Sturiale P., L'abolizione del reato di oltraggio e le sue conseguenze nelle fasi del giudizio e della esecuzione, in Giur. Merito, 2000, p. 453.
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predetta norma dal sistema aveva avuto sulle condotte oltraggiose poste in essere anteriormente
all’entrata in vigore della legge de qua.
La mancanza di un’univocità di vedute era dovuta anche alla circostanza che l’esame dei lavori
preparatori della legge n. 205/1999 non consentiva di desumere agevolmente la ratio del comma 1
dell'art. 18: la previsione dell’abrogazione, infatti, non figurava nell’impianto originario del disegno
di legge presentato alla Camera dei deputati, ma fu inserita solo nel corso dello svolgimento dei
lavori dell’assemblea attraverso il parere favorevole del relatore ad un emendamento presentato da
un gruppo dell’opposizione264 e, dunque, in modo estemporaneo e alquanto immotivato265.
In primo luogo, l’art. 18 della legge n. 205/00 poneva il problema della rilevanza penale delle
condotte di «offese del prestigio e dell'onore del pubblico ufficiale in sua presenza ed a causa o
nell'esercizio delle sue funzioni» e del loro regime giuridico a seguito dell’abrogazione, ciò
indipendentemente dalla pendenza di un procedimento o di un processo, ovvero dall’avvenuta
definizione dello stesso con sentenza di condanna passata in giudicato.
Ad esso si ricollegava quello teorico su quali fossero gli effetti della intervenuta soppressione del
reato di oltraggio sui processi in corso e, con immediata rilevanza pratica, sulla sorte delle sentenze
di condanna per il delitto de quo passate in giudicato in data antecedente all’entrata in vigore della
legge n 205 del 1999. In particolare, nell’ipotesi in cui si ritenesse che le condotte d’oltraggio
comunque integrassero gli estremi di altro reato, ma procedibile a querela, ci si chiedeva, in
riferimento ai fatti oggetto di procedimento-processo pendente, se potesse applicarsi la disposizione
contenuta nell’art. 19 della legge n. 205/00 in relazione anche ai fatti di offesa del prestigio e
dell'onore del p.u. per i quali non fosse stata presentata prima querela.
La problematica del regime giuridico di un fatto, già previsto da una norma come reato dopo
l’eliminazione della stessa, deve essere ricondotta al tema dell’efficacia nel tempo della legge
penale, i cui parametri normativi di rilievo sono quelli indicati dall’art. 2 c.p. e segnatamente quelli
264 Si tratta dell'emendamento n. 15, comma 11 (e dell'identico emendamento n. 15, comma 8) presentato da alcuni deputati del gruppo della Lega Nord (assieme ad altri 30 emendamenti circa al solo art. 15), diretto ad inserire l'art. 341 nel novero degli articoli del c.p. da abrogarsi. Nel corso della seduta dell'assemblea n. 218 del 25 giugno 1997, il relatore on. Carotti espresse laconicamente il parere favorevole della Commissione senza procedere ad alcuna discussione in merito a detti emendamenti, che furono approvati a larga maggioranza. Non è possibile rinvenire le specifiche motivazioni politico-criminali in tema di abrogazione dell'oltraggio neppure nelle relazioni alle varie versioni del provvedimento. Qualche vago accenno al tema si rinviene solo nella discussione in aula, alla Camera dei deputati, in sede di seconda lettura, a seguito delle modifiche apportate dal Senato della Repubblica, nella seduta n. 550 del 16 giugno 1999, sebbene da parte solamente dei presentatori di taluni emendamenti poi respinti. 265 Madeo A., I delitti di oltraggio, in I delitti contro la Pubblica amministrazione, a cura di F. S. Fortuna, Milano, Giuffrè, 2010, p. 220, il quale osserva che la carenza dei lavori preparatori era peraltro emersa anche dal fatto che, successivamente all’introduzione della disposizione che disponeva la soppressione del delitto de quo, il Senato dovette correggere il provvedimento, riducendo le pene previste per i “sopravvissuti” artt. 342 e 343 c.p., la cui permanenza nel sistema non trovava a quel punto ulteriori valide giustificazioni: l’eliminazione della fattispecie generale (l’art. 341 c.p.) rispetto alle altre comportava, infatti, diversi problemi interpretativi ed applicativi.
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di cui ai commi 2 e 4 (all’epoca 3)266. La vicenda, dunque, s’inseriva nel più ampio dibattito
relativo alla distinzione tra il fenomeno abrogativo e quello meramente modificativo e alla
conseguente individuazione della regola applicabile tra le varie previste dall'art. 2 c.p., che
costituiva, e costituisce, un problema dogmatico di sempre maggiore rilievo pratico. Le diverse
posizioni emerse in materia di rapporti intertemporali fra oltraggio a p.u. ed ingiuria aggravata
risentirono, pertanto, anche delle opzioni teoriche concernenti i criteri utilizzabili ai fini della
distinzione tra fenomeno di abolizione e di continuità normativa. Si osservava che spesso, infatti, la
soppressione di una fattispecie incriminatrice non comporta necessariamente l’effettiva perdita di
rilevanza penale del fatto da questa previsto.
In dottrina ed in giurisprudenza emersero due orientamenti diversi. Secondo l’interpretazione “del
giorno dopo”267 la vicenda abrogativa disposta dall’art. 18 della legge n. 205 del 1999 non aveva
reso penalmente neutro il proferimento di ingiurie e contumelie qualora il destinatario delle
medesime fosse un pubblico ufficiale, ma aveva semplicemente mirato a ricondurre il trattamento
sanzionatorio della predetta condotta, che rimaneva penalmente vietata in quanto il suo disvalore
continuava a permanere, entro la cornice dei comuni reati di ingiuria o di minaccia ai sensi degli
artt. 594 e 612268 c.p., (aggravati ex art. 61 n. 10 c.p. in ragione della particolare qualificazione
giuridica della parte offesa).
266 Al riguardo Nitti R., cit., p. 94 correttamente osserva che il problema non può essere oggetto della disposizione di cui all’art. 25, comma 2, Cost., essendo un orientamento ormai consolidato anche della giurisprudenza della Corte costituzionale che detta disposizione costituzionale afferma il principio di irretroattività della norma incriminatrice, ma non quello della retroattività della norma abrogatrice: cfr. in tal senso Corte Cost. 6 giugno 1974, n. 164. 267 In questo senso Di Giovine O., cit. p. 1407 268 Secondo questo primo orientamento (Di Giovine O., cit. p. 1407; Geraci R.M., cit., p. 5; Sturiale P., cit., p. 453) i fatti di oltraggio commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 205 del 1999 potevano essere qualificati dal giudice ex art. 521 c.p.p. come ingiurie o minacce aggravate ai sensi dell’art. 61, n. 10, c. p., sempre che, ovviamente, non fosse già intervenuta sentenza di condanna divenuta irrevocabile, considerata la preclusione stabilita in proposito dall’ultima parte dell’art. 2, 3° comma, c.p. Secondo Sturiale P., cit., p. 453, infatti, “quando tale reato consisteva nell'offesa all'onore del pubblico ufficiale ovvero nella minaccia al pubblico ufficiale si trattava di fattispecie plurioffensiva con assorbimento dei reati di ingiuria e di minaccia in quello più grave di oltraggio: trattasi della figura del reato complesso disciplinato dall'art. 84 c.p. (nel senso di escludere il concorso formale tra reati) nonché dall'art. 131 c.p. (che dispone doversi procedere d'ufficio se per taluno dei reati che ne sono elementi costitutivi si deve procedere d'ufficio) nonché infine regolato dall'art. 170 comma 2 c.p. (il quale dispone che l'estinzione di uno dei reati costitutivi del reato complesso non si estende a questo)”. In merito alla prospettazione della possibile sussunzione dell’ipotesi aggravata di oltraggio mediante minaccia nella fattispecie generale di cui all'art. 612 c.p. Giunta F., cit., p. 1426 osserva che quanto al rilievo che l'oltraggio poteva essere commesso anche da una condotta minatoria potevano profilarsi due ipotesi: “o la minaccia possedeva le caratteristiche descritte dall'art. 612 c.p., con la conseguente verificazione di un concorso formale di reati; o la minaccia non era tipica ai sensi dello stesso art. 612 (perché ad esempio difettava di credibilità), nel qual caso essa costituiva una mera modalità fattuale della condotta oltraggiosa, come tale offensiva anche dell'onore individuale”. In entrambi i casi la soppressione dell’oltraggio ha determinato la diversa qualificazione del fatto come ingiuria aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p., sicché, sul piano del diritto penale sostanziale, i fatti commessi sotto la vigenza degli artt. 341 e 344 c.p. andavano assoggettati al trattamento sanzionatorio previsto dall'art. 594 c.p., in quanto norma più favorevole al reo. Giova ricordare, infine, che secondo alcuni l’ipotesi in cui l'offesa fosse stata commessa mediante violenza poteva essere ricondotta all’art. 581 c.p.: in tal senso cfr. Cass., Sez. I, 11 aprile 2000, Speranza, in Foro It., 2000, II, 593; nella giurisprudenza di merito Trib. Milano, ufficio G.i.p., ord. 19 novembre 1999, in Foro Ambrosiano, 2000, p. 21, 6; Id. Rovigo, ord. 29 settembre 1999, in Guida al Dir., 1999, p. 93; Id. Massa Carrara, ord. 22 settembre 1999, in Riv. Pen., 1999, p. 1001; App. Genova, Sez.
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La dottrina, infatti, asseriva che “l'abrogazione dell'oltraggio costituisce un classico e pacifico
esempio di successione di leggi penali269 tanto da potersi considerare un caso di scuola, .... nessun
dubbio, dunque che l'abrogazione dell'oltraggio comporti la riespansione della fattispecie generale
di ingiuria, secondo lo schema dell'abrogatio sine abolizione”270 con conseguente applicazione
dell'art. 2 comma 4, del codice penale.
Si osservava che l’orientamento opposto, secondo il quale si era verificata un’ipotesi di abolitio, in
realtà assimilava erroneamente tra di loro due situazioni distinte, quali l’abrogazione di una
specifica previsione incriminatrice e la generale insussumibilità di un fatto in alcuna fattispecie271. Il
comma 2 dell'art. 2 c.p. richiede, infatti, che per effetto di una legge posteriore «il fatto non
costituisca reato» e, cioè, che il fatto non integri più gli estremi di alcun reato. Affinchè ciò si
verifichi, però, non è sufficiente che sia eliminata la disposizione che considera quel determinato
fatto come reato272. Si ha abolitio criminis, infatti, solo quando il fatto oggetto dell’originaria
incriminazione abrogata abbia perso totalmente il suo significato di disvalore, divenendo
pienamente lecito. In caso contrario, ovvero quando il fatto non è divenuto penalmente irrilevante,
ma soltanto soggetto ad un diverso inquadramento giuridico nell’ambito del sistema penale, si ha
una successione nel tempo di norme incriminatrici273. Era, perciò, necessario verificare
preliminarmente se l’offesa del prestigio e dell'onore del p.u. in presenza di lui e a causa o
nell'esercizio delle sue funzioni non fosse prevista quale reato da altra disposizione applicabile a
seguito della soppressione dell’art. 341 c.p.
fer., 13 agosto 1999, E.L., in Questione giustizia, 1999, p. 1190; Cassazione penale, sez. VI, 24 settembre 1999, n. 12277, L., in Ced Cassazione 1999 269 In generale, sul fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo: cfr. Del Corso, voce «Successione di leggi penali», in Digesto Pen., XIV, Utet, Torino, 1999, 92; Severino, Successione di leggi penali nel tempo, in Enc. giur. treccani, XXX, Roma, 1993, p.1 e ss. In particolare sul criterio del raffronto strutturale e sistematico tra le fattispecie astratte, Padovani, Tipicità e successione di leggi penali, la modificazione legislativa degli elementi della fattispecie incriminatrice o della sua sfera di applicazione, nell'àmbito dell'art. 2 comma 2 e 3 c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 1982, p. 1354 ss.; Picotti, L'efficacia della legge penale nel tempo, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale. Parte generale,1 996; Maglio e Giannelli, La successione delle leggi penali, in Riv. pen., 1999, n. 2, 129 ss. 270 In questi senso Giunta F., cit., p. 1424. 271 In questo sensno Nitti R., cit., p. 94 272 Cfr. Bisori L., cit., p. 3029 secondo il quale l'abrogazione c.d. secca di una fattispecie può esprimere sia la volontà di far rifluire la disciplina della classe speciale nell'alveo della perdurante disposizione generale, essendo venute meno le pregresse ragioni di un trattamento differenziato; sia la diversa volontà di «specializzarne ulteriormente» la disciplina, sino ad espungere dall'area della rilevanza penale l'intera categoria di ipotesi che in precedenza facevano capo alla disposizione abrogata . Mentre il primo fenomeno non può che costituire la regola, ricorre eccezionalmente l'altro caso solo quando emerga «una precisa ed univoca volontà legislativa di conferire ai fatti in questione il carattere della piena liceità». Nello stesso senso Nitti R., cit., p. 94., secondo il quale «... dal solo dato dell'abrogazione non può dedursi che tutte le condotte precedentemente realizzate e rientranti in quella disposizione sono divenute non punibili, ma occorre stabilire, ai sensi dell'art. 2 c.p., se la condotta oggetto del giudizio continui a costituire reato anche per la legge posteriore; solo in caso negativo, infatti, essa deve essere ritenuta non punibile, ai sensi del comma 2 dell'art. 2 c.p., mentre in caso positivo deve trovare applicazione il comma 3 dello stesso articolo ...» (Cass., sez. V, 17 giugno 1992, n. 6997; conf. Cass., sez. V, 15 maggio 1992, Trossarello; Cass., sez. VI, 8 aprile 1994, De Angelis). 273 Geraci R.M., cit., p. 5.
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Pertanto i sostenitori della tesi dell’abrogatio sine abolitione sostenevano che la ratio legis della
norma abrogante non era tesa a depenalizzare tout court la condotta, bensì ad evidenziare la
tutelabilità in primis dell’interesse privato del p.u. con una pena più mite ex art. 594 del codice
penale, e solo in secundis l’interesse pubblico mediante l’applicabilità dell’aggravante ex art.61,
n.10 del codice penale.
L’indirizzo sopraesposto sembrava, inoltre, aver trovato una composizione274 tra l’orientamento
dottrinale che individuava il criterio discretivo da utilizzare per l’applicazione del comma 4 rispetto
al comma 2 dell'art. 2 c.p. nel rapporto di specialità (la si individui in astratto ovvero in concreto275)
e quello che si riferiva, invece, a quello della c.d. "continuità del tipo di illecito"276. Veniva
evidenziato, infatti, che non solo le modalità di aggressione delle fattispecie di oltraggio e di
274 In questo senso Di Giovine O., cit. p. 1407. 275 Nitti R., cit., p. 94 il quale ha evidenziato che si è, tuttavia, obiettato che il rapporto di specialità tra le due disposizioni deve essere valutato in concreto potendosi riscontrare ipotesi in cui, pur essendo integrati gli estremi dell'oltraggio, non ricorrano tuttavia quelli dell'ingiuria. Secondo la corte di assise di appello di Genova, ordinanza 28 settembre l3 ottobre 1999: «Ci sarà forse anche il caso ... in cui l'oltraggio, in concreto, è così connesso con la veste di pubblico ufficiale da non avere un intrinseco valore ingiurioso, per l'individuo. È cioè possibile che eliminato l'oltraggio (e sempre che non vi sia violenza o minaccia), la condotta posta in essere dall'agente non possa essere sussunta sotto nessun'altra figura di reato [...]. L'art. 2 c.p., norme cardine della materia di cui ci stiamo occupando, usa al 1° ed al 2° comma la parola "fatto"; e anche al 3° comma quando parla di "reato", si riferisce, palesemente, non alla figura astratta (oltraggio a p.u.) e all'articolo (341 c.p.), ma sempre al fatto, tanto che usa l'espressione "tempo in cui fu commesso il reato». Premesso che la prospettazione di una "specialità in concreto" comunque non ha precluso a chi ha sostenuto in astratto di pervenire alla medesima conclusione circa la sussistenza di una successione di leggi penali nel tempo, va evidenziato che in ogni caso detta prospettazione non è condivisibile. Indipendentemente dalla sostenibilità della tesi della specialità in concreto, ritenere, infatti, che possano concretamente ravvisarsi fatti di oltraggio che non integrano gli estremi della ingiuria significa affermare che, in astratto, non vi è un rapporto di specialità unilaterale tra le due fattispecie, un rapporto cioè, "a cerchi concentrici", ma che, in sostanza, parte, sia pur minimale, del "cerchio interno" costituito dall'oltraggio non rientra nel "cerchio esterno" costituito dall'ingiuria, così configurandosi una ipotesi di c.d. specialità bilaterale, che certamente non costituisce una forma di specialità in senso stretto (Cfr. in tal senso anche Fiandaca e Musco, cit., 507), con conseguente concorso apparente soltanto nei casi di «sovrapposizione». Tale impostazione è fatta propria dal tribunale di Foggia, sezione distaccata di San Severo, che appunto afferma la «parziale sovrapponibilità delle norme: l'una (come detto plurioffensiva) che punisce "chiunque offende l'onore e il prestigio di un pubblico ufficiale in presenza di lui ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni" e l'altra (monoffensiva) che punisce "chiunque offenda l'onore ed il decoro di una persona presente": comune denominatore è testualmente proprio l'offesa all'onore della persona presente"», concludendo peraltro per la persistente illiceità penale della sola offesa dell'onore. Sicché in sostanza si afferma che sia l'una che l'altra disposizione presentano elementi specializzanti rispetto all'altra o, meglio, al nucleo comune delle stesse. Va invece evidenziato che, sia che correttamente si faccia riferimento soltanto alla identità del fatto, sia che si consideri l'omogeneità del bene protetto (come detto il prestigio altro non è che una particolare forma di decoro determinata dalla posizione della vittima attinente al rispetto dovuto verso chi esercita una pubblica funzione: così, ex plurimis, Cass, sez. VI, 15 febbraio 1985, Ortisi, nonché la citata ordinanza della corte di appello di Genova), il rapporto tra le due norme è comunque di specialità unilaterale. Non sono configurabili pertanto fatti di oltraggio che non costituiscano anche ingiuria. 276 In tal senso si veda, Cass., Sez. I, 11 aprile 2000, n. 2743, Hattab, in Cass. pen. 2000, 3025 (con nota di Bisori); Cass., Sez. I, 11 aprile 2000, n. 2744, Guerrieri, Ced Cassazione n. 216039; Cass., Sez. I, 11 aprile 2000, n. 2748, Speranza, in Foro It., 2000, II, 593 (nota di Giammona) Arch. nuova proc. pen. 2000, 402, Giur. it. 2000, 1895 (nota di Spagnolo); Cassazione penale, sez. I, 26 aprile 2000, n. n. 3137, Saoud, Ced Cassazione n. 216096. La successione si ha allorché nel passaggio dalla vecchia alla nuova norma permane la «continuità del tipo di illecito»: si utilizzano in proposito come parametri di valutazione sia l'interesse protetto, sia le modalità di aggressione al bene, onde si verificherebbe la successione quando, nonostante la novazione legislativa, permangono identici gli elementi predetti. Nel rapporto, invece, di «piena continenza» tra la nuova e la vecchia fattispecie occorre un rapporto strutturale tra le fattispecie astrattamente considerate, tale per cui possa tra le stesse instaurarsi una relazione di genere a specie. Ciò sicuramente si verifica quando la fattispecie successiva sia pienamente contenuta nella precedente: il che tipicamente avviene quando la norma posteriore sia «speciale» rispetto a una precedente di contenuto più generico.
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ingiuria apparivano praticamente identiche, ma che era possibile rinvenire una parziale coincidenza
anche in rapporto al bene giuridico, dal momento che il delitto di oltraggio è sempre stato
annoverato tra i delitti plurioffensivi. In tale prospettiva, si evidenziava il dato che la giurisprudenza
non avesse mai affermato il concorso formale di reati277.
In particolare, secondo l'opinione prevalente, era necessario verificare se tra le predette fattispecie
fosse ravvisabile un rapporto di specialità278. Dal raffronto degli elementi strutturali, infatti,
emergeva che l'oltraggio conteneva tutti gli elementi dell'ingiuria: l'offesa all'onore o al decoro (il
prestigio, infatti, rappresenta una particolare forma di decoro determinata dalla posizione della
vittima, attinente al rispetto dovuto verso chi esercita una pubblica funzione), la presenza e
percezione dell'offesa da parte della vittima nonché due elementi specializzanti, quali la qualifica
del soggetto passivo e la circostanza che la condotta sia posta in essere a causa o nell'esercizio delle
funzioni del soggetto passivo.
Inoltre, sebbene le due fattispecie si differenziassero in considerazione dell’eterogeneità dei beni
giuridici tutelati, si evidenziava altresì che tra gli stessi era comunque ravvisabile un rapporto di
continenza e di omogeneità279. Nel tutelare un bene indubbiamente superindividuale - sia esso il
prestigio o il buon andamento della Pubblica amministrazione - il delitto di oltraggio non
prescindeva dalla tutela di un bene personale, qual’è l’onore della singola persona che riveste la
qualifica di pubblico ufficiale e di pubblico impiegato, ma la inglobava in una ratio preventiva più
277 Tra le affini figure criminose dell'oltraggio e dell'ingiuria aggravata ex art. 61 n. 10 c.p., lungi dall'essersi mai ravvisato il concorso formale di reati, cioè la reciproca e coesistente applicazione di entrambe le fattispecie criminose, si configura piuttosto la classica ipotesi del concorso apparente di norme regolato dal principio di specialità, per il quale la condotta ingiuriosa, se tenuta nei confronti di un soggetto che riveste la qualità di pubblico ufficiale o pubblico impiegato che presta un pubblico servizio, resta comunque assorbita nella più grave e speciale ipotesi criminosa dell'oltraggio. 278 Ritengono sussistente il rapporto di specialità la giurisprudenza e la dottrina prevalenti (Giunta, cit., 1423; Mantovani, cit., p. 487, nota 88 il quale, dopo aver indicato che «le due fattispecie si presentano come "cerchi concentrici" » (poiché l'oltraggio presenta tutti gli elementi della ingiuria ed inoltre il quid pluris della qualifica di pubblico ufficiale nell'offeso), evidenzia, in nota, che si tratta di rapporto di specialità (unilaterale) «per coincidenza tra fattispecie e sottofattispecie (o per specificazione)», «in quanto il quid pluris costituisce una species di un corrispondente elemento generico della fattispecie generale, quale, ad es., la qualifica di "pubblico ufficiale" rispetto al genus "persona" nell'ingiuria»; Zagrebelsky, Il concorso apparente di norme ed il reato complesso, in Giur. sist. dir. pen., Torino, 220.). In giurisprudenza si rinvia a: Cass. pen. Sez. I, 11 aprile 2000, n. 2743; App. Genova, sez. pen. feriale, ord., 13 agosto 1999; secondo le quale sussiste un’ipotesi di successione di leggi in base ai rapporti strutturali tra le fattispecie. In giurisprudenza Cass., Sez. VI, 19 gennaio 1993, Pizziconi, in Cass. Pen., 1994, 2081, 1289. tra le pronunzie di merito successive alla l. n. 205, cit., cfr. Trib. Rovigo, ord., 29 settembre-4 ottobre 1999, in Guida al diritto, 30 ottobre 1999, n. 42. Conformemente al rapporto di specialità tra le due norme in esame, si vedano, altresì, Sez. II, 7 marzo 1997, Bonaiuto, in C.E.D. Cass., n. 207315; Sez. V, 21 ottobre 1981, Bole, ivi, n. 151634; Sez. V, 9 marzo 1981, Fontana, ivi, n. 148693. Contra cfr. Trib. Arezzo, ord., 29 luglio 1999, in www.penale.it che ipotizza un concorso formale di reati e Trib. Bari., ord., 18 agosto 1999, cit.) e Corte costituzionale n. 134 del 1983 che nega l'esistenza di un rapporto di specialità tra la fattispecie di cui all'art. 341 c.p. e quella di cui all'art. 594 c.p., perché poiché con essi «si è inteso tutelare beni giuridici ben diversi, l'oltraggio non costituisce un'ingiuria aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale della parte offesa» (in questo senso vedi anche C. cost. n. 22 del 1966; n. 109 del 1968; n. 51 del 1980 e ord. 20 del 1983); 279 Nitti R., cit., p. 94.
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ampia, che si colorava di connotazioni pubblicistiche280. Il comportamento oltraggioso, infatti, pur
riflettendosi in via mediata sull’andamento della Pubblica amministrazione, colpisce
immediatamente l'agente che la rappresenta, in officio o propter officium, per la necessità degli
elementi costitutivi della presenza dello stesso e del nesso causale tra offesa e funzioni.281.
Pertanto secondo la giurisprudenza prevalente all’espunzione dell’art. 341 c.p. dal sistema penale
non avrebbe fatto seguito una abolitio criminis, bensì una abrogatio sine abolitione, in quanto la
soppressione di una fattispecie speciale, l’oltraggio, comporta necessariamente la riespansione di
quella generale, l’ingiuria282. La norma generale, una volta eliminata la deroga incriminatrice
preesistente, vede ampliata e dilatata la propria sfera di applicabilità, e l’intera classe di oggetti
sussumibile nella fattispecie speciale rifluisce in quella generale automaticamente283: il medesimo
fatto storico originariamente sussumibile nella fattispecie astratta dell’oltraggio a pubblico ufficiale,
non sarebbe un fatto genericamente non più punibile, e, quindi, penalmente lecito, bensì un fatto di
reato che ricade nell’ambito applicativo di diversa fattispecie, ovvero ex artt. 594, con l’intervento
qualificante ex art. 61, n.10, del codice penale.
Diversamente opinando si dovrebbe concludere che la disposizione abrogatrice ha reso penalmente
irrilevante l’«offesa all'onore o al prestigio» di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un
pubblico servizio anche qualora, e capita nella quasi totalità dei casi, la medesima condotta sia tale
da integrare «offesa all'onore o al decoro» di una qualsiasi persona così da rendere ipotizzabile il
reato di ingiurie solo qualora la parte lesa non rivesta speciali qualifiche, ovvero non sia stata offesa
nell'esercizio o a causa delle sue funzioni284.
280 Giunta F., cit., p. 1426 281 Pertanto sono soggetti passivi tanto la Pubblica amministrazione quanto il pubblico ufficiale, la cui dignità o prestigio siano stati personalmente aggrediti, e che perciò è legittimato a costituirsi parte civile nel relativo processo penale. Spagnolo P., cit., p. 10, la quale osserva che a conferma che comunque è tutelata anche la persona offesa del reato cosí come nell’ingiuria, basti pensare alla possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale o alla necessità che il decreto di citazione a giudizio sia notificato anche al pubblico ufficiale quale persona offesa. 282 Padovani, Tipicità e successione di leggi penali, cit., 1367: il rapporto di specialità assicurerebbe l'individuazione di una abrogatio criminis o del diverso fenomeno di abrogatio sine abolitio, anche quando l'eliminazione di una fattispecie incriminatrice speciale non sia seguita dall'introduzione di una nuova incriminazione. In questa ipotesi, sebbene dovrebbe, di regola, essersi in presenza di un’abrogatio criminis, il fenomeno potrebbe invece assumere il diverso significato di successione di legge, e cioè di abrogatio sine abolitione, qualora la norma abrogata configuri una fattispecie speciale rispetto ad altra fattispecie generale «che vede ampliata e dilatata la propria sfera di applicabilità». Quest'ultima è la situazione che si assume essersi verificata a seguito dell’eliminazione del delitto di oltraggio, da considerare fattispecie speciale rispetto al delitto di ingiuria e come tale da ricondurre tout court nell’ambito del fenomeno di successione di leggi regolato dall'art. 2 comma 3 c.p. Nello stesso senso Carcano D., Abrogazione del delitto di oltraggio: una lenta e dolorosa agonia dovuta al divieto di eutanasia giuridica, in Cass. Pen., 2000, p. 1600; Giunta F., cit., p. 1426; Spagnolo P., cit., p. 10 283 Padovani, Tipicità e successione di leggi penali, cit., 1367. 284 Mannucci M., Nota a trib. Livorno 7 luglio 1999, in Cass. pen., 1999, p. 3274. L’accoglimento della teoria che sostiene una diversa ratio legis comporterebbe, infatti, delle conseguenze inaccettabili Bisori, secondo il quale non vi sono indici normativi che - nell'àmbito della riforma in esame - depongano nel senso di una volontà del legislatore di conferire ai fatti di oltraggio il carattere di piena liceità. “Né si potrebbe diversamente argomentare muovendo dalla logica essenzialmente - se non esclusivamente - deflattiva che ispira quel provvedimento, posto che nell'àmbito della medesima riforma, e specificamente in quella prospettiva deflattiva, il legislatore ha ritenuto di non poter abrogare tout
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In conclusione, se è vero, pertanto, che la condotta di offesa del prestigio e dell'onore del p.u. in sua
presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni costituisce ancora reato, l’eliminazione
dell'oltraggio non ha determinato alcuna depenalizzazione (non vi è stata trasformazione in illecito
amministrativo) di quella condotta essendovi, di contro, una successione di leggi penali nel tempo,
successione con modifica in melius del trattamento sanzionatorio285, in quanto ex comma 4 dell'art.
2 c.p., si deve ritenere applicabile quello previsto dall’art. 594 c.p., salvo che sia intervenuto il
passagio in giudicato della sentenza.
Qualora, invece, detta condotta sia stata già oggetto di una sentenza di condanna irrevocabile,
perché passata in giudicato, non sarebbero dovuti cessare l'esecuzione e gli effetti penali, come
invece sarebbe avvenuto qualora si fosse applicato il comma 2, perché la condotta è sempre
suscettibile di integrare un reato ed il giudice doveva provvedere al rigetto dell’eventuale istanza di
revoca avanzata da un soggetto condannato - con pronuncia oramai passata in giudicato - in base
alla previsione incriminatrice abrogata286.
Ne discende che nei giudizi non ancora definiti l’epilogo non dovrebbe essere «il fatto non è non
più previsto dalla legge come reato» bensì «non doversi procedere per mancanza di querela»
ovvero, secondo alcuni, la restituzione in termini, ex art. 19 l. n. 205 del 1999, per la presentazione
della querela. Se la querela era stata a suo tempo presentata dal pubblico ufficiale287, l’epilogo
court, ma anzi di dover trasformare in illecito amministrativo il ben meno significativo delitto di «offesa all'Autorità mediante danneggiamento di affissioni» (art. 345 c.p.; cfr. art. 7 comma 1 lett. c), l. n. 205/99, ed art. 38 d.lg. 507/99). In secondo luogo, perché le conseguenze pratiche di una simile soluzione sarebbero francamente paradossali: pur continuandosi a punire ex art. 594 c.p. chi abbia offeso il privato cittadino, si manderebbe del tutto esente da pena chi abbia invece offeso il p.u. a causa o nell'esercizio delle di lui funzioni, anche in assenza di ragioni scriminanti che pure sono oggi legislativamente previste in termini persino più ampi che non per l'ingiuria a privato (si pensi alla exceptio veritatis di cui all'art. 596 per il caso di attribuzione di fatto determinato). Con licenza di offendere tout court, anche per le più private ragioni, chi abbia la ventura di esercitare per professione un munus publicum, sol che si abbia l'accortezza di farlo mentre quegli si trova in servizio ... In terzo luogo, perché non essendo stata prevista, nell'originario sistema di incriminazioni del codice Rocco, una equivalente ipotesi speciale di diffamazione del p.u. (47) , si determinerebbe una irragionevole disparità nella tutela dell'onore di questi, equiparata a quella apprestata in favore del privato - per ragioni, a questo punto, quanto meno misteriose - ai soli e limitati fini dell'art. 595 c.p. In quarto luogo, perché un intendimento di riconduzione di una porzione di fatti già sottoposti ad una speciale disciplina penale all'area della completa liceità, è più agevolmente presumibile nei casi di eliminazione di norme che già nel previgente assetto riconoscevano a quella classe di ipotesi un trattamento di maggior favore rispetto alla disposizione generale. Il passaggio dalla illiceità alla liceità, insomma, è più verosimile quando già in precedenza la disposizione speciale esprimesse un giudizio di minore disvalore rispetto alla classe di fattispecie di pertinenza della norma generale. Al contrario, quando - come nel caso dell'abrogazione dell'art. 341 c.p. - la novella legislativa intervenga a carico di una disposizione incriminatrice speciale più grave di quella generale di riferimento, la soluzione della radicale depenalizzazione della fattispecie speciale necessiterebbe di argomenti ermeneutici particolarmente solidi, implicando non solo il venir meno delle ragioni di un trattamento speciale, bensì lo stesso «scavalcamento» - per così dire - del giudizio di disvalore espresso dalla disposizione generale più mite”. 285 Locatelli G., cit., p. 631. G. Giammona, Questioni di diritto transitorio in seguito all'abrogazione del delitto di oltraggio, nota a Corte Cass., I, 11 aprile 2000, Speranza in Foro it., 2000, II, c. 293 ss 286 Cfr., Mannucci M., cit., p. 3274; Nitti R., cit., p. 94. 287 Albano, cit., p. 1187 sottolinea, dato incontestabile, che «le querele in caso di oltraggio non venivano mai presentate». In merito Locatelli G., cit., p. 631, osserva che la mancanza della querela non incide sulla ontologia del reato, trattandosi, per definizione, di una mera condizione di procedibilità che non era richiesta né al momento della commissione del fatto, né al momento del passaggio in giudicato della sentenza.
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avrebbe dovuto essere la condanna per il delitto di ingiuria al quale sarebbero comunque
riconducibili i fatti di oltraggio. Qualora, invece, «sia stata pronunciata sentenza irrevocabile» di
condanna per il delitto di oltraggio, non sarebbe applicabile, a norma dell'art. 2 comma 3, c.p., la
regola della legge più favorevole: la pena detentiva, se non sospesa, deve essere eseguita288.
La soluzione, però, parve iniqua289 in tutte le ipotesi in cui un soggetto fosse stato condannato per
oltraggio ad una pena detentiva con sentenza passata in giudicato, e dunque irrevocabile290.
Si rilevava, infatti, che la ragione in base alla quale si era giustificato un diverso regime di
perseguibilità ed una sanzione più grave ovvero la natura plurioffensiva del reato, era venuta meno
insieme all’eliminazione della fattispecie de qua.
Infatti, in applicazione del quarto (all’epoca terzo) comma dell'art. 2 c.p., la sentenza di condanna
per l'abrogato reato di oltraggio, essendo irrevocabile, avrebbe mantenuto inalterati i suoi effetti,
non potendosi in questa sede qualificare il fatto come reato di ingiuria aggravata, con conseguente
declaratoria di improcedibilità dell'azione penale per mancanza di querela. Si osservava, infatti, la
sostanziale ingiustizia insita nell’esecuzione di una pena per un fatto successivamente perseguibile a
querela, e per il quale all’epoca della sua commissione, non essendo richiesta, non vi è mai stata
proposizione della istanza di procedibilità.
Ciò avrebbe comportato, nei confronti del condannato per il reato di oltraggio, non solo
l’impossibilità di fruire di un regime complessivamente più favorevole (anche grazie
all'applicabilità della cause di non punibilità di cui agli artt. 596, 598, 599 c.p.), ma soprattutto
l'espiazione di una pena detentiva di gran lunga superiore a quella irrogabile per il reato di
ingiuria291 - in quanto, anche dopo l’intervento della Corte costituzionale, l'art. 341 c.p. continuava
ad essere punito con la sola pena detentiva, mentre l'art. 594 c.p. nel 1999 prevedeva, invece, la
reclusione (fino a sei mesi) in alternativa alla pena pecuniaria – con conseguente violazione del
principio costituzionale che esige che la pena sia proporzionata al disvalore sociale del fatto illecito
commesso.
Mossa forse da siffatta preoccupazione, la giurisprudenza di legittimità292 ha operato un revirement,
e, ritenendo che l'abrogazione avesse comportato tout court l'espunzione dal sistema sanzionatorio
288 Giunta F., cit., p. 1426. 289 Cass., Sez. I, 10 marzo 2000, n. 1803 Piccolo, in Foro It., 2000, II, 594 Foro it. 2000, II, 594 (nota di: Giammona) 290 In merito Di Giovine, cit., osserva che invero, ciò che al più potrebbe ritenersi iniquo è il rigore della scelta compiuta dal legislatore nell'ultimo periodo del comma 3 dell'art. 2 c.p., laddove non consente una reformatio parziale del giudicato nei casi in cui il soggetto sarebbe stato punito meno gravemente. 291 Locatelli G., cit., p. 631. Carcano D., cit., p. 1603. summa iniuria, infine, l'esecuzione della pena «detentiva» inflitta per «i fatti di oltraggio» oggetto di condanna divenuta irrevocabile , in virtù della regola dell'art. 2 comma 3 c.p. 292 Geraci R.M., cit., p. 5. Cass., Sez. V, 14 ottobre 1999, n. 13349, Ghezzi, in Cass. Pen., 2000, 1614, e in Giust. pen. 2000, II, p. 464, e in Foro it. 2000, II, p. 236; Cass. pen., Sez. I, 10 marzo 2000, n. 1803, Piccolo, in Foro It., 2000, II, 594 conformemente a quanto ritenuto da parte della dottrina: Padovani, Tipicità e successione, cit., p. 1354; Fiandaca G.-Musco E., cit., p. 77 e ss.
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delle due fattispecie (artt. 341 e 344 c.p.) cancellandole dal panorama degli illeciti penali, ha
incominciato a dichiarare che “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”293, perchè il fatto
prima punito come oltraggio era divenuto penalmente irrilevante. Di conseguenza, essendo
intervenuta un’abolitio criminis294, le condotte precedentemente sussumibili sotto l’abrogata
fattispecie non costituivano più reato e, ai sensi dell’art. 2, 2° comma, c. p., il giudicato veniva
travolto, la pena non era più eseguibile295 e il giudice avrebbe dovuto ammettere la revoca, ex art.
673 c. p. p., delle sentenze di condanna pronunciate.
Uno degli argomenti296 propugnati a sostegno della presenza di un fenomeno di abolitio criminis,
consisteva nella “evidente” eterogeneità dei beni giuridici sottesi alle rispettive previsioni
sanzionatorie di oltraggio a pubblico ufficiale ed ingiuria. Tale diversità si desumeva non solo dal
dettato dei rispettivi articoli (offesa all'onore e al decoro nel reato di ingiuria e offesa all'onore ed al
prestigio nel reato di oltraggio), ma anche dalla lettura dell'art. 341 c.p. data dalla giurisprudenza
della Corte Costituzionale297. In tali sentenze, pronunciate in epoche diverse, la Corte ha
sottolineato la diversità del bene giuridico tutelato dalle due norme (Corte Cost. n. 341/1994),
evidenziando da un lato la eterogeneità delle due fattispecie criminose riguardanti l'una l'offesa
arrecata al privato cittadino e l'altra l'offesa rivolta contro chi riveste la qualifica di pubblico
ufficiale, e dall'altro che “l'art. 341 c.p. appresta una tutela che trascende la persona fisica del
titolare dell'ufficio per risolversi nella protezione del prestigio della pubblica amministrazione”
(Corte Cost. n. 51/1980). La rilevata diversità escludeva l'esistenza di un rapporto di specialità tra i
due reati - considerato, inoltre, che vi sono condotte che possono integrare il reato di oltraggio e non
quello di ingiuria - e, dunque, non si poteva ravvisare una successione delle leggi penali nel tempo
293 Cass. pen., 12 agosto 1999, Colombo, in CED Cass., 214896. Conf., Corte cass., Sez. I, 10 marzo 2000, Errico, ivi, 215821; Corte cass., 12 aprile 2000, Aauacha, ivi, 216041; Corte cass., Sez. I, 27 aprile 2000, Chieffi, ivi, 216098 294 In generale per un’analisi del fenomeno dell’abolitio criminis si rinvia a Gambardella M., abolitio criminis: casi e regole processuali, in Cass. pen. 2005, 05, p. 1739. 295 Nel senso che la legge n. 205 del 1999 ha dato luogo ad un’ipotesi di abolitio criminis si sono inoltre pronunciate Cass., Sez. VI, 7 giugno 2000, Piscini, in Guida al Dir., 2000, 124; Id., Sez. VI, 2 maggio 2000, Perini, ibidem, 125; Id., Sez. I, 10 marzo 2000, Errico, in Mass. Uff., 215821; Id., Sez. VI, 15 dicembre 1999, El Quaret, in Mass. Uff., 215285; Id., Sez. II, 28 ottobre 1999, Gagliardi, inedita; Id., Sez. VI, 12 ottobre 1999, Colombo, in Mass. Uff., 214896; Id., Sez. VI, 7 ottobre 1999, Pedretti, inedita; App. Catanzaro, ord. 21 ottobre 1999, Maiolo, in Foro It., 2000, II, 237, con nota redazionale di Tramontano; Trib. Livorno, 7 luglio 1999, Battaglia, in Cass. Pen., 1999, 3274, 1727, con nota critica di Mannucci. 296 Carcano D., cit., p. 1600. Le argomentazioni proposte a sostegno della validità dell’indirizzo erano diverse: si asseriva che nell’opera di abrograzione espressa ex L. 205/99 il legislatore avrebbe inteso depenalizzare totalmente la condotta, facendo presa: sulla specialità dei due interessi sottesi alla fattispecie ex art. 341 c.p., sulla specificità del titolo della legge “Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale tributario”, nonché sulla specialità dell’interesse e del bene giuridico dell’onore e decoro del pubblico ufficiale, quale interesse qualificato. 297 Si ricordano le sent. n. 109/1968, 51/1980 e 341/1994.
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ex art. 2, 4 comma, c.p.. Il caso di specie, invece, comportava l'applicazione al diverso criterio
dell'assorbimento298, in presenza del quale, però, non era applicabile il 4 comma dell’art. 2299.
Da un lato, pertanto, si affermava che l’offesa al prestigio del pubblico ufficiale era un elemento
essenziale della fattispecie, diverso ed alternativo all’offesa dell’onore personale del pubblico
ufficiale e da solo sufficiente ad integrare l’elemento materiale dell’oltraggio300. Di conseguenza
una volta abrogato l’oltraggio non era piú punibile la condotta diretta a ledere l’onore e il prestigio
del pubblico ufficiale (o di altro soggetto ad esso assimilato) nell’esercizio o a causa delle sue
funzioni.
Dall’altro si sosteneva che espressioni o comportamenti che hanno un contenuto offensivo del
«prestigio» e del «buon andamento» della pubblica amministrazione, beni indisponibili, possono
anche non esserlo per l'onore ed il decoro della persona, dei quali, il soggetto passivo può, invece,
liberamente disporre. La soglia del penalmente rilevante era, dunque, molto più bassa se oggetto
della tutela è il «prestigio» o il «buon andamento» della pubblica amministrazione, beni che
possono essere offesi da condotte che esprimono «disprezzo», «insofferenza» e ingiustificato rifiuto
della funzione pubblica, senza necessariamente però concretizzare offesa all'onore ed al decoro
della persona301.
Infine parte della dottrina aveva evidenziato che all’evidente diversa natura del bene protetto, che di
per sé sarebbe stata sufficiente ad escludere il fenomeno successorio, si accompagnavano le diverse
modalità offensive della condotta. Ne discendeva che la diversità logico strutturale esistente tra le
fattispecie e la diversa natura del bene protetto comportava che non tutte le condotte di oltraggio
integrassero il delitto di ingiuria o di minaccia e viceversa e per tal motivo, dunque, doveva essere
escluso il rapporto di specialità unilaterale302.
298 L’assorbimento, secondo questo indirizzo giurisprudenziale, si verifica “quando la fattispecie astratta assorbente, pur regolando nella maggioranza dei casi — per la presenza di elementi specializzanti — fatti altrimenti disciplinati da una fattispecie astratta affine piú generica, prevede però come reato anche fatti non punibili con la seconda norma, qualificata erroneamente nella prassi come generale”. Cass., Sez. V, 14 ottobre 1999, n. 13349 Ghezzi, in CED Cass., 215043, in cui la configurabilità di un fenomeno di successione di leggi penali è esclusa perché l'oltraggio avrebbe punito un fatto diverso dall'ingiuria perché assorbente, piuttosto che semplicemente speciale, rispetto all'ingiuria 299 L’art. 2, c 4, c.p., invece, presuppone a propria volta una identità del fatto (quantomeno negli elementi essenziali) astrattamente regolato da leggi diverse, cosicché l’abrogazione della disposizione di legge assorbente determina ai sensi del 2° comma una abolitio criminis e non una successione di leggi penali. 300 Basti pensare all’uso generale di un linguaggio volgare o di modi abitualmente scortesi, ritenuti in giurisprudenza sufficienti per commettere oltraggio e non altrettanto per commettere ingiuria nei confronti di un privato, in considerazione della natura plurioffensiva del primo e dell’interesse pubblico ad una correttezza di modi e in genere al rispetto dei consociati nei confronti di coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni» (Cass., Sez. V, 14 ottobre 1999, Ghezzi, in Cass. Pen., 2000, 1614, 914). 301 Carcano D., cit., p. 1605. 302 Secondo Carcano D., cit., p. 1606 si è in presenza, invece, di un evidente rapporto di specialità bilaterale o reciproca caratterizzata dal fatto che soltanto una o taluna delle ipotesi rientranti in una fattispecie integrano anche l'altra, mentre delle ipotesi contenute in quest'ultima soltanto una o talune, ovvero anche nessuna integrano anche la prima. Insomma, in questo caso entrambe le norme sono, per alcuni elementi, generali, e, per altri, speciali.
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La giurisprudenza, inoltre, dopo avere escluso che la norma abrogante del reato di oltraggio prevista
dall’art. 18 L. 205-1999 abbia creato una continuità nella tutela del bene giuridico già protetto
dall'art. 341 c.p. con la perdurante vigenza dei reati di ingiuria e minaccia, ha anche avanzato dubbi
di costituzionalità nel caso di applicazione per un fatto pregresso di leggi coeve a quella abrogata.
Secondo questo indirizzo il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo si riferisce
soltanto a «leggi posteriori»303 diverse da quelle del tempo in cui fu commesso il reato, e non anche
a «leggi coeve», quali per l’appunto sono le norme di cui agli artt. 594, 612 e 341 c. p.
Diversamente si verificherebbe una violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., perché si
consentirebbe l’applicazione della norma rimasta in vigore - diretta alla tutela di un diverso bene
giuridico - ad un fatto anteriormente verificatosi304 e dell’art. 112 Cost., posto che la norma penale
coeva ancora in vigore risulterebbe applicabile in mancanza dell’esercizio dell’azione penale305.
Pertanto se si esclude che in forza della soppressione dell’art. 341 c.p. si siano prodotti per i fatti
pregressi fenomeni automatici di espansione di norme incriminatrici coeve, è necessario procedere
303 In questo senso Cass. sez. 6 , 28 gennaio 2000, n. 518, proc. Marini, in Giur. it. 2000, p. 2346; Cass. pen., 2000, p. 1618, in D&G - Dir. e giust., 2000, 8, p. 62, e in Foro it., 2000, II, 595 (nota di: Giammona) secondo la quale il terzo comma dell’art. 2 c.p. si riferisce testualmente a “leggi posteriori”, diverse da quelle del tempo in cui fu commesso il reato (e non le medesime), e non a “leggi coeve”. Pertanto, stando ad un esame puramente esegetico, si dovrebbe concludere che se una legge posteriore al fatto dispone l'abrogazione della norma incriminatrice specificamente applicabile alla condotta, in nessun modo si ha, per quel caso, l'espansione delle leggi coeve, che pure sarebbero state applicabili ove la legge abrogata non fosse esistita, ed anzi nessuno può essere più punito per il fatto posto in essere in quel tempo e se vi è già stata condanna ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali (secondo comma dell'art. 2). Per un commento critico di questo orientamento si rinvia a Bisori L., cit., p. 3029, il quale osserva anche che l’art. 2 “intende chiaramente riferire la «posteriorità» dell'assetto normativo in successione non già alla data di entrata in vigore della legge incriminatrice successivamente applicabile, bensì più in genere all'intervento normativo che rende applicabile ad un fatto una legge diversa da quella ad esso applicabile all'epoca della sua commissione”; Gambardella M., cit., p. 1739; Nitti R., cit., p. 94 il quale osserva che “il rapporto di anteriorità/posteriorità tra dette leggi non va inteso esclusivamente come successione cronologica nella vigenza in astratto delle disposizioni applicabili allo stesso fatto, bensì più in generale come successione nella applicabilità in concreto al caso specifico di norme, indipendentemente dall'epoca di formale vigenza delle stesse”. In questo senso Cass., sez. V , 17 agosto 1990, n. 11495, ric. Belleri. In dottrina si rinvia anche alle riflessioni riportate sul punto da Padovani, Tipicità e successione, cit., p. 1367. 304 Secondo la Cass., sez. 6, 28-1-2000, n. 518, ammettere che nell’ipotesi dell’abrogazione del delitto di oltraggio si sia verificata un fenomeno di successione di leggi nel tempo significa asserire che una legge (l’art. 594 c.p.), inapplicabile al fatto (contumelia rivolta al p.u.) all'epoca del suo venire in essere, è applicabile successivamente al fatto stesso, con evidente compromissione del principio di irretroattività ex art. 25 della Cost. In generale, infatti, secondo la Corte la riespansione delle leggi coeve avverrebbe, comunque, in contrasto con l'essenza del fenomeno abrogativo, desumibile dai principi generali della dinamica delle fonti. Infatti l'abrogazione consiste in nuova valutazione del legislatore della fattispecie e, quindi, in una nuova disciplina del caso, ritenuta più opportuna. Salvo un espressa previsione contraria, opera ex nunc, circoscrivendo nel tempo la vigenza della norma eliminata, non disconoscendole , però, il valido operare per il tempo in cui era applicabile. Di conseguenza, restando ancora valida e vigente (sebbene abrogata) la norma precedente per il tempo anteriore all'abrogazione, l'effetto naturale è che le norme sopravvissute e “compresse” dalla legge non più operante, restano tali per quel medesimo tempo ed è, perciò, “fuori dal sistema considerarne ampliato - oggi per allora - il raggio di azione, quale effetto di questa forma di caducazione”. In senso critico cfr. Bisori L., cit., p. 3029, secondo il quale l'applicabilità di una norma generale anteriormente inapplicabile per la presenza di una disposizione speciale abrogata, e dunque “la perdurante qualificazione di illiceità della fattispecie (già) speciale ai sensi della disposizione generale, non implica alcuna violazione di principi generali in materia di successione di leggi, né tantomeno del divieto di reatroattività di cui all'art. 25 cpv. Cost., ma costituisce solamente il presupposto per l'eventuale operatività favorevole della regola stabilita dall'art. 2 comma 3 c.p., fino al limite invalicabile del giudicato”. 305 Geraci R.M., cit., p. 5. Cass., Sez. VI, 28 gennaio 2000, Marini, in Cass. Pen., 1618, p. 915.
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all’esame della voluntas legis della legge abrogativa per stabilire se si è in presenza di una
riespansione della norma incriminatrice superstite, «qualunque rapporto vi fosse tra il disposto
abrogato e quello o quelli sopravvissuti». La voluntas legis306 successiva dovrebbe, infatti, essere
decisiva ai fini dei contenuti normativi della disciplina della successione di leggi penali là dove si
accerti che, in concreto, renda non più sanzionabili «i fatti» anteriori comunque riconducibili alla
norma incriminatrice abrogata non soltanto come effetto della abolitio, ma anche per non avere
previsto la possibile realizzazione delle condizioni richieste dalle disposizioni superstiti per
pronunciare una sentenza di merito. Soltanto attraverso tale indagine può stabilirsi se vi sia o meno
una «continuità di illecito» che la legge di abrogazione rende evidente anche mediante, dicono i
giudici di legittimità, «...la valorizzazione ed il mantenimento della rilevanza penale di quei
comportamenti già astrattamente sussumibili in altra fattispecie». La legge n. 205 del 1999, però,
esprime continuità punitiva solo per i reati «perseguibili ai sensi delle disposizioni della presente
legge o dei decreti legislativi da essa previsti», per i quali si prevede la rimessione in termine per
proporre querela.
La mancanza di una medesima disposizione per «i fatti di oltraggio», invece, denota un abbandono
della «continuità punitiva» per le condotte in tal modo qualificate e giudicate con sentenza
irrevocabile di condanna, giustificato dall’eterogeneità dei beni protetti dal delitto di oltraggio e dal
delitto di ingiuria307. Si tratta di fatti-reato diversi rispetto a quelli ritenuti in sentenza e per tal
motivo è giustificata l'applicabilità dell'art. 2 comma 2 c.p. Non pare possa essere trascurato il fatto
che se per effetto delle disposizioni successive si fosse voluto soltanto attribuire ai fatti di oltraggio
una diversa qualificazione giuridica e «continuare» a punire in ogni caso, anche per il passato, le
condotte prima sanzionate dalla norma abrogata sarebbe stato ragionevole introdurre - come
stabilito dall'articolo 19 della legge di depenalizzazione esclusivamente « per i reati perseguibili a
querela, ai sensi delle disposizioni della presente legge» - un disciplina transitoria che, tenuto conto
del fenomeno di successione di legge, avrebbe dovuto rimettere in termini la parte offesa per
consentirle di esercitare il diritto di querela. Il legislatore, però, ha rinunciato a punire i «fatti di
oltraggio» come «fatti di ingiuria o di minaccia», perché non ha previsto la rimessione in termini
per la presentazione della querela che condiziona la procedibilità di entrambi i reati. Non pare si
306 In senso contrario Bisori L., cit., p. 3029 307 Contra Lazzari, cit., p. 487, che da un lato concorda in merito alla necessità che dinnanzi ad un intervento normativo abrogativo di una norma speciale va, essenzialmente, ricercata la volontà del legislatore per comprendere se le sue intenzioni siano per l’abolitio criminis espressa o per la implicita successione di leggi penali nel tempo, ma dall’altro al contempo evidenzia che dall'analisi letterale del disposto della norma abolitiva, l'art. 18 l. n. 205/99, non emerge l’inequivoca scelta del legislatore di abolire il reato di cui all'art. 341 c.p., di conseguenza da tale constatazione sarebbe dovuta scaturire la decisione di regolare la materia secondo la disciplina dettata dall'art. 2 comma 3.
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tratti di un dato trascurabile e privo di significato normativo ai fini dell'applicazione della norma
superstite che si assume generale rispetto a quella abrogata308.
Sulla base delle argomentazioni sopra riportate parte della giurisprudenza e della dottrina ritenne
che l’eliminazione dell'art. 341 c.p. non solo imponeva di revocare i giudicati che in base ad esso si
erano formati, ma comportava anche la non perseguibilità di quei fatti che, punibili all'epoca della
loro commissione come oltraggio, potessero (teoricamente) inquadrarsi nelle fattispecie di ingiuria
o di minaccia (art. 2 comma 2 c.p.)». Si aggiungeva, inoltre, che in base alla radicale innovazione
introdotta dall'art. 673 c.p.p., il giudice dell'esecuzione aveva il dovere di revocare la sentenza di
condanna per un reato di oltraggio (c.d. iperretroattività), perchè, a differenza di quello della
cognizione, non poteva riqualificare come ingiuria aggravata la condotta contestata come oltraggio
e, per conseguenza, conservare o rimodulare la pena irrogata in relazione alla nuova fattispecie
penale.
In riferimento ai fatti di oltraggio non ancora coperti dal giudicato un altro importante profilo sul
quale dottrina e giurisprudenza si sono interrogate concerneva il regime di procedibilità da applicare
sia ai fatti di oltraggio commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 205 del 1999 e per i
quali non era stata ancora esercitata l'azione penale, sia ai procedimenti penali che, avviati sotto la
vigenza degli artt. 341 e 344 c.p., erano all’epoca pendenti davanti all'autorità giudiziaria309.
Nulla quaestio se il fatto veniva riqualificato come minaccia grave, posto che ai sensi dell’art. 612,
2° comma, c. p. si tratta di reato perseguibile d’ufficio310; diverso, invece, il discorso se nel fatto
veniva ravvisata una ingiuria o una minaccia semplice, reati perseguibili a querela di parte,
considerato che i predetti procedimenti nella realtà non traevano quasi mai origine da una querela
del pubblico ufficiale.
La legge abrogativa non forniva spunti direttamente utilizzabili per risolvere il problema e l’unica
norma in qualche modo rilevante (l’articolo 19, comma 2) non sembrava attagliarsi alla particolarità
della vicenda, perchè contemplava la rimessione in termini per proporre querela solo in una
determinata e circoscritta ipotesi ovvero in riferimento ai reati per i quali fosse stata esclusa la
308 Carcano D., cit., p. 1604. 309 Giunta F., cit., p. 1423. 310 In proposito v. Cass., Sez. VI, 24 settembre 1999, n. 12277, Dottore, in Mass. Uff., 214528, secondo la quale l'art. 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 ha abrogato la norma che prevedeva il delitto di oltraggio ma non ha fatto venir meno la rilevanza penale dei fatti-reato sussunti nella fattispecie di oltraggio: non può quindi trovare applicazione il comma 1 dell'art. 2 c.p. qualora l'azione delittuosa sia stata commessa con minaccia in danno del pubblico ufficiale, conservando il comportamento rilevanza penale, ai sensi degli art. 612 e 61 n. 10 c.p. Consegue che, se il procedimento sia pendente davanti alla Corte di cassazione, poiché la diversa qualificazione giuridica impone una verifica della procedibilità dell'azione penale ai sensi del capoverso dell'art. 612 c.p., se la gravità della minaccia sia stata positivamente apprezzata già dal giudice di merito con motivazione esauriente e logica, onde tale ultimo reato sia da considerare procedibile d'ufficio, la Corte deve annullare con rinvio la sentenza che ha ritenuto la sussistenza del delitto di oltraggio e rinviare al giudice di merito per la determinazione della pena da infliggere per il delitto di minaccia aggravata.
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procedibilità di ufficio e si fosse stabilita, con norma ad hoc, la procedibilità a querela311. Al
riguardo si osservava che la mancanza di una disposizione transitoria determinava delle situazioni
di fatto che “appaiono inspiegabili ed inaccettabili e tali da rendere il sistema viziato da un
intrinseca irragionevolezza”, quali la cancellazione, con la formula della improcedibilità per
mancanza di querela, di «tutti i fatti» di oltraggio oggetto di procedimenti pendenti per i quali è
scaduto il termine di presentazione della querela e la condanna per il delitto di ingiuria,
prevedibilmente alla sola pena della multa, per i «fatti di oltraggio» per i quali le prudenti parti
offese avessero proposto querela ovvero la presentassero, essendo ancora in termini per farlo, al
momento di entrata in vigore della legge312.
Al fine di ovviare alle sopra riportate disparità ci si interrogava sull’applicabilità in astratto (nonché
sulle modalità di applicazione in concreto) ai fatti di offesa in esame, non ancora coperti da
giudicato e per i quali non era stata presentata tempestiva querela, dell’art. 19 legge n. 205/1999,
che stabilisce un ulteriore e diverso dies a quo per la decorrenza del termine per la presentazione
della querela a partire dall'entrata in vigore della legge o dall'apposita informazione che il giudice
deve dare alla persona offesa in relazione a determinati reati.
In proposito la giurisprudenza si assestò su due posizioni contrapposte, che muovevano da una
diversa esegesi della disciplina transitoria contenuta nell’art. 19 della legge n. 205 del 1999, ai sensi
della quale «Per i reati perseguibili a querela, ai sensi delle disposizioni della presente legge o dei
decreti legislativi da esse previsti, commessi prima dell’entrata in vigore della presente legge o dei
citati decreti legislativi, il termine per presentare la querela decorre dalla data predetta, se la
persona ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. Se è pendente il relativo
procedimento, il giudice informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di
querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata».313
Il problema era se dovessero ritenersi inclusi soltanto i casi in cui la legge n. 205 del 1999 (e relativi
decreti legislativi) aveva espressamente modificato il regime di procedibilità di reati prima
perseguibili d'ufficio o se, invece, il riferimento dovesse ritenersi esteso anche a tutti i fatti il cui
regime di procedibilità risultava in tal senso mutato per effetto delle disposizioni della legge n.
205/1999 (e relativi decreti legislativi) quali, ad esempio, i fatti prima perseguibili di ufficio in
quanto previsti da una norma speciale, ed in seguito procedibili a querela in quanto, abrogata la
norma speciale, si applicava la norma generale che tale regime prevede (è il caso proprio
dell'oltraggio).
A fronte di tale questione si delinearono due indirizzi interpretativi.
311 Così per il furto c.d. semplice: art. 12 l. n. 205 cit. per delle osservazioni in merito si rinvia a Giunta F., cit., p. 1423. 312 Carcano D., cit., p. 1603. 313 Geraci R.M., cit., p. 5.
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Secondo un primo orientamento314, nettamente prevalente, il tenore letterale di tale norma, a cui si
riconosceva una funzione deflattiva, limitava la possibilità di una sua applicazione soltanto ai fatti-
reato la cui perseguibilità a querela di parte era stabilita dalla stessa legge n. 205 del 1999 (come ad
es. il furto semplice315) o dai decreti legislativi emanati in attuazione della medesima (cioè per le
fattispecie astratte che, originariamente procedibili ex officio, erano state trasformate in reati
perseguibili a querela, come avvenne per il furto semplice, ovvero per gli ulteriori reati che
eventualmente sarebbero stati resi perseguibili a querela dai decreti legislativi previsti dalla stessa
legge n. 205 del 1999) e non anche a quei fatti reato che diventano perseguibili a querela a seguito
di una loro diversa qualificazione giuridica conseguente all’abrogazione di una norma
incriminatrice316. Di conseguenza, pur potendo riqualificare le ipotesi di oltraggio in ingiuria o
minaccia aggravati ex art. 61, n. 10, c. p. andava adottata, ove a suo tempo non fosse stata
presentata la querela, una sentenza di non doversi procedere per mancanza della condizione di
procedibilità.
314 Geraci R.M., cit., p. 5. In tal senso Cass., Sez. V, 2 dicembre 1999, Licata, in Mass. Uff., 215474; Id., Sez. II, 11 novembre 1999, Mauro, in Guida al Dir., 2000, 126; Id., Sez. VI, 23 settembre 1999, Loria, in Mass. Uff., 215269; Id., Sez. VI, 23 settembre 1999, Guida; Id., Sez. VI, 13 luglio 1999, Del Pellegrino, in Mass. Uff., 215268; Id., Sez. VI, 13 luglio 1999, Gorziglia, ibidem, 214183; Id., Sez. VI, 13 luglio 1999, Adamoli, in Cass. Pen., 2000, 1600, 912; Trib. Milano, ufficio G.i.p., ord. 19 novembre 1999, giud. Piffer, in Foro Ambrosiano, 2000, 21, 5; Trib. monocr. Perugia, 29 ottobre 1999, Bisogno, in Rass. Giur. Umbra, 2000, 540; Id. Perugia, 16 novembre 1999, Di Giovanni, ibidem, 540; Trib. Firenze, 26 novembre 1999, Magnelli, in Foro Toscano, 2000, 67, con nota adesiva di Corsani, Non è concedibile il termine per proporre querela al soggetto passivo del reato di oltraggio commesso prima del 13 luglio 1999; Cass., Sez. I, 10 marzo 2000, n. 1803 Piccolo, in Foro It., 2000, II, 594 Foro it. 2000, II, 594 (nota di: Giammona) Cassazione penale, sez. I, 10 luglio 2001, n. 33455 secondo la quale in tema di reato di oltraggio, all'abrogazione della fattispecie incriminatrice (ex art. 18 l. 25 giugno 1999, n. 205) consegue la possibilità che, qualora ne sussistano in concreto i presupposti, il fatto resti sanzionato sotto il profilo dell'offesa all'"onore" o al "decoro" (ex art. 61 n. 10 e 594 c.p.), ma ciò non rende applicabile ai processi in corso la disposizione transitoria prevista dall'art. 19 l. cit., che prevede la rimessione in termine per la presentazione della querela esclusivamente per i reati in cui la procedibilità a querela sia introdotta dalla medesima legge; ne consegue che, essendo il reato di ingiuria procedibile a querela anche nella vigenza del precedente regime, in sua assenza il giudice della cognizione deve dichiarare la non procedibilità. Cassazione, Sez. VI Penale, 13 luglio 1999, n. 1318 - la Corte negava che fosse applicabile, ai procedimenti che recavano una imputazione di oltraggio, la norma transitoria di cui all'art. 19 nel caso in cui il fatto poteva astrattamente inquadrarsi nei reati di ingiuria o di minacce, osservando come la norma transitoria è espressamente riferita "solo ai reati perseguibili a querela ai sensi dalle disposizioni della presente legge o dei decreti legislativi da essa previsti" e come perciò riguardi solo i delitti di furto ed ulteriori eventuali reati che i decreti legislativi renderanno punibili a querela. Nella decisione la Suprema Corte ha annullato senza rinvio una condanna per oltraggio dichiarando l’improcedibilità dell'azione penale per difetto di querela, derubricando l'oltraggio a p.u. nel reato di ingiuria. 315 Carcano D., cit., p. 1600 il quale rileva che “la disposizione transitoria dell'art. 19 riguardi alcune ipotesi minori di furto per le quali il precedente art. 12 ne ha modificato la procedibilità e non anche i reati per i quali già preesistenti disposizioni ne prevedevano la perseguibilità a querela”. 316 Sturiale P., cit., p. 453 rileva che l’art. 19 non sembra riferirsi all’abolizione dei reati per effetto della quale acquistano rilevanza penale fatti sussumibili sotto diverso titolo di reato. In senso contrario all'applicabilità dell'art. 19 all’oltraggio si è pronunziato il Trib. Arezzo, ord. 29 luglio 1999: «giova per altro precisare che non deve trovare applicazione la norma di cui all'art. 19 comma 2 l. n. 205 del 1999 il quale prevede l'informativa alla persona offesa del reato della facoltà di esercitare il diritto di querela con conseguente remissione in termini per tale adempimento, e ciò per una serie di motivi: ... b) la norma si riferisce a quei reati «perseguibili a querela, ai sensi delle disposizioni della presente legge» (l. n. 205 del 1999) e pertanto solo a quelli per i quali è cambiato il tipo di procedibilità (ad es. per il furto semplice)». Contra Nitti R., cit., p. 94 secondo il quale l’espressione virgolettata «perseguibili a querela, ai sensi delle disposizioni della presente legge» si presta proprio per la sua genericità a comprendere oltre all'ipotesi indicata dal tribunale di Arezzo anche quella relativa ai fatti che divengono perseguibili a querela per effetto della l. n. 205, cit. (e relativi decreti legislativi).
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Questa tesi - uniformemente accolta dalla giurisprudenza - riteneva la condizione di procedibilità
operante immediatamente con effetti ex tunc, con una sorta di efficacia interruttiva e caducatoria
sull’esercizio dell’azione penale, tale per cui la riespansione della norma generale, necessitante la
condizione di procedibilità, avrebbe causato la declaratoria di eventuale improcedibilità dell’azione.
Non sembrava, altresì, sostenibile un’applicazione analogica della stessa disposizione, sia per il
carattere naturalmente eccezionale di ogni disposizione transitoria, sia perché (per conseguenza) si
sarebbe privato il soggetto attivo del reato del suo diritto processuale a non essere più penalmente
perseguito dopo l'inutile scadenza del termine ordinario per proporre querela.
Un secondo orientamento (minoritario e in seguito abbandonato317) ha ritenuto, invece, che la
disposizione dell’art. 19 della legge n. 205 del 1999 fosse applicabile non solo nei casi di reati la cui
perseguibilità a querela era stata introdotta dalla stessa legge, ma anche nei casi in cui, a seguito
dell’eliminazione della norma incriminatrice effettuata con la medesima legge, la condotta aveva
mantenuto il carattere di illecito penale. Conseguentemente, nell’ipotesi in cui l'azione penale fosse
stata esercitata, il giudice del dibattimento ovvero dei riti doveva, in applicazione del 2° comma
dell’art. 19, sospendere il procedimento e informare la persona offesa della facoltà di presentare la
querela concedendole il termine di tre mesi decorrente dall’avvenuta informazione per proporla318.
Se la parte offesa non presentava la querela il giudice avrebbe dovuto emettere sentenza ex art. 129
c.p.p., mentre nell'ipotesi contraria avrebbe dovuto restituire gli atti al p.m. per l'esercizio
dell'azione penale nelle forme ordinarie essendo il procedimento per decreto riservato ai reati
perseguibili di ufficio319.
In dottrina da un lato si è sottolineato che l’esegesi sopra esposta sarebbe stata più solida qualora il
legislatore avesse usato anziché il termine generico di «procedimento» quello più specifico di
«processo», ma dall’altro si è al contempo sostenuto che il primo termine è stato probabilmente
scelto per abbracciare la residuale fase procedimentale in cui l'azione penale sia stata già esercitata
con richiesta di decreto penale di condanna ed il g.i.p. non abbia ancora provveduto. Anche in tali
casi, numericamente poco significativi, il g.i.p. prima di emettere il decreto penale avrebbe dovuto
interpellare la persona offesa.
317 Questo orientamento in giurisprudenza è affermato peraltro in una sola pronunzia della Corte di cassazione: Cass. pen., sez. III ord. 14 luglio-24 settembre 1999, n. 2808 bis (cfr. in tal senso Cass., Sez. III, 14 luglio 1999, Sinistra, in Cass. Pen., 2000, 1613, 913) secondo la quale la stessa interpretazione letterale consente di pervenire alla conclusione: «sono reati perseguibili a querela ai sensi delle disposizioni della presente legge non solo quelli per cui tale perseguibilità è stata introdotta dalle disposizioni suddette o sarà introdotta con i decreti legislativi da esse previsti, ma anche quelli in cui, a seguito dell'abrogazione della norma incriminatrice effettuata con la medesima legge, la condotta ha mantenuto il carattere di illecito penale venendo inquadrata in figure di reato preesistenti, già perseguibili a querela. Tra questi è compreso il reato di oltraggio, la cui condotta criminosa a seguito dell'abrogazione dell'art. 341 c.p. disposta dal precedente art. 18 l. n. 205 del 1999, e qualificata giuridicamente come reato di ingiuria, previsto dall'art. 594 c.p., perseguibile a querela di parte». 318 Geraci R.M., cit., p. 5. 319 Mannucci M., Nota a trib. Livorno 7 luglio 1999, in Cass. pen., 1999, p. 3274
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A sostegno di tale impostazione sono state prospettate diverse argomentazioni320.
In primo luogo si è osservato che la conseguenza dell’esclusione dell’operatività dell'art. 19, in
relazione ai fatti di oltraggio per i quali era pendente un procedimento penale, non poteva essere
l'improcedibilità – e, dunque, l'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna emessa dai
giudici di merito - ma l'applicazione del principio del tempus regit actum, con conseguente
conferma della sentenza di condanna321. Infatti, se si riconosce alla querela una natura processuale e
non sostanziale, si deve necessariamente dedurre che tale condizione di procedibilità sussisteva nel
momento in cui era necessaria per consentire l'esercizio dell'azione penale, e che, una volta
esercitata, l'azione penale mantiene la sua efficacia processuale322.
In questo senso si affermava che era possibile procedere egualmente nonostante il mutamento
legislativo, perché l’originaria contestazione non soggetta a tempestiva querela, essendo procedibile
d’ufficio, aveva già svolto il proprio ruolo propulsivo dell’azione penale. Si è osservato che la tesi
opposta non era convincente, poiché trascurava che la modificazione del regime di procedibilità può
essere attuata con varietà di tecniche legislative. Quando, infatti, una legge abroga un reato speciale
perseguibile ex officio, riconducendo i fatti ivi previsti nell'ambito di una fattispecie generale
procedibile a querela, essa al contempo ne modifica il regime di procedibilità a querela. Cambia
dunque la tecnica legislativa con cui si è modificato il regime di procedibilità, ma non il risultato.
L’art. 19 comma 2 era quindi applicabile ai fatti di oltraggio commessi prima dell'entrata in vigore
della l. n. 205 del 1999, ma non ancora passati in giudicato323.
Inoltre, nel momento in cui la norma transitoria stabiliva che, rispetto ai procedimenti pendenti, il
termine entro cui poteva esercitarsi il diritto di querela decorreva dal giorno in cui l'offeso era stato
informato dal giudice della facoltà di esercitarlo, l'art. 19 comma 2 non aveva ampliato l'ambito di
operatività della querela, bensì introdotto una condizione di improcedibilità sopravvenuta rimessa
320 Al riguardo Sturiale P., cit., p. 453 afferma che poiché tra l’oltraggio e i reati di ingiuria e/o minaccia è possibile ravvisare l'eadem ratio, l’art. 19 era applicabile analogicamente per cui tali reati dovevano essere procedibili d'ufficio così come lo era l'oltraggio che li conteneva. 321 Giunta F., cit., p. 1423. Secondo l’autore è necessario applicare il principio del tempus regit actum: “la disciplina transitoria contenuta nell'art. 19 l. n. 205 del 1999 introduce una deroga all'art. 11 disp. prel. c.c. e al principio generale secondo cui la legge dispone solo per l'avvenire, non anche all'art. 2 comma 3 c.p., con il quale non interferisce affatto. È fin troppo evidente, infatti, che, collegandosi la scelta della procedibilità a querela a esigenze di meritevolezza di pena in concreto e non a una valutazione di illiceità in astratto, non si può parlare di una successione di leggi penali, allorché una legge intervenga a modificare il regime di procedibilità di un reato. E questo vale anche quando - per l'avvicendarsi di due leggi - alla perseguibilità a querela segue quella d'ufficio; ovvero, nel solo caso in cui, essendo la legge successiva sfavorevole al reo, a tutta prima potrebbe sembrare plausibile l'irretroattività ai sensi dell'art. 2 comma 3 c.p. Ebbene, anche in tale ipotesi, se il reato è stato commesso prima della legge che introduce la perseguibilità d'ufficio, e sempre che il diritto di querela non sia stato validamente esercitato, l'effetto dell'improcedibilità non discende dall'art. 2 comma 3 c.p., ma dal principio tempus regit actum , poiché nel momento in cui spirava il termine per esercitare il diritto di querela, quest'ultima non era stata sporta”. 322 Giunta F., cit., p. 1423. 323 Giunta F., cit., p. 1423.
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alla volontaria inerzia della vittima, nel senso che il processo instauratosi non poteva proseguire ove
la vittima non richieda la repressione del fatto324.
Si è rilevato che l’opposto orientamento, secondo il quale il giudice deve dichiarare il non doversi
procedere per mancanza di querela, comportava come diretta conseguenza quella di “fare un
inaspettato "regalo" all'imputato e penalizzare ingiustamente la parte offesa, che non era tenuta a
querelarsi per il reato poi abolito e che non può più querelarsi perché il termine è già scaduto”325.
Sempre secondo questo secondo indirizzo l’interpretazione restrittiva non trovava neppure conforto
nel «significato fatto palese dall’intenzione del legislatore», perché in riferimento alla vicenda
abrogativa dell’oltraggio non si poteva invocare genericamente una volontà di deflazionare il carico
degli uffici per affermare che, nel dubbio, si doveva propendere per la soluzione che garantiva
maggiori possibilità di immediata definizione del procedimento. La ratio dell’art. 19 era, al
contrario, quella di non ledere i soggetti passivi di reati divenuti, dopo la commissione del fatto,
procedibili a querela, consentendo loro di vedere perseguiti quei fatti per i quali in precedenza
(sapevano che) non era necessario proporre querela, essendo assicurato comunque, mediante la
possibilità che la querela non sia proposta, l'obiettivo di non procedere per quei fatti per i quali la
persona offesa non abbia manifestato un interesse in tal senso.
Si rilevava, invece, che la disposizione contenuta nell’art. 18 comma 1, sortiva i medesimi effetti di
quella contemplata nell’art. 12: rendere procedibile a querela di parte fatti prima procedibili di
ufficio. L'interesse tutelato dall'art. 19, pertanto, era comune ad entrambe le ipotesi e ad entrambe,
in assenza di elementi letterali di segno contrario, doveva essere applicata. In presenza di una
disposizione che, sul piano letterale, poteva essere interpretata anche nel senso della applicabilità ai
fatti in esame, l'interprete era vincolato a ritenere che tale interpretazione dovesse essere accolta in
considerazione della ratio legis326.
Ritenuto pertanto applicabile al delitto di oltraggio l’art. 19 legge n. 205/1999 si distinguevano due
diverse ipotesi di nuovo termine iniziale per la proposizione della querela sulla base dell’esegesi dei
due commi. Nel secondo era individuato un parametro positivo consistente nell’espressione «se è
pendente il relativo procedimento». Di conseguenza poiché la pendenza di un procedimento
corrisponde alla iscrizione della notizia di reato nel relativo registro, solo a partire da questo
momento il giudice poteva «informare la persona offesa del reato della facoltà di esercitare il diritto
324 Giunta F., cit., p. 1423 secondo il quale nel perseguire un obiettivo di decongestionamento giudiziario, l'art. 19 comma 2 l. n. 205 del 1999 finisce per trasformare lo stesso funzionamento della deroga alla perseguibilità ex officio . 325 Sturiale P., cit., p. 453 osserva che questo è il motivo per cui perché la giurisprudenza (Cass., 25 febbraio 1982, Ardeu, in Giust. pen., 1982, III, 449. Cass. 21 novembre 1988, Caronna, ivi, 1990, 227 con nota di Dell'Anno; Cass. 21 settembre 1993, in Foro it., 1995, II, 539.) ha escluso la rilevanza dei mutamenti legislativi relativi alle condizioni procedurali nella fase del giudizio. 326 Nitti R., cit., p. 94.
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di querela». Qualora, invece, non fosse ancora iscritta la notizia di reato, il dies a quo della
proposizione della querela decorreva dal momento dell’entrata in vigore della legge o dei relativi
decreti legislativi. La legge, inoltre, disciplinava espressamente anche l’ipotesi che ove la persona
offesa avesse avuto notizia del fatto costituente reato in epoca successiva all’entrata in vigore della
legge - come nel caso in cui, pur essendo presente il p.u. e potendo udire, non avesse compreso
l'offesa - il termine per la proposizione della querela decorre da tale epoca327. Ove non fosse era
ancora iniziata la fase del processo, ma fosse stata iscritta la notizia di reato, con pendenza del
relativo procedimento, l’informazione non poteva essere data dal pubblico ministero: l'effetto
previsto dall'art. 19 conseguiva soltanto all'informazione proveniente dal giudice, e, quindi, in
questa fase, dal giudice per le indagini preliminari328
A fronte delle questioni sopra esaminate sono intervenute le sezioni unite della Corte di
Cassazione329 la cui soluzione, secondo alcuni commentatori, non sarebbe riconducibile al primo né
al secondo degli opposti orientamenti illustrati330.
La Corte, dopo aver esaminato la ratio ispiratrice dell’art. 18 della l. 205/1999331 ha concluso che
l’abrogazione degli artt. 341 e 344 c.p. assume il significato di abolitio criminis, e non di
successione intertemporale di leggi penali332, e spiega i suoi effetti oltre il limite invalicabile del
giudicato, attraverso la revoca della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 673 c.p.p. da parte del
giudice dell’esecuzione333. Pertanto, ai sensi dell'art. 2, comma 2, c.p., dopo l'art. 18 della legge
327 Nitti R., cit., p. 94 secondo il quale la sentenza del tribunale di Foggia 13/11/1999 Giur. merito 2000, 1, 94 correttamente applica il meccanismo di cui all'art. 19 l. n. 205/1999 nel corso del processo di primo grado: nel caso esaminato, la persona offesa, pur potendo proporre querela del termine di tre mesi dalla informazione del giudice, ha manifestato immediatamente la sua volontà che si procedesse. Il giudice ha quindi modificato ex art. 521 c.p.p. la qualificazione giuridica del fatto. Il potere-dovere del giudice di informare la persona offesa del diritto di proporre querela sussiste anche nel caso in cui il processo penda in un successivo grado. La sez. III penale della Suprema Corte (ord. 14 luglio 1999, n. 2808 bis, cit.) ha conformemente ritenuto che: «in applicazione del secondo comma dell'art. 19 cit. [...] essendo pendente il relativo procedimento, il giudice deve informare la parte offesa del reato di oltraggio della facoltà di esercitare il diritto corrispondente», così applicando detta disposizione anche per quel grado del giudizio. 328 Nitti R., cit., p. 94. 329 Cass. Pen., s.u., 27 giugno 2001 n. 29023, in Cass. Pen., 2002, p. 482, con nota di Lazzari, nonché in Dir. pen. processo, 2001, p. 979; Riv. Pen., 2001, p. 802. Nel medesimo senso, successivamente, Cass. Pen. 18 febbraio 2003, in CED 225660; Cass. Pen. 10 marzo 3003, in CED 225906; Cass. Pen. 16 aprile 2003, in CED, 227423. 330 Lazzari, cit., p. 487. 331 Nella sentenza in esame, distinguendo l'intervento abrogativo del 1990 da quello della l. n. 205 del 1999, si è qualificato il secondo --- a differenza del primo --- come esclusivamente abrogativo, poiché con questo non si è determinata una riformulazione contestuale di nuove ipotesi criminose in sostituzione o modifica di quelle abolite. 332 Secondo la Corte, infatti, “invece che una successione temporale di leggi penali, in materia di oltraggio, si verifica piuttosto l'espansione di una norma preesistente (quella dell'art. 594, in relazione all'art. 61 n. 10 c.p.) a seguito della caducazione per abrogazione di una norma coeva (quella dell'art. 341 e dell'art. 344 C.P.)” e la vicenda legislativa “non configura una ipotesi di successione intertemporale di leggi penali, di cui al terzo coma dell'art. 2 c.p.. Infatti quest'ultima disposizione ha per presupposto una diversità di norme incriminatrici, di cui una cronologicamente precedente all'altra, o - più esattamente - presuppone una diversa vigenza temporale delle norme incriminatrici; e stabilisce come conseguenza giuridica che deve applicarsi la norma più favorevole al reo (sia essa ancora o non più vigente), salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. Contra Bisori L., cit., p. 3034. 333 La questione sottoposta a queste sezioni unite concerneva proprio la definizione del potere-dovere che grava sul giudice dell'esecuzione relativamente a una sentenza di condanna per il delitto di oltraggio. Secondo la Corte, infatti, “il
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205/1999, nessuno può essere punito per uno dei menzionati delitti di oltraggio, e, se vi è stata
condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali334. Il giudice dell'esecuzione, però, a
differenza di quello della cognizione, non può riqualificare come ingiuria aggravata la condotta
contestata come oltraggio e per conseguenza conservare o rimodulare la pena irrogata in relazione
alla nuova fattispecie penale, non solo perché manca (generalmente) la querela, ma soprattutto
perché (anche nei casi ipotizzabili di condotte perseguibili d'ufficio, per esempio per offesa
all'onore del pubblico ufficiale con minaccia grave) la norma dell'art. 673 c.p.p. non gli consente di
modificare l'originaria imputazione o di accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto dalla
sentenza passata in giudicato335.
Altro punto centrale dell’impianto argomentativo della sentenza è quello che si fonda sulla
considerazione che, abolendo il delitto di oltraggio, l'art. 18 non ha escluso affatto la possibilità
concreta che la condotta precedentemente sussumibile nella figura dell'oltraggio possa
successivamente integrare altre fattispecie di reato già previste dall'ordinamento penale, pena la
violazione dei principi di tipicità penale e di esercizio obbligatorio dell'azione 336. Pertanto l'art. 18
della legge 205/1999, abrogando i delitti di oltraggio di cui agli artt. 341 e 344 c.p., da un lato non
ha introdotto in sostituzione nuove o diverse figure di reato, ma dall’altro non ha escluso la
possibilità che le condotte già sussumibili nei tipi di delitto abrogati possano concretamente
integrare reati ancora previsti e puniti dalla legge penale, e in particolare quello di ingiuria
aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, ai sensi dell'art. 61
n. 10 c.p. 337.
giudice dell'esecuzione ha il dovere di revocare la sentenza di condanna per un reato di oltraggio, nonostante che essa sia già passata formalmente in giudicato. In tal modo, non solo si evita di dare esecuzione alla condanna per un reato che la coscienza sociale e l'ordinamento giuridico non giudicano più tale (come già imponeva il secondo comma dell'art. 2 C.P.); ma si dà anche attuazione a un principio generale per cui se si abolisce la premessa maggiore (incriminazione dell'oltraggio) è ragionevole rimuovere anche la conclusione del sillogismo giuridico basato su quella premessa (sentenza di condanna)”. 334 Il fondamento della disposizione è evidente: se l’abrogazione di un illecito costituisce il risultato di una valutazione di compatibilità tra il comportamento incriminato e l’interesse collettivo, sarebbe irragionevole continuare a punire l’autore di un fatto ormai tollerato dall’ordinamento giuridico. Cfr. Spagnolo P., cit., p. 10. 335 La Corte in merito rileva che “opinando diversamente si dovrebbe logicamente riconoscere al giudice dell'esecuzione (che conosce dell'ingiuria nell'ambito di un rito camerale) il potere di estendere il suo giudizio a istituti specifici dell'ingiuria, e quindi naturalmente estranei all'accertamento del giudice della cognizione (che ha condannato per l'oltraggio), quali la ritorsione o la provocazione, oppure la prova liberatoria ammessa per il soggetto attivo del reato. Una simile conclusione, però, sarebbe all'evidenza incompatibile col sistema del processo esecutivo, sia pure giurisdizionalizzato, perché lo trasformerebbe in una replica anomala del processo di cognizione; e sarebbe comunque incostituzionale per eccesso di delega, posto che le direttive nn. 96 e 97 dell'art. 2 della legge 16.2.1987 n. 81, riconoscono al giudice dell'esecuzione un potere di rivalutare il fatto solo per applicare la disciplina del concorso formale e della continuazione di reati (v. art. 671 c.p.p.)”. 336 Secondo la Corte, infatti, ritenere che l’art. 18 abbia che implicitamente depenalizzato anche condotte concrete che integrino gli elementi tipici di reati tuttora previsti dall'ordinamento contrasta con i principi di tipicità penale e di esercizio obbligatorio dell'azione penale. 337 In questo senso Cass. Pen., sez. VI, 05 gennaio 2002, n. 188, in Riv. giur. polizia, 2002, 372 (s.m.); Cass. Pen., sez. V, 17 ottobre 2001, n. 43466 .
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Le Sezioni Unite non hanno affrontato espressamente la questione riguardante la necessità della
querela per la procedibilità dei giudizi pendenti, ma si sono limitate a statuire che, nel caso in cui si
ritenesse configurabile un rapporto di specialità tra l'oltraggio e l'ingiuria, si verificherebbe
l'espansione normativa in ogni caso, con la conseguente applicazione degli artt. 594 e 61 n. 10 c.p.,
sempre che ricorra in concreto la condizione di procedibilità della querela, specificamente richiesta
in relazione all'ingiuria; mentre, qualora si ritenesse sussistere un rapporto di specialità reciproca o
bilaterale – e ciò sulla base della ritenuta differenza tra l’offesa al "prestigio" richiesta dalla
fattispecie penale dell'oltraggio quella al "decoro" tipizzata nella fattispecie della ingiuria338 -
spetterebbe al giudice della cognizione verificare di volta in volta se il fatto contestato come
oltraggio abbia in concreto anche gli elementi tipici della ingiuria aggravata, e se sia stata proposta
la necessaria querela.
La Corte ha escluso, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge 205/1999,
l’applicabilità della disposizione transitoria di cui all'art. 19, perché si riferisce solo ai reati che sono
diventati perseguibili a querela per effetto della stessa legge delega o dei decreti legislativi emanati
in esecuzione della delega medesima, mentre - al contrario - la perseguibilità a querela della ingiuria
era già prevista dal codice penale vigente. Né sembra sostenibile un'applicazione analogica della
stessa disposizione, sia per il carattere naturalmente eccezionale di ogni disposizione transitoria, sia
perché (per conseguenza) si verrebbe a privare il soggetto attivo del reato del suo diritto processuale
a non essere più penalmente perseguito dopo l'inutile scadenza del termine ordinario per proporre
querela.
Nonostante la pronuncia sia stata oggetto di diverse critiche339, anche perché ritenuta ispirata solo a
ragioni di opportunità di deflazione processuale340, l’indirizzo espresso dalle s.u. della Cassazione è
stato successivamente confermato dalla Corte Costituzionale con l’ord. del 24 giugno 2002 n.
338 si fa l'esempio dell'oltraggio commesso da chi strappa il verbale di un interrogatorio o di una contravvenzione, ovvero un atto di citazione, davanti al pubblico ufficiale che si accinga a notificargli l'atto stesso: osservando che simile condotta non è atta ad offendere il decoro o l'onore del soggetto passivo e quindi non integra ingiuria. 339 Perdonò G.L., cit., p. 650 e ss. ricorda le diverse critiche: sia in riferimento all’affermazione secondo la quale si ha successione di leggi solo modificative regolerebbe soltanto il caso di una norma incriminatrice che segua ad altra meno o più favorevole, mentre non può, invece, negarsi che il caso di espansione di una disposizione dovuta all’abrogazione di un’altra rientra tra quelli di successione di leggi modificative; sia in riferimento al ricorso alla tesi secondo la quale l’ipotesi contemplata dall'art. 18 della legge 205/1999 integrerebbe una abrogazione senza contestuale riformulazione di nuove o diverse figure di reato in sostituzione di quelle abolite, mentre sul fronte opposto si collocherebbe la legge n. 86 del 24.4.1990, che la giurisprudenza ha sempre interpretato come un caso di abrogatio sine abolizione, in quanto il legislatore del 1990, abrogando l'art. 324 c.p. (interesse privato in atti d'ufficio) e riformulando l'art. 323 c.p. (abuso d'ufficio), avrebbe chiaramente inteso non abolire del tutto, ma solo ridisegnare le relative fattispecie penali. È stato, infatti, obiettato che, dinanzi ad un intervento abrogativo di una norma speciale deve essere ricercata la volontà del legislatore per comprendere se le sue intenzioni siano per l’abolitio criminis espressa o per l’implicita successione di leggi penali nel tempo. 340 Lazzari, cit., p. 487, secondo la quale, inoltre, sebbene con la pronuncia in commento, la giurisprudenza abbia cercato di avvicinarsi all'approccio che costruisce la vicenda della successione di leggi penali nel tempo in termini di rapporto che intercorre e si esaurisce tra fattispecie astratte, non è coerentemente pervenuta alle conseguenze che le scelte interpretative intraprese suggerivano.
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273341, la quale ha concordato che l'assenza di una disciplina transitoria e il divieto di estendere in
via analogica quella dettata dall'art. 19 della legge n. 205 del 1999 per reati diversi dall'oltraggio
impongono di ritenere che si versi in un'ipotesi di abolitio criminis, regolata dall'art. 2, secondo
comma, del codice penale, e non di successione nel tempo di norme penali incriminatrici: se il
legislatore del 1999 avesse soltanto inteso rendere sanzionabili a titolo di ingiuria anche per il
passato fatti di oltraggio, non si sarebbe potuto esimere dal regolare i modi e i tempi per la
proposizione della querela, pena, altrimenti, la violazione del canone di ragionevolezza delle
classificazioni legislative; ha altresì ritenuto che l'ulteriore argomento che, insieme alla constatata
assenza di una disciplina transitoria, ha indotto il giudice di legittimità a interpretare la vicenda
abrogativa dell'art. 341 del codice penale come abolitio criminis, argomento che fa leva sui limitati
poteri dei quali è investito il giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 673 del codice di procedura
penale, non risponde soltanto alla dogmatica processualpenalistica in tema di rapporti tra giudizio di
cognizione e giudizio di esecuzione, ma assume il valore dell'interpretazione costituzionalmente
conforme, che non potrebbe essere disattesa se non violando principi costituzionali342
Resta, infine, da considerare la disciplina dei reati di oltraggio commessi prima dell'entrata in
vigore della l. n. 205 del 1999 e per i quali non penda ancora un procedimento penale. Viene qui in
rilievo il primo comma dell'art. 19 l. cit., che, come già detto, fa decorrere il termine per presentare
la querela dalla data dell'entrata in vigore della stessa legge. La ragion d'essere di questa
disposizione è chiara: se essa non esistesse, infatti, non sarebbe possibile punire i fatti di oltraggio
per i quali non è stata ancora esercitata l'azione penale e il termine per presentare la querela, di cui
all'art. 124 c.p., è spirato inutilmente. È fin troppo evidente, dunque, che l'art. 19 comma 1, miri a
341 Corte Costituzionale, ord. del 24 giugno 2002 n. 273, in D&G - Dir. e giust. 2002, 28, 20 (nota di: Pezzella, Quando la cancellazione del reato non è un’abolitio criminis a metà, in Dir. e giust. 2002, 28, 20) Giur. cost. 2002, 1985, Cass. pen. 2002, 3425. La questione di costituzionalità è stata sollevata dal Tribunale di Rovereto con ordinanze emesse il 29 maggio (n. due ordinanze) e il 13 luglio 2001, rispettivamente iscritte al n. 668, n. 669 e n. 897 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37 e n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2001. Il giudice a quo muoveva da una premessa interpretativa contraria all’orientamento espresso dalle s.u. Da tale posizione derivava la censura degli artt. 2, terzo comma, c.p. e 673 c.p.p., nella parte in cui non consentono la modifica del giudicato, in sede di esecuzione, nel caso di successione di leggi penali nel tempo con effetto meramente modificativo, nonchè dell’art. 341 c.p. Il rimettente, pur nella consapevolezza della sua intervenuta abrogazione, sottopose al giudizio della Corte Cost. l'art. 341 cod. pen., ritenendo che una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione avrebbe comportato l'applicazione, in luogo dell'art. 2, terzo comma, cod. pen., dell'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, che non distinguerebbe l'ipotesi della abolitio criminis da quella della successione nel tempo di leggi penali, con la conseguenza che la sentenza di condanna per il reato di oltraggio potrebbe essere revocata ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen. 342 La Corte Costituzionale, infatti, ha ribadito che al giudice dell'esecuzione penale non è in effetti consentito modificare l'originaria imputazione né accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto dalla sentenza passata in giudicato, e non gli è quindi neppure permesso estendere il suo giudizio a istituti, che, secondo l'orientamento delle sezioni unite, opererebbero come esimenti solo nell'ingiuria, quali la ritorsione o la provocazione e che la soluzione che postulasse la titolarità in capo al giudice dell'esecuzione di poteri pieni in ordine alla rivalutazione del fatto contrasterebbe con i criteri direttivi di cui ai numeri 96 e 97 dell'art. 2 della legge di delega per il nuovo codice di procedura penale (legge 16 febbraio 1987, n. 81), che simili poteri riconoscono, in sede di esecuzione penale, solo ai fini dell'applicazione della disciplina del concorso formale e della continuazione di reati, e comporterebbe quindi a carico dell'art. 673 cod. proc. pen. un vizio di eccesso di delega.
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consentire al soggetto offeso dall'oltraggio di chiedere la repressione penale del fatto, derogando
ancora una volta al principio del tempus regit actum 343. Va rivelato poi che, per espressa
previsione, la disciplina dettata dall'art. 19 comma 1, si applica «se la persona ha avuto in
precedenza notizia del fatto costituente reato». Naturalmente, questa parte della norma non pone
particolari problemi nel caso di reati che, come l'oltraggio e l'ingiuria, si consumano con la
percezione dell'offesa da parte del soggetto passivo. Si tratta invero di fattispecie in cui - salvo i casi
di necessaria o possibile dissociazione tra persona offesa e titolare del diritto di querela (si pensi alle
offese rivolte a minori, interdetti, inabilitati e defunti) - il titolare del diritto di querela non può non
sapere del reato commesso344.
Quanto all'ipotesi in cui il soggetto passivo non è a conoscenza del reato, essa, opportunamente, non
è stata regolata dall'art. 19 comma 1, potendosi risolvere in base alla disciplina generale per la quale
il diritto di querela decorre dal giorno della notizia del reato che costituisce reato (art. 124 c.p.);
disciplina, questa, la cui applicabilità discende ancora una volta dal principio del tempus regit
actum.
Ne consegue in ultima analisi che l’art. 19 citato debba trovare applicazione nei procedimenti
pendenti per oltraggio alla data di entrata in vigore della legge, così che in ossequio alla
disposizione contenuta nel comma 1, ritenuta la sussistenza nelle ipotesi, già definibili come
concorso apparente di norme, del reato di ingiuria aggravata perseguibile a querela, il p.m. prima di
esercitare l'azione penale dovrebbe attendere tre mesi dall'entrata in vigore della legge, atteso che la
persona offesa normalmente è anche la persona che ha denunciato il fatto e pertanto ha avuto in
precedenza notizia del fatto costituente reato345.
343 Giunta F., cit., p. 1423. Sennonché, la deroga che l'art. 19 comma 1 apporta all'art. 11 disp. prel. c.c. ha una funzione diametralmente opposta a quella che ispira il disposto dell'art. 19 comma 2. Infatti, mentre si è già detto che in quest'ultimo caso la norma transitoria consente di sottrarre alla regola dell'incondizionata repressione i fatti che l'offeso non reputa meritevoli di pena in concreto, nell'ipotesi regolata dal primo comma l'art. 19 assicura all'offeso che la sua doglianza potrà determinare l'accertamento e l'eventuale punizione di un fatto, per il quale altrimenti non si sarebbe più potuto procedere, a causa della decorrenza del termine entro il quale va sporta la querela. Sotto questo profilo, dunque, l'art. 19 comma 1 l. n. 205 del 1999 deroga anche all'art. 124 c.p. 344 Giunta F., cit., p. 1423. 345 Mannucci M., cit., p. 3274.
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LA REINTRODUZIONE DEL REATO DI OLTRAGGIO: LE RAGIONI E LE ISTANZE SOTTESE. CENNI DI DIRITTO COMPARATO E PROFILI DI DIRITTO INTERTEMPORALE
Con l’art. 1, comma 8, della legge n. 94 del 15 luglio 2009, rubricata "Disposizioni in materia di
sicurezza pubblica"346 il legislatore ha ripristinato il reato di oltraggio347, collocandolo sotto
l’articolo 341 bis del c.p. e definendone gli elementi costitutivi in modo in parte diverso da quelli
che connotavano la vecchia fattispecie348. La norma, non prevista nell’originario disegno di legge
governativo n. S.733349, è stata inserita nel corso della prima lettura al Senato, nonostante il parere
sfavorevole del C.S.M., che il 10 giugno 2009 aveva bocciato la reintroduzione del delitto de qua,
in ragione dell’«ovvio incremento di attività giudiziaria che discenderà da una fattispecie di
frequente realizzazione»350.
Non è facile per l’interprete tirare le somme del decennale bilancio di quiescenza dell’oltraggio e
stabilire se, a determinarne la rinascita, sia stato il constatato vuoto di tutela creatosi oppure la
percezione che l’attuale momento storico reclamasse un più energico e simbolico intervento a tutela
e sostegno dell’attività delle forze dell’ordine351.
Secondo una parte della dottrina, da sempre contraria alla permanenza nel nostro sistema penale del
delitto de quo, la sua reintroduzione, soprattutto se letta tenendo anche conto del progetto di legge
d’iniziativa governativa in cui è stato inserito successivamente il predetto reato - progetto che
contempla un notevole ampliamento dei poteri investigativi e d’impulso processuale della polizia
giudiziaria - sembra ispirarsi a due logiche di fondo: quella della restaurazione in senso autoritario
e illiberale del sistema penale e quella del ricorso “a norme manifesto” di forte impatto simbolico-
346 Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 170 del 24 luglio 2009 - Supplemento ordinario n. 128. Per un commento alla legge n. 94/2009 si rinvia a Zizanovich R., Le modifiche apportate al codice penale dalla l. 15 luglio 2009, n. 94, in Giur. Merito, 2009, 12, p. 2943 e ss. 347 Martiello G., La 'resurrezione' del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, in La nuova normativa sulla sicurezza pubblica, a cura di Giunta F., Marzaduri E., Giuffrè, Milano, 2010, p. 4-20; Scuto S., Il nuovo delitto di oltraggio a un pubblico ufficiale, in Il Penalista, Pacchetto sicurezza, 2009: nei lavori preparatori della XV Legislatura si rinviene il disegno di legge n. 2838 di iniziativa dei deputati Bertolini, Paoletti, Tangheroni, Licastro e Scardino con il quale s’intendeva reintrodurre il testo del vecchio oltraggio a p.u. antecedente all’intervento della Corte Costituzionale del 1999. 348 La procedibilità del reato è d’ufficio e la cognizione dello stesso è di competenza del Tribunale in funzione di giudice monocratico a seguito di citazione diretta. Non sono consentite le misure cautelari, mentre è possibile l’arresto in flagranza nella sola ipotesi aggravata conseguente all’offesa arrecata mediante attribuzione di un fatto determinato. 349 La nuova norma compare per la prima volta nel testo emendato approvato dal Senato il 5 febbraio 2009 - il comma 8, dell’art., infatti, 1 è stato introdotto nel corso dei lavori preparatori della Commissione giustizia del Senato - priva dell’ultimo comma, che è stato inserito successivamente dalla Camera dei deputati. Pasella R., Reintroduzione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, in “Sistema penale e sicurezza pubblica: le riforme del 2009: L. 15 luglio 2009, n. 94 e d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con modif., dalla L. 23 aprile 2009, n. 38” a cura di Corbetta S., Della Bella A., Gatta G.L.; introduzione di Dolcini E., Marinucci G., IPSOA, Milanofiori, Assago, 2009, p. 31; Scuto S., cit.,. 350 Amato G., Ritorna l’oltraggio a pubblico ufficiale, le modifiche apportate al codice penale dalla l. 15 luglio 2009, n. 94 in Guida al diritto, 2009, 33, p. 51 e ss. (il parere è consultabile sul sito www.consigliosuperioremagistratura.it ed in appendice al Il sistema di sicurezza pubblica, a cura di F. Ramacci, G. Spangher, Varese, Giuffrè, 2010) 351 Santoro V., Alcune considerazioni sul reato di oltraggio a pubblico ufficiale (legge 94/09), in www.ratioiuris.it
90
emotivo, “tutte volte a sedare il bisogno di sicurezza della comunità dei consociati”352. Si è detto,
infatti, che la volontà del legislatore di ripristinare la fattispecie di oltraggio costituisce un indice
rilevatore della cultura autoritaria con la quale si è voluto dare risposta all’istanza di maggiore
sicurezza proveniente dalla società353. L’uso simbolico del diritto penale, inoltre, emergerebbe
anche da due dati testuali, espressione di un’intrinseca contraddizione di cui è portatrice la
norma354: è apparso, infatti, irragionevole la scelta del Legislatore da un lato di prevedere una
minaccia di una pena detentiva grave, dall’altro di consentirne la sterilizzazione mediante il ricorso
ad una condotta risarcitoria, permettendo in tal modo di renderla ineffettiva nella maggior parte dei
casi355.
Secondo altra parte della dottrina356, invece, per comprendere le ragioni ispiratrici del nuovo art.
341bis c.p. è necessario contestualizzare il suo inserimento all’interno di un ambito più ampio. Il
solo esame dei lavori parlamentari357, infatti, non è di supporto all’interprete per comprenderne le
specifiche ragioni che hanno convinto il legislatore a rivedere, a distanza di dieci anni, la precedente
decisione di rinunciare ad una tutela speciale rafforzata dell’onore e del prestigio dei pubblici
ufficiali358.
La reintroduzione si porrebbe in linea con la specifica politica criminale che ha caratterizzato il c.d.
“Pacchetto Sicurezza”, che ha posto in primo piano la tutela della sicurezza pubblica attraverso il
ricorso allo strumento rappresentato dal diritto penale. Se si vuole, infatti, garantire l’incolumità dei
cittadini359 è necessario “riaffermare l’autorità dei paladini di pubblica sicurezza”360 e conferire
una tutela particolarmente forte alla dignità sociale “di tutti coloro che operano per la nostra
sicurezza”361 e che, nella concretezza di tutti i giorni, “nelle strade garantiscono legge ed
352 Flora G., Il redivivo oltraggio a pubblico ufficiale, cit, p. 1450. 353 In merito Padovani T., Art. 1, comma 8, in Commento al “Pacchetto sicurezza” l. 15 luglio 2009, n. 94, a cura di De Francesco G., Gargani A., Manzione D., Pertici A., Utet, 2011, p. 23, osserva che la reintroduzione dell’oltraggio, punito più severamente dell’ingiuria e perseguibile d’ufficio, “parrebbe costituire, almeno a prima vista, un deciso passo indietro, segnando il recupero di una concezione dei rapporti tra autorità ed individuo che non ha, e non dovrebbe avere più, alcun corso”; Scuto S., Il nuovo delitto di oltraggio a un pubblico ufficiale, in Il Penalista, Pacchetto sicurezza, 2009, secondo il quale si produce un effetto paradossale perché “quel cittadino bisognoso di sicurezza si trova dopo 10 anni dalla abrogazione del vecchio art. 341 c.p. ad essere ancora una volta protagonista di un rapporto con l’apparato statuale espressione della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra i pubblici ufficiali e i cittadini”. 354 Cfr. Gatta G.L., cit., p. 180. 355 Cfr. Gatta G.L., cit., p. 180. 356 Cfr. Gatta G.L., cit., p. 156 357 Cfr. Madeo A., cit., p. 221 358 Cfr.Amato G., cit., p. 51. 359 Cfr. Flora G., Il redivivo oltraggi, cit., p. 1449 360 Cfr. Gatta G., cit., p. 156. 361 Cfr. l’ntervento del sen. Gasparri (PdL) nella seduta del Senato del 14 gennaio 2009, p.28 del resoconto stenografico. I lavori parlamentari di seguito indicati nel corso della trattazione possono essere letti su www.camera.it e su www.senato.it . In questo senso cfr. Pasella R., Reintroduzione, cit., p. 31, osserva che il delitto ricompare nel contesto di un eterogeneo “pacchetto” normativo in tema di sicurezza pubblica nel cui contesto è chiamato a perseguire l’intento di “rafforzare la protezione, in particolare, di chi opera come tutore dell’ordine e della pace sociale”. Al riguardo,
91
ordine”362. La nuova previsione normativa, inoltre, ha il pregio di aver soddisfatto le istanze dei
rappresentanti delle forze dell’ordine363 che, nel corso delle audizioni in Parlamento, si sono
dichiarati favorevoli al reinserimento, anche perché ciò costituiva un significativo “riconoscimento
sociale del ruolo svolto”364. Ciò spiega il dato, da non trascurare, che nell’arco di tre distinte
legislature, dal 2002 al 2008, sono stati presentati in Parlamento ben diciassette disegni di legge
aventi ad oggetto il ripristino del delitto di oltraggio a p.u.365.
Pertanto, se è vero che la legislazione assolve il compito di orientare la vita della collettività,
l’intento del Legislatore andrebbe individuato nella volontà di favorire l’identificazione e
l’immedesimazione tra p.u. ed amministrazione, l’uno e l’altra espressione della comunità e,
pertanto, meritevoli di tutela, anche in sede penale366.
Al fine di dissipare le perplessità avanzate dall’orientamento in narrativa, contrario al reinserimento
del delitto de quo, in dottrina367 si è evidenziato, inoltre, che il nuovo art. 341 bis c.p. non
reintroduce la vecchia fattispecie disciplinata dall’abrogato art. 341 c.p., ma configura un nuovo
delitto. L’intendimento di marcare, anche sotto il profilo dell’immediata percepibilità, la differenza
però, Padovani T., cit., p. 23 rileva che sebbene è plausibile che quest’ultimo sia il motivo ispiratore della reintroduzione, è altrettanto indiscutibile che la nuova fattispecie assicura una tutela differenziata e più intensa al pubblico ufficiale, a prescindere dalla circostanza che egli sia impegnato o meno i attività di pubblica sicurezza: “in tal caso sarebbe logico aspettarsi il riferimento soggettivo non alla generica qualifica di pubblico ufficiale, ma alla specifica appartenenza dell’agente delle forze di polizia”. 362 Cfr. Intervento del sen. Gasparri (PdL) nella seduta del Senato del 2 luglio 2009, p. 18 del resoconto stenografico. 363 Cfr. Intervento dell’on. Santelli (PdL) nella seduta delle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera del 28 aprile 2009, p. 7 del resoconto stenografico, il quale evidenzia che quella approvata “è una norma attesa da anni delle forze dell’ordine”. Al riguardo Gatta G., cit., p. 157 evidenzia che non costituisce un caso la circostanza che nella reintroduzione del delitto de qua abbia avuto una parte incisiva – con la presentazione di un emendamento (il n. 1.200) all’originario disegno di legge n. S. 733, che non contemplava il delitto di oltraggio, poi ritirato in favore di un altro emendamento presentato dai relatori dello stesso d.d.l. (gli on. Vizzini e Berselli) e volto sempre alla reintroduzione del delitto di oltraggio - un deputato (sen. Saltamartini ) ex Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato, il quale nel corso del dibattito parlamentare ha sottolineato “l’importanza e la svolta storica che oggi, con questa votazione, il Parlamento della Repubblica compie in merito alla tutela istituzionale delle Forze di Polizia…; compiamo una svolta culturale sul piano giuridico e di politica del diritto una volta per tutte, comprendendo che la tutela della dignità delle funzioni delle forze dell’ordine e delle istituzioni nel nostro Paese merita la protezione di norme penali incriminatici” (Cfr. Intervento del sen. Saltamartini Gasparri (PdL) nella seduta del Senato del 14 gennaio 2009, p.18 del resoconto stenografico). 364 Cfr. Intervento dell’On. Tassone (UdC) nella seduta delle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera del 23 aprile 2009, p. 7 del resoconto stenografico. Si veda anche l’intervento del sen. Melis (PD) nella seduta delle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera del 22 aprile 2009, p. 7 del resoconto stenografico. In merito Scandone, cit., p. 461 sottolinea che traspare con forza il messaggio rivolto a tutti i p.u. di essere “efficiente ed irreprensibile espressione della Pubblica amministrazione”. 365 Per lo più da parte di esponenti dello stesso partito politico (Alleanza Nazionale) e, tranne che in un caso, sempre da parte di seponenti di partiti di centro-destra. Cfr. nella XIV Legislatura i progetti/disegni di legge nn. C. 2275 (on. Ascierto – AN); S. 2007 (sen. Salerno – AN); C. 6129 (on. Tarantino – AN); nella XV Legislatura i progetti/disegni di legge nn. C. 447 (on. Ascierto – AN); C. 568 (on. Salerno – AN); C. 678 (on. Pezzella – AN); C. 1522 (on Laurini – FI); S. 1575 (on. Saia – AN); C. 2838 (on. Bertolini – FI); nella XVI Legislatura i progetti/disegni di legge nn. C. 148 (on. Ascierto – PdL); C. 550(on. Bertolini – PdL); C. 793 (on. Napoli – PdL); S. 404 (sen. Sala – PdL); C. 1323 (on. Santelli – PdL); C. 1350 (on. De Corato – PdL); S. 992 (sen. Marino – PD); C. 1969 (on. Vietti UdC). 366 Scandone, cit., p. 461, secondo il quale l’amministrazione è espressione della comunità di cives al cui servizio si pone e, proprio per questo, non disponibile ad essere vilipesa a cagione di comportamenti devianti dei singoli. 367 Scandone, cit., p. 461
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con la precedente formulazione è probabilmente all’origine della scelta di inserire un nuovo e
diverso articolo nel codice penale, il 341 bis, in luogo di recuperare la numerazione precedente368.
Quest’ultimo indubbiamente per alcuni aspetti è simile al precedente (l’essenza della condotta tipica
rimane quella di chi offende l’onore e il prestigio del pubblico ufficiale), ma per altri si presenta
diverso in modo significativo (ovvero nella definizione dei suoi presupposti)369. Il legislatore ha
arricchito la descrizione del fatto tipico, sia inserendovi elementi costitutivi del tutto originali, sia
promuovendo a requisito della tipicità accadimenti che nella precedente formulazione integravano
mere circostanze aggravanti370. Attraverso tale operazione ha circoscritto l’ambito di applicazione
della norma prevedendo che la fattispecie si possa concretizzare solo qualora ricorrano una serie di
requisiti, quali quello del luogo pubblico o aperto al pubblico (circostanza oggettiva), la presenza di
più persone (anch'essa circostanza oggettiva che l’articolo 341 del c.p., invece, configurava come
mera aggravante), l'offesa dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale mentre compie un atto
d'ufficio ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni (circostanza temporale oggettiva ed anche
soggettiva). La tutela, pertanto, sembrerebbe approntata in riferimento non alla persona in quanto
tale, ma all’esercizio le sue funzioni.
Il legislatore, inoltre, ha stabilito il minimo edittale nella reclusione in misura inferiore a sei mesi,
adeguandosi alle indicazioni della Corte Costituzionale del 1994 ed evitando in tal modo di esporre
la norma a facili censure d’incostituzionalità. Da una prima lettura della norma emerge, pertanto,
che le critiche rivolte in passato sono state senza dubbio tenute in considerazione nella
conformazione del nuovo reato di oltraggio, che ha assunto la fisionomia di un illecito con
368 Manzione A., Le modifiche al codice penale, le nuove norme sulle armi e le disposizioni in materia di mafia, in AA.VV., Il pacchetto sicurezza 2009: guida alla legge 15 luglio 2009, n. 94, Maggioli, Rimini, 2009, p. 142 (Scandone, cit., p. 461) 369 In questo senso cfr. Padovani T., cit., p. 22, secondo il quale, inoltre, nel suo nuovo assetto il reato, se per un verso è in grado di superare, almeno in parte, le polemiche e le perplessità che a suo tempo determinarono l’abrogazione della fattispecie originaria, per un altro verso è destinato a suscitarne ulteriori. L’autore, inoltre, osserva che l’art. 341 bis c.p. introduce una speciale fattispecie di ingiuria aggravata, caratterizzata dalla previsione di elementi specializzanti (sia per specializzazione, sia per aggiunta) diversi da quelli che connotavano il rapporto tra gli artt. 341 e 594 c.p. In riferimento a quest’ultimo, infatti, si trattava di una specialità unilaterale per specificazione del soggetto passivo e dell’oggetto alternativo dell’offesa, il prestigio in luogo del decoro. Ricorreva, inoltre, un ulteriore elemento di specializzazione per aggiunta in quanto l’offesa dell’onore ed del prestigio in presenza del p.u. doveva essere commessa a causa o nell’esercizio delle funzioni. L’autore osserva che anche la nuova incriminazione risulta speciale rispetto all’ingiuria, ma in rapporto a profili diversi: l’offesa deve essere cumulativa e riguardare sia l’onore sia il prestigio (specialità alternativamente per aggiunta); al requisito che il fatto di oltraggio sia commesso a causa o nell’esercizio delle funzioni si affianca quello ulteriore costituito dall’attualità del compimento dell’atto d’ufficio da parte del p.u. La tutela differenziata si concentra, quindi, sulla contestualità tra offesa e manifestazione specifica della competenza funzionale in un atto ad esso relativo. La nuova fattispecie, infine, esige che l’offesa sia commessa “in luogo pubblico o aperto al pubblico”. 370 Martiello G., La 'resurrezione' del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, in La nuova normativa sulla sicurezza pubblica, a cura di Giunta F., Marzaduri E., Giuffrè, Milano, 2010, pp. 4-20.
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“spettatori necessari” ed in relazione al quale è stato previsto un duplice congegno di sostanziale
non punibilità (causa di non punibilità e causa di estinzione del reato)371.
Secondo alcuni la previsione di ulteriori e specifici elementi costitutivi della fattispecie
testimonierebbe la voluntas legis di recuperare, in sede di tutela penale, la centralità del carattere
plurioffensivo della condotta372, carattere che da un lato consente, in una prospettiva
costituzionalmente orientata, la qualificazione autonoma del titolo di reato e, dall’altro, sottolinea
come la ratio della reintroduzione vada rintracciata soprattutto nell’esigenza squisitamente
pubblicistica di garantire il regolare svolgimento dei compiti assegnati al pubblico ufficiale373. In tal
senso, infatti, è certamente vero che, come in passato, l’offesa deve ledere tanto l’onore che il
prestigio del pubblico ufficiale (oggetto dell’offesa deve dunque essere tanto la persona, quanto la
posizione che ricopre), ma la necessità che ciò avvenga in pubblico ed esclusivamente mentre il
pubblico ufficiale compie l’atto del suo ufficio è indicativa della volontà legislativa di sottolineare
come la previsione di una autonoma e più grave incriminazione dell’ingiuria rivolta al pubblico
ufficiale si giustifichi proprio in ragione della sua idoneità ad interferire con lo svolgimento della
pubblica funzione374.
La sopra evidenziata individuazione nell’ambito della norma di più stringenti requisiti di tipicità
consente di ridimensionare il rischio di un utilizzo strumentale ed autoritario dell’incriminazione e,
in sostanza, della costituzione di una posizione di assoluto e ingiustificabile privilegio in capo a chi
svolge pubbliche funzioni375.
In tal senso la necessità che l’offesa, non solo presenti un nesso funzionale con l’attività del
pubblico ufficiale (requisito previsto anche dall’abrogato art. 341 c.p.), ma, altresì, sia rivolta a
quest’ultimo nell’atto dell’adempimento del suo dovere, appare estremamente indicativa376, come è
significativo l’inserimento del requisito della presenza di più persone. Quest’ultima previsione
produce, altresì, degli effetti in ambito processuale perché consente ai soggetti che possano avere
assistito al fatto oltraggioso d’intervenire come testimoni nel processo. La prova non è più, quindi,
rimessa all’unilaterale, benché attendibile, dichiarazione del pubblico ufficiale che si asserisce
offeso, ma è soggetta ad un riscontro in termini affermativi o negativi di quanto sostenuto dal
medesimo.
Indubbiamente il ripristino dell’oltraggio sana quel disallineamento creato dall’intervento
abrogativo, per cui erano rimaste in vita, senza alcuna valida giustificazione logica e di politica
371 Cfr. Santoro V., cit.. 372 Cfr. Scandone, cit., p. 461. 373 Cfr. Amato G., cit., p. 51. 374 Cfr. Amato G., cit., p. 51. 375 Cfr. Relazione al progetto di legge; Madeo A., cit., p. 222 376 Relazione; Madeo A., cit., p. 222
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criminale, solo alcune ipotesi di oltraggio377. In riferimento a quest’ultime, però, è doveroso
ricordare che secondo alcuni autori la differente struttura oggettiva prevista dall’art. 341 bis c.p.
rispetto all’art. 341 c.p. ne rende impossibile la qualificazione come ipotesi generale rispetto a
quelle contemplate agli artt. 342 e 343 c.p., comportando, altresì, anche la produzione di alcune
questioni di coerenza e sistematica legislativa378. In primo luogo si pone il problema del rinvio
operato dall’ultimo comma dell’art. 342 c.p., secondo il quale “si applica la disposizione dell'ultimo
capoverso dell'articolo precedente”, e che, originariamente, si riferiva alle circostanze aggravanti
del “fatto commesso con violenza o minaccia” ovvero “dell'offesa recata in presenza di una o più
persone”. La dottrina ha sollevato dei dubbi in ordine alla sopravvivenza delle predette circostanze
aggravanti a seguito dell’eliminazione dell’art. 341 c.p. Secondo alcuni la lettera della legge
imporrebbe di considerare abrogata tacitamente la norma in parte qua, anche perché il nuovo
oltraggio a p.u. da un lato non ripropone espressamente l’aggravante della violenza o minaccia,
dall’altro ha incluso tra gli elementi costitutivi del fatto tipico la presenza di più persone379.
L’accoglimento di questa impostazione, però, evidenzia un ulteriore profilo d’irragionevolezza:
mentre, infatti, la predetta circostanza aggravante è stata implicitamente abolita per l’art. 342 c.p.
(attesa l’abrogazione dell’art. 341 c.p.), continua ad essere, invece, contemplata dall’art. 343 c.p.
Ciò comporta che un sistema che, secondo l’impianto originario, era strutturato su una fattispecie
generale e due speciali, risulta profondamente mutato, in quanto le fattispecie attualmente si
presentano una diversa dall’altra, nonostante la medesima ratio ed il comune bene giuridico380.
A tale incongruenza, inoltre, se ne somma un’altra derivante dalla riformulazione del delitto de quo:
al fine di assicurare un maggior coordinamento e razionalità del predetto sistema, infatti, sarebbe
stato opportuno estendere anche alla fattispecie di cui all’art. 343 c.p. la prova liberatoria e la
possibilità di riparare il danno381.
Così come riproposta, inoltre, la fattispecie costituisce anche un novum all’interno del sistema
penale europeo. In una prospettiva comparatistica con i principali ordinamenti europei di civil law,
infatti, occorre ricordare che mentre nell’ordinamento penale tedesco e spagnolo non è prevista una
disciplina specifica dell’oltraggio, solo in quello francese, di derivazione del Codice Napoleonico, è
possibile rinvenire una fattispecie ad hoc382.
377 Cfr. Scandone G., cit., p. 461. 378 Cfr. Madeo A., cit., p. 241. 379 Cfr. Madeo A., cit., p. 241; Perdonò, p.641. 380 Cfr. Madeo A., cit., p. 242. 381 Cfr. Madeo A., cit., p. 241, secondo il quale l’aver il legislatore trascurato di estendere alla suddetta fattispecie la prova liberatoria e la possibilità di riparare il danno deve intendersi come “un’occasione mancata”. 382 Per un approfondimento si rinvia a Perdonò, cit., p. 673 ss.
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Nel sistema penale tedesco383, infatti, analogamente a quello italiano, sono sanzionate sia l’ingiuria,
sia la diffamazione, ma non è possibile rinvenire una disciplina specifica per l’oltraggio. Una
fattispecie analoga può rinvenirsi nell’art 187 a) del codice penale (StGB)384 che costituisce
un’ipotesi specifica della diffamazione e della menzogna diffamatoria385 e che, per l’appunto,
punisce la diffamazione e menzogna diffamatoria contro personaggi della vita politica per motivi
connessi alla posizione dell’offeso nella vita pubblica, a fronte della quale è ammessa peraltro la
prova liberatoria386, salvo che la sussistenza dell’ingiuria dipenda dalla forma dell’affermazione,
cioè dalle espressioni usate387.
Anche nel codice penale spagnolo è prevista la sola fattispecie dell’ingiuria388. La tutela nei
confronti del p.u., inoltre, è meno incisiva rispetto a quella approntata dal c.p. italiano, perché la
prova liberatoria è ammessa solo quando le offese sono rivolte contro pubblici funzionari per fatti
relativi all’esercizio dei loro incarichi (art. 210 codice penale spagnolo)389.
383 Nell’ordinamento tedesco sono sanzionate sia l’ingiuria (art. 185 L’ingiuria è punita con la pena detentiva fino ad un anno o con la pena pecuniaria; quando è commessa con atto, è punita con la pena detentiva fino a due anni o con la pena pecuniaria), sia la diffamazione (art. 186 Chiunque, comunicando con altri, afferma o divulga un fatto idoneo a denigrare una persona a svalutarla di fronte all’opinione pubblica, se il fatto non è notorio e vero, è punito con la pena detentiva fino ad un anno o con la pena pecuniaria; se l’azione è commessa pubblicamente o mediante la diffusione di scritti (§ 11, 3° co.). in merito AA.VV., Il codice penale tedesco, a cura di Vinciguerra S., II ed., Padova, 2003. 384 187a Diffamazione e menzogna diffamatoria contro personaggi della vita politica – Se pubblicamente, in una riunione o tramite la diffusione di scritti (§ 11, 3° co.), viene diffamata (§ 186) una persona impegnata nella vita politica, per motivi connessi alla posizione dell’offeso nella vita pubblica, e l’azione è idonea a pregiudicarne in maniera rilevante l’agire pubblico, si applica la pena detentiva da tre mesi a cinque anni. Ricorrendo questi stessi presupposti, la menzogna diffamatoria (§ 187) è punita con la pena detentiva da sei mesi a cinque anni . 385 187 Menzogna diffamatoria – Chiunque, comunicando con altri, afferma o divulga in mala fede un fatto non vero, idoneo a denigrare un’altra persona o a svalutarla di fronte all’opinione pubblica od a mettere in pericolo la sua reputazione, è punito con la pena detentiva fino a due anni o con la pena pecuniaria; se l’azione è commessa pubblicamente, in una riunione o tramite diffusione di scritti (§ 11, 3° co.), l’agente è punito, con la pena detentiva fino a cinque anni con la pena pecuniaria. 386 190 Prova liberatoria tramite sentenza penale – Se il fatto affermato o divulgato è un reato, la prova liberatoria deve considerarsi fornita, quando l’offeso sia stato condannato per esso con sentenza definitiva. La prova liberatoria è, invece, esclusa quando l’offeso sia stato definitivamente assolto prima dell’affermazione o della divulgazione. 387 192 Ingiuria nonostante prova liberatoria – La prova della verità del fatto affermato o divulgato non esclude la punizione ai sensi del § 185, quando la sussistenza dell’ingiuria dipende dalla forma dell’affermazione o divulgazione, ovvero dalle circostanze in cui esse sono avvenute. 199 Ingiurie reciproche – Se l’ingiuria viene ricambiata nell’immediatezza del fatto, il giudice può dichiarare non punibili entrambi gli offensore o uno di essi. 388 208 – L’ingiuria consiste nell’azione o nell’espressione che lede la dignità altrui, menomando la sua reputazione o attentando al suo onore. Costituiscono delitto solamente le ingiurie che, per loro natura, effetti o circostanze, sono ritenute gravi nell’opinione pubblica. Le ingiurie che consistono nell’attribuzione di fatti non si considerano gravi tranne quando sono poste in essere conoscendone la falsità o con temerario disprezzo della verità. 209 – Le ingiurie gravi arrecate pubblicamente sono punite con una multa da sei a quattordici mesi e, negli altri casi, con la multa da tre a sette mesi. 389 210 – il soggetto accusato di ingiuria va esente da pena se prova la verità delle attribuzioni quando esse sono dirette contro pubblici funzionari per fatti relativi all’esercizio dei loro incarichi o riferiti alla commissione di contravvenzioni penali o di infrazioni amministrative.
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La previsione contenuta nel sistema penale francese, invece, rivela la comune origine (il Codice
Napoleonico) delle due incriminazioni: l’art. 433-5390 del codice penale contempla, infatti, la
disciplina391 dell’oltraggio a persona incaricata di una missione di pubblico servizio, nell’esercizio o
in occasione dell’esercizio della sua missione, e di natura tale da attentare alla sua dignità o al
rispetto dovuto alla funzione di cui è investita, che si aggrava se i fatti sono commessi contro una
persona depositaria della pubblica autorità, ovvero all’interno di un edificio scolastico o educativo,
ovvero ancora in riunione. In merito va rilevato che in questo caso la norma specifica chiaramente
che la tutela è approntata solo in quanto l’offesa è di tale gravità da attentare alla dignità o al
rispetto dovuto alla funzione di cui il p.u. è investito e non in riferimento alla persona, per la quale
residua l’applicazione dell’ingiuria “semplice”.
Per quanto, infine, attiene ai profili di diritto temporale, indubbiamente il principio d’irretroattività
delle norme penali sfavorevoli all’agente (artt. 25, comma 2, Cost. e 2, comma 1, c.p.) impedisce
l’applicazione della nuova norma incriminatrice dell’oltraggio a p.u. ai fatti commessi prima
dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009.
Quei fatti, pertanto, continueranno ad essere puniti (con una pena ed un trattamento giuridico
complessivo molto più mite) come ingiurie aggravate dalla presenza di più persone e dalla qualifica
213 – Se la calunnia o l’ingiuria sono state commesse per un prezzo, una ricompensa od una promessa, i tribunali applicano, oltre alle pene previste per i delitti di cui trattasi, l’inabilitazione speciale di cui agli articoli 42 o 45 del presente codice, per la durata di sei mesi a due anni. 214 – Se l’accusato di calunnia o di ingiuria riconosce davanti all’autorità giudiziaria la falsità o l’incertezza delle attribuzioni e se le ritratta, il giudice o il tribunale applicano la pena di grado immediatamente inferiore e se può non applicare la pena dell’inabilitazione stabilita dal precedente articolo. Il giudice o il tribunale davanti al quale si effettua tale riconoscimento ordinano che la documentazione della ritrattazione sia consegnata alla parte offesa e, se questa lo richiede, ne ordinano la divulgazione nello stesso mezzo in cui fu inserita la calunnia o l’ingiuria,nello stesso spazio o in un altro analogo a quello in cui fu inseritavene diffusa, entro il termine indicato dal giudice o dal tribunale che emette la sentenza. 390 Articolo così modificato dall’art. 17, l. 22-7-96, n. 96-647 e successivamente dall’art. 45, l. 9-9-2002, n. 2002-1138 391 433-5 Dell’oltraggio - Costituiscono un oltraggio punito con 7.500 euro d’ammenda le parole, gesti, o minacce, scritti o immagini di ogni tipo, non resi pubblici o l’invio di oggetti qualsiasi indirizzati ad una persona incaricata di una missione di pubblico servizio, nell’esercizio o in occasione dell’esercizio della sua missione, e di natura tale da attentare alla sua dignità o al rispetto dovuto alla funzione di cui è investita. Allorché il fatto è rivolto a una persona depositaria della pubblica autorità, l’oltraggio è punito con sei mesi di reclusione e 7.500 euro di ammenda. Allorché è rivolto ad un persona incaricata di un pubblico servizio e i fatti siano stati commessi all’interno di un edificio scolastico ed educativo, o in occasione delle entrate o delle uscite degli allievi, o nei pressi di tale edificio, l’oltraggio è punito con sei mesi di reclusione e 7.500 euro di ammenda. Allorché è commesso in riunione, l’oltraggio previsto al primo comma è punito con sei mesi di reclusione e 7.500 euro di ammenda, l’oltraggio previsto al secondo comma è punito con un anno di reclusione e 15.000 euro di ammenda. 433-22 Pene accessorie e persone morali – le persone fisiche colpevoli di una delle infrazioni previste nel presente capitolo incorrono egualmente nelle pene accessorie seguenti: 1° L’interdizione dei diritti civici, civili e di famiglia, secondo le modalità previste dall’art. 131-26; 2° L’interdizione, per la durata massima di cinque anni, dall’esercizio di una funzione pubblica o di un’attività professionale o sociale nell’esercizio o in occasione dell’esercizio della quale l’infrazione è stata commessa; 3° l’affissione o la diffusione della decisione pronunciata a causa nelle condizioni prevista dall’art. 131-35.
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di p.u. propria della persona offesa (artt.594 comma 4 e 61 n.10 c.p.), se questa era presente al
momento della commissione del reato392.
In via di principio occorre precisare che, in base all’art. 2, comma 4 c.p., l’oltraggio a pubblico
ufficiale può trovare applicazione retroattiva solo qualora comporti, in concreto, una disciplina più
favorevole al reo. Dalla lettura della norma emerge che in realtà residua, sebbene limitato, uno
spazio per questa ipotesi che, ovviamente, non riguarda il trattamento sanzionatorio (ben più aspro è
quello previsto dall’art 341-bis c.p.), bensì la disciplina della prova liberatoria e delle cause di non
punibilità.
In primo luogo, infatti, in caso di attribuzione di un fatto determinato, la sopravvenuta disciplina
dell’exceptio veritatis prevista dall’art. 341 bis, comma 2 c.p. può risultare in concreto più
favorevole di quella di cui all’art. 596, commi 3 e 4 c.p. Come sarà spiegato nel proseguo della
trattazione, l’ambito entro cui rileva la prova della verità del fatto attribuito al p.u. è più ampio nel
nuovo art. 341 bis, comma 2. c.p., che, invece, non richiede, diversamente da quanto avviene
nell’art. 596 commi 3 e 4 c.p. per ingiuria e diffamazione, che i modi usati per l’attribuzione del
fatto medesimo non integrino di per sé una condotta oltraggiosa.
Inoltre qualora il p.u. abbia dato causa alla commissione del fatto offensivo del suo onore e del suo
prestigio, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni, la disciplina sopravvenuta,
prevista dall’art. 393 bis c.p. – che si applica ai fatti di oltraggio a p.u. e non anche a quelli
d’ingiuria e di diffamazione a danno di p.u. – può rivelarsi in concreto più favorevole al reo
(qualora non operi già l’esimente della provocazione di cui all’art. 599 c.p.) perché ne esclude la
punibilità, e potrà pertanto trovare applicazione retroattiva.
In caso di risarcimento del danno stragiudiziale393 potrà, infine, risultare più favorevole al reo la
sopravvenuta disciplina della causa di non punibilità prevista dall’art. 341 bis, comma 3 c.p., nella
parte in cui, a differenza di quella prevista dall’art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000, non subordina la
pronuncia della sentenza di estinzione del reato alla valutazione discrezionale del giudice relativa
all’idoneità delle condotte risarcitorie a soddisfare “le esigenze di riprovazione del reato e quelle di
prevenzione”. Si precisa, però, che qualora quel giudizio dovesse essere positivo, il giudice non
dovrebbe applicare la disciplina sopravvenuta di cui all’art. 341 bis, comma 3 c.p., poiché in tale
ipotesi questa risulterebbe più sfavorevole, atteso che, come si avrà modo di analizzare
392 Gatta G.L., cit., p. 185 specifica, altresì che i fatti di oltraggio commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 saranno, invece, puniti a titolo di diffamazioni aggravate perché commesse a danno di p.u. (artt. 595, 61 n.10 c.p.), se questo era invece assente al momento della commissione del reato (come nell’ipotesi, sopra considerata, dell’offesa recata all’interno di una sala d’aspetto nei confronti del p.u. che, in una stanza adiacente, sta compiendo un atto del suo ufficio) – ciò, beninteso, qualora si accolga la soluzione interpretativa secondo cui la presenza del p.u. non è requisito per la configurabilità del delitto in esame. 393 Cioè prima dell’udienza di comparizione davanti al giudice di pace , competente a giudicare dei delitti d’ingiuria e diffamazione aggravati ex art. 61 n. 10 c.p.
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successivamente, richiede che il risarcimento venga effettuato nei confronti sia del p.u. sia dell’ente
di appartenenza.
I SOGGETTI ED IL BENE GIURIDICO TUTELATO Analogamente a quanto disposto dall’art. 341 c.p. (vecchia formulazione), soggetto attivo del reato
può essere chiunque e, dunque, al pari degli altri reati di oltraggio previsti nel codice (artt. 342 e
343 c.p.), il delitto è comune e non proprio394. Si è osservato, infatti, che la collocazione della
norma de qua nell’ambito del Capo II del Titolo II “Reati dei privati contro la pubblica
amministrazione”395 significa solamente che il l’agente non deve rivestire una particolare qualifica
giuridica, come, invece, avviene per le ipotesi disciplinate dal Capo I, senza per questo esigere, al
contrario, che lo stesso non debba rivestirne alcuna396.
394 Aprile E., cit. p. 580; Manzini V., cit., p. 505; Migliori P., cit., p. 915; Grosso C.F., cit., p. 306; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 2; Riccio S., cit., p. 828; Sisti U., cit., 264. Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 852 chiarisce che costituirà oltraggio l’offesa rivolta da un membro di un corpo politico, amministrativo o giudiziario, ad un altro membro dello stesso corpo (art. 341 c.p.), ovvero all’intero corpo nella sua globalità (art. 342 c.p.) (in argomento, v. Giustapane, op. cit.,p. 666 ss.; contra, Cass. 19 novembre 1960, in Giust. pen., 1961, II, 775) e che la qualità di militare nel soggetto attivo e passivo comporta l’applicazione delle corrispondenti disposizioni militari (art. 189 e 196 c.p. mil. p.) anche se queste ultime contemplano una fattispecie non interamente coincidente con quella dell’oltraggio. Ciò nondimeno, le norme militari, a causa della peculiarità degli interessi e delle esigenze emergenti nell’ordinamento militare e riflessi nelle norme penali sembrano prevalere in ogni caso su quelle comuni (in argomento, v. Giustapane, op. cit., p.666 ss.; contra, Cass. 19 novembre 1960, in Giust. pen., 1961, II, 775), compresa l’ipotesi in cui l’offesa sia connessa ad attività non propriamente militari, come potrebbe essere la funzione di polizia giudiziaria (Nel caso di offesa recata ad un superiore a causa delle funzioni di polizia giudiziaria, la Cassazione ha ritenuto applicabile la norma militare - Cass., sez. un., 13 maggio 1972, in Giust. pen., 1973, III, 234; Cass., sez. un. 22 ottobre 1977, ivi, 1978, II, 160, m. 178 - adeguandosi così all’opinione del Tribunale supremo militare - Trib. supr. mil. 12 marzo 1968, in Riv. pen., 1969, II, 733 - e della dottrina – Manzini V., cit., 507; Maggiore R., Concorso di norme in tema di resistenza o oltraggio a pubblico ufficiale e di insubordinazione, in Giur. it., 1972, II, 297). Nel caso di offesa recata ad un inferiore è stato ammesso il concorso formale tra l’art. 341 c.p. e l’art. 196 c.p. mil.. p. (Cass., sez. un., 30 maggio 1959, in Giust. pen., 1960, II, 97).). Per un analisi delle figure particolari con soggetto attivo qualificato si rinvia anche a Manzini V., cit., p. 507 e ss.; Pagliaro Oltraggio, cit., p. 3; Riccio S., cit., p. 828. 395 Sono sorte delle disquisizioni in riferimento alla collocazione delle summenzionate ipotesi delittuose nell’ambito del Capo II del Titolo II “Reati dei privati contro la pubblica amministrazione” 396 Sul punto: Scandone, cit., p. 464. Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 2; Pagliaro A., Parodi Giustino M., Principi di diritto penale, Parte speciale, Delitti contro la Pubblica amministrazione, I, Milano, Giuffrè, 2008, p. 450, secondo il quale non rileva se offeso ed offensore appartengono ad uffici diversi o allo stesso ufficio. Secondo, invece, Manzini V., cit., p. 506, nel caso in cui l’offensore è il pubblico ufficiale è necessario operare alcune distinzioni: solo se offeso ed offensore attendono a compiti diversi l’oltraggio si potrebbe configurare in ogni caso; se, invece, appartengono allo stesso ufficio o comunque collaborano per uno scopo pubblico, non sarebbe possibile l’oltraggio quando l’offensore è un superiore gerarchico o un pari grado dell’offeso. A questa opinione ha aderito parte della giurisprudenza: Cass. pen., III sez., 22 novembre 1963, in Cass. pen. Mass., 1964, p. 311. Secondo Pagliaro A., Oltraggio, cit., invece, tale indirizzo è contraddetto dalla lettera degli artt. 342 e 343 c.p. - a norma dei quali l’oltraggio può essere commesso da chiunque – e, soprattutto, l’argomento addotto a suo sostegno, ovvero che l’autorità non può offendere se stessa, è privo di fondamento. Secondo l’autore “non si tiene conto del fatto che quel turbamento emotivo del funzionario, che la norma sull’oltraggio mira a prevenire, può essere cagionato anche da altro funzionario pubblico: anche se, per essere sentita come offesa al prestigio del funzionario, l’espressione linguistica impiegata deve avere, se proviene da un collega e da un superiore, un contenuto marcatamente più ingiurioso che negli altri casi. In punto di fatto, poi, si potranno verificare con maggiore probabilità i presupposti di cause (eventualmente putative) di esclusione del reato, come l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere”. Nello stesso senso Levi N., cit., p. 425; Maggiore G., cit., 205; Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 852; Riccio S., cit., p. 828; Sisti U., cit., 264; Vannini O., cit., p. 8 e ss. In giurisprudenza Cass. pen., sez. VI, 12 marzo 1974, in Giust. pen., 1975, II, p. 229; Cass. pen., sez. V, 8 marzo 1971, in Giust. pen., 1972, II, p. 213.
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Nella locuzione “chiunque”, pertanto, sono ricompresi non solo i privati cittadini397, ma anche i
pubblici ufficiali, i pubblici impiegati, gli incaricati di pubblico servizio, ecc398. Di conseguenza si
potrà avere oltraggio commesso da un pubblico ufficiale sia nei confronti di un pari grado399; di
grado inferiore400 ovvero di un superiore401.
Occorre, però, segnalare che durante la vigenza della precedente formulazione un indirizzo
dottrinario, muovendo dalla premessa che “l’autorità non può offendere se stessa”402, ha negato la
configurabilità dell’oltraggio fra pari grado403 e, nel caso di offesa del superiore all’inferiore, ha
ipotizzato il reato di abuso generico di potere (vecchia formulazione dell’abuso d’ufficio) anziché
quello più grave di oltraggio404. Al riguardo, si è osservato405 che l’art. 341 c.p. non tutela né il
generico principio di autorità né tanto meno il principio gerarchico, bensì il prestigio e il regolare
397 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 852, ricorda che muovendo dalla premessa che l’insulto consiste contenutisticamente in un giudizio di valore (cfr. Grispigni, op. cit., p. 267) si è concluso che le espressioni obiettivamente offensive, provenienti però da un soggetto incapace, non possono costituire il fatto di oltraggio perché idonee a determinare il tipico risultato offensivo, che è caratteristica conseguenza esclusivamente di un giudizio valutativo psicologicamente valido (in tal senso, con riferimento soprattutto alla specifica ipotesi di incapacità dovuta ad ubriachezza volontaria o colposa , che non esclude l’imputabilità, v. Rampioni, Ubriachezza e condotta ingiuriosa, in Riv. It. dir. proc.. pen., 1975, 350 ss; Vannini, Quid iuris?,VII, cit.,14 ss.; contra, v. Riccio, I delitti, cit., 563). L’autore, però, evidenzia che “tale soluzione, che evidentemente risente dell’antica concezione psicologica dei reati contro l’onore, non pare tenga nel debito conto come sia possibile una partecipazione cosciente e volontaria alla formulazione e all’espressione dell’offesa anche da parte di un soggetto incapace, che riveli proprio in quel fatto la sua personalità socialmente pericolosa”. 398 Cfr. in giurisprudenza Cass., sez. VI, 26 ottobre 1982, Fortino, in Cass. Pen., 1984, p. 305 secondo la quale la locuzione " chiunque " è adoperata dall'art. 341 c.p. per indicare che offensore e responsabile della violazione può essere qualunque persona, sia o non sia pubblico ufficiale. È pertanto giuridicamente possibile la realizzazione dell'azione tipica anche ad opera di altro pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio; Cass., sez. VI, 9 giugno 1988, Ciurleo, in Cass. pen. 1990, I,1490 (s.m.) secondo la quale nel reato di oltraggio a pubblico ufficiale il soggetto attivo può essere un pubblico ufficiale e, tra essi, il superiore nei confronti dell'inferiore; Cass. pen., sez. VI, 28 aprile 1998, Paone, in Guida al dir. 1998, n. 44, p. 106; Cass. 3 marzo 1962, in Giust. pen., 1963, II, 58. In dottrina Grispigni, I delitti contro la pubblica Amministrazione, Roma, 1953, 265 s.; Granata, Oltraggio e resistenza fra pubblici ufficiali e limiti della podestà disciplinare, in Riv. Pen., 1933, 147 ss.; Maggiore, Diritto penale, II, t. i, cit., 205; Marucci, Oltraggio fra pubblici ufficiali, in Riv. Pen., 1955, II, 611; Riccio, op. ult. cit., 556; Santoro, op. cit., II, 356; Sisti, Oltraggio a un pubblico ufficialeo a un pubblico impiegato, in Enc. Forense,V, 1960, 262 s.; Vannini, Manuale di diritto penale italiano, pt.s. I singoli delitti e le singole contravvenzioni, Milano, 1954, 76. Giova sottolineare, inoltre, che si è anche ritenuto che l’oltraggio commesso dal pubblico ufficiale debba essere aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 9 c.p.: v. Catalani, I delitti contro la pubblica amministrazione (artt. 314-360 c.p.), Commento teorico-pratico con annotazioni di giurisprudenza, Firenze, 1971, 194. 399 Madeo A., cit., p. 221; Migliori P., cit., p. 915. Cass. 28 aprile 1998, Paone secondo la quale si ha oltraggio commesso da un docente nei confronti di un collega durante lo svolgimento di un consiglio di classe. 400 Migliori P., cit., p. 915; Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 852. 401 In questo senso Pagliaro, 376; Palazzo, Oltraggio, cit., p. 852; Fiandaca G. Musco E., p. 223. Contra anche Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte speciale. II, XI ed. a cura di Conti L., Milano, Giuffrè, 1995, p. 356 e ss.; Manzini V., p. 506, se l’offensore è superiore dell’offeso l’oltraggio è escluso quando l’offesa dipenda da cause inerenti all’ufficio: in tal caso si potrà avere il delitto di abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. nello stesso senso Sisti U., cit., 262. In giurisprudenza si rinvia a Cass. 22 novembre 1963, che esclude l’oltraggio quando l’offesa promanante dal superiore dipenda da cause inerenti l’ufficio, potendosi nel caso avere abuso d’ufficio. Sull’argomento De Fina S., Il rapporto organico di sopraordinazione ed il reato di oltraggio, in Giur. merito, 1969, II, p. 421. 402 Manzini V., cit., p. 505. 403 Manzini V., cit., p. 506; Ranieri, Manuale di diritto penale, II, pt. S., Padova, 1962, 278, anche se non incondizionatamente. 404 Antolisei, op. cit., II, 771; Levi, op. cit. , 426; Manzini V., cit., p. 506, V, 467 s.; Migliori, Pubblica Amministrazione (Delitti dei privati contro la), in N. D. I., X, 1939, 915; Ranieri, op. cit. ,II, 278. 405 Cfr. Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 852; Riccio S., cit., p. 828.
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esercizio della funzione pubblica. Da ciò ne discende che l’oltraggio può commettersi non solo inter
pares406, ma anche da parte del superiore nei confronti dell’inferiore407, poiché i particolari rapporti
intercorrenti tra i soggetti non ostano al verificarsi dell’offesa tipica del reato. Quando l’agente è un
superiore gerarchico, infatti, non si può non riconoscergli un potere disciplinare nei confronti del
subordinato; potere che può estrinsecarsi in un richiamo verbale o, nei casi previsti dalla legge,
nell’inizio di un procedimento disciplinare408. In tutte queste ipotesi l’esercizio del predetto potere
non consente al soggetto più elevato in grado di ledere il prestigio del sottoposto con un
comportamento in contrasto con la civile convivenza e l’educazione, anche se l’offesa sia stata
determinata da ragioni di ufficio409.
Prodromica all’individuazione del soggetto passivo è, poi, l’identificazione dell’oggetto specifico di
tutela. La dottrina, all’indomani dell’introduzione della nuova norma, ha convenuto con
l’orientamento precedente410 asserendo, in considerazione del carattere accentuatamente pubblico
della tutela, che sia costituito dal prestigio e dal normale funzionamento della Pubblica
amministrazione in senso lato411.
Secondo quest’orientamento e come già sottolineato, peraltro, dalla dottrina in passato, lo Stato e gli
altri enti pubblici possono agire soltanto attraverso le persone fisiche loro legate da un rapporto di
servizio. Di conseguenza, la contumelia rivolta a queste ultime, mentre compiono un atto di ufficio
e a causa o nell’esercizio delle funzioni, investe direttamente lo Stato o l’ente pubblico di cui sono
emanazione412.
La norma, inoltre, garantisce il regolare svolgimento dei compiti assegnati al pubblico ufficiale,
apprestando un presidio penale anche rispetto all’ipotesi, eventuale, del turbamento psicologico che
406 V. in particolare Miglioli, L’oltraggio del superiore (P.U.) in danno dell’inferiore (P.U.), in Riv. Pen., 1955, II, 929; Riccio S., cit., p. 828. Cass. 8 marzo 1971, in Giust. pen., 1972, II, 213, m. 286. 407 V. in particolare Miglioli, L’oltraggio del superiore (P.U.) in danno dell’inferiore (P.U.), in Riv. Pen., 1955, II, 929; Riccio S., cit., p. 828. Cass. 8 marzo 1971, in Giust. pen. , 1972, II, 213, m. 286. 408 Durante la vigente della precedente formulazione Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 852, ha sottolineato che anche “nel caso in cui l’agente sia dotato di un vero e proprio ius corrigendi nei confronti dell’inferiore, l’ipotizzabilità del reato di abuso generico appare piuttosto improbabile a chi non riecheggi la vecchia teoria del fine antisociale (cfr. De Fina, Il rapporto organico di sopraordinazione ed il reato di oltraggio, in Giur. Merito, 1969, II, 42): invero, il comportamento ingiurioso obiettivamente abusivo o costituisce un eccesso colposo nell’esercizio dello ius corrigendi, come tale non punibile, nel caso in cui l’agente non abbia avuto consapevolezza della sproporzione tra la mancanza e il rimprovero; ovvero, nel caso in cui egli abbia agito dolosamente, detto comportamento presenta tutti gli estremi dell’oltraggio” 409 Aprile E., cit., p. 580; Riccio S., cit., p. 829. In giurisprudenza: Cass., sez. VI, 30 ottobre 1989, Interlandi, in Cass. pen. 1991, I,1055 (s.m.). 410 Manzini V., cit., p. 506; Migliori P., cit., p. 915; Riccio S., cit., p. 828; Sisti U., cit., 263. 411 Pagliaro A., Parodi Giustino M., Principi di diritto penale, cit., p. 447, secondo il quale la tutela del prestigio, sia pure indirettamente, giova al buon andamento della Pubblica amministrazione; Madeo A., cit., p. 223; Scandone, cit., p. 462. In giurisprudenza cfr. Cassazione penale, sez. VI, 24 ottobre 1978, Tarlao, in Cass. pen. 1981, p. 45, secondo la quale la norma di cui all'art. 341 c.p. mira a salvaguardare attraverso la tutela dell'onore e del decoro della persona che, investita di pubbliche funzioni, agisce quale organo della pubblica amministrazione, il prestigio e l'autorità della stessa pubblica amministrazione. 412 Scandone, cit., p. 462; Madeo A., cit., p. 223
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potrebbe assalirlo se oggetto di offese nel contesto soprarichiamato, turbamento potenzialmente
foriero di un nocumento alla sua capacità analitica, valutativa, decisionale ed operativa, e tale da
comportare il rischio che venga compromesso il buon andamento della Pubblica
amministrazione413.
Accanto a tale oggetto specifico di tutela, nel suo duplice atteggiarsi, il reato protegge anche l’onore
del pubblico ufficiale414, considerato in questo caso come individuo e, quindi, nella medesima
logica sottesa al delitto d’ingiuria415.
Il delitto in esame ha, quindi, natura plurioffensiva416, perché, si ribadisce, offende sia il prestigio
ed il normale funzionamento della pubblica amministrazione, sia l’onore ed il prestigio del pubblico
ufficiale417, ne consegue che sotto il profilo processuale gli avvisi di legge devono essere inviati
tanto al pubblico ufficiale destinatario diretto dell’offesa, quanto all’amministrazione di
appartenenza, in qualità di persone offese418. Tali conclusioni sono avvalorate anche dal disposto
del terzo comma dell’art. 341 bis c.p., che prevede una causa estintiva del reato quando l’agente
risarcisce il danno, sia all’oltraggiato sia all’amministrazione di appartenenza419.
In riferimento al soggetto passivo (immediato), il pubblico ufficiale, a cui è diretta, in termini
fenomenologici, l’offesa, occorre, inoltre, effettuare alcune precisazioni.
In primo luogo la riformulazione della fattispecie ha riguardato il solo pubblico ufficiale, cioè,
secondo la definizione data dall’articolo 357 del c.p., colui che esercita una pubblica funzione
legislativa, giudiziaria o amministrativa420. Non è stata introdotta un’analoga tutela nei confronti di
413 Pagliaro A., Parodi Giustino M., Principi di diritto penale, cit., p. 447; Scandone, cit., p. 462; Pasella, Reintroduzione, p. 37; Contra Gatta, cit., p. 163; Madeo A., cit., p. 223 e Flora G., Il redivivo oltraggio a pubblico ufficiale: tra nostalgie autoritarie e “diritto penale simbolico”, in Dir. Pen. e Processo, 2009, 12, p. 1451, il quale asserisce che l’estremo della pubblicità e quello del duplice nesso sia psicologico sia temporale con l’esercizio delle funzioni non consentono “di far rientrare nel fuoco della tutela il bene del buon andamento” e che la tesi che individua l'oggetto della tutela nel buon andamento della P.A. non solo non convince in considerazione degli elementi strutturali della fattispecie, ma si basa su una sorta di presunzione di "condizionabilità" dell'attività dei pubblici funzionari di fronte alla mera aggressione verbale davvero, sotto più punti di vista, insostenibili (1455). 414 Manzini V., cit., p. 509; Migliori P., cit., p. 915; Riccio S., cit., p. 828; Sisti U., cit., 263 415 Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 447, secondo il quale il consenso del funzionario non può escludere il reato salvo il caso, più scolastico che reale, di conseguente esclusione dell’animus injurandi; Scandone, cit., p. 463 416 Aprile E., cit., p. 580 e 596; Flora G., Il redivivo oltraggio, cit. p.1455; Gatta. G.L., cit., p. 169; Madeo A., cit., p.224; Martiello G., cit., p. 17; Pagliaro A. Parodi Giusino M., Principi, cit., 448; Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 862; Scandone G., cit., p. 461 e 462 e ss. Per la dottrina antecedente alla reintroduzioni si rinvia alla Casalbore G., cit., p. 463; Riccio S., cit., p. 828 417 Cassazione penale, sez. VI, 19 gennaio 1993, Pizziconi, Cass. pen. 1994, 2081 (s.m.), Mass. pen. cass. 1993, fasc. 7, 115 secondo la quale il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale si configura come reato plurioffensivo che lede il prestigio tanto della pubblica amministrazione quanto della persona fisica che la rappresenta (parte offesa primaria: l'una; secondaria: l'altra; mediata: la prima; immediata: la seconda). Ne consegue che, a norma degli artt. 555 comma 1, lett. b) e 558 commi 1 e 2 c.p.p., il decreto di citazione a giudizio per il detto reato va notificato anche al pubblico ufficiale oltraggiato, in quanto soggetto passivo immediato del reato. 418 Giova ricordare che, vigente la precedente formulazione, vi era dissenso in dottrina in merito alla qualità di soggetto passivo della pubblica amministrazione e, di conseguenza, del diritto della stessa di costituirsi parte civile. In merito Migliori P., cit., p. 915, il quale riporta i diversi orientamenti. 419 Amato G., cit., p. 57; Madeo A., cit., p. 224; Martiello G., cit., p. 17. 420 Amato G., cit., p. 55.
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altre categorie di pubblici dipendenti o d’incaricati di pubblico servizio421, nonostante, prima
dell’intervento abrogativo del 1999, al pubblico impiegato che prestava un pubblico servizio era
garantita una protezione privilegiata ai sensi dell’art. 344 del c.p.422.
Si è, anche, osservato che se con l’interpretazione sistematica si volesse valorizzare la necessità che
la riparazione del danno sia satisfattiva anche dell’ente di appartenenza, si potrebbe sostenere che la
cerchia dei pubblici ufficiali beneficiari della tutela dovrebbe essere limitata ai soli soggetti
appartenenti a Pubbliche amministrazioni, e cioè a pubblici ufficiali “in senso oggettivo”423.
Dall’analisi della voluntas legis, inoltre, emergerebbe che la vera esigenza di tutela rinforzata
riguarderebbe principalmente gli operatori di polizia, i quali hanno la qualità di pubblico ufficiale
nello svolgimento delle proprie funzioni: non è, infatti dubitabile, che questi ultimi, sia quando
operano nell’esercizio delle funzioni di polizia amministrativa in senso lato, che quando agiscano
nelle funzioni di polizia giudiziaria, assumano la qualità di pubblico ufficiale, in quanto dotati di
poteri autoritativi e certificativi, secondo quanto disposto dal citato articolo 357 del c.p.424. Basti
421 Scandone, cit., p. 462. Per la nozione di P.U. a seguito della riforma si vedano: Costa S., Studio sulle nozioni di pubblico ufficiale, incaricato di pubblico servizio, esercente un servizio di pubblica necessità e sue applicazioni, Torino, 1933; Antolisei F., Manuale di diritto penale, cit., pag. 174 ss.; Id., Manuale, cit.,Parte speciale, II, 28° ss.; Id. Sulla nozione di pubblico ufficiale, in Scritti giuridici in onore di Mancini V. Padova 1954; Grispigni F., Pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio,in Scritti giuridici in onore di Mancini V. Padova 1954; Severino Di Benedetto P., La riforma dei delitti contro la Pubblica Amministrazione: soggetti, qualifiche, funzioni, in AA. VV., La riforma dei delitti contro la Pubblica Amministrazione, a cura di Stile A. M., Napoli, 1987, pag. 30 ss.; Severino Di Benedetto P., Commento agli artt. 17 e 18 della L. 24 aprile 1990 n. 86, in AA.VV., Commento articolo per articolo alla L. 24 aprile 1990 n. 86, “Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”, in Leg. Pen., 1990, pag. 334; Id., Le nozioni di pubblico ufficiale ed incaricato di un pubblico servizio nel nuovo tersto degli artt. 357 e 358 c.p. ,in Atti del I Congresso Nazionale dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale. Gruppo italiano (Capri 1 novembre 1990), 335 ss.; Id., I delittidei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Le qualifiche soggettive, Milano, 1983; Id., Pubblica amministrazione (delitti contro la), in Enc. Giur. Treccani, vol XXV Roma 1991; Del Corso S., Pubblica funzione e pubblico servizio di fronte alla trasformazione dello Stato: profili penalistici, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, pag. 1597 ss.; Siniscalco M., La nuova disciplina dei delitti dei pubblici ufficiali: profili critici, in Leg. Pen., 1990, p. 263 ss.; Fiorella. A., Ufficiale pubblico, incaricato di pubblico servizio o di pubblica necessità, in Enc. Dir. , XLV, Milano 1992, 563 ss.; Ramacci F., Norme interpretative e definizioni: la nozione di “pubblico ufficiale”, in AA. VV., Reati contro la Pubblica Amministrazione, a cura di COPPI F, Torino, 1993, pag. 331 ss.; Id., Prospettive dell’interpretazione dell’art. 357 c.p., in Riv. it. dir.e proc. pen, 1965, 862 ss; Id., Corso di diritto penale, Torino, 2007, 212 ss.; Seminara S., Dei delitti contro la pubblica amministrazione, cit., pag. 212 ss; Romano M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione: i delitti dei privati, le qualifiche soggettive pubblicistiche, in Commentario sistematico, II, Milano, 2002, p. 227 ss.; Pagliaro A., Principi di diritto penale, Pt. gen., Milano, 2003, p. 167 Fiandanca G., Musco E., Diritto penale, Parte speciale, I, Bologna, 2007, 167 ss.; Malinverni A., Pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio. In Nss. Dig. It., XIV, Torino 1967, 557 ss; Id., Pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio nel diritto penale. Torino 1951; Nuvolone P. Brevi note sul concetto penalistico di pubblico ufficiale, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1965, 862 ss; Id., Corso di diritto penale,Torino 2007, 212 ss.; Spizuoco, Innovazioni legislative e pubblica funzione, in Giust. pen.,1979, II, col. 598 ss.; Zanobini G. Pubblici ufficiali ed incaricati di servizi pubblici nel nuovo codice penale, in Scritti in onore del Prof. Ugo Conti, Città di Castello, 1932, 271 ss. 422 Aprile E., cit., p. 580; Martiello G., La 'resurrezione' del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, in La nuova normativa sulla sicurezza pubblica, a cura di Giunta F., Marzaduri E., Giuffrè, Milano, 2010, pp. 4-20. Il legislatore, infatti, né ha ripristinato il previgente art. 344 c.p. né ha richiamato la figura del pubblico impiegato che presta un pubblico servizio nel testo dell’art. 341 bis c.p. 423 Flora G., Il redivivo oltraggio a pubblico ufficiale: tra nostalgie autoritarie e “diritto penale simbolico”, in Dir. Pen. e Processo, 2009, 12, p. 1450. 424 Amato G., cit., p. 55. Contra, in riferimento alla vecchia fattispecie, Manzini V., cit., p. 509.
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pensare, sotto il primo profilo, al potere di contestare le violazioni di norme di legge e al potere
coercitivo, reale (in particolare, di ispezione, perquisizione locale e domiciliare, sequestro) e
personale (in particolare, potere di accompagnamento a fini di identificazione, arresto in flagranza,
fermo di indiziato di delitto, perquisizione personale); sotto il secondo, al potere di documentazione
e alla fede privilegiata che hanno gli atti a tal fine redatti (verbale di dichiarazione o elezione di
domicilio, annotazione di servizio ecc.)425.
Altra parte della dottrina426, però, è di avviso contrario perché ritiene che in realtà la cerchia dei
soggetti passivi è ben più ampia di quella enfatizzata nella discussione parlamentare (che si riferiva
in particolar modo, agli appartenenti alle forze dell’ordine), anche perchè nella prassi i casi più
frequenti di oltraggio a pubblico ufficiale all’epoca della vigenza dell'art. 341 c.p. erano costituiti da
offese arrecate a vigili urbani "nell'esercizio o a causa" di mere funzioni di polizia amministrativa.
Se il legislatore avesse voluto assicurare, attraverso la nuova fattispecie, una tutela differenziata e
più intensa dei soggetti impegnati in attività di pubblica sicurezza non avrebbe fatto un riferimento
alla generica qualifica di pubblico, ma alla specifica appartenenza dell’agente alle “forze di
polizia”427.
Un’altra questione che è stata oggetto di dibattito in tema di soggetto passivo del reato di oltraggio
atteneva l’inquadramento dell’ipotesi in cui un unico comportamento oltraggioso era
contestualmente offensivo di più pubblici ufficiali. Ci si chiedeva se tale eventualità integrasse gli
estremi di un concorso formale omogeneo di reati428 ovvero costituisse un unico reato429. E’ stato
rilevato in merito che, se ci si muove dalla premessa che l’art. 341 c.p. ha inteso tutelare in modo
primario l’onore soggettivo della singola persona fisica del pubblico ufficiale, si deve concludere
425 Amato G., cit., p. 55. 426 Flora G., Il redivivo oltraggio a pubblico ufficiale: tra nostalgie autoritarie e “diritto penale simbolico”, in Dir. Pen. e Processo, 2009, 12, p. 1450 rileva che “la categoria dei pubblici ufficiali è … di sconcertante ampiezza (si va dall'ufficiale giudiziario, al capotreno, ai dipendenti dei consorzi agrari, ai dipendenti delle Poste e così via)” e che proprio per questo motivo , ancora vigente l'abrogato art. 341 c.p., la dottrina, delusa dai troppo timidi interventi della Corte costituzionale, aveva proposto che, quanto meno, fosse delimitata la schiera dei possibili beneficiari della tutela a coloro che esercitano i momenti più alti della sovranità (cfr. Bricola F., Tutela penale della P.A. e principî Costituzionali, Temi, 1968, p. 577) e a coloro che sono chiamati a far rispettare la legge e sono a diretto contatto con i cittadini (Flora G., Il problema, cit., 56). 427 Padovani T., cit., p. 23. 428 Nel senso della pluralità dei reati, v. Manzini V. op. cit., V, 483; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 463; Ranieri, Manuale, II, cit., 281. Nel senso del concorso formale, prima della riforma dell’art. 81 c.p., cfr. Antonioni, Concorso ideale di reati, continuazione o reato unico in tema di oltraggio a più pubblici ufficiali, in Giust. pen.,1957, II, 498; Mozzanti, Oltraggio simultaneo a più pubblici ufficiali: concorso formale di reati e non reato continuato, in Arch. Pen., 1963, II, 374 ss. Prima della riforma la tendenza della giurisprudenza, seguita da parte della dottrina, era per l’applicazione della continuazione: v., per tutte, Cass. 7 febbraio 1970, in Giur.it., 1970, II, 548, con nota favorevole di Giordana; Iacovone, Osservazioni in tema di reato continuato, in Riv. giur. circ. trasp., 1969, 162 ss. In merito Casalbore, cit., p. 470 secondo il quale non può affermarsi che, poichè attraverso il delitto di oltraggio si realizza la lesione all’interesse del corretto svolgimento della funzione pubblica, l’offesa, soprattutto se conseguente ad un’unica azione, sia inidonea a violare più volte la medesima disposizione di legge, ancorchè contemporaneamente rivolta contro una pluralità di pubblici ufficiali. 429Grispigni, op. cit., 271; Lonardo, Oltraggio con unica frase e con pluralità di offesi, in Riv. pen., 1932, 887 ss.; Santoro, op. cit., II, 355; Trib. Enna 18 aprile 1934, in Rivista giuridica del Mezzogiorno 1934, 735
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che, nel caso di unica espressione offensiva di più pubblici ufficiali, si è in presenza di tanti reati
quanti sono i soggetti offesi430. Però, dalla presenza nel sistema dell’art. 342 c.p. che punisce come
reato unico l’offesa recata a più pubblici ufficiali riuniti in collegio, si desume chiaramente che la
legge, pur avendo tutelato mediatamente l’onore soggettivo delle singole persone fisiche, ha inteso
proteggere in modo primario il prestigio dell’organo, la cui offesa costituisce il contenuto lesivo
tipico dell’oltraggio. Conseguentemente, nell’ipotesi in cui l’unitario comportamento offensivo
oltraggi due o più pubblici ufficiali che impersonano ciascuno un diverso organo, sussisterà la
pluralità di reati431; ma, nel caso in cui siano offesi due o più ufficiali, che, pur non esercitando
collegialmente le loro funzioni, impersonino il medesimo organo e collaborino nell’esercizio di una
identica funzione,432 si può concludere per l’unicità del reato, almeno nel caso in cui l’offesa sia
commessa “a causa” delle funzioni433. Analoghe considerazioni possono essere riferite anche alla
nuova formulazione del reato.
L’ELEMENTO OGGETTIVO: LA CONDOTTA DI LESIONE CONGIUNTA ALL’ONORE ED AL PRESTIGIO DEL P.U.
La condotta di offesa si caratterizza sia per una “dimensione qualitativa” (presenza di più persone in
luogo pubblico o aperto al pubblico)434, ma soprattutto perché, diversamente dalla previgente
fattispecie, che si riferiva alternativamente all’onore ed al prestigio del p.u., richiede la lesione
congiunta di quest’ultimi.
La norma, infatti, riporta la congiunzione coordinata “e” in luogo della disgiuntiva “o”, che figurava
nell’abrogato oltraggio e che per tale ragione rendeva configurabile il reato, sussistendone i residui
elementi di tipicità, anche nel caso di offesa al solo onore del pubblico ufficiale435.
430 Cass. 18 marzo 1969, in Giust. pen., 1970, II, 63; Cass. 15 dicembre 1966, in Cass. pen. mass., 1967, 949; Cass. 14 dicembre 1962, in Giust. pen., 1963, II, 710, m. 956; Cassazione penale, sez. VI, 31 ottobre 1997, n. 902, Congionti, in Cass. pen. 1999, 1457 (s.m.), secondo la quale nel caso di offesa rivolta a più pubblici ufficiali l'azione unica è in realtà plurima sotto l'aspetto della sua idoneità offensiva e quindi equivale, anche sotto il profilo oggettivo, alla pronuncia reiterata della stessa frase alle singole persone presenti. In tale ipotesi è pertanto applicabile l'istituto della continuazione, in quanto l'unicità del disegno criminoso è insita nella modalità stessa di esecuzione dell'azione illecita. (Fattispecie in tema di patteggiamento: la S.C. ha annullato una sentenza di applicazione per un reato di oltraggio continuato della pena di quindici giorni di reclusione, senza quindi l'aumento per la continuazione). Casalbore, cit., p. 470 secondo il quale attesa la natura plurioffensiva dell’oltraggio, si deve rilevare come anche con un’unica offesa si possa ledere l’onore ed il prestigio di più pubblici ufficiali, dal momento che relativamente ad essi l’azione si risolve in distinte offese e va considerata come singolarmente rivolta contro ciascuno dei soggetti oltraggiati. 431 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 862. 432 Per un richiamo all’identità della funzione esercitata, v. Sesti, Unità ontologica dei delitti di resistenza e di oltraggio a pubblico ufficiale con pluralità di soggetti passivi, in Giur. sic., 1959, 711 433 Per un richiamo al soggetto cui si è rivolta l’intenzione offensiva dell’agente, v. Iannelli, op. cit.,700 434 Gatta G.L., cit., 169. 435 In merito Padovani T., cit., p. 25 ha osservato che poiché nella configurazione originaria del delitto de quo ai fini della sua consumazione era sufficiente la sola offesa all’onore, si produceva una polarizzazione dell’offesa verso una tutela privilegiata di un “valore” percepito dal soggetto in quanto p.u. e, quindi, inevitabilmente, in quanto dotato di una posizione differenziata, a prescindere da un nesso funzionale con l’esercizio della funzione pubblica. Secondo l’autore,
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La modifica normativa ha comportato due conseguenze fondamentali: in primo luogo sancisce la
natura plurioffensiva del delitto di oltraggio, intesa non nel senso di tutela dell’onore della persona
fisica e del prestigio della medesima persona, ma in quello di tutela dell’onorabilità e del prestigio
della persona investita di pubbliche funzioni e del prestigio della Pubblica amministrazione,
impersonificata da quel soggetto; in secondo luogo chiarisce che l’offesa all’onore del p.u. è
sanzionata con una pena più severa rispetto all’ingiuria solo quando è accompagnata da un’offesa al
suo prestigio, ovvero quando dipende dall’esercizio attuale di poteri di diritto pubblico e ciò,
indubbiamente, contribuisce a radicare la ratio dell’incriminazione nella tutela della pubblica
amministrazione436. La plurioffensività significa (almeno) due offese e, quindi, due eventi giuridici
che, però, rilevano come uno soltanto, fuori dai casi previsti dall’art. 84 c.p.
Prima di procedere alla verifica di quale sia il senso dell’innovazione normativa ai fini applicativi e
al fine di comprenderne la portata, è, però necessario richiamare preliminarmente i concetti di onore
e prestigio437.
L’onore designa il complesso delle qualità e prerogative (probità, rettitudine, lealtà, etc.) che
concorrono a formare il patrimonio morale di una persona in quanto tale e nel contesto della sua
complessiva esperienza di vita. Esso si riferisce all’insieme delle qualità morali, intellettuali,
psichiche, fisiche intrinseche all’uomo come tale (che si ergono quantomeno a valori
costituzionalmente non incompatibili)438.
Il prestigio, invece, è qualcosa di più circoscritto e puntuale e designa il complesso delle qualità
morali che qualificano e caratterizzano l’esperienza professionale e lo status di chi svolge una
funzione pubblica439. In merito è opportuno ricordare brevemente che all’inizio sono sorti problemi
interpretativi sulla definizione di prestigio. Si affermava, infatti, che la suddetta nozione non poteva
nella prospettiva dell’originario art. 341 l’offesa all’onore del p.u. faceva emergere un rapporto d’immedesimazione necessaria tra l’onore personale e la funzione, per cui l’offesa al primo si traduceva nella lesione della seconda, con un automatismo comprensibile solo concependo il p.u. come un soggetto di per sé “diverso”. “In quanto insignito di una qualifica pubblica, la contumelia o l’insulto a lui rivolti si trasformava nell’aggressione ad un valore trascendente la persona: in definitiva si prospettava, per così dire, una versione in sedicesimo della lesa maestà, in cui l’offesa alla persona del sovrano costituisce intrinsecamente offesa allo Stato che egli impersona”. Con l’art. 341 bis c.p., invece, non è più sufficiente che l’offesa colpisca il sentimento del proprio valore, ma occorre che coinvolga anche la dignità dell’ufficio rivestito dal p.u.: la tutela si orienta necessariamente alla dimensione pubblicistica dell’attività, mirando all’interesse della Pubblica amministrazione ed, in particolare al suo buon andamento nell’attività dei soggetti qualificati che ne esercitano i poteri. 436 Scandone G., cit., p. 466. 437 Sui concetti di “onore” e “decoro”, v. ampliamente, nel senso sopra riportato, Mantovani F. , Diritto penale, Parte speciale, III ed., vol I, Padova, 2008, spec. 199 ss., nonché, adesivamente, Bisori L., I delitti contro l’onore (artt.594-599) in AA.VV., I reati contro la persona, vol. II, a cura di Papa M., Torino, 2006, 7 e 41. Quanto al concetto di “prestigio” da intendersi quale insieme di requisiti e delle prerogative che dall’esercizio della funzione pubblica derivano al P.U., che per ciò solo merita particolare rispetto, v. in dottrina, tra gli altri, Vannini O. Quid iuris?, cit, 5, 35; Antolisei F., Manuale, XII ed.,364; Palazzo F.C., Oltraggio, cit., 850 s.; Casalbore G., Oltraggio,cit.,462-463; Fiandanca G. Musco E., Diritto penale, cit.,293. 438 Migliori P., cit., p. 916; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3; Sisti U., cit., 262. 439 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3.
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essere desunta dal delitto d’ingiuria, ove si tutelano le qualità che determinano il valore sociale
dell’individuo440, poiché, nel caso di specie, assumevano rilievo le qualità proprie del p.u. connesse
alle funzioni, non anche alla persona che le svolge.
Tale interpretazione è stata, per più ragioni, oggetto di critica. In primo luogo è stato osservato che
la suddetta impostazione determinava un’eccessiva dilatazione della tutela del prestigio della p.a.,
«in modo difficilmente compatibile con i principi generali dell'ordinamento democratico»441 e, in
particolare, con il principio di eguaglianza e di pari dignità tra soggetti pubblici e privati442. In
secondo, come precedentemente rilevato, l’accoglimento di una nozione oggettiva di prestigio,
determinerebbe, altresì, un’alterazione significativa dei rapporti tra il delitto di oltraggio e le
fattispecie di vilipendio (che appresta una più energica tutela solo alle più alte cariche ed istituzioni
pubbliche), assimilando l'uno all'altro, contrariamente all'opposto intendimento sistematico
originariamente espresso dalle norme del codice443. Inoltre il dato letterale (chiunque offende il
prestigio del p.u.) conferma la diretta pertinenza del bene offeso alla persona investita di pubbliche
funzioni, e non alla p.a. La circostanza, infatti, che l’offesa al p.u. sia il mezzo per l'offesa alla p.a.,
e che contro questo secondo ed ulteriore tipo di offesa reagisca la norma in esame, ovviamente non
esclude che la tutela immediata pertenga alla persona, dunque all'onore del p.u.444.
E’ opinione condivisa che la nozione di prestigio altro non sia che una specificazione della nozione
di decoro445, ed attenga alle qualità personali della persona del p.u., intimamente connesse alla
pubblica funzione esercitata446.
440 Antolisei F., cit., p. 354. 441 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 850. 442 Al riguardo si è rilevato che appare un poco paradossale che dopo una riforma legislativa che rappresenta il coronamento di un percorso interpretativo della norma sempre più costituzionalmente orientato, dunque antinomico alla prospettiva ermeneutica ora ricordata, si debba «riesumare» l'impianto ideologico della fattispecie secondo gli intendimenti del legislatore del 1930, proprio al fine di conferire la «massima efficacia» alla riforma medesima, oltre ogni limite di ragionevolezza. 443 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 851, il quale osservava durante la vigenza della norma abrogata che la distinzione tra quest’ultima e quella di vilipendio s’individuava nel “requisito della presenza dell'offeso, richiesto nell'oltraggio ma irrilevante ai fini del vilipendio, e che concorre a dare al primo, a differenza del secondo, una dimensione anche «privatistica» all'offesa. Ove fosse tutelato l'obiettivo prestigio delle istituzioni, insomma, non solo non avrebbe senso una specifica tutela accordata a talune istituzioni tramite le fattispecie di vilipendio, ma neppure sarebbe richiesta la presenza del p.u. oltraggiato ai fini della sussistenza del delitto in esame”. 444 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 850. Tale impostazione corrisponde ai chiari intendimenti (quanto meno) lessicali del legislatore del 1930. Nel corso dei lavori preparatori vi fu lunga disputa se la locuzione di prestigio fosse adeguatamente espressiva di ciò che doveva descrivere, cioè di una particolare forma di decoro di chi esercita una pubblica funzione. Al termine di detta discussione, parve al Ministro Guardasigilli che non dovesse tornarsi alla nozione di decoro, ma dovesse mantenersi quella di prestigio proprio perché essa ha un senso più determinato e specifico (Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, II, p. 149).) . 445 Manzini V., cit., p. 511; Migliori P., cit., p. 916; Sisti U., cit., 262. Il decoro designa l’insieme degli atteggiamenti che, pur non attenendo direttamente l’onorabilità in senso stretto della persona, incidono sul rispetto che le è dovuto e, nella specie, concernono il particolare riguardo che compete alla persona fisica che personifica l’Istituzione pubblica e quindi ne assume il prestigio. 446 Sul punto Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 850.
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In conseguenza della suesposta distinzione tra i concetti di onore e di prestigio e della nuova
formulazione normativa si è, quindi, sostenuto che ai fini dell’integrazione della condotta tipica non
è più sufficiente un’offesa alle qualità morali della persona in quanto tale ovvero al “sentimento del
proprio valore sociale, componente indispensabile dell’equilibrio psichico della persona e
presupposto del suo corretto operare nella società”447 o ancora al “complesso delle condizioni da
cui dipende il valore sociale della persona, l’insieme delle doti morali, intellettuali, fisiche e delle
altre qualità che concorrono a determinare il pregio di un individuo nell’ambiente in cui vive”448 –
definizioni diverse il cui minimo comun denominatore si rinviene nella possibilità che vengano in
evidenza solo la personalità o la vita privata del p.u.449 – ma, invece, è sempre necessario che l’atto
di discredito coinvolga anche le qualità morali proprie e tipiche di chi svolge una pubblica funzione
ovvero “quella particolare forma di decoro, che attiene alla dignità e al rispetto, da cui la funzione
deve essere circondata”450 e anche “quella particolare forza o influenza che deriva alla persona
dall’altrui riconoscimento dell’autorità e della dignità di cui la persona stessa è rivestita”451.
La dottrina452, infatti, ha osservato che se non si operasse la suesposta distinzione e si ritenesse, di
contro, che ogni offesa all’onore del p.u. comportasse sempre ed inevitabilmente un’offesa alla
dignità e al rispetto della funzione pubblica da lui esercitata la novella sarebbe di fatto priva di
risvolti pratici.
Nella nuova norma la tutela alternativa (indifferente offesa o all’onore o al prestigio) ha ceduto il
posto alla tutela cumulativa, e, quindi, si richiede un’azione che offenda contestualmente i due
profili dell’onore “globale”453; ne consegue che le interferenze sul piano della condotta tipica hanno
una duplice rilevanza pratica: in primo luogo non sarà più sufficiente una condotta che leda il solo
onore “individuale”, già tutelato dall’ingiuria, ma sarà necessario dimostrare che l’offesa attinge
anche il piano del prestigio454 e, pertanto, indirettamente la Pubblica amministrazione. Perciò non si
consumerà l’oltraggio quando vengono rivolte al p.u. espressioni ingiuriose chiaramente riferite alla
447 Pagliaro, cit., p. 3 448 Antolisei, cit. , p.193 449 Scandone G., cit., p. 465. 450 Manzini V., cit., p. 511. 451 Relazione al c.p., cit., p. 149. 452 Gatta G.L., cit., 169. 453 In merito Martiello G., cit., p. 7 ha rilevato che già in passato qualcuno sottolineava il “naturale intreccio” tra i due valori de quibus, tale da pronosticare la costante realizzazione, nella pratica, di “offesa cumulativa di entrambi” (cfr. Romano M., I delitti, cit., 68). Nello stesso senso Flora G., Il redivivo oltraggio, p. 1451, secondo il quale “poiché la norma richiede che l’espressione oltraggiosa trovi la propria causa psichica nell’esercizio delle funzioni dell’offeso, una chirurgica separazione delle offese “solo personali” da quelle “di dimensione anche pubblica” pare realisticamente assai problematica. Tanto più che, nella quotidiana prassi, la prosa dell’offensore ben raramente attinge vette così sofisticate da consentire sottili distinguo”. 454 Al riguardo Pagliaro, p. 378 ha precisato che un’offesa al prestigio può essere indifferentemente rivolta verso la funzione in sé (ad es. “i magistrati sono tutti venduti”) o verso il rapporto tra i soggetto e le sue funzioni (“sei incapace di fare il magistrato”).
108
sua persona in sé, e non in quanto p.u. e che, quindi, non possono essere considerate lesive del
prestigio del p,u, e, indirettamente della Pubblica amministrazione455. È il caso di chi apostrofi un
pubblico ufficiale in riferimento alla sua zona geografica di origine, desumibile dall’accento (ad es.
“sei un terrone”, “crucco”, “magna gatti”), o in relazione a caratteristiche fisiche (ad es.
“nanerottolo”, “Moby Dick”), espressione lesiva dell’onore, ma non anche del prestigio del p.u. e
della Pubblica amministrazione456.
Offese generiche alla persona del p.u. o comportamenti di crassa maleducazione nei suoi riguardi
non potranno più ex se considerarsi tipici ove non degenerino in un attacco alle qualità proprie del
p.u. in quanto soggetto esercente una pubblica funzione. La collocazione della norma tra i delitti dei
privati contro la Pubblica amministrazione, infatti, conduce a ritenere che le qualità morali non
possono essere quelle afferenti il comune cittadino (compendiate dalla circostanza aggravante di cui
all’art. 61, n. 10, c.p.) dovendo, invece, riferirsi a quelle proprie di chi svolge la pubblica funzione,
quali, ad es., le doti di correttezza morale ed incorruttibilità, che sono intimamente connesse con
l’esercizio della pubblica funzione457. Essendo, dunque, assorbito nel concetto di prestigio anche il
rapporto tra il soggetto e la carica ricoperta, devono essere considerate rilevanti anche tutte quelle
offese con le quali si attestano qualità personali incompatibili con la pubblica funzione esercitata,
perché poste alla base dell’assunzione o della conservazione del particolare stato giuridico
presupposto alla condizione di pubblico ufficiale. Si è, pertanto, osservato che espressioni quali “sei
un bandito!”, “ma ti sei drogato?”, “siete un branco di assassini”, “vai a rubare lo stipendio da
un’altra parte!” offendono sia l’onore sia il prestigio contestualmente, perché attribuiscono qualità
o attitudini in contrasto con i doveri, anche deontologici, del p.u.458. Ciò consente di escludere la
rilevanza di un generico comportamento di scomposta maleducazione, quale può essere l’utilizzo di
espressioni volgari entrate addirittura nell’uso comune (che non potrebbero neanche integrare il
455 Madeo A., cit., p. 227, il quale rileva che, pertanto non costituisce oltraggio pronunciare la frase “ lei, funzionario comunale, è un deficiente!” perché non lede il prestigio del soggetto passivo, danneggiato, invece, dall’espressione “lei è un deficiente di funzionario comunale!”. È, inoltre, pacifico che nell’ipotesi in cui l’offesa sia rivolta al solo onore, senza coinvolgere il prestigio, il p.u. potrà comunque sporgere querela ai sensi dell’art. 598 c.p. 456 Flora G., Il redivivo oltraggio, p. 1451 osserva che espressioni quali quelle facenti riferimento al carattere, possono riflettersi sulla dignità della funzione (ad es. “Rambo”, “fanatico”), mentre altre possono rivelarsi di carica offensiva più incerta (ad es. l’epiteto “cornuto” che evoca problemi familiari personali del p.u., ma può ritenersi altresì espressivo dell’attribuzione di un’incapacità di esercitare funzioni di “controllo” della propria moglie suscettibile di convertirsi in un giudizio d’incapacità e indegnità alle pubbliche funzioni). L’autore ritiene, inoltre, che in caso d’incertezza sull’afferenza dell’offesa anche al prestigio dovrebbe optarsi per l’insussistenza dell’oltraggio a favore della più mite figura dell’ingiuria aggravata. 457 In merito F., Oltraggio, cit., p. 853, sottolineava inoltre che, con riferimento al requisito dell’univocità di significato, “deve essere rilevato come vi siano alcuni comportamenti, che, pur potendo rivelarsi idonei ad offendere l’onore e il prestigio del destinatario, tuttavia hanno un significato di per sé equivoco, che può essere spogliato di ogni ambiguità solo da particolari elementi di fatto (quali dichiarazioni del soggetto agente o atteggiamenti consimili) capaci di dimostrare chiaramente come quel comportamento sia stato tenuto proprio a ragione del suo significato offensivo nei confronti del destinatario”. 458 Nello stesso senso Pasella, cit.,p. 38
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delitto d’ingiuria), così come l’attribuzione di un comportamento e/o abitudine, anche se
oggettivamente riprovevole, allorquando non attingono il prestigio della p.a., ma solo le qualità
morali e non, della persona fisica oggetto della condotta459.
In secondo luogo non sarà più sufficiente una condotta che leda il solo bene del prestigio e non
riveli alcuna offensività nei confronti dell’onore individuale. Si pensi, ad es., al fatto di colui che
platealmente strappi il verbale di una contravvenzione, al cospetto del p.u. che si accinge alla
notifica o consegna. Un comportamento siffatto, in passato considerato lesivo del prestigio e idoneo
ad integrare il vecchio reato di oltraggio, dovrebbe oggi essere considerato privo di tipicità, in
quanto in nessun modo lesivo dell’onore della persona del p.u.460
Il legislatore ha, così, voluto restringere l’area di punibilità del delitto de quo richiedendo una
lesione effettiva delle qualità “pubbliche” della persona offesa, nella cui indagine, però, non
rientrerà la percezione soggettiva della condotta subita dal soggetto passivo: il giudice, invece,
dovrà apprezzare il contesto globale della vicenda, accertando non solo la specificità dell’attività
oltraggiosa, ma soprattutto l’idoneità dell’offesa a pregiudicarne il corretto svolgimento per la
perdita di credibilità determinata461.
È stato rilevato, però, che la nuova dimensione tipica della fattispecie di oltraggio solleva due
questioni tra di loro connesse462. In primo luogo ci si è interrogati su quale sia la ragione per la
quale il Legislatore ha ritenuto opportuno inserire una sorta di “endiadi offensiva” articolata
nell’offesa sia all’onore della personale sia al decoro pubblico. Per assicurare il carattere
“pubblicistico” della lesione sarebbe stato, infatti, sufficiente richiamare il solo prestigio. In merito
è stata constatata la difficoltà concreta di distinguere espressioni offensive in via esclusiva del solo
prestigio, senza che contestualmente non sia aggredito anche l’onore463. Se l’art. 341 bis c.p.
circoscrivesse la rilevanza dell’offesa tipica al solo prestigio, in tutti i casi in cui è colpito anche
l’onore sarebbe necessario ritenere commesso in concorso formale anche il delitto d’ingiuria,
determinando, però, in tal modo una duplicazione dei piani di tutela sostanzialmente artificiosa464.
La seconda questione attiene alla capacità selettiva della nuova formulazione di attribuire rilevanza
alle sole offese concernenti la dimensione pubblicistica dell’attività. Si è detto, infatti, che se
459 Amato G., p. 56. 460 La Cass., s.u., 27 giugno 2001, cit., ha affermato che “chi strappa il verbale di un interrogatorio o di una contravvenzione, ovvero di un atto di citazione, davanti al p.u. che si accinga a notificargli l’atto stesso pone in essere una condotta in ipotesi offensiva del prestigio dell’operante, ma inidonea ad offendere il decoro o l’onore della persona destinataria della condotta”. 461 Madeo A., cit., p. 228. 462 Padovani T., cit., p. 25. In merito si rinvia anche a quanto riportato nella nota 19. 463 Padovani T., cit., p. 25 rileva che rivolgere al p.u. l’epiteto “corrotto” o “aguzzino” o “incompetente” implica una lesione del sentimento inerente al valore della carica, ma coinvolge di per sé anche il sentimento del proprio valore. 464 Padovani T., cit., p. 26, secondo il quale l’intrinseca continuità e l’inevitabile sovrapposizione dei due profili offensivi trova incìvece ragionevole e congrua espressione nel contesto di un’unica fattispecie.
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l’offesa al prestigio è quasi sempre inscindibile da quella dell’onore, si poterebbe ritenere corretto
anche l’inverso, ovvero che quella all’onore tracimi nella lesione al suo prestigio. Accogliendo tale
opinione, però, si avallerebbe un’interpretazione abrogatrice dell’endiadi, che è inammissibile,
perché si ripristinerebbe l’assetto precedente465. Il nuovo testo dell’art. 341 bis c.p., infatti, impone
di escludere dal suo ambito di applicazione le offese al solo onore del p.u. nelle quali non sia
individuabile una effettiva estensione al suo prestigio466.
Infine è opportuno riproporre le riflessioni già sviluppate in passato dalla dottrina penalistica467,
secondo la quale la semplice critica, seppur aspra e severa e anche quando i modi con i quali è
rivolta sono offensivi, non costituisce offesa all’onore ed al decoro, in quanto il rispetto di cui i
funzionari debbono essere circondati non equivale ad insindacabilità468. In merito, però, giova
precisare che la giurisprudenza era univoca nel ritenere che la critica fosse lecita e non costituisse
465 Padovani T., cit., p. 26, rileva che in tale ipotesi la riformulazione della fattispecie si ridurrebbe ad un mero gioco di parole: prima era sufficiente l’offesa o all’onore o al prestigio, senza escludere la contestuale lesione di entrambi. Ora l’offesa al prestigio implicherebbe quella dell’onore e viceversa 466 Cioè le offese che, pur occasionate dall’attività pubblicistica del p.u., lo feriscono in una sfera esclusivamente privata e personale. Cfr. Padovani T., cit., p. 26, il quale osserva che rivolgere epiteti di esclusiva denigrazione personale o contumelie sociologiche varie coinvolge certo la dignità della persona, ma non quella della carica ricoperta. In questi casi la rilevanza del fatto non potrà che riportarsi alla fattispecie d’ingiuria. 467 Antolisei F., cit., (1995), p. 357; Casalbore, cit., p. 464; Manzini V., cit., p. 511; Migliori P., cit., p. 916; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3; Scandone G., cit., p. 465; Scuto S., cit., p. 7; Riccio S., cit., p. 830. 468 In giurisprudenza, valorizzando il diritto di critica durante la vigenza dell’abrogata fattispecie, è stata non ritenuta sussistente la condotta di oltraggio: nel caso di chi prospetti di denunciare all'autorità giudiziaria un maresciallo dei carabinieri presente nell'aula del consiglio comunale per non aver mantenuto l'ordine pubblico, anche quando a tale prospettazione si accompagna la specificazione dell'oggetto della denuncia esternata senza arroganza, ma rimanendo nei limiti della protesta espressa in termini civili, anche se risentiti (Cassazione penale, sez. VI, 16 marzo 1998, n. 4826, Episcopo, in Cass. pen. 1999, 2166 (s.m.), Giust. pen. 1999, II, 316 (s.m.)); in quello di chi preannuncia un esposto indirizzato al superiore gerarchico perché non riveste valenza minatoria o lesiva del prestigio del pubblico ufficiale la segnalazione all'autorità amministrativa di fatti realmente accaduti e lealmente esposti. (Fattispecie nella quale un'automobilista, invitata da un vigile urbano a non attardarsi in sosta, in attesa di un posto libero nel parcheggio, aveva prospettato una denuncia al comandante del corpo: Cassazione penale, sez. VI, 13 luglio 1995, n. 9914, Motolese, in Cass. pen. 1996, 2964 (s.m.); si era sostenuto che è legittima la protesta del consigliere comunale, rivolta al segretario comunale, per gli errati criteri seguiti nella verbalizzazione di un intervento nella discussione di un argomento all’esame del consiglio comunale, ove nel verbale non fosse fatta menzione alcuna del contenuto e del merito di esso, per cui non costituiva oltraggio, ma esercizio del diritto fondamentale di libertà di opinione, la critica, sia pure aspra e severa, esercitata con la frase “non so con quali facoltà mentali è stato redatto quel verbale” (Trib. Venezia, 15 dicembre 1976, Rigo, Giur. it. 1977, II, 284, con nota adesiva di Cacciavillani I., Funzione di controllo sulle verbalizzazioni del segretario comunale e reato di oltraggio); Cass., 8 novembre 1971; Cassazione penale, sez. VI, 19 novembre 1980, Ermolli, in Giust. pen. 1981, II,493 (s.m.), secondo la quale non è sufficiente una semplice riprovazione dell'operato del pubblico ufficiale o una mancanza di riguardo per integrare il delitto di oltraggio. L'oltraggio può essere escluso dalla critica per un atto illegittimo o comunque meritevole di censura. (Fattispecie in cui è stato ritenuto esercizio del diritto di critica l'uso della parola: "maleducato"); Cassazione penale, sez. VI, 15 maggio 1997, n. 6271, Fiorelli, in Cass. pen. 1998, 3268 (s.m.), Giust. pen. 1998, II, 513 (s.m.), secondo la quale quando l'espressione altrimenti offensiva è strettamente funzionale al ristabilimento della corretta azione dell'ufficio, questa deve considerarsi come lecita manifestazione di diritto di critica che prevale sulle esigenze repressive oggetto dell'art. 341 c.p. L'ambito di operatività di tale norma va infatti correlato al suo presupposto di validità: quello che la tutela del prestigio del pubblico ufficiale sia strumentale all'ulteriore interesse del buon andamento amministrativo, eretto a valore fondamentale nell'art. 97 della Costituzione. (Fattispecie nella quale un consigliere comunale, in una seduta consiliare, si era rivolto al sindaco con le espressioni "tu sei ubriaco.. vai a dormire.. sempre ti addormenti": la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza con la quale la corte di appello aveva confermato la responsabilità penale dell'imputato per il delitto di oltraggio non ammettendolo a provare che il sindaco, durante quella seduta, era effettivamente ubriaco, condizione in cui frequentemente versava).
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oltraggio solo in quanto non veniva manifestata in espressioni ingiuriose e lesive del prestigio del
p.u.: in tale eventualità l’esistenza dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero,
ed, in particolare, il limite dell’ordine pubblico, escludeva che il delitto de quo potesse essere
scriminato dall’esercizio del diritto di critica469. Inoltre, quest’ultimo non era ritenuto applicabile
quando la manifestazione oltraggiosa consisteva in espressioni pesantemente oscene470.
Così come richiesto dalla giurisprudenza formatasi durante la vigenza dell’abrogata fattispecie,
l’accertamento in concreto dell’offensività della condotta471 dovrà naturalmente tener conto della
variabilità dei concetti di onore e prestigio riguardo alle condizioni generali di tempo e di luogo e a
quelle personali dell’offeso. Il giudice, inoltre, dovrà anche valutare la specifica situazione
ambientale ed interpersonale, in cui si è svolto il fatto, potendo essa sicuramente influire sul
significato obiettivamente offensivo dell’espressione anche a parità di condizioni generali472. Il
parametro, alla stregua del quale deve essere vagliato il significato obiettivamente offensivo del
469 La giurisprudenza in tali ipotesi, inoltre, precludeva l’indagine sulla verità delle affermazioni che, invece, è ammessa nei delitti contro l’onore nelle tre ipotesi contemplate dall’art. 596, 2 comma, c.p. Cass. pen., sez. VI, 7 maggio 1976, Mitta, in Giust. pen., 1975, II, p. 104. La Cassazione penale, sez. VI, 26 aprile 1989, Fedele, in Cass. pen. 1991, I, 251 (s.m.) ha affermato che se è vero che la critica mossa all'operato dei pubblici ufficiali è pienamente lecita in quanto rappresenta la manifestazione della libertà di opinione riconosciuta ai consociati, tuttavia ai fini della esclusione del reato di oltraggio, di cui all'art. 341 c.p., le espressioni con le quali può essere sindacata l'attività del pubblico ufficiale debbono essere immediatamente percepite come un giudizio che investe il provvedimento posto in essere da colui che esercita una pubblica funzione. Allorché, però, la critica non si pone più in un rapporto di immediatezza con l'operato del pubblico ufficiale e sia strumentalizzata per portare un attacco indiscriminato alle funzioni del pubblico ufficiale, non si verte più nei limiti di un dissenso, con la conseguenza che, se le espressioni usate sono munite di un vigore offensivo e idonee a sminuire la dignità del pubblico ufficiale, deve escludersi la liceità del dissenso stesso. (Nella specie è stato ritenuto che le espressioni indirizzate a vigili urbani nell'esercizio delle loro funzioni (intervenuti per sedare una discussione insorta all'interno di un bar), cui l'agente si rivolga dicendo " che c.. . c'entrano i vigili urbani ", " non sono c.. . vostri ", in quanto non si pongono in un rapporto di immediatezza con l'operato dei vigili stessi, sono oltraggiose perché, a causa della loro oscenità, sono idonee ad avvilire la pubblica funzione e il decoro e il prestigio di chi la esercita). 470 In merito si altresì precisato che, poiché il linguaggio osceno era volto a diminuire il prestigio del p.u. non era configurabile neppure il reato di turpiloquio (Cass. pen., sez., VI, 4 marzo 1981, Ricci, in Riv. Pen., 1982, p. 307; Riv. Polizia, 1985, p. 68). La Cassazione ha ritenuto che non rientra nella manifestazione del diritto di critica: il rivolgersi ai vigili urbani che stanno procedendo alla contestazione di una infrazione con un rigore giudicato eccessivo dall'interessato con la frase: "voi non siete nessuno" poiché tale espressione esprime un apprezzamento diretto non al merito dell'atto, ma alla persona, ed è idoneo a ledere il prestigio di cui devono essere circondate le persone che esercitano una pubblica funzione (Cass. penale, sez. VI, 13 giugno 1996, n. 8304, Pollina, in Cass. pen. 1997, 2715 (s.m.)); la pronunzia di frasi rivolte ad un vigile urbano che pur non essendo formalmente offensive (“non mi interessa niente di te e di cosa rappresenti”) denotavano in chi le proferiva un atteggiamento di arroganza, disprezzo e di sdegnosa superiorità – anche per l’uso del “tu” – nei confronti del destinatario (Cass. pen., sez. VI, 25 marzo 1998, Condurso, in Guida dir. 1998, n. 42, p. 97); l’uso dell’espressione dialettale “pindagghie” rivolta nei confronti della persona offesa, nell’accertato significato di “gentaglia, donne di poco o pessimo conto” (Cass. pen., sez. VI, 28 aprile 1998, Paone, in Guida dir. 1998, n. 44, p. 106). 471 In merito F., Oltraggio, cit., p. 853 osservava che i requisiti essenziali della condotta oltraggiosa tipica sono due, il suo carattere offensivo e la sua univocità offensiva e che con riguardo alla prima caratteristica, “astrattamente una condotta può dirsi offensiva quando esprime la negazione di una delle qualità personali assunte a contenuto dell’onore e prestigio tutelati”. Il secondo requisito, quello dell’univocità, riguarda tanto il significato dell’espressione quanto la sua direzione. 472 In questo senso Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 854. La giurisprudenza è, invece, nel senso di valutare l’offensività della condotta considerandola in sé e per sé: Cass. 27 settembre 1974, in Giust. pen., 1975, II, 384, m. 386; Cass. 1 ottobre 1974, ivi, 385, m. 387; Cass. 6 marzo 1978, ivi 1978, II, 587, m. 612.
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comportamento deve essere oggettivo e, quindi, costituito dal corrente giudizio sociale su di esso473,
rilevabile dall’esame dei comportamenti tenuti dalla maggioranza dei consociati in analoghe
situazioni474. Per offesa, infatti, s’intende ciò che “secondo il normale giudizio dei membri di una
società dovrebbe offendere”475 il sentimento dell’onore e del prestigio, considerati nella concretezza
dei rapporti sociali ed istituzionali. Ai fini del suddetto giudizio non si potrà tener conto di una
sensibilità eccessiva del funzionario né sarà necessario che il p.u. si senta personalmente offeso476.
Acclarato il necessario ricorso a canoni etico sociali condivisi477, si dovrà, pertanto, valutare, come
anche sostenuto in precedenza dalla giurisprudenza, la valenza offensiva secondo il significato
obiettivo delle parole o degli atti478, a prescindere dal diffondersi dell’utilizzo, nel linguaggio
comune, di espressioni volgari479; dalla consuetudine di un linguaggio particolarmente “colorito” in
473 Cassazione penale, sez. VI, 20 giugno 1984, Cavelli, in Giust. pen. 1985, II,511 (s.m.), secondo la quale il valore offensivo di talune espressioni del linguaggio deve essere stabilito alla stregua di canoni di valutazione accolti dalla coscienza collettiva ed accertato in base a criteri etico-sociali condivisi. 474 In generale, cfr recentemente Paresce, Morale e costume, Enciclopedia, XXVII, 20 s. 475 Pagliaro, Oltraggio, cit., p. 3 476 Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 451 477 Cassazione penale, sez. I, 30 gennaio 1979, Magini, in Giust. pen. 1980, II,173 (s.m.), Cass. pen. 1981, 44, secondo la quale ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 341 c.p. il valore offensivo di date espressioni del linguaggio va stabilito alla stregua dei canoni di valutazione accolti dalla coscienza collettiva e, quindi, deve essere accertato sulla base dei criteri etico-sociali comunemente condivisi. Non può rilevare, pertanto, a tal fine una pretesa (e nella specie indimostrata) consuetudine di lassismo nell'ambito di taluni rapporti (nella specie, quello tra pubblici insegnanti ed allievi), anche in considerazione dei riflessi derivanti dall'indisponibilità del relativo interesse, facente capo allo Stato-amministrazione. 478 Grosso, p. 308. Contra Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 853, per il quale comportamenti consistenti nell’uso di “tono” irriguardoso, inteso non già semplicemente come tono della voce (cfr. cfr Pedrazza Gorlero, Il “tono” dell’espressione verbale: un nuovo limite alla libertà di pensiero?, in Giur. cost.,1972, p. 775), ma come aspetto generale o modo di essere o “stile” dell’espressione considerata nel suo complesso oppure consistenti nell’uso di espressioni ironiche o sarcastiche (cfr. Cfr. Cass. 12 luglio 1965, in Giust. pen., 1965, II, 938, m. 1225) che sono logicamente riconducibili al concetto precedente di “stile” dell’espressione possono avere un significato di per sé equivoco, che può essere spogliato di ogni ambiguità solo da particolari elementi di fatto (quali dichiarazioni del soggetto agente o atteggiamenti consimili) capaci di dimostrare chiaramente come quel comportamento sia stato tenuto proprio a ragione del suo significato offensivo nei confronti del destinatario. In giurisprudenza cfr. Cass. Penale, sez. VI, 18 settembre 1997 n. 9102, Zangrossi, in Cass. pen. 1998, 1640 (s.m.), Giust. pen. 1998, II, 378 (s.m.) secondo la quale per definire oltraggiosa un'espressione, quando si riconosca che essa è derivata da un fatto del pubblico ufficiale non arbitrario ma sottoposto a critica, non si può prescindere dal contesto in cui la frase è pronunziata, ma occorre valutarne l'adeguatezza rispetto alla valenza di quel fatto, muovendo sì dal valore semantico astrattamente assegnato ai termini impiegati, ma non conferendo ad esso carattere decisivo. Non può disconoscersi, infatti, la stessa possibilità del diritto di critica, quando esso, a causa dell'avvenimento da criticarsi, non potrebbe rappresentarsi se non con parole tali da ingenerare turbamento e mortificazione. Nè in tal modo viene a confondersi l'area del lecito in caso di comportamento arbitrario rispetto a quella ammessa nell'ipotesi di comportamento criticabile. (Nella fattispecie la Corte ha ritenuto lecito che un cittadino, accusato in maniera palesemente ingiusta di favoreggiamento abbia detto a dei vigili urbani: "vergognatevi, avete le traveggole. Andate a fare il vostro dovere"). 479 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3; Casalbore, cit., p. 464. In giurisprudenza, infatti, si esigeva che le frasi volgari ed offensive avessero l’obiettiva capacità di manifestare dileggio e denigrazione per il p.u. Cfr. Cassazione penale, sez. VI, 20 aprile 1995, n. 7954, Anselmetti, in Cass. pen. 1996, 3322 (s.m.), Giust. pen. 1996, II, 105 (s.m.) secondo la quale le frasi volgari e offensive, ancorché di uso corrente, ove abbiano l'obiettiva capacità di manifestare denigrazione e dileggio per il pubblico ufficiale, integrano quel nocumento per l'interesse tutelato che trascende la persona del pubblico ufficiale; Cassazione penale, sez. VI, 18 ottobre 1994, Chiavarini, Cass. pen. 1996, 1166 (s.m.), secondo la quale la facilità con cui vengono usate le espressioni più volgari ed il diffondersi di tale abitudine non tolgono alle espressioni stesse la loro obiettiva capacità di offendere l'altrui prestigio, mentre il dolo è implicito nel fatto stesso, qualora quelle espressioni presentino, per il loro chiaro significato, un valore offensivo preciso ed insuscettibile di interpretazioni ambigue. In
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certi ambienti480; dalle abitudini personali dell’offensore o dall’esistenza di rapporti di amicizia,
ovvero dall’intento scherzoso481. Conseguentemente in passato si è ritenuto che un’espressione
intrinsecamente offensiva - quale, ad es. "si tolga dalle scatole" - anche se viene usata nel
linguaggio comune, non perdeva il carattere di antigiuridicità quando era pronunciata in circostanze
tali che, esulando dai limiti della critica o della protesta garbata, trasmodava in aperto vilipendio
della persona destinataria e della p.a. da essa rappresentata482.
Restano fuori dall’ambito di applicazione della norma la mera indelicatezza, la semplice petulanza,
le infrazioni di cerimoniale ed, ingenerale, quegli atti o fatti formalmente non ingiuriosi483.
L’ELEMENTO OGGETTIVO: LE MODALITÀ DI REALIZZAZIONE DELLE CONDOTTA
Analogamente alla previgente fattispecie il delitto è a forma libera484, perché la norma, così come
formulata, attribuisce rilievo a qualsiasi condotta: le modalità attraverso le quali è realizzato
merito Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 854, rileva che comportamenti consistenti nell’uso di espressioni turpi o volgari “se non sono necessariamente oltraggiose per il solo fatto di essere turpi o volgari, danno tuttavia luogo a un concorso formale tra i reati di oltraggio e turpiloquio quando siano anche offensive dell’onore e prestigio” (in questo senso cfr. Cass. 8 aprile 1963, in Giust. pen., 1964, II, 77, m. 73). 480 Pret. Palermo 14 aprile 1997, Orlando, in Foro it. 1998, II, 300, secondo la quale integrano la fattispecie di reato di cui all'art. 341 c.p. le espressioni rivolte da un membro del consiglio comunale al sindaco durante una seduta consiliare che presentino, per il loro chiaro significato, un valore offensivo preciso e insuscettibile di interpretazioni ambigue, qualunque in assenza della deliberata intenzione di offendere l'onore o il prestigio del pubblico ufficiale (nella specie, si trattava di espressioni quali "Lei è mafioso", "Lei è indegno" e simili). 481 Cass. Penale, sez. V, 28 novembre 1988, n. 5455, Tamburrini, in Giust. pen. 1998, II, 654 (s.m.). 482 Cassazione penale, sez. VI, 29 settembre 1997, n. 1298, Carbone, in Cass. pen. 1999, 2165 (s.m.). Nello stesso senso si era ritenuta oltraggiosa la partola “cafone” rivolta da un detenuto ad un agente della polizia penitenziaria nel corso di un’operazione di controllo da quest’ultimo svolto nella cella del primo (Cass. pen., sez. VI, 15 febbraio 1999, Manzo, in Guida dir., fasc. 22, p. 131); il rivolgersi ad un agente della Polizia di Stato, a causa e nell’esercizio delle sue funzioni, le frasi “se lei crede di essere un pubblico ufficiale, io sono un superufficiale, poiché, anche se lei è seduto dietro quella scrivania , io ho due lauree, quindi lei al mio cospetto non è nessuno, anzi è un ignorante” (Cass. pen., sez. VI, 3 novembre 1998, Ragusa, in Guida dir., fasc. 1, p. 132); l’offrire cinquemila lire fatta dall'imputato a due agenti della polizia stradale affinché si astenessero dal contestargli una contravvenzione al codice della strada – attesa l’irrisorietà dell’offerta e le sue modalità tendenti a dimostrare il convincimento che gli agenti si sarebbero " venduti " per un nonnulla - perché era ravvisabile un gesto di scherno gravemente lesivo del prestigio dei pubblici ufficiali (Cass. pen., sez. VI, 15 dicembre 1989, Destito, in Cass. pen. 1991, I,1968., Giust. pen. 1991, II,43 (s.m.)). Si è, invece, negata la ricorrenza del reato di oltraggio nell’impiego dell’appellativo di vice pretore attribuito ad un magistrato ordinario che non può in alcun modo considerarsi di per sè stesso oltraggioso non avendo la potenzialità lesiva della reputazione del pubblico ufficiale nè costituendo manifestazione di un senso di disprezzo o di disistima nei suoi confronti (Cassazione penale, sez. VI, 06 febbraio 1985, Carrese, in Cass. pen. 1987, 735., Giust. pen. 1987, II,54 (s.m.)) 483 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3; Riccio S., cit., p. 830; Sisti U., cit., 262. In giurisprudenza cfr. Cassazione penale, sez. VI, 21 settembre 1994, Peri, in Cass. pen. 1996, 815 (s.m.) secondo la quale non integrano il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale gli atti di indelicatezza, di mancanza di riguardo, di scortesia e, comunque di non consentita familiarità tra i quali certamente rientra il fatto che rivolgersi al pubblico ufficiale con tono confidenziale dandogli del "tu" secondo il costume di un linguaggio proprio di antiche civiltà ancora praticato nel dialetto di molte popolazioni e secondo una prassi ormai generalizzata in tutto il territorio nazionale nei rapporti tra i giovani. 484 Casalbore, cit., p. 463; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3 distingue anche una forma parzialmente libera, richiedendosi alcune note aggiuntive per tipizzare la condotta. Cfr. Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 451.
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l’evento sono indifferenti, ciò che conta è il risultato, consistente nell’offesa, rivolta nei luoghi
indicati ed in presenza di più persone, all’onore ed al prestigio del pubblico ufficiale485.
Sarà, pertanto, configurabile sia un oltraggio verbale, che potrà concretizzarsi non solo
pronunciando singole parole o frasi, ma anche attraverso gesti o suoni (ad es. canzoni, grida, ecc.),
purché connotati dalla capacità offensiva richiesta dalla norma; sia un oltraggio reale, posto in
essere attraverso comportamenti486 e attività materiali, quali, ad es. lo sputo487.
In merito alla possibilità, prima concordemente ammessa488, che l’oltraggio possa essere arrecato
aizzando persone non responsabili (come ubriachi, malati di mente, bambini)489, ammaestrando
485 In dottrina: Antolisei, p. 359; Manzini V., cit., p. 513; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 451, secondo il quale l’oltraggio sarebbe un normale reato di evento naturalistico se il risultato, se serve a rendere tipica la condotta, non avesse la peculiarità di essere determinabile solo attraverso la nota di disvalore sociale che vi si incorpora; Manzini, p. 513; Riccio S., cit., p. 830; Sisti U., cit., 262. In giurisprudenza: Cassazione penale, sez. VI, 04 giugno 1985, Robertone, Giust. pen. 1986, II,524 (s.m.), secondo la quale nel reato di oltraggio l'offesa può manifestarsi con qualsiasi mezzo idoneo e, quindi, anche semplicemente con atti o gesti suscettivi di ledere il prestigio del p.u., senza che occorra che sia fatto ricorso a contumelie o che si adoperino espressioni intrinsecamente offensive; Cassazione penale, sez. VI, 28 novembre 1985, Marrone, in Cass. pen. 1987, 909 (s.m.), secondo la quale il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale è un reato a forma libera, in quanto l'azione del soggetto può realizzarsi con qualsiasi mezzo suscettibile di recar nocumento al prestigio dello stesso pubblico ufficiale. La Corte, pertanto, ha ritenuto che l'espressione “vado di fretta - non ti dò un cazzo”, usata dall'imputato nei confronti di un vigile urbano in servizio, costituendo manifestazione di noncuranza e disistima verso il vigile, pur essendo usata frequentemente nel linguaggio comune, contiene pur sempre un carattere oltraggioso, concretandosi nella mancanza di un doveroso riguardo che ogni cittadino deve, invece, avere nei confronti di colui che svolge una pubblica funzione; la Cassazione penale, sez. VI, 12 marzo 1998, n. 4825, Pavan Gattolin, in Cass. pen. 1999, 2164 (s.m.), Giust. pen. 1999, II, 357, ha anche sostenuto che l’oltraggio potesse essere commesso tramite accuse, formulate in termini indiscriminati, nei confronti di un pubblico ufficiale nel mentre sta svolgendo le proprie funzioni, di lavorare in un ufficio in cui è imperante la corruzione, poichè coinvolge il diretto interlocutore e ne offende l'onore ed il prestigio, mortificando e svilendo, nella sua essenza di imparzialità e di correttezza, il ruolo pubblico ricoperto. (Fattispecie in cui era stata rivolta ad una operatrice amministrativa della cancelleria commerciale addetta al rilascio dei certificati la seguente frase: "Tutto il Palazzo sa che nel vostro ufficio qualcuno rilascia con anticipo i certificati, percependo un compenso economico"). 486 Cass. penale, sez. VI, 29 aprile 1993, Barbaro, in Cass. pen. 1994, 2080 (s.m.), Mass. pen. cass. 1993, fasc. 10, 32, secondo la quale trattandosi di un reato a forma libera, l'azione del soggetto può realizzarsi con qualsivoglia mezzo idoneo e, quindi, anche con semplici atti o gesti, ancorché non accompagnati da espressioni ingiuriose, suscettibili di recare nocumento a quella particolare forma di decoro e di rispetto che deve circondare quanti esercitano una pubblica funzione. (Fattispecie in cui la Corte suprema ha ritenuto che integra, nei suoi elementi costitutivi, il delitto di oltraggio aggravato dalla violenza la condotta di chi afferri per il bavero un vigile urbano, nell'esercizio ed a causa delle sue funzioni, e, strattonandolo, gli infili nelle pieghe della divisa il verbale della contravvenzione, provocandone poi la caduta). 487 Durante la vigenza della precedente formulazione si faceva anche l’esempio del privato che stralcia platealmente l’atto realizzato dal p.u., attualmente non più calzante, in quanto non offensivo sia dell’onore e sia del prestigio contestualmente, così come richiesto dalla nuova norma. In giurisprudenza cfr. Cassazione penale, sez. I, 30 gennaio 1979, Magini, in Giust. pen. 1980, II,173 (s.m.), Cass. pen. 1981, 44, secondo la quale può costituire offesa all'onore ed al prestigio del P.U. il gesto di battere le mani in circostanze in cui tale comportamento non possa assolutamente essere inteso quale segno di plauso o di approvazione bensì appaia palesemente rivolto, in relazione alla concreta situazione in cui il fatto avviene, ad esprimere non tanto dissenso, disapprovazione o protesta, quanto ingiuria o disprezzo verso il funzionario pubblico (nella specie uno studente aveva battuto le mani vicino al viso di un docente, fischiandogli nel contempo vicino all'orecchio); Cassazione penale, sez. VI, 03 maggio 1985, D'Acunto, Cass. pen. 1987, 85 (s.m.) secondo la quale integra gli estremi del delitto di oltraggio, di cui all'art. 341 c.p., il gettare piccole pietre addosso a carabinieri in servizio d'ordine durante una partita di calcio, poiché tale fatto costituisce un attentato all'onore ed al prestigio dei medesimi. (Fattispecie relativa a rigetto di ricorso in cui l'imputato aveva sostenuto la sussistenza della contravvenzione di molestia o disturbo alle persone, di cui all'art. 660 c.p.). 488 Casalbore, cit., p. 463; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 452. 489 Contra Vannini, p. 16 il quale nega la configurabilità dell’oltraggio a mezzo di un ubriaco sulla base del rilievo che il fatto di un incapace non può ledere la sensibilità di alcuno. Secondo Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 455, la
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bestie (pappagalli, scimmie), o essere indiretto (cioè lesivo dell’onore e del prestigio di un collega o
di uno stretto congiunto)490, ovvero obliquo (quando si nega l’offesa con riferimento a persone
diverse per affermarla indirettamente nei confronti del p.u. o implicito, mediante richiesta o
proposta indecorosa)491, è possibile rinvenire due indirizzi dottrinari. Il primo ammette che il delitto
de quo si consumi anche nelle forme sopra menzionate, mentre il secondo492, invece, ritiene che la
nuova formulazione comporti inevitabilmente l’esclusione della rilevanza di tali condotte
richiedendo il verificarsi di precise condizioni oggettive necessarie ad integrare il fatto tipico.
È pacifico che non possono essere considerate sussunte nell’ambito di applicazione della norma le
mere indelicatezze, le semplici petulanze, le infrazioni al cerimoniale e le ripulse formalmente non
ingiuriose493.
Si discute494, altresì, se l’oltraggio possa essere commesso mediante omissione - ad esempio non
stringendo la mano al pubblico ufficiale che la porge - ammissibile, secondo alcuni, ovviamente
solo se in capo al soggetto attivo sia ravvisabile un obbligo giuridico di impedire l’evento ex art. 40
cpv. c.p.495. Al riguardo è stato sottolineato che il richiamo all’obbligo giuridico di impedire
l’evento non sia pertinente, poiché l’art. 341 bis c.p.496, contiene il precetto di non tenere una
condotta, lesiva dell’onore o del prestigio497, e che in realtà il vero problema è quello di accertare il
carattere offensivo di quest’ultima e della sua univocità. Secondo un altro orientamento, qualunque
sia la natura dell’obbligo violato498, è, invece, necessario, per la sussistenza dell’oltraggio, che il
comportamento omissivo sia, non tanto capace di “manifestar disprezzo”, quanto piuttosto tale da
predetta tesi (di Vannini) generalizza troppo. L’autore ritiene che mentre è vero che in determinate condizioni il fatto dell’incapace - quando questi agisce di sua iniziativa; se, invece, è determinato da altri, vi sarà oltraggio e ne risponderà quest’altra persona - non ha capacità di offendere l’onore ed il prestigio (si pensi al fatto del bambino o di chi è notoriamente pazzo) altre volte, come nel caso dell’ubriaco, residua una carica offensiva sufficiente ad integrare l’oltraggio. In questo senso Cassazione penale, sez. VI, 22 aprile 1986, Teso, in Giur. it. 1987, II,198., Giust. pen. 1987, II,341 (s.m.) secondo la quale il dolo non è escluso nemmeno dallo stato di ubriachezza in cui si sia trovato l'agente che ha profferto le espressioni oltraggiose. 490 Casalbore, cit., p. 463, il quale riporta l’esempio “i suoi superiori non le hanno insegnato bene il suo mestiere…”. 491 Casalbore, cit., p. 463, il quale riporta l’esempio “i dirigenti del Corpo non sono più capaci di assumere vigili all’altezza dei loro compiti..”; Pagliaro, p. 3; Scandone G., cit., p. 467. 492 Madeo A., cit., p. 226. 493 Scandone G., cit., p. 467. 494 In merito Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 853, osserva che i termini del dibattito sono gli stessi di quello concernente l’ingiuria (In argomento,cfr. per tutti Messina, op. cit., 74-77; Spasari, Sintesi, cit., 73) ed il vilipendio (cfr. Campisi, I reati di vilipendio, Padova, 1968, 102; Vitali, Vilipendio della religione di Stato, Padova 1964, 152). 495 Secondo alcuni autori configura offesa all’onore ed al decoro il rimanere innanzi al p.u. con il capo coperto quando l’usanza e la buona educazione richiedono che ci si tolga il cappello Casalbore, cit., p. 463; Riccio, Oltraggio, cit.,831; Id., I delitti, cit., p. 564-565; Saltelli e Romano Di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, III, Torino, 1940, p. 283; Vannini, Quid iuris?,VII, cit.,p. 35 ss. Contra Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 451, secondo il quale l’oltraggio in forma omissiva non costituisce mai reato. 496 Come del resto anche le norme in tema di ingiuria e vilipendio, Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 853. 497 Spasari, Diffamazione, cit., 484 498 Al riguardo Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 854, evidenzia come ai fini della soluzione dei dubbi interpretativi “non può giovare … nemmeno la natura giuridica (ad esempio, l’obbligo del militare di salutare il superiore) oppure semplicemente sociale (ad esempio, a norma di educazione impone di dare la mano a chi la porge per salutare) dell’obbligo positivo violato di tenere un determinato comportamento rispettoso”.
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rilevare di essere stato tenuto proprio a ragione della sua incompatibilità con il ruolo sociale della
persona che ne è destinata e che ne risulta pertanto pregiudicata nel proprio onore e prestigio499.
Rispetto al passato il legislatore non attribuisce più espresso rilievo alla commissione del fatto
mediante comunicazione telegrafica o telefonica o con scritti e disegni500. Al fine di risolvere, sulla
base della norma vigente, la questione inerente la possibilità o meno di porre in essere il reato
attraverso le predette modalità è necessario distinguere l’ipotesi di oltraggio perpetrato con scritti e
disegni da quella di comunicazione telegrafica o telefonica501.
In riferimento alla prima502 si è ammessa la configurabilità tutte le volte in cui gli scritti o disegni
sono esposti in luogo pubblico o aperto al pubblico e resi visibili a più persone presenti (sempre
mentre il p.u. compie un atto d’ufficio): si riporta il caso dell’affissione di manifesti, cartelli o
striscioni dal contenuto oltraggioso503.
In riferimento alla seconda, la dottrina504 ha prospettato due distinte soluzioni interpretative a
secondo che si accolga, o meno, la tesi della necessaria presenza del p.u.
A sostegno della configurabilità del reato mediante comunicazione telegrafica o telefonica – a
condizione, ovviamente, che l’offesa sia rivolta al p.u. mentre compie un atto d’ufficio – si sostiene
che se non considera più richiesta la predetta presenza dalla norma incriminatrice, la disposizione
499 Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 854. 500 Casalbore, cit., p. 464. 501 Gatta G.L., cit., 166 rileva, inoltre, che se l’offesa all’onore ed al prestigio del p.u. è realizzata con la stampa ovvero con internet (attraverso un sito web) non è configurabile l’oltraggio, bensì la diffamazione ex art. 595, 3 comma, aggravata ex art. 61, n. 10, c.p. La Cassazione penale, sez. V, 18 dicembre 1995, n. 1718, Merlo, in Riv. pen. 1996, 452, ha ravvisato la punibilità a titolo di diffamazione e non di oltraggio nell'affissione in luoghi pubblici della città di manifesti offensivi intestati e diretti alle parti offese nella loro qualità di magistrati e visibili ad un pubblico indeterminato. In caso di concorso apparente tra il delitto di diffamazione ed oltraggio trova applicazione la norma incriminatrice di quest'ultimo, sussistendo tra le due un rapporto di sussidiarietà, in quanto la fattispecie tipica dell'oltraggio presenta un "quid pluris" specializzante rispetto alla diffamazione, rappresentato dalla presenza della persona offesa. Tale presenza può essere fisica, materiale oppure ideale, ma è comunque sempre necessario che il pubblico ufficiale sia destinatario diretto dell'offesa, che percepisca immediatamente e direttamente dall'offensore, essendo insufficiente la conoscenza percepita attraverso il destinatario formale. 502 In giurisprudenza cfr. Cassazione penale, sez. VI, 06 febbraio 1985, Carrese, in Cass. pen. 1987, 735., Giust. pen. 1987, II,54 (s.m.) secondo la quale per la configurabilità del delitto di oltraggio mediante comunicazione scritta, si richiede che lo scritto offensivo sia oggettivamente rivolto al pubblico ufficiale che, cioè, quest'ultimo sia destinatario diretto e materiale e non soltanto ideale dello scritto medesimo, non essendo sufficiente la possibilità che l'atto venga portato a conoscenza del pubblico ufficiale cui si riferiscono le espressioni offensive. (Nella specie si è esclusa la configurabilità dell'oltraggio nell'invio di un ricorso, diretto genericamente al pretore di un mandamento nel quale esplicavano la propria attività due magistrati professionali ad uno dei quali - che non era il titolare dell'ufficio - si riferivano le espressioni ritenute offensive). 503 Al riguardo Flora G., cit., p. 1452 osserva, però, che l'ipotesi di uno scritto diretto al pubblico ufficiale e contestualmente percepito dal medesimo e da più persone presenti mentre è intento a compiere un atto dell'ufficio (si fa l'esempio di "affissione di manifesti, cartelli o striscioni dal contenuto oltraggioso") in luogo pubblico o aperto al pubblico, parrebbe ipotesi così poco realistica da non poter aspirare ad essere presa in considerazione all'interno dello schema descrittivo della norma. Riccio S., cit., p. 830, invece, precisava che non sussiste oltraggio nel caso di uno scritto o disegno sopra un muro fuori dell’ambiente ove vive il p.u. 504 Gatta G.L., cit., 167. Diversamente, invece, Flora G., cit., p. 1452, rileva che fatto che la rediviva incriminazione non faccia più riferimento all'offesa arrecata mediante comunicazione telefonica o telegrafica né a quella consumata mediante scritti o disegni diretti al pubblico ufficiale sembra proprio ben armonizzarsi con la soluzione sopra adottata e con la "doppia pubblicizzazione" dell’offesa tipica. Infatti, la natura riservata delle comunicazioni telefoniche e telegrafiche esclude che la contumelia si manifesti in presenza ("percettiva") di più persone.
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contenuta nel secondo comma dell’art. 341 c.p., non ha più ragion di esistere, essendo volta a dar
rilievo penale ai c.d. casi di presenza “equiparata”. Pertanto, dal momento che la legge non richiede
più che l’offesa al p.u. sia recata necessariamente in presenza di lui, l’ipotesi di offesa recata
mediante comunicazione telegrafica o telefonica ricade nell’ambito di applicazione del primo
comma.
Diversamente, cioè nel senso della non punibilità ex art. 341 bis c.p. (ma non, ai sensi dell’art. 594,
comma 2 e art. 61, n. 10, c.p.) delle offese all’onore ed al prestigio del p.u. recate per telefono,
telegrafo, o mediante comunicazioni via fax o mail, mentre egli è intento a compiere un atto del suo
ufficio, è stato osservato che la nuova fattispecie richiede espressamente che il fatto sia commesso
in luogo pubblico o aperto al pubblico e, soprattutto, in presenza di più persone (e,
correlativamente, postula in capo all’autore la rappresentazione che sta commettendo il fatto con
quelle modalità). Generalmente, però, le comunicazioni telefoniche, telegrafiche, via fax o postali,
anche elettroniche, dirette al p.u. (in ipotesi nel luogo aperto al pubblico in cui si sta svolgendo un
atto del proprio ufficio: si riporta l’esempio di un commissariato di polizia)505 non realizzano un
fatto commesso in presenza di più persone (ad es. la telefonata ingiuriosa)506. Si aggiunge che anche
nel caso in cui le più persone presenti nel luogo in cui si trova il p.u. percepiscano l’offesa a lui
rivolta secondo le predette modalità (ad es. perché egli utilizza il telefono con la modalità “viva
voce”) ciò esulerebbe dalla rappresentazione del soggetto agente. Nel merito, però, occorre
osservare che l’offensore non può fare affidamento sulla riservatezza altrui, né, tantomeno, sulla
tutela della propria, nel momento in cui se ne espropria comunicando con terzi.
Differente, però, è l’eventualità in cui le più persone, non concorrenti nel reato, siano presenti nel
luogo pubblico o aperto al pubblico, in cui si trova l’offensore autore della telefonata: si è fatto
l’esempio di un soggetto che in presenza di più amici che siedono con lui al tavolo di un bar, con
l’intento di dare in pubblico “una lezione” al vigile urbano che ha elevato nei suoi confronti una
sanzione amministrativa, lo chiama per telefono presso il comando della polizia municipale
rivolgendogli espressioni ingiuriose507.
In merito alla modalità della condotta si deve, inoltre, segnalare che non è stata riprodotta la
circostanza aggravante prevista dall’abrogato art. 341, 4 comma, c.p.
Tuttavia, considerata la natura di reato a forma libera, ciò non implica necessariamente che anche
atti di violenza o minaccia possano essere ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 341 bis
c.p., qualora ledano l’onore ed il prestigio del p.u., costituendo “sfogo di sentimenti ostili ed
505 Gatta G.L., cit., 167 sottolinea che è pacifica l’irrilevanza delle suddette comunicazioni se indirizzate in luoghi non pubblici né aperti al pubblico quali, ad es., l’abitazione privata del p.u. 506 In questo senso anche Aprile E., cit., p. 588. 507 Gatta G.L., cit., 167 e ss. In questo senso anche Padovani T., cit., p. 30.
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esprimendo contumelia, disprezzo o intento di vendetta”508. Può, pertanto, costituire oltraggio il
fatto in passato ritenuto dalla Cassazione rilevante ex art. 341, 4 comma, c.p., del soggetto che
afferra per il bavero un vigile urbano nell’esercizio delle sue funzioni e, strattonandolo, gli infili
nelle pieghe della divisa il verbale di contravvenzione, provocandone poi la caduta509 (qualora,
ovviamente, si verifichi un’offesa congiunta all’onore ed al decoro). Non occorre, infatti, che la
violenza o la minaccia siano idonee a coartare la volontà dell’offeso e neppure che siano idonee a
cagionare un vero e proprio pregiudizio fisico510.
508 Antolisei F., cit., p. 360 (ed 1995); Gatta G.L., cit., 168. Padovani T., cit., p. 30 secondo il quale la rilevanza di tali modalità dovrà essere apprezzata autonomamente, nel contesto delle relative fattispecie incriminatrici, secondo le regole del concorso formale di reati. 509 Cass., sez. VI, 29 aprile 1993, Barbaro, in CED Cass. N. 194447. Per un ulteriore approfondimento si rinvia al paragrafo dedicato all’analisi dei rapporti tra oltraggio a p.u., realizzato mediante violenza o minaccia e altre figure di reato. 510 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 6; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 461 secondo il quale si può commettere oltraggio violento anche con il lancio di palle di neve o con lo sputo. Inoltre la minaccia evidentemente inattuabile se commessa con intento spregiativo lascia sussistere il delitto base.cfr. anche Sisti U., cit., 263. In giurisprudenza si veda Cassazione penale, sez. VI, 03 marzo 1997, n. 5973, Mascaro, in Cass. pen. 1998, 1639 (s.m.), secondo la quale l'uso di una espressione minacciosa può essere idonea ad integrare il reato di oltraggio in ragione esclusivamente della capacità di lesione del prestigio di questi e non per la forza di condizionamento della condotta del pubblico ufficiale. Perché la minaccia integri invece la forma aggravata di oltraggio occorre che questa abbia una effettiva capacità intimidatoria. (Nell'affermare il principio di cui in massima la corte ha ritenuto che l'espressione "vi faccio trasferire immediatamente in Sardegna" rivolta ai pubblici ufficiali che procedevano al controllo fosse idonea ad integrare l'oltraggio in quanto diretta a ledere il prestigio di questi ma, sia per il suo contenuto oggettivo che per la qualità del soggetto che l'aveva pronunciata, non fosse tale da integrare l'aggravante della minaccia prevista dall'comma ultimo dell'art. 341 c.p.); Cassazione penale, sez. VI, 13 febbraio 1995, n. 9295, Lombardo, in Cass. pen. 1997, 717 (s.m.), secondo la quale l'aggravante della minaccia (art. 341 comma 4 c.p.) è configurabile anche in ipotesi di non attuabilità della stessa per evidente inferiorità fisica dell'agente rispetto al pubblico ufficiale, in quanto la minaccia non va presa in considerazione per la sua capacità intimidatoria, e quindi per la sua inidoneità a coartare la libera volizione del pubblico ufficiale, bensì soltanto come elemento oggettivo di più grave lesione del prestigio di quest'ultimo; Cassazione penale, sez. VI, 10 giugno 1993, Ravidà, in Cass. pen. 1994, 2694 (s.m.), Mass. pen. cass. 1993, fasc. 11, 100, Giust. pen. 1994, II, 190 (s.m.), secondo la quale l'efficacia intimidatrice di una frase, che la fa qualificare, a seconda dei casi, come reato di cui all'art. 336, o all'art. 337 ovvero all'art. 612 c.p., è direttamente proporzionale all'attualità del danno, che ne formi oggetto. Di conseguenza, se il male minacciato si presenta, ex se, non concretamente realizzabile, non è configurabile alcuna aggressione, penalmente rilevante, alla sfera psichica del soggetto passivo. Se, però, il profferire alcune parole apparentemente minacciose manifesta, e raggiunge, l'intento dell'agente di esprimere il proprio disprezzo per l'interlocutore, esso integra, a seconda dei casi, gli estremi del reato di cui all'art. 341 o di quello di cui all'art. 594 c.p. (Nella specie la Cassazione ha ritenuto che la minaccia dell'imputato di sodomizzare gli agenti operanti non presentasse alcuna oggettiva attitudine ad intimorire, ma costituisse una plateale offesa al loro prestigio e, dunque, integrasse il reato di cui all'art. 341 c.p.); Cassazione penale, sez. VI, 27 giugno 1984, Vavalle, in Giust. pen. 1985, II,511 (s.m.) secondo la quale in caso di oltraggio aggravato ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 341 c.p., la minaccia non viene presa in considerazione come elemento che può coartare la libera volizione del pubblico ufficiale, ma solo come elemento che tende a lederne oggettivamente il prestigio. A tali fini, pertanto, non deve essere preso in considerazione l'elemento della capacità intimidatoria della minaccia stessa; Cassazione penale, sez. V, 16 dicembre 1983, Mastroianni, in Riv. pen. 1985, 174 secondo la quale per la configurabilità dell'ipotesi aggravata prevista dal comma ultimo dell'art. 341 c.p., non si richiede necessariamente che la violenza o la minaccia si aggiungano ad altro fatto offensivo dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale, perché il fatto costitutivo dell'aggravante, cioè la violenza o la minaccia, oltre a limitare, anche in modo astrattamente idoneo, la libertà morale del pubblico ufficiale, determina un'intrinseca offesa all'autorità e al prestigio del medesimo. Si realizza la fattispecie aggravata di oltraggio di cui all'ultimo comma dell'art. 341 c.p., anche nell'ipotesi in cui l'agente si limiti a minacciare il pubblico ufficiale con espressioni prive in sè stesse di significato offensivo.
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Si discute, infine, sulla qualificazione quale reato di pericolo concreto511 (come la previgente
fattispecie512) o di danno513.
Secondo alcuni, infatti, il delitto continua a costituire un reato di pericolo perché non è necessario
che l’offesa sia effettivamente percepita dal p.u. e perché la circostanza che a seguito del percezione
della contumelia si determini un turbamento psicologico del p.u. rappresenta solo un’eventualità, e
non la naturale conseguenza della condotta incriminata514.
Coloro i quali classificano l’oltraggio come reato di danno, asseriscono, invece, che, se si distingue
la condotta del soggetto attivo dalle modificazioni che si producono nell’animo di quello passivo e
nell’animo dei terzi515, il delitto de qua non può essere di mera condotta (o formale) e ritengono,
invece, che sia materiale, coincidendo l’evento naturalistico con la percezione dell’offesa all’onore
ed al prestigio (analogamente all’ingiuria). Si tratta, infatti, di un reato istantaneo in cui il momento
consumativo coincide con la percezione da parte del soggetto passivo dell’espressione
oltraggiosa516.
In merito a quanto sopra esposto ci si deve interrogare se sia corretto sotto un profilo metodologico
trarre la qualificazione dell’oltraggio quale reato di pericolo o di danno da considerazioni di
carattere puramente effettuale, concrete e non determinabile a priori quali, ad es., l’eventualità che
si determini effettivamente un turbamento psicologico del p.u. Non sembra, infatti, che si possa
qualificare un reato in termini di pericolo solo perché le persone offese non reagiscono tutte nello
stesso modo, ma appare più opportuno riferirsi alla voluntas legis e alla struttura della norma che
mostra con chiarezza l’intento del legislatore di restringere l’ambito di applicazione della norma
attraverso l’inserimento di una serie di elementi volti a sottolineare la particolare gravità della
511 Scandone G., cit., 477. La previgente disposizione era considerata pacificamente un reato di pericolo concreto. In questo senso, in giurisprudenza cfr. Cassazione penale, sez. VI, 28 settembre 1995, n. 11579, Pulletta, in Cass. pen. 1997, 416 (s.m.), Giust. pen. 1997, II, 59 (s.m.), secondo la quale l'offesa al prestigio assurge ad esposizione a pericolo di attributi che devono accompagnare l'azione della pubblica amministrazione e quindi dei soggetti preposti o componenti dei suoi uffici ed il cui pregiudizio potrebbe risultare ostativo al raggiungimento delle finalità poste dalla legge, od all'efficacia dell'azione pubblica, incidendo sul consenso che la p.a. deve necessariamente avere nella società. Ciò posto il fatto offensivo dell'interesse tutelato dall'art. 341 c.p. deve concretizzarsi in una condotta volta a procurare il pericolo di siffatto pregiudizio, non essendo sufficiente a tal fine una manifestazione di critica anche accesa o di villania. (Affermando siffatto principio la Cassazione ha escluso la configurabilità del reato in questione con riguardo a comportamento di soggetto che ebbe a buttare dal finestrino dell'autovettura il processo verbale di contestazione di contravvenzione in precedenza consegnatogli dai C.C. In particolare la Corte suprema ha rilevato che non poteva ritenersi doversi, secondo comune regola civile, custodire detto documento ovvero non disfarsi di esso almeno alla presenza dei pubblici ufficiali). 512 Riccio S., cit., p. 831. 513 Gatta G.L, cit., p. 165. 514 Scandone G., cit., p. 477. 515 Madeo A., cit., p. 225, secondo il quale costituiscono evento psichico. 516 Antolisei, cit., p. 357.
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condotta. Non si ravvisa, pertanto, alcuna necessità di anticipare la soglia di tutela al fine di fornire
una protezione ulteriore al bene tutelato517.
Secondo la dottrina il reato di oltraggio ex art. 341 c.p. non era di pura condotta518. Occorreva che la
manifestazione psichica fosse percepita dal destinatario della condotta (o almeno dai terzi). In
assenza di tale percezione non si configurava, per inidoneità della condotta, il reato519. È necessario,
infatti, distinguere tra il comportamento dell’agente e la percezione da parte dell’offeso o dei terzi,
consistente nell’udire le parole o nel vedere gesti o scritti. Queste modificazioni costituiscono un
evento psichico. L’evento in senso naturalistico è dato dalla percezione delle parole e dei gesti
ingiuriosi520.
L’ELEMENTO OGGETTIVO: L’AMBITO TEMPORALE DI SVOLGIMENTO DELLA CONDOTTA OVVERO LA NECESSITÀ CHE L’OFFESA SIA RECATA AL P.U MENTRE COMPIE UN ATTO D’UFFICIO La fattispecie abrogata stabiliva che il fatto dovesse essere realizzato “in presenza del pubblico
ufficiale ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni”.
Il nuovo art. 341 bis c.p. continua a richiedere l’esistenza del nesso funzionale, ma ne precisa il
contenuto prescrivendo che la condotta di offesa dell’onore e del prestigio deve estrinsecarsi non
solo a causa o nell’esercizio delle funzioni, ma anche mentre il pubblico ufficiale compie un atto
d’ufficio. Pertanto l’elemento differenziale tra il vecchio ed il nuovo oltraggio ha un duplice
contenuto: da un lato non è più richiesto testualmente l’estremo della “presenza” del soggetto
passivo del reato; dall’altro è espressamente previsto che il pubblico ufficiale sia impegnato nel
compimento di un atto d’ufficio. Ciò postula necessariamente la contemporaneità tra la condotta
offensiva ed il compimento dell’atto d’ufficio.
Il predetto requisito della contestualità, dunque, costituisce uno dei punti che caratterizza la
fattispecie e, insieme alla pubblicità del reato e alla concomitante offesa all’onore e al prestigio da
un lato rafforza il collegamento inscindibile tra il reato e le pubbliche funzioni esercitate521,
dall’altro rappresenta un ulteriore elemento rivelatore della volontà del legislatore di restringere
l’ambito di applicazione della norma.
517 Secondo parte della dottrina, inoltre, la protezione ulteriore sarebbe difficilmente giustificabile in riferimento al prestigio della pubblica amministrazione, perché non gli si riconosce alcun rilievo costituzionale. Tale rilievo si potrebbe estendere anche all’ingiuria, attesa che la medesima non tutela la dignità umana, ma semplicemente l’onore. 518 Riccio S., cit., p. 831. 519 Contra Petrocelli, Principi di diritto penale, vol. I, Padova, 1943, p.330. 520 Riccio S., cit., p. 831. 521 Scandone G., cit., p. 474. Padovani T., cit., p. 26 osserva che il compimento dell’atto d’ufficio, presupposto della condotta tipica, costituisce da un lato la precisazione del nesso stabilito tra offesa e dignità della funzione amministrativa, dall’altro, una conferma la natura della tutela diretta a garantire l’agente pubblico in quanto impegnato ad assicurare il funzionamento della Pubblica amministrazione.
121
Si esclude, infatti, la rilevanza, ai sensi dell’art. 341 bis c.p. (ma non, ricorrendone i presupposti,
dell’ingiuria aggravata) di un’offesa rivolta al p.u. prima o dopo il compimento dell’atto di ufficio
come nelle ipotesi in cui il soggetto offenda l’onore e il prestigio dell’ufficiale giudiziario qualche
giorno o qualche ora prima che questi esegua, nei suoi confronti, il pignoramento o apostrofi in
malo modo il vigile urbano per essere stato da questi sanzionato qualche ora prima per violazione al
codice di circolazione stradale (ad es. per sosta vietata)522.
Parte della dottrina523, però, ha evidenziato che la lettura della norma secondo la quale il requisito
del contestuale compimento atto d’ufficio è solo utile a dirimere le incertezze interpretative sorte
durante la vigenza dell’abrogata fattispecie in merito alle offese rivolte ai pubblici ufficiali in
servizio permanente e a quello cessati dalle funzioni (nel senso di escluderli dall’ambito di
applicazione della norma) è estremamente limitativa della sua portata innovativa524. L’introduzione
di siffatta specificazione, invece, sarebbe indicativa della volontà del Legislatore di limitare la
configurazione dell’oltraggio ai casi in cui possano risultare lesi sia il prestigio sia il buon
andamento della Pubblica amministrazione. La contestualità all’esercizio delle pubbliche funzioni e
la necessità che l’offesa sia recata nel momento in cui il p.u. pone in essere un determinato e
concreto atto del suo ufficio testimoniano l’intenzione legislativa sia di sanzionare solo quei
comportamenti che, provocando un significativo turbamento nel soggetto passivo, si riflettono
conseguentemente sulla regolare svolgimento dell’azione amministrativa, sia di evidenziare che il
p.u. non è tutelato in virtù del suo status privilegiato, ma solo in quanto sta concretamente ponendo
in essere degli atti al servizio dei cittadini525.
La portata del presupposto, quindi, è più vasta ed impone di accertare che il p.u. risulti impegnato in
un’attività specifica che concretizzi l’esercizio delle sue funzioni. I principali problemi applicativi
del requisito de quo attengono da un lato alla precisazione se l’atto rilevante ex art. 341 bis c.p. è
solo quello conforme ai doveri d’ufficio, dall’altro all’individuazione, caso per caso, del suo
momento iniziale e quello finale, in modo da fissare i termini temporali della contestualità.
522 Gatta G.L., cit., p.170; Madeo A., cit., p. 232; Padovani T., cit., p. 24 e ss., il quale osserva che il compimento di un atto d’ufficio assume un ruolo baricentrico per l’integrazione della fattispecie: l’insulto rivolto al p.u. che sta bevendo un caffè al bar non potrò qualificarsi oltraggio. L’autore, inoltre, ricorda che la soluzione normativa sembra accogliere la proposta formulata da Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 868. 523 Scandone G., cit., p. 475. 524 In merito Scandone G., cit., p. 475 osserva l’intervenuta impossibilità di procedere per i delitti di oltraggio nei confronti di un pubblico ufficiale cessato dalle funzioni, che costituisce un eccezione al principio generale enunciato dall’art. 360 c.p., è un effetto collaterale dell’intervento normativo e non una causa dello stesso. 525 Pasella, Reintroduzione, cit., p. 37; Scandone G., cit., p. 476.
122
Circa il primo profilo occorre osservare che l’eventuale invalidità dell’atto compiuto dal p.u. non
può influire sulla integrazione del presupposto: un atto illegittimo resta, in linea di principio, un atto
d’ufficio, ascrivibile in quanto tale all’ente o all’amministrazione che il p.u. impersona526.
Per quanto, invece, attiene al secondo vi sono delle situazioni in cui è difficile stabilire con certezza
se ricorra o meno il contestuale “compimento dell’atto d’ufficio”: ad es. si pensi alle ipotesi in cui
sussiste lo svolgimento del servizio (per esempio carabiniere in turno di controllo alla viabilità), ma
l’offesa viene posta in essere dopo che è stato compiuto uno degli atti determinati in cui si
estrinseca l’attività di servizio (per esempio un verbale di infrazione al codice della strada). Se per
atto d’ufficio s’intende soltanto quello formalmente individuato e specificamente disciplinato, di
competenza del soggetto passivo (ad es. un atto d’arresto, un sequestro, un pignoramento, un atto
d’identificazione, l’assunzione di una testimonianza, la contestazione di una contravvenzione), si
pone, inoltre, la stessa problematica che si rinviene nell’interpretazione dell’art. 337 c.p. 527 e
relativa alla spesso non facile determinazione del momento iniziale e di quello finale dell’atto.
Al fine di risolvere i casi dubbi talvolta si sono assimilate le ipotesi di immediata “prossimità” o
“colleganza” all’atto d’ufficio al vero e proprio inizio dello stesso, altre volte si è intesa la relativa
nozione come comprensiva di tutte le attività compiute in vista dello scopo ultimo da raggiungere:
ad es. si è precisato come l’intimazione segni l’inizio dell’atto di arresto, che si protrae sino a
quando la persona arrestata viene condotta in camera di sicurezza o in carcere; l’atto di
identificazione di una persona si è ritenuto terminato solo una volta che si sia proceduto alle
prescritte annotazioni; l’accesso all’abitazione del debitore si è detto talvolta essere soltanto un atto
preparatorio rispetto all’esecuzione di un pignoramento, così come si è discusso se la contestazione
di una violazione amministrativa già inizi con l’intimazione dell’alt da parte degli agenti della
polizia stradale o, invece, con il rimprovero della trasgressione al contravventore.
Secondo un orientamento528 il dato letterale, ovvero l’utilizzo della più pregnante espressione
“mentre compie un atto d’ufficio”, e non di quella più generica dello svolgimento del servizio,
induce a ritenere che la norma si riferisca ad atti ben determinati e non coincidenti con la generica
526 Al riguardo Padovani T., cit., p. 30 osserva che se l’illegittimità tracima nelle forme dell’eccesso co atti arbitrari dai limiti delle sue attribuzioni l’oltraggio risulterà non punibile ex art. 393 bis c.p. L’autore rileva che difficilmente un atto eccedente arbitrariamente dai limiti delle attribuzioni istituzionali potrà considerarsi ancora un atto d’ufficio. Un tale comportamento, infatti, spezza il nesso di imputazione organica che riconduce l’atto d’ufficio all’Amministrazione, rendendolo espressione di un’inammissibile iniziativa personale del p.u. In questa prospettiva atto d’ufficio ed eccesso arbitrario si pongono in rapporto d’incompatibilità: di fronte all’eccesso arbitrario viene meno l’atto d’ufficio e, con esso, la fattispecie stessa dell’oltraggio. 527 In questo senso Padovani T., cit., p. 29, il quale evidenzia che un’esigenza analoga si prospetta a proposito del delitto di resistenza a p.u. (art. 337 c.p.) la cui fattispecie esige il contestuale compimento di un atto di ufficio o di servizio. Però mentre nel caso della resistenza, la condotta violenta o minacciosa che anticipi o ecceda i limiti cronologici attribuibili al compimento dell’atto finirà con l’assumere rilevanza in base ad un titolo (quello di violenza a p.u.) di pari gravità, per l’oltraggio la posta in gioco è più elevata: l’offesa non contestuale al compimento dell’atto rifluirà nell’ambito della più gracile tutela comune offerta dall’ingiuria. 528 Santoro V., cit.
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attività di servizio e di istituto529. È opportuno, infatti, distinguere tra prestazione di un’attività
propria dell’ufficio e compimento di un atto ad esso inerente530, che si ha solo quando il pubblico
ufficiale dia corso all’attuazione di una norma che gli impone o gli consente un’attività specifica531.
L’atto implica il compimento di un’attività intrinsecamente destinata a produrre effetti giuridici.
Non è necessario che tali effetti si riferiscano a chi commette la condotta oltraggiosa, perché
possono riguardare un terzo o una collettività di persone532. L’atto, inoltre, può risolversi in una
pluralità di condotte, consistenti in operazioni materiali (ispezioni, perquisizioni, prelievi,
accertamenti documentali, ecc.) e in attività di documentazione formale (ad es. redazione di verbali,
di provvedimenti). Per coglierne i limiti di svolgimento occorrerà riferirsi al tipo di atto individuato
nella fattispecie concreta: l’inizio, quando non sia indicato dalla norma di riferimento (ad es. nella
perquisizione la consegna di copia del decreto di sequestro ex art. 250, I comma, c.p.) coinciderà
con il compimento della prima attività diretta al perseguimento dell’effetto conclusivo (ad es. l’alt
impartito all’automobilista colto in contravvenzione); la fine sarà individuata con l’effettivo
raggiungimento dell’effetto cui l’atto è preordinato (ad es. la redazione del verbale di
contestazione)533.
Un altro indirizzo534 ha evidenziato come l’orientamento possa condurre a soluzioni irragionevoli
quali, ad es., considerare ingiuria aggravata le offese – all’onore e al prestigio - rivolte da un
soggetto transitante per la strada ad un carabiniere che staziona sul marciapiede (luogo pubblico) in
servizio di vigilanza esterna alla caserma e, dunque, nell’esercizio delle sue funzioni; altresì
considerare oltraggio le medesime offese, rivolte allo stesso p.u. mentre quest’ultimo intima l’alt
per riconoscere la persona che tenta di entrare nella caserma535.
Sembrerebbe, quindi, secondo alcuni più corretto, accogliere una nozione estesa di atto d’ufficio
individuandolo, in generale, in ogni concreto esercizio dei poteri inerenti alle funzioni svolte536.
Non è, infatti, necessario che si tratti di un formale atto amministrativo, legislativo o giudiziario,
perché è sufficiente che attenga ad un comportamento, anche materiale, relativo all’ufficio ed al
529 In questo senso Padovani T., cit., p. 29 secondo il quale al fine di distinguere “il compimento dell’atto d’ufficio” dalla “svolgimento delle funzioni” è necessario che l’atto si esprima con attività ed operazioni specifiche e non si risolva nella mera competenza a svolgerle. 530 In questo senso Padovani T., cit., p. 29 secondo il quale il funzionario che attende allo sportello, il vigile urbano che percorre una strada controllando il traffico pronto ad intervenire in caso di necessità, la volante che perlustra il territorio prestano sicuramente un’attività di servizio, ma non compiono alcun atto d’ufficio. 531 Ad es. il rilascio di un certificato; la contestazione di una contravvenzione stradale; l’arresto dell’autore di un reato colto in flagrante, ecc. In questo senso Padovani T., cit., p. 29 532 Ad es. il vigile che dirige il traffico compie una serie di gesti che impongono o autorizzano comportamenti nela circolazione stradale. In questo senso Padovani T., cit., p. 29 533 Padovani T., cit., p. 30. 534 Pasella, reintroduzione, cit., 38. 535 Scandone G., cit., p. 477 prosegue nell’esempio specificando che se il p.u. viene anche spintonato affinchè non impedisca l’ingresso arbitrario nella struttura si configurerà un concorso tra l’oltraggio e la resistenza ex art. 337 c.p. 536 Pasella, reintroduzione, cit., 38
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servizio537. Ciò che rileva ai fini della consumazione del reato è che l’offensore non solo debba
essere genericamente a conoscenza che il p.u., al momento dell’offesa, sta esercitando le proprie
funzioni, ma che debba rappresentarsi nella sua determinatezza l’attività che in quel momento egli
stà ponendo in essere538.
L’ELEMENTO OGGETTIVO: IL NESSO FUNZIONALE OVVERO LA NECESSITÀ CHE L’OFFESA SIA RECATA AL P.U A CAUSA O NELL’ESERCIZIO DELLE SUE FUNZIONI
Attraverso la congiunzione “e” la norma precisa che il fatto di oltraggio non solo deve essere
commesso in uno specifico momento, ma anche “a causa o nell’esercizio delle sue funzioni”. La
previsione è alternativa, cioè il fatto diviene penalmente rilevante, sub specie di oltraggio, quando è
commesso a causa o nell’esercizio delle funzioni539.
Il predetto nesso funzionale che deve esistere tra il comportamento offensivo e l’esercizio delle
funzioni o del servizio costituisce un elemento essenziale del reato di oltraggio, nonché
differenziale rispetto al meno grave delitto di ingiuria540. Esso assume due configurazioni: in primo
luogo sub specie di rapporto di causalità psicologica541, cioè si delinea come causa del
comportamento ingiurioso, nel senso che l’antecedente causale e la ragione dell’offesa devono
correlarsi alle funzioni svolte dal pubblico ufficiale; in secondo luogo sub specie di rapporto di
contestualità542, cioè nel senso che l’offesa deve essere contemporanea all’esercizio delle funzioni o
del servizio ed è, pertanto, presunto in tutte quelle evenienze in cui l’offesa, qualunque ne sia la
ragione e la origine, venga posta in essere nel mentre il pubblico ufficiale sia “nell’esercizio delle
sue funzioni”.
537 Romano M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali. Commentario sistematico, Milano, 2006, p. 168; Scandone G., cit., p. 477. 538 Pasella, reintroduzione, cit., 38 539 F., Oltraggio, cit., p. 859, ricorda che durante la vigenza della fattispecie abrogata la giurisprudenza, unanime e costante (Cass. 25 maggio 1964, in Cass. Pen. mass., 1965, 64, m. 61; Cass. 6 marzo 1963, in Giust .pen., 1964, II, 294) ha ritenuto che fosse penalmente protetto anche il cosiddetto funzionario di fatto (cfr. in argomento, v. Codagnone, Sul pubblico ufficiale e sul funzionario di fatto, in Giust. pen., !964, II, 294 ss.) e che quindi, l’oltraggio sussistesse anche nell’ipotesi in cui il nesso funzionale si ponesse rispetto a funzioni esercitate di fatto (cfr. per un caso particolare di presunto oltraggio a funzionario di fatto, v. Bisegna, L’offesa ad allievo vigile urbano quale dipendente comunale, in Giust. pen., 1965, II, 331 ss.) purchè non usurpate (In senso contrario alla prevalente giurisprudenza , v. Magliaro, Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1977, 8) e alla duplice condizione che, in primo luogo, i poteri esercitati in fatto corrispondano effettivamente a quelli di cui è investito un organo pubblico preesistente nell’ordinamento e che, in secondo luogo, il loro esercizio si traduca in atti giuridicamente efficaci nei confronti dei terzi, oppure suscettibili di far assumere al funzionario responsabilità nei confronti della pubblica amministrazione (Maliverni, Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, in Nss. D.I., XIV, 1968, 581 e ss.). Nello stesso senso Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 456. 540 Levi, op. cit., 151, il quale osserva che il vero elemento differenziale rispetto al meno grave delitto di ingiuria non è la qualità del soggetto passivo in se stesso, ma il nesso che deve esistere tra il comportamento offensivo e l’esercizio delle funzioni o del servizio. 541 art. 341 comma 1 e 2, 342 comma 2 c.p.; art.1104 commi 1 e 5 c. nav. 542 art. 341 comma 1, 342 comma 1, 343 c.p.; art.1104 commi 1 e 5 c. nav.
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Vigente l’abrogata fattispecie, dottrina543 e giurisprudenza544 ritenevano che l’offesa recata a causa
delle funzioni del p.u. non ne richiedesse altresì l’attualità dell’esercizio. La locuzione “causa”,
infatti, come sopra esposto, indicava (ed indica) il rapporto di connessione psicologica tra il fatto e
le funzioni esplicate, non rilevando una spinta motivazionale che attiene a sfere diverse, quale
quella privata, che si può atteggiare in inimicizia, rivalità affettiva, dissapori familiari, ecc.
La “causa” dell’offesa, pertanto, svolgeva un ruolo incisivo, in quanto consentiva di ravvisare
l’oltraggio nei fatti di offesa del prestigio di un pubblico ufficiale che non fosse impegnato nel
concreto adempimento del servizio ovvero anche quando il p.u. aveva perduto la sua qualità ex art.
360 c.p.545 o, comunque, non stava svolgendo un atto del suo ufficio, purchè sussistesse un nesso di
causalità psicologica tra l’offesa e le funzioni esercitate dal p.u. Quest’ultimo, pertanto, non
s’innestava automaticamente, ma doveva essere dimostrato che l’offesa fosse correlabile alle
543 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 5, secondo il quale poteva trattarsi anche di una funzione di fatto (cioè esercitata al di fuoti dei limiti delle normali attribuzioni del p.u.) purchè la funzione di fatto fosse riconosciuta dalla pubblica amministrazione; Riccio S., cit., p. 830; F., Oltraggio, cit., p. 861, secondo il quale il nesso di “causalità psicologica” non implicava la necessità che il comportamento offensivo fosse tale da rendere obiettivamente ed esteriormente palese la sua connessione psicologica con l’esercizio delle funzioni (cfr. Manzini V., cit., p. 519; diversamente, v. Rosso, Il concetto di “causa delle funzioni” nel reato di oltraggio, in N. dir.,1936, 376) ma è indispensabile che queste ultime abbiano costituito il movente, esclusivo o predominante, del comportamento (cfr. Grispigni, I delitti,cit., 276) o meglio la condizione psicologicamente necessaria, anche se non unica, della determinazione criminosa del soggetto. Pertanto secondo l’Autore il requisito in esame appartiene non già all’elemento oggettivo e materiale del reato, ma a quello soggettivo o psicologico: si tratta, cioè, di un dolo legislativamente qualificato dal suo procedimento di formazione. Il nesso di casualità psicologica, infine, può porsi in rapporto tanto al singolo e specifico atto funzionale, compiuto o da compiere (Cass. 17 aprile 1958, in Giust. pen., 1958, II, 950, m. 766) quanto al complesso delle funzioni di cui è investito il pubblico ufficiale, astrattamente considerato quale “ufficio” in senso oggettivo (Capalozza, Aspetti e problemi dell’oltraggio a pubblico ufficiale, in Riv. pen. 1938; Vannini, Quid iuris?, VII, cit., 48). Il reato, pertanto, non sussiste quando il nesso riguardi attività diverse da quella funzionale, anche se con quest’ultima occasionalmente connessa. 544 Cfr. Cass., sez. V, 28 novembre 1997, Tamburini, in CED Cass., n. 209564; Cass., sez. VI, 28 maggio 1985, Del Monaco, in Cass. pen. 1986, 1944 (s.m.), secondo la quale per la sussistenza del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale è necessario che fra l'offesa e le pubbliche funzioni intercorra un rapporto di natura causale o meramente cronologica. Nella prima ipotesi il comportamento offensivo ripete la sua causa dalle funzioni di cui è investito il soggetto passivo, ma non si richiede l'attualità delle funzioni medesime, potendo tale condotta verificarsi anche quando il pubblico ufficiale non le eserciti concretamente e sinanché a norma dell'art. 360 c.p. quando il pubblico ufficiale abbia perduto tale qualità. Nella seconda è sufficiente che l'offesa venga recata anche per motivi personali e privati mentre il pubblico ufficiale attende al suo ufficio. Nel caso in cui l'oltraggio venga consumato mediante comunicazione telegrafica, telefonica, ovvero con scritti o disegni, è indispensabile il nesso di causalità fra la pubblica funzione e l'offesa: è cioè necessario che quest'ultima sia commessa propter officium e non soltanto in officium; Cass., sez. VI, 14 luglio 1981, Minacci, Cass. pen. 1983, 308 (s.m.), secondo la quale la tutela penale in ordine alla qualità di pubblico ufficiale è disposta nel pubblico interesse, che può essere leso o posto in pericolo non solo durante il tempo in cui il pubblico ufficiale esercita le sue mansioni ma anche dopo, quando il soggetto investito del pubblico ufficio abbia perduto la qualifica, sempre che il reato commesso in suo danno si riconnetta all'ufficio già prestato; Cassazione penale, sez. VI, 11 luglio 1990, Prostamo, in Foro it. 1991, II,151 e in Cass. pen. 1992, fasc. 6, secondo la quale Per aversi oltraggio punibile ex art. 341 c.p. non basta che l'attacco sia rivolto all'onore o al prestigio di una persona investita di un pubblico potere, ma è necessario un rapporto di causalità, o almeno di occasionalità, fra l'attacco e il concreto esercizio delle proprie funzioni da parte della persona offesa. 545 Ai sensi del quale “quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, o di esercente un servizio di pubblica necessità , come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale qualità, nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l'esistenza di questo né la circostanza aggravante se il fatto si riferisce all'ufficio o al servizio esercitato”. In questo senso Antolisei F., cit., p. 358 (ed. 1995).
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funzioni effettivamente svolte dal soggetto passivo546. In tali ipotesi il baricentro dell’illecito
riposava sulla ragione per la quale veniva tenuta la condotta di offesa: ragione attinente allo status
di pubblico ufficiale ed ai suoi compiti di servizio, non importa se già svolti o ancora da svolgere.
L’esercizio delle funzioni547, invece, esprimendo la contestualità temporale tra la condotta e la
circostanza che il p.u. è intento a svolgere un’attività inerente il proprio ufficio si poneva come
alternativo alla causa dell’offesa e consentiva di ravvisare l’oltraggio anche quando l’offesa traeva
origine in motivi privati o in relazione ad attività diverse da quelle funzionali, anche se ad esse
occasionalmente collegate (cioè senza alcun collegamento con la qualifica e le funzioni pubbliche).
In tali ipotesi (di offesa scaturita da causa privata) l’oltraggio veniva a dipendere esclusivamente
dalla circostanza che il pubblico ufficiale fosse nell’esercizio delle sue funzioni.
Pertanto nell’abrogata fattispecie l’oltraggio ricorreva in due distinte ed alternative evenienze:
quando si offendeva un pubblico ufficiale a causa del suo servizio e quando si offendeva il pubblico
ufficiale durante l’espletamento del servizio. In entrambi i casi, ai fini della condotta tipica, era
indifferente che l’offesa concernesse il prestigio o l’onore.
Il nuovo reato, invece, non sarà configurabile nell’ipotesi di offese poste in essere quando il
pubblico ufficiale non si trova nel concreto adempimento di compiti di ufficio: non avrà alcuna
rilevanza il fatto che l’offesa venga posta in essere per cause riconducibile alla funzione
istituzionale (atto compiuto o da compiere)548. Di conseguenza la previgente interpretazione
proposta in riferimento alla locuzione “a causa” non è più ammissibile549: con tale dicitura, infatti,
546 Casalbore, p. 465; Contra Spizuoco, p. 7. Pretura Siracusa, 20 giugno 1998, Puzzo, in Riv. pen. 1998, 1157, secondo la quale il nesso causale tra l'offesa e l'esercizio della pubblica funzione sussiste tutte le volte che, sul piano oggettivo, vi sia correlazione tra l'attività oltraggiosa del reo e l'attività in concreto svolta dal funzionario. Quando il pubblico ufficiale non si trovi nell'esercizio di pubblici funzioni, occorre che l'offesa tragga origine dalle funzioni svolte dal destinatario di essa. 547 Cassazione penale, sez. VI, 11 luglio 1990, Prostamo, in Foro it. 1991, II,151 e in Cass. pen. 1992, fasc. 6, secondo la quale all’interno dell'organo collegiale, non è possibile ravvisare un'offesa, posta in essere da uno dei componenti in danno di un altro, che integri gli estremi del reato di oltraggio, di cui all'art. 341 c.p., poiché, appartenendo il potere al collegio nella sua inscindibile unità, e non ai singoli componenti, mancherebbe il presupposto, indispensabile, del nesso fra l'offesa e l'esercizio della funzione (nella specie, se ne è dedotto che le espressioni offensive o le minacce rivolte da un docente al preside, nel corso di una discussione sulle modalità di attuazione dello sciopero svoltasi durante il periodo di "blocco degli scrutini", integrano non già la fattispecie di oltraggio bensì i reati di ingiuria e minaccia). 548 Padovani T., cit., p. 28, il quale evidenzia che con la nuova formulazione la funzione dei due presupposti risulta profondamente mutata perché si agganciano necessariamente a quello del compimento dell’atto d’ufficio. La previsione di quest’ultimo rende poco plausibile la loro persistenza perché finiscono con il risultare l’uno (l’esercizio delle funzioni) ridondante; l’altro (a causa delle funzioni) irrilevante. Mentre per l’irrilevanza non è possibile esperire alcun rimedio ermeneutico, per l’esercizio delle funzioni, invece, è possibile attribuire un senso: il suo richiamo all’interno della norma ribadisce che “atto di ufficio” ed “esercizio delle funzioni”, proprio perché previsti distintamente non possono identificarsi risolvendosi l’uno nell’altro. L’atto d’ufficio deve consistere in un quid specifico e definito, non riconducibile alla circostanza che il p.u. si trovi semplicemente in attività di servizio. Santoro V., cit. secondo il quale il compimento di un atto di ufficio configura il presupposto indispensabile per la configurabilità dell’oltraggio ed in sua assenza non potrà mai darsi il reato, a prescindere dalla causa dell’offesa e dalla sua attinenza al servizio. 549 Gatta G.L., cit., p.171. Secondo Padovani T., cit., p. 28, inoltre, il presupposto dell’essere l’offesa recata a causa delle funzioni non è più in grado di svolgere, a differenza dell’originario art. 341 c.p. alcune selezione tipica. Infatti se il p.u. sta compiendo un atto del proprio ufficio, risulterà pur sempre integrato il requisito dell’esercizio delle funzioni, per cui non rileverà che ricorra eventualmente il presupposto alternativo dipendente dalla causa di esso. Se, viceversa, il
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la legge seguita ad attribuire rilievo alle offese attinenti (ovvero che trovano ragion d’essere) alla
funzione pubblica esercitata o allo status di pubblico ufficiale550. In questa ipotesi, infatti, continua
assume rilievo la concreta e visibile “causa” del fatto offensivo, con la conseguenza che, fermo
restando gli ulteriori requisiti, il reato dovrebbe essere escluso nel caso in cui l’offesa abbia tratto
origine da motivazioni e cause che non abbiano alcun concreto rapporto con l’esercizio delle
funzioni e abbiano a che fare con i privati rapporti interpersonali. Però, poichè il testo della norma
richiede espressamente che l’oltraggio sia rivolto mentre il p.u. compie un atto del suo ufficio,
requisito che postula necessariamente l’attualità dell’esercizio delle sue funzioni, non è più
possibile asserire che l’ambito di applicazione della norma continui a ricomprendere anche gli
insulti rivolti ad un pubblico ufficiale non impegnato nel concreto adempimento del servizio ovvero
cessato dallo stesso ex art. 360 c.p.
Sebbene testualmente anche l’esercizio delle funzioni continua a costituire un’altra modalità di
estrinsecazione del nesso funzionale, secondo alcuni la previsione del necessario compimento di un
atto d’ufficio, che di per sé configura una vicenda di esercizio delle funzioni, rende il secondo
inciso (nell’esercizio delle sue funzioni) a prima vista superfluo e ridondante551. In realtà i due
estremi, ancorchè nella sostanza simili, operano su piani diversi. Fermo restando, infatti,
l’ineludibile presupposto del compimento di un atto di ufficio, la seconda variante di nesso
funzionale (svolgimento delle funzioni) viene in concreta evidenza tutte le volte che la causa
dell’offesa non sia riconducibile alle funzioni pubbliche (altrimenti ricorrerebbe l’alternativo nesso
funzionale della “causa attinente alle funzioni”) ed abbia, invece, esclusivamente natura privata e
personale552.
fatto è motivato dalle funzioni svolte dal p.u., ed è quindi commesso a causa di esse, ma il p.u. non sta compiendo alcun atto che vi si riferisca, questo dato negativo escluderà comunque l’integrazione della fattispecie. 550 Cassazione penale, sez. V, 28 novembre 1997, n. 5455, Tamburrini, in Cass. pen. 1999, 516 (s.m.), Giur. it. 1999, 1717, secondo la quale per la sussistenza del delitto di oltraggio è necessario che intercorra un rapporto causale, anche meramente cronologico, tra l'offesa e le pubbliche funzioni. Ne consegue che la non attualità delle funzioni non vale ad escludere il reato se commesso a causa di esse, e che i personali motivi a delinquere, del tutto estranei alla ratio, all'oggettività giuridica e all'aggressione del bene protetto in via speciale, in tanto non sono preclusivi della particolare tutela di cui all'art. 341 c.p. in quanto l'offesa sia arrecata durante l'esercizio delle pubbliche funzioni. 551 In questo senso Padovani T., cit., p. 28, secondo il quale l’atto d’ufficio “fuori” dall’esercizio delle funzioni costituisce un ossimoro: se è “fuori” dalle funzioni l’atto non è di ufficio, e viceversa. Santoro V., cit. secondo il quale ai fini della soluzione del sopra prospettato problema interpretativo non sembra che “la strada giusta sia quella che distinguesse tra atto di ufficio e funzione e riservasse al secondo inciso il compito di selezionare i casi più impegnativi e autorevoli di esercizio dei compiti istituzionali, appunto quelle che si concretassero nell’esercizio di funzioni. Il concetto di funzioni non ha un significato tecnicamente univoco ed è verosimile che il legislatore lo abbia adoperato come sinonimo di atti di ufficio e di servizio”. 552 In merito Santoro V., cit. osserva che considerata la necessità che la condotta offensiva incida su entrambi i beni dell’onore e del prestigio, sarà in realtà rara l’ipotesi che un’offesa con motivazione privata integri la condotta tipica. “Siccome l’offesa deva colpire l’onore “pubblico” del soggetto passivo, è inevitabile che la suddetta modalità di realizzazione del reato verrà ad essere circoscritta alle ipotesi in cui la causa privata del fatto si estrinsechi sotto forma di offesa al prestigio. E quindi nei casi in cui il soggetto agente, nutrendo risentimenti e motivi di rivalsa di carattere personale e privato, offenda il pubblico ufficiale che si trovi nell’esercizio delle sue funzioni e sfoghi il suo rancore con addebiti che, quanto al contenuto, ledano sia l’onore che il prestigio”.
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Nell’ipotesi in cui il legislatore non ne avesse fatta specifica menzione, infatti, la norma avrebbe
fatto esclusivo riferimento alla “causa attinente all’esercizio delle funzioni” e per tale ragione il
reato di oltraggio non sarebbe consumato in caso di offese poste in essere per motivi privati553.
Proprio per evitare tale eventualità ed allo scopo di conferire rilevanza costitutiva anche a
quest’ultima tipologia d’insulto, il legislatore ha inserito nella disposto delle norma l’ulteriore
elemento dell’esercizio delle funzioni, nel convincimento che in tal caso le offese assumano un
disvalore aggiuntivo e specifico e richiedano una peculiare risposta sanzionatoria.
La nuova formulazione normativa, inoltre, chiarisce il contrasto sorto in passato in riferimento al
concetto di “esercizio delle funzioni” riferito ai fatti commessi contro i p.u. in “servizio
permanente” (per es. agenti di P.S.554, carabinieri555).
553 Santoro V., cit. secondo il quale se il legislatore non avesse previsto anche il nesso dell’esercizio delle funzioni l’oltraggio sarebbe diventato il reato di colui che offende l’onore ed il prestigio del pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa delle funzioni esercitate. L’autore, inoltre, rileva che in realtà in questa prospettiva resta da chiedersi, paradossalmente, se sia davvero determinante il riferimento alla “causa” dell’offesa perché “la rilevanza dell’esercizio delle funzioni va ben oltre e sembra tradursi nella irrilevanza delle causali dell’offesa. Ogni offesa all’onore ed al prestigio di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni, infatti, costituisce, di per sé e fermo restando la pubblicità del luogo e la pluralità delle persone, il reato di oltraggio. L’esercizio delle funzioni, in altri termini, assorbe e rende irrilevante la causa, privata o istituzionale, del fatto ed è di per sé sufficiente ad integrare il nesso funzionale richiesto ai fini del reato. Con la conseguenza che la vera superfetazione normativa viene ad essere il riferimento alla causa del fatto e non quello all’esercizio delle funzioni. Sembra, quindi, che nel descrivere la nuova fattispecie il legislatore abbia peccato di vischiosità e pensato che fosse indispensabile riprodurre nel nuovo oltraggio l’identico nesso funzionale che connotava il pregresso reato (causa attinente alle funzioni o esercizio delle funzioni). Solo che non ha considerato il novum rappresentato dal necessario compimento di un atto di ufficio, che segna uno dei punti di marcato distacco delle due fattispecie. L’abrogato reato non richiedeva tale elemento e poteva realizzarsi anche quando il pubblico ufficiale non fosse impegnato in attività di servizio. A tal fine era però indispensabile che la causa dell’offesa fosse attinente al servizio. Nella nuova costruzione, per contro, è del tutto scomparsa l’eventualità che l’oltraggio possa essere commesso in caso di pubblico ufficiale che non si trovi in servizio ed il compimento di un atto di ufficio è diventato l’ineludibile presupposto di configurabilità del reato. Viene quindi a mancare, per precisa scelta del legislatore, l’unico contesto in cui operava la causa attinente alle funzioni: e cioè quello del pubblico ufficiale che non fosse in servizio e fosse stato offeso a causa del servizio. E di conseguenza diventa onnicomprensivo l’estremo dell’esercizio delle funzioni, che verrebbe ad assorbire tutte le ipotesi in cui può verificarsi l’oltraggio, in quanto in grado di comprendere tutte le condotte offensive dell’onore e del prestigio, a prescindere dalla causa che le ha determinate. Anche in questo caso, però, vanno evitate conclusioni premature. Quanto osservato sopra è del tutto plausibile ad una duplice condizione: che la presenza del pubblico ufficiale sia implicitamente richiesta dalla norma incriminatrice, in quanto corollario del duplice requisito del compimento di un atto di ufficio e dell’esercizio delle funzioni; e che il pubblico ufficiale sia il diretto destinatario dell’offesa e ne percepisca il contenuto. Se, però, l’equazione sopra indicata non è corretta ed uno delle sue componenti viene meno, diventa possibile, come vedremo in seguito, recuperare alla causa attinente al servizio uno spazio di concreta ed autonoma efficacia”. 554 In riferimento agli appartenenti alla Polizia di Stato che al momento del fatto di reato non si trovavano in servizio sorse la questione se potesse configurarsi o meno il reato di resistenza ad opera di un cittadino responsabile di condotte violente a causa e durante la contestazione immediata di una contravvenzione al codice della strada da parte di un agente della Polizia di Stato al momento del fatto non in servizio. Alcuni, infatti, sostenevano la non configurabilità del reato di resistenza sulla considerazione che l’agente di Polizia, non essendo in servizio, difettava in quel momento della qualifica di pubblico ufficiale: questa, infatti, non poteva considerarsi permanentemente insistente in capo all’appartenente alla Polizia di Stato come avviene, invece, per i militari, dato che la legge 121/81, aveva, tra l’altro, smilitarizzato il Corpo delle Guardie di P.S. La Corte di Cassazione ha espresso un avviso contrario asserendo che anche dopo la smilitarizzazione, gli appartenenti alla Polizia di Stato “possono svolgere, anche oltre l’orario di servizio, i compiti di prevenzione e repressione dei reati nonchè i compiti istituzionali definiti dall’art. 24 della legge 121/81”. L’art. 68 della legge 121/81, infatti, dispone che: “ gli appartenenti all’amministrazione della pubblica sicurezza sono comunque tenuti, anche fuori del servizio, ad osservare i doveri inerenti la loro funzione”. La Corte ha chiarito che al di là, infatti, della norma contenuta nell’art. 68 L.121/81, il problema della configurabilità del reato di resistenza va risolto in senso affermativo perché la figura del pubblico ufficiale deve essere intesa in senso oggettivo. In questo senso si
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Secondo un orientamento risalente556 poichè la legge, a differenza di quanto dispone ad esempio
l’art. 61 n. 10 c.p.., richiedeva solamente che il pubblico ufficiale fosse “nell’esercizio” delle
funzioni, e non anche che egli stesse compiendo specifico atto funzionale, si reputava che per la
sussistenza degli estremi di un “esercizio delle funzioni” non occorreva che il p.u. si trovasse
effettivamente nel compimento di un atto del suo ufficio, essendo sufficiente che egli fosse in
servizio: il p.u. in c.d. “servizio permanente” poteva essere destinatario dell’offesa penalmente
rilevante anche nel momento in cui non stava svolgendo un atto d’ufficio. La Cassazione, in alcune
pronunce ha sostenuto che “poiché l'agente di p.s. è da considerare permanentemente in servizio, ai
fini della configurabilità del reato di oltraggio in suo danno non è necessario che le parole
offensive gli siano rivolte mentre egli sta compiendo un atto del suo ufficio, essendo sufficiente il
riferimento alle funzioni inerenti al suo grado e alla sua qualifica”557.
attribuisce, in via principale, alla natura pubblica della funzione che il soggetto sta esercitando, la quale è necessaria e sufficiente per la configurabilità del reato anche qualora l’esercizio della funzione avvenga al di fuori di limiti temporali e spaziali di servizio. Gli atti di violenza e minaccia commessi restano, dunque, meritevoli della punizione qualificata prevista dall’art. 337 c.p. e non di quella generica prevista dai reati di minaccia o ingiurie, perché, anche se oltre l’orario di servizio, l’agente sta svolgendo una funzione pubblica e sta operando per l’esecuzione della volontà della Pubblica Amministrazione cui appartiene: anche in tal caso, emerge, dunque, una tutela del pubblico ufficiale non fine a se stessa ma in ragione dell’attitudine delle condotte di resistenza a turbare la regolare esecuzione della volontà della Pubblica Amministrazione che si esplica per mezzo dei sui funzionari anche nella circostanza in cui essi non siano formalmente in servizio. 555 Cfr. Casalbore G., cit., p. 465; Pasella R., cit., p. 1947; Romano M., cit., p. 77. 556 In questo senso Antolisei F., cit., p. 358 (ed. 1995); Grispigni, I delitti,cit., 277; Maggiore G., Diritto penale, II, t. 1, cit., 203; Manzini V., cit., p. 521; Ranieri, op. cit., II, 280; Riccio, op. ult. cit.,562; Cass. 8 ottobre 1954, in Giust. pen., 1955, II,500. Contra Cassazione penale, sez. VI, 29 ottobre 1985, Saba, in Giust. pen. 1986, II,429 (s.m.) 557 Cassazione penale sez. VI, 27 gennaio 1984, Ciogli, Giust. pen. 1984, II,711 (s.m.), nella specie erano state pronunciate le espressioni: voi della polizia stradale siete più ignoranti... nello stesso senso: Cassazione penale, sez. VI, 22 settembre 2009, n. 42639, K., in Diritto & Giustizia 2010, secondo la quale gli appartenenti alla Polizia di Stato sono considerati in servizio permanente e pertanto non cessano dalla loro qualifica di pubblici ufficiali anche quando non comandati in servizio. (Nel caso di specie la Corte ha rigettato sulla base del principio in oggetto la richiesta di riconoscimento, in relazione al delitto di cui all'art. 337 c.p., della scriminante della legittima reazione all'atto arbitrario del pubblico ufficiale, formulata sulla base del presupposto che nel momento del suo intervento l'agente di polizia non era in servizio e non poteva dunque compiere l'atto che aveva provocato la violenta reazione dell'autore del reato). Cassazione penale sez. VI, 05 febbraio 2003, n. 9691, S., in Cass. pen. 2004, 885 (s.m.) secondo la quale gli appartenenti all'Arma dei Carabinieri sono considerati in servizio permanente e non cessano dalle loro qualità di pubblici ufficiali anche quando non sono comandati in servizio . Ne consegue che, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 337 c.p., non spiega alcun effetto la circostanza che il militare fosse fuori servizio al momento del suo intervento; Cassazione penale, sez. I, 17 aprile 2001, n. 21730, Micciché, in Cass. pen. 2002, 2371 (s.m.) secondo la quale per la configurazione del reato di cui all'art. 651 c.p. è necessario che il soggetto il quale richieda ad altri di fornire le sue generalità, oltre che essere in servizio permanente , eserciti in concreto le pubbliche funzioni, giacché la nozione di " servizio permanente " è diversa da quella di "esercizio delle funzioni", implicando essa che il dipendente pubblico può in ogni momento intervenire per esercitare i propri compiti, ma non che egli in concreto al momento li eserciti. (La Corte di cassazione, in applicazione di tale principio, ha annullato con rinvio la sentenza di condanna, ritenendo necessario che il giudice di merito accerti se il pubblico ufficiale abbia formalmente contestato una specifica infrazione ed abbia a tal fine richiesto le generalità, senza ottenerle, al conducente di un veicolo che, a seguito di un errata manovra, aveva intralciato la marcia del veicolo alla cui guida era lo stesso pubblico dipendente). (cfr., per un'analoga fattispecie, Cass., Sez. I, 08 ottobre 1993, Siller, in Cass. pen. 1995, 60 (s.m.), Giust. pen. 1994, II, 398 (s.m.), Mass. pen. cass. 1994, fasc. 1, 131).
130
Tale conclusione, è stata da altri558 ritenuta inaccettabile, non solo per le irrazionali conseguenze
che ne sarebbero discese559, ma anche e soprattutto perché la situazione di servizio “permanente”
non coincide quella di esercizio “attuale” delle funzioni560 perchè tale situazione è peculiare e
pertinente solo a specifiche categorie di p.u., i quali, in ossequio alla loro particolare condizione
giuridica, devono assumere doverosamente l’esercizio delle funzioni quando si verifichino le
condizioni previste dalle varie leggi particolari.
Pertanto un altro indirizzo dottrinario561 aveva chiarito che “servizio permanente” dovesse
intendersi come effettivo servizio, quindi già iniziato, delle pubbliche funzioni, per effetto, ad es.,
dell’aver assistito ad un crimine ed essere intervenuti oppure dell’aver notato un soggetto sospetto
ed essersi apprestati ad identificarlo ancorchè in entrambi gli esempi liberi dal servizio.
Coerentemente con questa impostazione dottrinaria la Suprema Corte in altri arresti562 ha sostenuto,
invece, che per la sussistenza del nesso temporale non basta che il pubblico ufficiale si trovi in
servizio, ma occorre che egli stia svolgendo concretamente e attualmente le sue funzioni.
L’esercizio in concreto delle funzioni, infatti, non deve essere confuso con il carattere permanente
riconosciuto al servizio proprio di alcune categorie di pubblici ufficiali: quest’ultimo va inteso nel
senso che le funzioni non sono soggette a limitazioni di ordine temporale, sì che i soggetti che ne
sono investiti sono legittimati ad esplicarle in qualsiasi momento ove il caso lo richieda563. La
legittimazione di esercitare la pubblica funzione non significa necessariamente esercizio della
stessa, per cui se il pubblico ufficiale non sta esercitando in concreto la sua funzione pubblica, non
si può imputare all'offensore il reato di oltraggio.
558 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 5 secondo il quale “servizio permanente” significa che il p.u., in qualsiasi momento e senza distinzioni di orario e di luogo può essere chiamato a svolgere la pubblica funzione; Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 861. 559 V. in tal senso Vannini O, Quid iuris?, VII, cit., 49 s. 560 Greco, Causa ed esercizio delle funzioni nel delitto di oltraggio, in Giur. compl. Cass. Pen., 1946, I, 206 s.; Levi, op. cit., 429 pur se con qualche perplessità; Maliverni, Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio nel diritto penale, Torino, 1951, 74 nt. 4; Cass. 17 giugno 1960, in Giust. pen., 1961, II, 455, m.584. 561 Pagliaro, 5; Riccio, 562; Maggiore, 208. 562 Cassazione penale, sez. VI, 12 dicembre 1995, n. 2719, D. N., Cass. pen. 1997, 417 (s.m.), Giust. pen. 1997, II, 59 (s.m.) la quale ha escluso la configurabilità del reato di oltraggio a pubblico nel caso di frasi ingiuriose rivolte ad un carabiniere, nel corso di una discussione meramente privata, con esclusione di ogni nesso fra offesa ed esercizio di pubbliche funzioni. Nello stesso senso cfr. Cassazione penale, sez. VI, 24 gennaio 1997, n. 2727, Maiello, in Cass. pen. 1998, 817 (s.m.), Giust. pen. 1998, II, 65, Riv. polizia 1998, 48 (s.m.), Riv. giur. polizia 1998, 773 (s.m.) la quale ha ritenuto che la qualità del pubblico ufficiale non può rilevare sempre e comunque nei rapporti con gli altri soggetti, indipendentemente dall'attualità dell'esercizio delle funzioni o dalla riferibilità ad esse del comportamento dell'offeso. (Nella fattispecie la Corte, con riferimento ad un alterco per motivi di circolazione stradale, ha escluso la configurabilità del reato, benché l'offeso indossasse la divisa di agente di pubblica sicurezza, rilevando come questi, fuori turno di servizio, avesse agito nella circostanza in qualità di privato cittadino). 563 Pertanto non deve essere inteso come un continuo esercizio in concreto delle funzioni.
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Alla luce della nuova formulazione e concordemente con quanto appena esposto la fattispecie di
oltraggio non si realizza quando l’offesa è rivolta al p.u. che, pur essendo in “servizio permanente”,
non sta compiendo alcun atto del suo ufficio564.
L’ELEMENTO OGGETTIVO: IL CONTESTO SPAZIALE
I concetti di luogo pubblico o aperto al pubblico, ampiamente collaudati nel quadro di altre
fattispecie incriminatrici565, e quello della presenza di più persone concorrono a definire il contesto
di svolgimento della condotta costitutiva del reato e individuare la direzione offensiva della
stessa566, evidenziando la particolare gravità dell’offesa per la sua potenziale maggior diffusione e,
di conseguenza, per la maggiore perdita di credibilità subita dalla pubblica amministrazione567.
Si è osservato568, inoltre, che la pubblicità dell’offesa costituisce indubbiamente uno degli elementi
maggiormente qualificanti della riconfigurazione del delitto de quo, perchè contribuisce a fugare le
riserve sull’effettiva offensività rispetto al bene giuridico tutelato avanzate in riferimento alla
564 Gatta G.L., cit., p.173. 565 In particolare si veda la norma di cui all’articolo 266, comma 4, n. 2, c.p., che riporta la nozione, agli effetti della legge penale, di reato avvenuto pubblicamente (sulla circostanza aggravante. Cfr. anche artt. 299 (offesa alla bandiera o ad altro emblema dello Stato); 404 (offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose); 405 (turbamento di funzioni religiose del culto di una confessione religiosa); 527 (atti osceni); 660 (molestia o disturbo alle persone); 689 (somministrazione di bevande alcoliche a minori o a infermi di mente); 690 (determinazione in altri dello stato di ubriachezza); 718 (esercizio di giuochi d’azzardo); 720 (partecipazione a giuochi d’azzardo); 726 (atti contrari alla pubblica decenza). Artt. 3, n. 5 e 5, n. 1 della legge 20 febbraio 1958 n. 75. E’ luogo pubblico quello in cui l’accesso è continuativamente libero per una quantità indeterminata di persone. E’ luogo aperto al pubblico quello in cui il pubblico può accedere non continuativamente ma solo in adempimento di determinate condizioni o in momenti determinati. Fuoriesce dalle due categorie concettuali sopra delineate l’ipotesi della riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti o per lo scopo o oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata. 566 Padovani T., cit., p. 26 osserva che la funzione dei presupposti connessi alla natura del luogo in cui il fatto è commesso ed alla presenza di più persone non dipendono dalla natura “pubblicistica” dell’offesa perché a parità di condizioni, anche un’offesa all’onore e al prestigio pronunciata all’interno dell’ufficio del pubblico ufficiale non aperto al pubblico o in un altro luogo non connotato da elementi di pubblicità, senza la presenza di nessuno, potrebbe incidere sullo svolgimento della funzione pubblica e risultare quindi meritevole di pena in termini di oltraggio. I requisiti ulteriormente richiesti ai fini dell’integrazione della fattispecie de qua corrispondono piuttosto a criteri di opportunità, congruenti con la nuova dimensione offensiva. L’esigenza della tutela differenziata può venir meno quando l’aggressione oltraggiosa resti confinata in un ambito riservato o discreto. 567 In questo senso Gatta G., La risurrezione dell’oltraggio a pubblico ufficiale, in Il “Pacchetto sicurezza” 2009, a cura di O. Mazza, F. Viganò, Torino, Giappichelli, 2009, p. 162 e ss.; Martiello G., La 'resurrezione' del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, in La nuova normativa sulla sicurezza pubblica, a cura di Giunta F., Marzaduri E., Giuffrè, Milano, 2010, p. 8, il quale commenta che l’inserimento dei requisiti del luogo pubblico o aperto al pubblico e della presenza di più persone segnano un deciso “mutamento di scala” dell’offesa; Santoro, il quale rileva che l’inserimento dell’elemento della dimensione spaziale connota l’interesse dello Stato ad una tutela più “mirata”, in quanto la punibilità avviene esclusivamente nei confronti di condotte oltraggiose che assumono una certa diffusione perché realizzate in luogo pubblico o aperto al pubblico. Nella prospettiva delineata dalla legge di riforma, pertanto, l’oltraggio cessa di essere la variante amplificata di un fatto di ingiuria ed assume profili che partecipano del tipico significato criminoso dei fatti di diffamazione. Secondo l’autore, inoltre, a seguito dell’inserimento dell’ulteriore requisito della “presenza di più persone”, pur trattandosi di qualcosa di diverso dalla “comunicazione con più persone”, la fattispecie dell’oltraggio abbia assunto una fisionomia quasi sovrapponibile a quella del reato di diffamazione. 568 Scandone G., cit., p. 468.
132
previgente normativa569, secondo la quale l’offesa poteva essere percepita anche dal solo p.u., alla
cui sola testimonianza doveva, pertanto, affidarsi il giudice. Questa impostazione570, secondo la
quale le persone la cui presenza è necessaria sarebbero “testimoni” e al contempo garanti a fronte di
un’eventuale versione dei fatti “privilegiata” del p.u. rispetto al comune cittadino e indicativa,
dunque, di una manifestazione di sfiducia nei confronti dell’intera categoria dei p.u. è stata, però,
fortemente criticata. Non solo, infatti, si dubita della validità di un’operazione intellettuale volta a
far coincidere un elemento costitutivo del reato con una fonte di prova utile ad accertarlo, ma si
evidenzia che il requisito della presenza non può in alcun modo essere condizionato
dall’accertamento probatorio, pena ammettere ad es. l’esito paradossale dovuto alla discordanza tra
le testimonianze che negano il fatto e la prova oggettiva costituita da una ripresa audio-video che
rende evidente la percezione dell’offesa da parte dei presenti/presunti testimoni571.
Il luogo pubblico o aperto al pubblico e la presenza di più persone sono due elementi costitutivi del
reato che contribuiscono a motivare l’autonoma configurazione della figura delittuosa rispetto
all’ingiuria e la sua collocazione sistematica nel Capo II del Titolo II, insieme agli altri delitti dei
privati contro la pubblica amministrazione572.
Dottrina e giurisprudenza, infatti, hanno affrontato la questione della qualificazione giuridica del
luogo e della presenza, soprattutto con riguardo alla fattispecie di cui all’articolo 414 c.p.
(istigazione a delinquere), che contempla un fatto commesso “pubblicamente” e, in particolare, per
espressa specificazione normativa (art. 266, comma 4 c.p.) un fatto commesso in luogo pubblico o
aperto al pubblico.
Mentre la giurisprudenza ha sostenuto che si tratta di una condizione obiettiva di punibilità e,
quindi, di una situazione che fuoriesce dall’oggetto del dolo e interviene solo a garantire il pieno
esplicarsi delle conseguenze punitive, la dottrina maggioritaria573, invece, li qualifica come elementi
569 Manzini ha escluso che nell’art. 341 c.p. si desse qualche rilievo alla pubblicità, né come elemento costitutivo, né come circostanza aggravante. 570 Manzione, p. 147. 571 Al riguardo Scandone G., cit., p. 473 osserva che il giudice non può non tener conto della prova oggettiva e che dovrebbe iscrivere i “presunti testimoni” nel registro degli indagati per falsa testimonianza. 572 Scandone G., cit., p. 467. 573 In merito Ramacci F., Corso di diritto penale, Torino, Giappichelli, 2006, p. 372 osserva che le condizioni obiettive di punibilità sono limiti edittali dell’illecito e, cioè, limiti legislativi della punibilità già a livello di previsione; esse quindi non sono poste a carico, ma, al contrario, condizionano la conseguenza giuridica sanzionatoria il modo favorevole al reo, perché da necessaria, com’è di regola, la punibilità diventa eventuale perché è subordinata all’avverarsi della condizione. La legge precisa che l’evento dal cui verificarsi dipende la condizione è estraneo al giudizio di liceità-illiceità e gli assegna la funzione di condizionare la conseguenza giuridica dell’illecito e cioè la pena: le condizioni di punibilità non attengono alla riferibilità del fatto al suo autore, al contrario rilevano a suo vantaggio perché comportano, senza la loro verificazione, la quiescenza della pretesa punitiva. L’evento dal quale dipende il verificarsi della condizione è cosa diversa dall’evento dal quale dipende l’esistenza del reato: l’evento-condizione è un accadimento concreto descritto dalla norma incriminatrice, al riguardo del quale non si pongono problemi di riferibilità causale o psicologica (vedi, ad es. la sorpresa in flagranza ex art. 270 c.p. e l’annullamento del matrimonio nel caso di induzione al matrimonio mediante inganno ex art. 558 c.p.); non sono condizioni di punibilità, invece, ma elementi del
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costitutivi del reato e quindi un elemento che il soggetto attivo deve puntualmente rappresentarsi ai
fini del dolo. Si è sottolineato, infatti, che non possono essere considerati condizioni obiettive di
punibilità in quanto non sono elementi concomitanti o successivi afferenti ad un reato già
perfezionatosi, ma costituiscono elementi indispensabili perché il delitto de quo acquisti quello
specifico tipo di offensività rispetto al bene giuridico tutelato che costituisce il quid novi della ratio
incriminatrice574.
Ulteriori indicazioni in tal senso si possono rinvenire con riguardo alla giurisprudenza e dottrina in
merito al reato di atti osceni in luogo pubblico di cui all’art. 527 c.p., in relazione al quale la
maggioranza di dottrina575 e giurisprudenza sono dell’avviso che il luogo pubblico costituisca un
elemento essenziale del reato e di conseguenza debba essere investito dall’elemento psicologico
Nell’oltraggio la pubblicità del luogo si intreccia con la pluralità delle persone e costituisce
l’imprescindibile contesto di commissione del fatto di offesa all’onore o al prestigio del pubblico
ufficiale. Al di fuori di tali contesti spaziali, in altri termini, l’offesa al pubblico ufficiale rimane
nell’ambito delle ordinaria norme poste a tutela della persona ed esaurisce l’intero significato lesivo
nel quadro delle medesime. Non sembra di conseguenza plausibile sostenere che siffatto contesto
sia estraneo al nucleo dell’offesa e si profili come un elemento cui è subordinata la sola punibilità
del reato. E’, infatti, evidente come si tratti di situazioni che s’integrano nella condotta offensiva e
le imprimono un più ampio significato lesivo, determinando una sorta di progressione criminosa per
effetto della quale il fatto esprime un disvalore che va oltre l’area dei rapporti tra autore e pubblico
ufficiale, proiettandosi nel luogo pubblico (o aperto pubblico) e coinvolgendo nella vicenda la
pluralità di persone ivi presenti576.
Sembra pertanto più corretto, dunque, riconoscere al requisito della pubblicità (natura del luogo e
pluralità di persone) il ruolo di elementi essenziali del reato, che devono riflettersi nell’oggetto del
dolo e, quindi, essere conosciuti e rappresentati nella psiche del soggetto agente, anche se, è bene
precisare non sono elementi del fatto che possono essere voluti.
fatto di reato la pubblicità del luogo nel delitto di atti osceni art. 527 c.p., il pubblico scandalo del delitto d’incesto ex art. 564 c.p., il suicidio ex art. 580 c.p. In merito si rinvia anche a Ramacci F., Condizioni obiettive di punibilità, Napoli, 1971, p. 372 e ss. 574 Scandone G., cit., p. 470, che esclude l’applicabilità dell’art. 44 c.p. 575 In merito Ramacci F., Corso, cit., p. 373. 576 Santoro argomenta che l’inserimento dei requisiti del luogo pubblico o aperto al pubblico e della presenza di più persone consente di individuare l’interesse giuridico tutelato dalla nuova figura criminosa non solo nel patrimonio individuale (onore) ed istituzionale (prestigio) del pubblico ufficiale, ma anche nella “reputazione pubblica” del soggetto che esercita pubbliche funzioni e della pubblica funzione in sé; reputazione che viene tutelata in connessione con il prestigio e l’onore del pubblico ufficiale ed in un contesto in cui la natura pubblica del luogo della condotta e la presenza di più persone rendono, quanto meno, concreto il pericolo di propalazione e divulgazione della condotta offensiva. Quindi un interesse giuridico composito, che coinvolge direttamente il bene giuridico della pubblica funzione e fa entrare in scena l’ente pubblico che ne risulta depositario, in aggiunta al pubblico ufficiale offeso.
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LA REALIZZAZIONE DEL FATTO IN LUOGO PUBBLICO O IN LUOGO APERTO AL PUBBLICO
Uno degli elementi di novità della nuova formulazione della norma è costituito dal requisito che
l’offesa sia rivolta “in un luogo pubblico o aperto al pubblico”, che delimita il contesto spaziale di
svolgimento dell’azione criminosa577.
Dottrina578 e giurisprudenza579 individuano concordemente il luogo pubblico in quel sito dove
l’accesso è normalmente e continuativamente libero per una quantità indeterminata di persone:
strade, piazze, parchi e giardini sempre aperti, terreni non preclusi all’ingresso di soggetti
indeterminati, acque interne, mare territoriale, spiagge non private. Si ritiene, invece, luogo aperto
al pubblico quello in cui il pubblico può accedere non continuativamente, ma solo se ha un titolo
determinato (ad es. biglietto, invito, abbonamento, ecc.) o previo adempimento di determinate
condizioni (identificazione, sottoposizione a controllo di sicurezza, ecc.) o in alcuni orari o con un
limite di capienza numerica: teatri, cinema, musei, impianti sportivi, luoghi di spettacolo, ospedali,
aule di giustizia, uffici delle pubbliche amministrazioni aperti al pubblico, le carceri giudiziarie, gli
esercizi pubblici, i mezzi di trasposto pubblico, ecc. In quest’ultima categoria rientrano anche quei
luoghi frequentato da un’intera categoria di persone o comunque da una pluralità indeterminata di
soggetti, i quali abbiano il diritto di accedervi senza legittima opposizione da parte di chi esercita
sul luogo un potere di fatto o di diritto. (membri di un club) al quale possono accedere solo le
persone che abbiano determinati requisiti.
Non è, invece, ricompreso, dalle due categorie concettuali sopra delineate l’ipotesi della riunione
che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti o per lo scopo o per l’oggetto di
essa, abbia carattere di riunione non privata. Ciò si deduce dalla definizione contenuta nell’articolo
266, comma 4, c.p., che menziona separatamente la nozione di luogo pubblico o aperto al pubblico
e la tiene nettamente distinta dall’ipotesi di riunioni “allargate”, ancorchè consideri queste ultime
idonee ad integrare il requisito del “pubblicamente”. L’assimilazione contenuta nell’articolo 266
c.p., però, non può operare nell’ambito del reato di oltraggio, che per ovvie esigenze connesse al
577 Agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso: 1) col mezzo della stampa, o con altro mezzo di propaganda; 2) in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone; 3) in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata. 578 Cosseddu A., Luogo pubblico o aperto al pubblico, in Dig. – disc. pen., VII, Rorino, 1933, 472; De Chiara, Il concetto di pubblicità e il delitto di atti osceni, in Arch. Pen., 1977, I, 267 ss.; Zaza C. in Atti osceni e contrari alla pubblica decenza, in Enc. Giur. Treccani, III, Roma, 1988, 3-4 579 Nota 45 Cass., sez. III, 18 gennaio 1974, Cerone , in Cass. Pen., 1975, 749; Cass., sez. III, 21 marzo 1984, Sini in Riv. pen., 1985; Cass., sez. III, 12 giugno 1984, Di Marco, in Cass. Pen., 1985, 1531
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rispetto del principio di tassatività e legalità deve rimanere circoscritto al solo contesto, l’unico
espressamente previsto, di luogo pubblico o aperto al pubblico580.
I fatti commessi in luoghi diversi da quelli pubblici o aperti la pubblico non rileveranno come
oltraggio, ma, sussistendone i presupposti, come ingiuria aggravata.
Specificamente si tratta dei luoghi privati, quali ad. es., le abitazioni581, gli altri luoghi di privata
dimora e le loro appartenenze e dei luoghi di lavoro non aperti al pubblico582 (ad es. stabilimenti
industriali) e, infine, dei luoghi esposti al pubblico583, cioè quei luoghi che, pur non essendo
accessibili al pubblico, sono situati in una situazione tale da essere visibili da un numero
indeterminato di persone (ad es. balconi e terrazze di edifici, giardini privati, spazi aperti recintati
ma visibili dall’esterno, una casa entro cui si possa guardare attraverso una finestra o una porta
aperta, una automobile con i finestrini abbassati, ecc.).
È stato osservato che attribuire rilievo ai fatti di oltraggio commessi nei luoghi esposti al pubblico
risponderebbe sicuramente alla stessa ratio che si rinviene nella disciplina prevista dall’art. 341 bis
c.p.584 L’operazione, però, violerebbe il divieto di analogia in malam partem, soprattutto
580 Santoro V., cit., il quale rileva che per le stesse ragioni (analogia malam partem) non assumerà alcuna rilevanza l’ipotesi dell’offesa al pubblico ufficiale commessa “con il mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda”, in quanto anche in questo caso non ricorre, di per sé, l’estremo del luogo pubblico o aperto al pubblico. Di certo suscita qualche perplessità la scelta del legislatore, che ha lasciato privi di specifica tutela fatti indubbiamente offensivi della reputazione pubblica del soggetto passivo ed in buona misura dotati della medesima ragione di pena di quelli che ha espressamente contemplato. Non sembra, comunque, che si sia trattato di un disguido, in quanto il legislatore ha inteso circoscrivere la speciale tutela ai soli fatti offensivi dell’onore e del prestigio del pubblico ufficiale radicati nel concreto compimento di un atto di ufficio. E’ quest’ultimo requisito, infatti, che traccia il confine esterno della tutela e seleziona il fatto tipico, al lordo degli ulteriori elementi che ne definiscono ulteriormente l’ambito di efficacia. Ove il legislatore avesse inteso conferire protezione all’indifferenziata reputazione pubblica del soggetto passivo, avrebbe avuto a disposizione il collaudato esempio dell’articolo 414 c.p. e avrebbe potuto costruire una norma radicata sul fatto commesso “pubblicamente”, cioè in tutti i modi contemplati dalla norma di riferimento di cui all’articolo 266 c.p.. Ciò non toglie che in casi particolari la diffusione di stampati dal contenuto offensivo può anche integrare il fatto di oltraggio. Si pensi alla distribuzione di volantini dal contenuto offensivo nel contesto di pubblici ufficiali impegnati nello svolgimento di compiti di servizio (per esempio sgombero di locali) ed in luogo pubblico ed alla presenza di più persone. Ma è chiaro che in tali ipotesi la divulgazione dello stampato altro non è che la modalità di realizzazione delle condotta tipica. 581 Ad es. non risponderà di oltraggio a p.u., pur in presenza degli altri requisiti richiesti dall’art. 341 bis c.p., chi offende l’onore ed il decoro del p.u. trovandosi in casa propria in occasione della notifica di un atto giudiziario. posto di lavoro 582 Ad es. non risponderà di oltraggio a p.u., pur in presenza degli altri requisiti richiesti dall’art. 341 bis c.p., chi offende l’onore ed il decoro del p.u. trovandosi nei locali del proprio stabilimento industriale in occasione di una perquisizione. 583 Nota 46 Per la dottrina v. Pasella, Reintroduzione, cit., 34-36. Sulla circostanza aggravante di cui all’art. 266, comma 4 c.p., v., tra gli altri, Fiandanca, Musco, Diritto penale, cit. 92; Violante l., Istigazione di militari a disobbedire alle leggi, in Enc. Dir., XXII, milano, 1972, 1009 ss. In giurisprudenza, v., tra le numerose pronuncie, Cass. Se. III, 9 aprile 1973, in giust. pen.,1974, II, 350; Cass, sez. iii, 3 giugno 1999, Bombaci, in Riv. pen., 44; Cass. Sez. III, 17 dicembre 1999, Moresco, in Cass. Pen., 2001, 2685 Ad es. non risponderà di oltraggio a p.u., pur in presenza degli altri requisiti richiesti dall’art. 341 bis c.p., chi offende l’onore ed il decoro del p.u. trovandosi sul balcone o alla finestra di casa propria allorchè scorge il p.u. intento a redigere un verbale per sosta vietata nei suoi confronti o trovandosi all’interno dell’automobile con finestrino abbassato apostrofa in malo modo il p.u. che invita il soggetto ad accostare per eseguire il controllo. Ciclomotore si autoveicolo no 584 Gatta G., cit., p. 163 e ss.
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considerato che tutte le volte in cui il legislatore ha voluto attribuire un rilievo penale ai fatti posti in
essere nello specifico contesto spaziale dei luoghi esposti al pubblico lo ha esplicitato
espressamente (ad es. art. 527 c.p.). La lacuna, pertanto, non può essere colmata dal giudice perché
un’attività interpretativa in questo senso è vietata dall’art. 25, secondo comma, della Cost.585
Pertanto nell’ipotesi in cui il soggetto attivo, il soggetto passivo immediato (il pubblico ufficiale) e
le più persone sono tutte presenti nel luogo esposto al pubblico nulla questio: in tal caso il reato non
si configura, anche se altri possono avere cognizione della condotta ingiuriosa586.
Il problema di carattere interpretativo, invece, si pone se solamente l’agente si trova in un luogo
esposto al pubblico, mentre tutti gli altri soggetti predetti si trovano in luogo pubblico o aperto al
pubblico. In questa specifica ipotesi secondo alcuni il requisito della pubblicità della commissione
del reato pare perfezionarsi perché la condotta iniziata in luogo esposto al pubblico si propaga nei
luoghi previsti dalla fattispecie incriminatrice per raggiungere almeno potenzialmente, nella
rappresentazione e nella volontà del soggetto attivo, il p.u. e le persone la cui presenza è richiesta là
dove queste si trovano587. A sostegno di tale impostazione si sottolinea da un lato che il reato di atti
osceni non costituisce un esempio calzante rispetto al caso di specie perchè sanziona il
comportamento di un soggetto che, sotto il profilo psicologico, è indifferente alla percezione da
parte dei terzi (che potrebbero trovarsi anche in un luogo privato) degli atti vietati, mentre
nell’oltraggio, essendo l’offesa deliberatamente rivolta al p.u. che si trova nel luogo pubblico,
l’autore vuole che quest’ultima “passi” da un sito all’altro, altrimenti non la pronuncerebbe588.
Dall’altro l’interpretazione opposta condurrebbe ad esiti paradossali, quali ritenere che la stessa
frase ingiuriosa rivolta ad un agente della polizia municipale costituisca oltraggio se proferita a
bordo di un ciclomotore e cessi di esserlo se il conducente si trova a bordo di un autoveicolo589.
LA REALIZZAZIONE DEL FATTO IN PRESENZA DI PIÙ PERSONE
Affinchè si realizzi il delitto di oltraggio è necessario che il fatto non solo sia commesso in luogo
pubblico o aperto al pubblico, ma che avvenga, altresì, alla presenza di più persone590.
585 In merito Scandone G., cit., p. 470 specifica che i casi più frequenti attengono alle invettive rivolte all’ufficiale giudiziario che stà eseguendo un pignoramento o uno sfratto o a quelle indirizzate a pubblici ufficiali in servizio di polizia stradale o comunque di prevenzione, ovvero di soccorso pubblico. 586 Scandone G., cit., p. 470. 587 Scandone G., cit., p. 471. 588 Scandone G., cit., p. 471. 589 Scandone G., cit., p. 471. 590 Gatta G., cit., p. 164 e ss.
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All’interno della nuova formulazione della norma, però, il legislatore assegna a quest’ultimo
requisito, che nella vecchia versione costituiva una circostanza aggravante (abrogato 341, comma
4, ultima parte, c.p.)591, il diverso ruolo di elemento costitutivo del reato.
Anche in relazione a questo requisito, al fine di chiarirne la portata applicativa, è possibile riferirsi
alla elaborazione dottrinale e giurisprudenziale formatasi in riferimento all’analogo concetto
contenuto nella norma sulla diffamazione: pacificamente si ritiene che sia sufficiente la presenza di
almeno due persone, non essendo richiesto espressamente che il numero sia indeterminato o
indeterminabile592.
La questione, invece, si pone in merito all’individuazione dei criteri funzionali ad escludere le
persone che non possono essere incluse del novero degli astanti. Indubbiamente tra le più persone
presenti non rientrano il soggetto attivo e quello passivo del reato e, di conseguenza, non devono
essere considerati astanti ai fini della configurazione dell’elemento costitutivo i più soggetti attivi in
caso di concorso di persone e/o i più soggetti passivi immediati, in caso di offesa rivolta
simultaneamente contro più p.u. e i soggetti passivi se l’offesa è rivolta a più pubblici ufficiali593.
Ciò perché gli uni e gli altri non possono non essere presenti al fatto che, rispettivamente,
commettono o subiscono: includerli nel numero minimo delle persone di cui è necessaria la
presenza sarebbe senza senso, perché vanificherebbe il requisito stesso594. Sono, invece, da ritenere
tali coloro che si trovano semplicemente in compagnia del soggetto attivo (senza, quindi, concorrere
nel reato) e coloro che sono pubblici ufficiali non destinatari dell’offesa.
In merito, invece, al significato che si deve attribuire al concetto di presenza ci si interroga se
quest’ultima debba essere intesa come contiguità fisica tra soggetto agente e pluralità di persone o
sia sufficiente che più persone si trovino in un ambito (per esempio la stanza accanto) dal quale è
possibile percepire, per particolari connotazioni ambientali, la condotta offensiva.
La questione è strettamente connessa con quella concernente la necessità o meno che la pluralità di
persone percepisca effettivamente la condotta offensiva o, al contrario, sia sufficiente la loro mera
presenza “passiva”.
591 La presenza di più persone costituisce circostanza aggravante anche nel delitto d’ingiuria (art. 594, quarto comma, c.p.). Le offese all’onore e al prestigio del p.u. non rilevanti ai sensi dell’art. 341 bis c.p. per difetto di un requisito diverso dalla presenza di più persone (ad es. perché il fatto non è stato commesso in luogo pubblico o aperto al pubblico), rileveranno, pertanto come ingiurie aggravate dalla presenza di più persone e dalla qualifica di p.u. del soggetto passivo. Cfr. Gatta G., cit., p. 164 e ss. In riferimento alla circostanza aggravante Antolisei F., cit., p. 361 riteneva che non poteva considerarsi presente la persona che per qualunque causa (cecità, sordità, ignoranza della lingua) non sia in grado di rendersi conto dell’offesa al soggetto passivo. 592 Scandone G., cit., p. 470; Riccio S., cit., p. 833; Aprile E., cit., p. 587. 593 Casalbore, cit., p. 472; Grosso C.F., cit., p. 306; Sisti U., cit., 262. 594 In questo senso Padovani T., cit., p. 27; Paesella R., cit., p. 35; Pagliaro, cit., 392;
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Al riguardo si è evidenziato595 che la norma incriminatrice non richiede che la condotta offensiva
abbia come diretti destinatari la pluralità di persone e tanto meno che il soggetto agente offenda
l’onore ed il prestigio del pubblico ufficiale “comunicando con più persone”. In difetto di spunti di
univoco ed opposto significato, pare plausibile l’ipotesi che la presenza di più persone vada intesa
come prossimità spaziale, senza necessità di contatto fisico e di diretta visuale.
Pertanto ai fini della consumazione del reato le persone, sebbene presenti, possono essere anche
lontane dal luogo di commissione del fatto, anche centinaia di metri, ma percepire comunque
l’offesa per la particolare modalità con la quale è realizzata (ad es. i fatti di oltraggio commessi
utilizzando il megafono)596,
A fronte di questa conclusione pacificamente condivisa, ovvero che l’estensione spaziale della
“presenza” può variare a secondo che l’offensore faccia o meno uso, ad es., di apparecchi idonei ad
amplificare l’offesa, è possibile, invece, individuare due distinti orientamenti interpretativi in merito
alla percezione della stessa da parte degli astanti.
Secondo il primo è sufficiente la possibilità che l’offesa, per il luogo in cui si trovano e per la
consapevolezza che di ciò ne ha il soggetto agente, sia da costoro meramente percepibile597.
In tal senso si sottolinea che le problematiche attinenti ad aspetti probatori non devono incidere
sulla soluzione del problema perché, riguardando esclusivamente il piano processuale, non
investono quello sostanziale598. Si tratta, infatti, di una questione che coinvolge, in generale,
l’attività di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria nello svolgimento della quale si tende ad
oggettivizzare il più possibile le fonti di prova, al fine di assicurare la maggiore trasparenza
possibile e di ridurre i margini di dubbio.
Questa impostazione accoglie la c.d. della concezione funzionale della presenza elaborata dalla
dottrina in riferimento al requisito della “presenza del p.u.” richiesto dall’abrogata fattispecie,
secondo la quale debbano essere considerate presenti le persone che si trovano in una situazione tale
595 In tal senso Amato, op. cit., p. 58; contra Bricchetti e Pistorelli, op. cit., p. 52, per i quali il requisito della presenza di più persone si traduce nella necessità che l’offesa venga percepita anche da altri oltre che dal pubblico ufficiale. In questa prospettiva, di conseguenza, l’oltraggio verrebbe a configurarsi come connotato da un duplice evento di percezione dell’offesa 596 Gatta G., cit., p. 164 e ss. 597 In tal senso Amato, op. cit., p. 58; Scandone G., cit., p. 472, secondo il quale il costrutto logico sopra riportato è perfettamente aderente alla specifica offensività del reato di oltraggio. Contra Bricchetti e Pistorelli, op. cit., p. 52, per i quali il requisito della presenza di più persone si traduce nella necessità che l’offesa venga percepita anche da altri oltre che dal pubblico ufficiale. In questa prospettiva, di conseguenza, l’oltraggio verrebbe a configurarsi come connotato da un duplice evento di percezione dell’offesa. 598 Al riguardo Scandone G., cit., p. 472 osserva che sicuramente possono presentarsi delle difficoltà, come nell’ipotesi gli astanti siano tutti prossimi congiunti dell’offensore e, in quanto tali, si avvalgono della facoltà di astenersi dal deporre riconosciutagli dall’art. 199 c.p.p. e richiamata dall’art. 362 c.p.p. nella fase delle indagini preliminari e, per suo tramite, estesa anche alle attività di polizia giudiziaria ex art. 351, comma 1, c.p.p. L’autore, però, sottolinea che anche in questo caso la presenza dei congiunti dell’autore del reato non sarebbe priva di significato rispetto alla verifica del requisito consistente nella loro presenza a condizione che soccorrano altri elementi di prova quale, ad es., una registrazione audio-video idonea a documentare l’accaduto.
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da poter percepire l’offesa con i propri sensi senza ricorso a congegni particolare599(megafoni,
altoparlanti, proiezioni luminose, ecc.). In riferimento all’aggravante di cui all’abrogato art. 341,
quarto comma, c.p., infatti, si riteneva che fosse sufficiente che gli astanti potessero percepire
l’offesa considerate le condizioni di luogo e di tempo, essendo irrilevante l’effettiva percezione
della stessa600. La dottrina, però, motivava la suesposta presa di posizione sulla base della
considerazione che una flessione della portata offensiva di tale elemento poteva giustificarsi, a
vantaggio delle istanze punitive, perché la qualificazione giuridica di elemento circostanziale non lo
rendeva partecipe del nucleo sostanziale dell’incriminazione601. Inoltre, analogamente al reato di
diffamazione, poiché la presenza di più persone serve a caratterizzare la condotta offensiva come
strumento di comunicazione, non può essere intesa se non come elemento espressivo di un concreto
pericolo che la comunicazione si verifichi602. Secondo questa impostazione, pertanto, sarà
sufficiente la percepibilità effettiva desunta da riscontri fattuali in grado di provare che l’offesa
recata ha effettivamente assunto il connotato di un messaggio verso terzi in grado di coglierne il
significato offensivo.
Altra parte della dottrina, invece, ragionando a contrario ha dedotto che ove la presenza dei terzi
concorra a pieno titolo a definire il contenuto di disvalore della fattispecie semplice, quest’ultima
599 Pagliaro, cit., p. 4, il quale evidenzia che si trova nella sopra descritta situazione un uomo normale che “può percepire con i propri sensi, senza far uso di apparecchiature come ricevitori, amplificatori, binocoli, cannocchiali, l’effetto della condotta posta in essere dal soggetto attivo. Ne consegue che la estensione spaziale della “presenza” varia, secondo che l’offensore faccia uso di megafoni, altoparlanti, proiezioni luminose, parli ad alta voce o a bassa voce…. mentre non è mai necessaria l’effettiva percezione dell’offesa”. 600 Casalbore, cit., p. 472. Cassazione penale, sez. VI, 07 luglio 1989, Boschet, in Cass. pen. 1991, I,568 (s.m.), secondo la quale per l'applicabilità della circostanza aggravante della presenza di più persone, di cui all'art. 341 comma 4 c.p., non è necessario che gli astanti sentano effettivamente le parole oltraggiose, bastando che abbiano la possibilità di udirle; Cassazione penale, sez. VI, 19 novembre 1980, Zanin, in Cass. pen., 1982, 957 (s.m.), secondo la quale il presupposto dell'aggravante di cui al cpv. dell'art. 341 c.p. è la semplice presenza di più persone, indipendentemente dal fatto che esse abbiano udito le parole oltraggiose. È sufficiente infatti che esse abbiano la possibilità di percepire dette parole. Occorre, altresì, che le dette persone, anche se non riescono a percepire le parole, possano notare dal comportamento del soggetto attivo il suo atteggiamento oltraggioso e lesivo del prestigio del pubblico ufficiale. La giurisprudenza di legittimità, nel tempo, aveva ritenuto che quando i singoli imputati avessero commesso il fatto autonomamente, realizzando distinte offese del bene tutelato dalla norma, la presenza di ciascuno aggravasse il delitto altrui così sussistendo nei confronti di tutti la circostanza aggravante dell’art. 341, comma 3 c.p.. Analogamente l’aggravante non trovava applicazione nei casi in cui le persone presenti fossero coimputati concorrenti nel medesimo fatto oltraggioso ovvero fossero le stesse vittime del reato di oltraggio (Cass. 19 dicembre 1975, Rossi, in Cass. Pen.,1977, 89; Cass. 11 dicembre 1970, Cappellari, in Cass. Pen.,1972, 1641) 601 Martiello G., La 'resurrezione' del delitto di oltraggio, cit., p. 9. 602 Padovani T., cit., p. 28, secondo il quale il requisito della presenza di più persone, pur non fondando l’offesa ne riversa gli effetti in un cotesto collettivo, attribuendo all’oltraggio le caratteristiche di un messaggio (di cui l’offensore deve essere consapevole). “La rilevanza del fatto a titolo di oltraggio passa perciò attraverso la sua trasformazione in un veicolo di comunicazione del discredito di cui l’attività funzionale del p.u. viene investita”. Secondo l’autore la fattispecie de qua tutela la dimensione sociale dell’onore e del prestigio, ovvero la reputazione del p.u. e della Pubblica amministrazione cui si riferisce il compimento dell’atto di ufficio. In tale quadro l’autore ritiene ragionevole prescindere dal riscontro dell’effettiva comunicazione, così come accade in casi analoghi in cui sia in gioco la capacità diffusiva di un messaggio: nella diffamazione con il mezzo stampa (che può ridursi alla diffusione di un numero assai modesto di volantini distribuiti a casaccio) non è necessaria la prova che qualcuno abbia effettivamente preso cognizione del messaggio diffamatorio. La norma si limita a richiedere che il messaggio potesse, in concreto, raggiungere una collettività potenzialmente indeterminata di persone.
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deve essere interpretata conformemente al principio di offensività e, quindi, nel dubbio, leggersi in
chiave di effettiva lesione del suo bene giuridico e non di sua mera esposizione a pericolo603. Se si
ammette che la norma tutela il “prestigio” che dalla Pubblica amministrazione deriva alla persona
che ne esercita le funzioni, allora dovrà ammettersi anche che è solo con l’avvenuta percezione
dell’oltraggio da parte di più soggetti che si realizza questa componente dell’offesa. La reale
percezione costituisce la componente lesiva effettiva dell’interesse tutelato, poiché l’ambientazione
spaziale del luogo pubblico o aperto al pubblico si limita a produrne un’amplificazione, mettendo la
contumelia potenzialmente in grado di giungere ad un numero indeterminato d’individui604.
Pertanto altri, invece, diversamente dall’opinione sostenuta in dottrina e giurisprudenza con
riferimento all’aggravante di cui all’abrogato art. 341, quarto comma, c.p., ritengono che il requisito
della presenza di più persone si traduce nella necessità che l’offesa venga percepita effettivamente
dalle persone presenti e che, dunque, non sia meramente percepibile da parte delle stesse605. Tale
soluzione pare corrispondere alla nuova prospettiva teleologica dell’incriminazione (cioè rendere la
fattispecie concretamente lesiva del prestigio del p.u.)606 ed è sostenuta da coloro i quali qualificano
il nuovo oltraggio come un reato di danno e non, come avveniva in riferimento alla precedente
formulazione, come reato di pericolo. Si asserisce, infatti, che un’interpretazione conforme al bene
giuridico tutelato impone di concludere nel senso che, affinchè si concretizzi quella particolare
diffusione dell’offesa all’onore ed al prestigio del p.u. repressa dalla norma incriminatrice è
necessario che l’offesa stessa sia effettivamente percepita da più persone607.
Un altro problema di carattere applicativo concerne l’eventualità in cui vengano arrecate delle
offese ad una pluralità di pubblici ufficiali, tutti contestualmente impegnati in un atto di ufficio e,
pertanto, gli unici a trovarsi, nel momento dell’azione offensiva, in luogo pubblico o aperto al
603 Martiello G., La 'resurrezione' del delitto di oltraggio, cit., p. 9. 604 Martiello G., La 'resurrezione' del delitto di oltraggio, cit., p. 9. Favorevole alla tesi della necessaria percezione anche da parte dei terzi dell’offesa è anche Flora G., cit., p. 1452. Contra Padovani T., cit., p. 27 il quale osserva che sotto il profilo processuale richiedendo la necessaria percezione da parte degli astanti dell’offesa, infatti, si fisserebbero paletti ermeneutici molto rigorosi, rischiando, in tal modo, di sottoporre la fattispecie “ad un vero e proprio stress probatorio”, perché dalla stessa si pretenderebbe molto più di quanto possa plausibilmente dare in termini di ragionevolezza applicativa. In particolare, se si accoglie questa interpretazione si deve presumere che il p.u. assolva, nell’immediatezza del fatto, l’onere di identificare almeno due persone, verificando che abbiano percepito correttamente l’offesa. Il p.u. potrebbe non poter adempiere a tale incombenza per diversi motivi (una delle ragioni per cui il p.u. potrebbe non riuscire ad identificare nessun dei presenti potrebbe essere la circostanza che gli astanti solidarizzino con l’offensore o si affrettino ad allontanarsi) e non è accettabile che la concreta perseguibilità dell’oltraggio dipenda da circostanze meramente occasionali o addirittura antagonistiche rispetto alle esigenze di tutela 605 In questo senso E. Aprile, cit., p. 588; Brichetti R.-Pistorelli- L., cit., p. 52; Flora G., Il redivivo oltraggio, cit., p. 1452; Gatta G., cit., p. 165; Martiello G., Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale: una riesumazione davvero necessaria?, in Ius 17. Studi e materiali di diritto penale, 2010, p. 4; Pasella R., Reintroduzione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, in Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, a cura di Corbetta S., Della Bella A., Gatta G.L, Milano, 2009, p. 35. 606 Padovani T., cit., p. 27; Paesella R., cit., p. 35. 607 In questo senso Gatta G., cit., p. 165.
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pubblico (ad es. più p.u. tutti impegnati nel redigere gli atti di una rilevata infrazione al codice della
strada).
Nell’ipotesi in cui l’offesa fosse rivolta ad uno solo dei p.u. impegnati nello compimento dell’atto
d’ufficio non sussistono difficoltà perché è un dato pacifico che la pluralità di persone funge da
contesto di svolgimento dell’azione offensiva e non è assolutamente necessario che la pluralità di
persone sia composta da soggetti privati608. Di conseguenza è ipotizzabile che l’oltraggio venga
commesso alla presenza di più pubblici ufficiali, i quali non siano direttamente presi di mira dalla
condotta offensiva.
Nel caso in cui vengano, invece, contestualmente offesi, con azione unica o pluralità di condotte, tre
o più pubblici ufficiali e questi siano gli unici soggetti al cui cospetto si svolga, in luogo pubblico o
aperto al pubblico, la condotta offensiva si sono prospettate due distinte ipotesi: o si ritiene che
prevale la qualifica di vittime del reato, e di conseguenza si configura un fatto commesso in difetto
del requisito della pluralità di persone; oppure, al fine di considerare che ciascun reato sia stato
commesso alla presenza di almeno due persone, si deve andare oltre la finzione normativa del reato
continuato (o concorso formale) e scindere l’unitario episodio criminoso in tanti reati quante siano
le vittime. Si è osservato che la prima opzione appare eccessivamente formalistica e rischia di
condurre a conclusioni poco sensate, posto che fa dipendere dal più ampio raggio offensivo della
condotta la sostanziale impunità o una più lieve punibilità; la seconda sembra più ragionevole,
perché prende atto della pluralità di reati e della circostanza che rispetto a ciascuno di essi sussiste
l’estremo delle presenza di più persone.
IL DIBATTITO SULLA NECESSARIA PRESENZA, O MENO, DEL PUBBLICO UFFICIALE
L’abrogata fattispecie di oltraggio contemplava espressamente la “presenza” del pubblico
ufficiale609.
608 Cassazione penale, sez. I, 25 gennaio 1978, Chelli, in Cass. pen. 1979, 69 (s.m.), secondo la quale l'aggravante prevista dall'art. 341, u.c., seconda ipotesi c.p. ricorre quando l'offesa sia formulata alla presenza di una o più persone, non avendo alcun rilievo ostativo la qualità di pubblico ufficiale eventualmente rivestita dalle persone presenti, salvo che le stesse non siano anch'esse destinatarie dell’offesa. 609 Padovani T., cit., p. 22. In merito Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 854 e ss., in riferimento all’abrogata fattispecie ha chiarito che la presenza dell’offeso è elemento della fattispecie che non può essere confuso con quello della percezione dell’offesa da parte del soggetto passivo (cfr. Gullo, Presenza dell’offeso e dolo nel delitto di oltraggio, in Cal. giud., 1956, 380 ss.; Mantovani F., Fatto determinato, “exceptio veritatis” e libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1973, p. 27 nt. 20; Spasari M., Sintesi, cit. 67 ss.). Pur ritenendo che la percezione dell’offesa costituisca un elemento essenziale del reato, ciò nondimeno più che un motivo osta alla identificazione dei due requisiti. Innanzi tutto, mentre l’avvenuta percezione costituisce il risultato naturalistico della condotta, la presenza ne costituisce piuttosto un presupposto, quando è “immediata”, o una modalità, quando è “mediata”; in secondo luogo, interpretare l’estremo della presenza come sinonimo di percezione significa prospettare una interpretazione sostanziale abrogante del capoverso degli art. 341 e 342 c.p. nonché dell’art. 1104 cpv. c. nav.: infatti, con queste ultime disposizioni il legislatore ha
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La prevalente giurisprudenza non richiedeva che all’estremo della presenza si accompagnasse anche
l’effettiva percezione delle parole o del contegno offensivo, essendo sufficiente che il contesto
spazio temporale consentisse comunque al pubblico ufficiale di percepire l’offesa610. L’effettiva
percezione di quest’ultima era, invece, richiesta nell’ipotesi di oltraggio commesso “mediante
comunicazione telegrafica o telefonica”, posto che in tali casi mancava l’estremo della presenza
fisica del pubblico ufficiale e si reputava necessario individuare un puntuale e pregnante evento
consumativo del reato611.
Non era indispensabile il contatto fisico e visivo tra offensore ed oltraggiato essendo sufficiente che
quest’ultimo si trovasse ad una distanza tale da essere in grado di percepire612, anche stando in altro
ambiente visivo, l’offesa a lui indirizzata. La presenza “immediata”, di cui all’art. 341, primo
chiaramente mostrato la sua intenzione di far dipendere la punibilità del fatto oltraggioso non solo dall’avvenuta percezione, ma anche dal mezzo usato per portare a conoscenza del destinatario l’espressione offensiva. In definitiva, se è vero che la previsione della presenza dell’offeso ha un senso solo in quanto si intende con ciò implicitamente richiedere anche la percezione dell’offesa, non è vero che l’avvenuta percezione perfeziona comunque il reato, qualunque sia stato il mezzo che l’abbia consentita. 610 Cassazione penale, sez. VI, 29 ottobre 1985, Saba, in Giust. pen. 1986, II,429 (s.m.) secondo la quale per la sussistenza del delitto di oltraggio è sufficiente la possibilità dell'ascolto, da parte del p.u., delle espressioni offensive a lui rivolte. 611 Al riguardo 855, F., Oltraggio, cit., p. ha notato come l’intento legislativo, di voler espressamente prevedere, con analitica elencazione, tutte le possibili ipotesi in cui l’espressione ingiuriosa può giungere alla conoscenza dell’offeso, abbia finito per tradire e compromettere la ratio legis. Infatti, posto che i possibili mezzi di comunicazione, naturali, fisici o meccanici, sono svariatissimi, la duplice previsione legislativa della presenza immediata e della presenza mediata rischia di rivelarsi contraddittoria. Invero, se poteva avere un suo preciso significato limitare la punibilità dei fatti ingiuriosi alle ipotesi di presenza immediata del soggetto passivo, in quanto si poteva ragionevolmente ipotizzare che detta presenza conferisse al fatto una maggiore offensività così dell’onore personale come pure del prestigio dell’autorità, una volta parificata la presenza mediata a quella immediata, sarebbe stato più logico percorrere fino in fondo tale via, facendo dipendere l’esistenza del reato esclusivamente dall’avvenuta percezione dell’offesa. Invece, come abbiamo visto, la formulazione letterale della legge non è in grado di riflettere compiutamente la ratio da cui sembra ispirata la norma, ponendo altresì all’interprete un dilemma interpretativo: o estendere il significato della “presenza immediata” adeguandosi così alla ratio legis fino al limite costituito dall’interpretazione abrogante del capoverso degli art. 341 e 342 c.p., ovvero accogliere lo stretto significato letterale della “presenza” e con ciò lasciare parzialmente inattuata la ratio legis; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 455 secondo il quale poiché, in cbase ai principi generali, non è possibile l’analogia nelle disposizioni incriminatrici, ogni altra forma di comunicazione a distanza (per es. trasmissioni radiofoniche o televisive) non è idonea per mancanza di tipicità a integrare i requisiti della presenza mediata. Alcune forma di comunicazione a distanza (per es. mediante segnali luminosi) possono però integrare i requisiti della presenza immediata, quando il loro significato sia percepibile dal destinatario senza l’impiego di apparecchiature. La comunicazione, per dar luogo alla presenza mediata, deve essere “diretta” cioè non tanto formalmente indirizzata al p.u. – questo elemento può mancare – quanto che gli sia fatta pervenire in modo specifico. Non è una comunicazione diretta una lettera aperta che sia pubblicata su un giornale a meno che l’offensore non gliene faccia invio diretto. 612 In dottrina si veda Antolisei F., cit., p. 358 (ed. 1995); Casalbore G., cit., p. 464 e ss.; Manzini V., cit., p. 516; Migliori P., cit., p. 916; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3; Riccio S., cit., p. 830; Sisti U., cit., 262. In giurisprudenza si rinvia a: Cassazione penale, sez. VI, 20 maggio 1998, n. 7180, Marino, in Cass. pen. 1999, 2165 (s.m.), Giust. pen. 1999, II, 444 (s.m.) secondo la quale la "presenza" di quest'ultimo, richiesta dall'art. 341 c.p., prescinde dal contatto fisico o anche semplicemente visivo, essendo estesa a un ambito spaziale tale da consentire al pubblico ufficiale la semplice possibilità di percepire l'espressione oltraggiosa. (Fattispecie nella quale è stato ritenuto sussistere il requisito della presenza avendo l'agente rivolto l'espressione oltraggiosa non direttamente al pubblico ufficiale ma in circostanze spaziali tali che questi potesse percepirla); Cassazione penale, sez. VI, 20 marzo 1981, Selvaggini, in Cass. pen. 1982, 1535 (s.m.) secondo il quale per integrare il reato previsto dall'art. 341 c.p., non occorre un contatto visuale fra l'agente e l'oltraggiato, essendo sufficiente che questi si trovi a distanza tale che gli consenta di udire le parole oltraggiose o di percepire, in qualunque modo, il comportamento offensivo.
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comma, c.p.613, infatti, era individuata in una relazione spaziale tra i due soggetti, che non implicava
la necessità che essi si trovassero nello stesso luogo614 o addirittura reciprocamente si vedessero615,
ma presupponeva, però, un rapporto di “prossimità fisica”616, nel senso che i soggetti potessero , in
ideali condizioni di normalità, vedersi od udirsi l’un l’altro. L’offeso, dunque, doveva considerarsi
presente anche a distanza di centinaia di metri se l’offensore fosse riuscito con l’ausilio di un
altoparlante ad essere udibile ad un soggetto posto nel luogo dove si trovava il funzionario, mentre
non poteva considerarsi presente se l’offensore parlava tra sé a voce bassa a pochi metri di
distanza617.
La nuova formulazione della norma, invece, diversamente dalla precedente, non richiede più
espressamente che il fatto sia commesso in sua presenza.
La mancata previsione della necessaria presenza del pubblico ufficiale ha dato adito a due diverse
interpretazioni618. Secondo la prima619 la stessa lettera della legge, sebbene implicitamente, richiede
la necessaria presenza nella parte in cui prescrive che la condotta offensiva deve essere attuata
mentre il p.u. compie un atto di ufficio. Il requisito del “compimento di un atto d’ufficio”, infatti,
nella normalità dei casi, implica la presenza del p.u. nel luogo (pubblico o aperto al pubblico) in cui
si trovano il soggetto attivo e le più persone presenti620. Il predetto requisito, pertanto, costituirebbe
un equipollente della presenza del pubblico ufficiale, anche perché non è logicamente ipotizzabile il
compimento di un atto offensivo senza che il pubblico ufficiale sia presente e ne sia il destinatario
613 Vedi anche art. 1104 commi 1 e 5 c. nav., 614 Come richiedeva il Maggiore G., Diritto penale, II, pt. I cit., 206; diversamente Grispigni, op.cit., 276 615 Come richiedeva il Florian, Ingiuria e diffamazione, Milano, 1939, 92 616 In questo senso sembra doversi precisare il costante orientamento della giurisprudenza, che senza fare riferimento diretto alla relazione intersoggettiva, richiede tuttavia la percepibilità del comportamento offensivo da parte del soggetto passivo; per tutte, v. Cass. 27 febbraio 1951, in Giur. compl. cass. pen.,1951, 1335 617 Manzini V., cit., p. 516, Pagliaro, p. 380 Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 454 secondo il quale dalla ratio insita nelle norme sull’oltraggio si può costruire la “concezione funzionale” della presenza. In merito Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 855, osserva che non è nemmeno possibile identificare genericamente la presenza con una situazione spazio - temporale o con l’uso di mezzi tali da rendere possibile la diretta percezione dell’offesa (cfr. Antolisei, op. cit.,II, 772; Manzini V., cit., p. 516; Migliori, op. cit., 916; Ranieri, op. cit., II, 279. In giurisprudenza, cfr. Cass. 7 dicembre 1967, in Giust. pen., 1968, II, 979; Cass. 15 marzo1967, in Cass. pen. mass., 1968, 101; Cass. 13 dicembre 1963, ivi, 1964, 515). Invero, il criterio della possibilità di conoscenza è un giudizio che ha ad oggetto la condotta nella sua interezza e concretezza e che, come tale, è indispensabile per accertare, non già l’esistenza di un suo presupposto o di una sua modalità, bensì la sua complessiva idoneità ai sensi dell’art. 56 c.p.. Inoltre, la concreta possibilità di conoscenza da parte dell’offeso dipende bensì dalla reciproca posizione dei soggetti o dal tipo di mezzo di comunicazione usato, ma anche da una serie di numerosissimi dati di fatto che niente hanno a che fare con la presenza in senso proprio. 618 Gatta G.L., cit., 165 e ss. 619 Cfr. Padovani T., cit., p. 29, secondo il quale se l’offesa al p.u. deve essere commessa mentre questi compie un atto d’ufficio, non vi è dubbio che egli sia per ciò stesso presente. Altri autori si orientano nel senso di considerare la presenza del p.u. come un elemento implicito della fattispecie, talora invocando ragioni storico-sistematiche, che hanno sin da sempre attribuito all’oltraggio il valore di ipotesi speciale di ingiuria (Martiello G., cit., p. 185), talaltra affermando che, a fronte di una disposizione di dubbia compatibilità costituzionale, ci si deve orientare per la soluzione applicativa (laddove possibile) maggiormente restrittiva (Flora G., cit., p. 1452). 620 In merito Martiello G., cit., p.11 osserva che l’uso dell’avverbio “mentre”, anche se non richiama espressamente la necessaria presenza del p.u., sicuramente non la esclude, potendola, quindi, il Legislatore averla ritenuta implicita, quale elemento “immanente” del delitto di oltraggio. Cfr. anche Pasella R., cit., p. 39.
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(di conseguenza il nuovo oltraggio non si discosta dal precedente). A sostegno di questa
impostazione, inoltre, si è osservato che non solo il significato letterale dei termini utilizzati dal
Legislatore, ma anche la valutazione della fattispecie nel suo più generale complesso e nel contesto
storico-sistematico nel quale si colloca inducono a ritenere la presenza del p.u. un requisito
implicito621. Diversi, infatti, sarebbero gli indici a supporto: la rubrica legislativa, sebbene non
vincolante, continua a riferirsi all’oltraggio, denominazione con la quale solitamente si allude ad
una peculiare figura d’ingiuria622 e se il Legislatore avesse voluto discostarsi da tale tradizione
avrebbe verosimilmente mutato anche il nomen iuris della nuova fattispecie; anche le altre figure di
oltraggio ex artt. 342 e 343 richiedono la presenza, anche mediata, del p.u.623.
Secondo un altro indirizzo la lettera della legge consentirebbe anche un altro esito interpretativo,
secondo il quale nell’ambito di applicazione della norma rientrerebbe anche l’ipotesi in cui l’offesa
viene rivolta in luogo pubblico o aperto al pubblico ed in presenza di più persone al p.u. assente, ma
che è in quello stesso momento intento a compiere un atto d’ufficio. Si riporta l’esempio della
contumelia profferita nella sala di attesa di una questura gremita di persone, nei confronti del p.u.
che, all’interno di un ufficio adiacente, sta compiendo un qualsiasi atto del suo ufficio624 o degli
apprezzamenti offensivi espressi da un tizio il quale sta osservando da una certa distanza un
pubblico ufficiale che procede ad un arresto e, senza essere udito dal pubblico ufficiale, esprime nei
suoi confronti, a causa dell’arresto che sta eseguendo e parlando al pubblico che affolla la piazza e
che gli sta attorno625.
Aderendo a questa seconda soluzione, che amplia l’ambito di applicazione della norma e non
appare porsi in contrasto con la ratio dell’incriminazione626, il fatto di oltraggio rilevante ex art. 341
bis c.p. potrebbe essere indifferentemente commesso tanto in assenza quanto in presenza del p.u.,
621 Cfr. Martiello G., cit., p.10. 622 In merito Martiello G., cit., p.10 osserva che la predetta “parentela”, inoltre, sembra confermata dalla circostanza che il legislatore ha inserito un elemento, seppur circostanziale, proprio dell’ingiuria – la presenza di più persone – e non la comunicazione con più persone richiesta dall’art. 595 c.p. 623 Martiello G., cit., p.10. 624 Gatta G.L., cit., 166. 625 In merito Santoro V., cit., osserva che nell’esempio sono presenti tutti gli elementi dall’art. 341 bis: il compimento di un atto di ufficio, il luogo pubblico, la pluralità di persone, l’offesa all’onore ed al prestigio e la possibilità che venga percepita dagli astanti. In tal caso manca l’estremo dell’offesa arrecata direttamente al pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. Però si tratta di un’offesa che viene posta in essere per cause attinenti al servizio svolto; e che rispetto a questo estremo, autonomamente contemplato dalla norma ed in alternativa all’esercizio delle funzioni, non è espressamente richiesta la contestuale presenza del pubblico ufficiale. Sicchè potrebbe sostenersi che sia proprio questo il contesto in cui la “causa pubblica” dell’offesa svolga una funzione autonoma e consenta di ravvisare il reato di oltraggio anche nei casi di offese non rivolte direttamente al pubblico ufficiale. In tal modo si interpreta la locuzione “a causa o nell’esercizio delle funzioni” in modo che i due concetti abbiano un effettivo significato ed entrambi concorrano a definire le possibili configurazioni che può assumere il nesso funzionale. 626 Gatta G.L., cit., 166.
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purchè in presenza di più persone diverse e, in quest’ipotesi, sempre che il p.u. percepisca l’offesa
oltraggiosa627.
L’altra questione che si pone attiene alla necessaria percezione da parte del p.u. dell’offesa.
Secondo alcuni la norma sembrerebbe pretendere solo la sincronia tra il comportamento oltraggioso
ed il compimento di un atto di ufficio da parte del p.u. a prescindere dal fatto che quest’ultimo si
trovi in condizioni di luogo tali da poter percepire l’offesa628.
Secondo altri629, invece, se si opta per la presenza dell’offeso, questo deve avere direttamente e
immediatamente percepito l’offesa.
A diverse conclusioni si approderà nel caso in cui si ritenga che detta presenza non sia richiesta e
che altresì non sia necessario che la condotta offensiva abbia come diretto destinatario il pubblico
ufficiale. Entrambe le opzioni hanno una certa plausibilità e sono dotate di riscontri testuali.
Il primo orientamento, però, rischia di rendere meno incisiva la concreta offensività del reato di
oltraggio, che in ipotesi potrebbe essere ravvisato anche in condotte di offesa all’onore ed al
prestigio che non siano state percepite da nessuno. Anche per le ineliminabile incertezze che
avvolgono il ruolo che il requisito della pluralità di persone svolge nella struttura del reato, sembra
preferibile l’opzione che ritiene necessaria la presenza dell’offeso e la percezione da parte sua della
condotta offensiva, in modo da accreditare al nuovo illecito la natura di reato con evento di danno e
non di pericolo.
L’ELEMENTO SOGGETTIVO
La condotta offensiva punita dall’art. 341 bis c.p. deve essere sostenuta dal dolo generico630,
dovendo l’agente rappresentarsi, con coscienza e volontà, l’aggressione all’onore ed al prestigio del
p.u. che, in luogo pubblico o aperto al pubblico, alla presenza di più persone, sta compiendo un atto
d’ufficio e volere cagionare l’offesa all’onore ed al prestigio del p.u.. Il dolo può assumere sia la
forma generica, che quella indiretta od eventuale, oltre a quella intenzionale631. Esso deve essere
accertato con riferimento a tutti gli elementi costitutivi del reato.
627 Gatta G.L., cit., 166. 628 Al riguardo Santoro V., cit. rileva che questa impostazione (presenza non necessaria e non necessità di una condotta offensiva rivolta al pubblico ufficiale) crea le premesse per ravvisare l’oltraggio anche in comportamenti di sostanziale diffamazione, posti in essere in luogo pubblico ed al cospetto di più persone, per cause legate all’esercizio della pubblica funzione ed in un contesto in cui il pubblico ufficiale stia compiendo in atto di ufficio. 629 Flora G., cit., p. 1452. Se si opta per la tesi che ritiene indispensabile la presenza del pubblico ufficiale non è congruo escludere la necessità che egli percepisca la condotta offensiva. 630 Casalbore, cit., p. 469; Manzini V., cit., p. 522; Migliori P., cit., p. 916; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7; Riccio S., cit., p. 831; Sisti U., cit., 262. 631 Scandone G., cit., p. 483; Vannini O., cit., p. 25. In merito Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7 precisa che la volontà di offendere si ha non solo quando l’agente mira direttamente a tale risultato (dolo intenzionale), ma anche quando il soggetto si rappresenta il risultato offensivo come conseguenza necessariamente connessa a una condotta diretta ad altro
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Attesa la nuova struttura dell’art. 341 bis c.p., pertanto, l’agente dovrà avere la consapevolezza di
tutti gli elementi oggettivi del nuovo fatto tipico (ivi compresi la pubblicità del luogo e la presenza
di più persone ed il fatto che il p.u. sta compiendo un atto del suo ufficio e che è nell’esercizio delle
sue funzioni) e non solo, come nella previgente formulazione, del significato obiettivamente
offensivo delle espressioni usate632; della percepibilità di quest’ultime da parte del soggetto passivo;
della qualità personale ricoperta dall’offeso.
Il luogo pubblico o aperto al pubblico e la presenza di più persone, in quanto presupposti della
condotta, rientrano nell’oggetto del dolo come effettiva conoscenza da parte dell’agente.
Trattandosi di un requisito costitutivo, infatti, occorre che l’agente, oltre ad essere consapevole della
presenza di più persone, intenda far loro conoscere l’espressione offensiva, quanto meno nei termini
del dolo eventuale633.
In riferimento all’abrogata fattispecie si riteneva che ai fini della consumazione dell’oltraggio non
fosse richiesta la deliberata intenzione di offendere l’onore ed il decoro del p.u., ma era sufficiente
la consapevolezza dell’oggettivo significato oltraggioso del proprio comportamento634 ovvero la
consapevolezza della potenzialità offensiva della frase pronunciata635 e la volontà di rivolgerla al
p.u. (in modo che da costui venga percepita)636. Inoltre, sempre in merito alla consapevolezza del
significato obiettivamente offensivo delle espressioni usate, è stato precisato che un errore
essenziale (art. 47 comma 1 c.p.) sul significato offensivo delle espressioni usate può esser dovuto
per esempio a scarsa padronanza della lingua, ad una difettosa informazione sul significato corrente
dei gesti, suoni, ecc., ovvero anche alla convinzione, diffusa nell’ambiente sociale in cui vive
l’agente, che certe espressioni non abbiano significato offensivo.637
scopo (dolo diretto) e persino in certi casi in cui il risultato offensivo è rappresentato come conseguenza soltanto possibile di una condotta rivolta a ottenere un altro risultato (dolo eventuale.) 632 Deve ovviamente trattarsi di consapevolezza effettiva ed attuale, e non semplicemente potenziale, anche se doverosa: così invece, Manzini V., cit., p. 523; contra, Grispigni, op. cit., p. 249 s.; Riccio, op. ult. cit., p. 566 ss.; 633 Padovani T., cit., p. 28 il quale osserva che quando la presenza di più persone costituiva un’aggravante poteva essere imputato anche solo in termini di colpa: era sufficiente che l’autore del fatto potesse rappresentarselo. 634 In giurisprudenza: Cassazione penale, sez. VI, 20 novembre 1991, Meo, in Riv. pen. 1992, 451., Giust. pen. 1992, II,296 (s.m.), Cass. pen. 1993, 312 (s.m.), secondo la quale per la consumazione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale non è richiesta la deliberata intenzione di offendere l'onore o il prestigio del pubblico ufficiale, ma è sufficiente la consapevolezza dell'oggettivo significato oltraggioso del proprio comportamento. 635 Cassazione penale, sez. VI, 12 marzo 1998, n. 4825, Pavan Gattolin, in Cass. pen. 1999, 2164 (s.m.), secondo la quale l'elemento soggettivo del reato di oltraggio non si identifica con la deliberata intenzione di offendere l'onore ed il prestigio del pubblico ufficiale, ma è costituito dalla mera consapevolezza della potenzialità offensiva della frase pronunciata e dalla volontà di rivolgerla al soggetto passivo del reato. In merito la Cassazione penale, sez. VI, 27 febbraio 1979, Palazzoni, in Cass. pen. 1980, 1310 (s.m.), Giust. pen. 1980, II,223 (s.m.), ha anche chiarito che l'eventuale intento critico dell'autore di un delitto di oltraggio non elimina l'esistenza dell'elemento psichico in quanto la libertà di critica incontra i limiti del rispetto dell'altrui diritto all'onore e al prestigio. 636 non rilevando lo stato d’animo del reo, poiché ai sensi dell’art. 90 c.p. gli stati emotivi non escludono né diminuiscono l’imputabilità Cass. pen., sez. VI, 23 ottobre 1998, Roccatello, in Guida dir. , 1999, fasc. 2, p. 132. 637 Spasari, Diffamazione, cit., 489; similmente, cfr. Cass. 2 maggio 1954, in Giust. pen.,1955, II, 55, m. 60; Cass. 20 maggio 1958, in Riv pen.,1947, 782; Cass. 20 maggio 1958, in Giust. pen.,1958, II, 950, m.767.
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Con riguardo alla consapevolezza della percepibilità delle offese da parte del soggetto passivo per
cui l’agente potrebbe volere esternare espressioni che obiettivamente sono ingiuriose, ma non
rendersi conto del significato offensivo della sua condotta oppure semplicemente non voler
offendere638, invece, è stato osservato che l’agente, sulla base della reciproca relazione spaziale o
delle caratteristiche del mezzo di comunicazione impiegato, deve giungere a rappresentarsi almeno
come probabile l’immediata percezione delle espressioni da parte dell’offeso639. È necessario che
l’offensore si renda conto della percepibilità dell’offesa da parte del soggetto passivo: il reato non è
configurabile, per mancanza di dolo, per errore su di un elemento costitutivo del fatto, nel caso in
cui la frase offensiva sia stata percepita dal soggetto passivo, ma l’offensore abbia, sia pure per
errore nella rappresentazione, ritenuto che egli non si trovasse in condizione di percepirla640.
Relativamente alla consapevolezza della qualità personale ricoperta dall’offeso, infine, è stato
precisato che il dolo sussiste anche se il soggetto ignora che l’offeso sia qualificato “pubblico
ufficiale o incaricato di pubblico servizio agli effetti penali”641, perché non è necessario che l’agente
conosca i presupposti normativi del conferimento della pubblica funzione, ma è, però, necessario
che egli sia a conoscenza delle attività effettivamente svolte dall’offeso e costituenti pubblica
funzione642.
Nell’ipotesi in cui sia stato oltraggiato, per errore di persona o di esecuzione (art. 60 e 82 c.p.), un
pubblico ufficiale diverso da quello designato,643 l’oltraggio sussiste solo nel caso in cui l’offesa sia
stata recata “nell’esercizio” delle funzioni e purché del nesso di contestualità l’autore sia
638 Madeo A., cit., p. 234. 639 V. sul punto specifico, Casalbore G., cit., p. 470; Contieri, Sull’elemento soggettivo del delitto di oltraggio verbale, in Foro pen., 1968, 404 ss.; Manzini V., cit., p. 523; Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 864; 640 Casalbore, cit., p. 470 secondo il quale il reato è escluso quando l’autore della condotta ha agito con la certezza di non essere in presenza del p.u., anche nell’ipotesi in cui tale convinzione dipenda da errore dovuto a colpa (perché l’oltraggio non può essere imputato a titolo di colpa); Madeo A., cit., p. 234. 641 Diversamente, Santoro V., op. cit.,II, 365; nonché implicitamente, Ranieri, op cit.,II, 281. 642 Casalbore, cit., p. 469, secondo il quale è sufficiente che il p.u. si sia qualificato ovvero che l’autore del reato abbia avuto precisa percezione delle funzioni concretamente svolte dall’oltraggiato; Levi, op. cit., 430; Palazzo F.C., L’errore, cit., 195 ss.; Vannini, Quid iuris?,VII, cit., 30 s.;in giurisprudenza, tra le tante, v. Cass. 25 gennaio 1969, in Giust. pen., 1970, II, 63, m. 130; Cass. 13 marzo 1963, in Temi nap., 1965, II, 22, con nota di Caputo M., In ordine alla prova del dolo nel delitti di oltraggio a pubblico ufficiale ed alla configurabilità o meno del nesso teleologico tra i delitti di lesioni e quelli di oltraggio e di ingiurie. La giurisprudenza riteneva che la consapevolezza da parte dell’agente della qualità personale del soggetto passivo fosse un elemento costitutivo e, pertanto fosse necessaria, come per tutti gli altri elementi costitutivi, la prova positiva di essa. Cfr. Cassazione penale, sez. VI, 03 marzo 1988, Gardoni, in Cass. pen. 1989, 2009 (s.m.) secondo la quale l'ignoranza della qualificazione giuridica della persona offesa non vale ad escludere l'elemento psicologico del reato di oltraggio, quando l'agente sappia o debba necessariamente sapere che essa esercita una determinata funzione pubblica; Cassazione penale, sez. IV, 14 ottobre 1998, n. 2826, Masolo, in Giust. pen. 1999, II, 719 (s.m.), secondo la quale per la sussistenza dell'elemento psicologico del reato non è necessario che l'agente conosca i presupposti normativi del conferimento della pubblica funzione - la cui ignoranza, risolvendosi in ignoranza della legge penale, dà luogo a un errore non scusabile, integrando detti presupposti la fattispecie penale -, ma è sufficiente che il soggetto attivo del reato si renda conto che la persona offesa esercita una funzione pubblica. (Fattispecie in tema di reato commesso in danno di guardiacaccia nell'esercizio delle sue funzioni di sorveglianza dell'attività venatoria). 643 Sul problema, Vannini V., Quid iuris?, VII, cit., 34; per la sussistenza dell’oltraggio; Sabatini, Istituzioni, pt. s,, cit., I, 1946, 213, per l’inesistenza del reato.
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pienamente consapevole. Nel caso, invece, in cui l’offesa, commessa “a causa” delle funzioni di un
determinato pubblico ufficiale, sia stata per errore diretta contro un diverso pubblico ufficiale, che
di tali funzioni non sia titolare o che non abbia compiuto l’atto funzionale per il quale è stato offeso,
il fatto non costituisce oltraggio, poiché l’offeso non può nemmeno essere considerato quale
pubblico ufficiale, non sussistendo nessun rapporto tra le funzioni da lui svolte e il comportamento
ingiurioso. Il fatto potrà eventualmente essere punito a titolo di ingiuria, sempre che si ritenga
operante il principio della irrilevanza dell’errore sull’identità dell’offeso – ricavabile dagli artt. 60 e
82 c.p. – anche in rapporto a tale delitto644.
È altresì necessario che l’agente abbia voluto porre in essere il suddetto comportamento a motivo,
nel caso in cui il p.u. non stesse esercitando le sue funzioni, delle pubbliche funzioni affidatagli645.
Giova, infine, ricordare che sebbene un orientamento dottrinario minoritario e risalente richiedeva il
dolo specifico646, ovvero l’animus injuriandi, dottrina (maggioritaria) e giurisprudenza sono
concordi nel ritenere che è sufficiente il dolo generico, poiché è indifferente il fine particolare
perseguito dall’offensore, mentre, invece, può rilevare il motivo dell’offesa (a causa delle funzioni
del p.u.)647.
644 Per la rilevanza dell’errore sull’identità personale , v. invece: Di Maria Gomez, Delitti contro l’onore, Padova, 1933, 28; Jannitti Piromallo, Ingiuria e diffamazione, cit.,81; per una soluzione intermedia, v. Florian, Ingiuria e diffamazione, cit. 230. 645 Scandone G., cit., p. 483. 646 Anche se con un costrutto logico calato nell’analisi dei delitti d’ingiuria e diffamazione cfr. Florian E., Ingiuria e diffamazione, Milano, 1939, p. 177 e ss. In merito Palazzo F., Oltraggio, cit. p. 864, ricorda che come per il dolo del reato di ingiuria (cfr. Florian, op. cit., 177 ss.) così anche in rapporto all’oltraggio non è mancato chi ha sostenuto trattasi di dolo specifico, contrassegnato dalla necessaria presenza dell’animus ingiuriandi (cfr. Vannini, Manuale di diritto penale, cit., 78; Id., Quid iuris?, VII, cit., 26-29; cfr. Cass 31 gennaio 1956, in Giust. pen., 1956, II, 588, m. 611). L’Autore afferma che “l’antica teoria cosiddetta degli animi, nata per sottrarre alla sanzione penale quei comportamenti che, per essere caratterizzati da “scopi” sociali, quali l’animus corrigendi, consulendi, docenti, narrandi, ludendi, ecc., non apparivano meritevoli di punizione, risulta oggi inaccettabile (cfr. Catalani, I delitti, op. cit., 197; Forghino, Ingiuria, cit., 687; Mancini, op. cit., V, 483; Migliori, op. cit.. 917; Mutti, Sul dolo nel delitto di oltraggio, in Scuola pos., 1940, II, 267; Sisti, Oltraggio a un pubblico ufficiale, cit., 263; per la costante giurisprudenza v. Cass. 11 marzo 1969, in Giust. pen ., 1970, II, 215, m. 498; Cass. 5 febbraio 1962, ivi, 1963, II, 57, m.. 154) sia perché non sufficientemente fondata sulla legge, sia perché il fine da essa perseguito è più convenientemente realizzato col ricorso alle cause di giustificazione (cfr. Spasari, Diffamazione, cit., 489; Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte Speciale, I, cit., 153; con specifico riferimento all’oltraggio, cfr. Spizuoco, Rilievi circa il dolo dell’oltraggio e circa l’eccesso per vizio di forma e l’attualità della resistenza legittima, in Giust. pen , 1952, II, 327). Invero, sembra più conforme ai principi generali dell’ordinamento assolvere dal reato di ingiuria o di oltraggio non solo e non tanto perché il comportamento offensivo sia stato mosso da uno scopo“sociale”, sia effettivamente riconosciuto dall’ordinamento, che consente o addirittura impone l’offesa in quanto sia stata commessa in particolari situazioni scriminanti legislativamente indicata. Ovvio altresì che l’erronea supposizione di tali situazioni di fatto da parte dell’autore renderà applicabile l’art. 59 comma 3 c.p. e con ciò avrà nuovamente rilevanza uno scopo “sociale” falsamente rappresentatosi dall’autore, ma pur sempre obiettivamente riconosciuto dall’ordinamento. Per contro, la teoria dell’animus, accordando efficacia esimente a qualunque scopo “sociale” rappresentatosi dall’autore, o si risolve nell’utilizzazione, in chiave esclusivamente soggettiva, delle cause di giustificazione, oppure rischia di giustificare qualunque oltraggio od ingiuria sol perché ritenuto lecito dall’autore con conseguente e palese violazione dei principi in tema di errore inescusabile di diritto” (cfr. cfr. Catelani, Il dolo nel delitto di oltraggio a pubblico ufficiale e limiti di applicabilità dell’esimente di cui all’art. 4 D.L.L. 14 settembre 1944, n. 288, in Scuola pos., 1966, 305 s., che ritiene la teoria dell’animus incompatibile con l’art. 5 c.p.) 647 Manzini V., cit., p. 523; Migliori P., cit., p. 916; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 458; Scandone G., cit., p. 483; Sisti U., cit., 262.
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Tuttavia, se non è necessario l’animus iniuriandi e, cioè, che il soggetto agisca al preciso scopo di
offendere il pubblico ufficiale, è però indispensabile che la coscienza e la volontà del’autore si
estendano ad investire, secondo i consueti principi in tema di dolo, l’evento immateriale del
reato648. Conseguentemente, l’ipotesi di oltraggio commesso ludendi animo, rispetto al quale non
può ovviamente trovare applicazione nessuna delle cause di giustificazione né reale né putativa, può
ben esser ritenuta priva di dolo649, senza bisogno di fare riferimento al presunto animus iniuriandi,
che nel caso ipotizzato sarebbe escluso dall’intenzione di scherzare. Invero, stando alle premesse
poste e applicando i regolari principi sul dolo, l’intenzione di scherzare può escludere nell’autore la
volontà – compresa quella per così dire attenuata caratteristica del dolo indiretto – dell’evento
immateriale del reato, in quanto egli si sia convinto che, a causa dei rapporti personali, del tono
dell’espressione, delle modalità della condotta e di ogni altra caratteristica della situazione, non
sussista nemmeno il pericolo che il destinatario delle espressioni offensive si senta offeso nel
sentimento del proprio valore sociale, potendosi ragionevolmente presumere che, per le circostanze
in cui viene commesso il fatto, il destinatario riconosca senza esitazioni il carattere scherzoso delle
espressioni: siffatta convinzione dell’autore del fatto esclude il dolo dell’oltraggio650.
Il rigore interpretativo ed applicativo dell’oltraggio non può condurre alle aberranti conseguenze di
limitare la sfera di libertà e di relazione dello stesso p.u. – con il quale nessuno si sognerebbe di
scherzare, rischiando la reclusione fino a 4 anni – di tal che, come si rileva in dottrina651 è rimesso
al prudente apprezzamento del giudice almeno il potere di escludere la sussistenza del reato per
mancanza dell’elemento psicologico in ordine alla consapevolezza della lesività della condotta
dell’interesse giuridicamente protetto652.
Per completezza, però, giova ricordare anche l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale,
invece, poiché nell’oltraggio l'offesa al prestigio del pubblico ufficiale si ripercuote sulla Pubblica
Amministrazione, l’intento di scherzare ovvero l'eventuale rapporto di amicizia o genericamente di
confidenza con l'offensore non esclude, ricorrendo gli altri presupposti, la configurabilità del delitto,
poichè il prestigio ed il buon andamento della Pubblica amministrazione non sono beni
disponibili653.
648 Nuvolone, L’evento e il dolo, cit., 874, anche se in rapporto alla diffamazione. 649 Santoro, Manuale, II, cit., 364 s.; per analoga conclusione, ma in rapporto all’ingiuria e non all’oltraggio, v. Spizuoco, Il problema della liceità dell’offesa nell’oltraggio e nell’ingiuria, in Giust. pen., 1952, II, 843 s.; contra, Casalbore, cit., p. 470; Manzini V., cit., p. 523; Sisti U., cit., 263. Cass. 27 ottobre 1976, in 1977, II, 303, m..322 650 Similmente, v. Santoro, lc .ult. cit. In giurisprudenza si rinvia a Cass. 27 ottobre 1976, Cerri, la quale ha ritenuto non sufficiente ad escludere il reato di oltraggio l’intento di offendere per scherzo, obiettando che anche quest’ultimo si ripercuote sul prestigio del soggetto passivo. 651 Casalbore, p.470 652 Madeo A., cit., p. 235. 653 Cfr. Cassazione penale, sez. VI, 28 novembre 1988, in Cass. pen. 1990, I,424 (s.m.), Giust. pen. 1989, II, 622 (s.m.), Riv. pen. 1990, 143.
150
Concludendo, deve essere infine rilevato che l’opinione, largamente sostenuta in giurisprudenza654
e secondo la quale, rispetto a certe espressioni manifestamente ed inequivocabilmente ingiuriose,
cioè che per il loro significato hanno un valore offensivo, preciso ed insuscettibile d’interpretazioni
ambigue, sarebbe superfluo procedere all’accertamento del dolo, essendo questo in re ipsa655
ovvero rivelatore delle intenzioni offensive dell’agente, non può essere accolta656, a meno che non
s’intenda puramente alludere ad una mera semplificazione del procedimento probatorio, in ogni
caso eventuale e dipendente dalle particolari caratteristiche del fatto storico.657
LA CIRCOSTANZA AGGRAVANTE DELL’ATTRIBUZIONE DI UN FATTO DETERMINATO
Come l’abrogato art. 341, 3 comma, c.p., il comma 2 dell’art. 341 bis c.p. prevede un aumento di
pena nell’ipotesi in cui l’offesa consista nella attribuzione di un fatto determinato. Si tratta di una
circostanza aggravante speciale (identica a quella prevista dagli artt. 342, 3 comma e 343, 2 comma,
c.p.658) ad effetto comune659, perchè determina l’aumento della pena, ma nei termini ordinari
654 cfr. ad esempio, Cass. 10 ottobre 1972, in Giust. pen., 1973, II, 512; Cass. 12 aprile 1965, ivi, 1965, II, 783, m.957; Cass. 13 giugno 1958, ivi, 1958, II, 1157, m. 977; in dottrina, v. Ranieri, op. cit., II, 282. 655 Cassazione penale, sez. VI, 25 febbraio 1982, Bennati, in Giust. pen. 1982, II, 385, secondo la quale il dolo nel reato di oltraggio è in “re ipsa” quando le espressioni usate hanno per il loro chiaro significato un valore offensivo assolutamente preciso e insuscettibile di interpretazioni ambigue. L'espressione dell'imputato verso un testimone in udienza "è un bugiardo" è senz'altro ingiuriosa perché non equivale a quella "non è vero"; Cassazione penale, sez. VI, 26 marzo 1985, Affuso, in Giust. pen. 1986, II,360 (s.m.), secondo la quale per la sussistenza del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale non si richiede il dolo specifico, essendo sufficiente la consapevolezza nel soggetto attivo del significato oltraggioso delle parole usate. Tale consapevolezza è in “re ipsa” quando l'espressione pur se frequente nell'uso corrente, non ha perso il suo significato di disprezzo dell'operato altrui e conserva un valore offensivo assolutamente preciso e insuscettibile di interpretazioni ambigue. (Nella specie, l'imputato al carabiniere che lo incitava a spostare l'autovettura e ad esibire i documenti aveva rivolto la frase "Tu mi hai rotto i maroni"); Cassazione penale, sez. VI, 22 aprile 1986, Teso, in Giur. it. 1987, II,198., Giust. pen. 1987, II,341 (s.m.), secondo la quale il dolo del delitto di oltraggio è "in re ipsa" quando le espressioni usate hanno per il loro significato un valore offensivo assolutamente preciso e non suscettibile di interpretazioni ambigue. Tale dolo non è escluso nemmeno dallo stato di ubriachezza in cui si sia trovato l'agente che ha profferto le espressioni oltraggiose; Cassazione penale, sez. VI, 18 ottobre 1994, Chiavarini, Cass. pen. 1996, 1166 (s.m.), secondo la quale la facilità con cui vengono usate le espressioni più volgari ed il diffondersi di tale abitudine non tolgono alle espressioni stesse la loro obiettiva capacità di offendere l'altrui prestigio, mentre il dolo è implicito nel fatto stesso, qualora quelle espressioni presentino, per il loro chiaro significato, un valore offensivo preciso ed insuscettibile di interpretazioni ambigue. 656 Albamonte, Alcune riflessioni in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, in Giust. pen., 1973,II, 513 ss.; Caputo,lc. cit.; Mancini, op. cit., V, 485; Mutti, lc. cit.; Santoro, op. cit., II, 364; Contra il dolo in re ipsa Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 458; Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 865; contrari Antolisei F., cit., p. 360 (ed. 1995); possibilista Manzini V., cit., p. 524; Cass. 23 giugno 1955, in Giust. pen., II, 145, m. 150. 657 Bricola, Dolus in re ipsa, Milano, 1960, 156. 658 Al riguardo Scandone G., cit., p. 480, osserva che sarà necessario seguire come si orienterà la giurisprudenza in riferimento agli artt. 342 e 343 che non sono stati modificati con l’introduzione dell’esimente prevista nella seconda parte dell’art. 341 bis c.p., pur contenendo entrambi l’aggravante dell’attribuzione del fatto determinato. In dottrina, infatti, si è dibattuto sull’estensibilità in via analogica ai delitti di oltraggio dell’exceptio veritatis prevista dall’art. 596, 4 comma, c.p. ma non si era pervenuti ad una posizione condivisa, anche in ragione della profonda differenza in tema di ratio dell’incriminazione e dei beni tutelati (sul punto Pagliaro, cit., p. 8; Palazzo, Oltraggio, cit., p. 872). L’autore ipotizza che la novella del 2009 potrebbe ridare autorevolezza ai sostenitori dell’estensibilità, considerato anche che il su riportato distinguo è venuto meno per effetto dell’inserimento dell’esimente in uno dei delitti di oltraggio, con i quali condivide gli aspetti fondamentali a base della tutela penale.
151
stabiliti dall’art. 64, 1 comma, c.p. (non è, dunque, configurata come ad effetto speciale, come
invece accade in quella disposta dell’art. 343, 2 comma, c.p.) e di natura oggettiva660.
“Fatto” è un avvenimento qualsiasi e può essere naturale o umano661. La tesi restrittiva662 che per
fatto si debba intendere solo un’azione od omissione addebitabile alla volontà individuale
dell’offeso e di un terzo, è stata giudicata priva di ogni giustificazione testuale e contraria alle
esigenze teleologiche della norma sull’oltraggio663.
La ratio della previsione si rinviene nella sua maggiore incisività in quanto si presume che l’offesa,
perimetrata nel fatto specifico attribuito664, assume potenzialmente carattere di maggior
plausibilità665 e, quindi di maggiore gravità, rispetto ad una attribuzione vaga e generica666.
Occorre, quindi, che l’addebito lesivo sia sufficientemente circostanziato e non si risolva in
generiche contumelie o accuse prive di concreti riferimenti a fatti ed episodi puntualmente
circoscritti667.
In merito la Cass., ha affermato che il fatto, sebbene non ricostruito in ogni minimo dettaglio, deve
essere “concretamente individuabile attraverso l’indicazione di particolari circostanze (modalità,
tempo, luogo, ecc.) che valgono a specificare l’azione disonorevole in modo che ne derivi quella
maggiore credibilità che rende più grave il pregiudizio all’onorabilità altrui, che costituisce la
ratio della punizione normativa”668. Si è precisato, altresì, che a tal fine non devono essere riportate
tutte le categorie aristoteliche sopra elencate669.
659 In merito Martiello G., cit., 16, osserva che le ragioni della scelta del Legislatore di prevedere un aggravante ad effetto comune e non più ad effetto speciale devono essere rinvenute nella volontà di contenere l’impatto negativo dell’art. 341 bis c.p. sulla posizione del reo “forse nell’intima convinzione della delicatezza costituzionale dell’operazione ripristinatoria compiuta, considerato che, nell’attuale sistema, circostanze della foggia di quella originariamente prevista dall’art. 341, comma 3, c.p. determinano pure l’allungamento dei tempi di prescrizione (art. 157, comma 2, c.p.)”. 660 Manzini V., cit., p. 526. 661 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3. In merito cfr. Casalbore, cit., p. 471, secondo il quale il fatto attribuito al p.u. può consistere in una condotta positiva o in un comportamento omissivo. Nello stesso senso Manzini V., cit., p. 527. Si discuteva, inoltre, se il fatto attribuito dovesse concernere esclusivamente l’attività compiuta nell’esercizio delle funzioni pubbliche o se, al contrario, potesse riguardare solo la vita privata del p.u. in quest’ultimo senso Casalbore, cit., p. 471. 662 Maggiore G., cit., p. 817. 663 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3 secondo il quale un modo per offendere l’onore del p.u. può consistere nell’attribuirgli una disgustosa malattia, un ridicolo difetto del corpo o della mente. Secondo l’Autore, inoltre, per motivi analoghi si deve considerare “attribuzione di fatto determinato” anche l’attribuzione d’intenzione di progetti illeciti o immorali (cfr. Mantovani F., Fatto determinato, cit., p. 49. Contra Manzini V., cit., p. 527). 664 Madeo A., cit., p. 234 ricorda che la dottrina (Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 459) ha precisato il significato del termine “attribuire” ovvero mettere in relazione con l’offeso un fatto inteso come avvenimento qualsiasi, umano o naturale, anche immorale, purchè idoneo ad offendere l’onore ed il prestigio. 665 Scandone G., cit., p. 478. Nello stesso senso Flora G., cit., p. 1452, il quale precisa che si tratta di elemento che ha alle spalle una lunga elaborazione teorica e pratica e che non dà problemi in merito alla individuazione della sua ratio (pacificamente consistente nella maggiore credibilità e quindi gravità della lesione della dignità del funzionario). 666 Casalbore G., cit., p. 471; Manzini V., cit., p. 526; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3; Palazzo, Oltraggio, cit., p. 868 667 Manzini V., cit., p. 528; Sisti U., cit., 263. 668 Cass., sent. n. 132516 del 13/10/1975 in ced cass. n. 132516 in dottrina Flora G., cit., p. 1452, il quale evidenzia che il contenuto del fatto è pacificamente costituito da connotazioni spazio temporali idonee a configurarlo come
152
È comunque necessario che “il fatto sia indicato come realmente accaduto e sia contrassegnato da
note che gli attribuiscono almeno un’apparenza d’individuabilità”670, corroborando in tal modo la
sua credibilità così da accrescere l’offensività del comportamento.
L’attribuzione del fatto può avvenire con ogni modalità idonea a raggiungere il risultato suddetto,
tanto con asserzioni verbali esplicite, ma anche ricorrendo a simbolismi, formule dubitative,
prospettazioni scherzose o equivoche o attraverso allusioni e reticenze671. Occorre, però, la
credibilità del fatto672. Il fatto deve essere tale che la sua attribuzione comporti un’offesa all’onore e
al prestigio673.
Se, invece, il fatto attribuito, pur considerato disonorevole, è giuridicamente obbligatorio,
l’aggravante non si configura, perché l’ordinamento giuridico non può entrare in contraddizione con
se stesso674. Nel caso di errore di persona nell’attribuzione del fatto disonorevole si applica l’art. 60
c.p. e non l’82 c.p. e, di conseguenza la circostanza non si configura675.
A differenza dell’abrogata fattispecie, è sempre ammessa la prova liberatoria. Il carattere
determinato del fatto (richiesto dalla circostanza aggravante) si deve ritenere essenziale alla stessa
possibilità logica di esperire la prova liberatoria (anche se non ripetuto nel proseguo del comma),
considerato che un generico insulto, una qualifica denigratoria non ulteriormente circostanziata
costituiscono mero sfogo personale, in sé non predicabile di verità o di falsità.
storicamente "unico" e ben identificabile. Cfr. in argomento F. Mantovani, Diritto Penale, P. speciale, vol. I, Delitti contro la persona, Padova, 2008, 213 ss. 669 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3, secondo il quale non occorre che la determinatezza del fatto sia assoluta. Il fatto attribuito e può essere vero e può essere anche notorio senza che venga meno l’aggravante. Non basta, secondo l’autore, l’attribuzione di una qualità (ad es. ladro, falsario) con la quale si afferma implicitamente la commissione di uno o più illeciti senza determinarli. Nello stesso senso Manzini V., cit., p. 528. 670 Manzini V., cit., p. 528; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3, Romano, i delitti, 91. Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 460 secondo il quale l’individuabilità può essere anche prospettata come dipendente in modo necessario dalla utilizzazione di conoscenze che l’offeso ha o che l’offensore asserisce egli abbia (nello stesso senso Levi, p. 431; contra Manzini V., cit., p. 528). 671 Manzini V., cit., p. 523; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 3; Pagliaro A., I principi, cit., p. 460. 672 In merito Casalbore, cit., p. 471, il quale precisa che non è necessario che il fatto attribuito sia vero e realmente accaduto, ma è sufficiente che esso sia semplicemente possibile e, quindi, abbia oggettiva potenzialità di essere creduto; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 460 il quale osserva altresì che se il fatto attribuito, pur essendo considerato disonorevole, è giuridicamente obbligatorio, l’aggravante non si configura, perché l’ordinamento giuridico non può entrare in contraddizione con se stesso. 673 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 6, il quale evidenzia che alcun fatti costituenti illecito penale o disciplinare non sminuiscono in modo necessario l’onore ed il prestigio di chi li commette. Si pensi ad alcuni delitti colposi, a talune contravvenzioni o a taluni illeciti dolosi determinati da movente politico. Sul punto anche Palazzo, Oltraggio, cit., p. 868, il quale precisa che il carattere degradante del fatto, che non coincide necessariamente con la sua illiceità penale e nemmeno con la semplice illiceità giuridica può dipendere interamente dalle particolari qualità personali del soggetto cui viene attribuito: attribuzione di una determinata relazione amorosa, per esempio, è offensiva per un prete ma non necessariamente per un celibe. Anche un fatto di per se non offensivo può diventare tale e costituire l’aggravante quando sia attribuito, alla persona dell’offeso ovvero finanche a persona diversa per motivare adeguatamente l’attribuzione di una qualità offensiva. 674 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 6. 675 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 6.
153
La pena per l’attribuzione di un fatto determinato era, vigente l’art. 341, 3 comma, c.p., quella della
reclusione da uno a tre anni. Il nuovo art. 341 c.p., comma 2, c.p., invece, commina una pena più
mite nel minimo e più severa nel massimo: prevede, infatti, che la pena base per il nuovo delitto di
oltraggio (reclusione da 15 a tre anni) sia aumentata fino a un terzo e, pertanto, commina una pena
da un minimo di sedici giorni a un massimo di quattro anni.
In merito si è osservato676 che l’ampia discrezionalità rimessa al giudice, che per l’oltraggio
consistente nell’attribuzione di un fatto determinato può infliggere una pena enormemente diversa,
data l’ampiezza della cornice edittale (finanche una pena non sospendibile, perché superiore ai due
anni) e la previsione della possibilità di irrogare fino a quattro anni per fatti di offesa all’onore ed al
prestigio del p.u. contrastano con il principio di proporzione. Il severo regime sanzionatorio, inoltre,
sembra irragionevole se confrontato con quello stabilito dall’art. 594, 3 comma, c.p. per l’ingiuria
aggravata dalla attribuzione di un fatto determinato (ex art. 52 d.lgs. n. 274/2000 la sola multa o, in
alternativa, la permanenza domiciliare da sei a trenta giorni ovvero il lavoro di pubblica utilità da
dieci giorni a tre mesi).
LA PROVA DELLA VERITÀ DEL FATTO DETERMINATO OGGETTO DELL’OFFESA
E LA SOPRAVVENUTA CONDANNA DEL P.U. PER IL FATTO, AVVENUTA DOPO LA
SUA ATTRIBUZIONE AL P.U.
Un’altra delle novità maggiormente significative della nuova disciplina del reato di oltraggio è
quella di aver dato espresso rilievo, nell’ipotesi aggravata dell’attribuzione di un fatto determinato,
alla prova della verità del fatto e alla condanna del pubblico ufficiale per quel fatto intervenuta dopo
la sua attribuzione677. Al verificarsi di una delle due condizioni, secondo il disposto l’art. 341 bis,
comma 2, ultimo periodo, l’autore dell’offesa non è punibile678.
Anche questa disposizione costituisce la “risposta” del Legislatore ad alcune controversie e
perplessità che hanno caratterizzato il pregresso reato di oltraggio679. La norma, infatti, pone fine al
676 Gatta L.G., cit., p 173; Madeo A., cit., p. 236. Flora G., cit., p. 1452 secondo il quale “ricorrendo l'aggravante in questione, il massimo edittale sale a ben quattro anni di reclusione; "cifra" che, da un lato mi sembra francamente sproporzionata, di per sé, in rapporto al disvalore del fatto, anche per come è percepito dalla coscienza sociale; da un altro dilata il compasso edittale (da venti giorni a quattro anni) in misura tale da consegnare al giudice una discrezionalità così ampia da sconfinare nell'arbitrio”. 677 Auspicano l’introduzione anche in riferimento agli artt. 342 e 342 c.p.: Madeo A., cit., p. 238 678 Art. 341 bis c.p., 2 comma, c.p.: “La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Se la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile”. 679 Mantovani F., Fatto determinato, exceptio veritatis e libertà di manifestazione del pensiero, Giuffrè, Milano, 1973, p. 106-107.
154
dibattito concernente la mancata applicazione al reato de quo dell’art. 596, comma 3 e 4, c.p.680, che
statuiscono l’obbligatorietà della prova liberatoria nelle evenienze in cui l’onore (o la reputazione)
del pubblico ufficiale è offeso con addebito di fatti determinati e relativi all’esercizio delle funzioni.
Si asseriva, infatti, che la disciplina dell’oltraggio, così come formulata, produceva, rispetto a quella
contemplata per l’ingiuria, una disuguaglianza tra il trattamento giuridico previsto per l’imputato
del primo reato (per il quale era esclusa la prova liberatoria) e quello stabilito per l’imputato del
secondo. In virtù di tale considerazione, mentre la giurisprudenza era contraria681, parte della
dottrina682 era favorevole all’estensione dell’exceptio veritatis anche alle ipotesi di oltraggio683.
Alcuni commentatori della riforma hanno giudicato “pericolosa” l’introduzione della causa di non
punibilità, perché a loro giudizio potrebbe essere foriera di problemi applicativi sorti a causa del
“processo nel processo” sulla verità dell’addebito: in particolare su tempi e modi degli effetti che
l’accertamento in diversa sede processuale della verità del fatto oggetto di oltraggio dovrebbe
sortire sul procedimento a carico dell’agente684.
In primo luogo è, necessario segnalare che l’espresso richiamo alla natura “determinata” del fatto,
che nella prima parte del secondo comma dell’art. 341 bis c.p. connota una specifica aggravante
della fattispecie, non può non riferirsi anche al “fatto” cui allude la seconda parte del comma
680 Art. 596 commi 3 e 4 c.p.: “Quando l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la prova della verità del fatto medesimo è però sempre ammessa nel procedimento penale: 1) se la persona offesa è un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all'esercizio delle sue funzioni; 2) se per il fatto attribuito alla persona offesa è tutt'ora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale; 3) omissis. Se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è per esso condannata dopo l'attribuzione del fatto medesimo, l'autore dell'imputazione non è punibile, salvo che i modi usati non rendano per se stessi applicabili le disposizioni dell'art. 594, comma 1, ovvero dell'articolo 595, comma 1”. 681 Cassazione penale, sez. VI, 09 aprile 1980, Cucitore, in Cass. pen. 1982, 96 (s.m.) secondo la quale L' "exceptio veritatis" ammessa per i rei del delitto di ingiuria e di diffamazione, ai sensi del comma 3 dell'art. 596 c.p. non si riferisce e non può riferirsi a quello di oltraggio, per la diversa obiettività giuridica tutelata. 682 Antolisei F., Manuale di diritto penale, II, Giuffrè, 2008, p. 360; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 9. Si rilevava, infatti, che la mancata estensione dell’exceptio veritatis comportava la paralisi di tale congegno proprio nei casi che fisiologicamente ne reclamavano l’applicazione, posto che era rara l’eventualità che un’offesa al pubblico ufficiale, determinata e relativa alle sue funzioni, configurasse il reato di ingiuria. Mentre erano tantissime le ipotesi in cui il suddetto fatto confluiva nel reato di oltraggio. Padovani T., cit., p. 32 osserva che l’innovazione normativa appare opportuna perché negare la prova della verità del fatto significava esasperare la natura formale della tutela accordata all’onore ed al prestigio del p.u., proprio rispetto ad addebiti la cui particolare efficacia lesiva dipende dalla loro credibilità e verosimiglianza. Un’accusa storicamente definita nella sua specificità è intrinsecamente dotata di una peculiare capacità offensiva, prprio perché suscettibile di verifica. escludere tale verifica si risolverebbe in un aprioristico privilegio dell’offeso, il cui onore finiva con l’essere tutelato come il simulacro di un’autorità superiore, inaccessibile al riscontro dei fatti e perciò socialmente intangibile. Tra gli autori contrari Casalbore, p. 471; Manzini V., cit., p. 525. 683 App. Trieste 11 giugno 1996, Fiorelli; Cassazione penale, sez. VI, 24 ottobre 1978, Tarlao, in Cass. pen. 1981, p. 45. Tra gli autori contrari Casalbore, p. 471. 684 Amato G., cit., p. 59. In merito Madeo A., cit., p. 238 osserva, invece, che sebbene le obiezioni sopra riportate sulle possibili problematiche applicative dovute al secondo comma dell’art. 341 bis c.p. sono corrette – quanto meno in relazione all’eccesso di tutela “liberatoria” attribuita all’offensore ben informato sulla vita del p.u. oltraggiato – il giudizio complessivo sulla predetta introduzione è positivo, “essendo non proprio infrequente la possibilità di imbattersi in p.u. poco ossequianti (non solo il rispetto per i cittadini, ma soprattutto) la nobile funzione assunta”, tanto da auspicarne l’introduzione anche in riferimento agli artt. 342 e 342 c.p.
155
medesimo, sebbene la collocazione così ravvicinata di istituti diversi per ratio e per effetti non è
apparsa felice685. È, infatti, opinione pacifica che il carattere determinato del fatto deve considerarsi
essenziale alla stessa possibilità logica di esperire la prova liberatoria, considerato che un generico
insulto, una qualifica denigratoria non ulteriormente circostanziata costituiscono un mero sfogo
personale, in sé non predicabile di verità o falsità686.
Secondo un altro orientamento687, invece, poiché l’esimente risponde ad una ratio diversa, il
concetto di “fatto determinato” da adottare deve conseguentemente essere diverso. Si è sostenuto,
infatti, che anche un addebito non così circostanziato da renderlo maggiormente credibile è
suscettibile di prova della verità quando faccia riferimento ad un fatto sufficientemente
caratterizzato nelle sue note essenziali che possano formare oggetto di prova processuale.
Quanto alla qualificazione giuridica della statuita non punibilità, occorre ricordare che la questione
è oggetto di ampio dibatto con riguardo alla fattispecie di cui all’articolo 596 c.p. e la
contrapposizione dei diversi punti di vista è ancora attuale, pur dovendosi segnalare una crescente
preponderanza delle opinioni favorevoli al difetto di antigiuridicità obiettiva688.
In riferimento alla fattispecie oggetto di analisi secondo una tesi la verità e determinatezza
dell’addebito tolgono ogni connotazione lesiva alla condotta e ne escludono la antigiuridicità,
analogamente a quanto sostenuto dalla dottrina in riferimento all’exceptio veritatis di cui all’art. 596
c.p.689
685 Martiello G., cit., p. 12. 686 Cfr. Spasari M., Diffamazione e ingiuria, in Enc. Dir., vol. XII, 1964, p. 487; Bisori L., I delitti, cit., 21, p. 137. 687 Flora G., cit., p. 1453; G. Flora, Il problema della costituzionalità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, Arch. Giur. Serafini, 1976, p. 58 (n. 115). Più in generale, F. Mantovani, Fatto determinato, exceptio veritatis e libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1973, 21 (n. 20), il quale sembra però avere mutato successivamente opinione (F. Mantovani, Diritto Penale, P. speciale, vol. I, cit., 215 ss.) e propende per una nozione unitaria sia ai fini dell'aggravante, sia ai fini della scriminante. 688 Per questa soluzione, v. Mantovani F., Fatto determinato, cit. 87 ss., 105 ss. (e riassuntivamente in Parte speciale, III ed cit. 233), e da ultimo Bisori L., I delitti, cit., 142 ss. con i richiami di dottrina; analogamente, ma con riferimentoai soli casi di cui nn. 1 e 2 dell’art596 c.p., v. Pedrazzi C., L’exceptio veritatis dogmatica ed esegesi, in AA.VV., Scritti giuridici in onore di Vincenzo Mancini, Padova 1954, 728 ss e 740; Antolisei F., Manuale di diritto, parte speciale, XV ed vol I Milano, 2008, 229; Gregari G., Exceptio veritatis, Padova, 1974, 137 ss. Diversa è la posizione assunta dalla Suprema Corte, che opta per la qualificazione in termini di causa di non punibilità, con conseguente irrilevanza del putativo: per una sintesi della giurisprudenza, v. per tutti Bisori L., op. ult. cit., 143 689 In questo senso Flora G., cit., p. 1453, che la qualifica una “scriminante speciale”; Martiello G., cit., p. 14 osserva che una significativa differenza tra le disposizioni contenuta dall’art. 341 bis, 2 comma, 2 parte c.p. e l’art. 596 c.p. è costituita dalla mancata riproposizione da parte del legislatore in riferimento alla prima della clausola di salvezza contenuta nell’ultimo comma dell’art. 596 c.p. sicchè, considerati i principi che regolano gli effetti e l’interpretazione delle norme scriminanti, ne consegue che non è possibile distinguere, ai fini punitivi, tra merito dell’offesa oltraggiosa e sua modalità di espressione, per cui si giustificano anche quelle veritiere censure del munus publicum che tuttavia trascendono i limiti della continenza. Santoro V., cit., rileva che se si ritiene che la non punibilità operi anche con riguardo ai fatti di cui sia previamente “certificata” la verità (per esempio pregressa sentenza di condanna per un reato), si forniscono ulteriori elementi a sostegno del difetto di tipicità o di antigiuridicità. Si sarà, infatti, in presenza di un fatto di oltraggio che sin dal suo nascere appare provvisto di tutti gli ingredienti della causa di non punibilità: la condotta offensiva consiste nell’attribuzione di un fatto determinato; il fatto determinato è vero; il giudice si limita a prenderne atto.
156
Per l’altra teoria il fatto di reato rimane integro e la verità dell’addebito svolge l’unica ed estrinseca
funzione di impedirne la punibilità, fermo restando l’obbligo del risarcimento del danno e tutte
quelle ulteriori conseguenze che si accompagnano ad un fatto del tutto corrispondente ad una norma
incriminatrice690.
LA PROVA DELLA VERITÀ DEL FATTO DETERMINATO OGGETTO DELL’OFFESA
Rispetto alle previsioni contenute nell’art. 596 commi 3 e 4 c.p. la disciplina contemplata dall’art.
341 bis c.p. contiene delle significative differenze.
L’apparente coincidenza nella formulazione delle due norme, infatti, non significa che la prova
liberatoria introdotta per il reato di oltraggio sia sovrapponibile con quella prevista per i delitti
contro l’onore691. In relazione ai delitti di ingiuria e diffamazione l’efficacia esimente della prova
della verità del fatto determinato attribuito al p.u. è subordinata, ai sensi dell’art. 596 comma 3, n.1,
c.p. alla condizione che il fatto ad esso attribuito si riferisca all’esercizio delle sue funzioni.
Nell’art. 341 bis c.p., invece, la prima ipotesi di non punibilità dipende da due condizioni: l’offesa
deve consistere nell’attribuzione di un fatto determinato e deve essere provata la verità del fatto.
Non si richiede, quindi, che l’addebito lesivo concerna l’esercizio delle funzioni e si tace
completamente sul contesto in cui debba acquisirsi la prova del fatto determinato.
Rispetto al contenuto di quest’ultimo, perciò, l’efficacia esimente della prova della verità del fatto
ha un maggiore ambito di applicazione rispetto all’art. 596 c.p., che richiede l’ulteriore elemento
dell’inerenza dell’offesa all’esercizio delle funzioni692.
690 Santoro V., cit., osserva che se si aderisce al primo orientamento esposto (difetto di tipicità o di antigiuridicità obiettiva) “si rischia di trasformare la formula strutturale dell’oltraggio oppure di ravvisare la scriminante dell’esercizio del diritto nell’ipotesi in cui l’onore ed il prestigio del pubblico ufficiale sia leso mediante affermazioni corrispondenti alla verità dei fatti”. Inoltre la predetta tesi si discosta da quanto comunemente asserito con riguardo ai tradizionali reati di ingiuria e diffamazione, in relazione ai quali, in conformità a quanto disposto dal primo comma dell’art. 596 c.p., è pacifica l’affermazione che la verità dell’addebito lesivo non escluda il reato (non si può impunemente dare della prostituta a chi realmente svolga tale attività). Secondo l’autore quella dell’oltraggio non si discosta dalla disciplina dell’ingiuria in quanto non sembra che manchi l’offesa tipica, o l’antigiuridicità, nell’ipotesi di addebiti lesivi con connotati di determinatezza e corrispondenti al vero: “sembra quindi più plausibile l’ipotesi che il fatto di reato rimanga integro e che la verità dell’addebito determinato valga solo ad impedirne la punibilità, rimanendo impregiudicati il carattere illecito del fatto e le usuali conseguenze che da ciò discendono. Si tratterebbe, pertanto di una causa di non punibilità di carattere oggettivo ed in quanto tale, ai sensi dell’articolo 119 c.p., comunicabile agli eventuali concorrenti”. 691 Madeo A., cit., p. 237. 692 In merito Flora G., cit., p. 1453 rileva che se l'ultima locuzione “abbraccia - come sembra correttamente sostenibile - anche i fatti "privati" che si riflettono negativamente sull'esercizio delle pubbliche funzioni e dovendo il "nuovo" oltraggio necessariamente offendere sia l'onore che il prestigio (e quindi intaccare anche la dignità della funzione pubblica) ritengo che un tale requisito debba intendersi implicitamente ricompreso nella configurazione della scriminante in oggetto”. Scandone G., cit., p. 466 secondo il quale l’introduzione della prova liberatoria nei termini sopra riportati confermerebbe inoltre l’impostazione secondo la quale la ratio dell’incriminazione deve essere individuata nella difesa delle Pubblica amministrazione, perché non è possibile configurare l’oltraggio senza l’offesa anche al prestigio. Il fatto determinato, infatti, può consistere in un comportamento attribuito al p.u. a causa delle sue
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Si è osservato, però, che tale impostazione porta ad un esito interpretativo irragionevole, in quanto
in tal modo si attribuisce rilievo esimente alla prova di fatti determinati attribuiti al p.u. che non
concernono in alcun modo con l’esercizio delle funzioni, ma con la sua vita privata. Intesa in questo
senso la previsione normativa appronta una minor tutela rispetto al passato, quando il p.u. poteva
presentare querela per ingiuria aggravata ed operavano, in questo caso, i limiti stabiliti nella
disciplina dell’exceptio veritatis.
Al riguardo si propone l’esempio dell’automobilista che, in un piccolo comune, si rivolge al vigile
che l’ha fermato per effettuare un controllo dicendogli “Cosa vuoi controllare gli altri che non sei
in grado di controllare nemmeno tua moglie: tutti i giorni ti tradisce con il tuo vicino. Cornuto!” e
che, pertanto, se riesce a provare l’infedeltà coniugale della moglie del predetto vigile, potrà
invocare l’esimente a suo favore693. L’irragionevolezza nel caso di specie discende dalla circostanza
che sebbene l’offesa all’onore ed al decoro del p.u. abbia ad oggetto un fatto determinato e vero,
comunque non ha ragione di restare impunita perchè produce una disparità di trattamento, in
negativo, rispetto alla posizione del privato cittadino destinatario delle medesime contumelie.
In merito, però, da un lato si è osservato che l’esempio proposto in realtà non è calzante al caso di
specie, perché nello scenario prefigurato non viene attribuito al pubblico ufficiale un fatto che rileva
ai fini del riconoscimento dell’esimente, ma piuttosto viene invocato un fatto altrui, cioè il
comportamento tenuto dalla moglie infedele, per farne oggetto di scherno e derisione. L’affermare
che il pubblico ufficiale è incapace ad assolvere le sue funzioni rende configurabile, qualora
ricorrano tutti i requisiti richiesti dalla fattispecie, l’oltraggio, ma non l’aggravante, né, tantomeno,
l’esimente, in quanto il fatto è attribuito alla moglie e non al vigile e non ha alcun senso procedere
all’accertamento della sua veridicità694.
funzioni, ma ricadente nella sua sfera privata, senza, pertanto, attingerne il prestigio, ma solo l’onore. Ad es. se l’offensore apostrofa il p.u. asserendo che quest’ultimo ha approvato il giorno prima una legge dal forte contenuto etico ma che è comunque un mascalzone perché, pur essendo stato accolto nella sua famiglia come un figlio non ha neanche mandato un telegramma alla morte del padre, si può rinvenire l’offesa all’onore circostanziata con l’attribuzione di un fatto determinato e rivolta a causa del voto espresso in Parlamento (e, pertanto, a causa delle pubbliche funzioni legislative esercitate). Se, però, si ipotizzasse la possibilità di configurare l’oltraggio si dovrebbe anche ammettere la prova liberatoria e, quindi, provata la circostanza, l’offeso verrebbe a trovarsi in una posizione deteriore perché meno tutelata rispetto al privato cittadino. Ma nell’esempio proposto si versa in un caso d’ingiuria perché non è possibile ravvisare una lesione congiunta dell’onore e del decoro. 693 Gatta G.L., cit., p. 174, il quale sottolinea che l’irragionevolezza della disciplina si deduce anche dalla circostanza che nell’esempio sopra riportato non potrebbe trovare neanche applicazione l’art. 595, 4 comma, c.p. perchè la previsione del secondo comma, seconda parte, dell’art. 341 bis c.p., non ne riproduce il disposto. Nel caso prospettato, invece, se anche risulta provata l’infedeltà della moglie del vigile urbano, il modo in cui quel fatto determinato è stato attribuito al p.u. (dandogli del cornuto e dell’incapace a sovraintendere a controlli di pubblica sicurezza) è di per sé oltraggioso e, pertanto, rilevante ex art. 341 bis c.p. 694 In merito Scandone G., cit., p. 479 precisa che il p.u. potrà comunque chiedere (costituendosi parte civile o agendo in separato giudizio) il risarcimento del danno recato al proprio prestigio (l’inidoneità ad assolvere alle pubbliche funzioni demandatagli) ed anche al proprio onore, a causa del pretestuoso inserimento, nella menzionata censura mossagli di incapacità, della sua condizione di coniuge tradito.
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Dall’altro non qualsiasi fatto della vita privata del pubblico ufficiale può divenire oggetto di prova
liberatoria695. Si ritiene, infatti, che l’attribuzione di fatti soltanto attinenti alla vita privata del
soggetto passivo, che non si riflettono in alcun modo sulla dignità della carica ricoperta e sulle
funzioni svolte, non integri neppure la condotta tipica del reato. Un’interpretazione diversa non
consentirebbe del resto di ricondurre (come sarebbe opportuno) la non punibilità dell’offesa alla
causa di giustificazione del diritto di critica e di censura dell’operato del p.u., la cui operatività deve
certamente ammettersi anche per la nuova figura e alla quale, peraltro, viene di solito ricondotta
anche l’ipotesi di exceptio veritatis di cui al n. 1 del comma 3 dell’art. 596 c.p.696
Inoltre l’aggravante del fatto determinato consente l’applicazione della causa di non punibilità solo
nel caso in essa si esaurisca l’intero contenuto dell’offesa (la norma, infatti, richiede che l’offesa
“consista” nella attribuzione di un fatto determinato). Nel caso in cui, per contro, l’offesa abbia più
ampio contenuto ed oltre all’addebito determinato, non importa se attinente o estraneo all’esercizio
delle funzioni, comprenda anche una generica ed ulteriore offesa del prestigio, verrebbe a mancare
il presupposto per la applicazione della causa di non punibilità.
Per altra opinione, invece, la questione sopra riportata non ha motivo di esistere perché la rilevanza
della verità dei soli fatti relativi all’esercizio delle funzioni discende dalla lettera del comma 1
dell’art. 341 bis c.p., il cui dettato (necessità che il fatto avvenga in “luogo pubblico” e “mentre il
p.u. compie atti del suo ufficio” e per “causa e nell’esercizio delle sue funzioni”) svolge la funzione
di filtro selettivo anche per i fatti suscettibili di rientrare nell’area dell’esimente. Tale filtro postula
per implicito che il fatto vero attribuito si riferisca all’esercizio della funzione697. Tale fatto poi (341
bis comma 2 secondo alinea) è lo stesso “fatto determinato” menzionato dall’aggravante (art. 341
bis comma 2 primo alinea). Diversamente, ove si consideri il fatto in questione come riferito a
quello generico dell’oltraggio si avrebbe, nella maggioranza delle ipotesi, un termine in sé non
predicabile di verità o falsità698. Pertanto secondo quest’altro orientamento la seconda condizione
ammissiva richiesta dal 596 n. 1 deve considerarsi richiamata dall’art. 341 bis comma 2 secondo
periodo, poichè il fatto tipico di oltraggio esige che l’addebito mosso al p.u. trovi causa o si collochi
cronologicamente nell’esercizio delle funzioni pubbliche699. Nel 596 c.p., inoltre, poichè l’addebito
deve riferirsi alle funzioni, la formula è più ampia di quella del 341 bis comprendendo non solo le
offese che trovano causa nell’espletamento dei doveri d’ufficio o si collocano temporalmente
695 Santoro V., cit., secondo il quale tale anomalia, pertanto, è destinata a sfilacciarsi, in quanto per la sussistenza della condotta tipica si richiede anche l’offesa del distinto bene del prestigio e sarà, quindi , molto rara l’eventualità di un fatto determinato che: a) leda il solo bene dell’onore; b) non abbia attinenza con l’esercizio delle funzioni; c) ed esaurisca l’intera condotta offensiva. 696 Pasella, cit. , p. 4. 697 In questo senso anche Aprile E., cit., p. 594. 698 Martiello G., cit., p.185 699 Martiello G., cit., p. 13.
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nell’esercizio degli stessi, ma anche quelle che più genericamente attengano alla funzione svolta dal
p.u., anche se soltanto occasionalmente collegate a questa700. L’effetto selettivo prodotto a monte
dal fatto tipico riduce indirettamente il campo applicativo della prova liberatoria nei confronti di
quei fatti di oltraggio in precedenza rilevanti quali ipotesi di ingiuria aggravata701.
Rispetto alla disciplina contenuta dall’art. 596, comma 4, c.p., inoltre, è possibile ravvisare un’altra
differenza da cui deriverebbe un’ulteriore irragionevole esenzione di pena anche tra il 341 bis e il
596, comma 4, c.p. Il legislatore, infatti, non ha fatto salva l’ipotesi702 in cui la punibilità resta
ferma in ragione delle modalità di per sé oltraggiose con le quali l’offesa è stata realizzata perché
non ha previsto l’applicazione dell’art. 596, 4° comma, c.p., secondo il quale “i modi usati non
rendono per se stessi applicabili le disposizioni dell’art. 594, 1° comma ovvero 595, 1° comma,
c.p.”. Il fatto rimane scriminato anche qualora i modi usati risultino di per sé offensivi, ovvero
anche qualora siano superati i limiti della continenza. Giova, però, segnalare che secondo un
orientamento dottrinario l’omessa riproduzione del disposto di cui al 4 comma dell’art. 596 c.p. non
implica una diversità di regime perché la riserva contenuta nella predetta disposizione si limita a
dichiarare espressamente ciò che si sarebbe potuto ricavare agevolmente in via interpretativa703. Si
afferma, infatti, che quando all’attribuzione di un fatto determinato si accompagna l’uso di
espressioni di per se stesse oltraggiose è evidente che l’offesa non dipende più solamente dal fatto,
ma si estende ai modi utilizzati, che da soli sono capaci ad integrare la fattispecie incriminatrice. E
poiché per questi non è possibile la prova di alcuna verità, nemmeno la riconoscimento della non
punibilità può ricomprenderli.
La disciplina, pertanto, è stata giudicata complessivamente peggiorativa704 perché predispone una
tutela dell’onore e del prestigio dei p.u deteriore rispetto a quella di cui poteva usufruire il pubblico
ufficiale in passato: prima della legge n. 94 del 2009 le offese ai predetti beni, infatti, erano punite
come ingiurie aggravate dall’attribuzione di un fatto determinato - nonché dall’art. 61 n. 10 c.p. -
con conseguente applicabilità della disciplina più stringente dell’exceptio veritatis prevista dall’art.
596 c.p. Tale esito, pertanto, è stato fortemente criticato perchè ritenuto paradossale soprattutto in
considerazione delle ragioni di politica criminale che hanno condotto alla reintroduzione del delitto
700 Martiello G., cit., p. 13. 701 Martiello G., cit., p. 13. 702 Flora G., cit., p. 1453 osserva che tale mancata previsione è irragionevole e “convince una volta di più che sarebbe forse preferibile eliminare previsioni tipicizzate di esercizio del diritto di critica (o di cronaca) e lasciare operare la scriminante comune dell'art. 51 c.p. in connessione con l'art. 21 Cost.” 703 Padovani T., cit., p. 32 704 Gatta G.L., cit., p. 175.
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di oltraggio, tutte in favore dei pubblici ufficiali quali tutori della sicurezza pubblica, e che hanno
informato la disciplina dell’art. 341 bis c.p.705
Infine indubbiamente la prova della verità del fatto deve essere accertata dal giudice competente a
decidere sul contestato delitto di oltraggio, posto che, secondo quanto disposto dall’art. 2, 1 comma,
c.p.p. il “giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia
diversamente stabilito”. In merito si è osservato che la c.d. clausola di salvezza, per come poi si
estrinseca concretamente, non sembra che possa trovare frequente applicazione706.
LA SOPRAVVENUTA CONDANNA DEL P.U. PER IL FATTO, AVVENUTA DOPO LA SUA ATTRIBUZIONE AL P.U.
La seconda causa di non punibilità si verifica se per l’addebito determinato “l’ufficiale a cui il fatto
è attributo è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è
punibile”707. In materia si pongono gli stessi problemi di coordinamento evidenziati in riferimento
all’art. 596, 4 comma, c.p. ed il c.p.p. del 1988, stante l’avvenuta rimozione delle forme previgenti
di pregiudizialità tra procedimenti penale708. Il giudice dovrà, pertanto decidere, sulla base del
proprio libero convincimento ed in via incidentale, sulla verità del fatto offensivo attribuito al
pubblico ufficiale, con la possibilità che l’accertamento del reato ascritto al medesimo possa
concludersi in modo difforme all’esito del relativo procedimento penale specifico. Rimangono i
temperamenti di cui all’art. 630 c.p.p.
Secondo parte della dottrina il dato testuale confermerebbe che la norma non concerne solo l’ipotesi
in cui al pubblico ufficiale è attribuita una condotta costituente reato (per esempio di avere preso
soldi per il compimento di atti conformi o contrari ai doveri di ufficio) e che per essa questi sia stato
successivamente condannato, ma anche quella in cui si è avuta una condanna a seguito di un illecito
civile709. La disposizione, infatti, si limita a ipotizzare un’offesa consistente nell’attribuzione di un
fatto determinato e a statuire la non punibilità nel caso il pubblico ufficiale venga per essa
successivamente “condannato”.
705 Gatta G.L., cit., p. 174, il quale ipotizza che l’esito sopraesposto sia dovuto “alla maldestra mano del legislatore”; Madeo A., cit. p. 237, secondo il quale tale “svista” del Legislatore assume “le sembianze di una beffa se solo si pensa alla ratio … della reintroduzione del delitto di oltraggio”. 706 Scandone G., cit., p. 479. 707 Padovani T., cit., p. 32 e Santoro V., cit. i quali evidenzia noil lapsus del pubblico ufficiale diventato “l’ufficiale”. 708 Scandone G., cit., p. 479 709 Santoro V., cit. E’ chiaro che l’insidia esegetica sta proprio in quest’ultimo inciso, che potrebbe essere inteso nel senso che la prova liberatoria non opererebbe nei casi in cui taluno offenda il prestigio e l’onore del pubblico ufficiale rievocando, nel contesto pubblico e alla presenza di più persone, l’illecito penale da lui commesso in passato e la condanna che ne abbia già riportato.
161
L’ambito di applicazione dell’esimente è più ridotto rispetto al 596710. L’art. 596, 3 comma n. 2 e 4
comma, infatti, subordina l’effetto liberatorio alla condizione che il procedimento risulti già aperto
o in procinto di iniziare al momento in cui l’exceptio veritatis viene sollevata711. Ciò sottointende
che il giudice accerti la sussistenza di tale requisito, non a caso di natura estrinseca, allorquando
l’ammissione della futura prova del vero viene discussa712. L’art. 341 bis c.p., invece, individua gli
effetti della verità dell’addebito accertata nell’altro procedimento liberalizzandone l’ingresso nel
giudizio di oltraggio. L’art. 341 bis c.p. si limita a specificare come la successiva condanna del p.u.
per il medesimo fatto renda non punibile il reo. Nulla è detto e, quindi, richiesto, circa
l’ammissibilità di tale circostanza nel giudizio di oltraggio. Ne consegue che il ricorso alla prova del
vero risulta meno formalizzato e più agevole poiché svincolato dalla stessa esistenza, anche allo
stato larvale, di altro procedimento penale per lo stesso fatto713. L’exceptio veritatis dovrebbe perciò
consentirsi anche nel caso in cui sussistano solo gli astratti presupposti per iniziare un diverso
procedimento penale ovvero laddove il gip abbia disposto l’archiviazione non potendosi escludere
la successiva riapertura del procedimento: ciò che conta è il momento finale della vicenda
processuale dell’offeso, essendo soltanto richiesto che l’imputato di oltraggio disponga in tempo
utile della sentenza di condanna del p.u.714
Pertanto, quanto al contesto in cui deve realizzarsi la prova del fatto determinato, è la stessa norma
a contemplare espressamente l’ipotesi che al pubblico ufficiale sia stato attribuito un reato e che il
successivo e distinto processo penale ne abbia accertato la fondatezza e si sia concluso con una
sentenza di condanna.
Giova, infine, segnalare che secondo alcuni autori ad una prima lettura sembrerebbe plausibile
l’idea che la causa di non punibilità ricorra anche nell’ipotesi in cui il pubblico ufficiale sia già stato
condannato per il fatto determinato e l’addebito lesivo consista proprio nel rinvangare tale
circostanza, con modalità obiettivamente idonee a screditarne onore e prestigio. Sarebbe, infatti, del
tutto agevole prendere atto della “verità” dell’addebito lesivo e determinato e quindi applicare la
causa di non punibilità. In questa prospettiva potrebbe sostenersi che il riferimento normativo alla
condanna “dopo l’attribuzione del fatto” non sta a significare che i fatti per i quali sia già
intervenuta la condanna siano fuori dal raggio di azione della causa di non punibilità. Molto più
710 Flora G., cit., p. 1453 il quale rileva che “la limitazione, in sé, non è del tutto ingiustificata, ma sfugge la ragione della disparità di trattamento di ipotesi in tutto simili”. 711 Martiello G., cit., p. 13. 712 Martiello G., cit., p. 13. 713 Martiello G., cit., p. 14. 714 Martiello G., cit., p. 14. Non si dovrebbe quindi poter qui incorrere nell’equivoco – non infrequente nella giurisprudenza sorta attorno all’art. 596, comma 3, n. 2 c.p. –di ritenere provata la verità del fatto a fronte della sola pendenza del procedimento penale a carico dell’offeso, poi chiusosi con sentenza di non doversi procedere per amnistia e prescrizione; sul punto, per la corretta soluzione, Cass. Pen. sez. V, 30 giugno 1999, Denaro, in Cass. Pen., 2000, 3006, che ha riformato la sentenza dei giudici di merito che di tale fraintendimento erano rimasti vittima.
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semplicemente, tale inciso avrebbe il senso di dire che i fatti pregressi sono già “provati” e rispetto
ad essi non resta che prendere atto della loro verità, con la conseguente, ed automatica, applicazione
della causa di non punibilità.
In merito alla sopra esposta ricostruzione, però, sono state avanzate delle perplessità. In primo
luogo si è rilevato che ai sensi del primo comma dell’articolo 596 c.p. l’autore di fatti offensivi
dell’onore e della reputazione in generale “non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la
notorietà del fatto attribuito alla persona offesa”. Ed è evidente come tale principio svolga un ruolo
significativo nell’ambito della ricostruzione sistematica di una norma che, a conti fatti e nella più
ampia conformazione, punisce le offese all’onore ed alla reputazione.
In secondo luogo è stato evidenziato che la norma in esame non identifica la prova liberatoria nella
“verità” del fatto, come sarebbe stato nel caso avesse detto che l’offesa non è punibile ove consista
nella attribuzione di un fatto vero, con le intuibili conseguenza sia sul piano delle tipicità della
condotta che su quello della deroga al principio espresso nel comma 1 dell’articolo 596 c.p.. La
norma fa dipendere la non punibilità dalla circostanza che la verità del fatto sia provata. Sebbene
potrebbe sembrare un innocuo accorgimento lessicale, soprattutto se si considera che è pur sempre
provata la verità dei fatti che siano già stati accertati come veri in passato e nelle sedi competenti,
l’inciso potrebbe anche avere un diverso significato ed essere inteso nel senso di imporre che la
verità del fatto, mai accertata prima, venga provata nel corso del processo o successivamente ad
esso. E quindi escludere i fatti rispetto ai quali la verità sia stata già accertata e per essi l’autore
abbia già ricevuto la sua punizione715. Sostenere che l’avvenuta condanna possa essere
impunemente riesumata in ogni circostanza e che la sua verità faccia da scudo ad ogni
responsabilità penale716 appare irragionevole, con l’ulteriore aggravante di farlo in un contesto che,
diversamente da quanto previsto dall’articolo 596, ultimo comma, c.p., non contempla - almeno
espressamente - alcuna forma residuale di responsabilità per l’ipotesi che l’addebito offensivo,
ancorchè vero, sia stato formulato in modi che di per sé configurino i reati di diffamazione o di
ingiuria.
715 Non ci vuole molta fantasia per immaginare verità dolorose e sgradevoli, che abbiano macchiato l’onore di una persona e per le quali la persona abbia già pagato il suo debito con la società. 716 Sostenere che l’avvenuta condanna possa essere impunemente riesumata in ogni circostanza e che la sua verità faccia da scudo ad ogni responsabilità penale significa affermare il diritto ad infliggere gratuite sofferenze e coinvolgere nella sofferenza l’intera cerchia familiare ed affettiva della persona presa di mira.
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L’INTEGRALE RISARCIMENTO DEL DANNO NEI CONFRONTI SIA DEL P.U. SIA DELL’ENTE DI APPARTENENZA
Un’altra importante novità717 della nuova disciplina del delitto di oltraggio è inserita nell’ultimo
comma dell’art. 341 bis c.p.718 in base al quale “ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato
interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa che nei
confronti dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto”.
Il legislatore ha introdotto, pertanto, un’ipotesi di definizione alternativa del procedimento penale e
che persegue esigenze di deflazione processuale719 e di conciliazione, considerata la ricorrenza
statistica del reato de quo, evidenziata anche dal parere del CSM720, e che si giustifica,
essenzialmente, con l’intento pratico di creare “una via di fuga”721 alla severa pena comminata e di
rendere costituzionalmente accettabile il divario sanzionatorio tra oltraggio ed ingiuria, sanzionabile
con le sole pene irrogabili al Giudice di Pace722.
La norma, così come formulata, conferma la natura plurioffensiva dell’oltraggio e comprova,
mediante la previsione di due distinti obblighi risarcitori, il fatto che il nuovo reato di oltraggio
preveda la lesione lede l’onore individuale ed il prestigio della pubblica amministrazione.
Indubbiamente il predetto comma costituisce il punto più problematico723 della nuova norma perché
introduce una novità di tale rilievo da aver indotto lo stesso Capo dello Stato ad esprimersi al
riguardo con la lettera indirizzata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Ministri della
Giustizia e dell’Interno724. Il Presidente della Repubblica ha espresso le sue perplessità in merito
alla disposizione che definisce “singolare”, motivando l’aggettivazione con l’osservazione che “la
causa di estinzione è concettualmente incompatibile con i delitti che, come l’oltraggio, rientrano
717 In merito Flora G., Il redivivo, p. 1450 definisce la previsione “alquanto sorprendente”. 718 Si tratta di una disposizione inserita con un emendamento presentato alla Camera e discussa dalle Commissioni I e II in seduta congiunta. 719 Gatta G.L., cit. p. 177. 720 Martiello G., cit., p. 18. 721 Gatta G.L., cit. p. 177. 722 Martiello G., cit., p. 19, secondo il quale si tratterebbe di “una sorta di “calmiere costituzionale” che il Legislatore della novella potrebbe aver introdotto nel tentativo di arginare in anticipo la prevedibilità di censure che, alla luce dell’art. 3 Cost., tale vistosa sperequazione sanzionatoria suggerisce”. 723 Diverse sono le critiche avanzate: Martiello G., cit., p. 18 ha osservato che la disposizione de qua non solo potrebbe violare il principio di uguaglianza/ragionevolezza, in quanto analoga clausola non è prevista per l’ingiuria, ma anche che espone al rischio che il p.u., sfruttando la credibilità privilegiata di cui gode nel processo, strumentalizzi maliziosamente la denuncia di oltraggio a fini di lucro. Madeo A., cit., p.239, invece, evidenzia il problema concernente la compatibilità della “riparazione” con una fattispecie di mera condotta, istantanea alla luce della giurisprudenza che escludeva la compatibilità del ravvedimento operoso ex art. 62 n. 6 c.p. con la fattispecie di cui all’art. 341 c.p.; Padovani T., cit., p. 33, secondo il quale risulta precaria la logica “esterna” del meccanismo estintivo introdotto dall’art. 341 bis c.p. e la norma non resiste a nessun vaglio, né di ragionevolezza, né di coerenza e congruità sistematica. 724 La lettera del Presidente della Repubblica è consultabile sul sito www.quirinale.it ed in appendice al Il sistema di sicurezza pubblica, a cura di F. Ramacci, G. Spangher, Varese, Giuffrè, 2010, p. 530)
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tra quelli contro la pubblica amministrazione”725. La predetta incompatibilità discende, infatti, dal
bene giuridico tutelato da quest’ultimi. Il comma in esame, infatti, costituisce un’implicita
affermazione della quantificabilità patrimoniale del valore del prestigio e del buon andamento della
Pubblica amministrazione, beni che, invece, non presentano alcuna nota di patrimonialità e il cui
danno non assume le caratteristiche di certezza, liquidità ed esigibilità essenziali per far scattare
l’automatismo previsto dal quarto comma dell’art. 341 bis c.p.726 e che caratterizzano i reati
ricompresi nell’art. 4 del D.lgs. n. 274/2000.
Sul piano della teoria generale la previsione, com’era prevedibile, ha alimentato il noto dibattito sul
possibile ruolo del risarcimento del danno nel sistema penale727. Nel nostro ordinamento, come in
altri, da decenni, infatti, si discute se il risarcimento possa o meno costituire un’alternativa alla
pena, o un’autonoma sanzione penale intesa come “terzo binario” accanto alle pene e alle misure di
sicurezza. Ovviamente la prima posizione sopra riportata si colloca in una prospettiva di abolizione
o comunque di arretramento del diritto penale728.
725 In merito Scuto S., cit., p. 10, afferma che si tratta di un giudizio lapidario, del tutto condivisibile e destinato a far sorgere seri dubbi di costituzionalità della norma medesima. L’autore, inoltre, ricorda quanto statuito dalla Corte Costituzionale quando quando alla sua attenzione venne posta la questione di costituzionalità delle norme che nei provvedimenti legislativi di ordine generale recanti l’applicazione dell’indulto negli anni 1966 e 19970 condizionavano, in relazione ai reati fiscali e finanziari, l’applicazione dell’indulto al pagamento dei diritti o tributi evasi. La Corte con la sentenza 154/1974 (che richiamava ampli stralci della motivazione della sentenza 5/ 1964) ha osservato che per i reati finanziari - di regola esclusi dai benefici di amnistia e indulto - la concessione di detti benefici è normalmente subordinata alla condizione del pagamento dei tributi “evasi”.Ciò in quanto per tali reati il Legislatore considera costantemente prevalente sull’interesse generale all’esercizio della straordinaria clemenza, l’interesse della pubblica finanza alla soddisfazione della pretesa tributaria attraverso l’immediata riscossione. La Corte in quella sede ritenne di non ravvisare alcuna violazione del principio di uguaglianza ritenendo legittimo, per i reati consistenti nell’essersi l’imputato sottratto all’obbligo del pagamento de tributo – obbligo che sorge prima dell’accertamento tributario e che perdura anche prima che questo sia irrevocabilmente certo – che il beneficio straordinario della clemenza fosse condizionato per tutti coloro sui quali indistintamente gravava l’obbligo del pagamento, dalla sua osservanza. L’ipotesi in narrativa sembra sottolineare con chiara evidenza la preoccupazione del Presidente della Repubblica circa la possibilità di far operare una causa di estinzione del reato ancorando ad una prestazione di tipo risarcitorio, quindi patrimoniale nell’ambito del danno che deriva dalla lesione dei beni tutelati contro la pubblica amministrazione: Il che potrebbe condurre la singolarità dell’istituto verso la sua incostituzionalità sotto il profilo della irragionevolezza ed in contrasto con il principio di eguaglianza. 726 Scuto S., cit., p. 10 il quale, inoltre, osserva che quello previsto dall’art. 35 D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 è un istituto introdotto dal Legislatore con chiare finalità deflattive e con l’intento di rendere più celere la definizione de procedimenti penali davanti al Giudice di Pace. Esso, pertanto, intimamente connesso con le caratteristiche proprie di quel procedimento e attiene al catalogo dei reati assegnati alla competenza del Giudice di Pace ex art. 4 del D.lgs. n. 274/2000 nel quale non rientrano, invece, i reati contro la Pubblica amministrazione. Le ipotesi di reato contemplate nel predetto elenco tutelano beni giuridici la cui lesione genera ipotesi di danno, le quali caratteristiche di certezza, liquidità ed esigibilità consentono al Giudice la valutazione necessaria, anche attraverso l’esame diretto della persona offesa, ai fini di pronunciare la sentenza con la quale estingue il reato. 727 Scandone G., cit., p. 488. 728 Per un quadro del dibattito evocato si vedano ad es., nell’ampia letteratura, Fiandanca G. – Musco E., cit., p. 823 s.; Flora G., Risarcimento del danno e conciliazione: presupposti e fini di una composizione non punitiva dei conflitti, in Picotti L. – Spangher G. (a cura di), Verso una giustizia penale “conciliativa”, Giuffré, 2002, p. 149; Fondaroli D. Illecito penale e riparazione del danno, Giuffré, 1999; Giunta F., Oltre la logica della punizione: linee evolutive e ruolo del diritto penale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, Giuffré, 2006, p. 343 s.; Hirsch H. J., il risarcimento del danno nell’ambito del diritto penale sostanziale, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, I, Giuffré, 1991, p. 277 s.; Luderssen K., Il declino del diritto penale, Giuffré, 2005, p. 31 s.; Romano M., Risarcimento del danno da reato. Diritto civile, diritto penale, in Riv. It. dir. e proc. pen., 1993, p. 865 s.; Id., in Romano M – Grasso G. – Padovani T.,
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Anche ammettendo che il risarcimento del danno possa essere prevista come misura latu sensu
alternativa alla pena criminale, anche ricorrendo a meccanismi estintivi, è stato rilevato che
comunque la sua utilizzazione in questa chiave non può essere né estemporanea, né occasionale, né
incongruente729. I reati attribuiti alla competenza del Giudice di pace costituiscono un esempio di
ricorso razionale allo strumento risarcitorio per escludere l’applicazione di una pena, non soltanto
perché si tratta di reati espressivi di una conflittualità privata minuta e bagattellare730, ma anche
perché l riconoscimento dell’effetto estintivo della condotta riparatoria implica un complesso
articolato di condizioni e valutazioni. Tutto ciò, invece, non si può riferire alla disposizione
introdotta dalla fattispecie di oltraggio, che è espressione di un conflitto tra individuo ed autorità,
pur se intesa in senso funzionale: il reato de quo non è bagattellare ed è affidato ad una
giurisdizione repressiva di fronte alla quale l’applicazione della pena è l’esito ordinario di un
giudizio di colpevolezza, salvo il ricorso, di speciali cause di non punibilità o di estinzione del
reato731.
La disposizione de qua, pertanto, monetizzerebbe732 la tutela del prestigio della pubblica
amministrazione bagatellizzando la fattispecie e palesando una notevole incoerenza rispetto alla
politica di contrasto alla criminalità criminale che ha ispirato la legge 94/2009733.
Infatti alla luce alle riflessioni maturate nell’ambito del dibattito, avente ad oggetto le disposizioni
che in altri ordinamenti stabiliscono che il risarcimento del danno alla vittima opera come causa di
esclusione della punibilità del reato, è stato osservato che l’art. 341 bis, 3 comma, c.p., è viziato da
un’intrinseca contraddizione734. Si è, infatti, rilevato che la previsione, da parte del legislatore, di
una pena così grave è indubbiamente indicativa di un giudizio di forte disvalore del fatto
incriminato, tale da reclamare non la mera pena pecuniaria che può essere inflitta per l’ingiuria
Commentario sistematico del codice penale, vol III, , Giuffré, 1994, pre artt. 185, p. 275 s.; Roxin C., Risarcimento del danno ai fini della pena, in Riv. It. dir. e proc. pen., 1987, p. 3 s.; ID., Strafrecht, Allgemeiner Teil, I, IV ed., Munchen, 2006, p. 100 s.. 729 Padovani T., cit., p. 34. 730 Nella giurisdizione di pace la sanzione criminale rappresenta una extrema ratio a cui si giunge solo dopo aver verificato l’impraticabilità di soluzioni alternative. 731 Padovani T., cit., p. 34. 732 Padovani T., cit., p. 34 secondo il quale la causa estintiva in analisi si basa sulla monetizzazione dell’interesse offeso, che il risarcimento non è ovviamente in grado di riportare, neppure simbolicamente, alla situazione preesistente. L’autore, inoltre, presupponendo che l’attribuzione al risarcimento del danno di un’efficacia estintiva nel delitto di oltraggio a p.u. possa ritenersi “congrua” rispetto alla natura dell’interesse, s’interroga sulla mancata estensione del medesimo meccanismo alle fattispecie di cui agli artt. 342, 343, 594, 595 e per il reato di vilipendio. Appare, pertanto paradossale che sia riconosciuta la possibilità di estinguere la propria responsabilità con un congruo pagamento nel caso più grave e sia viceversa negata in quelli meno gravi. Inoltre anche se si obietta che ingiuria e diffamazione, essendo perseguibili a querela, consentono la sua rimessione e, dunque, in presenza di un risarcimento satisfattivo, il p.u. potrà quindi determinare l’estinzione del reato, non è detto che il risarcimento sia accettato. In tal caso il reo non potrebbe, come invece nell’oltraggio, attivare lo strumento dell’offerta reale equipollente all’avvenuto risarcimento. 733 Martiello G., cit., p. 18. 734 Gatta G.L., cit., p. 179. Nello stesso senso Flora G., Il redivivo, cit., p. 1454. Martiello G., cit., p. 18, invece, evidenzia un disinvolto accostamento tra l’ambito privatistico del risarcimento del danno e la natura pubblicistica dell’interesse penalmente tutelato.
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aggravata ex art. 61 n. 10, c.p., bensì la reclusione fino a tre anni – quattro nell’ipotesi aggravata –
che può precludere la sospensione condizionale (o, in ambito processuale, il patteggiamento “non
allargato”). Però la disposizione, che prevede il risarcimento del danno come causa sopravvenuta di
non punibilità, si muove in un senso esattamente opposto, perché consente al reo di addivenire ad
un esito “potenzialmente indolore”735, almeno sul versante delle conseguenze penali vere e proprie,
riconoscendogli la facoltà di sterilizzare ad libitum la minaccia legislativa di pena. Non è apparso,
pertanto, ragionevole, prevedere l’estinzione del reato attraverso il risarcimento del danno,
considerato anche che si addiviene allo stesso risultato cui, ai sensi dell’art. 35 D.lgs. 28 agosto
2000, n. 274, può andare incontro l’ingiuria aggravata ex art. 61 n. 10, c.p. nel cui ambito
applicativo, prima dell’introduzione dell’art. 341 bis c.p., ricadevano (in caso di presenza del p.u.) i
fatti ad esso ora riconducibili736.
Si è detto737, pertanto, che la scelta del Legislatore di prevedere una minaccia di una pena detentiva
grave, sterilizzabile mediante il ricorso ad una condotta risarcitoria, sembra in realtà espressiva di
un uso simbolico del diritto penale. Ciò, infatti, che emerge da una lettura sistematica dei diversi
commi dell’art. 341 bis c.p. è che la previsione di un’elevata sanzione è rivelatrice dell’intento del
legislatore di ri-affermare la dignità dell’oltraggio a p.u. come autonoma figura di reato, più grave
della mera ingiuria. Ciò si deduce soprattutto dalla circostanza che la convenienza dell’opzione di
risarcire il danno prima del giudizio, permettendo di evitare la pena detentiva, porterà molto
probabilmente ad un elevato numero di declaratorie di estinzione del reato, facendo rimanere
ineffettiva nella maggior parte dei casi la minaccia di pena738.
Inoltre è stato osservato che la sua concreta configurazione, contemplando l'efficacia estintiva
“secca” (dichiarabile quindi anche nella fase delle indagini preliminari) senza bisogno di una
valutazione né della spontaneità, né dell'intento “pacificativo” del responsabile del reato, né della
idoneità della riparazione (come fa il citato art. 35) a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato
e di prevenzione (speciale), non pare proprio inserirsi nel solco di una logica “surrogatoria” della
punizione739.
Un’ulteriore critica740 che è stata sollevata in riferimento alla previsione di poter ricorrere al
risarcimento del danno, concerne la possibile sperequazione che la disposizione in esame può
potenzialmente produrre tra soggetti abbienti, in grado di pagare interamente il danno sia al p.u. sia
735 Gatta G.L., cit., p. 179. 736 In merito cfr. Gatta G.L., cit., p. 180, il quale sottolinea che un discorso analogo, in caso di assenza del p.u., vale anche per la diffamazione ex art. 595 comma 1 e 2 c.p. 737 cfr. Gatta G.L., cit., p. 180. 738 cfr. Gatta G.L., cit., p. 180. 739 Flora G., Il redivivo, cit., p. 1454. 740 Scandone G., cit., p. 488.
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all’ente di appartenenza, e soggetti nullatenenti o che, comunque, non hanno disponibilità
sufficienti per provvedere al pagamento della somma risarcitoria. Questa considerazione è stata
oggetto anche di dibattito in sede di lavori parlamentari da parte di coloro i quali erano contrari
all’introduzione della disposizione di qua perché la ritenevano lesiva del principio di uguaglianza ex
art. 3 Cost.741
Si opina, inoltre, che l’obbligo di risarcire il danno all’ente di appartenenza esplicita una certa
spersonalizzazione del prestigio per radicare tale bene sul solo ente di appartenenza. Siffatta
ricostruzione trascura però l’indiscutibile dato oggettivo che il prestigio del soggetto qualificato
attiene all’esperienza di vita professionale dello stesso e non sarebbe ragionevole prendere in
considerazione tale aspetto esclusivamente per quantificare il risarcimento dovuto
all’amministrazione di appartenenza.
Un’altra perplessità che scaturisce dalla lettura dell’ultimo comma dell’art. 341 - bis c.p. deriva
dalla contraddizione che sorge dalla natura indisponibile del prestigio: da ciò discende che la
impunità venga acquisita grazie a trattative che si esauriscono nell’ambito del solo rapporto tra
autore dell’oltraggio ed il pubblico ufficiale offeso; inoltre, siffatta utilizzazione “ privatistica ” di
tutela determina una regressione istituzionale del bene giuridico, in quanto l’integrità della sua
violazione viene ripristinata per il tramite del risarcimento del danno. Il meccanismo, quindi,
individua un il c.d. ponte d’oro ponendo all’autore del fatto la facoltà scegliere la difesa effettiva o
il pagamento del danno.
In merito alla qualificazione giuridica è possibile individuare due orientamenti.
Secondo parte della dottrina si tratta di causa di estinzione del reato. Il risarcimento del danno opera
come causa estintiva nella sua oggettività, senza che possa valutarsi se esso sia il frutto di un
atteggiamento di effettiva resipiscenza e senza che possa apprezzarsi la sua adeguatezza alla gravità
741 Il riferimento è all’intervento del sen. D'Ambrosio (PD) nella seduta dell'Assemblea del Senato del 30 giugno 2009 (resoconto stenografico, p. 39, riportato da G.L. Gatta, La resurrezione dell'oltraggio a pubblico ufficiale, cit., 180 nota 60): “Immaginate ciò che succederà e che differenza ci sarà tra chi ha una certa disponibilità economica e chi non ce l'ha. Un soggetto con disponibilità economica si prenderà lo sfizio di definire in tutti i modi possibili e immaginabili i pubblici ufficiali in luogo pubblico, e di offenderli decisamente, considerato che se non si vorrà accettare il risarcimento integrale del danno basterà fare un'offerta pari a quella che la giurisprudenza avrà stabilito essere il prezzo dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale. Se è così, e non è diversamente, perché ci sarà gente che si divertirà ad oltraggiare il pubblico ufficiale, tanto poi basterà pagare quel prezzo che all'incirca si saprà (dopo che saranno intervenute varie sentenze si conoscerà il prezzo dell'onore e del prestigio del pubblico ufficiale), si creerà una situazione di disparità assoluta, che contrasta con l'art. 3 della nostra Costituzione [...]. Pertanto, se un soggetto è ricco potrà tranquillamente commettere tale reato e togliersi addirittura lo sfizio di farlo positivamente; chi invece è povero e disgraziato dovrà subire le conseguenze di un reato punito fino a tre anni di reclusione”. Il riferimento è all’intervento del sen. D’Ambrosio (PD) nella seduta dell’Assemblea del Senato del 30 giugno 2009 (resoconto stenografico, p. 39). V. anche, ma solo con un accenno, l’intervento dell’on. David Fava (IdV) nella seduta della Camera del 30 aprile 2009(resoconto stenografico, p. 33).
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del fatto. Vengono prese in considerazione solo le conseguenze civilistiche del comportamento e
non le modalità di realizzazione dello stesso né tantomeno l’intensità del dolo che lo sorregge742.
A differenza dell’art. 35, che per l’operatività della causa estintiva richiede una valutazione da parte
del giudice da effettuarsi in apposita udienza di comparizione delle parti circa l’idoneità dell’attività
risarcitoria svolta a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione, nell’art.
341 bis c.p. l’effetto estintivo opera automaticamente, senza necessità per il giudice di sentire le
parti. Trattandosi di causa di estinzione potrà essere dichiarata in ogni stato e grado del processo ex
art. 129, c 2, c.p.p., anche senza che il reato sia stato giudizialmente accertato (indagini preliminari,
richiesta d’archiviazione ex 411 c.p.p.).
Se si qualifica la disposizione come causa di estinzione del reato, perchè interviene dopo
l’integrazione dell’illecito penale anche se deve compiutamente realizzarsi “prima del giudizio” si
impongono, però, alcune precisazioni. La norma non individua il momento preciso a partire dal
quale può essere accertata la estinzione del reato e di conseguenza non sembrerebbe escludere la
eventualità che essa venga a maturare nell’ambito delle indagini preliminari.
Siffatta eventualità, però, non è indenne da notevoli implicazioni. La fase processuale in cui
maturano le cause di estinzione del reato è di fondamentale importanza quanto all’ambito entro cui
possono spaziare i poteri del giudice di chiudere il procedimento con un provvedimento più
favorevole all’imputato. Nel contesto del processo vero e proprio (cioè dopo l’esercizio dell’azione
penale), la causa di estinzione presuppone pur sempre un sommario accertamento in ordine
all’esistenza del reato ed essa va esclusa, a beneficio di più favorevoli epiloghi, nel caso in cui si
prenda atto che manca, all’evidenza, un elemento essenziale dell’illecito contestato (per esempio, la
pluralità delle persone o la pubblicità del luogo). Il principio è chiaramente statuito nel comma 2
dell’articolo 129 c.p.p, che opera, però, solo all’interno del processo e non trova applicazione in
caso di richiesta di archiviazione presentata ai sensi dell’articolo 411 c.p.p. (cioè prima
dell’esercizio dell’azione penale).
Se invece la causa di estinzione del reato si verifica nel corso delle indagini ed il PM chiedesse il
pertinente decreto di archiviazione (nel nostro caso per l’avvenuto, pieno ed integrale risarcimento
del danno), il giudice non potrebbe in nessun modo verificare e constatare la eventuale infondatezza
della notizia criminis e sarebbe tenuto ad adottare un decreto di archiviazione per estinzione del
742 La norma ne descrive l’effetto nei termini di estinzione del reato di oltraggio ed il suo contenuto consiste in una iniziativa dell’autore del fatto di reato, il quale si attiva e risarcisce il danno causato sia al pubblico ufficiale che all’ente di appartenenza. Evidente come la struttura della fattispecie non incida in alcun modo sulla condotta tipica e come essa non faccia venire meno nessuno degli elementi costitutivi dell’illecito penale. Si è, quindi, in presenza di una tipica causa di estinzione del reato, che interviene dopo l’integrazione dell’illecito penale e che deve compiutamente realizzarsi “prima del giudizio”.
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reato, ai sensi dell’articolo 411 c.p.p.. Ciò premesso in linea generale, occorre chiedersi se
realmente la norma consenta di applicare la causa di estinzione del reato anche nel corso delle
indagini preliminari, con la conseguente impossibilità per il giudice di ravvisare la insussistenza
dell’illecito e adottare un provvedimento che ne dia congruamente atto.
La questione ha senso per il fatto che la norma non si limita a statuire che il risarcimento debba
avvenire “prima del giudizio”; ma stabilisce anche che detto risarcimento debba provenire
dall’imputato. La qualifica di imputato, come è noto, è imprescindibilmente legata all’esercizio
dell’azione penale e prima di tale momento si è in presenza dell’indagato o della persona sottoposta
all’indagine. Se inteso in senso tecnico, quindi, il riferimento all’imputato avrebbe il senso di
individuare nell’esercizio dell’azione penale il momento a partire dal quale prendere atto ed
applicare la causa di estinzione del reato, con la pacifica possibilità di prosciogliere l’imputato con
formula di merito in conformità a quanto prescritto dal comma 2 dell’articolo 129 del codice di rito
penale. Diversamente, ove la menzione dell’imputato venisse considerata un lapsus calami, non si
avrebbe alcun termine iniziale e la vicenda estintiva potrebbe essere accertata anche dal giudice
dell’archiviazione, con i limiti sopra indicati e senza possibilità di epiloghi più favorevoli.
Entrambe le soluzioni presentano vantaggi ed inconvenienti. La più rigorosa, pur lasciando aperta
la possibilità di escludere la sussistenza del reato, comporta l’obbligo di esercitare l’azione penale
in presenza di una causa di estinzione del reato (ove il risarcimento sia avvenuto prima e sia
congruo ed integrale); quella meno rigorosa, pur riducendo i tempi del processo e attuando la regola
fissata dal 411 c.p.p., esclude che l’autore del fatto possa ottenere un provvedimento che attesti la
eventuale infondatezza della notizia di reato. Va da sé, per concludere, che la tesi più rigorosa
(necessario esercizio dell’azione penale) verrebbe ad essere l’unica possibile ove si sostenesse che il
risarcimento del danno possa avvenire solo se le persone offese abbiano esercitato l’azione civile
nel processo penale. L’azione civile, infatti, può essere esercitata solo dopo l’esercizio dell’azione
penale e quindi in un contesto in cui la persona sottoposta alle indagini abbia già assunto la
qualifica di imputato. Ma non sembra che questa tesi abbia fondamento, posto che verrebbe a far
dipendere la estinzione del reato da una preliminare iniziativa delle persone offese. In linea generale
ciò sarebbe senz’altro plausibile. Ma la norma non contiene alcun concreto indizio che possa essere
utilizzato in tal senso743.
Secondo altra parte744, invece, l’ultimo comma dell’art. 341 bis c.p. prevederebbe un’inedita causa
sopravvenuta di non punibilità, in quanto premia con l’impunità colui il quale, pur avendo
commesso un fatto antigiuridico e colpevole, realizza successivamente una condotta tale da
743 Sul punto, Amato, op. cit., pag. 61, il quale evidenzia proprio la incongruità della previsione del risarcimento prescindendo dalla “costituzione” nel processo delle persone offese. 744 Gatta G.L., cit. p. 177; Martiello G., cit., p. 20.
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reintegrare ex post il bene offeso745. Secondo quest’orientamento, infatti, la causa di estinzione,
invece, si realizza in modo del tutto indipendente dal comportamento dell’agente o, comunque, non
si esauriscono in un comportamento dell’agente746.
A sostegno di tale impostazione si rileva che il risarcimento del danno come causa sopravvenuta di
non punibilità non costituisce una novità assoluta nel sistema penale. È stato introdotto per la prima
volta, quale istituto di carattere generale riferito ai reati attribuiti alla competenza del giudice di
pace, dall’art. 35 D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274747. Quest’ultimo, infatti, prevede al primo comma
che “il giudice di pace, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il
reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima
dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le
restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato”748.
Successivamente è stata introdotta una disposizione analoga in occasione della riforma dei reati
societari del 2002749.
Con l’art. 341 bis c.p. una causa di non punibilità analoga è prevista per la prima volta all’interno
del corpus del c.p. ma, a differenza dei reati di competenza del giudice di pace a cui si applica l’art.
745 In questo senso si rinvia a Marinucci G., Dolcini E., Manuale di diritto penale. Parte generale, II ed., Giuffrè, 2006, p. 316. 746 In questo senso si rinvia a Marinucci G., Dolcini E., cit., p. 318. causa sopravvenuta di non punibilità in senso stretto: ad essa può ricollegarsi il divieto di estensione agli eventuali concorrenti, quello di applicazione analogica, l’irrilevanza del putativo, ove immaginabile e l’idoneità del reato a fungere ugualmente da presupposto per la configurabilità di un eventuale reato accessorio 747 Art. 35. Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie 1. Il giudice di pace, sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l'imputato dimostra di aver proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato. 2. Il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al comma 1, solo se ritiene le attivita' risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. 3. Il giudice di pace puo' disporre la sospensione del processo, per un periodo non superiore a tre mesi, se l'imputato chiede nell'udienza di comparizione di poter provvedere agli adempimenti di cui al comma 1 e dimostri di non averlo potuto fare in precedenza; in tal caso, il giudice puo' imporre specifiche prescrizioni. 4. Con l'ordinanza di sospensione, il giudice incarica un ufficiale di polizia giudiziaria o un operatore di servizio sociale dell'ente locale di verificare l'effettivo svolgimento delle attivita' risarcitorie e riparatorie, fissando nuova udienza ad una data successiva al termine del periodo di sospensione. 5. Qualora accerti che le attività risarcitorie o riparatorie abbiano avuto esecuzione, il giudice, sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato enunciandone la causa nel dispositivo. 6. Quando non provvede ai sensi dei commi 1 e 5, il giudice dispone la prosecuzione del procedimento. 748 Per un’analisi della disposizione si rinvia a R. Bartoli, Estinzione del reato per condotte riparatorie, in Giostra G.-Illuminati G- (a cura di), Il giudice di pace nella giurisdizione penale, 2001, p. 377 e ss.; Corbetta S. , Sub art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in Giarda A.-Spangher G. (a cura di), Codice di procedura penale commentato, vol. III, III ed., Ipsoa, 2007, p. 6919 e ss.; Eusebi L., Strumenti di definizione anticipata del processo e sanzioni relative alla competenza penale del giudice di pace: il ruolo del principio conciliativo, in Picotti L.-Spangher G.,(a cura di), Competenza penale del giudice di pace e “nuove” pene non detentive, Giuffrè, 2003, p. 55 e ss.; Turchetti S., Sub art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, in Dolcini E.-Marinucci G. (a cura di), Codice penale commentato, II ed., Ipsoa, 2006, vol. II, p. 5583 e ss. 749 È stata introdotta una disposizione analoga, che, al pari di quella contenuta nell’art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, prevede che il risarcimento del danno nei confronti delle persone offese estingue il reato ma non contempla però una valutazione simile a quella imposta al giudice di pace, in occasione della riforma dei reati societari del 2002 in relazione a talune fattispecie contravvenzionali quali le operazioni in pregiudizio dei creditori di cui all’art. 2629 c.c. e l’indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori di cui all’art. 2633 c.c.
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35 D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274750, che sono puniti con pene pecuniarie o meramente limitative
della libertà personale (permanenza domiciliare e lavoro sostitutivo), in questa ipotesi il
risarcimento del danno produce l’estinzione di un reato punito con la pena detentiva (analogamente
a quanto stabilito per i sopracitati reati societari, entrambi puniti con l’arresto da sei mesi a tre
anni).
La disposizione, inoltre, ricalca anche quella contenuta nell’articolo 62 n. 6 c.p. Al fine di sciogliere
i dubbi interpretativi ed applicativi che sorgono dalla lettura della norma è possibile far riferimento
alla pregressa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale relative alle due disposizioni sopra citate.
In primo luogo è necessario chiarire che il risarcimento del danno, per sortire l’effetto estintivo,
deve avvenire “prima del giudizio”. La formula è identica a quella di cui all’articolo 62 n. 6 c.p. ed
è verosimile che si mutueranno gli approdi giurisprudenziali relativi a quest’ultima disposizione,
per i quali il termine preclusivo coincide con la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo
grado751. Il risarcimento, pertanto, potrà avvenire anche nella fase delle indagini preliminari e, in
questo caso, dovrà essere posta a sostegno della richiesta di archiviazione del procedimento ex art.
411 c.p.p.752 La norma non individua, però, il momento preciso a partire dal quale può essere
accertata la estinzione del reato: di conseguenza non sembrerebbe escludere la eventualità, non
esente da implicazioni, che essa venga a maturare nell’ambito delle indagini preliminari con la
750 Tra cui rientrano anche l’ingiuria e la diffamazione nei casi previsti dai primi due commi dell’art. 595 c.p. 751 cfr. da ultimo, con riferimento all’espressione “prima del giudizio” di cui all’art. 62 n. 6 c.p., Cass. penale, Sez. IV, 28 marzo 2008, n. 30802, Bovati e altro, in CED Cass., n. 241892, secondo la quale presupposto indefettibile per la concessione dell'attenuante del risarcimento del danno è che tale risarcimento avvenga "prima del giudizio", cioè in una fase antecedente alle formalità di apertura del dibattimento di primo grado Nel senso che la disposizione di cui all’art. 35 d.lgs. n. 274 del 2000 non è applicabile nel giudizio di appello v. Cass., Sez. V, 8 maggio 2007, n. 34852, Cusano, ivi,n. 237717, secondo la quale la speciale causa di estinzione del reato prevista dall'art. 35 D.Lgs n. 274 del 2000 è subordinata alla condizione che la riparazione del danno cagionato dal reato e l'eliminazione delle sue conseguenze dannose o pericolose sia intervenuta nel giudizio di primo grado e prima dell'udienza di comparizione e, pertanto, - considerata la finalità deflattiva dell'istituto, preordinato ad evitare la prosecuzione di un giudizio, divenuto inutile quando l'ordine sociale violato dal reato sia stato già ripristinato - non è applicabile nel giudizio di appello, in cui l'entità del danno da risarcire è già accertata ed il ripristino dell'ordine sociale violato non avviene spontaneamente ma su ordine del giudice.; Cassazione penale, sez. V, 22 settembre 2005, n. 40818, Mirabelli, in Cass. pen., 2007, 2, 672, la quale ha anche affermato che nel procedimento davanti al giudice di pace, il meccanismo di estinzione dell'illecito previsto dall'art. 35 d.lg. 28 agosto 2000, n. 274, può trovare applicazione soltanto quando l'imputato proceda a riparare il danno direttamente cagionato dal reato contestatogli attraverso il risarcimento o le restituzioni eseguiti prima della udienza di comparizione, limite questo che costituisce uno sbarramento superabile solo dal provvedimento con cui il giudice dispone la sospensione del processo per consentire all'imputato, che ne abbia fatto richiesta, di porre in essere le condotte riparatorie. La Corte individua la ratio per la quale le condotte riparatorie devono precedere l'udienza di comparizione: assicurare la spontaneità del comportamento dell'imputato. La sentenza evidenzia come la medesima ragione sia presente anche nel più tradizionale istituto della circostanza attenuante del risarcimento del danno di cui all'art. 62, n. 6, c.p., che deve avvenire, per avere efficacia, prima del giudizio, cioè in una fase antecedente alle formalità di apertura del dibattimento. Cassazione penale, sez. III, 21 marzo 1994, n. 897, Giglione, in Cass. pen. 1996, 1125 (s.m.) secondo la quale ai fini della sussistenza della circostanza attenuante della riparazione del danno, anche nel giudizio direttissimo è necessario che il risarcimento avvenga prima delle formalità di apertura del dibattimento e non con l'offerta di un assegno bancario, che, in quanto costituisce una "datio pro solvendo", è privo del carattere della effettività, essendo equiparabile piuttosto ad una promessa di ristoro. 752 cfr. Gatta G.L., cit., p. 181cfr. ad es. in questo senso, con riferimento all’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, Corbetta S., sub art. 35 d.lgs. n. 274/2000, in Giarda A. - Spangher G. (a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., p. 2826.
172
chiusura del procedimento penale con un provvedimento del giudice meno favorevole rispetto alla
sua chiusura nella fase processuale, ove si avrà il proscioglimento dell’imputato con formula di
merito in conformità a quanto prescritto dal comma 2 dell’articolo 129 del codice di rito penale. Nel
caso in cui, invece siamo nella fase delle indagini preliminari avremmo la richiesta di archiviazione
presentata ai sensi dell’articolo 411 c.p.p..
Siffatta questione risulta evidente per il fatto che la norma non si limita a statuire che il risarcimento
debba avvenire prima del giudizio; ma essa esige che esso debba provenire dall’imputato la cui
qualifica è inevitabilmente legata all’esercizio dell’azione penale mentre prima di tale momento si è
in presenza dell’indagato o della persona sottoposta all’indagine.
Secondo alcuni autori la ratio della specifica indicazione del limite temporale entro il quale
provvedere al risarcimento deve essere rinvenuta nella possibilità di verifica, da parte del giudice,
del sincero ravvedimento, la cui prova può essere data dall’imputato prima dell’inizio del processo,
instauratosi il quale assumerebbe un carattere palesemente strumentale all’esito del giudizio.
Il risarcimento, inoltre, deve essere integrale753. Da ciò ne consegue che non sono idonei ad
estinguere il reato e sono preclusivi della declaratoria di estinzione del reato o, nella fase
antecedente del dibattimento, dell’adozione del provvedimento di archiviazione i risarcimenti
parziali o tardivi o la mera promessa di un risarcimento futuro754.
La lettera della legge prevede che il danno deve essere risarcito sia al p.u. sia all’ente di
appartenenza (confermando la natura plurioffensiva dell’oltraggio, lesivo dell’onore individuale ed
il prestigio della pubblica amministrazione). Ne consegue che il risarcimento dovrà considerarsi
parziale ed inidoneo a sortire l’effetto di esclusione della punibilità di cui all’art. 341 bis, terzo
comma, c.p., quando sia stato effettuato integralmente a solo favore del p.u.755 o dell’ente di
appartenenza.
Poiché il danno da risarcire è quello causato all’onore e al prestigio del p.u. e della Pubblica
amministrazione nella maggior parte dei casi si tratterà di un danno non patrimoniale756, sub specie
di danno morale. A questo, in via di principio, potrebbe sommarsi un danno patrimoniale subito dal
p.u. e/o dalla Pubblica amministrazione nell’ipotesi, ad es., del ristoro di spese sostenute per
753 In merito Aprile E., 341 bis, cit., p. 596 osserva che l’imputato deve risarcire interamente il danno provocato dall’oltraggio tanto nei suoi risvolti patrimoniali, che in quelli non patrimoniali, ma comunque suscettibili di valutazione economica. 754 cfr. ad es., anche i riferimenti alla giurisprudenza relativa all’art. 62 n. 6 c.p., Vergine, in Dolcini E. – Marinucci G. (a cura di), Codice di procedura penale commentato, II ed., Ipsoa, 2006, art. 62, p. 833 s.. Scandone G., cit., p. 489. 755 Già in questo senso, nella giurisprudenza relativa all’applicabilità dell’attenuante del risarcimento del danno al previgente delitto di cui all’art. 341 c.p., Cass., Sez. VI, 24 maggio 1975, Taccola, in Riv. Pen., 1975, p. 1003 s.. 756 Sul danno non patrimoniale da reato, inteso, in un’accezione più ampia e non limitata al mero danno morale, come “danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica”, v. da ultimo Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, in DeJure (v. in particolare i punti 2.10 e 4.8 della motivazione).
173
cancellare scritte oltraggiose dai muri di facciata di un commissariato757. Si pensi, anche, alla
globalità delle ulteriori spese, diverse da quelle ordinarie, sostenute dalla P.a. come conseguenza
della commissione del reato: il costo della remunerazione del lavoro straordinario prestato dagli
agenti operanti per procedere agli atti di polizia giudiziaria, il trattamento di missione da
corrispondere ad equipaggi di pattuglie eventualmente inviate di rinforzo fuori sede, in situazione di
particolare complessità, ecc.758. In dottrina, pertanto, si è proposto un approccio estensivo del
concetto di danno perché se la ratio della disposizione deve essere rintracciata nel ristorare il danno
provocato alla Pubblica amministrazione, è, di conseguenza, logico ritenere che il risarcimento
debba comprendere la globalità delle ulteriori spese, diverse da quelle ordinarie, sostenute dalla
Pubblica amministrazione come specifica conseguenza della commissione del reato759.
In merito al contenuto della prestazione risarcitoria la Cassazione760, in riferimento alla causa di non
punibilità contemplata dall’art. 35 D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, ha affermato, in occasione di una
pronuncia in tema d’ingiuria, che la riparazione “non può non avere carattere anche non
patrimoniale” ed il potere di sindacato del giudice, nel riconoscerne la idoneità, non può spingersi
oltre i requisiti oggettivi previsti dall'art. 35, tra i quali vi è quello della anteriorità rispetto alla
attività istruttoria. Di conseguenza la Corte ha escluso che l’estinzione dell’ingiuria possa essere
pronunciata sulla base del comportamento dell'imputato che, ad una udienza successiva alla prima,
si era limitato a formulare una dichiarazione di scuse. In merito giova ricordare che in passato, in
riferimento alla previgente fattispecie di oltraggio, la Cassazione761 ha escluso l’applicabilità
dell’attenuante di cui all'art. 62 n. 6 c.p. in caso di rimessione delle scuse alla persona offesa
dall’oltraggio, che è reato plurioffensivo, perché offende, con l’onore e il decoro della persona
investita di pubbliche funzioni, il prestigio della pubblica amministrazione, considerata come
complesso di organi aventi scopi pubblici. Questa giurisprudenza, inoltre, ha escluso più volte la
compatibilità dell’attenuante del risarcimento del danno con il reato di oltraggio a p.u., anche
757 O del comando della polizia municipale, della sede del Comune o della prefettura. 758 Scandone G., cit., p. 489. 759 Scandone G., cit., p. 489. 760 Cassazione penale, sez. V, 22 settembre 2005, n. 40818, Mirabelli, in Cass. pen., 2007, 2, 672, la quale ha anche affermato che nel procedimento davanti al giudice di pace, il meccanismo di estinzione dell'illecito previsto dall'art. 35 d.lg. 28 agosto 2000, n. 274, può trovare applicazione soltanto quando l'imputato proceda a riparare il danno direttamente cagionato dal reato contestatogli attraverso il risarcimento o le restituzioni eseguiti prima della udienza di comparizione, limite questo che costituisce uno sbarramento superabile solo dal provvedimento con cui il giudice dispone la sospensione del processo per consentire all'imputato, che ne abbia fatto richiesta, di porre in essere le condotte riparatorie. 761 Cassazione penale, sez. VI, 21 febbraio 1986 Pericchi. Ne conseguiva che, qualora si commetteva un oltraggio a un carabiniere e poi si inviava allo stesso nonché al comandante della stazione da cui quegli dipende una lettera di scuse, si potevano applicare le attenuanti generiche e ma non l'attenuante sopra indicata.
174
nell’ipotesi in cui il danno è stato effettivamente risarcito al p.u., poiché si è negata l’esistenza
stessa di un danno risarcibile nei confronti della pubblica amministrazione762.
La nuova formulazione dell’art. 341 bis, terzo comma, c.p., invece, induce a ritenere che il predetto
principio debba considerarsi superato perché il legislatore ha compiuto la scelta di “monetizzare” il
prestigio della Pubblica amministrazione, bene che, come la precedente giurisprudenza aveva già
sottolineato, difficilmente si presta ad una reintegrazione patrimoniale763.
La lettera della legge prescrive che al risarcimento del danno deve provvedere l’imputato. Si ritiene,
pertanto, analogamente a quanto stabilito dalla giurisprudenza in riferimento all’art. 62, n. 6 c.p. e
all’art. 35, D.lgs. 274/2000, che la causa di non punibilità prevista dall’art. 341 bis c.p. operi anche
quando il risarcimento venga compiuto dai terzi, purchè sia comunque riferibile all’imputato.
In merito al problema del rilievo del risarcimento effettuato da terze persone si sono, infatti,
pronunciate in questo senso sia la Corte Costituzionale764 - specificamente in relazione
all’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. sia la Cassazione765 – in relazione alla causa di non
punibilità di cui all’art. 35 D.Lgs. 274 del 2000. Occorre chiarire, però, che non qualsiasi estraneo
potrà, però, effettuare il risarcimento del danno per conto dell’imputato, ma esclusivamente il
soggetto civilmente tenuto all’obbligazione risarcitoria ai sensi dell’art. 185 c.p. ed il responsabile
civile766. Non rileva, pertanto, chi sopporta il sacrificio economico, ovvero chi renda effettivamente
disponibile all’imputato la somma necessaria per risarcire, purchè sia quest’ultimo a provvedervi767.
Le previsione normativa non si comunica agli eventuali concorrenti nel reato sia nell’ipotesi in cui
venga qualificata come causa di estinzione del reato768 – in base all’art. 182 c.p. – sia in quella in
cui la si consideri una causa di non punibilità – in base all’art. 119 c.p. – perché ha effetto solo nei
confronti della persona a cui si riferisce, cioè quella che ha risarcito integralmente il danno. Inoltre
sarà possibile applicare un principio oggetto di un recente arresto delle S.U. della Cassazione
concernente l’attenuante ex art. 62, n. 6, c.p.: se uno degli autori del reato ha già risarcito
integralmente il danno, l’altro concorrente per usufruire della causa di non punibilità dovrà in tempo
762 cfr. Cass., Sez. VI, 24 maggio 1975, Taccola, cit. V, anche Cass., Sez. VI, 30 ottobre 1998, Di Vincenzo, in CED Cass., n. 213334;(“il reato di oltraggio a pubblico ufficiale non comporta una lesione diretta al Corpo di appartenenza del pubblico ufficiale”). 763 cfr. Gatta G.L., cit., p. 183, il quale, altresì, ipotizza che il legislatore abbia operato la scelta sopra riportata forse ignorando la pregressa giurisprudenza in materia. 764 Corte cost 23 aprile 1998, n. 138, in Cass. pen., 1998, p. 2297 s. 765 cfr. Cass., Sez. IV, 5 maggio 2009, n. 14439, in DeJure; Cass., Sez. IV, 24 settembre 2008, Barlocco, in CED Cass., n.241328; Cass., Sez. IV, 29 febbraio 2008,Giorni,ivi, n. 240212. 766 Gatta G.L., cit., p. 183. 767 Scandone G., cit., p. 489. 768 cfr. in questo senso, in relazione all’istituto di cui all’art. 35 d.lgs. n. 274/2000, Corbetta S., sub art. 35 d.lgs. n. 274/2000, in Giarda A. – Spangher G. (a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., p. 2825.
175
utile rimborsare pro quota il complice più diligente o “dimostrare di aver avanzato una seria e
concreta offerta di integrale risarcimento del danno”769.
Analogamente a quanto stabilito per l’attenuante ex art. 62, n. 6, c.p.770 e per la causa di non
punibilità di cui all’art. 35 D.lgs. 274/2000771, in caso di rifiuto dell’offerta risarcitoria da parte del
danneggiato (del p.u. e/o dell’ente di appartenenza), che non la ritenga congrua il risarcimento potrà
essere effettuato nella forma dell’offerta reale ex art. 1209 c.c. se il giudice la ritiene adeguata a
coprire il danno sofferto772.
Il sindacato del giudice ricalca quello previsto ex art. 62, n. 6, c.p., limitandosi all’accertamento
della natura personale e integrale del risarcimento. Diversamente da quanto stabilito dall’art. 35
D.lgs. 274/2000 la disposizione non subordina, invece, la declaratoria di estinzione del reato alla
verifica dell’idoneità della condotta risarcitoria “a soddisfare esigenze di riprovazione del reato e
quelle di prevenzione”. Al riguardo è stato evidenziato773 che l’esposta notazione fa emergere
un’irragionevole disparità di trattamento tra le discipline previste rispettivamente dagli art. 341 bis,
3 comma c.p. e art. 35 D.lgs. 274/2000. L’accesso alla causa di non punibilità fondata sul
risarcimento del danno è soggetta a requisiti maggiormente stringenti in relazione a reati (si pensi
emblematicamente all’ingiuria) meno gravi dell’oltraggio a p.u. Ciò ha indotto a ritenere, altresì,
che tale distonia dovrebbe condurre, almeno in relazione all’ingiuria, a una dichiarazione di parziali
incostituzionalià dell’art. 35 D.lgs. 274/2000774.
La laconicità del testo normativo lascia in ombra profili disciplinari di significativa rilevanza
pratica775. In primo luogo è stata evidenziata la difficoltà di quantificare un risarcimento congruo: il
giudice potrebbe utilizzare i criteri di commisurazione del danno solitamente adottati nei delitti
contro l’onore, inerenti alla gravità del fatto, quali l’intensità lesiva del comportamento oltraggioso
in sé considerato ed il numero delle persone presenti, la posizione gerarchica del p.u., considerato
che l’offesa in ipotesi arrecata ai soggetti apicali dell’ente, che più di altri ne restituiscono
all’esterno l’immagine e con esso più di altri vengono identificati, appare maggiormente lesiva del
prestigio pubblico di questo776.
La mancata previsione di una specifica disposizione indicativa di un potere-dovere di sindacato e di
controllo del giudice in materia di risarcimento non chiarisce se il magistrato può dichiarare estinto
il reato a fronte di un’offerta risarcitoria ritenuta congrua, ma respinta (ingiustificatamente) da una o
769 Cass., Sez. Un., 22 gennaio 2009, n. 5941, in DeJure. 770 cfr. ad es. Cass., Sez I, 28 aprile 2006, Friscia, in CED Cass., n.233817. 771 Cass., Sez. V, 24 marzo 2005, Del Testa, in CED Cass., n.231777 772 Scandone G., cit., p. 489. 773 Gatta G.L., cit., p. 184. 774 Gatta G.L., cit., p. 184. 775 Martiello G., cit., p. 20. 776 Martiello G., cit., p. 20.
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da entrambe le parti lese777. Ci si chiede, infatti, se spetti esclusivamente ai soggetti offesi
(pubblico ufficiale ed ente di appartenenza) decidere se il risarcimento sia integrale e quindi fonte di
estinzione del reato; oppure se sia possibile che il giudice ravvisi un risarcimento integrale e
satisfattivo anche nel caso in cui i soggetti lesi, o uno di essi, sia di contraria opinione; ed infine se
sia possibile la eventualità che il giudice ritenga non adeguato quel risarcimento offerto
dall’imputato ed accettato dalle parti. Da un lato, infatti, è arduo sostenere che ai fini della
estinzione del reato sia indispensabile che le persone offese abbiano ritenuto congruo il risarcimento
ed accettato l’offerta dell’imputato. Dall’altro, però, pare altrettanto difficile sostenere che ogni
prestazione monetaria sia adeguata e configuri un risarcimento integrale sol che le persone offese
l’abbiano accettato e si dichiarino appagate, in considerazione anche indisponibilità del prestigio e
dell’impossibilità di mercanteggiarne il valore in modo assolutamente discrezionale e vincolante per
il giudice. Pare quindi plausibile concludere nel senso che la formulazione della norma attribuisca al
giudice il compito di stabilire l’esistenza di un adeguato ed integrale risarcimento, quanto meno con
riguardo al danno correlato alla lesione del prestigio e patito dalla pubblica amministrazione778.
È dubbia, inoltre, la necessità o meno, ai fini del pratico funzionamento della clausola, della
costituzione di parte civile della persona offesa (o danneggiato)779.
Sarà, infine, è difficile individuare il soggetto legittimato ad accettare per l’ente l’offerta
risarcitoria, con conseguente possibilità di stallo processuale780. In riferimento a questo aspetto si
ipotizza di colmare il vuoto legislativo attraverso il ricorso alle regole concernenti la rappresentanza
processuale degli enti781. Inoltre qualche problema si pone anche con riguardo alla individuazione
dell’ente di appartenenza: posto che la locuzione normativa andrebbe correttamente intesa come
“amministrazione di appartenenza” è stato osservato che la norma non appare di molto aiuto. Non
sono, infatti, pochi i casi di pubblici ufficiali inseriti in organizzazioni dalla struttura molto
articolata, in cui coesistono più istanze con poteri decisionali e di manifestazione della volontà
dell’ente, poste tra loro in rapporto di gerarchia o di analoghi moduli organizzativi782.
A causa di quest’ultimo rilievo ci si è interrogati sulla reale opportunità di chiamare in causa anche
l’amministrazione di appartenenza del p.u. o fosse stato più ragionevole limitare il risarcimento a
quest’ultimo. Indubbiamente, però, nella prospettiva del Legislatore la scelta deve considerarsi
777 Manzione, p. 586; Martiello G., cit., p. 20. 778 Santoro V., cit. 779 Madeo A., cit., p. 240. 780 Martiello G., cit., p. 20; Amato G. ,cit., p. 60. 781 Madeo A., cit., p. 240. 782 Santoro V., cit.; Padovani T., cit., p. 33 secondo il quale l’ente di appartenenza potrebbe anche mancare: ad es. sussistono delle difficoltà nell’individuazione del predetto ente in riferimento ai notai (secondo l’autore molto probabilmente né al consiglio notarile o né al ministero della giustizia che ne esercita la vigilanza). Inoltre anche quando il p.u. è inserito in una struttura organica, riferirsi all’ente risulta improprio e riduttivo se per ente s’intende il soggetto dotato di personalità giuridica. In questa ristretta accezione, infatti, i ministeri non sono enti.
177
appropriata perché il coinvolgimento dell’amministrazione corrisponde alla nuova logica di tutela.
Sarebbe, infatti, stato incomprensibile che, rispetto ad una causa estintiva basata sul risarcimento
del danno riemergesse la sola posizione personale del p.u., che è un portatore occasionale
dell’interesse protetto, ma non il suo titolare783.
LE FORME DI MANIFESTAZIONE DEL REATO
Momento consumativo è quello della percezione784, da parte del soggetto passivo, dell’espressione
oltraggiosa: ovvero quando la parola è udita, l’atto è visto, lo scritto o il disegno arrivano a
destinazione, ecc785. In conformità a quanto ritenuto per l’ingiuria non è necessario che il soggetto
passivo si senta offeso: è sufficiente che il fatto sia idoneo a ledere l’onorabilità (in senso lato) della
persona786.
È pacificamente ammesso787 il tentativo ipotizzabile (con riferimento alla previgente formulazione)
sia nella forma dell’oltraggio reale, qualora, ad es., il soggetto agente venga trattenuto dal gettare da
una finestra dell’acqua sporca o dei rifiuti organici sul p.u., sia in quella dell’oltraggio verbale788,
qualora, ad es., non è possibile comprendere il significato della frase ingiuriosa a causa, ad es. del
rumore determinato dal passaggio di un’automobile. Del pari si considerano ipotizzabili la
desistenza volontaria ed il recesso attivo789.
Essendo il delitto di oltraggio una fattispecie ad esecuzione monosoggettiva, che non richiede una
pluralità di soggetti attivi, è sufficiente una sola persona per la sua consumazione. Ciò non esclude
che più persone possano materialmente concorrere nella commissione del reato790. Le caratteristiche
di unissusistenza della condotta consentono di prospettare il concorso di persone nelle sole ipotesi
783 Padovani T., cit., p. 33. 784 In questo senso Antolisei F., cit., p. 359 (ed. 1995); Migliori P., cit., p. 916; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7 nel senso di “ricezione” e non di effettiva e consapevole “percezione” dell’offesa stessa; Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 462 secondo il quale non si può richiedere la percezione effettiva dell’offesa, in quanto quest’ultima è un momento troppo squisitamente soggettivo, perché il diritto possa ricollegarle effetti come la decorrenza del termine di prescrizione o la competenza per territorio; Riccio S., cit., p. 831, a cui si rinvia per la casistica; Palazzo F., Oltraggio, cit., p. 857, Sisti U., cit., 262. Contra Casalbore, cit., p. 465, secondo il quale il reato si consuma nel momento in cui l’offesa viene pronunciata; Manzini V., cit., p. 522 secondo il quale il momento in cui il p.u. percepisce l’offesa può essere successivo a quello in cui di consuma il reato (ovvero il momento in cui il soggetto attivo pronuncia la parola o compie l’atto). 785 Riccio S., cit., p. 83i secondo il quale il delitto di oltraggio è reato istantaneo, in quanto in esso non permane il momento consumativo, anche se permangono gli effetti. 786 Casalbore, cit., p. 465; Manzini V., cit., p. 522; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7. 787 In questo senso Antolisei F., cit., p. 358 (ed. 1995); Casalbore, cit., p. 470 (lancio di uova o di ortaggi verso i p.u.); Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7; Madeo A., cit., p. 226; Sisti U., cit., 262. Contra Manzini V., cit., p. 522. 788 In merito Riccio S., cit., p. 831 ha precisato che il tentativo è ammissibile solo nell’ipotesi in cui la condotta è frazionabile e non quando essa è uni sussistente, come nell’oltraggio verbale diretto, in cui ogni parola ed ogni cenno perfeziona il reato. Nello stesso senso Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7. 789 Palazzo F., p. 859. Contra Perdonò, p. 668. 790 In merito Casalbore, cit., p. 470 osserva che non appare agevole ipotizzare una forma di concorso di persone nell’oltraggio verbale.
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di cori offensivi o di offese recate in modo preordinato e contemporaneo ovvero in quelle del c.d.
concorso morale791.
Circa il concorso di reati792 se il p.u. percepisce più volte la stessa offesa (ad es. scorge più volte la
stessa scritta offensiva) il reato rimane uno solo793. Vi è un solo oltraggio anche se contestualmente
sono pronunciate più espressioni ingiuriose o sono compiuti più atti violenti794. Durante la vigenza
dell’abrogata fattispecie, inoltre, si riteneva che il reato rimanesse, altresì, unico (di oltraggio
aggravato) se l’offensore usava insieme comportamenti violenti ed espressioni verbali offensive795.
Per quanto attiene ai rapporti tra oltraggio a p.u., realizzato mediante violenza o minaccia e altre
figure di reato in passato796, in relazione all’abrogato art. 341, 4 comma, c.p. è stato sostenuto che
c’è concorso formale tra il delitto di oltraggio a p.u. e quelli di violenza o minaccia o resistenza a
p.u. (artt. 336 e 337 c.p.) solo nell’ipotesi in cui la violenza o la minaccia non siano impegnate né
per costringere il pubblico ufficiale (a compiere un atto contrario ai doveri del proprio ufficio o ad
omettere un atto dell’ufficio o a compiere un atto dell’ufficio) né per opporre resistenza al p.u. (nei
termini previsti dall’art. 337 c.p.).
Recentemente, ma prima della reintroduzione del delitto di oltraggio, la Cassazione ha affermato
che quando il comportamento di aggressione all'incolumità fisica del pubblico ufficiale non è diretto
a costringere il soggetto pubblico a fare un atto contrario ai propri doveri o a omettere un atto
dell'ufficio ovvero non diretto a opporsi al compimento di un atto d'ufficio o di servizio, ma
rappresenta solo espressione di volgarità ingiuriosa e di atteggiamento genericamente minaccioso,
senza alcuna finalizzazione a incidere sull'attività dell'ufficio o del servizio, la condotta violenta non
integra i reati di cui agli art. 336 e 337797 c.p., bensì, una volta abrogato il reato di oltraggio di cui
all'art. 341 c.p., i più generali reati di ingiuria e di minaccia, aggravati dalla qualità della persona
791 Casalbore, cit., p. 470. 792 Per i rapporti tra il reato di oltraggio e quello di insubordinazione si rinvia a Aprile E., cit., p. 567 793 Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 7, Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 463, in quanto l’autore parte dal presupposto che la percezione effettiva non ha rilevanza. Contra Vannini, p. 54 794 Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 463. 795 Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 463. 796 In merito si rinvia anche a Casalbore, cit., p. 472; Pagliaro A., Oltraggio, cit., p. 6. 797 Cassazione penale, sez. VI, 29 gennaio 1998, n. 2675, Cito e altro, in Ced Cassazione 1998 secondo la quale l'assunzione di un atteggiamento di prevaricazione nei confronti del Sindaco mentre svolge le funzioni di presidenza del Consiglio, realizzato attraverso l'aggressione fisica, anche se questa non si manifesti con il contatto fisico e le percosse, integra il reato di violenza a pubblico ufficiale e non quello di oltraggio a corpo politico o amministrativo e di oltraggio a pubblico ufficiale. (Nell'affermare il principio di cui in massima la corte ha ritenuto integrato il reato di violenza e non quello di oltraggio nella condotta dell'imputato che aveva staccato il microfono del Sindaco, aizzato altri consiglieri a ripetere ritmicamente epiteti offensivi, scampanellato reiteratamente affermando in modo stentoreo che il Sindaco non avrebbe tenuto Consiglio, anche se, una volta terminata l'azione di disturbo, il Consiglio era ripreso regolarmente); Cassazione penale, sez. VI, 13 luglio 1993, Quaranta, in Cass. pen. 1994, 2448 (s.m.), Mass. pen. cass. 1993, fasc. 11, 114, secondo la quale ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'art. 336 c.p. costituisce minaccia idonea a coartare la volontà del pubblico ufficiale, e non semplicemente ad offenderne l'onore ed il prestigio, la frase "se volete la guerra, guerra sia" pronunciata all'indirizzo del pubblico ufficiale. (Nella specie detta frase era stata pronunciata all'indirizzo di un carabiniere che stava procedendo al sequestro di un motoveicolo).
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offesa, per la cui procedibilità è necessaria la querela798. La giurisprudenza, inoltre, ha più volte
chiarito che non integra il delitto di resistenza di cui all'art. 337 c.p. la condotta ingiuriosa posta in
essere, nei confronti di un pubblico ufficiale, quando essa non riveli alcuna volontà di opporsi allo
svolgimento dell'atto d'ufficio e risulti priva del nesso di causalità psicologica tra l'offesa arrecata e
le funzioni esercitate, ma rappresenti piuttosto l'espressione di uno sfogo di sentimenti ostili e di
disprezzo, da inquadrare nell'ipotesi di oltraggio già prevista dall'art. 341 c.p. e abrogata dall'art. 18
l. 25 giugno 1999 n. 205799.
Si riteneva, infine, sempre in riferimento all’art. 341, 4 comma, c.p., che qualora la violenza alla
quale l’agente è ricorso per manifestare il suo sentimento di disprezzo nei confronti del p.u. cagioni
a quest’ultimo una lesione personale, tale ultimo reato concorre con quello di oltraggio800. Era
indirizzo costante, infatti, che in ipotesi di concorso delle imputazioni di oltraggio e di lesioni
798 Cassazione penale, sez. VI, 13 novembre 2008, n. 44976, L., in Guida al diritto 2009, 5, 91 (s.m.) Nella specie, la Corte ha così annullato la sentenza di condanna per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, apprezzando come l'imputato, fermato per un controllo da una pattuglia della Polizia di Stato, si era limitato a profferire nei confronti degli operanti una serie di espressioni offensive, prima di acconsentire a seguirli in Commissariato. La finalità della minaccia integra il criterio distintivo tra il reato di cui all'art. 337 c.p. e quello previsto dalla prima ipotesi comma ultimo dell'art. 341 c.p.: nel primo caso, è diretta ad impedire od ostacolare il compimento di un atto inerente alla funzione di pubblico ufficiale; nell'altro, costituisce una semplice manifestazione di disprezzo e disistima, diretta a ledere l'onore ed il prestigio dello status rivestito. In senso conforme, Sez. VI, 10 gennaio 1997, n. 2716, Minniti, in Cass. pen., 1998, p. 1116; Cass. pen., Sez. II, 20 novembre 1987, Caterino, in Riv. pen., 1989, p. 2001. Estende tali osservazioni all'ipotesi criminosa dell'art. 336 c.p., Cass. pen. Sez. VI, 3 febbraio 2005, n. 12188, Frocione, in Cass. pen., 2006, n. 5, p. 596 (10, 3256); Cass. pen., Sez. V, 23 gennaio 2002, Tornelli, in C.E.D. Cass., n. 221027; Cassazione penale, sez. VI, 12 gennaio 1984, Poggi, in Cass. pen. 1985, 1547 (s.m.) secondo la quale l'oltraggio aggravato dalla violenza o dalla minaccia si distingue dal delitto di resistenza perché mentre nel secondo la violenza o la minaccia tende a coartare il pubblico ufficiale o a resistergli, nel primo esprime semplicemente uno sfogo di sentimenti ostili o di disprezzo. Se la violenza è diretta, congiuntamente ad espressioni ingiuriose, a recare ostacolo all'attività di un pubblico ufficiale, essa non può considerarsi come aggravante del reato di oltraggio, ma dà luogo alla figura concorrente del delitto di resistenza a pubblico ufficiale; Cassazione penale, sez. VI, 21 dicembre 1983, Marinaro, in Cass. pen. 1984, 889 (s.m.), Giust. pen. 1983, II,648 (s.m.); Cassazione penale, sez. VI, 05 luglio 1983, Nasta, in Giust. pen. 1984, II,290 (s.m.); : Cassazione penale, sez. VI, 09 marzo 1983, Marin, in Giust. pen. 1984, II,161 (s.m.); Cassazione penale, sez. VI, 05 luglio 1983, Nasta, in Giust. pen. 1984, II,290 (s.m.), secondo la quale il criterio distintivo tra il reato di oltraggio aggravato dalla violenza e minaccia e quello di resistenza a pubblico ufficiale sta nella circostanza che nella prima ipotesi la violenza e minaccia hanno solo lo scopo di ledere l'onore e il decoro del soggetto passivo, mentre nella seconda ipotesi tendono a condizionare il pubblico ufficiale nello svolgimento dei compiti a lui assegnati; nello stesso senso Cassazione penale, sez. VI, 09 marzo 1983, Marin, in Giust. pen. 1984, II,161 (s.m.); Cassazione penale, sez. VI, 19 gennaio 1983, Avventuriera, in Giust. pen. 1983, II,648 (s.m.); Cassazione penale, sez. VI, 22 giugno 1982, Riva, in Cass. pen. 1984, 561 (s.m.); Cassazione penale, sez. VI, 12 maggio 1982, Pistillo, in Riv. pen. 1983, 479; Cassazione penale, sez. VI, 25 luglio 1979, Cerutti, in Cass. pen. 1981, 784 (s.m.); Cassazione penale, sez. VI, 23 giugno 1979, Biondo, in Giust. pen. 1980, II,286 (s.m.) 799 Cassazione penale, sez. VI, 13 novembre 2008, n. 44976, L., in Cass. pen. 2010, 2, 635, (Fattispecie in cui l'imputato, senza porre in essere alcun comportamento violento o minaccioso, si è limitato ad ingiuriare gli agenti operanti in occasione di un controllo sulla sua autovettura); nello stesso senso Uff. Indagini preliminari Cosenza, 23 maggio 2007, n. 225, in Guida al diritto 2008, 4, 92; Cass. pen. Sez. VI, 16 maggio 2006, n. 26819, in C.E.D. Cass., n. 235175 cerca riferimenti; Cass. pen., sez. VI, 9 luglio 2003 n. 37042, in Dir. & Formazione 2004, p. 520; Cass. pen., sez. un., 27 giugno 2001 n. 29023, cit. Disattende l'operatività dell'art. 337 c.p. anche in presenza di un'aggressione fisica allorché questa si sostanzi in una mera manifestazione di disprezzo o volontà di lesione personale, Sez. VI, 9 luglio 2003, n. 37042, Marino, in Riv. pen., 2004, p. 1142; Sez. I, 3 maggio 2000, n. 9541, La Marina, in Cass. pen., 2001, p. 3066. 800. Sulla configurabilità del concorso di reati nel caso in cui all'ostilità si accompagni la voluntas di ledere, di recente, Sez. IV, 15 aprile 2008, n. 27703, in C.E.D. Cass., n. 240880. Cass., sez. VI, 26 febbraio 1981, Capra, in CED Casss. n. 150085
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volontarie aggravate dalla qualità di pubblico ufficiale, ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p., devono trovare
applicazione entrambe le norme, in considerazione dei differenti beni giuridici protetti dalle due
previsioni legislative. Non può, infatti, operare in tal caso il principio di specialità di cui all'art. 15
c.p., perché la disposizione presuppone che più norme incriminatrici regolino la stessa materia,
abbiano, cioè, la stessa obiettività giuridica, intesa nel senso di identità del bene protetto801.
È stato, invece, escluso il concorso del reato di oltraggio con quello di percosse, perché secondo
l’indirizzo prevalente le percosse integravano quel minimo di violenza comunemente ritenuta
necessaria per la sussistenza dell’aggravante dell’oltraggio e perciò rimanevano in essa assorbite802.
La giurisprudenza, inoltre, ha ammesso il concorso formale tra i reati di cui agli artt. 341 e 342 c.p.
ove, con un unico atto, sia arrecata offesa pure al corpo amministrativo. Ai fini della sussistenza del
delitto di cui all'art. 342 c.p. (oltraggio a un corpo politico amministrativo o giudiziario), per "corpo
amministrativo" deve intendersi l'organo pubblico dello Stato o dell'amministrazione statale inteso
nell'integrità della sua composizione, mediante la quale esso normalmente funziona, oppure una
rappresentanza dello stesso. Ne consegue che risponde del delitto ex art. 342 c.p. colui il quale usi
espressioni offensive dirette all'organo medesimo nel suo complesso e al suo cospetto. Se, invece,
dette espressioni sono rivolte a persone facenti parte dell'organo, cioè a singoli membri di esso, la
condotta può integrare, ricorrendone gli altri elementi costitutivi, solo il reato di cui all'art. 341 c.p.
(oltraggio a un pubblico ufficiale) 803.
801 Cassazione penale, sez. VI, 26 maggio 1998, n. 7516, Izzo, in Cass. pen. 1999, 1805 (s.m.), Giust. pen. 1999, II, 357. In merito cfr. Cassazione penale, sez. V, 06 marzo 1984, Morgana, in Giust. pen. 1985, II, 225 (s.m.) secondo la quale il delitto di resistenza a pubblico ufficiale e quello di oltraggio aggravato dalla violenza sono riferibili soltanto a quel minimo di violenza che si concreta nelle percosse e non già a quegli atti che, esorbitando da tali limiti, siano causa di lesioni personali. In tal caso il delitto di lesioni personali volontarie concorre con i predetti reati. 802 In merito cfr. Casalbore G., cit., p. 473. 803 In questo senso Cassazione penale, sez. VI, 06 ottobre 1994, Trovò, in Riv. pen. 1995, 1343. Contra Pagliaro A., Parodi Giustino M., cit., p. 463 secondo il quale se, per difetto del requisito “al cospetto” del Corpo, non può essere integrata la fattispecie prevista nell’art. 342 c.p. residua un delitto di oltraggio al singolo p.u. presente, in quanto l’attitudine offensiva della condotta si estende anche all’onore ed al prestigio del singolo componente. Nell'offesa arrecata con un unico atto ad un corpo amministrativo o politico e ai singoli membri del medesimo ricorre l'ipotesi del concorso formale per cui in tal caso il soggetto agente deve rispondere sia del reato previsto dall'art. 341 sia di quello di cui all'art. 342 c.p. L'unica condotta criminosa ha carattere plurioffensivo, ledendo sia il bene giuridico della pubblica amministrazione sia l'onore o il prestigio personale del pubblico ufficiale, per cui l'indagine in ordine all'elemento soggettivo si risolve nell'accertamento della consapevolezza, nell'agente, della potenzialità oltraggiosa della frase pronunciata e della volontà di rivolgerla al soggetto passivo del reato. Ne consegue che, qualora il fraseggio oltraggioso, potenzialmente lesivo del corpo politico, amministrativo o giudiziario, sia inidoneo a concretare l'ipotesi delittuosa di cui all'art. 342 c.p., perché non pronunciato al cospetto dell'organo medesimo, ma alla presenza di taluno soltanto dei suoi componenti, residuerà il solo delitto dell'art. 341 c.p., ad escludere il quale nell'accertamento - della consapevolezza dell'agente che le parole oltraggiose risultano oggettivamente pronunciate in presenza di pubblico ufficiale e in un contesto che necessariamente lo coinvolge - non è lecito addurre la sussistenza della sola intenzione di offendere il corpo nel suo complesso e non anche il singolo suo componente, giacché il vilipendio dell'ente collegiale necessariamente comprende, senza assorbirlo, l'offesa del soggetto che di esso è parte costitutiva
181
IL TRATTAMENTO SANZIONATORIO
In merito al trattamento sanzionatorio previsto dalla norma la prima notazione da fare attiene al
minimo edittale, che è stato individuato dal legislatore in misura inferiore a sei mesi, adeguandosi in
tal modo alle indicazioni della Corte Costituzionale del 1994 ed evitando in tal modo di esporre la
norma a facili censure d’incostituzionalità. La pena comminata è, infatti, la reclusione fino a tre
anni: rispetto alla previgente fattispecie, risultante dalla sentenza del 1994, il minimo edittale è
rimasto lo stesso perché è indeterminato, cioè parte, ai sensi dell’art. 23 c.p., da quindici giorni, il
massimo, invece, è stato aumentato della metà, passando da due a tre anni.
Il rigore espresso con l’innalzamento del massimo edittale è stato contemperato con la previsione
della causa di non punibilità prevista dal terzo comma dell’art. 341 bis c.p., dalla previsione della
prova liberatoria contemplata al secondo comma dello stesso, dall’estensione al nuovo delitto della
reazione agli atti arbitrari del p.u. prevista dall’art. 393 bis c.p. e, soprattutto, dalla restrizione
dell’ambito di applicazione della fattispecie804. Dal complesso della nuova disciplina emerge
chiaramente la preoccupazione del legislatore di limitare le ipotesi nelle quali i fatti di oltraggio a
p.u. devono essere puniti con la reclusione fino a tre anni.
La scelta del Legislatore di elevare il limite massimo edittale è stata giudicata ammissibile da parte
di un orientamento dottrinario minoritario, tenuto conto del raffronto con la sanzione prevista (due
anni di reclusione) dalla precedente fattispecie e del maggior disvalore della nuova805.
La dottrina maggioritaria806, però, ha espresso delle serie perplessità sulla scelta di sanzionare,
sebbene in casi limitati, con la pena detentiva la lesione dell’onore e del prestigio del p.u. e,
attraverso di esso, della pubblica amministrazione e ha richiamato gli stessi argomenti utilizzati
dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 1994, ritenendoli ancora validi (mancato rispetto dei
principi di proporzionalità e della finalità rieducativa della pena, compromessi dal ricorso alla
privazione della libertà personale nei casi meno gravi). Secondo alcuni, pertanto, si prospetta
l’illegittimità costituzionale non solo in riferimento al massimo edittale, ma alla previsione in se
della pena detentiva807.
804 Gatta G.L., cit., p. 160, il quale sottolinea che “la mano del legislatore sembra essere stata guidata dalla strategia del bastone e della carota”. 805 Martiello G., cit., p. 16. 806 Gatta G.L., cit., p. 161 il quale sottolinea l’irragionevolezza della previsione della pena detentiva a fronte dell’offesa dell’onore e del prestigio del p.u. riportano il classico esempio dell’espressione ingiuriosa rivolta al vigile urbani intento a sanzionare la sosta vietata di un veicolo; Scandone G., cit., p. 484. 807 Gatta G.L., cit., p. 161.
182
Nel merito è stato, però, richiamato808 un recente orientamento della giurisprudenza costituzionale
che potrebbe essere indicativo di un’eventuale presa di posizione della Corte Costituzionale a fronte
dell’eventuale prospettazione della questione di costituzionalità. La Consulta, infatti, con la
sentenza n. 22 del 2007809 ha chiarito di aver ben presenti i limiti dei suoi interventi, soprattutto
quando le si richiede di pronunciarsi in presenza di orientamenti legislativi improntati ad una
maggiore severità nell’irrogazione della sanzione penale per la realizzazione di condotte avvertite
dalla coscienza sociale, di cui il Parlamento è il principale interprete, come lesivi. Ha, infatti,
ritenuto di doversi astenere dal deliberare sul minimo edittale della norma censurata nel giudizio,
chiarendo la necessità di procedere con maggior cautela rispetto alla sentenza del 1994, che era stata
specificamente invocata dal giudice rimettente.
Inoltre si è altresì ipotizzato810 che la Consulta molto probabilmente potrebbe apprezzare la
riformulazione della norma in termini di chiara plurioffensività, secondo le indicazioni della
sentenza della Corte Costituzionale n. 51/1980, e tesa a garantire tutela ai p.u. esclusivamente in
virtù dell’ufficio svolto (e, quindi, volta al rispetto del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.).
In riferimento alla pena base, che, come detto, è fissata nella reclusione fino a tre anni, si è, poi,
evidenziato che è identica a quella stabilita per il reato di oltraggio a magistrato in udienza ex art.
343 c.p. (a seguito dell’eliminazione del minimo edittale) 811. In tal modo il Legislatore ha anche
sanato una delle contraddizioni, precedentemente segnalata, derivante dall’abrogazione della
previgente fattispecie: stante il disposto dell’art. 357 c.p., che riconosce la qualità di pubblico
ufficiale a chi esercita una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria, non si
spiegava perché l’oltraggio al pubblico ufficiale che concorreva a formare, con la sua volontà,
quella dello Stato o di un altro ente pubblico ovvero esercitava poteri autoritativi o certificativi, non
fosse punito con una disposizione ad hoc, mentre quello nei confronti del magistrato, esercente una
funzione giudiziaria, fosse sanzionato espressamente dall’art. 343 c.p. In tal modo l’ordinamento
808 Scandone G., cit., p. 485. L’autore ricorda che anche il Consiglio Superiore della magistratura, chiamato ad esprimersi sull’Atto Senato n. 733-B, identico nel testo, per i profili esaminati, a quanto approvato in via definitiva, non ha ritenuto di eccepire alcunché in ordine al reato di oltraggio essendosi solo limitato a rilevare, per i profili di competenza, come la reintroduzione avrebbe inevitabilmente determinato una maggiore attività degli Uffici giudiziari (il parere è consultabile sul sito www.consigliosuperioremagistratura.it ed in appendice al Il sistema di sicurezza pubblica, a cura di F. Ramacci, G. Spangher, Varese, Giuffrè, 2010) 809 Corte costituzionale, sentenza 22 gennaio 2007 n. 22. 810 Scandone G., cit., p. 485. 811 In riferimento alla pena edittale prevista dall’art. 343 c.p. la Consulta ha avuto già modo di esprimersi, ritenendo compatibile con il dettato costituzionale una tutela penale autonoma e accentuata nei confronti degli organi di giustizia, considerata altresì congrua in una prospettiva comparatistica con altri Paesi di consolidata tradizione liberale. Cfr. Corte costituzionale, sentenza 28 giugno-12 luglio 1995, n. 313 e Corte costituzionale, sentenza 7 ottobre 1999, n. 380 in cui la Corte afferma che “il primario risalto che nell’ordinamento assume la natura delle funzioni che il magistrato svolge in udienza ancor più renderebbe impropria qualsiasi assimilazione … alla figura di genere rappresentata dall’oltraggio a qualsiasi pubblico ufficiale”.
183
riserva il medesimo trattamento a tutti allorchè la qualifica giuridica assume rilievo per la
configurazione di reati propri.
E’ opportuno specificare che il regime sanzionatorio in realtà non è divenuto totalmente identico per
i due reati, poiché rimane diversa la pena per l’attribuzione di un fatto determinato dove, al
verificarsi della circostanza, per l’oltraggio aggravato è prevista la pena della reclusione da 20
giorni a 4 anni, mentre per l’art. 343 c.p. una pena più severa, ovvero la reclusione da un minimo di
due ad un massimo di cinque anni, poiché si tratta di un’aggravante ad effetto speciale.
La gravità attribuita all’oltraggio in questo nuovo contesto non può non apparire dissonante ed
incongrua: l’asimetria sanzionatoria, rispetto all’oltraggio a un corpo politico, amministrativo o
giudiziario non sembra ammissibile: a parità di condizioni, si punisce con la sola multa un’offesa
diretta all’intero collegio, e con la reclusione quella rivolta ad uno solo dei suoi componenti. La
disparità è tale che si è ipotizzato un rapporto di specialità reciproca tra la fattispecie dell’art. 341
bis c.p. e quella dell’art. 342 c.p.; con prevalenza della prima in forza dell’indice di maggior gravità.
La soluzione astrattamente percorribile812, servirebbe a tamponare il disagio derivato da una
sovrapposizione normativa frutto di stagioni diverse; ma non potrebbe sanare una sperequazione di
trattamento che scaturisce da una ben scarsa considerazione dell’assetto sistematico in cui l’art. 341
bis c.p. è stato disinvoltamente calato. Anche in riferimento ai rapporti con l’art. 343 c.p. sono stati
mossi dei rilievi: la pena comminata per l’oltraggio a un magistrato in udienza è oggi la stessa
dell’oltraggio a un pubblico ufficiale. Anche il magistrato è un pubblico ufficiale, e, se è in udienza,
sta compiendo un atto del suo ufficio alla presenza di più persone813. Non si comprende su quale
ragione si dovrebbe basare l’autonomia del titolo, che un tempo era contrassegnato dalla maggiore
gravità rispetto all’oltraggio comune. La circostanza che la fattispecie dell’art. 343 c.p. riporta la
formula tradizionale dell’offesa all’onore o al prestigio costituisce una differenza minima, che
comunque non giustificherebbe affatto la parità di trattamento nell’ipotesi (invero più frequente)
che l’offesa al magistrato colpisca ad un tempo il suo onore e il prestigio istituzionale. Peggio ci si
volge se si considerano poi talune ipotesi di vilipendio. Insolentire o sbeffeggiare un singolo
deputato impegnato in un’attività funzionale determinerà una responsabilità per oltraggio a pubblico
ufficiale, con la reclusione fino a tre anni. Per l’osceno dileggio dell’intera Camera il suo conto
812 L’oltraggio ex art. 341 bis c.p. risulta speciale per aggiunta rispetto al compimento dell’atto, alla presenza di più persone e al luogo pubblico o aperto al pubblico. L’oltraggio ex art. 342 è speciale per specificazione dei soggetti passivi. Il requisito dell’esercizio delle funzioni sembra implicito nella circostanza che l’offesa si svolga “al cospetto” del Corpo riunito. Per quanto l’art. 342 c.p. preveda ancora l’endiadi alternativa “onore e prestigio”, sembra difficile ipotizzare un’offesa al Corpo in quanto tale che non investa i profili funzionali della sua attività 813 Romano M., op. ult. cit., 95 che la presenza di più persone è “dato comunemente implicito nella udienza”, e che il concetto di “udienza” non ricomprende “i momenti morti tra un processo e l’altro, nei quali il giudice non è presente in aula, o comunque non è attivo”
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potrà essere chiuso con una multa da mille a cinquemila euro (art. 290 c.p.). E così via
esemplificando per il Governo, per la Corte costituzionale o per l’ordine giudiziario.
185
CAPITOLO II GLI ART. 192 E 199 DEL CODICE ZANARDELLI, LA SOPPRESSIONE DELLA LEGITTIMA REAZIONE AD OPERA DEL CODICE ROCCO E LA REINTRODUZIONE AD OPERA DELL’ART. 4 DEL D.LGS.LGT. N. 288/1944
Le vicende giuridiche dell’istituto in esame, inserite nel più ampio contesto dello sviluppo storico
della legislazione italiana, testimoniano la stretta dipendenza tra la disciplina normativa e i suoi
fondamenti politico-istituzionali: la questione, infatti, se il cittadino debba, in ogni caso, obbedienza
ai pubblici poteri è intimamente connessa con le ideologie politiche che informano lo Stato814.
Diretta esplicazione di una concezione totalitaria è un assetto giuridico costituzionale nel quale non
è possibile considerare lecita la ribellione al funzionario che ponga in essere atti non consentiti,
perché si subordina la persona alla comunità. Una concezione di tipo liberal-democratico, invece, si
traduce in ordinamento giuridico che riconosce il diritto di resistenza all’ordine ingiusto815.
La statuizione contemplata nell’attuale art. 393 bis c.p. è stata inserita per la prima volta nel codice
Zanardelli. Non è, infatti, possibile rinvenire nei codici preunitari una norma che sancisse in
maniera esplicita il principio ivi contenuto816, sebbene, in realtà non si potesse neanche affermare
814 In merito Amati E., Nuovi orientamenti interpretativi in tema di arbitrarietà putativa nella reazione legittima a pubblico ufficiale, in Giust. Pen., 1997, II, p. 187 osserva che in un regime assolutistico, essendo generalmente disconosciuta l’esistenza di diritti soggettivi è anche disconosciuto il diritto di resistenza. Pertanto, in virtù del principio dell’obbedienza passiva si afferma che ai cittadini non può essere data la facoltà di sindacare gli atti della pubblica autorità: prima bisogna obbedire, poi, eventualmente si ricorrerà alla giustizia contro l’atto arbitrario. In questo senso cfr. anche Grieco A., Fondamento e limiti del diritto di resistenza del privato al pubblico ufficiale – arbitrarietà putativa, in Riv. pen., 1947, p. 675; Ramajoli S., La resistenza individuale: fondamento costituzionale e riflessi penali, in Arch. pen., 1972, II, p. 22. 815 In tal senso: Antolisei F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, Milano, 2008, p. 427 e ss. Sul diritto di resistenza si rinvia a: Bellagamba F., I problematici confini della categoria delle scriminanti, Giuffrè, Milano, 2007, p. 221; Cassandro G., voce “Resistenza (diritto di)”, in Novissimo Dig. It., vol. XV, Utet, Torino, 1957; Cerri A., voce “Resistenza (diritto di)”, in Enc. Giur., Treccani, vol. XXVI, Roma, 1991; Del Gaudio M., La reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale fra diritto penale e principi costituzionali, in Riv. Pen. Econ., 1994, I, p.70, secondo il quale “il riconoscimento del diritto di resistenza come valore prevalente nel disegno costituzionale della dinamica dei rapporti tra autorità e libertà non appare, per vero, contestabile. Anche se il riconoscimento espresso del diritto di resistenza, come matrice da cui si dipana anche il fondamento culturale della reazione legittima agli atti arbitrari, non risulta trascritto dall'art. 50 del progetto preliminare nel dettato costituzionale definitivo, appare incomprensibile ogni lettura complessiva della Carta che non ne implichi il tacito riconoscimento. È sufficiente richiamare il contenuto dell'art. 2 cost.: l’affermazione del principio per cui “è lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato”, e dell’intangibilità del patrimonio di manifestazioni della personalità umana, rappresenta il presupposto inequivoco per l'inammissibilità costituzionale di un obbligo di prona acquiescenza del singolo al sopruso formalizzato”; De Sanctis F., voce “resistenza” (Diritto di), in Enc. Dir., vol. XXXIX, Giuffrè, Milano, 1988; Fiandaca G. Musco E., cit., p. 302, secondo i quali il diritto di resistenza si deve inquadrare in una realtà costituzionale nella quale la posizione dei funzionarie dei dipendenti pubblici risulta equiparata a quella dei privati. 816 In merito si rinvia a Pezzi-Petrei A., Sulla scriminante della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, in Arch. Pen., II, 1972, p. 409 e ss. Già all’epoca di Diocleziano e Massimiano nella legge De Jure Fisci in Codex Justinianus, libro X, 5 è sanzionato che si possa impunemente resistere all’ufficiale che voglia occupare a favore del fisco beni privati senza legittimo ordine (cfr. Carrara F., Programma del Corso del Diritto criminale, parte speciale, vol. V, Firenze, 1911, p. 450). Successivamente è possibile rinvenire una parziale regolamentazione nella Magna Charta del 1215, segnatamente là dove si stabiliva in modo analitico il complesso dei doveri del funzionario e se ne ammetteva la
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che nella sostanza lo stesso non esistesse e non fosse, sebbene indirettamente, normato. Da un
rapido esame della legislazione preunitaria emerge che, a fronte di alcuni codici che non
disponevano nulla al riguardo (il codice albertino del 1839 e quello sardo del 1859 lasciavano
impregiudicata la questione, non stabilendo nulla, né indirettamente né direttamente, seguendo in
ciò l’esempio del codice parmense del 1820, di quello lombardo-veneto del 1852 ed estense del
1855), altri, invece, disciplinavano indirettamente la materia (il Codice Penale del Regno delle Due
Sicilie del 1819 sanciva all’articolo 178 che per il reato di resistenza occorreva che gli individui,
contro cui si reagiva, operassero legalmente817; la legge toscana del 1811 affermava che le
operazioni della forza pubblica dovevano fondarsi o sul mandato dalle leggi ad essa accordato o sul
personale responsabilità in ordine alla legalità dei suoi atti (cfr. Venditti R., La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, Milano, 1954, p. 30). Un principio di resistenza, quindi, non ancora espressamente previsto, ma che permeava già l’intero sistema. Per quanto riguarda la legislazione francese importanti riferimenti si colgono nella Costituzione del 1793, che all’art. 11 proclamava “ tout acte exercè contre un homme hors des cas et sans les formes que la loi détermine, est arbitraire et tyrannique; celui contre lequelle on voudrait l’executer par la violence, a le droit de le repousser par la force” (Les Constitutions de la France depuis 1789, Flammarion, 1995, p. 81; Venditti R., cit., p. 27) “ogni atto compiuto contro una persona fuori dai casi e senza la forma che la legge determina, è arbitrario e tirannico; colui contro il quale si vorrebbe eseguirlo con violenza ha diritto di respingerlo con la forza”; e all’art. 35 aggiungeva “Quand le gouvernement viole les droits du peuple, l’insurrection est, pour le peuple et pour chacque portion du peuple, le plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs” “quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo, o per ciascuna parte del popolo, il più sacro ed indispensabile dei poteri”. Nella stessa linea il codice penale del 1791, mentre nel codice del 1810 e nella Costituzione del 1814 non si rinviene più traccia alcuna di tali principi di legalità, in sintonia con il mutato assetto politico istituzionale. E talmente era cambiata l’atmosfera che quegli studiosi che, come il Bavoux, professavano la dottrina della resistenza ricevettero l’accusa di avere eccitato il popolo alla rivolta (Carrara F., cit., p. 446). Per un mutamento anche della dottrina e della giurisprudenza occorrerà aspettare la rivoluzione del 1830. In relazione al sistema tedesco (Venditti R., cit., p. 25 e ss.; Morselli E., La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, Cedam, 1966, p. 98 e ss.), i codici penali anteriori al 1870 adottarono in materia varie soluzioni. Alcuni (tra cui il bavarese del 1813 e il prussiano del 1851, l’austriaco del 1852 e quelli sassoni del 1855 e 1868) non si occuparono del problema né direttamente né indirettamente adottando di conseguenza una impostazione assolutista. Altri invece (come il codice degli Hannover del 1840) accennarono al problema rinviando però tutto alla disciplina della legittima difesa; altri ancora (quello sassone del 1838, quello altemburgo del 1841, quello della Turingia del 1850 e bavarese del 1861) assunsero una più precisa posizione scriminando indirettamente la resistenza agli atti illegittimi attraverso l’introduzione del requisito della legittimità dell’atto nella fattispecie del delitto di resistenza e violenza. Dal sopra riportato breve excursus emerge la sussistenza dell’equazione: istituzioni liberali - ammissibilità della resistenza del privato avverso l’agire arbitrario del pubblico funzionario. Così da una concezione di tipo totalitario la quale subordini l’individuo allo Stato non può derivare un assetto giuridico che possa consentire la liceità della ribellione, della resistenza all’agire ingiusto del funzionario. E dove il principio di libertà individuale e quello della sovranità del diritto ebbero tradizionalmente buon gioco, autori (W. Blackstone, Commentaries on the Laws of England, vol. I (Of the rights of persons), Oxford, 1765 – ed. a cura di Stanley N. Katz, The University of Chicago Press), già nel XVIII secolo, oltre a propugnare con forza il diritto di resistenza all’arbitrio, poterono affermare la dottrina dell’equiparazione del pubblico ufficiale in stato di abuso ad un qualsiasi privato. 817 Ancor prima la legge napoletana del 20 maggio 1808, n. 143 prevedeva che le offese ai pubblici funzionari non fossero considerate illecite se illegittimamente provocate dai funzionari stessi, i quali, con ciò, avevano per primi compromessa la dignità delle loro funzioni. Con tale disposizione, però, non era scriminato interamente il fatto commesso reagendo all’illegalità pubblica, perché lo dichiarava punibile come se fosse stato commesso contro un privato, negando così all’autore dell’arbitrio la qualità di funzionario pubblico (“se le offese descritte nell’articolo precedente siano state illegalmente provocate da’ magistrati e da’ loro esecutori, in modo che i magistrati con oltraggi gravi, e gli esecutori con eccessi punibili siano stati i primi a compromettere la dignità delle loro funzioni, esse perdono la qualità di violenza pubblica e saranno estimate e punite nel modo prescritto pe’ delitti della loro specie, che si commettono contro agli individui”. Sul punto Pezzi-Petrei A., cit., p. 410. Questa legge, a sua volta, si ispirava al codice penale francese del 179, che puniva la resistenza con violenza ove di fatto venisse opposta al depositario della pubblica autorità “agissant légalement dans l’ordre de ses fonctions” (parte II, tit. I, sez. 4, art. 1), e alla Costituzione francese del 1793 (cfr. nota n. 2). In merito cfr. anche Vinciguerra S., cit., p. 128.
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mandato speciale della medesima; il c.p. del 1853 nulla disponeva sulla reazione agli arbitrii,
disciplinando, però, la legittima difesa con molta ampiezza nell’art. 43).
La questione concernente l’inserimento all’interno del codice penale di una disposizione specifica
fu ampiamente dibattuta e non fu facile né immediato pervenire alla soluzione successivamente
accolta. Benché, già all'epoca, non mancassero voci critiche in ordine a tali previsioni normative per
il rischio di indebolimento del prestigio e dell'efficacia dell'azione amministrativa, la dottrina più
autorevole riteneva che le stesse avessero un valore irrinunciabile818. Il principio, infatti, risultava
compiutamente elaborato e condiviso dalla dottrina precedente, nonchè legato alle tradizioni
politiche e giuridiche del Paese819. Come ebbe a scrivere il Pessina: “Il prestigio dell'autorità nel
civile consorzio altro non può essere o rappresentare che il rispetto che tutti i cittadini, e in
particolare i depositari dei pubblici poteri, debbono avere per la legge”. Analogamente, secondo il
Borciani: “Contestare la non punibilità della reazione legittima agli atti arbitrari dei pubblici
ufficiali non porta a conservare ma a distruggere il rispetto che l'autorità deve trarre, non dalla
divisa che porta, ma dalla legge che rappresenta”.
In sede di lavori preparatori820 si discusse a lungo se adottare la formula utilizzata da alcune
legislazioni straniere (ispirate al codice penale francese del 1791821 e ad altri codici, tra cui, innanzi
tutto, quello germanico del 1872), inserendo nella fattispecie del reato di resistenza il requisito della
legittimità del comportamento del pubblico ufficiale – così come proposto anche dalla commissione
Mancini del 1876822 - oppure seguire un diverso sistema prevedendo separatamente un’apposita
scriminante. Alla fine prevalse la seconda opzione, proposta del Pessina823, perché non si volle
correre il rischio di attribuire al privato un diritto di sindacato sulla legittimità degli atti della
818 Morra M., Reazione legittima al pubblico ufficiale. Ai confini della causa di non punibilità, in D&G, 2006, 42, p. 77. 819 Longhi s., La legittimità della resistenza agli atti dell’autorità nel diritto penale, Milano s.d. (ma 1908), p. 93; De Simone, Nozione degli atti arbitrari preveduti negli art. 192 e 199, in Riv. pen., 1904-1905, suppl. 77. Per l’analisi storica dei flussi di pensiero che conducono all’elaborazione della dottrina della resistenza ad atti illegittimi dell’autorità, cfr. altresì Verhaegen, La protection pénale contre les Excés de Pouvoir et la Résistance légitime à l’Autorité, Bruxelles, 1969, 173 ss. Per una puntualizzazione sul rapporto contro il tiranno e la fattispecie di non punibilità dell’art. 4 d.lg.lt. n.288, cit., Cassandro, Resistenza (Diritto di), in Nss.D.I., XV 1968, 608 820 Sui lavori preparatori si rinvia a Crivellari, Il codice penale per il Regno d’Italia, VI, 1895, p. 191. 821 Code pénal, 6 octobre 1791, Quatrième Section du Titre Premier, Article Premier “Lorsqu’un ou plusieurs agens préposés, soit à l’exécution d’une loi, soit à la perception d’une contribution légalement étabilie, soit à l’exécution d’un jugement, mandat, d’une ordonnance de justice ou de police; lorsque tout dépositaire quelconque de la force publique, agissant légalement dans l’ordre de ses fonctions, aura prononcé cette formule Obéissance à la loi; Quiconque opposera des violences & voies de fait, sera coupable du crime d’offense à la loi, & sera puni de la peine de deux années de détention.”, in Collection Générale del Loix, Tome Sixième, Paris, M.DCC.XCII. 822 Il progetto Mancini del 1876 aveva proposto che nella stessa definizione dei reati di violenza e di oltraggio a p.u. fosse precisato che questi dovevano trovarsi “nell’esercizio legittimo delle loro funzioni”. Sul punto Pezzi-Petrei A., cit., p. 410. 823 La formulazione finale dell’istituto, visto all’epoca come la codificazione del diritto di resistenza (oggi parleremo di autotutela) fu opera, infatti, di E. Pessina.
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pubblica amministrazione. Inizialmente fu inserita nell’art 184 del progetto Zanardelli del 1887824,
per poi passare, sostanzialmente immutata, negli articoli 192 e 199 del codice penale del 1889825.
Quest’ultimo prevedeva la reazione legittima agli atti arbitrari negli stessi termini attuali, con
l’unica differenza, di essere contemplata in due distinti articoli, 192 e 199 c.p. I predetti articoli
stabilivano che le disposizioni relative alla violenza, minaccia, resistenza a p.u. e all’oltraggio non
trova applicazione quando il p.u. aveva dato causa al fatto eccedendo con atti arbitrari i limiti delle
sue attribuzioni826. Ai sensi dell’art. 192 “Quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto,
eccedendo, con atti arbitrari827, non si applicano le disposizioni degli articoli precedenti” ovvero
violenza o minaccia al pubblico ufficiale o ad un corpo giudiziario, politico o amministrativo e
resistenza a pubblico ufficiale”, mentre ai sensi dell’art. 199 “Le disposizioni contenute negli
articoli precedenti non si applicano quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto
eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni” ovvero oltraggio a pubblico ufficiale o ad
un corpo giudiziario, politico o amministrativo828.
La disposizione de qua in seguito fu abolita dal codice Rocco829, che, emanato sotto il regime
fascista, si ispirava a criteri di maggiore autoritarismo e prospettava una sovraordinazione degli
interessi pubblici rispetto a quelli privati. L’espunzione, inoltre, garantiva una più penetrante tutela
824 L’articolo proposto dal Pessina, così recitava “Le disposizioni contenute nel presente capo non sono applicabili nel caso in cui il pubblico ufficiale o la persona legittimamente incaricata di un pubblico servizio sia uscita, con atti arbitrari, dalla cerchia delle sue legittime attribuzioni”, in Morselli, cit., pag. 23, nota 16. 825 Nel codice Zanardelli era anche punito all’art. 152 un delitto di atti arbitrari “il pubblico ufficiale incaricato della custodia e del trasporto di una persona arrestata o condannata, o rivestito, per ragione d’ufficio, di una qualsiasi autorità rispetto alla persona medesima, il quale commette contro di essa atti arbitrari, od usa rigori non consentiti dai regolamenti, è punito con la detenzione da uno a trenta mesi”. 826 Le due norme, riconoscendo il diritto di resistenza all’ordine ingiusto, erano espressione di un ordinamento giuridico di tipo liberal-democratico e la loro previsione era indicativa, altresì, dello specifico modo di concepire il rapporto autorità-cittadino, agli effetti del diritto penale. In tal senso Grosso. C., La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, in Codice penale, Parte speciale, coordinato da Zagrebelsky V., Utet, Torino, 1984, p. 296. Nella Relazione Ministeriale sui libri secondo e terzo del progetto di c.p. presentato alla Camera dei Deputati da S.E. il Ministro di Grazie e di Giustizia dei Culti (Zanardelli) del 22 novembre 1887, 1888, p. 75, si affermava che “l’obbedienza passiva …. Non potè trionfare se non sotto il regime di governo dispotici come ai tempi dell’Impero napoleonico e durante il predominio della reazione del 1815. Essa, infatti, non è degna di un reggimento rappresentativo e di un popolo libero, per il quale non devono essere illusorie le garanzie accordate alle persone dalle Carte costituzionali … non potendo imporsi al cittadino di subire impassibile la violazione flagrante de’ propri diritti soltanto perché colui che li viola è un pubblico funzionario, per ottenere una reintegrazione del diritto la quale giungerebbe quasi sempre troppo tardi. La legge accorda protezione alla funzione, non al funzionario, e quando questi, esercitando le sue funzioni, trascenda a fatti i quali provochino l’altrui reazione, l’offesa che ne possa derivare non deve essere più considerata come fatta ad una persona investita di pubblica autorità: autorità che il provocatore non può arrogarsi di rappresentare con il suo atto arbitrario”. 827 In merito al requisito dell’arbitrairetà Pezzi-Petrei A., cit., p. 414, ricorda che la relativa nozione non era pacifica neanche sotto la vigenza del codice Zanardelli. 828 Pezzi-Petrei A., cit., p. 414. 829 Il codice Rocco, infatti, faceva del rispetto e dell’obbedienza incondizionata ai pubblici poteri uno dei cardini della sua ideologia.
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dell'azione pubblica, anche mediante una rafforzata protezione della dignità dei pubblici
funzionari830.
Nella Relazione del guardasigilli al codice Rocco, si precisò l'effettiva portata di tale eliminazione,
ricondotta principalmente a due motivazioni: da un lato si riteneva necessario impedire che dinanzi
a degli illeciti già consumati il privato potesse essere indotto a farsi giustizia da sé, anziché ricorrere
alle forme di tutela previste dalla legge831; dall’altro si reputava sufficiente a tutelare i diritti
soggettivi del privato contro eventuali abusi dei pubblici funzionari il principio del moderamen
inculpatae tutelae, contemplato dall'art. 52 c.p.832. In realtà la tutela predisposta dal predetto art. 52
c.p. era ed è più limitata di quella offerta dagli art. 192 e 199 del codice Zanardelli (e,
successivamente, dall’art. 4 d.lgs.lgt. n. 288/1944 e dall’art. 393 bis c.p.) ed era, pertanto, ritenuta
idonea allo scopo833.
Nella Relazione, inoltre, si prendeva posizione sulla necessità dell’inserimento dell’esimente
asserendo che in realtà “si è fatto da molti una questione politica, ove è solo questione giuridica”834.
In merito, però, si è obiettato che quella riportata nella Relazione fosse solo una doglianza “di
facciata” dietro la quale traspariva la propensione della dottrina politica fascista a garantire, anche
quando non ne era il caso, comunque l’autorità pubblica835.
È significativo, però, che nonostante il mancato inserimento all’interno del c.p. delle disposizioni
contenute art. 192 e 199 del codice Zanardelli la dottrina e la giurisprudenza non solo non hanno
mai negato il principio della legittimità della reazione, ma hanno, altresì, continuato a ritenere
830 Morra M., cit., p. 77. 831 Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo di un nuovo codice penale, cit., pag. 143, secondo la quale “il rispetto del principio di legalità giustifica la norma generale che nello Stato giuridicamente ordinato a nessuno deve essere lecito farsi giustizia da sé…se se questa norma ha valore tra privati cittadini, non si comprende perché debba cessare quando il rapporto corre tra cittadino e pubblica amministrazione”. 832 Si legge, infatti, nella Relazione ministeriale del ministro guardasigilli Rocco che “è perfettamente logico e giuridico che, come contro gli abusi del cittadino che violi gli altrui diritti si ricorra alla tutela offerta dalla legge, lo stesso abbia a farsi contro gli abusi dei pubblici funzionari, e che i presupposti di fatto e di diritto che possono consentire la legittimità della sostituzione dell'attività privata all'attività pubblica per la difesa del diritto minacciato dall'altrui arbitrio, sono identici in entrambi i casi”. Sul punto Pezzi-Petrei A., cit., p. 410. La Cassazione applicò in diversi casi la legittima difesa al reato di oltraggio. Così ad esempio: Cass. pen., sez. III, ud. 30 marzo 1939, in Giust. pen., 1941, II, col. 984, m. 1363; Cass., ud. 10 gennaio 1939, in Giust. pen., 1939, II, col. 505, m.548; Cass. pen., ud. 16 giugno 1936, in Giust. pen., 1937, II, col. 30. 833 Sul punto Gallo E., Una definizione degli «atti arbitrari» del p.u. che convince, pur aprendo a riflessioni perplesse, in Giur. cost., 1998, 2, p. 1106, il quale osserva che la reazione verbale emotiva - ad esempio - se viene dopo, non può inquadrarsi nella legittima difesa che, al più (con qualche aggiustamento) può adattarsi alle vie di fatto delle altre fattispecie; Pezzi-Petrei A., cit., p. 410. La Cassazione ha ripetutamente sancito, al riguardo, che la scriminante degli atti arbitrari del pubblico ufficiale ha un carattere più ampio della legittima difesa. cfr. Cass. pen., sez. III, ud. 9 giugno 1949, in Arch. pen., 1949, II, p. 384; Cass. pen., sez. III, ud.14 febbraio 1950, in Giust. pen., 1951, II, col. 642, m. 505. 834 Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo di un nuovo codice penale, cit., pag. 143. 835 In questo senso Vinciguerra S., cit., p. 127, secondo il quale la neutralità del diritto rispetto alla politica patrocinata dall’indirizzo tecnico giuridico immanente alla sopra esposta doglianza dei compilatori del codice Rocco è un’illusione. Per l’Autore “ogni ordinamento esprime principi d’indirizzo politico che è bene non perdere di vista e che sono il punto di partenza di ogni interpretazione, anche quando l’adattabilità della norma, consentita dal linguaggio adoperato, permette di coglierne la sintonia con un differente quadro politico”. La doglianza traeva spunto dalla correlazione dell’istituto con i principi del liberalismo politico dichiarati esplicitamente dai compilatori del codice Zanardelli.
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scriminati i fatti di resistenza o reazione agli atti arbitrari dei p.u. in applicazione del principio,
ricavato in via interpretativa, secondo il quale i reati di cui agli artt. 336-341 c.p. non si configurano
se il p.u. agisce al di fuori della legalità. In tal modo si ravvisava nell’esercizio legittimo delle
funzioni il limite esegetico alle summenzionate norme836.
Caduto il fascismo il legislatore, prima ancora della instaurazione del sistema repubblicano, avvertì
l’esigenza di reintrodurre in modo espresso nel sistema penale, con l’art. 4 del D.lgs.
luogotenenziale 14/09/1944 n. 288837, il principio fissato nel codice Zanardelli, nell’intento di
riaffermare “le nostre tradizioni giuridiche le quali intesero sempre di garantire la pubblica
autorità nell’esercizio dei suoi poteri, ma solo quando essa agisce nei limiti stabiliti dalla legge, in
cui trovano la loro misura i diritti ed i doveri d’ogni cittadino”838. La disposizione dell’art. 4
d.lgs.lgt. n. 288/1944 riproduceva integralmente il disposto degli artt. 192 e 199 del codice
Zanardelli, salvo qualche variante di ordine testuale riferita al novero degli agenti pubblici in
considerazione – oltre i pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio ed i pubblici
impiegati. Il predetto reinserimento ha costituito uno dei primissimi innesti nel codice Rocco ad
opera della legislazione democratica, quale segno della riconquistata libertà politica839. La
legislazione fascista, infatti, aveva alterato profondamente l’equilibrio dei rapporti tra i principi di
autorità e di libertà a favore dell’ordine precostituito840.
La ragione della novella non è solo di carattere giuridico, cioè dovuta alla necessità di risolvere gli
inconvenienti dovuti alla carenza di una regolamentazione espressa nel Codice Rocco, ma anche, e
soprattutto, politico-legislativo, ovvero di sottolineare il mutamento di rapporti tra cittadino e
Stato841, onde garantire e salvaguardare i diritti inviolabili di libertà del primo842.
836 In merito Pezzi-Petrei A., cit., p. 411 la quale ricorda la sentenza della Cassazione secondo la quale “la protezione accordata dalla legge (art. 341 c.p.) al pubblico ufficiale è dovuta alla necessità di tutelare il rispetto che la funzione pubblica impone e che si estende a tutti coloro che tale funzione rivestono. Ma il pubblico ufficiale che abbandoni i limiti dalla dignità della pubblica funzione imposti, e, dimentico dell’austerità che la sua qualifica gli conferisce, trascenda con parole ed atti, si spoglia della pubblica funzione e assume esclusivamente una responsabilità personale. Cosicchè, allorquando il pubblico ufficiale volontariamente decampa dall’ambito della sua funzione e prescindendo da questo, assuma atteggiamento e condizione di parità rispetto al privato, usando mezzi o parole da cui esuli la estrinsecazione del potere e della volontà sovrana esercitati come organo dell’ente pubblico, la reazione che a tale esorbitante atteggiamento si rivolge da parte del privato, non ricade sotto la sanzione della legge penale che tutela il decoro della pubblica amministrazione nei suoi rappresentanti, ma rientra nell’ordine dei rapporti privati” (Cass. pen., ud. 16 gennaio 1941, in Giust. pen., 1941, II, co. 984, m. 1364). 837 La norma, facente parte dei “Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale”, pubblicata nella Gazz. Uff., serie speciale, del 9 novembre 1944, n. 79, entrò in vigore “nel giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno”, limitatamente – si intende – alla parte dell’Italia liberata. 838 Archivio Centrale dello Stato, Verbali del Consiglio dei Ministri , Luglio 1943 – Maggio 1948, a cura di Ricci A. G., vol. III, Governo Bonomi, pag. 198 e segg. 839 G. Fiandaca -E. Musco, cit., p. 304. 840 Fiandaca G. - Musco E., cit., p. 304. 841 In merito Pezzi-Petrei A., cit., p. 411. 842 Pitton D., Provocazione e delitto d'oltraggio: applicabilità delle disposizioni sulla legittima reazione del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, in Cass. pen. 1999, p. 1; Cfr. anche Ardizzone S., voce Reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, in Enc. dir., vol. XXXIX, Giuffrè, 1988, p. 2, il quale riconosce come la norma in
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Il recupero del diritto di resistenza si è, però, realizzato all’interno di una realtà costituzionale
diversa da quella vigente all’epoca dello Statuto Albertino e ciò ha reso necessario una rilettura in
chiave costituzionale della disposizione.
Una corretta interpretazione843 della norma non può prescindere da una serie di nuovi principi
enunciati nel nostro ordinamento dalla Costituzione repubblicana, quali quello della sovranità
popolare, che porta necessariamente a riconoscere al singolo cittadino il diritto di controllare e
sindacare non solo le scelte politiche di fondo degli organi di potere, ma anche l'agire quotidiano dei
rappresentanti della p.a., onde assicurare che venga rispettato il principio su cui poggia un
ordinamento democratico e cioè che lo Stato si pone in funzione del cittadino e non viceversa844; il
principio personalista dell’art. articolo 2 della Costituzione, che contiene il riconoscimento dei
diritti e degli interessi dell'individuo come singolo, oltre che nelle formazioni sociali; il principio di
uguaglianza, (articolo 3 della Costituzione), secondo il quale a fronte di situazioni analoghe devono
corrispondere analoghe conseguenze845; quello di buon andamento e di imparzialità della pubblica
amministrazione (articolo 97 della Costituzione); di legalità dell'azione amministrativa (desumibile
dal secondo comma dell'articolo 1 della Costituzione); ed, infine, quello della responsabilità diretta
dei pubblici dipendenti e funzionari (articolo 28 della Costituzione) 846. Quest’ultimo, in particolar
modo si collega in modo logico al citato art. 4, nel senso che, ove questi ponga in essere un atto
questione, reintroducendo il principio della resistenza legittima, consenta il superamento dell'obbedienza passiva nei confronti degli atti della pubblica autorità ed esprima, altresì, una nuova e diversa presa di posizione rispetto al rapporto individuo/autorità. 843 Pitton D., cit., p. 2. 844 Cfr. S. Ardizzone, cit., p. 2, il quale riconosce come la norma in questione, reintroducendo il principio della resistenza legittima, consenta il superamento dell'obbedienza passiva nei confronti degli atti della pubblica autorità ed esprima, altresì, una nuova e diversa presa di posizione rispetto al rapporto individuo/autorità. Questa lettura della norma alla luce dei principi costituzionale è propugnata da una larga parte della dottrina, secondo cui il diritto di resistenza va inquadrato in una “realtà costituzionale profondamente caratterizzata dal principio personalista (art. 2 Cost.), dal principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), dal principio di responsabilità diretta a carico dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti (art. 28 Cost), nonché dal principio di buon andamento ed imparzialità (art. 97 Cost.): una realtà costituzionale nella quale la posizione dei funzionari e dei dipendenti pubblici è equiparata a quella dei privati”. In senso conforme, Amati E., cit., p. 187; Fiandaca G. - Musco E., cit., p. 304 e ss.; Siracusano P., Reazione ad atto arbitrario di pubblico ufficiale ed arbitrarietà putativa, in Riv.it.dir.proc.pen., 1973, p. 936-937 e Amendola G., Atto arbitrario del pubblico ufficiale e legittima reazione del cittadino, in Giur. merito, 1972, II, p. 173, per il quale in base a questa nuova impostazione “deve senz'altro riconoscersi che la proclamazione costituzionale dei diritti di libertà individuali (art. 2) fa sorgere dei diritti soggettivi pubblici e, quindi risolve in senso favorevole al cittadino l'antitesi autorità-libertà”. 845 Secondo Amati E., cit., p. 187, gli artt. 1 e 2 della Cost., oltre ad esprimere una concezione di tipo democratico-liberale che considera l’individuo contrapposto all’onnipotenza dello Stato, s’informano anche ad una concezione democratico sociale caratterizzata dalla tutela dei diritti umani e della persona di fronte all’arbitraria invadenza degli organi statuali. Oltre a delineare un rapporto individuo-autorità, antitetico alla completa sudditanza, si pone la persona al vertice dei valori riconosciuti dall’ordinamento giuridico sia nella sua dimensione individuale che in quella sociale. Tutto ciò può essere espresso nel principio per cui “è lo Stato per la persona e non la persona per lo Stato”. 846 Morra M., cit., p. 77 e ss. In questo senso anche Fiandaca G., Musco E., cit., p. 304, i quali osservano che il recupero del diritto di resistenza è stato realizzato all’interno di una realtà costituzionale molto diversa da quella dello Statuto Albertino; Ramajoli, cit., p. 24.
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arbitrario o illegale, perde la tutela garantitagli dall'ordinamento e soggiace alla reazione lecita da
parte del cittadino.
È apparsa, pertanto, necessitata una reinterpretazione atta a salvaguardare l’operatività del disposto
e renderlo norma operante in un mutato contesto politico-sociale, oltre che giuridico.
Alla luce dei sopravvenuti principi costituzionali, che prevedono che la posizione di dipendenti
pubblici sia equiparata a quella dei privati, la disposizione è stata inquadrata tra le fattispecie poste
a salvaguardia del diritto di ogni individuo di non dover subire passivamente una sopraffazione e ai
fini della tutela del diritto di ciascuno alla propria libertà morale.
Intorno agli anni Sessanta in dottrina, pur condividendo il principio847, sono state dibattute, invece,
le sue modalità di previsione, specificamente in relazione all'opportunità di mantenere una
autonoma disposizione scriminante, quale l'art. 4 del D. lgs.lgt. n. 288 (e già degli art. 192 e 199 del
codice Zanardelli), ovvero di inserire l'elemento della legittimità dell'azione pubblica quale
requisito tipico delle singole fattispecie di reato (resistenza, violenza e oltraggio), che non
risulterebbero integrate in caso di atti arbitrari848. In tale ultima ipotesi la non punibilità della
reazione discenderebbe dal difetto di uno dei requisiti di tipicità delle fattispecie applicabili, così
come era disposto nel vecchio testo del § 113 StGB della Repubblica federale di Germania849.
Il problema si poneva perché pur apprezzandosi i vantaggi850 della disposizione autonoma erano
state evidenziate alcune difficoltà esegetiche851. In primo luogo, la necessità di qualificare la
847 Non è un caso che il principio si presenti in stabile previsione, pur con talune modifiche di ordine formale, fino al progetto di riforma organica del codice penale italiano (art. 344 bis del disegno di legge del 1968): disegno di legge presentato dall’On. Gonella, recante il titolo “Riforma del Codice penale” comunicato alla Presidenza del Senato il 10 dicembre 1968 il cui testo è pubblicato in Riv. it. dir. Pen., 1969, p. 303 848 Su tale problematica cfr. Rampioni R., Reazione, cit., 352 e seg.; Ardizzone, Reazione, cit., 1 e ss. e la bibliografia ivi segnalata. 849 Il vecchio testo del § 113 così disponeva: “Wer einem Beamten, welcher zur Vollstreckung von Gesetzen, von Befehelen und Anordnungen der Verwaltugbehorden odre von Urteilen undVerfugungen der Gerichte berufen ist,in der rechtmassigen Ausubung seines Amtes Gewalt oder durch Bedrohung mit Gewalt Widerstand leistet, oder wer einen solchem Beamten wahrend der rechtmassigen Ausubung seines Amtes tatlich angreift, wird “ Con la legge di riforma entrata in vigore dal 1 gennaio 1975, il testo del § 113 è stato modificato, prevedendosi l’inapplicabilità della norma incriminatrice nel caso che l’attività di servizio sia nicht rechtsmassing (§ 113 comma 3). 850 Morselli, cit., p 95 e ss., secondo il quale i vantaggi erano identificati nell’esplicitazione della non punibilità in ordine al limite delle fattispecie di violenza, resistenza e oltraggio, consistente nell’attività legittima del pubblico agente ed nel superamento del dubbio che tale limite dovesse rientrare nell’oggetto del dolo del resistente. 851 In merito Ardizzone, Reazione, cit., 2 osserva che tali difficoltà avevano portato a ritenere la tecnica legislativa utilizzata per il vecchio testo del § 113 StGB, espressione dell’idea che il principio della resistenza legittima rappresenti un limite esegetico delle disposizioni incriminatici della resistenza contro pubblici agenti. Sempre secondo l’autore i pericoli esegetici lamentati si sono rivelati “frutto di apriorismi dogmatici circa l’apprezzamento dei requisiti di fattispecie, dovuti all’immotivata considerazione che in ogni caso la non punibilità discenderebbe dalle stesse norme incriminatici inapplicabili piuttosto che dalla disposizione che pone il principio della resistenza legittima”. L’autore la definisce “una posizione ermeneutica davvero singolare che deriva un elemento della fattispecie, pur se negativo, da una disposizione diversa da quello che lo costituisce. La natura di elemento della fattispecie di violenza, resistenza e oltraggio all’elemento dell’attività illegittima e arbitraria di pubblici agenti è possibile attribuire solo in forza della disposizione che fa discendere la non punibilità nel caso in cui esso fosse presente. Nel valutare ulteriormente la critica esposta non si può fare a meno di ricordare che il nuovo testo del § 113 StGB si è allontanato dalla tecnica legislativa di cui era anticamente espressione e si è accostato decisamente al modulo di previsione della disposizione autonoma.
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fattispecie come causa di giustificazione o causa di esclusione del reato, da cui discendeva la
possibile operatività, o meno, dell’art. 59 c.p. nel caso di supposizione erronea dell’arbitrarietà.
Inoltre, si è osservato che avrebbe potuto sorgere la tentazione di attribuire al requisito
dell’arbitrarietà dell’atto compiuto dall’agente pubblico un significato di mala fede, anche questo
contro l’asserita valenza oggettiva del requisito.
Il legislatore, però, non ha deciso di mutare la tecnica legislativa utilizzata, neanche in occasione
dell’intervento normativo del 2009.
A prescindere dalle disquisizioni sulle modalità tecniche di previsione del principio, il fondamento
giuridico dell’ex art. 4 del D.lgs.lgt. n. 288/1944, ora art. 393 bis c.p., è stato da sempre individuato
nella duplice esigenza di garantire da un lato “la libertà dei privati contro gli eccessi dei
funzionari”852, dall’altro il corretto funzionamento degli organi dello Stato. In uno Stato moderno,
ordinato giuridicamente, deve essere tutelato sia il principio di autorità, sia quello di legalità. Ciò
comporta che la legge deve reprimere sia gli “attentati all’Autorità”, che costituiscono reato solo se
l’autorità stessa si esplica legittimamente, sia gli abusi che di questa facciano i suoi
rappresentanti853.
Si ritiene irrinunciabile, infatti, la necessità di garantire la libertà dei privati contro gli eccessi dei
funzionari in base alla considerazione che sarebbe iniquo ed ingiusto punire comportamenti che
rappresentano una naturale reazione psicologica a gravi scorrettezze commesse da chi, per la
posizione che occupa, più di ogni altro sarebbe tenuto al rispetto della legge854.
In particolare si è detto che tenendo conto del rinnovato contesto costituzionale la ratio non deve
essere ravvisata nell’esigenza di garantire interessi materiali di volta in volta sottesi alla situazione
Al comma 3 si dispone “Die Tat ist nicht nach diesel Vorschrift strafbar, wenn die Diensthandlung nicht rechtsmassing ist. Dies gilt auch dann, wenn der Tater irrig annimt, die Diensthandlung sei rechtsmassing”. I ritenuti effetti negative dell’interpretazione soggettiva dell’arbitrarietà, anche nella dimensione del putative, sono egualmente tenuti in considerazione, ora, nel nuovo testo del § 113 StGB. Infatti, si prevede la non punibilità del resistente qualora egli sia in errore inevitabile circa la legittimità dell’atto o si tratti di un livello minimo di colpevolezza; nel caso di errore di fatto evitabile, la pena è diminuita (§ 113 comma 4). Proprio partendo dalla decisione presa dal legislatore tedesco di allontanarsi dalla tecnica legislativa alla quale voleva approdare una certa corrente penalistica italiana, si ha una conferma della validità del modulo di previsione del principio di resistenza legittima agli atti arbitrari di pubblici agenti in una disposizione autonoma con efficacia di non punibilità. Nulla toglie alla possibilità di ricorrere ad altre tecniche legislative”. 852 Antolisei F., cit., p. 429. 853 Manzini V., cit., p. 399 (431) 854 Antolisei F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, cit., p. 429. Manzini V., cit., p. 399 e ss. La sua ratio è stata ravvisata, da autorevole dottrina, nella necessità di garantire la libertà dei privati contro gli eccessi dei funzionari; essa, altresì, si fonda sulla considerazione che sarebbe iniquo punire comportamenti che rappresentano una naturale reazione psicologica a gravi scorrettezze commesse proprio da chi, per la posizione che occupa, più di ogni altro sarebbe tenuto al rispetto della legge. In questo senso in giurisprudenza cfr. Cass. pen., sez. VI, 11 novembre 1974, Corano, in Giust. Pen., 1975, II, p. 613; Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2006, n. 2263, in D&G, Diritto e Giustizia, 2006, 9, p. 47, con annotazione di Corbetta S., Reazione legittima ad atto arbitrario del pubblico ufficiale, in Dir. pen. proc., 2006, P. 4, p. 452 secondo la quale l’istituto della reazione legittima all'atto arbitrario del pubblico ufficiale, si ispira alla tutela della libertà morale del cittadino, ossia al riconoscimento della sua reazione psicologica a fronte di una sopraffazione, che ha il diritto di non subire passivamente.
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di conflitto, ma nell’esigenza di tener conto della posizione psicologica del privato che si ritiene
vittima di una pubblica prevaricazione (di fronte agli atti arbitrari dei pubblici poteri) 855 e quindi
nel riconoscere il suo diritto a non doverla subire passivamente, tutela che rientra in quella, più
generale, dei diritti della personalità ed, in particolar modo, del diritto alla libertà morale856. Alla
luce della Costituzione si ritiene che il fondamento costituzionale dell’istituto de quo debba essere
ricondotto all’art. 2 Cost. che consacra i diritti fondamentali della persona857. Di conseguenza la
ratio prevalente e determinante consiste nella tutela dei diritti della personalità e, più precisamente,
del diritto di libertà morale858.
Altra dottrina859, invece, ha ravvisato la ratio non tanto nella prevalenza del principio di libertà su
quello di autorità, quanto nell’esigenza del ripristino di un riequilibrio del loro rapporto che è stato
interrotto dall’invadenza del pubblico ufficiale nella sfera privata del cittadino: il fondamento della
norma consisterebbe, quindi, nel riconoscere una causa di giustificazione della reazione del privato,
riconoscimento originato dalla necessità di ricostituire, a seguito dell’atto arbitrario del pubblico
ufficiale, il rapporto Stato-individuo sulla base del reciproco contemperamento delle rispettive aree
di competenze sociali e giuridiche.
LA SOPPRESSIONE DELL’ART. 4 DEL D.LGS.LGT. N. 288/1944 AD OPERA DELL’ART. 2 DEL D.L. N. 200/2008, IL SUCCESSIVO INTERVENTO DELLA LEGGE N. 9/2009 E LA DEFINITIVA COLLOCAZIONE NEL CODICE AD OPERA DELL’ART. ART. 1, COMMI 9 E 10, LEGGE N. 94/2009
Recentemente il Governo è intervenuto in materia di semplificazione normativa disponendo con il
D.L. n. 200 del 22 dicembre 2008 (c.d. decreto “tagli leggi”) l’abrogazione di una pluralità di leggi
indicate nell’Allegato 1 al predetto provvedimento, tra le quali, quella che prevedeva la legittima
reazione (provvedimento n. 25749)860.
855 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 230; Rampioni R., cit., p. 359. 856 Morselli E., cit., p. 105. In questa linea altra dottrina ha ravvisato la ratio dell’istituto nell’esigenza di tener conto della posizione psicologica del privato che si ritenga vittima di una pubblica prevaricazione e quindi nel riconoscere il suo diritto a non doverla subire passivamente; in definitiva, quindi, la ratio consiste nella tutela dei diritti della personalità, segnatamente nella tutela del diritto alla libertà morale, diritti della personalità il cui fondamento costituzionale è riconducibile all’art. 2 Cost. 857 Ramajoli S., cit., p. 24. 858 Rampioni R., cit., p. 353. 859 Vairo G., La ratio della reazione legittima all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, Riv. Polizia, 1986, p. 38 e ss. 860 Il D.L. n. 200 del 22 dicembre 2008 recante “Misure urgenti in materia di semplificazione normativa”, pubblicato in Gazz. Uff. n. 298 del 22/12/2008, Suppl. ord. 282/L, all’art. 2 abrogava circa 28889 atti legislativi elencati nell’Allegato 1, tutti emanati tra il 21 aprile 1861 e il 31 dicembre 1847 e risalenti, pertanto, al periodo antecedente all’entrata in vigore della Costituzione. Si tratta di norme solo formalmente vigenti o implicitamente abrogate da testi normativi di emanazione successiva. In merito cfr. Gatta. G.L., cit., p. 176.
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L’intervento normativo de quo ha suscitato alcune perplessità: in primo luogo perchè, sotto il
profilo costituzionalistico, non sono sembrate sussistere le straordinarie ragioni di necessità ed
urgenza esplicitamente richieste dall’art. 77 della Costituzione861 e perché, in contrasto con le
predette imprescindibili motivazioni, l’art. 2 del summenzionato decreto differiva l’efficacia
dell’abrogazione per il periodo di sessanta giorni, lo stesso necessario alla conversione del decreto
in legge.
In particolare l’art. 4 del D.lgs.lgt. n. 288/1944 non presentava le caratteristiche richieste dal
summenzionato “decreto taglia leggi” per procedere alla sua eliminazione, ovvero la sua
desuetudine nonché l’estraneità ai principi dell’ordinamento giuridico attuale, essendo non solo
oggetto di corrente e concreta applicazione da parte dei giudici di merito, ma anche di recenti
pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale.
La cancellazione della predetta norma avrebbe comportato una falla nel sistema penale che non
poteva essere colmata attraverso il ricorso ad altre disposizioni dell’ordinamento e avrebbe, altresì,
prodotto un arretramento del nostro sistema giuridico, inammissibile in un Paese che si fonda sui
principi dello Stato di diritto, perché avrebbe privato il cittadino di una specifica garanzia della
libertà morale: quella al riconoscimento della libertà di reagire a fronte di una sopraffazione posta in
essere da parte di chi si trovi in una posizione di superiorità
Accogliendo le osservazioni critiche manifestate a seguito della summenzionata cancellazione, il
legislatore, con la legge di conversione del 18 febbraio 2009 n. 9862, ha espunto dall’Allegato 1 il
riferimento al D.lgs.lgt. n. 288/1944.
Non si sono posti problemi di diritto intertemporale in merito alla vigenza e all’applicabilità
dell’art. 4 del D.lgs.lgt. n. 288/1944, perchè l’art. 2 del D.L. 200/08 al primo comma disponeva che
“A decorrere dal sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto,
sono abrogate le disposizioni elencate nell'Allegato 1”.
Successivamente l’art. 1, commi 9 e 10, legge n. 94/2009863 ha formalmente abrogato l’art. 4 del
D.lgs.lgt. n. 288/1944 e reintrodotto la disposizione, con formulazione immutata, all’art. 393 bis
c.p.
La ratio864 dell’art. 393 bis c.p. sembra la stessa, e la nuova collocazione pare opportuna, in ragione
del fatto che più volte era stato sollecitata dalla dottrina e già contemplata da tutti i progetti di
riforma della legge penale fondamentale succedutisi negli ultimi anni865.
861 Cfr. Gatta. G.L., cit., p. 176. 862 La legge n. 9 del 18 febbraio 2009 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200, recante misure urgenti in materia di semplificazione normativa” è stata pubblicata in Gazz. Uff., suppl. ord., n. 42 del 20 febbraio 2009. 863 La legge 5 luglio 2009, n. 94 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, pubblicata nella Gazz. Uff. n. 170 del 24 luglio 2009 - Supplemento ordinario n. 128.
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La disposizione di nuovo conio, in effetti, riproduce interamente quella abrogata, salvo due lievi
modifiche, la prima, di aggiornamento, sostituisce il riferimento all’art. 341 con quello all’art. 341
bis, la seconda, stilistica, modifica la congiunzione “o” con quella “ovvero” nella parte del testo
normativo che estende la disposizione anche al fatto del pubblico impiegato866, e ribadisce con
enfasi, attraverso l’introduzione nel codice penale, i limiti della tutela rafforzata offerta al pubblico
ufficiale attraverso le incriminazioni di cui agli articoli 336, 337, 338, 339, 342, 343 e, per
l’appunto, 341 bis c.p.
Questa riproposizione del medesimo testo originariamente contenuto nell’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288
del 1944 da un lato consente di valorizzare i risultati interpretativi che avevano segnato
l’applicazione di quest’ultima disposizione e di considerarli validi anche per la formulazione di cui
all’art. 393 bis c.p., dall’altro, però, conferma gli interrogativi che hanno agitato dottrina e
giurisprudenza nel corso del tempo867. L’originalità dell’intervento legislativo non si apprezza nel
testo, ma nella nuova collocazione normativa della reazione agli atti arbitrari del p.u. intra codicem
e, precisamente a chiusura delle disposizioni relative alla “Tutela arbitraria delle private ragioni”,
Libro III, Titolo II, Capo III.
Come detto, la decisione di trasferire nel codice il contenuto dell’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288 del 1944
è stata accolta dai commentatori del Pacchetto sicurezza con favore, perché si è riconosciuto alla
novella il merito di aver fatto emergere dal “limbo sistematico del diritto penale accessorio” tale
istituto, avvicinandolo topograficamente alle disposizioni incriminatrici alle quali risulta
applicabile868.
864 Secondo Bontempelli S. “Pacchetto sicurezza e legislazione immigrazione,” in Editoriale Diritti Sociali, 2009, 6, p. 4, “questa era una norma introdotta nel decreto luogotenenziale del 1944, subito dopo la caduta del Fascismo; il Governo di allora con un decreto firmato dal luogotenente del regno introdusse questa norma che andava a mitigare i reati commessi dai pubblici ufficiali. Questi, fino al 1944 non trovavano limiti nella loro attività, invece con l’introduzione di questo articolo, il 4° del decreto legislativo 288/44, trovava un limite nel fatto di avere causato o potuto causare la reazione del cittadino, l’eccesso colposo o doloso del pubblico ufficiale nei confronti del cittadino. A quel punto vi era una causa di non punibilità del cittadino per aver reagito. Questo è stato uno dei passaggi successivi al Fascismo, una norma che ha avuto vicende storiche abbastanza travagliate, ma che non sempre veniva applicata dalla giustizia ordinaria, né sollevata dagli avvocati, per difficoltà di prova. Oggi, è importante che questa disposizione trovi posto accanto ai reati del codice penale e si dipinge certamente come una nota positiva nel generale quadro di disperazione del decreto legislativo”. 865 Pistorielli L. - Balsamo A., L. 2 luglio 2009, n. 94, recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”, 2009, p. 19 ss. 866 Martiello G., cit., p. 21. 867 Martiello G., cit., p. 21. 868 In merito Martiello G., cit., p. 22 e ss. ricorda che il d.lgs.lgt. n. 288 del 1944, significativamente intitolato “Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale”oltre ad affastellare in sé disposizioni relative ad ambiti eterogenei dell’universo penalistico, appariva “ad oggi quasi del tutto esangue quale autonomo corpus normativo, considerato che ad eccezione del richiamato art. 4 tutto il suo contenuto era da subito confluito nel codice penale ad emenda di specifiche disposizioni dello stesso”.
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La specifica scelta allocativa del legislatore, però, ha destato perplessità869. Sotto il profilo
applicativo non è possibile ravvisare delle modifiche che amplino o modifichino la portata, posto
che non risultano specifiche disposizioni applicabili esclusivamente a quelle del libro II, Titolo III,
capo II del c.p. Si è dedotto, pertanto, che l’iniziativa assunta dal legislatore è stata motivata
dall’intento di fornire all’istituto de quo un’ambientazione normativa più confacente. L’intervento
sembrerebbe ispirarsi alla logica della “mera somiglianza”870 tra la situazione considerata dall’art. 4
del d.lgs.lgt. n. 288 del 1944 e i fatti regolamentati dagli artt. 392 e 393 c.p.
Due sono stai i rilievi mossi al riguardo: in primo luogo è stato osservato che una disposizione
applicabile soltanto e specificamente a più norme che fanno parte di un medesimo nucleo normativo
(ad es. i delitti dei privati contro la pubbliche amministrazione) risultano solitamente collocate a
conclusione dello stesso. Tale opzione sistematica scaturisce dall’esigenza pratica, di non
trascurabile importanza, di evitare che l’operatore nell’applicare le norme incriminatrici, non
trascuri di considerare anche le disposizioni di completamento delle medesime (quali, ad es.,
disposizioni recanti definizioni legislative, condizioni di procedibilità, cause di non punibilità, ecc.).
Un esempio tra tutti è quello recato dal Titolo II, libro II del c.p., munito di un conclusivo capo III
dedicato alle “disposizioni comuni”871. Considerato che il nuovo art. 393 bis c.p. limita il campo di
azione degli artt. 336, 337, 338, 339, 341 bis, 342 e 343, tutti compresi nel Titolo II, poteva non
trascurarsi l’opzione d’inserire la norma di nuovo conio proprio tra le disposizioni di chiusura di
quest’ultimo, tanto più che l’istituto della reazione agli atti arbitrari del p.u. viene correttamente
considerato di stretta applicazione872.
In secondo luogo è stata criticata la natura puramente astratta della logica allocativa adottata dal
legislatore, che avrebbe sopravvalutato l’esistenza di generiche similitudini tra istituti873. Poiché la
disciplina della reazione legittima concerne atti che, pur nella loro specificità, costituiscono pur
sempre esercizio arbitrario di una posizione giuridica soggettiva, potrebbe desumersi che per il
legislatore la corretta collocazione fosse quella che segue le fattispecie incriminatrici dell’esercizio
arbitrario di facoltà derivanti da altre situazioni di vantaggio riconosciute dall’ordinamento.
869 Scandone G., cit., p. 481. 870 Martiello G., cit., p. 23. 871 Nel codice penale tedesco, ad es., un istituto analogo si trova disciplinato all’interno del reato di “widerstand gegen Voll Streckungbeamte” (Resitenza a p.u. che svolge funzioni esecutive) § 113, a sua volta collocato nella sezione VI dedicata alla “Resistenza all’autorità dello Stato” il cui terzo comma recita “Die Tat ist nicht dieser Vorschrift strafbar, wenn dei Diensthandlung nicth rectmabig ist. Dies gilt auch dann, wenn der Tater irrig annimmt, die Diensthandlung sei rectmabig” “Il fatto non è punibile ai sensi della presente disposizione quando l’atto dell’ufficio non è legittimo. Lo stesso vale quando l’autore ritiene erroneamente che l’atto dell’ufficio sia legittimo”. Cfr. AA.VV., Il codice penale tedesco, a cura di Vinciguerra S., II ed., Padova, 2003, p. 169. 872 In merito si rinvia alla Cass. pen., sez. I, 20 novembre 1968, Di Stefano, in Giur. it., 1971, II, p. 340 con nota di Palazzo F., Oltraggio, scriminante, cit., p. 347. In dottrina cfr. anche Venditti R., La reazione, cit., p. 157 e ss. 873 Martiello G., cit., p. 24.
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Tale accostamento, però, risulta approssimativo perché le condotte riportate agli artt. 391 e 392 c.p.
sono diverse sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello soggettivo dagli atti verso i quali la
reazione legittima ex art. 393 bis c.p. è diretta, così come il c.d. “diritto di resistenza”, sotteso a
quest’ultima, è cosa assai differente da un qualsiasi altro diritto, in particolare se di natura
patrimoniale, il cui esercizio possa integrare le fattispecie incriminatrici sopra menzionate.
IL DIBATTITO SULLA QUALIFICAZIONE GIURIDICA, ANCHE A SEGUITO DELLA REINTRODUZIONE DELL’OLTRAGGIO
L’aver riprodotto in forma identica quanto sancito dall’art. 4 del d.lgs. lgt. n. 288 del 1944 ha
comportato necessariamente il riproporsi di tutte le questioni controverse affrontate dalla dottrina
del tempo874, ora in aderenza ora in contrasto con la giurisprudenza, sovente con osservazioni
tuttora valide e condivisibili. In particolar modo quella concernente la qualificazione giuridica della
reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è stata oggetto di un ampio dibattito875.
Per l’inquadramento sistematico della fattispecie possono individuarsi tre diverse posizioni.
Secondo l’orientamento maggioritario876 l’arbitrarietà dell’atto del pubblico ufficiale esclude
l’antigiuridicità del fatto e ciò qualifica la previsione di cui all’ex art. 4 del decreto legislativo 288
del 1944, ora dell’art. 393 bis, come una causa di giustificazione877 o di una scriminante speciale.
874 Per la dottrina del tempo: Pessina E., Elementi di diritto penale, Vol III; Bajno L., Commento al Codice Penale Italiano, vol. I, Torino 1915; Crivellari G. –Suman G., Il codice penale per il Regno di Italia, vol.VI, Torino 1895; Manzini V., Trattato di diritto penale italiano, vol. V, Torino 1921. 875 Ardizzone S., cit., p. 9 ricorda che un primo un indirizzo interpretativo fondava la non punibilità del reagente in modo esclusivo sulla concezione dello Stato di diritto, come riferita dall’autolimitazione dell’ordinamento rispetto agli atti illegittimi posti in essere dai funzionari (Pagliaro A., Principi, cit, p. 446). A questa corrente interpretativa deve ricondursi l’affermazione che la illegittimità dell’atto, per questo solo, ne faceva perdere la natura di atto pubblico. Sicchè l’azione posta in essere veniva realizzata da un soggetto dequalificato della natura dell’agente pubblico: il soggetto agiva come privato. In questa prospettiva, il fondamento della non punibilità sta tutto in una ragione oggettiva: non considerare atto pubblico quello affetto da illegittimità nella sua esecuzione; in via transattiva, l’autore di quell’atto non può essere considerato come pubblico agente. Successivamente sono state sviluppate tesi che, in modo diversificato ma unitariamente comprensibile, riferiscono la ratio come collegata alla non configurabilità del reato scriminato. Così, si è sostenuto che l’inesistenza del reato deriva per le prevalente tutela accordata ai diritti della personalità e più precisamente nella direzione del diritto di libertà del cittadino, presupposto un conflitto di interessi risolto a favore del reagente (cfr. Spizuoco R., .cit.,p. 21 ss.; Morselli E., cit., p. 84;Spasari, cit., p. 338). 876 Amendola G., Atto arbitrario del pubblico ufficiale e legittima reazione del cittadino, in Giur. merito, 1972, II, p. 172;.Antolisei F, cit., p.. 433 ss.; Ardizzone S., cit., p. 9 ss.; Azzali G., Reazione all'eccesso arbitrario e punibilità del soggetto, 1958, p. 103-105; Bondi A. - Di Martino A. – Fornasari G., I delitti di violenza, minaccia, resistenza ad un agente pubblico, p. 334 ss..; Bricola F., La riforma dei reati contro la Pubblica Amministrazione: cenni generali, cit., pag. 200 ss.; Crespi A., Crespi A., L’atto arbitrario del pubblico ufficiale quale causa di liceità della reazione del privato, in Riv. It. dir. pen., 1948, p. 301; Curatola, Osservazioni in tema di resistenza legittima, reale e putativa, in Giust. pen., 1952, II, p. 1097 ss.; Fiandaca G., Musco E., cit.., p. 305; Flora G., Il redivivo oltraggio, cit., p. 1454; Mantovani F., Diritto Penale, Parte speciale, cit., p. 189 ss.; Grosso F., La reazione, cit., , p. 344; Kostoris S., Qualche ulteriore riflessione sull'art. 4 d.l.l. 14 settembre 1944, n. 288, in Arch.pen., 1972, I, p. 313; Manzini V., cit., p. 430; Pitton D., cit., p. 3; Romano M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione, in Commentario sistematico, cit. p. 19 ss.; Siracusano P., cit., p. 935; Spasari M., Osservazioni sull’eccesso, cit., p. 343; Spizuco R., La reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale nel diritto penale, Napoli, 1950, p. 20 ss.; R. Venditti, cit., p. 61 s.; Vinciguerra S., cit., p. 133. In giurisprudenza: Cass. 21 aprile 1949, in Arch. pen., 1949, 487; Pret. Bologna 21 dicembre 1947, in Critica
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La tesi deduce il fondamento della non punibilità non dall’esame della struttura della norma nei suoi
requisiti costitutivi, ma dall’analisi dei valori ad essa sottostanti878. La sua ratio deve essere
rintracciata nell’esigenza di offrire tutela al privato rispetto ad una attività amministrativa arbitraria
e lesiva di interessi giuridicamente rilevanti. Non può ravvisarsi un’azione socialmente
pregiudizievole nel comportamento del cittadino che opponga resistenza, sia essa verbale o
materiale, ad un atto arbitrario del pubblico ufficiale. Appare, infatti, iniquo punire la condotta di
chi voglia difendersi da un’aggressione arbitraria. La Costituzione, invero, appresta le necessarie
garanzie per la tutela non solo della libertà individuale genericamente intesa, ma anche di quegli
aspetti di tale libertà attinenti ai rapporti dell'individuo con i pubblici poteri. E da tale assunto deriva
il corollario che, a differenza di quanto si sostenne in passato879, la reazione diviene lecita non
perché il pubblico ufficiale, esorbitando dalle sue attribuzioni, perda la sua qualifica e diventi un
privato, ma perché, non essendovi più l'esigenza di presumere indefettibile l'attività della p.a., è
positivamente prevista l’eventualità che il funzionario, proprio in questa sua qualità, ponga in essere
un operato illegittimo, la cui responsabilità ricade sia su di lui che sulla p.a. che rappresenta.
A fronte dell’interesse della pubblica amministrazione al buon andamento è possibile ravvisare
anche un preciso interesse del cittadino al rispetto della sua personalità, ambedue
costituzionalmente garantiti. Quando, però, il pubblico ufficiale viene meno ai suoi doveri,
determinando il cattivo funzionamento dell’attività amministrativa, viene sempre scalfito anche il
valore fondamentale della persona umana. In quest’ipotesi il contrasto tra l’interesse della pubblica
amministrazione all’esecutorietà dei propri atti e quello del cittadino al rispetto della propria
pen., 1969, p. 45; Pret. Roma 23 novembre 1970, in Arch. pen., 1972, II, 17; Cassazione penale , sez. VI, 11 novembre 1998, n. 12939, in Riv. giur. polizia, 2000, 472 (s.m.), secondo la quale la scriminante della reazione agli atti arbitrari commessi dal pubblico ufficiale può essere invocata anche qualora l'atto (pur in sè non contrario alla legge) sia posto in essere con modi inurbani, sgarbati, sconvenienti, irriguardosi o comunque offensivi. In tali ipotesi, infatti, il comportamento del pubblico ufficiale esorbita dalla funzione esercitata e, come tale, porta ad escludere che chi reagisce ponga in essere un comportamento criminoso, lesivo del decoro o del prestigio della pubblica autorità; Cass., sez. VI, 22 ottobre 2002, n. 39685, Argentini, in Cass. Pen., 2003, pag. 3034 ss.; Cass. pen. Sez. V 27 ottobre 2006, n. 38952, in C.E.D. Cass. , nr 235285; Tribunale Napoli, 01 aprile 1976, Fildi, in Giur. mer., 1979, p. 697 (con nota di de Angelis G., Sulla configurabilità di una reazione legittima putativa) secondo la quale l’ipotesi descritta nell'art. 4 l. 288 del 1944 integra una circostanza di esclusione della pena (in particolare, una causa di giustificazione); pertanto, è ammissibile nei suoi confronti la rilevanza putativa prevista dall'ultimo comma dell'art. 59 c.p. Nella giurisprudenza di merito: vPret. Roma, Sez. II, 23 novembre 1970, Telasio e altri, in Arch.pen., 1972, II, p. 17 s., in cui la fattispecie prevista nell'art. 4 viene definita come una «vera e propria causa di giustificazione, sia pure speciale, in quanto dettata con riguardo a specifiche norme incriminatrici e non estendibile ad ulteriori fatti antigiuridici residuali»; Pret. Bologna, 21 dicembre 1967, Cardi, in Crit.pen., 1969, p. 45; Tribunale Torino, 15 febbraio 1983, Siviero, in Foro it. 1984, II,469. 877 Cfr. per l'equiparazione tra “esimenti” e “cause di giustificazione”, nella manualistica corrente, Antolisei, cit.,p. 232: “Le cause di giustificazione le quali ... sono comunemente dette esimenti...”; Fiandaca-Musco, cit., p. 193 : "...Cause di giustificazione (ovvero anche esimenti)...". Sulla distinzione all’interno delle esimenti delle cause di giustificazione, di esclusione della colpevolezza e di non punibilità cfr. in questi termini la ricostruzione di Santamaria, Lineamenti di una dottrina delle esimenti, Napoli, 1961, p. 285 ss. 878 Sul punto Bellagamba F., cit., p. 247. 879 Spizuoco R., cit., p. 48, ricorda che la teoria fu in auge nel periodo fascista, poiché, non esistendo nella legislazione dell'epoca l'istituto della legittima reazione, con essa si intendeva sopperire al difetto di un limite circa la responsabilità di chi avesse reagito all'arbitrio perpetrato dal pubblico funzionario.
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personalità, deve risolversi a favore di quest’ultimo grazie alla disposizione prevista nell’art. 393
bis c.p. e al chiaro disposto dei principi costituzionali880.
La qualificazione come causa di giustificazione della fattispecie sarebbe imposta dalla
considerazione che la conquista liberale della legittimità, se non della doverosità, della resistenza
individuale al sopruso, non tollera restrizioni di sorta. Con l’art. 393 bis c.p. viene opreato un
bilanciamento tra l’interesse all’esecutorietà dell’atto amministrativo ed il diritto di resistenza,
inteso come affermazione della dignità personale ed esplicazione della personalità individuale. La
prevalenza del principio di libertà espresso dal diritto di resistenza fa, pertanto, benir meno il
disvalore del fatto881.
La tesi sopraesposta è stata, a suo tempo, confortata dal parere del Vassalli882, per il quale “elementi
di carattere intuitivo porterebbero verso la tesi dell'esclusione dell'antigiuridicità”. L’autore
osservava, altresì, che significativi, ai fini dell'inclusione della scriminante nel novero delle causa di
giustificazione, sono sia il nome stesso che essa prende abitualmente nella giurisprudenza e nella
dottrina (legittima reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale), che la comparazione analogica
con la legittima difesa e con altre cause di giustificazione, che si basa sul principio dell'autotutela
che è finalizzata ad impedire l'atto arbitrario883.
È stato, inoltre, osservato che un profilo che conferma la correttezza dell'inserimento sistematico
dell'istituto in parola nella categoria della cause di giustificazione, seppure con un accentuato
profilo di specialità, consiste nell'ulteriore requisito dell'attualità della reazione884.
Occorre segnalare che seppur la maggioranza della dottrina qualifica la fattispecie de quo come
causa di giustificazione, al suo interno è possibile ravvisare delle sottili distinzioni nel senso, ad
esempio, di classificare la reazione materiale come causa di giustificazione oggettiva e la reazione
solo verbale (che qui interessa) come causa di giustificazione soggettiva885; oppure precisando che
880 Pitton D., cit., p. 4, la quale osserva che per le medesime ragioni deve ritenersi altresì priva di fondamento la tesi secondo cui nel caso, ad esempio, di legittima reazione con espressioni offensive verrebbe meno l'antigiuridicità a titolo di oltraggio, ma rimarrebbe a titolo di ingiuria: non si ha, infatti, una degradazione del pubblico ufficiale a privato qualunque, ma il fatto perde ogni connotato di antigiuridicità. 881 In merito cfr. Del Gaudio M., cit., p. 73, secondo il quale “alla luce dei principi costituzionali di prevalenza dell’istanza personalista e di supremazia esclusivamente funzionale dell'amministrazione nei confronti dei singoli, e' insostenibile che l'impunità per la reazione al sopruso rappresenti solo il risultato di una scelta dettata da motivi di opportunità politico-criminale e non di una valutazione di conformità della condotta del singolo a valori costituzionali prevalenti sull'istanza punitiva dell'ordinamento penale”. 882 Vassalli G., Voce Cause di non punibilità, in Enc. Dir., VI, 1960, p. 633. 883 In tal senso cfr. Antolisei F., cit., p. 839; Crespi A., cit., p. 301; Spizuoco R., cit., p. 20; Spasari M., Osservazioni, cit., p. 343; Siracusano P., cit., p. 937 s. 884 così come affermato in dottrina da Bajno R., cit., p. 18 s., ed in giurisprudenza dalla Suprema Corte con la decisione della Sez. VI, 12 ottobre 1984, in Giust. pen., 1985, II, p. 515. 885 In tal senso si è espresso Venditti R., cit., p. 155 s., il quale, da un lato ha affermato la natura di causa di giustificazione a carattere speciale della norma in esame - nel senso che la sua sfera di applicazione è positivamente e tassativamente determinata dal Legislatore, il quale introduce la scriminante proprio in funzione di specifiche figure criminose, mentre le cause di giustificazione c.d. generali sono previste in relazione all'intero sistema penale e quindi
201
la reazione agli atti arbitrari è una causa di giustificazione che non esclude alcuna delle componenti
positive del fatto tipico, rispetto al quale costituisce un quid pluris in relazione al suo aspetto lesivo
o antiprecettivo886; o ancora, specificando che la scriminante fa venir meno l'antigiuridicità
specifica della fattispecie criminosa indicata nell'art. 4, lasciando sussistere l'antigiuridicità penale
per altro titolo di reato (ad esempio in caso di oltraggio, l'ingiuria)887.
Un secondo orientamento888 (di carattere giurisprudenziale889) ha qualificato la disposizione
contenuta nell’art. 393 bis c.p. come causa di non punibilità890 per la condizione e la qualità del
soggetto che reagisce (e, dunque, non estensibile ai concorrenti). In quanto tale lascierebbe
sono applicabili a tutte le ipotesi di reato - mentre, dall'altro lato ha sostenuto che, ove si considerino le differenze di struttura tra le due situazioni-base (reazione materiale e reazione verbale), appare logico richiamare, in materia di reazione agli atti arbitrari, la distinzione tra cause di giustificazione oggettive e cause di giustificazione soggettive espressamente tracciata nell'art. 119 c.p., con la conseguenza che risulta chiara la possibilità di inquadrare agevolmente nella prima categoria le situazioni di reazione materiale e nella seconda categoria le situazioni di reazione verbale. 886 Cfr. Azzali G., cit., p. 103-105. 887 Cfr. Vassalli G., cit., p. 633 s. Gallo E., cit., p. 1109 secondo il quale nelle manifestazioni oltraggiose successive, dove non è prospettabile alcuna situazione di caduta dell'antigiuridicità del fatto, deve ritenersi che il legislatore abbia consentito l'esclusione della pena per mere ragioni di opportunità, in relazione appunto allo stato d'ira provocato dal grave comportamento del pubblico ufficiale: la pena, perciò, non si applica, ma l'illiceità del fatto non è esclusa. 888 Grispigni, I delitti contro la pubblica amministrazione, Roma, 1953, 123; Padovani T., Diritto Penale, Milano, 1990, 297; Pisapia G., La scienza del diritto penale - Relazioni e fonti del diritto penale, in Riv it. Dir. Pen., 1952, 9, p. 211 ss. G. Catelani, Il dolo nel delitto di oltraggio a pubblico ufficiale e limiti di applicabilità dell'esimente di cui all'art. 4 d.l.lgt. 14 settembre 1944, n. 288, in Scuola pos., 1966, p. 303 s. secondo il quale, fatta salva l’illiceità sostanziale del fatto commesso dal privato, la norma contiente una causa di esclusone della punibilità in senso stretto. 889 La giurisprudenza, invece, pur senza compromettersi in un'esplicita presa di posizione, è orientata quasi senza eccezioni nel senso di ritenere la reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale una causa di non punibilità Cassazione penale, sez. VI, 18 settembre 2008, n. 45266, D. P., in CED Cass. pen. 2008, n. 242395, secondo la quale in materia di atti arbitrari del pubblico ufficiale, l’art. 4 del D.lgs.lgt. 14 settembre 1944 n. 288 non prevede una circostanza di esclusione della pena ricadente sotto la disciplina dell'art. 59 cod. pen., ma dispone l'esclusione della tutela nei confronti del pubblico ufficiale che se ne dimostri indegno: essa pertanto trova applicazione solo in rapporto ad atti che obbiettivamente e non soltanto nell'opinione dell'agente, concretino una condotta arbitraria (Fattispecie in tema di resistenza a pubblico ufficiale commessa nel corso di una perquisizione domiciliare); Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2006, n. 2263, in D&G, Diritto e Giustizia, 2006, 9, p. 47, con annotazione di Corbetta S., Reazione legittima ad atto arbitrario del pubblico ufficiale, in Dir. pen. proc., 2006, 4, p. 452; Cassazione penale, sez. VI, 14 gennaio 1998, n. 2329, Fiorentini, in Cass. pen. 1999, 1104 (s.m.) secondo la quale in materia di atti arbitrari del pubblico ufficiale, l'art. 4 del d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 288 non prevede una circostanza di esclusione della pena ricadente sotto la disciplina dell'art. 59 c.p., ma dispone l'esclusione della tutela nei confronti del pubblico ufficiale che se ne dimostri indegno: essa pertanto trova applicazione solo in rapporto ad atti che obbiettivamente e non soltanto nell'opinione dell'agente, concretino una condotta arbitraria; Cass., sez. VI, 24 giugno 1989, n. 4035, in Riv. pen., 1991, p. 58; Cass., Sez. VI, 21 marzo 1990, Di Ruzza, in Riv.pen., 1991, p. 58 secondo a quale l'arbitrarietà degli atti, per avere efficacia scriminante, deve essere oggettiva, onde non può avere rilevanza la soggettiva opinione del privato sulla sua sussistenza; Cass., Sez. V, 21 dicembre 1988, Marino, in Giust. pen., 1989, II, c. 257; Cass., Sez. V, 7 maggio 1973, Mariani, in Giust. pen., 1974, II, p. 230, ove si afferma che “la previsione dell’art. 4 .d.lgs.lgt. n. 288/1944 realizza una circostanza di esenzione della pena che non intacca l’antigiuridicità del fatto, e che si traduce nell’affievolimento, fino alla soppressione, della tutela penale dovuta al p.u., quando l’atto arbitrario di quest’ultimo si ponga come causa efficiente, o come causa rilevante, della condotta punibile del privato”; Cass., pen., sez. V, 9 febbraio 1972, n.7380, Taucer, in Giust. pen., 1973, p. 770; Cass.,10 febbraio 1971, in Giust. pen., 1972, II, p. 433. Cfr. Tribunale di Milano, 4 Ottobre 2000, in Foro Ambrosiano, 2001, p. 160; Cass., sez. VI, 14 giugno 1980 n. 7658, in Riv. pen., 1980, p. 613; Cass. 7 maggio 1973, n. 833, in Cass. pen. Mass. ann., 1975, 169; Cass. 9 dicembre 1972, ivi, 1973, p. 770. 890 In generale sulle cause di non punibilità Cfr. Romano M., Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, p. 60: “Oltre a cause di giustificazione e a cause di esclusione della colpevolezza, sono presenti dunque nel sistema penale anche cause di non punibilita' in senso stretto: le prime rendono lecito un fatto tipico, le seconde rendono non colpevole un fatto tipico ed antigiuridico, le terze rendono non punibile un fatto tipico, antigiuridico e colpevole”. Cfr. anche Vassalli G., cit., p. 609.
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sussistere l’antigiuridicità della condotta dell’agente e la possibilità di applicare sanzioni di natura
extrapenale891. Trattandosi di una circostanza di esclusione della pena, sarebbe estrinseca al fatto
costitutivo del reato: la circostanza stessa, cioè, non entrarebbe nella struttura della fattispecie come
elemento che faccia perdere al fatto la antigiuridicità che lo qualifica come reato, ma sarebbe
estrinseca allo stesso, limitandosi ad operare un affievolimento, fino alla soppressione, della tutela
penale accordata al pubblico ufficiale892.
La ratio della disposizione è individuata in ragioni di mera opportunità politico criminale, esterne
alla meritevolezza della pena893. Il legislatore avrebbe valutato come inesigibile l’astensione dal
compimento di una condotta, altrimenti vietata, da parte del cittadino vittima di atti arbitrari
compiuti in suo danno dalla pubblica autorità.
Questa impostazione894 è stata in passato accolta dalla giurisprudenza, che, pur senza
compromettersi in un’esplicita presa di posizione, ha ritenuto la reazione agli atti arbitrari del
pubblico ufficiale una circostanza di esclusione della pena.
Infine, per un’ultima posizione la reazione agli atti arbitrari sarebbe un semplice limite dello
schema legale dei reati elencati all’art. 393 bis c.p. 895.
891 In merito Ardizzone S., cit., p. 9, spiega che la disposizione di non punibilità stabilirebbe il semplice effetto di non applicazione della pena statuita nelle norme incriminatici richiamate, non escludendo l’illiceità sostanziale del fatto. Questa sarebbe testimoniata – secondo la teorica – dalla possibilità di punire il reagente per altro titolo delittuoso adempiuto dalla realizzazione lesiva considerata sotto il profilo dell’offesa arrecata al privato, essendo il pubblico ufficiale dequalificato in forza dell’attività illegittima posta in essere. La tesi poggia, oltre che su talune opinioni risalenti nel tempo, anche se non così compiutamente sistematizzate, su una certa interpretazione dell’espressione “non si applicano gli articoli…..” introduttiva della disposizione di non punibilità. Vi si attribuisce la funzione tecnica di designare cause di esclusione della punibilità che non rappresentano, al tempo stesso, cause di esclusione dell’illiceità. Queste ultime, invece, sarebbero indicate con la locuzione “non è punibile….”. Per la debolezza di questo argomento esegetico, Azzali, cit., p. 96. 892 Bellagamba F., cit., p. 252 secondo il quale le tesi della reazione legittima come scusante o come causa di non punibilità in senso stretto, perché inidonee a tracciare i confini di liceità dell’azione pubblica, non troverebbe un limite alla sua operatività nella legittimità dell’esercizio, se ci si limitasse a “comprendere” la reazione del privato sul piano delle inesigibilità di un comportamento diverso nella situazione concreta o, a fortiori, su quello ancora più circoscritto della mera opportunità politico criminale di non sanzionare il soggetto, prescindendo, cioè, da ogni valutazione attinente la meritevolezza della pena. 893 Sul punto Bellagamba F., cit., p. 243. 894 Critica nei confronti della tesi sopraesposta Pitton D., cit., p. 4, secondo la quale “non sembra avere alcun solido fondamento ed appare, invece, ispirata a sorpassate concezioni politiche di carattere autoritaristico in pieno contrasto con le finalità del legislatore al momento del ripristino della esimente”. 895 Secondo Morselli E., cit., p. 85 s., l’art. 4 del D.lgs.lgt. n. 288/1944 non rientra tra le cause di giustificazione per difetto di estrinsecità e di contraddittorietà logica rispetto alle norme incriminatrici previste. L’autore sostiene che “per causa di giustificazione si intende designare solitamente in dottrina quella particolare causa di esclusione del reato che opera secondo un rapporto logico di eccezione a regola: mentre cioè le scriminanti in generale sono delle particolari disposizioni legislative, di natura accessoria, autonome rispetto alla norma principale, aventi la funzione di integrare quest'ultima per sottrarre una peculiare ipotesi alla tipicità normativa, le cause di giustificazione costituiscono una species di scriminanti caratterizzata dalla connotazione di deroga alla norma incriminatrice”. Non basta, cioè, che una data ipotesi si sottragga o resti fuori dall'ambito della tipicità, ma occorre un rapporto di contrapposizione logica con questa, ossia il carattere dell’eccezionalità nei confronti di una incriminazione, circostanza che, sempre secondo l’autore, difetta nella norma di cui all’art. 393 bis c.p..Cfr. anche Levi, cit., p. 153; Guarneri G., Diritto di resistenza e oltraggio, in Riv. it. dir. pen. 1936, 465; Chiarotti F., Le cause speciali di non punibilità, Roma, 1946, p. 115; Vassalli G., cit., p. 613; Nuvolone P., I limiti taciti della norma penale, Palermo, 1947, p. 22.
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In realtà la disposizione ancor prima che costituire una causa di giustificazione, individua una
“contro-norma”896, vale a dire un presupposto della singola fattispecie incriminatrice, un’ipotesi
cioè, di difetto della tipicità e di limite esegetico alla configurazione del fatto tipico dei reati contro
la pubblica amministrazione previsti dagli artt. 336 e ss. c. p.
In altri termini, si qualifica la legittimità dell’attività del pubblico ufficiale requisito tacito di
fattispecie per tutte le norme incriminatrici relative all’oltraggio, alla resistenza, alla violenza a
pubblico ufficiale, sicchè in sua mancanza, il fatto è atipico897.
La ragione di tale qualificazione risiede nel fatto che il normale funzionamento della Pubblica
Amministrazione non rappresenta un interesse che possa prevalere, in assoluto, sulla libertà morale
della persona soggetta all’arbitrio del pubblico ufficiale. Il contrasto che si genera, dunque, tra la
libertà morale della persona e lo svolgimento dell’attività della Pubblica Amministrazione non si
esprime né in termini soggettivi, perché non è legato all’imputabilità o ad altre condizioni o qualità
personali di chi reagisce, né investe l’esigibilità della sua condotta.
Inoltre, la protezione accordata tramite gli artt. 336 e ss. c.p. al pubblico ufficiale è dovuta dalla
necessità di tutelare il rispetto dell’esercizio e della regolare esecuzione della funzione pubblica, che
si estende a tutti coloro che tale funzione rivestono. Pertanto, il pubblico ufficiale che abbandoni i
limiti della dignità e del corretto esercizio di queste funzioni si “spoglia di queste pubbliche
funzioni” ed assume una responsabilità personale, perdendo la tutela penalistica “privilegiata”
riconosciuta alla sua attività e divenendo destinatario della “comune” tutela riconosciuta al
privato898.
In sintesi, la norma ora contenuta nell’art. 393 bis c.p. verrebbe ad integrare lo schema descrittivo
della fattispecie criminosa di cui all’art. 337 c.p. “assumendo così la funzione di limite esegetico
nella forma tecnico-giuridica di un’autonoma scriminate” 899.
Quanto detto troverebbe conferma anche con riferimento alla tecnica di redazione usata dal
legislatore, laddove utilizza la locuzione “non si applicano le disposizioni…”, in luogo dell’usuale
896 Ramacci F., Corso di Diritto penale, Torino, 2007, p. 639 ss. 897 Del Gaudio M., cit., p. 60, ribadisce, inoltre, che l’ex art. 4 d.lgs.lgt. 288/1944 manca, nel raffronto con le norme di cui agli artt. 336 e ss., dell'estremo dell’eccezionalita', elemento ritenuto caratterizzante le cause di giustificazione. 898 Così sostiene Rampioni R., cit., p. 351 ss. E’ dibattuta l’esistenza di un vero e proprio diritto di “resistenza” da attribuire al cittadino. In realtà trattasi di una questione superata e che è incompatibile con la moderna concezione dello Stato di diritto. Cassandro M., cit., pag. 606 ss., sostiene infatti che “in uno Stato che si configura come rivolto a realizzare e a programmare il diritto, viene a mancare il posto per un diritto di resistenza del singolo. All’interno di una concezione fondamentalmente positivista della scienza giuridica e politica – dove cioè il problema fondamentale è quello dell’effettività e della legalità in relazione a questioni di fatto (politica) e a qualificazioni di fatti (diritto) poco rilievo assume il problema del diritto di resistenza . Il tentativo di positivizzare un tale diritto all’interno di alcune costituzioni contemporanee, come ad esempio la Grundgesetzt della Repubblica federale Tedesca in Germani non sembra aver sortito effetti teorici particolarmente innovativi nonostante il dibattito pur vastissimo e denso che ha impegnato negli ultimi decenni la scienza giuridica in Germania” 899 Morselli E., cit., p. 93 ss.
204
espressione “non è punibile…”900. Questo spiegherebbe del resto, anche la possibilità che residuino
margini di punibilità del fatto reattivo ad altro titolo delittuoso (ingiuria, minaccia).
In giurisprudenza, infine, sovente la Cassazione ha evitato di qualificare la disposizione, utilizzando
una terminologia volutamente generica, riferendosi a volte all’esimente901, a altre volte utilizzando
perifrasi meramente negative come: “non è circostanza di esclusione della pena”902.
La Corte Costituzionale903, invece, ha preso posizione e l’ha esplicitamente qualificata come una
causa di giustificazione, indicando come “lecito” e non semplicemente “non punibile” il
comportamento del privato che reagisce: l’istituto si fonda su un bilanciamento di interessi, nel
senso che “l’ordinamento, in adesione alle esigenze ideologiche e culturali dello Stato di diritto
autorizza, consente e legittima, una reazione del privato che, nel rispetto del principio di
proporzione, stigmatizzi l’eccesso arbitrario compiuto a suo danno da chi, dovrebbe, più di ogni
altro, non abusare del potere conferitogli”904.
Come anticipato, l’intervento operato dall’art. 1, commi 9 e 10, legge n. 94/2009 di abrogazione
dell’art. 4 del D.Lgs. luogotenenziale 14/09/1944 n. 288 e di contestuale reintroduzione della
disposizione, con formulazione immutata, all’art. 393 bis c.p. ha lasciato “aperto” l’interrogativo
concernente l’inquadramento sistematico della disposizione. La rubrica dell’art. 393 bis c.p. allude
ad una generica e non meglio precisata “causa di non punibilità”905. Tale espressione, però, non
implica il richiamo ad una specifica categoria dogmatica tra quelle che spiegano il perché il fatto
non venga sottoposto ai rigori della sanzione penale906. Inoltre, essendo contenuta nella rubrica, non
costituisce legge.
900 Secondo tale dottrina, questo indicherebbe la particolare intenzione del legislatore di servirsi dell’allora art. 4 per integrare la descrizione delle fattispecie criminose (artt. 336,337, 338, 339, 341, 342 e 343 c.p,) attribuendo loro la funzione di “limite esegetico” e non di causa di giustificazione. Una norma analoga era prevista dal codice penale tedesco pre-vigente, che al paragrafo 113, tra i presupposti normativi del delitto di resistenza, individuava “l’esercizio legittimo dell’ufficio” da parte del pubblico funzionario. L’attuale testo del par. 113 prevede la non punibilità del delitto di resistenza ad un pubblico ufficiale allorquando l’atto di ufficio non sia legittimo. 901 Nelle diverse pronunce giurisprudenziali l’uso del termine “esimente” è prevalente, talvolta ci si riferisce anche a “causa di non punibilità” o (raramente) di “scriminante”. In questi casi sembra, piuttosto, che la terminologia della Cassazione sia usata in senso atecnico. Si esprimono in termini di esimente: Cass. Pen., 13 marzo 1996, n. 2669, in C.E.D., 204150; Cass. Pen., 21 marzo 1990, in C.E.D., 183805; Cass. Pen., 13 marzo 1996, n. 2669, in C.E.D., 204150; Cass. 19 gennaio 1996, Cass. 9 luglio1993, in Giust. pen., 1994, II, p. 404; Cass. 11 maggio 1993, in Riv. pen. econ., 1994, p. 67; Cass. 16 marzo 1993, in Giust. pen. 1994, II, p. 319; Cass. 28 settembre 1989, in Cass. pen. 1991, I, p. 400; Cass. 10 ottobre 1986, in Giust. pen., 1987, II, p. 632; Cass. 14 maggio 1986, in Riv. pen., 1987, p. 58; Cass. 9 aprile 1986, in Giust. pen., 1987, II, p. 133; Cass. 3 aprile 1985, in Giust. pen., 1986, II, p. 526. 902 Cass. Pen., 23 febbraio 1998, in C.E.D. 209965; Cass. pen., 21 novembre 1986, in CED 174347. 903 Corte Cost. sent. n. 140/1998, cit. 904 In tal senso si tratta di situazione diversa dalla ritorsione o provocazione, che non avendo alla base tali aspetti, sono da considerarsi rispettivamente causa di non punibilità e causa scusante: Cass. 22 luglio 1992, in C.E.D., nr. 191411 905 Sul punto Martiello G., cit., p. 22. 906 In merito Vassalli G., Cause di non punibilità, in Enc. dir., vo. VI, 1960, p. 609 parla di espressione utilizzata dalla stessa legge “in senso latissimo (…) che abbraccia tutti i motivi per i quali un determinato fatto può non ricadere sotto la sanzione penale”.
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È necessario, però, procedere ad un’interpretazione sistematica della norma e porla in correlazione
con il nuovo testo dell’art. 341 bis c.p. In particolare si dovrà tener conto del profilo inerente al
risarcimento dei danni nei confronti della persona offesa e dell’amministrazione previsto al terzo
comma del predettto articolo. Infatti, se lo si qualifica come scusante, il giudice potrà disporre il
risarcimento; mentre se lo si qualifica come causa di giustificazione, invece, quest’ultima non opera
anche in riferimento al risarcimento dei danni, perché diventa un danno da lecito e quindi non è
risarcibile. Di conseguenza l’art. 341 bis, terzo comma, c.p. potrebbe non trovare applicazione.
L’AMBITO SOGGETTIVO ED OGGETTIVO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 393 BIS C.P.
Gli ambito di applicazione della norma, soggettivo ed oggettiva, sono esattamente determinate
perché la reazione è legittima solo se realizza una delle fattispecie indicate dalla norma e solo le la
reazione è indirizzata verso uno specifico soggetto.
L’art. 393 bis c.p. si articola in due fondamentali elementi: la reazione contro l’attività del pubblico
ufficiale e la causa di tale reazione, determinata dalla condotta di quest’ultimo, configurata come
eccesso, con atti arbitrari, dai limiti delle attribuzioni.
La norma, quindi, individua come autore dell’eccesso il pubblico ufficiale o incaricato di un
pubblico servizio ovvero un pubblico impiegato907. L’attuale dizione legislativa è in relazione con le
diverse figure individuate dagli artt. 357-359 c.p.908, che ne danno una definizione ai fini penali. Dal
confronto con la formulazione proposta dagli artt. 192 e 199 del codice Zanardelli emerge che sono
stati inseriti anche il riferimento all’incaricato di un pubblico servizio, perché quest’ultimo è
previsto come soggetto passivo nei delitti ex artt. 336 e 337 c.p., ed al pubblico impiegato che, però,
era menzionato solo nel disposto dell’art. 344 c.p., ma non nelle altre fattispecie rientranti
nell’ambito applicativo dell’ex art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288/1944. Ciò ha fatto supporre che anche il
fatto previsto dall’art. 344 c.p. rientrasse nell’ambito di previsione dell’ex art. 4 del d.lgs.lgt. n.
288/1944, nonostante il silenzio serbato da quest’ultimo909. Si è ritenuto, infatti, che la mancata
menzione dell’art. 344 c.p. non significasse che la disposizione de qua non fosse applicabile anche a
tale fattispecie incriminatrice910: la dottrina, infatti, era prevalentemente orientata a ritenere che si
907 In merito Gallo E., cit., p. 1105 ricorda che taluno ha ritenuto che il legislatore, quanto alla qualifica di pubblico impiegato abbia inteso alludere piuttosto al «pubblico funzionario» (così Vannini O., cit., p. 69). L’autore, però, non concorda perché, in tal caso, si ricadrebbe nell’ipotesi del pubblico ufficiale, ogni qualvolta la pubblica funzione (amministrativa, giacché per le altre due non potrebbe esservi perplessità), rientri nell’area dell'art. 357, comma 2. 908 Antolisei F., cit., p. 429. 909 Manzini V., cit., p. 403; Vinciguerra S., cit., p. 127. 910 In merito Gallo E., cit., p. 1106. Così anche Pagliaro A., Principi, cit., p. 364; Ardizzone S., cit., p. 3; Spizuoco, cit., p. 50.
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trattasse di una svista del legislatore, tanto per una ragione di carattere formale (l’ex art. 4 del
d.lgs.lgt. n. 288/1944 richiamava espressamente il pubblico impiegato e l’art. 344 c.p. è l’unico a
riferirsi a tale figura), quanto per una ragione di carattere sostanziale (non appariva ragionevole
sostenere che il pubblico impiegato potesse godere di una speciale tutela giuridica)911. La questione
ha perso interesse con l’abrogazione del predetto art. 344 c.p., ma il rammentarla è utile per
escludere i pubblici impiegati (che non siano né p.u. né i.p.s.) dal novero dei soggetti passivi dei
delitti contemplati dall’art. 393 bis c.p. e che eccedono, con atti arbitrari, dai limiti delle
attribuzioni. Un’interpretazione in tal senso, infatti, sarebbe in contrasto con il significato della
norma ricavabile dal suo testo letterale storicamente ricostruito912.
Autore della reazione, invece, può essere solo la persona lesa dall’illegittimo eccesso913. La
reazione del privato può definirsi come reazione all’atto arbitrario solo se proveniente dallo stesso
soggetto leso dal pubblico ufficiale, sussistendo una correlazione indefettibile fra la persona che ha
subito l’arbitrio e colui che ha reagito allo stesso914. Poiché la reazione è giuridicamente rilevante
solo se proviene da chi è vittima dell’atto illegittimo posto in essere dalla Pubblica autorità non è
consentita l’estensione della non punibilità al terzo, che potrà invocare solo eventuali scriminanti
comuni (es. legittima difesa) ove ne esistano i presupposti915.
Poiché la norma non specifica se il soggetto titolato a reagire debba rivestire una particolare
qualifica, questo può essere oltre al privato, anche il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico
servizio, oppure il pubblico impiegato916, giacchè è possibile ravvisare situazioni di vessazione che
possono intercorrere anche tra pubblici dipendenti. In materia di oltraggio, infatti, non si applica la
911 Cfr. Spizuoco, cit., p. 49; Venditti R., cit., p. 56. 912 Vinciguerra S., cit., p. 127. 913 Antolisei F., cit., p. 429. 914 Cassazione penale, sez. VI, 11 novembre 1998, n. 404, Broccato, in Cass. pen., 2000, 582 (s.m.), Giust. pen. 2000, II, 122 (s.m.) secondo la quale in tema di resistenza a pubblico ufficiale, qualora l'attività violenta o minacciosa sia posta in essere da un terzo che intenda contrastare l'accompagnamento coattivo di una persona (già identificata) da parte dei carabinieri in una caserma, assumendo l’illegittimità del comportamento dei pubblici ufficiali, non può, comunque, trovare applicazione la scriminante della reazione ad atti arbitrari, in quanto la locuzione usata dal legislatore nell'art. 4 del d.lgs.lgt. 14 settembre 1944 n. 288, secondo la quale “non si applicano le disposizioni degli art. 336, 337, 339, 341, 342, 343 c.p. quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari, i limiti delle sue attribuzioni”, determina una correlazione indefettibile tra persona che può invocare la scriminante e la vittima dell'arbitrio, nel senso che le due figure debbono essere necessariamente riconducibili al medesimo soggetto e presuppone un rigoroso rapporto causale fra la condotta arbitraria del pubblico ufficiale e la reazione da parte di colui che l’ha subita. 915 Antolisei F., cit., p. 429; Venditti R. , cit., p. 191. In giurisprudenza: Cass. 15 gennaio 1958, in Giust. pen.,1958, III, 499; App. Catanzaro 27 ottobre 1960, in Cal. Giud.,1961, 456. Si segnale, in senso contrario, Cass. 10 ottobre 1980, in Riv. pen.,1981, 741, per cui “l’intervento del terzo, specie se legato da vincoli di amicizia o di parentela con la vittima dell’atto arbitrario del pubblico ufficiale, deve essere scriminato allo stesso modo di quello posto in essere dalla vittima del sopruso, concorrendo il nesso di causalità con il fatto arbitrario del pubblico ufficiale”. Peraltro, è opinione comune che, per gli effetti di cui all’art. 119 c.p., la scriminante abbia natura soggettiva, applicabile solo al soggetto cui si riferisce: per tutti, Manzini, cit., 403. 916 Antolisei F., cit., p. 429; Granata, Oltraggio e resistenza fra pubblici ufficiali e limiti della podestà disciplinare in Riv. pen. 1933,I, 147; Cass. 8 marzo 1935, ivi, 1936, p. 292; Spizuoco R. , La reazione, cit., 42 e ss; R. Venditti, cit., 59.
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massima inter pares non fit injuria917. L’indicazione proposta, però, deve anche tener conto della
relazione intercorrente tra i pubblici ufficiali coinvolti, onde verificarne, ad esempio il rapporto
gerarchico, al fine di evidenziare aspetti significativi del fatto da qualificare giuridicamente918.
La reazione deve rivolgersi contro l’autore dell’atto arbitrario. Può, però, accadere che l’autore sia
una persona diversa dall’esecutore, pur rivestendo entrambi la qualifica pubblica richiesta. Se in
questo caso la reazione delittuosa si rivolge contro l’esecutore e non contro l’autore dell’atto
arbitrario essa resta impunita solo nei limitati casi in cui l’esecutore può sindacare il contenuto
dell’atto e disobbedirvi919.
L’ARBITRARIETA’ DELLA CONDOTTA DEL PUBBLICO UFFICIALE: L’ECCESSO DAI LIMITI DELLE ATTRIBUZIONI
La definizione della condotta del pubblico ufficiale atta a giustificare la reazione del privato è in
realtà uno degli aspetti maggiormente dibattuti della causa di non punibilità richiamata, sulla quale
da sempre si evidenzia la contrapposizione tra due interessi irrinunciabili per il nostro Stato di
diritto: la tutela dei diritti dei singoli e l'effettività dell'azione amministrativa920.
L’atto che eccede le proprie attribuzioni è quello non consentito dall’ordinamento giuridico921. Si ha
quando il soggetto pubblico tiene un comportamento non conforme all’ordinamento ed il suo
operato non è “coperto” da leggi, regolamenti o istruzioni legalmente impartite922.
La dottrina prevalente ritiene che siano da annoverare in quest’ultima categoria gli atti illegittimi,
ossia quelli viziati da violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere923 o quelli affetti da un
vizio di merito, cioè dall’uso non conforme allo scopo del potere discrezionale924. Non occorre che
917 In questo senso Antolisei F., cit., p. 429, il quale ricorda che è pacifico sia in dottrina sia in giurisprudenza la configurabilità dei reati di violenza o minaccia, resistenza ed oltraggio posti in essere da pubblici funzionari. 918 Ardizzone S., cit., p. 7. 919 Vinciguerra S., cit., p. 132. 920 In questo senso Morra M., cit., p. 77. 921 Antolisei F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, cit., p. 429; Sisti U., cit., 262. 922 Grosso, Intervento penale e discrezionalità amministrativa, in Questione giustizia, 1983, pag. 445 ss., il quale rileva che quando si tratta di un atto amministrativo rileva un qualsiasi vizio di legittimità, dall’eccesso di potere all’incompetenza (assoluta o relativa) o alla violazione di legge; nulla quaestio per l’atto illecito o inesistente. 923 Gallo E., cit., p. 1107, il quale ricorda che l’eccesso dai limiti delle attribuzioni, infatti, che si concreta tanto nell'eccesso di potere in senso tecnico, quanto nella incompetenza (assoluta o relativa), quanto infine nella vera e propria violazione di legge, è sicuramente un atto illegittimo, ma non è arbitrario, se non nell'ipotesi dell'incompetenza assoluta: in questo caso, però, non esistendo nemmeno il presupposto della tutela accordata a chi è investito di un pubblico potere, si è fuori della fattispecie in esame. Nello stesso senso Aprile E., sub 336, cit., p. 499, il quale rammenta che quando l’incompetenza è totale ed assoluta si esula dall’istituto in esame, perché ne difetta il requisito secondo il quale il fatto deve essere commesso dall’agente pubblico. 924 Per la casistica, Spizuoco R., cit., p. 51; Venditti R., cit., p. 86, il quale ribadisce che l’illegittimità dell’atto ha la stessa estensione qualitativa che è riconosciuta nel campo della giurisdizione amministrativa. Secondo Ardizzone S., cit., p. 3, hanno rilevanza l’eccesso di potere, l’incompetenza, la violazione di legge oltre l’atto illecito e l’esecuzione di un atto inesistente per mancanza o straripamento delle attribuzioni. L’autore, però, soggiunge che “i criteri, già enunciati quando si trattò di formulare le disposizioni del codice Zanardelli, appaiono assolutamente superati per designare le caratteristiche qualificative della causa della reazione legittima. Quindi, le indicazioni, che l’eccesso
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l’eccesso sia manifesto e il comportamento che lo realizza può consistere anche in un’omissione,
come nel caso di un ordine di scarcerazione non eseguito dal pubblico ufficiale incaricato, con
spregio palese dei diritti del detenuto925.
Un indirizzo ha sostenuto che la nozione di “eccesso dai limiti delle attribuzioni”, ai fini della
reazione legittima, è atecnica rispetto alle più appropriate indicazioni formulate nel settore di diritto
amministrativo e ciò al fine di ricomprendervi anche situazioni diverse dall’eccesso di potere,
qualificate soltanto dal non essere consentito dall’ordinamento il compimento dell’atto.
Controversa è, invece, la possibilità di considerare come eccedenti le proprie attribuzioni quegli atti
che, pur non essendo illegittimi, siano scorretti, sconvenienti, ecc.926 o che sono caratterizzati
dall’esercizio inopportuno del potere discrezionale. Argomentando da tali considerazioni ne
consegue che il presupposto di una reazione legittima può consistere anche nel mancato
compimento di un atto o in un’omissione da parte del pubblico agente927.
In riferimento alla prima ipotesi, è stato sostenuto che i modi inurbani e scortesi costituiscono
eccesso solo quando la correttezza rappresenti un dovere specifico inerente la funzione o il servizio
oppure quando la violazione del dovere sia avvenuto in modo grave928.
Per l’altra ipotesi, concernente l’esercizio inopportuno del potere discrezionale, trattandosi di un
vizio di merito929 si ritiene che sussista eccesso dalle attribuzioni solo nel caso di mal governo del
potere discrezionale, che si configura come uso inopportuno di esso con la consapevolezza930 o –
caso ancor più grave – con la cosciente volizione dell’inopportunità, oppure con modalità
palesemente illecite. Vi resta fuori la semplice inopportunità dell’atto la quale rientri nella
discrezionalità amministrativa931. Nel caso del mal governo del potere discrezionale – si sostiene –
dovesse essere insopportabile, o irreparabile, o consistere in una ingiustizia notoria o, infine, trattare di una violazione essenziale, assumono soltanto ricordo storico. Nei riguardi di tutti questi criteri, è possibile riprendere una obiezione già formulata, ovvero che trattasi di indicazioni incomplete ed imprecise che mal si adattano all’esigenza di certezza quanto mai viva nel settore di diritto penale”. Nello stesso senso Spizuoco R., cit., p. 57. 925 Antolisei F., cit., p. 429. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., 13 marzo 1996, in Mass. dec. pen. 1996, m. 204.150; Cass. pen., 13 febbraio 1974, ivi, 1974, m. 126.222. 926 In senso contrario la giurisprudenza prevalente: per tutti, Cass. pen., 16 gennaio 1989, in Riv. pen., 1990, p. 1075. In senso favorevole: C. Cost. 140/1998, in Cass. pen., 1998, p. 2302; Cass. 4 maggio 1998, in Riv. pen., 1998, p. 768. Secondo Manzini V., cit., p. 403 costituisce eccesso dai imiti delle attribuzioni anche il comportamento inutilmente offensivo degli interessi e dei sentimenti del privato, che il funzionario dovesse unire al compimento di un atto illegittimo, usando modalità che inutilmente cagionino danno patrimoniale o siano lesive dell’onore del privato. 927 Cass. Pen., 1 febbraio 1990, in C.E.D. n. 183185, nel caso di un pubblico impiegato addetto all’emissione di biglietti che manca di servire l’utente, prolungando oltre misura una telefonata pur di servizio ma non urgente. 928Spizuoco R., cit., p. 59. D’altra parte, è necessario ricordare che, talvolta, gli atti scorretti o inurbani vengono giudicati alla stregua del requisito dell’arbitrarietà, per escluderlo o ritenerlo adempiuto. In giurisprudenza cfr. Cass. 10 luglio 1981 in Riv. pen., 1982, p. 697; Cass. pen., 9 maggio 1980, ivi, 1981, p. 101. 929 Sulla configurabilità di un episodio di eccesso arbitrario sotto il profilo del vizio di merito dell’atto amministrativo Azzali G, cit., p. 88; Crespi, cit., p. 487; Venditti R., cit., p. 123. 930 L’esercizio inopportuno del potere discrezionale, può dar luogo ad un eccesso dalle attribuzioni solo nel caso di malgoverno del potere discrezionale che sia accompagnato dalla consapevolezza o dalla cosciente volizione dell’inopportunità. 931 Per questa prospettazione si rinvia a Venditti R., cit., p. 96.
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ci si troverebbe di fronte a un comportamento arbitrario che concreta, in quanto tale, un eccesso dai
limiti delle attribuzioni932.
Poiché causa della reazione è contrassegnata da due qualificazioni – l’eccesso e l’arbitrarietà - in
dottrina ed in giurisprudenza ci si è interrogati se si è in presenza di due distinti requisiti che la
condotta dell’agente deve possedere o se in realtà il requisito è unico sia pure indicato attraverso
una duplice espressione verbale933. Occorre, pertanto, accertare in via interpretativa se il riferimento
al carattere “arbitrario” dell’atto rimandi ad un quid ulteriore rispetto alla sua illegittimità934.
Secondo l’opinione tradizionale935 è necessario tenere distinte le nozioni di “eccesso dai limiti delle
attribuzioni” e dell’ “arbitrarietà”, per evitarne l’identificazione936. Si sostiene che se il legislatore
avesse ritenuto sufficiente la semplice contrarietà obiettiva all’ordinamento, ovvero la semplice
illegittimità (in senso lato), non avrebbe aggiunto l’espressione “atti arbitrari”937. Quest’ultima non
potrebbe ritenersi tautologica o pleonastica938. L’accezione adottata del termine “eccesso”
esaurirebbe ogni possibile situazione di contrasto obiettivo con il diritto, per cui il legislatore
avrebbe voluto esigere un quid pluris che imprime al fatto una particolare gravità939.
La norma, quindi, richiederebbe la sussistenza di due requisiti autonomi940: l’illegittimità
dell’azione del p.u. e un quid pluris941 costituito secondo alcuni da una volontà vessatoria del p.u.,
932 Quasi testualmente Venditti R., cit., p. 123 ove solo in questa ipotesi, per l’autore, la linea di demarcazione che sta tra l’eccesso dell’arbitrarietà diventa sottilissima e l’arbitrarietà spiega l’eccesso. Secondo la classificazione di Spizuoco R. cit., p. 51 l’ipotesi adempirebbe un caso di eccesso soggettivo. 933 Ardizzone S., cit., p.; Fiandaca G., Musco E., cit., p. 306, secondo i quali il problema fondamentale è stabilire se il concetto di arbitrarietà coincide con quello d’illegittimità ovvero è connotato da un quid pluris. 934 Antolisei F., cit., p. 429, il quale rileva che la formulazione è “poco felice” perché sembrerebbe ammettere la possibilità di un eccesso non arbitrario. 935 In dottrina cfr. Antolisei F., cit., p. 429; Levi N., Delitti, cit., p. 402; Manzini V., cit., p. 434; Pezzi-Petrei A. cit., p. 412, secondo la quale gli stessi lavori preparatori del codice Zanardelli confermano l’impostazione sopraesposta. In giurisprudenza vedi Cass. 25 novembre 1981, in Riv. Pen., 1982, p. 829; Cass. 19 marzo 1981, ivi, 1982, p. 98; Cass. 10 dicembre 1976, ivi, 1977, p. 570. 936Spizuoco, cit., p. 76; Venditti, cit., p. 97. 937 Antolisei F., cit., p. 429. Contra Fiandaca G., Musco E., cit., p. 308. 938 In questo senso Venditti R., cit., p. 98. Al riguardo Morra M., cit., p. 78 secondo il quale la stessa formulazione testuale della norma imporrebbe che la condotta del soggetto pubblico presenti un duplice ordine di requisiti, “sicché qualunque interpretazione tesa a negare ciò, non può che attribuire alla formula legislativa un carattere pleonastico e inutilmente ridondante, che appare poco convincente, attesa anche la travagliata elaborazione scientifica antecedente alla formulazione della norma”. 939 Antolisei F., cit., p. 430, il quale, però, ricorda che di tale avviso non è stata la giurisprudenza, la quale più volte si è pronunciata nel senso che per l’applicabilità della scriminante basta l’ingiustizia obiettiva del fatto, ovvero che il p.u. non abbia la facoltà di eseguire l’atto che compie, oppure che, agendo nell’ambito di un potere discrezionale si comporti in modo difforme dallo scopo per il quale detto potere gli è stato conferito. Cfr. Cassazione penale, sez. VI, 29 settembre 1982, Pedroni, in Giust. pen., 1983, II,651 (s.m.) secondo la quale l’atto del pubblico ufficiale è arbitrario quando egli non ha la potestà di eseguirlo o si avvale di poteri discrezionali per conseguire finalità aggressive e vessatorie. L’esimente all'art. 4 d.lgs.lgt. 14 settembre 1944 n. 288 postula, cioè, il compimento deliberato di un atto d'ufficio non per il raggiungimento del fine perseguito dalla legge, ma per capriccio, malanimo, settarietà , prepotenza ed altri similari motivi. 940 Venditti, cit., p. 113. L’autore ritiene, peraltro, che fra l’eccesso e l’arbitrarietà vi sia strettissima connessione tanto che, a volte, in fattispecie concrete particolarmente delicate – i casi del mero comportamento illecito e dell’atto viziato nel merito – la linea di demarcazione diventa sottilissima e l’un termine richiama l’altro e, al tempo stesso, lo rivela e lo spiega. Altresì, Azzali G., cit., p. 63.
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secondo altri da un comportamento oggettivamente percepibile come tale dal privato, a prescindere
dalla reale intenzione del suo autore. Secondo quest’orientamento mentre l’eccesso dai limiti viene
concepito in senso oggettivo, come equivalente di atto illegittimo, l’arbitrarietà ha un carattere
essenzialmente soggettivo, inteso come malafede del pubblico agente. Indicherebbe, infatti, un
particolare atteggiamento psicologico di chi compie l’atto illegittimo, cioè la consapevolezza di
perseguire uno scopo estraneo alle funzioni per dispetto, capriccio, malanimo, derisione, ostilità,
sopruso, ecc. al fine di danneggiare il privato942. Il giudice del fatto dovrebbe accertare l’esistenza
del predetto atteggiamento psichico dell’autore dell’eccesso tenendo conto di tutte le circostanze del
caso concreto.
Al riguardo un indirizzo dottrinario ha specificato che la situazione psicologica di “malafede” non
individua tutte le possibili ipotesi in cui un atto può definirsi arbitrario943. Dovrebbero essere
941 In giurisprudenza nel senso della mera dell’irrilevanza della mera illegalità dell’atto del p.u., non caratterizzata da modalità vessatorie: Cassazione penale, sez. VI, 19 aprile 1999, n. 8636, Romano, in Cass. pen., 2000, p. 2253 (s.m.), Giust. pen., 2000, II, p. 508 (s.m.); Cassazione penale, sez. VI, 12 luglio 1983, Calesso, in Giust. pen. 1984, II, p. 425 (s.m.), e Riv. pen., 1984, p. 813, secondo la quale ai fini dell'applicabilità dell’esimente dell'atto arbitrario al reato di oltraggio a p.u., deve sussistere in quest'ultimo un comportamento che obiettivamente riveli un carattere di prepotenza o sopruso che si concreti nella deliberata intenzione di eccedere dalle proprie attribuzioni, non essendo sufficiente la semplice contrarietà dell'atto all'ordinamento giuridico 942 Secondo Antolisei F., cit., p. 430, il p.u. eccede dai limiti delle proprie attribuzioni con la consapevolezza di questo eccesso o, addirittura, con la deliberata intenzione di porlo in essere, in quanto tale, in danno al privato. In giurisprudenza si rinvia a: Cassazione penale, sez. VI, 23 febbraio 1982, Spumato, in Giust. pen., 1983, II, p. 238 (s.m.), secondo la quale poiché un atto di un pubblico ufficiale possa essere ritenuto arbitrario non è sufficiente uno sconfinamento dei poteri valutabile secondo le norme che regolano la materia relativa, ma occorre che il pubblico ufficiale abbia ecceduto dai suoi poteri con la piena consapevolezza di discostarsi dagli scopi inerenti alla sua funzione o di usare mezzi non consentiti dall'ordinamento giuridico nell'ambito della sua attività o di avvalersi del potere discrezionale accordatogli dalla legge in modo aggressivo o vessatorio; Cassazione penale, sez. VI, 15 giugno 1983, Sigura e altro, in Riv. pen., 1984, p. 135., e Giust. pen., 1984, II, p. 110 (s.m.), secondo la quale l'esimente della reazione all'atto arbitrario del pubblico ufficiale (di cui all'art. 4 d.l.lgt. 14 settembre 1944 n. 288), postula il compimento deliberato di un atto di ufficio non per il raggiungimento del fine perseguito dalla legge, ma per capriccio, malanimo, settarietà, prepotenza ed altri simili motivi; non è, quindi, sufficiente che il comportamento del p.u. sia illegittimo, richiedendo la norma l'esistenza di un atto arbitrario, cioè di un atto ispirato all'intento di perseguire fini od usare mezzi che non siano compatibili con le attribuzioni del p.u. 943 Secondo Antolisei F., cit., p. 431, in tali ipotesi, pur non potendosi parlare di malafede del funzionario, il suo comportamento deve ritenersi arbitrario, nel senso in cui questa parola è intesa dalla coscienza sociale, e, quindi, tale da giustificare le reazioni del privato. In giurisprudenza cfr. Cassazione penale, 9 giugno 1949, in Arch. Pen., 1949, II, p. 384 secondo la quale la malafede del funzionario non è indispensabile; Cassazione penale, sez. VI, 04 maggio 1998, n. 6564, Vitti, Riv. pen., 1998, p. 768, secondo la quale in tema di oltraggio, la norma dell'art. 4 d.lgs.lgt. 14 settembre 1944 n. 288, che prevede la scriminante della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, non autorizza l'interpretazione restrittiva secondo la quale l'arbitrarietà andrebbe identificata con l'illegittimità del fine, negando qualsiasi rilevanza ai mezzi adottati, ed escludendone una loro autonoma illegittimità, ben potendo l’arbitrarietà consistere proprio nel loro uso, come quando una finalità legittima venga perseguita attraverso comportamenti inutili ed eccessivi, tali da comprimere ingiustificatamente diritti fondamentali della persona. (Nella specie, i pubblici ufficiali avevano proceduto all'identificazione dell'imputato, senza che il suo comportamento avesse dato luogo ad alcuna ragione di sospetto, e questi aveva declinato immediatamente le generalità, appena richiestone, esibendo un documento. Successivamente, lo avevano ugualmente sottoposto ad una limitazione della libertà personale costringendolo ad entrare e a trattenersi nell'ufficio di polizia dove gli offesi prestavano servizio); Cassazione penale, sez. VI, 10 aprile 1996, n. 7565, Pacifici, in Cass. pen., 1997, p. 2700 (s.m.), e Giust. pen., 1997, II, p. 406, e Riv. polizia, 1997, p. 826 (s.m.), secondo la quale l'arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale prevista come scriminante dall'art. 4 d.lg.lt. 14 settembre 1944, n. 288 non deve essere ravvisata soltanto nell'illegittimità dell'atto, potendo essa consistere anche nella sconvenienza o nella scorrettezza del modo di svolgimento di una attività conforme sotto il profilo sostanziale alle disposizioni di legge che la regolano. Invero l'atteggiamento villano non può essere consentito al pubblico ufficiale e
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ricomprese anche quelle in cui il p.u. non si rende conto di eccedere dalle sue attribuzioni, ma
agisce con modalità non consentite dall’ordinamento giuridico e provocatorie, come quando, ad es.
commette un reato (ingiurie, minacce, percosse) mentre compie un atto amministrativo o viola una
norma extrapenale che ne vincola l’attività o lo sottopone a speciali obblighi e limitazioni944; o
quando l’eccesso è compiuto con modalità gravemente in contrasto con le esigenze dell’educazione
e del costume sociale945. Pertanto secondo questo filone l’eccesso dai limiti delle attribuzioni si
considera arbitrario sia quando è compiuto dal p.u. con la consapevolezza di varcare i limiti
anzidetti sia quando è accompagnato da modalità non consentite, perché contrarie a disposizioni di
legge, a particolari doveri d’ufficio o alle norme elementari del costume sociale946.
Tale considerazione, però, sarebbe incompatibile con la ragione politica-garantista che giustifica la
presenza della scriminante in un ordinamento democratico947 dove è sufficiente a legittimare
l’autotutela del cittadino la stessa condotta del p.u. che contraddice le norme che dovrebbero
legittimarla948.
La sopraesposta impostazione, infatti, è stata criticata949 perché si risolverebbe in un’inammissibile
alterazione dei dati contenutistici della scriminante, la quale, invece, è imperniata sull’eccesso dai
limiti delle attribuzioni950. D’altra parte l’aggiunta al requisito dell’intenzione ne svilisce la
funzione951. L’unico modo per attribuire autonomia significativa di requisito del fatto giuridico
all’arbitrarietà sarebbe quello di intenderlo come arbitrarietà soggettiva. Ciò, però, comporterebbe
alcuni inconvenienti. In primo luogo, questa ricostruzione richiede necessariamente che l’atto
illegittimo sia posto in essere da parte del pubblico agente con dolo. Ciò implica la necessità di
nello stesso può essere individuato il consapevole travalicamento dei limiti e delle modalità entro i quali le funzioni pubbliche debbono essere esercitate. 944 Antolisei F., cit., p. 431, riporta l’esempio dell’art. 11 del regolamento di polizia ferroviaria 31 ottobre 1873, n. 1687, il quale asseriva che impiegati ed agenti ferroviari sono “tenuti ad usare nei rapporti con i viaggiatori modi urbani e ad avere per essi i maggiori riguardi”, cfr. D.P.R. 11 luglio 1981 n. 753. 945 Antolisei F., cit., p. 431 osserva che i rappresentanti della pubblica amministrazione devono essere di esempio ai cittadini e, perciò, più degli altri sono tenuti ad osservare le buone regole del viver civile. 946 Antolisei F., cit., p. 431. 947 Crespi A., cit., p. 307. 948 Crespi A., cit., p. 307; Fiandaca G., Musco E., cit., p. 308, secondo i quali il seguente caso esemplificativo evidenzia i limiti in cui si troverebbe ad operare la scriminante se l’arbitrarietà non si esaurisse nella oggettiva illegittimità del fatto: il vigile urbano constata che un’auto sosta in zona di divieto e che l’automobilista, assopito, è disteso sui sedili anteriori. Dopo aver redatto verbale, sta per allontanarsi senza procedere alla contestazione di rito, ma l’automobilista si sveglia e, rendendosi conto del fatto, esclama : “ma che razza di animale sei non hai visto che stavo in macchina!” (caso trattato Pret. Avallino 6 febbraio 1973, in Giur. it., 1973, II, p. 530, con nota di Nosengo. Il caso esemplificativo evidenzia gli angusti limiti in cui si troverebbe ad operare la scriminante se l’arbitrarietà non si esaurisse nell’oggettiva illegittimità del fatto: il vigile ha agito in violazione delle norme del codice della strada che gli imponevano la contestazione al contravventore presente, senza che il suo comportamento fosse ulteriormente qualificabile come arbitrario: la reazione del privato è giustificata dalla mera illegittimità obiettiva del fatto. Se non fosse così, si sarebbe dovuto trovare nel fatto un quid pluris che invece nel caso di specie non è neppure stato fatto oggetto di indagine. 949 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 307, secondo il quale la tesi si espone a delle obiezioni insuperabili e si risolve di fatto in una quasi soppressione della reazione legittima. 950 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 308. 951 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 308.
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dovere discernere il dolo e la colpa del funzionario: inoltre si deve ritenere escluso il requisito per la
presenza della colpa o buona fede di questi. Il secondo inconveniente si ravvisa nel dover giudicare
non adempiuto il nesso causale in presenza della buona fede del pubblico agente, persistendo
l’illegittimità dell’atto952. Inoltre l’identificazione dell’arbitrarietà con la mala fede impedisce, di
fatto, la reazione del cittadino perché egli potrebbe non rendersi conto dell’arbitrio del p.u. nel
momento in cui agisce953.
Neanche l’aggiunta di momenti oggettivi alla nozione di arbitrarietà consente di superare le censure
sopra riportate954. Si è detto, infatti, che l’arbitrarietà potrebbe anche consistere nell’uso, da parte
del pubblico funzionario, di modalità di condotta non consentite, dall’ordinamento giuridico perché
“contrarie a disposizioni di legge, a particolari doveri d’ufficio o alle norme elementari del
costume sociale”955. Questo correttivo, però, per alcuni rileverebbe autonomamente, cioè
indipendentemente dal requisito soggettivo della consapevolezza dell’illegittimità956, per altri,
invece, si aggiungerebbe al requisito soggettivo, perché soltanto “la modalità del comportamento
esecutorio” sarebbe in grado di “trasformare l’abuso in arbitrio”957.
Per superare le difficoltà denunciate, si è sostenuto che l’illegittimità e l’arbitrarietà dell’atto
esprimono qualificazioni unitarie, pur su versanti diversi, di un unico elemento di fattispecie958.
Tale orientamento identifica l’eccesso con gli atti arbitrari, per cui le due locuzioni non
indicherebbero in realtà due requisiti diversi, ma uno stesso e identico fenomeno, consistente nella
pura e semplice illegittimità dell'azione amministrativa, definita sia nella sua prospettiva oggettiva
(eccesso dai limiti), sia nella prospettiva di chi agisce (arbitrarietà degli atti)959: l’illegittimità
qualifica l’atto in sé, l’arbitrarietà, invece, il comportamento del p.u. che l’atto illegittimo pone in
essere960.
952 Crespi A., cit., p. 304; Morselli E., cit., p. 56. 953 Cfr. Crespi A., cit., p. 307; Morselli E., cit., p. 51 e ss. 954 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 307. 955 Cfr. Antolisei F., cit., p. 378; Venditti R., cit., p. 137. 956 Cfr. Antolisei F., cit., p. 378; Venditti R., cit., p. 137. 957 Spasari, cit., p. 335 secondo il quale sarebbe arduo sostenerne la distinzione sotto il profilo dogmatico e l’aspetto delle conseguenze pratiche. 958 Crespi A., cit., p. 307; Longhi S., La legittimità, cit., 317. In giurisprudenza cfr. Cass. 30 marzo 1903, in Riv. pen., 1903, p. 728. 959 Secondo Crespi A., cit., p. 488 “Mentre l’illegittimità si riferisce all’atto in sè e per sé, l’arbitrarietà riguarda il comportamento del p.u. che l’atto illegittimo pone in essere: non si tratta, qundi, di due dati distinti, di un quid pluris (arbitrarietà) che debba aggiungersi, per completarlo, a un dato elemento preesistente (illegittimità) ma di uno stesso e identico fenomeno, visto ora parte obiecti, ora paerte subiecti” 960 Manzini V., cit., p. 403, secondo altra parte della dottrina, anche nel caso di atti legittimi, la semplice sconvenienza e Questo indirizzo già in passato aveva invero trovato spazio in alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità (Cassazione 11030/80; 7565/96; 6564/98), nonché in una sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale (140/98) inurbanità dei modi del pubblico agente sarebbe sufficiente ad integrare gli estremi della causa di non punibilità
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In definitiva, la formula legislativa esprimerebbe una petizione di principio in quanto nel
superamento dei limiti si sostanzia l’arbitrarietà dell’azione del soggetto pubblico961.
Secondo un’impostazione dottrinaria il risultato interpretativo sopraesposto può ottenersi
applicando la regola ermeneutica per la quale non bisogna confondere il piano delle connessioni
linguistiche in cui è articolata la singola disposizione normativa con la struttura della fattispecie da
quella determinata. Possono, infatti, verificarsi due distinte eventualità: o un requisito di fattispecie
è indicato da una pluralità di espressioni linguistiche oppure un’espressione linguistica induce la
presenza di una pluralità di requisiti della fattispecie.962 Il requisito dell’illegittimità dell’atto è
indicato dalla locuzione “eccesso dai limiti delle attribuzioni”. Il significato del termine “eccesso” è
determinato facendo riferimento alla qualifica di illegittimità amministrativo. Per questa operazione
si attinge, inevitabilmente, alle specificazioni elaborate in questa materia da giurisprudenza e da
dottrina per quanto attiene ai “ vizi” dell’atto amministrativo963.
In materia è intervenuta la Corte Costituzionale con la sent. n. 140/1988, secondo la quale anche
alla stregua della stessa interpretazione letterale delle espressioni usate dall'art. 4 del D.lgs.lgt. n.
288/1944, “può ragionevolmente sostenersi che arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni
esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il
pubblico ufficiale ha dato esecuzione all'atto illegittimo e della illegittimità dell'atto in sè
considerato...”. La Corte ha, poi, concluso che anche la mera scorrettezza e la villania delle
modalità con cui gli atti del p.u., anche se di per sè conformi a legge, vengono posti in essere si
traducono in un eccesso dai limiti delle sue attribuzioni e concretano l'arbitrarietà.
Nello stesso si è espressa recentemente anche la Cassazione964, secondo la quale il doppio richiamo,
contenuto nel D.lgs.lgt. n. 288/1944, art. 4, all’eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni e all’atto
arbitrario del pubblico ufficiale non impone, “di costruire l’arbitrarietà come un quid pluris diverso
e ulteriore rispetto all'eccesso delle attribuzioni, riferito, sotto il profilo oggettivo, alle modalità di
esercizio delle funzioni e sorretto, sotto l'aspetto soggettivo, dalla dolosa consapevolezza
dell'illegittimità e dell'arbitrarietà del proprio comportamento. Anche alla stregua della stessa
interpretazione letterale delle espressioni usate dall'art. 4, può ragionevolmente sostenersi che
arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo,
rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all'atto illegittimo e
della illegittimità dell'atto in sè considerato...”.
961Crespi, cit., p. 305. 962 Per questa indicazione metodologica Pagliaro A., Principi di diritto penale, cit., p. 251. 963 Ardizzone S., cit., p. 4. 964 Cassazione, sez. VI penale, sentenza 21 novembre 2005 n. 2263, cit.
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Gli atti arbitrari, pertanto, esplicano la modalità con la quale il pubblico ufficiale eccede. La
giurisprudenza965 ha ritenuto, infatti, che quest’ultimi costituiscono la “speciale qualificazione
dell’eccedenza”, sia perché così sembra orientato il testo normativo, sia perché, in realtà, questi
rappresentano la vera causa di una reazione legittima proporzionata.
Sarebbe, infatti, difficile da giustificare la mancata applicazione di fattispecie penali, anche di
indubbia gravità, per tutelare il privato sino a consentirgli di commettere impunemente una violenza
o una minaccia nei confronti di un pubblico ufficiale che si renda responsabile semplicemente
dell’esecuzione di un atto illegittimo del suo ufficio966.
L’ARBITRARIETA’ DELLA CONDOTTA DEL PUBBLICO UFFICIALE: GLI ORIENTAMENTI DOTTRINARI E GIURISPRUDENZIALI SUL CONCETTO DI ATTO ARBITRARIO
Preliminarmente è necessario chiarire che la nozione di atto ricomprende non solo ogni atto
giuridico (amministrativo e giudiziario), ma anche i comportamenti materiali del soggetto
qualificato967.
In merito alla determinazione del significato da attribuire all’arbitrarietà vi sono state opinioni
discordanti968. L’intrinseca ambiguità della formula linguistica adottata dal legislatore, suscettibile
di letture storicamente contingenti nel quadro dei rapporti Stato-cittadino, ha dato luogo ad
interpretazioni differenti in cui, distanziati da posizioni intermedie, si delineano un orientamento più
rigorista ed uno più liberale969.
La Cassazione, con la sentenza n. 622/1995 ha individuato, infatti, tre diversi concetti dell'atto
arbitrario: “quello che lo ravvisa "sic et simpliciter" nella medesima illegittimità di esso (intesa in
senso ampio come contrarietà di esso alla legge); quello secondo cui, pur potendosi sovrapporre
all'atto illegittimo, costituisce rispetto ad esso un quid pluris, sostanziandosi in un comportamento
vessatorio; quello che muove dalla legittimità in astratto dell'atto amministrativo, di cui, però, si
965 Cass. Pen., 9 gennaio 1976, in C.E.D. nr. 131771; Cass. Pen., 15 aprile 1992, in C.E.D. nr. 189861; Cass. Pen., 19 gennaio 1996, in C.E.D. nr. 203376. 966 Romano M., I delitti contro la Pubblica Amministrazione: i delitti dei privati, le qualifiche soggettive pubblicistiche, in Commentario sistematico, II, Milano, 2002, p. 227 precisa che proprio l’intollerabilità della condotta dal punto di vista di chi la subisce assume nel contesto normativo un ruolo primario e decisivo. 967 Vinciguerra S., cit., p. 129. 968 Ardizzone S., cit., p. 7 osserva che determinazione del significato da attribuire all’arbitrarietà è avvenuta, in modo prevalente, all’interno della corrente di pensiero che ne scorge un autonomo requisito del fatto; 969 Pitton D., cit., p. 4. Al riguardo Ardizzone S., cit., p. 7, osserva che è possibile cogliere una tendenza interpretativa “cosiddetta dicotomica che sviluppa, dell’arbitrarietà, un duplice significato: il significato soggettivo, nel quale l’arbitrarietà è indicata come malafede del pubblico agente, ed il significato oggettivo in cui l’arbitrarietà rappresenta una realtà qualificativa oggettiva di esecuzione dell’atto pubblico”. Per tale tendenza interpretativa Azzali G., cit., p. 83.
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sia chiesta osservanza con modalità oggettivamente scorrette che hanno l'attitudine di
delegittimare anche l'atto in astratto legittimo”970.
Un primo orientamento, di matrice prevalentemente dottrinale, ritiene sufficiente la mera
illegittimità dell’atto per rendere operante la scriminante, quando la reazione del privato sia
contestuale rispetto al comportamento arbitrario971.
In merito la Cass., sent. 11 novembre 1974, n. 4137, afferma che “l’arbitrarietà dell’atto può
essere solo costituita dall’ingiustizia obiettiva di questo, a nulla rilevando che il comportamento
del pubblico ufficiale non ha potestà di compiere”972.
Anche in dottrina si è evidenziato che “l’eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni” significa che
“l’atto del pubblico ufficiale è contrario alla legge (perché viziato per eccesso di potere, violazione
di legge o incompetenza e, nell’ipotesi di atti discrezionali, per non conformità allo scopo del
potere discrezionale medesimo)” e che il concetto di “arbitrarietà” coincide con quello
d’illegittimità973. Si è obiettato, però, che tale impostazione non solo offrirebbe un concetto
riduttivo dell’arbitrarietà, ma anche dilaterebbe in termini eccessivi l’ambito di applicabilità della
reazione opponibile ad ogni atto illegittimo in sostituzione della tutela giudiziaria974.
Un secondo indirizzo interpretativo975 seguito dalla giurisprudenza di legittimità976, si caratterizza
per un’applicazione restrittiva dell’esimente, postulando per la ravvisabilità di essa, oltre
970 Cfr. Cass., sez. VI, 08 novembre 1995, n. 622, in Giust. Pen., 1996, II, pag. 328. Nello stesso senso Emma C., Assimilabilità della reazione legittima alla provocazione con riferimento al delitto d’oltraggio, in Foro. It., 1999, I, p. 1412. 971 Crespi A., cit., p. 306; Fiandaca G. – Musco E., cit., pag. 306 ss. ;Vinciguerra S., cit., p. 130 secondo il quale le divergenze che riguardano la nozione di arbitrarietà sono acuite dalla sua non appartenenza al lessico giuridico al quale si è ritenuto di ricondurla portandola a coincidere con la nozione di illegittimità. 972 Cass. pen., 11 novembre 1974, n. 4137, Carano, in Foro it., Rep. 1975, voce Oltraggio, n. 34,; Cass. pen., 4 marzo 1989, n. 1462, Luzi, in id., Rep. 1991, voce cit, n. 21; Cass. pen., 16 dicembre 1987, n. 11657, Noschese, in id., Rep. 1989, voce cit, n. 16. 973 Fiandaca G.-Musco E., cit., p. 297 e ss. 974 Vinciguerra S., cit., p. 130 rileva che si potrebbe contrastare con una condotta riconducibile all’art. 337 c.p. l’occupazione d’urgenza di un fondo disposta per eseguirvi un’opera pubblica e fondata su di un atto amministrativo illegittimo, anziché chiederne in via cautelare la sospensione dell’esecutività al tribunale amministrativo regionale. 975 Tra i fautori della teoria soggettiva, secondo i quali il conflitto autorità dello Stato-libertà del cittadino deve essere risolto a favore del secondo soltanto quando il rappresentante del pubblico potere trascende intenzionalmente il proprio mandato, e che solo in tale caso è lecito al cittadino offendere o resistere al funzionario si vedano Antolisei F., Manuale, cit., 432; Azzali G., Reazione all’eccesso arbitrario e punibilità del soggetto, 1958, p. 84; Bargis M., In tema di comportamento arbitrario del pubblico ufficiale, in Giur.it., 1974, II, c. 397 ss.; Grispigni, I delitti contro la Pubblica amministrazione, cit., p. 125; Levi N., Delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 1935, 402, Manzini, cit., p. 434 e ss., Spasari M., Osservazioni sull'eccesso arbitrario del pubblico ufficiale e sulla liceità del comportamento reattivo del privato, in Studi Antolisei, vol. III, Milano, 1965, p. 334 e ss.; Spizuoco R., cit., p. 71, Venditti, La reazione, cit., 98 e 102 e specialmente 112. Contro: Crespi A., L’atto, cit., 307 e Id., Sulla nozione di atto arbitrario e della discrezionalità dell’atto in particolare, Riv. it. dir. pen., 1949, p. 487; nello stesso senso anche Fiandaca G.-Musco E., cit., p. 307 ss. 976 In giurisprudenza Cass. pen., 18 settembre 1997, in Riv. Pen., 1998, I, 112; Cass. pen., 22 ottobre 1996, in Giust. Pen., 1998, II, p. 73, ove si configura l'ipotesi di atto arbitrario “non come semplice sconfinamento dei poteri eventualmente censurabile come atto amministrativo, ma come fatto del pubblico ufficiale, il quale ecceda dai suoi poteri con la consapevolezza di perseguire uno scopo estraneo alle sue funzioni e non conforme a legge, assumendo condotte che, oltre a risultare oggettivamente in contrasto con l'ordinamento giuridico, manifestino la volontà del
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all’illegittimità dell’atto, anche l’accertamento in concreto di un particolare intento vessatorio da
parte del pubblico ufficiale977. Secondo la teoria soggettiva978 l'arbitrarietà dell'atto non si esaurisce
pubblico ufficiale stesso di travalicare i limiti delle sue attribuzioni per solo capriccio, vessazione o sopruso, con modalità non consentite da disposizioni di legge, dai doveri di ufficio o dalle norme del costume sociale”; Cass. 22 ottobre 1996, n. 10696, Nobile, in Foro it., Rep. 1997, voce Oltraggio, n. 30, e, per esteso, Riv. Pen., 1997, p. 42; nel senso che, i modi sgarbati o scontrosi del pubblico ufficiale non sono sufficienti a giustificare la reazione del privato, necessitando anche l’illegittimità dell’atto, cfr. Cass. 10 aprile 1996, n. 7565, in Giust. Pen., II, p. 406; Cass. 1 dicembre 1995, n. 2669, Ferraretto e altri, in Foro it., Rep. 1996, voce cit, n. 23; Cass. Sez. VI, 8 novembre 1995, in Giust. pen., 1996, II, c. 328; Cass. pen., 2 ottobre 1995, in Giur. It., 1996, II, p. 444; Cass. sez. V, 15 aprile 1992, Pahor, Riv. pen. econ., 1993, 1, p. 73 s. (massima); Cass. 3 marzo 1992, in Cass. pen., 1992, p. 1797 ss.; Cass. 30 maggio 1990, Riv. pen,. 1991, p. 954 (m); Cass. pen., 30 maggio 1990, n. 16669, Bucchieri, in Foro it.., Rep. 1991, voce Oltraggio, n. 26; Cass. 16 gennaio 1989, n. 1415, Cuomo, in Foro it., Rep. 1991, voce cit, n. 20; Cass. pen., 28 settembre 1989, ivi, 885 (m); Cass. 13 luglio 1989, Riv. pen. 1990, 792 (m); Cass. 24 giugno 1989 n. 4035, Di Ruzza, in Cass. Pen., 1991, 1019 e Giust. Pen., 1991, II, p. 346 particolarmente esplicita nell'affermare che: “l’esimente di cui all'art. 4, D. lgs.lgt. n. 288 del 1944 presuppone l'arbitrarietà della condotta del pubblico ufficiale e cioè non soltanto la sua illegittimità od erroneità, ma altresí un comportamento improntato al deliberato proposito di eccedere dalle proprie attribuzioni a che, quindi, costituisce sopruso, prepotenza, capriccio, prevaricazione nei confronti del privato”; Cass. pen., 1 dicembre 1987, n. 2715, Cardosi, in id., Rep. 1988, voce cit, n. 12; Cass. pen., 14 marzo 1986, ivi, p. 28 ss.; Cass. pen., 9 aprile 1986, ivi, p. 133 ss.; Cass. 3 giugno 1986, ivi, p. 225 ss.; Cass. 13 dicembre 1985, in Riv. pen., 1987, p. 276 (m); Cass. pen., Sez. VI, 17 aprile 1984, Guzzonato, in Giust. pen., 1985, II, c. 200 secondo la quale per aversi l’esimente della reazione ad atto arbitrario del pubblico ufficiale, nei delitti di resistenza ecc., non basta l'eccesso dai limiti delle attribuzioni, cioè un comportamento non consentito dall'ordinamento giuridico: in particolare, una manifesta difformità dallo scopo per il quale è conferito al pubblico ufficiale un determinato potere; occorre anche che l'eccesso sia realizzato con atti arbitrari, un “quid pluris” che imprima al fatto una nota qualificante speciale di particolare gravità. Occorre la deliberata intenzione del pubblico ufficiale di porre in essere l'atto eccedente, in quanto tale, a danno del privato e quanto meno l'adozione di modalità di estrinsecazione dell'attività funzionale singolarmente contrastanti con i doveri d'ufficio e completamente ingiustificate rispetto ai fini da raggiungere, il fine perseguito dalla legge ma per capriccio, malanimo, vessazione, settarietà, prepotenza e simili; Cass. pen., 29 settembre 1982 n. 12082, in Giust. Pen., 1983, II, p. 651; Cass. 8 novembre 1978 n. 5759, Fiorlina, in id., Rep. 1980, voce cit, n. 25; Cass. pen., Sez. I, 28 febbraio 1972, Congiu e altri, in Giur.it., 1974, II, c. 398 s.; Cass. pen., sez. VI, 10 febbraio 1971, Gallorini, in Arch. pen., II, 1972, p.409 con nota di Pezzi-Petrei A .Nel senso che occorre la consapevolezza di entrambi gli agenti: Cass. 3 maggio 2000, in Cass. Pen., 2003, p. 145 ss. 977 Nel senso che l’atto deve essere realizzato per fini propri estranei rispetto al fine pubblico: Cassazione penale, sez. VI, 07 luglio 2003, n. 34089, B., in Cass. pen., 2005, 12, p. 3881 (s.m.) (s.m.) secondo la quale per l'esimente dell'atto arbitrario del pubblico ufficiale è necessario dimostrare che il comportamento di costui, causa della reazione offensiva, si sia posto completamente al di fuori della sua funzionale attività e abbia manifestato, nel contempo, una pervicace intenzione di eccedere dalle proprie attribuzioni per perseguire mere finalità vessatorie; Cass. pen., sez. VI, 22 ottobre 2002, n. 39685, Argentini, in Cass. Pen., 2003, p. 3034 ss.; Cassazione penale, sez. VI, 03 maggio 2000, n. 7014, Rostagno, in Cass. pen., 2003, p. 145 (s.m.), secondo la quale perché l'atto del pubblico ufficiale possa dirsi arbitrario ai fini del riconoscimento della scriminante di cui all'art. 4 d.lgs.lgt. 14 settembre 1944 n. 288, non basta che esso sia posto in essere “contra legem”, ma è necessaria la consapevolezza di tale illegittimità da parte sia del pubblico ufficiale sia del privato. (Fattispecie in tema di resistenza a pubblico ufficiale posta in essere in occasione di un arresto in flagranza eseguito in mancanza dei presupposti di legge, della cui illegittimità non erano consapevoli nè il pubblico ufficiale nè l'arrestato); Cassazione penale, sez. VI, 02 ottobre 1998, n. 11518, Suriani, in Cass. pen., 1999, p. 3119 (s.m.), in Riv. polizia, 1999, p. 309, secondo la quale in tema di oltraggio, ai fini dell'applicazione dell'esimente della reazione ad atti arbitrari, ex art. 4 d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 288, non è sufficiente che l'atto del pubblico ufficiale sia illegittimo o dovuto a errore o a colpa, ma deve consistere in un comportamento che manifesti, per capriccio, malanimo, sopruso, settarietà, prepotenza e altri simili motivi, una deliberata intenzione di nuocere (Nella specie non è stata ritenuta applicabile al scriminante in relazione al comportamento del vigile urbano che, richiesto dalla persona che poi lo aveva oltraggiato se avesse accertato un'infrazione per divieto di sosta in suo danno nonostante l'omessa collocazione sul parabrezza dell'autovettura del preavviso di accertamento della violazione, non aveva dato alcuna risposta alla domanda: la Corte suprema ha ritenuto adeguata la motivazione secondo la quale la mancata collocazione del preavviso sul parabrezza era stata determinata dall'esaurimento dei moduli di contravvenzione, e la mancata contestazione immediata della violazione era stata cagionata da un clima di generale confusione - per l'assembramento di numerose persone - e di contestazione dell'operato dei vigili che si era generato in quella circostanza); Cassazione penale, sez. VI, 09 luglio 1998, n. 9722, Garavaglia, in Cass. pen. 2000, p. 582 (s.m.), in Giust. pen. 2000, II, p. 121 (s.m.) secondo la quale l’atto arbitrario del pubblico ufficiale considerato dall'art. 4 d.lgs.lgt. 14 settembre 1944 n. 288 non si identifica con un comportamento erroneo o colposo del pubblico ufficiale, bensì con un comportamento che manifesti, per
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nella sua illegittimità, occorrendo un "quid pluris", individuato nella consapevolezza979 del pubblico
ufficiale di realizzare e tenere un comportamento che esorbiti dai limiti delle proprie attribuzioni,
conferendosi egli stesso un potere che l’ordinamento non gli riconosce980: sussiste l’atto arbitrario
allorquando il funzionario, con esso, abbia inteso espressamente perseguire scopi assolutamente
estranei alle finalità dei poteri riconosciutigli e quando travalica senza alcuna motivazione i limiti e
le finalità delle funzioni e dei servizi a cui è preposto981. Secondo tale teoria, infatti, «ai fini
dell’applicabilità dell’esimente... l’atto del p.u. deve considerarsi arbitrario non soltanto perché
illegittimo o dovuto a errore o a colpa, ma in quanto consistente in un comportamento che
manifesti, per capriccio, malanimo, settarietà, prepotenza, sopruso ed altri simili motivi, una
deliberata intenzione di eccedere dalle proprie attribuzioni»982.
Il significato soggettivo dell’arbitrarietà, pertanto, s’identifica con la mala fede del pubblico agente
perché il suo comportamento costituisce espressione di prepotenza gratuita e di autentico arbitrio983.
capriccio, malanimo, settarietà, prepotenza, sopruso e altri simili motivi, una deliberata intenzione di eccedere dalle proprie attribuzioni. Occorre inoltre che vi sia uno stretto collegamento causale tra l'atto arbitrario del pubblico ufficiale e la reazione del privato. (Fattispecie di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, in cui la S.C. ha escluso che ricorressero gli estremi di un atto arbitrario nell'accusa - non provata - rivolta dal pubblico ufficiale a persone che avevano lasciato in sosta vietata alcuni ciclomotori di avere a lui sottratto la radio in sua dotazione). 978 Il criterio soggettivo fu criticato da Pessina secondo il quale “sarebbe un errore il ritenere che, oltre all’obiettiva illegittimità dell’atto debba concorrervi la punibilità del suo autore perché la resistenza non sia un reato. L’illegalità subiettiva, o coscienza nell’agente del poter commettere un abuso, sarebbe qualcosa di indispensabile se si trattasse di giudicare il suo operato rispetto alla sua punibilità; ma dove si esamina la punibilità di colui che con violenza oppugna l’atto ingiusti, basta una disamina sul valore obiettivo di quest’atto; e la sola sua illegalità viene a giustificare l’oppugnazione che vi fu fatta”. 979 Pezzi-Petrei A., cit., p. 411. 980 Azzali, op. cit.,84; Longhi S., cit. p. 317, secondo il quale l’arbitrarietà è la volontà dell’atto illegittimo non imposto da necessità o comando; Spizuoco R., cit., p. 78; Venditti R., cit., p. 113. Per una più recente interpretazione soggettiva del requisito dell’arbitrarietà Spasari M., Osservazioni, cit., p. 334. In questa direzione Cass. 12 ottobre 1984, Perseu, in Giust. pen., 1985, II, p. 515, secondo la quale l’atto del pubblico ufficiale è arbitrario quando egli non ha la potestà di eseguirlo o si avvale di poteri discrezionali per conseguire finalità aggressive e vessatorie. L’esimente di cui all'art. 4 del d.lgs.lgt. 14 settembre 1944 n. 288, postula, cioè, il compimento deliberato di un atto di ufficio non per il raggiungimento del fine perseguito dalla legge, ma per capriccio, malanimo, settarietà, prepotenza ed altri simili motivi, sì che non è sufficiente che il comportamento del pubblico ufficiale sia obiettivamente contrario all'ordinamento giuridico, cioè illegittimo, nè che il “sopruso” derivi da errore o colpa. 981 In questo senso: Cass. pen., 8 aprile 1974, in Mass. Cass. Pen., 1975, p. 1303 ss. 982 I sostenitori della teoria soggettiva ritengono configurabile l’esimente quando il pubblico ufficiale travalica senza alcuna motivazione i limiti e le finalità delle funzioni e dei servizi a cui è preposto. Il suo comportamento, perciò, costituisce espressione di prepotenza gratuita e di autentico arbitrio. In merito si veda anche la sentenza della Corte Costituzionale n. 140 del 23 aprile 1998, in Foro it., parte prima, 1412, in cui la Corte precisa che il comportamento del pubblico ufficiale “deve non solo essere illegittimo, cioè eccedere dalle funzioni conferite dalla legge, ma…denotare la pervicace intenzione di agire al di fuori delle proprie attribuzioni e di realizzare un vero e proprio sopruso nei confronti del privato” e che, di conseguenza, “comportamenti semplicemente inurbani, scorretti o sconvenienti non siano qualificabili come atti arbitrari”. 983 Contra Vinciguerra S., cit., p. 130, secondo il quale il rilievo dato agli atteggiamenti interiori dell’agente, sarebbe una complicazione inutile, anche per le difficoltà dell’accertamento, perché si tratta di tutelare la vittima dell’atto arbitrario. Secondo l’Autore, invece, si dovrebbe dare rilevo alla percezione che la vittima ha di un comportamento come arbitrario.
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L’atto arbitrario, secondo questa concezione, esprime l’atteggiamento psichico di chi sostituisce il
proprio capriccio ed propri fini personali alla volontà della legge ed alle esigenze dell’interesse
pubblico984.
Le stesse ragioni giustificative dell’istituto, così come emergono dal raffronto tra la non punibilità
delle condotte delittuose coperte dall'articolo 4 D.Lgs.Lt 288/44 e il trattamento sanzionatorio
predisposto per le corrispondenti condotte realizzate nei confronti di soggetti privati sono state
addotte a sostegno della sopra esposta impostazione. Salvo le ipotesi di ingiurie riconducibili
all’articolo 599, secondo comma c.p. e quelle ricadenti nella legittima difesa, infatti, le condotte di
violenza o minaccia realizzate nei confronti di un privato sono sempre punibili (a titolo di minaccia,
violenza privata e così via), anche se poste in essere in conseguenza di un fatto ingiusto altrui, la cui
sussistenza può determinare solo l'applicazione della circostanza attenuante di cui all'articolo 62 n.
2 c.p. Per dare un senso a tale diversità di disciplina, è necessario che, alla base della causa di non
punibilità della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, venga individuata
un’esigenza ulteriore e significativa rispetto a quella sottesa alla provocazione. Se la ratio di tale
attenuante è quella di tener conto del particolare stato di perturbamento emotivo in cui viene a
trovarsi chi subisce un atto ingiusto, nel caso della reazione legittima agli atti arbitrari deve essere
altresì riconosciuto l’interesse di garantire che l'azione dei soggetti con qualifica pubblicistica sia
effettivamente improntata al rispetto delle norme dell'ordinamento giuridico.
La violazione di un generico dovere di cortesia del pubblico agente, che non sia comunque tale da
connotare la sua azione in termini di antigiuridicità, non sarebbe sufficiente a giustificare la
diversità di disciplina, né a consentire una violazione così incisiva dei principi di effettività e di
legalità dell’azione amministrativa, mediante comportamenti violenti o minacciosi985. Non ogni
attività illegittima della pubblica amministrazione, tuttavia, può legittimare reazioni violente o
minacciose da parte dei privati; un'interpretazione siffatta renderebbe tutto il complesso dei rimedi
giurisdizionali e amministrativi predisposti a garanzia della legittimità dell'azione pubblica, una
semplice opzione di tutela di cui il privato può godere in aggiunta alla facoltà di farsi giustizia da
sé. È necessario viceversa che l'illegittimità dell'azione amministrativa assuma una particolare
connotazione, tanto da manifestarsi al privato quale frutto di una condotta volutamente vessatoria da
parte del rappresentante dei pubblici poteri o, comunque, priva di una sua giustificazione
apprezzabile. In ordine a tale aspetto, appare da condividere l’indirizzo giurisprudenziale e
984 Cass. pen., 7 aprile 1982, in Giust. pen.,1983, II, p. 105. 985 Morra M., cit., p. 79. La necessaria sussistenza di un comportamento illegittimo del pubblico agente è del resto resa palese dalla formula adoperata dal legislatore allorché, facendo riferimento all’“eccesso dai limiti delle attribuzioni”, indica chiaramente l'andare oltre, il varcare i limiti di ciò che è consentito dalle norme specificamente dirette a disciplinare l'attività del soggetto pubblico o dalle norme generali. In questo senso appare in effetti orientata la giurisprudenza prevalente: Cassazione 110/71; 1382/81; 3308/83; 3072/83; 1415/89; 3350/93; 8463/97; 34089/03.
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dottrinario che tende a non attribuire un carattere decisivo all'effettivo atteggiamento interiore del
soggetto con qualifica pubblicistica, quanto piuttosto alla valenza oggettiva che il suo
comportamento assume986.
Contro il significato soggettivo dell’arbitrarietà sono state proposte talune obiezioni987.
In primo luogo si è osservato che un atto oggettivamente illegittimo, ma realizzato dal p.u. con
modi corretti, non integrerebbe la scriminante in parola988. Inoltre l’esimente non potrebbe essere
riconosciuta, ad esempio, nel caso in cui l’atto sia stato espressione dei poteri del pubblico ufficiale
e sia, comunque, stato realizzato per fini pubblici, anche se, in concreto, sia stato attuato con scarsa
cautela, per errore o in modo sgarbato. Sicché, se l'eccesso dai limiti di competenza si fosse
consumato per atti contenuti nell'area della legittimità, il pubblico ufficiale poteva restare esposto a
responsabilità disciplinare, ma il privato avrebbe subìto le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla
violazione di quelle norme penali, salvo il ricorso all'autorità competente per l'eccesso dai limiti
della competenza. Altrettanto se il pubblico ufficiale avesse usato modi operativi sconvenienti per
dare esecuzione ad un atto legittimo. Salvo che quelle modalità strumentali non assumessero per se
stesse significato di fatti elevati ad oggetto della qualificazione, il pubblico ufficiale poteva essere -
a seconda dei casi - richiamato o al più disciplinarmente sanzionato, ma il privato non avrebbe
trovato alcun riparo alla sua reazione se questa avesse integrato le fattispecie richiamate989.
Si è, infatti, rilevato come l'eccessiva difficoltà di accertare la mala fede del pubblico ufficiale
renderebbe di fatto inapplicabile la scriminante 990.
986 Morra M., cit., p. 79 A quanto punto, però, appaiono indispensabili alcune precisazioni: anzitutto, l'illegittimità dell'azione del pubblico agente, non implica affatto che lo stesso agisca per il perseguimento di un fine egoistico (si pensi al caso di un vigile che, per indurre un contravventore recalcitrante a declinare le proprie generalità, lo schiaffeggi); analogamente, non è esclusa l'operatività dell'esimente nel caso in cui l'azione illegittima del soggetto pubblico si innesti su una condotta di per sé legittima (si pensi all'esecuzione di un arresto, in un caso consentito dalla legge, accompagnato però da insulti e percosse contro l'arrestato). In entrambi gli esempi proposti, sarebbe certamente non punibile la condotta reattiva del privato, giacché ciò che conta è la realizzazione di una condotta oggettivamente illegittima del pubblico ufficiale (nella specie tale addirittura da configurare dei reati), la cui macroscopica distanza dal comportamento che lo stesso avrebbe dovuto tenere vale a connotare il suo comportamento anche in termini di arbitrarietà. 987 Ardizzone S., cit., p. 7. Gallo E., cit., p. 1107 In senso critico, invece, ha osservato che affermare la scarsa o nulla rilevanza dell'illegittimità del provvedimento che l'agente rende operativo, perché ciò che conta è l'arbitrarietà dei modi usati dall'agente nel portarlo ad esecuzione, così come quei modi appaiono ad osservatore avveduto, significa che buona parte della fattispecie diventa inutile, o comunque inutilizzata, perché non serve più “l’eccedere dai limiti delle attribuzioni”. Se poi si vuole, invece, che proprio in quell'eccesso consista “arbitrarietà degli atti”, allora rimane del tutto superflua l'espressione “con atti arbitrari”: come se la norma dicesse che la reazione è giustificata quando l'agente si comporta “arbitrariamente con atti arbitrari”! 988 Secondo la summenzionata impostazione il privato che subisce l’atto illegittimo è “gravato dall’oneroso compito di decifrare l’elemento soggettivo dell’interlocutore, non dovendosi accontentare, nell’estemporaneo compimento di questo giudizio, del più naturale ed immediato parametro di valutazione, cioè l’evidente illegittimità dell’atto” (Emma C., cit., p. 1412 e ss.). 989 Gallo E., cit., p. 1105 e ss. Fra le tante, Cass. 3 aprile 1985, in C.E.D. Cass. n. 170882; Cass. 25 novembre 1981, in Riv. pen. 1982, p. 829; Cass. 19 marzo 1981, ivi, 1982, p. 98; Cass. 10 dicembre 1976, ivi, 1977, p. 570. Quanto alla dottrina, cfr. Antolisei, cit., p. 816 s.; Azzali G., cit.; Pagliaro A., Principi, cit., p. 358; Venditti R., cit. 990 Rampioni R., cit., p. 352. In merito Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2006, n. 2263, in D&G, Diritto e Giustizia, 2006, 9, p. 47, con annotazione di Corbetta S., Reazione legittima ad atto arbitrario del pubblico ufficiale, in Dir. pen. proc.,
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Secondo la summenzionata impostazione il privato che subisce l’atto illegittimo è “gravato
dall’oneroso compito di decifrare l’elemento soggettivo dell’interlocutore, non dovendosi
accontentare, nell’estemporaneo compimento di questo giudizio, del più naturale ed immediato
parametro di valutazione, cioè l’evidente illegittimità dell’atto”991.
In tal modo si chiede al privato di essere sicuro del dolo del pubblico ufficiale prima di reagire
verbalmente o materialmente al di lui comportamento, mostrando, in tal modo di avere riguardo più
all'esigenza di preservare il decoro e il prestigio della p.a., che alle stesse ragioni di libertà e
democrazia che hanno ispirato la reintroduzione di tale istituto992. Il principio di certezza del diritto,
però, esige che il cittadino sappia in partenza, e cioè al momento dell'azione, quale sarà la qualifica
che l'ordinamento giuridico attribuirà alla sua condotta, risultato che può essere ottenuto solo
partendo da dati esteriori, oggettivamente accertabili. Sposando la tesi soggettiva, invece, il privato
che subisca un eccesso del pubblico ufficiale, non potrà sapere se la sua azione sarà lecita od illecita
se non dopo l'accertamento di una malafede del p.u.: procedimento che non trova alcuna
legittimazione e riconoscimento nel nostro ordinamento giuridico993.
Considerata la delicatezza e la complessità della ricognizione dell’animus del pubblico agente, si
potrebbe riscontrare nel reagente uno stato di dubbio che potrebbe configurare, nella condotta di
questi, un dolo eventuale994. La mancanza della certezza relativa alla malafede, per i suoi effetti di
carenza nel configurare il movente della reazione, condurrebbe a ritenere inapplicabile la
scriminante. La conseguenza sarebbe che la disposizione che mira a favorire il reagente potrebbe
ritorcesi contro di lui in sede applicativa.995
2006, 4, p. 452, secondo la quale l'eccesso arbitrario rileva essenzialmente nella sua oggettività e non tanto nell'atteggiamento psicologico del p.u., difficile - per altro - da identificare da parte del soggetto privato; in sostanza, è al comportamento del p.u., obiettivamente considerato, che deve aversi primario riguardo e verificare se lo stesso venga percepito dall'osservatore avveduto come manifestazione di un atteggiamento psicologico improntato a prepotenza, sopruso, capriccio, malanimo, sì da giustificare, in analogia allo “stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui” ( art. 599 c.p., comma 2), la reazione immediata da parte di chi detto atteggiamento subisce e ne avverte la profonda ingiustizia. 991 Emma C., cit., p. 1412 e ss.) 992 Cfr. da ultimo, G. Fiandaca-E. Musco, cit., p. 305, i quali evidenziano la normale difficoltà di accertare la malafede del pubblico ufficiale, con la conseguenza che di fatto viene impedita al cittadino qualsiasi reazione, dato che non potrebbe mai rendersi conto, nel momento in cui agisce, se l'atto del pubblico funzionario sia o no arbitrario. La medesima obiezione è stata sollevata da Chiariotti F., cit., p. 52; Crespi A., cit., p. 307; Morselli E., cit., p. 51 ss. 993 È, infatti, principio assoluto dello stato di diritto che da fatti esteriori si possa risalire ad atteggiamenti interiori (è questo il ragionamento che conduce il giudice nell’accertamento dell’elemento psicologico del reato); ma non è ammissibile il procedimento inverso, cioè partire da un atteggiamento interiore (malafede del p.u.) per qualificare giuridicamente un comportamento esteriore (arbitrarietà). 994 In merito Ardizzone S., cit., p. 8 osserva che l’obiezione riguarda il rapporto psicologico in cui si troverebbe il reagente di fronte alla condotta del pubblico ufficiale (ed assimilati). 995 Morselli, cit., p. 44 di minore efficacia un’altra obiezione proposta dallo stesso autore concernente la difficoltà processuale della prova della natura arbitraria dell’atto che comporti una indagine di natura psicologica. L’obiezione, se vera, dovrebbe potersi estendere alle identiche difficoltà probatorie comuni ad altri requisiti di natura psicologica del reato. Cfr. Ardizzone S., cit., p. 8 secondo il quale L’obiezione appare di una certa gravità e avrebbe la forza di paralizzare il requisito anche se ci si rifacesse alla concezione dicotomica. Sotto quest’aspetto, essa riprende una valutazione critica già formulata contro l’arbitrarietà soggettiva pur in una prospettiva causale.
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Inoltre, se oltre l’illegittimità dell’atto, si ritenesse necessario l’arbitrarietà intesa come mala fede
del pubblico agente sorgerebbe qualche difficoltà a cogliere unitariamente il nesso di causalità tra
atto pubblico e reazione996. Non potendosi verificare la mala fede del pubblico agente farebbe
difetto l’arbitrarietà e, quindi, mancherebbe un momento qualificativo della causa che renderebbe
carente il movente997. In ogni caso, verrebbero escluse dalla considerazione della fattispecie le
reazioni contro gli atti illegittimi compiuti in buona fede e a titolo di colpa.998
Il connotato soggettivo della condotta del pubblico ufficiale, in termini di dolo, richiesto dalla
giurisprudenza, esclude, inoltre, che lo stesso possa essere chiamato a rispondere per colpa999 e
rappresenta il punto di maggiore critica della dottrina all’impostazione seguita dalla giurisprudenza,
in quanto ritenuta contraddittoria rispetto alla ratio della norma che, volendo proteggere il cittadino
rispetto alle prevaricazioni dei pubblici funzionari e volendo al contempo segnare il limite della
legittimità del potere, comporta la sufficienza dell’oggettivo comportamento illecito del pubblico
ufficiale. In secondo luogo, aderire alla concezione soggettiva significa impedire al cittadino di
reagire contro un atto illegittimo compiuto da pubblico ufficiale per errore o colpa. Nell’ambito
dell'orientamento soggettivo, infatti, la giurisprudenza1000 ha più volte ribadito che l'efficacia
discriminante in ordine al delitto di oltraggio non può essere attribuita che ad un atto
consapevolmente arbitrario del pubblico ufficiale e non ad un semplice suo errore ovvero ad un atto
arbitrario commesso per pura colpa.
La dottrina, infatti, identifica l’arbitrarietà degli atti anche in tutti quegli atteggiamenti vessatori,
gratuitamente “sovrabbondanti” che esprimono provocazione, sopraffazione e sopruso da parte del
pubblico agente tenuti da quest’ultimo anche a titolo colposo1001 o, nel compimento di atti legittimi,
ma con modalità in contrasto con le esigenze dell’educazione e del costume sociale1002.
996 Cfr. Ardizzone S., cit., p. 8 per il quale seguendo gli snodi concettuali della nozione di arbitrarietà soggettiva, si è osservato che dovrebbe ritenersi interrotto il nesso causale per la buona fede del pubblico agente. 997 Per questa critica Crespi, L’atto arbitrario, cit., 307, il quale ne trovava argomento contro la tesi dell’autonomia significativa dell’arbitrarietà sul piano dei requisiti del fatto. 998Morselli, cit., p. 49 999 Ardizzone S., cit., p. 21 e ss.; Morselli E., cit., p. 59; Rampioni, Reazione, cit., p. 352 e ss.; Emma C., cit., p. 1413, secondo il quale si creerebbe un’inspiegabile differenza di disciplina tra la scriminante prevista dall’art. 393 bis c.p. e le altre, quali la legittima difesa e lo stato di necessità, invocabili innanzi a pericoli ed offese provocate da una condotta umana comunque definibile contra ius, anche se non connotata da dolo. 1000 Cfr., ex coeteris, Sez. VI, 9 luglio 1993, Scadetti, in Riv. pen., 1994, p. 811 e Sez. VI, 3 ottobre 1986, Trovato, in Giust. pen., 1987, II, c. 632, nella quale i giudici sostengono che “ai fini dell'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 4, l'atto del p. u. deve considerarsi arbitrario non soltanto perché illegittimo o dovuto a errore o a colpa, ma in quanto consistente in un comportamento che manifesti, per capriccio, malanimo, settarietà, prepotenza, sopruso ed altri simili motivi, una deliberata intenzione di eccedere dalle proprie attribuzioni”. 1001 In realtà sul punto la giurisprudenza è altalenante poiché in alcuni casi ha ritenuto necessario che il p.u. fosse consapevole dell’eccesso e dell’arbitrarietà dei suoi atti (parla di “piena consapevolezza e deliberato proposito di eccedere” Cass. Pen., 13 maggio 1998, in C.E.D. 210650), mentre in altri casi ha ritenuto la sufficienza di un’arbitrarietà anche solo colposa Cass. Pen., 9 luglio 1993, in C.E.D. 195413. 1002 L’arbitrarietà non è un requisito aggiuntivo, ma diviene essa stessa ragione e fonte dell’eccedenza, determinando il peso specifico della reazione legittima al punto che dovrà ammettersi anche quando l’atto che egli compie non esorbiti
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Riguardo la sufficienza, anche a titolo colposo, dell’arbitrarietà degli atti, essa si giustifica in
considerazione del fatto che far dipendere la legittimità della reazione dalla perspicacia o dalla
sensibilità del pubblico agente, andrebbe a frustrare l’oggettivo interesse della Pubblica
Amministrazione a che i suoi funzionari non travalichino i limiti del corretto esercizio dei poteri
loro conferiti, attraverso una condotta che il cittadino subisce e avverte come intollerabile.
Ora, è chiaro che in tal modo la scriminante finisce per essere applicata solo in casi sporadici, id est
soltanto in quelli più clamorosi e più marginali di arbitrarietà: il sopruso, la vessazione ed il
capriccio, infatti, intervengono solo in una percentuale minima dei casi in cui viene posto in essere
un atto in sè illegittimo, ovvero un atto legittimo, ma eseguito con modalità illegali. Pertanto, il
privato rimarrebbe privo di tutela in tutti gli altri casi, che sono poi i più numerosi, in cui si ha un
atto oggettivamente illegittimo, anche se non accompagnato da malafede. Si è anche obiettato che
un'interpretazione tanto restrittiva della scriminante rischierebbe di svilirne il significato «di
principio», mostrando con ciò attenzione piú all'esigenza di preservare il decoro e il prestigio della
pubblica amministrazione che alle stesse ragioni di libertà e democrazia che hanno ispirato la
reintroduzione dell'istituto subito dopo la fine del regime fascista 1003
Tale impostazione, dovuta alla palese preoccupazione di dare alla scriminante in parola
un'interpretazione più restrittiva possibile (in modo da contenere al massimo la possibilità di
reazione del cittadino), finisce per spogliare di ogni valore la norma, arrivando all'assurdo che
proprio nel nostro ordinamento giuridico, il quale è l'unico degli ordinamenti europei a definire la
scriminante in una norma autonoma1004, tale norma venga poi, in pratica, resa inoperante.
Inoltre, se la ratio dell'istituto è quella di offrire una tutela al privato che vede leso un diritto
soggettivo da un atto illecito del funzionario pubblico, non si comprende perché questa tutela debba
essere concessa solo quando l'illecito venga commesso in malafede e non anche in caso di errore o
di colpa. Infatti, la lesione del diritto c'è nell'uno e nell'altro caso in egual misura e la disparità di
trattamento non trova giustificazione alcuna. Nel momento in cui l'ordinamento giuridico accorda al
di per sé dall’esercizio dei poteri legali, ma possa dirsi nondimeno arbitrario per le circostanze e le modalità contingenti che ne accompagnano l’esecuzione. Sul punto anche Cass. Pen. 4 giungo 1998, in C.E.D. 205883 secondo cui l’atto del p.u. “pur essendo sostanzialmente legittimo venga compiuto con modalità scorrette, offensive o comunque sconvenienti”, per “cui la reazione postula non tanto l’illegittimità dell’atto quanto l’arbitrarietà del comportamento che può consistere anche nella sconvenienza, nella scorrettezza o nell’atteggiamento villano del p.u. E’ così arbitraria la manifestazione di capriccio, malanimo, settari età, prepotenza, mentre rappresenta solo l’attenuante della provocazione il comportamento ironico ma non oggettivamente ingiurioso del p.u.” (Cass. Pen., 10 aprile 1996, Pacifici, in Cass. Pen., 1997, p. 2700 ss. e in Giust. pen., 1997, II, p. 406 e Cass. Pen., 9 luglio 1998, in Cass. Pen., 2000, p. 582 ss.) 1003 Visconti C., Nuove tendenze applicative in tema di reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale?, in Foro It., 1993, II, p. 592. 1004 Infatti le altre legislazioni, o non prendono nemmeno in esame la scriminante in parola, o la regolano indirettamente, includendo nelle disposizioni relative alla violenza e all'oltraggio contro un p.u., il requisito della legittimità delle funzioni esercitate dal soggetto passivo, di modo che la non punibilità della reazione discenda dal difetto di tipicità del fatto. Per un'analisi del dibattito di politica-legislativa, cfr. Ardizzone S., cit., p. 1-2.
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privato la tutela dei propri diritti soggettivi, detta tutela interviene contro qualunque lesione del
bene giuridico protetto dalla norma, a nulla rilevando l'atteggiamento psichico del suo autore.
L'elemento soggettivo del pubblico ufficiale vale solo per accertare la sua maggiore o minore
responsabilità, ma a giustificare la reazione del privato è sufficiente l'accertamento dell'illegittimità
oggettiva dell’atto1005.
L’esperienza giuridica indica che devono essere ricondotte nell’ambito della scriminante situazioni
nelle quali non è riscontrabile la mala fede del funzionario. Si tratterebbe di fatti ingiusti
interpretabili più opportunamente alla stregua dell’arbitrarietà obiettiva. 1006 Il rilievo peraltro non
appare decisivo, se ci si riferisce alla posizione dicotomica dell’arbitrarietà, la quale riconosce che
ambedue i significati – soggettivo e oggettivo – possono essere attribuiti al requisito. Di modo che,
ove non fosse possibile riscontrare la mala fede del pubblico funzionario, il requisito sarebbe
adempiuto, egualmente, dal profilo obiettivo.
Non trovandosi uno spazio autonomo per i casi di arbitrarietà soggettiva è gioco forza riconoscere
che l’unico significato praticabile rimanga quello di arbitrarietà oggettiva.1007
L’opposto orientamento1008 (più liberale), è sostenuto da una giurisprudenza minoritaria1009, attenta
alla tutela del privato di fronte ad atti della pubblica autorità; in questa prospettiva si reputa che non
sia necessario esperire un’indagine sull’atteggiamento psicologico del pubblico ufficiale e pertanto
si considera arbitrario, oggettivamente, «l’atto del pubblico ufficiale che, pur essendo
sostanzialmente legittimo, venga compiuto con modalità scorrette, offensive o comunque
sconvenienti, in quanto la convenienza e l’urbanità dei modi, esplicitamente imposti a determinate
categorie di P.U. da disposizioni espresse, devono ritenersi doverose anche in difetto di esplicite
1005 Pitton D., cit., p. 2; Crespi A., cit., p. 304, già all'indomani della reintroduzione della scriminante della reazione agli atti arbitrari del p. u. aveva affermato che “il rapporto soggettivo di natura psicologica che lega l'autore al torto da lui cagionato ... avrebbe importanza per la personale imputazione del torto, ossia per la determinazione della colpevolezza. La conformità o meno di un atto ai suoi presupposti formali o sostanziali, è un aliquid che può essere oggettivamente provato, mentre la buona fede potrà servire, al più, per esimente il funzionario da un'eventuale responsabilità penale o disciplinare, ma non servire ad attribuire carattere di legittimità ad un atto o provvedimento contrario ad una norma giuridica”. Nel medesimo senso, cfr. Pezzi-Petrei A., cit., p. 414-415. 1006 Morselli E., cit., p. 41 1007 Ardizzone S., cit., p. 6. 1008 Cfr. F. Chiariotti, cit., p. 47 ss.; Crespi A., cit., p. 301 ss.; Fiandaca G. - Musco E., cit., p. 304-305; Flora G., Il redivivo oltraggio, cit. p.1454, secondo il quale l’arbitrarietà dovrebbe essere intesa come illegittimità in senso ampio (e non tecnico amministrativo) dell’atto o di per sé o per le modalità sconvenienti o comunque scorrette con le quali ne è accompagnato il compimento senza che sia necessario un atteggiamento dolosamente prevaricatore o vessatorio del p.u.; Morselli E., cit., p. 37 s.; Pezzi-Petrei A., cit., p. 409 s.; Visconti C., cit., p. 591 ss. 1009 Al riguardo cfr. Cass. pen., 10 aprile 1996, Pacifici, in Foro it. Rep. 1997, voce Oltraggio, n. 29, e, per esteso, Giut. Pen., 1997, II, 406; Cass. pen., sez. VI, 29 settembre 1982, Pedroni, in Giust. Pen., 1983, II, p. 651; Cass. 24 giugno 1980, Braidic, in Foro it., Rep. 1981, voce Oltraggio, n. 16; Cass. pen., 9 maggio 1980, Geraci, in ibidem., n. 18; Cass. pen., 11 novembre 1974, in Cass. Pen., 1976, p. 10: secondo la quale l’arbitrarietà dell'atto può essere costituita anche dalla sola ingiustizia obiettiva del comportamento del pubblico ufficiale, indipendentemente, cioè, dal fatto che tale comportamento si concreti in un vero e proprio sopruso intenzionale, giacché atto arbitrario è quello che il pubblico ufficiale non ha potestà di compiere; Pret. Bologna, 8 novembre 1969, Sermoneta, in Giur. mer., 1972, II, p. 172.
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disposizioni legislative»1010. Secondo la teoria oggettiva, pertanto, l’atto è arbitrario quando, pur
essendo legittimo in astratto, è stato compiuto con modalità scorrette o con modi arroganti e
sconvenienti tali da delegittimarlo1011. In realtà non si reagisce ex art. 393 bis contro un atto
giuridico, sia esso legittimo o illegittimo, ma contro le modalità arbitrarie della sua esecuzione1012.
È stato osservato1013 che la connotazione in senso oggettivo determina uno spostamento verso il
requisito dell’illegittimità, nel senso di intendere l’atto arbitrario come contrario alle regole di
condotta imposte, per il caso, al pubblico agente. In particolare in dottrina l’arbitrarietà,
nell’accezione “oggettiva”, esprimerebbe un eccesso modale nella specie di modalità illecite1014.
Secondo questa definizione ricadono nell’ambito applicativo della norma l’ipotesi in cui il pubblico
agente pone in essere un reato1015; quello in cui lo stesso violi una norma extra penale (ad es. norme
sociali di correttezza di azione) che ne vincoli l’attività e lo sottoponga ad obblighi e limitazioni1016,
nonché i casi di scorrettezza, cioè l’esecuzione di atti legittimi con modi villani e scortesi1017.
L’arbitrarietà dell’atto lo qualifica come illegittimo, perché in esso si esprime uno sviamento
dell’esercizio di potere pubblico dallo scopo per cui è attribuito1018. Essendo l’arbitrarietà un
connotato oggettivo dell’atto, che lo carica di disvalore, non deve essere confuso con il fastidio
arrecato al destinatario1019.
1010 Cfr. Cass. pen., sez. VI penale, 21 novembre 2005, n. 2263, cit., secondo la quale si deve ritenere, seguendo un percorso ermeneutico più equilibrato e più aderente ai valori di uno Stato democratico e ai principi di reciproco rispetto tra gli organi di questo e i cittadini, che l'eccesso arbitrario rileva essenzialmente nella sua oggettività e non tanto nell'atteggiamento psicologico del p.u., difficile - per altro - da identificare da parte del soggetto privato; in sostanza, è al comportamento del p.u., obiettivamente considerato, che deve aversi primario riguardo e verificare se lo stesso venga percepito dall'osservatore avveduto come manifestazione di un atteggiamento psicologico improntato a prepotenza, sopruso, capriccio, malanimo, sì da giustificare, in analogia allo "stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui" ( art. 599 c.p., comma 2), la reazione immediata da parte di chi detto atteggiamento subisce e ne avverte la profonda ingiustizia; Cass. pen., Sez. VI. 27 ottobre 1980, n. 11030 e Cass. penale , Sez. VI, 6 febbraio 81 n. 753 secondo cui "può essere invocata l'esimente dell'atto arbitrario ogni qualvolta il pubblico ufficiale abbia agito in modo aggressivo o vessatorio e comunque privo di quella convenienza e urbanità che costituiscono esigenze fondamentali di ogni civile convivenza". La Corte Cost. nella sentenza n. 140/88 precisa, altresì, che “la scorrettezza e la sconvenienza delle modalità di esercizio di un’attività conforme sotto il profilo sostanziale alle norme di legge si traducono in un eccesso dai limiti delle attribuzioni del pubblico ufficiale”. 1011 Cass. pen., sez. VI, sent. 27 ottobre 2006, n. 36009, Tonione, in D & G Diritto e Giustiza, 2006, 42, p. 80. 1012 Vinciguerra S., cit., p. 130. 1013 Ardizzone S. , cit., p. 7. 1014Venditti R., cit., p. 105. 1015 Ardizzone S., cit., p. 7 ,secondo il quale la modalità sopra descritta è quella “definita arbitraria per eccellenza”. 1016Venditti R., cit., p. 107 1017 Venditti R., cit., p. 109 secondo il quale in riferimento a quest’ultimi si utilizza il criterio di massima secondo il quale ai fini dell’arbitrarietà, è rilevante quella scorrettezza che, pur non costituendo violazione di norme penali ne extra penali, presenta, in concreto, alla luce delle circostanze che caratterizzano il fatto, una intensità tale da ripugnare gravemente al costume sociale e da integrare una particolare odiosità. 1018 Vinciguerra S., cit., p. 131 1019 Vinciguerra S., cit., p. 131 il quale ricorda che la richiesta di documenti da parte del pubblico ufficiale per l'identificazione della persona è atto tipicamente rientrante nelle sue funzioni, potendo egli identificare chiunque per motivi di sicurezza e, in concorso di talune circostanze di tempo e di luogo, anche per motivi di ordine pubblico, e pertanto non può costituire atto arbitrario del medesimo pubblico ufficiale, ai sensi dell'art. 4 del d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 288 (Nella specie l'imputato di oltraggio, resistenza e lesioni a pubblico ufficiale aveva sostenuto l'arbitrarietà della richiesta dei documenti da parte del pubblico ufficiale, in quanto egli si era limitato a svolgere rimostranze per il
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Anche nell’evoluzione giurisprudenziale1020 è stata accolta una nozione oggettiva dell’arbitrarietà
individuata nelle ipotesi in cui il comportamento si discosta da talune direttive di azione con
l’effetto riflesso di una sostituzione della volontà del pubblico agente alle indicazioni provenienti
dalle norme dell’ordinamento. Questa impostazione sembrerebbe dar ragione a quella corrente
dottrinale già ricordata che aveva ampiamente intuito e dimostrato che l’arbitrarietà non costituisce
un autonomo requisito del fatto, ma indica, dal lato del comportamento, quella violazione di norme
costituita dal requisito dell’illegittimità1021.
La Corte di Cassazione1022 ha precisato che tale interpretazione è in linea con la normativa
legislativa che disciplina (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 13, impianto ispiratore della L. n. 241 del 1990)
i comportamenti dei pubblici impiegati e i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, con le
ragioni storico-politiche che hanno indotto il legislatore a reintrodurre nell'ordinamento penale, sin
dal 1944, l'esimente dell'atto arbitrario e con gli interventi della Corte Costituzionale volti a rendere
le norme del codice penale sui delitti dei privati contro la pubblica amministrazione compatibili con
l'assetto dei rapporti tra autorità e cittadino propri di un ordinamento democratico (cfr. anche
sentenza C. Cost. n. 341 del 1994). Alla luce dei valori espressi dalla nostra Costituzione, il
rapporto tra Amministrazione e cittadino non deve risolversi in un rapporto autoritario e d'imperio,
ma in un rapporto funzionale alla cura degli interessi del cittadino, i cui diritti e la cui dignità, quale
che sia il concreto contesto, non devono mai essere mortificati o calpestati.
A questa impostazione ha aderito la Corte Costituzionale, con la sent. n. 140/19881023, la quale ha
precisato che l’arbitrarietà del comportamento deve essere ravvisata ogni qual volta il pubblico
temporaneo divieto di transito per una pubblica strada - per motivi di ordine pubblico - ignaro delle ragioni di tale provvedimento, onde la richiesta di documenti, di per sè legittima, sarebbe divenuta arbitraria in quanto conseguente a tali rimostranze, Cass., sez. VI, 02 ottobre 1998, n. 11519, Chiani, in Cass. pen., 1999, p. 3119 (s.m.), in Giust. pen. 1999, II, 608 (s.m.). 1020 Cassazione penale, sez. VI, 09 febbraio 2004, n. 10773, M., in D&G - Dir. e giust., 2004, 13, p., secondo la quale affinché sussista la scriminante di cui all'art. 4 d.lgs.lgt. 288/44 (il quale prevede l'inapplicabilità dell'art. 337 c.p. quando il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni) non è sufficiente che l'atto compiuto dal pubblico ufficiale sia semplicemente illegittimo, ma è necessario che esso - oltre ad essere antidoveroso - sia caratterizzato o da modalità oggettivamente offensive, ovvero da uno sviamento rispetto allo scopo per il quale il relativo potere è attribuito dall'ordinamento. 1021 Ardizzone S., cit., p. 7. 1022 Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2006, n. 2263, in D&G, Diritto e Giustizia, 2006, 9, p. 47, secondo la quale la teoria soggettiva non prende affatto in considerazione la posizione del soggetto privato, alla quale soprattutto deve essere dato il giusto rilievo, proprio per coglierne la proiezione psicologica nella dinamica della condotta incriminata. 1023 Corte Costituzionale sentenza 23 aprile 1998, n. 140, in Foro. It., 1999, I, 1412 e ss. . La questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Pretore di Latina con ordinanza emessa il 31 gennaio 1997, pubblicata nella Gazz. Uff. n. 28, prima serie speciale dell'anno 1997, investiva il comma 2 dell'art. 599 c.p. Il giudizio a quo che ha dato luogo all'intervento della Corte costituzionale è rappresentato da un procedimento penale per oltraggio a pubblico ufficiale, nell'ambito del quale è emerso, a dibattimento, che gli agenti di polizia giudiziaria, persone offese dall’oltraggio, avevano tenuto, nei confronti dell'imputata, un comportamento complessivo che, ad avviso del giudice rimettente, pur non integrando gli estremi della scriminante di cui all’art. 4, D.lgs.Lgt. n. 288/1944, risultava avere le caratteristiche della provocazione per fatto ingiusto, prevista dall'art. 599, 2° comma, c. p., quale causa di giustificazione per i reati di ingiuria e diffamazione, ma valutabile, in relazione al reato di oltraggio, soltanto come circostanza attenuante ai sensi dell’art. 62, primo comma, n. 2, c. p. Il giudice rimettente sollevava, quindi, questione di legittimità costituzionale nei
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ufficiale ha agito “in modo aggressivo, vessatorio o comunque privo dei requisiti di convenienza ed
urbanità in cui si esprimono le esigenze fondamentali di ogni civile convenienza”1024. Di
conseguenza l’esimente sarà integrata ogni qual volta il pubblico ufficiale compia un atto legittimo
o illegittimo, che sia posto in essere con modalità non consentite dall’ordinamento giuridico,
trasmodando in ingiurie, minacce e violenze o anche soltanto in violazioni di norme extra-penali,
sociali o regolamentari che presiedono ad ogni attività indirizzata ad interferire con la libertà di
confronti del citato art. 599, ritenendo tale esimente inapplicabile nelle ipotesi di delitto di oltraggio e in ciò scorgendo un trattamento sanzionatorio irragionevole e ingiustificatamente disomogeneo. Infatti, ad avviso del giudice rimettente, la disposizione censurata - che esclude la punibilità di chi commette i fatti preveduti dagli artt. 594 e 595 c.p. (ingiuria e diffamazione) nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso - violerebbe l’art. 3 della Costituzione “nella parte in cui non ne è prevista l'applicabilità anche al reato di cui all'art. 341 del codice penale” (oltraggio a pubblico ufficiale). In particolare, il giudice a quo ritiene che nell'ipotesi in cui un pubblico ufficiale ponga in essere comportamenti tali da rivestire le caratteristiche del «fatto ingiusto», ma comunque non integranti gli estremi degli «atti arbitrari» di cui all'art. 4 del D.lgs.Lgt. n. 288/1944, l’impossibilità di applicare la causa di giustificazione codificata nella norma censurata «determinerebbe, a seconda che la persona offesa sia un privato o un pubblico ufficiale e, quindi sia configurabile, rispettivamente, il delitto di ingiuria ovvero quello di oltraggio, una irragionevole disparità di trattamento, a fronte di un analogo comportamento provocatorio del soggetto passivo del reato». A sostegno della propria tesi, il Pretore di Latina ritiene che già in precedenza la stessa Corte costituzionale - il riferimento è a Corte cost. 25 luglio 1994, n. 341, in Giur. cost., 1994, II, p. 2802 s. - ha affermato l'irragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio tra i delitti di ingiuria e di oltraggio, in conseguenza dell'avvenuto mutamento dei valori morali e giuridici propri, in questo momento storico, della collettività, che sarebbe sempre più portata a considerare l'offesa recata al pubblico ufficiale equivalente a quella recata a ciascun cittadino. Per un commento si rinvia a Emma C., cit., p. 1412 e ss.; Gallo E., cit., p. 1105, secondo il quale la decisione della Corte appare convincente e corretta; Imarisio L, Sui presupposti della legittima reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, in Giur. It., 1998, XII, p. 2355 secondo il quale la Corte ha scelto di operare un intervento «sobrio» e non dirompente nella forma, ma non per questo meno incisivo e, per certi aspetti, innovativo nella sostanza: la sentenza del Giudice costituzionale è infatti intervenuta in un contesto giurisprudenziale e dottrinale in evoluzione e, in ogni caso, non ancora consolidato, sicché pare legittimo affermare che abbia operato, se non contro il «diritto vivente» , per lo meno in assenza di esso; Pitton D., Provocazione e delitto d'oltraggio: applicabilità delle disposizioni sulla legittima reazione del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, in Cass. Pen., 1999, p. 3, secondo la quale “i giudici della Consulta, con tale sentenza interpretativa di rigetto, pur avendo dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, hanno, pur tuttavia, offerto una reinterpretazione «costituzionalmente orientata» della scriminante speciale della reazione agli atti arbitrari del p.u.” Per quanto concerne la giurisprudenza costituzionale, un precedente della odierna pronuncia può essere individuato nella sentenza n. 100 del 1977 (in Giur. Cost., 1977, 765). In tale occasione il giudice rimettente, assumendo come premessa interpretativa l'inapplicabilità della scriminante di cui all'art. 4 del D.lgs.Lgt. n. 288/1944 nell’ipotesi di fatto ingiusto ma non arbitrario del pubblico ufficiale, sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 341 c. p. (in relazione all'art. 3 Cost.), denunciando l'impossibilità di ricomprendere la reazione al fatto meramente «ingiusto» del pubblico ufficiale per lo meno nella fattispecie dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all'art. 393 c. p. La Corte, argomentando in relazione alla discrezionalità del legislatore, dichiarava non fondata la questione, mostrando, nel contempo, di far propria un'interpretazione della scriminante prevista per la legittima reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, diversa e piú restrittiva rispetto a quella adottata nell'odierna pronuncia. Il giudice costituzionale riteneva, infatti, che rientrasse nella sfera di libera valutazione del legislatore «l'assumere a causa di non punibilità l'esorbitanza del pubblico ufficiale dalle proprie funzioni, e non anche la diversa ipotesi della pura e semplice illegittimità degli atti da esso posti in essere», aderendo, dunque, a quell'accezione «soggettiva» del requisito dell'arbitrarietà. 1024 La Corte Costituzionale, inoltre, nella sent. n. 140/1988 motiva l’adesione all’interpretazione più lata dell’art. 4 del D.lgs.lgt. n. 288/1944 con ragioni di ordine storico-politico, che sono sintomatiche della diversa disciplina dei rapporti tra cittadino e autorità rispettivamente negli ordinamenti liberal-democratici e nei regimi totalitari e sottolinea che non sono d’ostacolo all’interpretazione prospettata “né la formulazione della norma, né considerazioni di ordine sistematico” in quanto “arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono i medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all’atto illegittimo e della illegittimità dell’atto in sé considerato”.
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altri, perciò sottoponendola ad obblighi e limitazioni1025. Secondo la Corte «arbitrarietà ed eccesso
delle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno», nel senso che «il comportamento scorretto,
incivile, inurbano, sconveniente del pubblico ufficiale rende di per sé la sua condotta estranea alle
funzioni e, quindi, illegittima». In altri termini, è proprio l'arbitrarietà che rende illegittimo il
procedere e quindi inapplicabili le norme che sottopongono a pena la reazione del privato, perché
l'arbitrarietà rappresenta di per sé stessa un eccesso dalle attribuzioni. E se ciò si verifica persino
quando «l'atto è sostanzialmente legittimo», vuol dire che non viene in causa la legittimità dell'atto
che è alla base del procedere: significa che, per questa interpretazione, la causa di esclusione della
pena (qualsivoglia sia per essere la sua natura) non si applica quando il privato oltraggia o resiste
soltanto perché mette in dubbio la legittimità dell'atto, che il pubblico ufficiale sta eseguendo con
urbanità e con il dovuto rispetto per la persona del cittadino1026.
Per ogni pretesa che si riferisce alla mera illegittimità dell’atto il privato ha facoltà di esperire i
rimedi previsti dalla legge, ma non certo quella d’inveire o di resistere, altrimenti l'intero
ordinamento entrerebbe in crisi, e la coesistenza umana si trasformerebbe in una perenne
conflittualità verbale e materiale.
In un solo caso, potrebbe essere riconosciuta al privato legittima resistenza per ragioni
esclusivamente inerenti all'atto, quando questo si presentasse manifestamente abnorme
(terminologia preferita dai penalisti) o giuridicamente inesistente (termine preferito dai privatisti).
È stato, inoltre, rilevato1027 che la soluzione indicata dalla Corte consente di superare taluni dubbi
espressi in ordine alle implicazioni di u’'interpretazione eccessivamente estensiva della scriminante.
1025 Morra M., cit., p. 79, secondo il quale la mera inurbanità dei modi del pubblico agente nel corso dell’esecuzione di un'attività conforme al diritto, di per sé, non sia in grado di integrare gli estremi della reazione legittima, giacché in tal caso non viene in rilievo una delle fondamentali ragioni giustificative dell'istituto, quella di impedire l'uso illegittimo dei poteri amministrativi. Il comportamento sconveniente o scortese, tuttavia, oltre che rilevare in ambiti diversi quale ad esempio quello disciplinare, e poter integrare la circostanza attenuante della provocazione di cui all'articolo 62 n. 2 c.p., può determinare l'applicazione della causa di non punibilità della reazione legittima, laddove, per la sua particolare intensità, o per le circostanze del caso concreto (tra cui ad esempio un dovere di correttezza normativamente imposto ad alcune categorie di soggetti pubblici), valga a connotare il comportamento del pubblico agente in termini di antigiuridicità. 1026 Gallo E., cit., p. 1108 secondo il quale quella dell’inesistenza è una situazione giuridica da non confondere con la nullità. In effetti l’atto inesistente o abnorme resta fuori dal diritto e dallo spettro dei valori del sistema e non coinvolge alcun fenomeno di qualificazione: l'atto nullo, al contrario, presuppone una fattispecie giuridica, anche se viziata e negativamente qualificata . In quel caso il privato potrebbe resistere impunemente all'esecuzione dell'atto in quanto, non avendo questo alcun riferimento al diritto, è esso stesso arbitrario, indipendentemente dai modi della sua attuazione. 1027 Imarisio L., cit., p. 2358. Secondo l’autore il parallelismo individuato a livello di struttura complessiva delle due cause di giustificazione induce inoltre a ritenere che debba ritenersi superato l'orientamento giurisprudenziale volto, in relazione ai delitti di oltraggio, a concedere l'attenuante della provocazione di cui all'art. 62, n. 2, c. p., negando, al contempo, l’applicazione dell'esimente della reazione ad atti arbitrari (Cfr., da ultimo, Cass. pen., 18 settembre 1997, in Riv. Pen., 1998, I, p. 112, ove si afferma che «In tema di oltraggio, l'esimente prevista dall’art. 4 del D.lgs.lgt. n. 288/1944 non si identifica con l'attenuante della provocazione, ma richiede presupposti e condizioni ben diverse. Essa è inapplicabile in relazione alle sole modalità esecutive dell'adempimento di un dovere funzionale del pubblico ufficiale, richiedendo la commissione di un "atto arbitrario". Non sussiste peraltro contraddizione tra la concessione dell'attenuante della provocazione e l'esclusione dell'esimente speciale, essendo diversi, sul piano oggettivo e soggettivo, i presupposti che condizionano la configurabilità dei due istituti». Può, inoltre, rilevarsi come lo stesso
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In particolare, si era sostenuto che una nozione di eccesso arbitrario fondata sulle modalità
comportamentali dell'agente sarebbe risultata estremamente labile, in quanto avrebbe determinato,
in ogni caso, un alto grado di incertezza relativamente «al quantum (per dir cosí) di inurbanità,
scorrettezza, o maleducazione di fronte al quale si dovrebbe plausibilmente ritenere superato il
limite delle attribuzioni del p. u.1028. Nella ricostruzione prospettata dal Giudice costituzionale non
pare, invece, si possa riscontrare la denunciata «incertezza»: l'esplicito accostamento proposto dalla
Corte tra l'arbitrarietà dell'atto quale presupposto applicativo della scriminante in oggetto e
l'ingiustizia del fatto richiesta per integrare l'esimente della provocazione di cui all'art. 599,
consente di fare riferimento ai consolidati orientamenti giurisprudenziali1029 e dottrinali1030
sviluppatisi in relazione a quest'ultima fattispecie, in relazione alla quale non si è riscontrata
un'indeterminatezza tale da precluderne l'operatività.
LA RILEVANZA DELL’ARBITRARIETÀ PUTATIVA
Il problema della qualificazione giuridica dell’esimente costituisce la premessa per la soluzione, in
un modo piuttosto che in un altro, di quello riferito alla rilevanza o meno dell’ipotesi in cui il
privato creda, per errore di fatto incolpevole, che il p.u. agisca con atti arbitrari1031 o di quella in cui
il privato abbia ignorato l’arbitrarietà del comportamento1032.
giudice rimettente che ha dato luogo alla pronuncia di costituzionalità in commento, riteneva di doversi conformare a tale indirizzo interpretativo.) . Poiché, infatti, risulta riconosciuto che la provocazione, prevista, in generale, quale circostanza attenuante e quella contemplata, in riferimento ai delitti contro l'onore, quale esimente, sono fondate sulla stessa nozione di «fatto ingiusto altrui», affermare (in relazione alla condotta del soggetto offeso) una piena equivalenza tra i presupposti applicativi della provocazione quale scriminante ex art. 599 c. p., e l'arbitrarietà degli atti di cui all'art. 4, D.lgs.lgt. n. 288/1944, comporta l'individuazione di una analoga equivalenza anche tra quest'ultima fattispecie e la provocazione prevista, quale circostanza attenuante, all'art. 62, n. 2, c. p. Conseguentemente, risulterebbe manifestamente contraddittoria la decisione, una volta accertata l'«ingiustizia» della condotta del pubblico ufficiale, di concedere l'attenuante e non l'esimente. 1028 Visconti C., cit., p. 594. L’autore osserva, inoltre, che attribuendo una rilevanza decisiva alle modalità della condotta del pubblico ufficiale, si rischierebbe di spostare l'attenzione dal dato oggettivo costituito dall'illegittimità dell'atto, a quello «soggettivo» legato al momento psicologico alla base della condotta, alla stregua dei più restrittivi e già ricordati presupposti fatti propri, in passato, specialmente dalla giurisprudenza di Cassazione. 1029 Cfr. Cass. pen., 16 ottobre 1986, in Riv. Pen., 1987, p. 874, ove si afferma che integrano la fattispecie del «fatto ingiusto altrui» quelle scorrettezze gravi e plateali che siano idonee a determinare uno stato d'ira oggettivamente giustificato. Si vedano anche, tra le numerose sentenze in materia, Cass. pen., 22 ottobre 1980, in Cass. Pen., 1981, p. 748; Cass. pen., 15 maggio 1975, in Giust. Pen., 1975, II, p. 329. 1030 Antolisei F., cit., p. 201 e ss.; Siracusano P., voce “Ingiuria e diffamazione”, in Dig. Disc. pen., Torino, 1993, p. 30 e ss. e la bibliografia ivi segnalata. 1031 Grosso C.F., I delitti contro la pubblica amministrazione, in AA.VV., Giurisprudenza sistematica di diritto penale, cit., p. 344 ss. 1032 Secondo Siracusano P., cit., p. 939, che amplia uno schema già contenuto in Crespi A., cit., p. 319 e Venditti R., cit., p. 175 è possibile individuare tre ipotesi di fattispecie produttive di errore sull'atto arbitrario. Nella prima l’errore del privato può riguardare i presupposti di fatto della causa di giustificazione (per esempio un detenuto s’aggrappa alle sbarre della finestra della cella, tenendo, quindi, un comportamento non regolamentare; all'improvviso viene colpito da una pietra lanciata contro le sbarre; riavutosi, scorge l'agente di custodia chino in un atteggiamento ingannevole, che ai suoi occhi lo incolpa del lancio del sasso; il detenuto allora oltraggia pesantemente l'agente. L’esempio e' tratto da Trib. Saluzzo, 9 gennaio 1952, Giur. it., 1952, II, p. 204 ss.). La fattispecie evidenzia un chiaro errore di fatto del soggetto
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Un orientamento è contrario all’applicazione dell’art. 59, c.p. alla reazione legittima ad atti arbitrari
del pubblico ufficiale1033. Coloro i quali non riconoscevano la qualifica di causa di giustificazione
negavano, infatti, la rilevanza dell’erronea supposizione di un atto arbitrario perché l’art. 59 c.p.,
come noto, non si applica a circostanze che non sono cause di giustificazione. Non è possibile
ricorrere all’arbitrarietà putativa perché la causa di esclusione della pena è una condizione esterna
ed ulteriore rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, pertanto non rientrano nell’oggetto del dolo.
Di conseguenza, in base a tale qualificazione giuridica, la Cassazione1034 aveva affermato che
che reagisce: non c’è ragione alcuna per non applicare l'ultimo comma dell'art. 59 c.p. Nella seconda l’errore può riguardare l'effettiva sussistenza di una causa di giustificazione, invece non riconosciuta dall’ordinamento: per esempio Tizio ritiene consentito reagire ad un agente in borghese, pur avendo riconosciuto la sua qualità, perchè non porta la divisa. In questo caso l’inescusabilità dell’errore è fuori discussione, trattandosi di un evidente errore sul precetto penale. Nella terza il privato può versare in errore sui limiti giuridici della causa di giustificazione prevista dall'art. 4 d.l.lgt. cit.: per esempio egli ritiene, errando sulla disposizione amministrativa che regola le requisizioni, di essere vittima di una ingiusta iniziativa del pubblico ufficiale. Come osservato, in questo caso, le difficoltà interpretative non si presentano diverse da quelle proposte in via generale dalla lettura dell'art. 47 terzo comma c. p., quale norma che indubbiamente regola la fattispecie appena ipotizzata (cfr. Siracusano P., cit., p. 942 ss.). Sicche', se si segue l’insegnamento che discrimina, nell'applicazione dell’art. 47 terzo comma, tra norme extrapenali integratrici e non integratrici del precetto penale , difficilmente si puo' evitare di ritenere che, nella fattispecie, le disposizioni che disciplinano l'esercizio della funzione, quali norme che segnano i limiti delle attribuzioni del pubblico ufficiale, integrino invariabilmente l'elemento normativo costituito dall'arbitrarietà (Crespi A., cit., p. 321) 1033 Ardizzone S., cit., p. 7 osserva che lo svolgimento di queste tesi incontra argomenti specificatamente attinenti alla fattispecie di non punibilità della reazione legittima – un certo modo di intendere il requisito di arbitrarietà con valenza esclusivamente oggettiva; la natura giuridica della fattispecie, per l’inapplicabilità dell’art. 59 c.p. in tema di cause di non punibilità erroneamente supposte – ed argomenti di teoria generale relativi alla configurazione ed estensione dell’errore ai fini dell’esclusione della responsabilità penale. Cfr. anche Maggiore, Diritto penale, vol. II, tomo I, Bologna, 1948, p. 221; Morselli E., cit., p. 133 ss.; Del Gaudio M., cit., p. 75, osserva che la problematicità della configurazione dell'arbitrio putativo sembrerebbe derivare più che da ragioni tecnico-giuridiche peculiari alla fattispecie, dal pregiudizio culturale di fondo rappresentato dall'intangibilità dell'azione amministrativa (in merito Cernetti G., Sull’applicabilità del disposto di cui al comma III dell'art 59 c. p. alla discriminante prevista dal d.l.lgt. 14 settembre 1944 n. 288, in Arch. pen., 1946, p. 408; più diffusamente Venditti R., cit., p. 170 s., e spec. nt. 20; cfr. anche dello stesso autore, Sul cosiddetto "arbitrio putativo", in Giur. it., 1954, II, p. 143. Prima dell'entrata in vigore dell’art. 4 d.lgs.lgt. n. 288/1944, la stessa giurisprudenza utilizzava, per giustificare alcune situazioni di reazione ad atti arbitrari, il paradigma della legittima difesa, ammettendone al contempo l’operatività anche putativa sulla base di un errore relativo all'ingiustizia della pretesa del pubblico ufficiale (Cfr. Cass. 11 gennaio 1940, Sc. pos., 1940, p. 178: “...Ammesso in merito che l'imputato d'oltraggio abbia agito nell'opinione e nella convinzione di opporsi doverosamente ad una ingiusta pretesa, tale soggettiva convinzione ... incide sul dolo dell'agente e ne influenza l'anima, escludendo ogni personale ed interessato movente”. Cfr. anche Cass. 10 gennaio 1939, Riv. it. dir. pen., 1939, p. 505; Trib. Caltanissetta, 5 aprile 1935, Foro it. rep., 1935, voce Oltraggio, n. 60.). Su questa linea quasi unanime la posizione della giurisprudenza: da ultimo Cass. pen., 24 gennaio 1985, in Riv. pen., 1985, 1136; Cass. pen., sez VI, 11 ottobre 1984, in Giust. pen.,1985, II, 350; Cass., sez. VI, 14 dicembre 1982, in Mass. Dec. Pen.,1983, m.157, 061. 1034 Corte appello Roma, 23 maggio 1979, Alonso e altro, in Giur. merito, 1981, p. 144 secondo la quale l’esimente prevista dall'art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288 del 1944 non è configurabile, sia pure sotto il discusso profilo putativo, nel caso di un intervento delle forze dell'ordine, volto a reprimere un'attività di propaganda politico-sindacale, degenerata, per le sue modalità, oltre i limiti di un'azione sindacale, sia pure atipica, e nella molestia del funzionamento di un servizio (ambulatori); giacché in tal caso non è dubitabile la scienza dei partecipanti circa la legittimità dell'intervento della polizia; Cass. pen., 2 marzo 1977, De Bei, in Cass. Pen., 1978, pag. 965 ss. secondo la quale non è applicabile l’esimente nemmeno quando, ad esempio la reazione sia stata posta in occasione di un arresto ritenuto illegittimo; Cass. Pen., 27 ottobre 1976, in Giur. It., 1978, II, p. 256 ss., che a tal riguardo di obiettività dell’atto arbitrario Cass. pen., 3 luglio 1974, in Cass. Pen., 1975, p. 1335 ss., secondo cui non è sufficiente la persuasione del soggetto attivo di essere stato trattato ingiustamente ma occorre invece un effettivo atto arbitrario; Cass. Pen., 7 maggio, 1973, in Cass. Pen., 1975, p. 175 ss. In realtà a tale indirizzo si oppone qualche pronuncia di merito: Trib. Napoli, 10 aprile 1976, in Giur. Mer., 1979, p. 697, con nota favorevole di De Angelis G., Sulla configurabilità di una reazione legittima putativa, secondo la quale l’ipotesi descritta nell’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288 del 1944 integra una circostanza di esclusione della
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l’erronea supposizione dell’arbitrarietà non fosse giuridicamente rilevante e che il reato non fosse
escluso1035. Di conseguenza l’arbitrarietà del comportamento del p.u. deve essere obiettivamente
esistente, per cui se il privato ritiene per errore scusabile, non dovuto a colpa, che il funzionario
abbia sconfinato i suoi poter, ma in realtà non lo ha fatto, non può invocare la scriminante.
Sul piano più propriamente tecnico-giuridico la formulazione letterale dell'art. 4 d.l.lgt. cit.,
indurrebbe a ritenere che la fattispecie postula l’esistenza dell’ccesso arbitrario del pubblico
ufficiale come dato reale, non essendo sufficiente la semplice supposizione dell'arbitrio da parte del
privato1036. Di conseguenza sarebbe irrilevante la valenza soggettiva del requisito obiettivamente
configurato1037. Si è pure osservato che le esigenze dell’ordine pubblico e del principio di autorità
non possono essere poste nel nulla da un’erronea rappresentazione di norme1038. Inoltre l’errore di
cui trattasi o rientrerebbe nella disciplina dell’art.5 c.p., poiché cade sulla norma penale – perché o
si risolve in un errore su un elemento integratore del precetto penale oppure interessa l’ambito di
estensione delle norme incriminatici della violenza, resistenza e oltraggio a pubblici agenti – ovvero
se è un errore di fatto determina uno stato dubbio nel reagente che configura un caso di dolo
eventuale.1039 Anche supposto trattasi di errore di fatto, l’errore sull’arbitrarietà non potrebbe
pena (in particolare, una causa di giustificazione); pertanto, è ammissibile nei suoi confronti la rilevanza putativa prevista dall'ultimo comma dell'art. 59 c.p. 1035 In merito alla situazione di cosiddetta “disparità di trattamento”, ovvero alle ipotesi in cui il reo riteneva legittima la reazione al pubblico ufficiale che aveva accertato un’infrazione a carico dell’autore del reato, omettendo di farlo anche nei confronti di terzi che si erano resi responsabili della stessa condotta la Corte ha ritenuto che la persuasione del soggetto autore della reazione di essere stato trattato ingiustamente, non è sufficiente a rendere legittima la reazione, essendo invece necessario che via sia stato realmente ed obiettivamente un atto arbitrario del pubblico ufficiale. L’asserita disparità di trattamento potrà dar origine ad una reazione legittima solo nel caso in cui sia dimostrato che il comportamento del pubblico ufficiale sia motivato unicamente da “settarietà, prepotenza o simili cause” 1036 Si veda in tal senso Cassazione penale sez. IV, 5 novembre 1996, n. 10747, Figus, in Giust. pen., 1997, II, p. 520 (s.m.), in Cass. pen., 1998, p. 116 (s.m.), secondo la quale l'erronea convinzione da parte dell'agente di trovarsi di fronte a un comportamento illecito del pubblico ufficiale non vale ad escludere la responsabilità penale, dato che l'arbitrarietà del comportamento deve essere obbiettiva; Cass. pen., sez. VI, 21 marzo 1990, in Riv. pen., 1991, p. 58 ss.; Cassazione penale 13 luglio 1989, in Riv. Pen., 1990. p. 792; Cass. sez. V, 21 dicembre 1988, in Giust. pen. 1989, II, p. 257 ss.; Cass. 16 dicembre 1987, in Riv. pen., 1989, p. 864 (m); Cass. pen., 16 ottobre 1986, in Riv. pen. 1989, p. 105 (m); Cass. 24 gennaio 1985, Riv. pen., 1985, p. 1136; Cass. pen., sez. VI, 11 ottobre 1984, in Giust. pen., 1985, II, p. 350; Cass. pen., sez. VI, 14 dicembre 1982, in Mass. Dec. Pen.,1983, m.157, 061 e in Giust. pen., II, p. 1652, secondo la quale la reazione oltraggiosa ad un atto del pubblico ufficiale erroneamente considerato arbitrario non vale a discriminare la condotta dell'agente, poiché l'arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale deve essere oggettivamente esistente e non meramente supposta; Cass. pen., sez. VI, 24 novembre 1984, Riv. pen., 1985, p. 738; cfr. anche Cass. 3 luglio 1979, ivi, 1980, p. 389; Cass. pen., 23 ottobre 1978, in Riv. Pen., 1979, p. 327; Cass., 19 gennaio 1971, in Giust. pen., 1972, II, p. 199, 65.. Si noti tuttavia che l’affermazione ha assunto natura tralatizia e si ripete spesso immutata sin dalla vigenza del cod. Zanardelli: cfr. quanto afferma in proposito Morselli E., cit., p. 133; Venditti R., cit., p. 168. Riporta l'affermazione senza condividerne l'assunto anche Ardizzone S., cit., p. 8. Si veda per una pronunzia nel senso dell'ammissibilità dell'arbitrio putativo, Pret. Arezzo, 19 gennaio 1991, Bozzi, in Cass. pen. 1992, 2205 ss. 1037 Cass. pen., sez VI, 24 novembre 1984, in Riv. Pen. 1985, p. 738; Cass. pen., 3 luglio 1979, ivi, 1980, p. 389; App. Catanzaro 15 giugno 1962, in Cal. Giud.,1963, 294; Cass. 12 ottobre 1957, in Giust. pen.,1958, II, 260 1038 Cfr. Morselli E., cit., p. 133. 1039 Morselli E., cit., p. 133. Del Gaudio M., cit., p. 56, ha osservato che l’errore sull’arbitrarietà dell'atto non giova al singolo per la presunzione di legalità che assiste gli atti dei pubblici ufficiali sicche', chi ad essi reagisse, lo farebbe necessariamente nel dubbio, ossia a titolo di dolo eventuale
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ricadere nella sfera di applicazione dell’art. 59 c.p. perché la fattispecie di legittima reazione non
rappresenta una causa di esclusione della pena né tanto meno una causa di giustificazione.1040
Se si afferma che la reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è una causa di
giustificazione ne discende, quale implicazione pratica, l’ammissibilità dell’applicazione dell’art.
59, ultimo comma, c.p. alla fattispecie1041 ai sensi del quale “se l’agente ritiene per errore che
esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia,
se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto
dalla legge come delitto doloso”. Non solo la scriminante è applicabile ex art. 59, 1c, c.p. nel caso
in cui il reagente abbia ignorato l’arbitrarietà contro cui reagisca, ma che ex art. 59, quarto comma,
c.p. quando l’errore di fatto del reagente è dovuto a buona fede. Errando sul carattere arbitrario del
comportamento del pubblico ufficiale, e rappresentandosi, il privato, un fatto diverso (errore sul
fatto) si poteva applicare l’art. 47 c.p.1042, negando la configurazione del reato di cui all’art. 337 c.p.
per mancanza dell’elemento soggettivo (dolo) e residuando, semmai, la punibilità per un diverso
reato.
Si è detto, inoltre, che anche interpretando il requisito di arbitrarietà in senso oggettivo, non sarebbe
illegittimo considerarne il riflesso soggettivo agli effetti della sua erronea rappresentazione, come
avviene per qualsiasi altro requisito di natura oggettiva del fatto di reato. Ciò sia per il versante
dell’art. 47 c.p. riguardo all’errore di fatto o di diritto su un elemento del fatto di reato, sia per
quanto attiene all’art. 59 c.p. per il caso di errore su una causa di esclusione della pena. Non si
comprende perché in caso di errore sull’arbitrarietà il reagente dovrebbe trovarsi sempre in dubbio
e, quindi, in dolo eventuale, scontandosi una presunzione assoluta di legittimità dell’atto posto in
essere dal pubblico soggetto. In effetti, cadendo in errore sull’arbitrarietà il reagente viene a
rappresentarsi un fatto diverso dal reale, supponendosi la non arbitrarietà come requisito dei reati di
violenza, resistenza e oltraggio di cui agli art. 336 ss. c.p..1043. Altresì, ritenuta la natura giuridica di
causa di esclusione della pena alla fattispecie delineata nell’art. 4 d.lg.lt. n.288 del 1944 non si
scorgono ostacoli all’applicabilità del comma ult. Dell’art. 59 c.p., escludendo la punibilità per il
1040 Morselli E., cit., p. 134. IN giurisprudenza Cass. pen., 25 gennaio 1963, in Giust. pen.,1963, II, p. 419; Cass. pen., 15 aprile 1958, in Giust. pen.,1958, II, p. 837; Cass. pen., 9 febbraio 1952, in Riv. pen.,1952, II, p. 324. 1041 In merito cfr. Antolisei F., cit., p. 433; Fiandaca G., Musco E., cit., p. 309, secondo i quali non vi sono argomenti decisivi per escludere l’applicazione dell’art. 59, terzo comma, c.p. 1042 Antolisei F., cit., p. 433 secondo il quale l’esimente sarà applicabile quando l’agente per errore di fatto ha ritenuto sussistente l’atto arbitrario. 1043 Cernetti G., cit., p. 408 .
232
caso che l’agente ritenga per errore che esistano circostanze di esclusione della pena1044. Al
riguardo si operano significative specificazioni.
Nulla questio se l’arbitrarietà putativa deriva da un errore di fatto: l’erronea supposizione di
circostanze, che, se fossero presenti, giustificherebbero l’azione, esclude la responsabilità. Al
contrario, se si versa nella rappresentazione esatta dell’atto compiuto dal pubblico agente, ma il
putativo discende da un errore di natura giuridica nel valutare il fatto, si verserà nella disciplina
dell’errore di diritto ex art. 5 c.p. ed il reagente sarà punibile1045. In definitiva si tratta di applicare
le regole, in base, alle quali sono rilevanti l’errore, di fatto e l’errore su legge extrapenale, ai fini di
escludere la responsabilità penale. Viceversa, l’errore sull’estensione e sulla qualificazione della
scriminante è irrilevante e cade sotto la disciplina dell’art. 5 c.p.. In tal modo si eguaglia, in tema di
errore, la disciplina disposte per quanto riguarda gli elementi positivi e quelli negativi della
condotta illecita.
LE MODALITÀ DI ESPLICAZIONE DELLA CONDOTTA DI REAZIONE
Nella previsione normativa di cui all’art. 393 bis c.p. sono contemplate due ipotesi diverse: la
reazione materiale e quella verbale. La condotta del privato che beneficia della causa di non
punibilità è ampiamente e minutamente descritta e qualificata nelle fattispecie di cui ai numerosi
articoli del codice penale richiamati in apertura della norma1046.
La prima, lesiva della sfera di azione della p.a., è determinata e legittimata dall’offesa di un diritto o
di un interesse del soggetto che reagisce, o dal pericolo di tale offesa (artt. 336, 337 e 338 e 339
c.p.). Su questo elemento s’innesta un’attività materiale, che trova la sua ragion d’essere
nell’esigenza di tutelare il diritto o l’interesse. Dinanzi a tale contrasto il legislatore considera lecita
la reazione, riconoscendo in essa l’assenza di danno sociale1047.
È stato osservato1048 che questa forma presenta delle affinità con la legittima difesa e svolge una
funzione integrativa e complementare in tutti i casi in cui il comportamento del p.u. non pone in
essere un’offesa ingiusta, ma si arresta ad un livello più basso d’illegittimità1049. Non risulta, però,
sempre semplice porre una linea di demarcazione tra il concetto d’illegittimità e quello
1044 Curatola, Osservazioni in tema di resistenza legittima reale e putativa, in Giust. pen., 1952, p. 1097; De Angelis G., Sulla configurabilitàdi una reazione legittima putativa, in Giust. merito, 1979, II, p. 697; Siracusano P., Reazione, cit., p. 941 ss; Trib. S. Maria Capua Vetere 4 marzo 1957, in Temi nap., 1957, II, 75 1045 Crespi A., L’atto arbitrario, cit., 319 ss; Longhi S., La legittimità, cit., p. 371 ss; Spizuoco R., La reazione, cit., p. 131 ss. 1046 Gallo E., cit., p. 1108 il quale non concorda con Venditti R., cit., p. 186 per il quale la causa di non punibilità sarebbe costruita esclusivamente sul comportamento del pubblico ufficiale, mentre non si preoccuperebbe “in nessuna maniera di descrivere o qualificare il comportamento del privato”. 1047 Antolisei F., cit., p. 428. 1048 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 305 e ss. 1049 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 305 e ss.
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d’ingiustizia1050. Per ricomprendere tutte le ipotesi di reazione materiale alcuni hanno proposto una
concezione estensiva dell’ingiustizia dell’offesa1051.
La struttura stessa della scriminante, però, ne garantisce l’autonomia1052. Essa, infatti, è costruita sul
comportamento del p.u. e non si preoccupa di descrivere o qualificare il comportamento del
privato1053. Ciò impedisce di far ricorso alla legittima difesa nelle ipotesi in cui “l’aggressore” sia
un pubblico ufficiale.
Inoltre, in merito ai rapporti tra l’art. 4 e la legittima difesa è stato evidenziato che in primo luogo
l’ambito di applicazione dei due istituti è diverso: l’art. 52 c.p. si applica solo nei casi in cui vi sia la
necessità di difendere un diritto proprio o altrui, mentre l’art. 4 trova applicazione anche quando la
reazione non si concreti in una semplice difesa, ma si concretizzi in una reazione1054 e solo in
riferimento ai delitti ivi contemplati1055.
In secondo luogo i rispettivi elementi costitutivi non sono identici: mentre ai fini della
configurabilità della legittima difesa è richiesto che l’aggressione, alla quale ci si oppone, sia
ingiusta, ovvero contrastante con una norma giuridica, l’esimente contemplata nell’art. 393 bis c.p.
esige qualcosa in più dell’ingiustizia, l’arbitrarietà dell’azione del funzionario1056. Per la legittima
difesa occorre sempre la necessità di respingere una violenza e l’attualità di quest’ultima, mentre
tali requisiti non sono richiesti per la reazione verbale1057.
L’istituto in parola concreta, pertanto, una forma anomala di legittima difesa che consiste nella
reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale. Siamo in presenza, quindi, di una vera e
propria causa di giustificazione, la quale, per la sua struttura, deve essere ricompresa nel novero
della cause di non punibilità e, per tale ragione, va assimilata alla scriminante della legittima difesa
di cui all'art. 52 c.p., pur dovendosi riconoscere che essa afferisce ad una limitata, quanto specifica
serie di reati, che il legislatore circoscrive ed individua in modo.
1050 Morselli E., cit., p. 306. 1051 In tal senso Chiarotti F., cit., p. 114; Morselli E., cit., p. 94. 1052 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 306. 1053 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 306; Venditti R., cit., p. 186. 1054 Antolisei F., cit., p. 423, il quale chiarisce che anche se la legittima difesa può concepirsi in astratto in relazione alla resistenza, quando questa sia diretta ad opporsi all’attività arbitraria, non sarebbe comunque applicabile all’ingiuria, tutte le volte in cui quest’ultima non costituisca una forma di difesa ad una aggressione attuale, ma abbia, come accade di regola, un carattere di reazione ad una attività arbitraria precedente. 1055 Vinciguerra S., cit., p. 133. 1056 Antolisei F., cit., p. 433; Vinciguerra S., cit., p. 133 il quale rileva che la reazione agli atti arbitrari è più ampia in quanto al presupposto, in cui rientrano anche atti che non integrano gli estremi dell’offesa ingiusta (ovvero antigiuridica) a cui si limita, invece, la legittima difesa, ma sono contrari a norme morali e sociali. 1057 Antolisei F., cit., p. 433. Vinciguerra S., cit., p. 133, chiarisce che la natura strettamente personale della situazione da cui scaturisce il diritto di reazione implica che il titolare, contro o in assenza della sua volontà, non sia surrogabile nell’esercizio della reazione, ma è funzionale al pieno e libero esercizio di questa che egli, entro i confini della proporzione possa legittimamente chiedere ed ottenere l’aiuto altrui.
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Considerata la necessità della ricorrenza dei requisiti della proporzionalità e dell’attualità della
reazione, appare, quindi, forte l'assimilazione dommatica e sistematica della scriminante in
questione con la più generale causa di non punibilità di cui all'art. 52 c.p. Anche se in
giurisprudenza si è sostenuto che la reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale è esimente che
incide sulla punibilità del soggetto, si ritiene che i caratteri di contiguità strutturale fra la legittima
difesa e la disposizione dell'art. 4 non possano essere posti in alcun modo in discussione.
La seconda forma di reazione legittima è quella verbale1058, che lede il prestigio della p.a. (artt. da
341 bis a 343 c.p.) e consiste in una manifestazione del turbamento psichico che, pur non essendo
sufficiente a tutelare il diritto o l’interesse del cittadino, è ritenuto dal legislatore scusabile in quanto
originato da un atto arbitrario, in considerazione delle particolari circostanze in cui il fatto si è
verificato1059.
La reazione verbale presenta delle affinità con quella della provocazione ex art. 599, secondo
comma, c.p.1060. È possibile, infatti, ravvisare una somiglianza di ratio nonchè rinvenire gli stessi
elementi: il fatto ingiusto altrui, lo stato d’ira ed il relativo rapporto di causalità1061. Come la
provocazione scrimina l’offesa all’onore arrecata nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto,
così la reazione ex art. 393 bis c.p. legittima l’offesa al pubblico funzionario arrecata nella
situazione di turbamento psichico determinata dall’atto arbitrario1062. In dottrina1063 è stato
1058 Gallo E., cit., p. 1108 il quale osserva che la reazione verbale sia di per sé stessa successiva alla realizzazione dell'atto, è per verità ancora indimostrato. Specie per talune fattispecie, come quelle di cui agli artt. 342 e 343, ma anche per gli altri fatti oltraggiosi, si può ben dare tanto l'ipotesi che precede quanto quella che segue l'atto da realizzare. Infatti, la villania, l'arroganza, la sconvenienza del comportamento, che provoca la reazione verbale, può anche precedere la realizzazione dell'atto. 1059 Antolisei F., cit., p. 428, il quale chiarisce che “la reazione verbale ha un carattere di mero sfogo del turbamento psichico causato dall’atto arbitrario. Tale sfogo, certamente di per sé non è idoneo a tutelare un diritto o un interesse: tuttavia, il legislatore lo ritiene scusabile in considerazione delle circostanze in cui il fatto si è verificato”. 1060 In merito Fiandaca G., Musco E., cit., p. 306 osserva che “non è certo un caso che autorevole dottrina ricorresse, sotto la vigenza del testo originario del codice, proprio all’art. 599, secondo comma, c.p. per scriminare le ipotesi di reazione verbale”. Sul punto cfr. anche Guarneri, G. Diritto di resistenza ed oltraggio, in Riv.it.dir.pen., 1935, p. 435; Levi, cit., p. 423. L’art. 599 c.p, al secondo comma prevede che “Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 594 e 595 nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”. Si tratta dalla stessa figura prevista dall’attenuante comune ex art. 62, n. 2, c.p., ma, a differenza di quest’ultima, il fatto offensivo viene commesso subito dopo il fatto ingiusto altrui. È opinione consolidata che l’espressione “e subito dopo di esso” non si deve intendere rigidamente in senso assoluto, come sinonimo ‘immediatezza della reazione, impossibile nel caso della fattispecie prevista dell’art. 595 c.p., data l’assenza della persona offesa, ma in senso relativo, tenendo presente il momento in cui il provocato ha avuto notizia del fatto ingiusto altrui e le possibilità pratiche di reazione. In generale, sull’argomento si veda: P. Siracusano, citl, p 30 e ss. Vi sono diverse opinioni sulla natura giuridica dell’esimente: alcuni la ritengono una causa di giustificazione (Antolisei F., cit., p. 217), altri ancora una causa di non punibilità (Manzini, cit., vol. VIII, pag. 556 e ss.), altri ancora una causa speciale di non colpevolezza (Fiandaca G., cit., p. 98; Siracusano P., cit., p. 47). La qualificazione giuridica rileva ai fini dell’ammissibilità della provocazione putativa, ex art. 59 c.p. La giurisprudenza attribuisce valore esimente alla provocazione putativa, purchè l’erronea valutazione del fatto ingiusto altrui sia ragionevole e non meramente pretestuosa (Cass. pen. , sez. V, sent. 10 luglio 1986 n. 12565, Crea, in Riv. Pen., 1987, pag. 127). 1061 Sul rapporto tra l’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288/1944 e la provocazione, ex art. 599, c. 2, c. p. si veda Morselli E., cit., p. 79 ss. 1062 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 306 1063 Bartoli R., cit., p. 2839; Palazzo F., Oltraggio, scriminante degli atti arbitrari, cit., p. 355.
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evidenziato che nella previsione dell’art. 599, c.2, c.p. è possibile cogliere, però, alcune differenze
con l’art. 393 bis c.p. Nella provocazione il fatto ingiusto può essere sia un illecito penale1064 che un
fatto offensivo contrario alle comuni regole del vivere civile e sociale1065. La provocazione, inoltre,
è applicabile anche se la reazione sia rivolta a persona diversa dal provocatore, ma a questi legata da
rapporto di amicizia o parentela.
Ai fini dell’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288/1944, invece, la reazione del privato, sia verbale che
materiale, può essere ritenuta legittima solo quando si contrappone ad un comportamento del
pubblico ufficiale, contrario a norme giuridiche o extra giuridiche, di carattere esclusivamente
sociale.
L’orientamento in giurisprudenza appare duplice: secondo alcune decisioni l’esimente non può
essere valutata come sostanzialmente coincidente con quella della provocazione, secondo
l’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale in riferimento al reato di oltraggio quando il
comportamento di colui che reagisce integra gli estremi della resistenza o violenza a pubblico
ufficiale. Secondo la Cassazione la diversa "ratio" sottesa al reato di cui all'art. 337 c.p. rispetto a
quello di cui all'art. 341 esclude la possibilità di una estensione analogica1066.
Sempre secondo la giurisprudenza l’art. 4 assorbirebbe la provocazione, costituendone un’ipotesi
specifica1067. La provocazione trova applicazione ogni qual volta manca uno degli elementi richiesti
dall’art. 41068. I rapporti tra i due istituti, inoltre, sono stati oggetto sent. n. 140/1988 della Corte
Costituzionale. In adesione a questo indirizzo è stata sostenuta, da ultimo, la coincidenza tra
“illegittima arbitrarietà” della condotta del pubblico ufficiale, di cui all’art. 4 del D.lgs.lgt. n.
288/1944, e “fatto ingiusto”, di cui all’art. 599, secondo comma, c.p. Al riguardo la Corte
Costituzionale ha affermato esplicitamente che l’esimente dell’art. 4 del D.lgs.lgt. n. 288/1944 è una
speciale ipotesi di provocazione, qualificata dallo status di pubblico ufficiale di colui che pone in
essere l’atto arbitrario e “dalla specificità del fatto ingiusto su cui s’innesta la reazione, individuato
in relazione alle funzioni del soggetto passivo e ai doveri di correttezza, di convenienza e di
urbanità che debbono connotare i rapporti tra i pubblici ufficiali e i privati”.
La Corte, infatti, nella sent. n. 140/1988, cit., evidenzia che “la struttura della causa di
giustificazione della reazione agli atti arbitrari richiama, quantomeno nella specifica ipotesi della
1064 Tra i fatti ingiusti rientrano in primo luogo i reati di ogni genere, inclusi quelli colposi, in quanto, non essendo richiesta l’intenzionalità della provocazione, è sufficiente che lo stato d’ira sia causato dalla condotta ingiusta. Sono ricompresi anche l’illecito civile ed ogni fatto contrario ad una norma giuridica. 1065 Per fatto offensivo non penalmente illecito s’intende non ogni comportamento sconveniente rispetto alle regole del vivere civile, ma le scorrettezze gravi e plateali idonee a determinare uno stato d’ira oggettivamente ingiusto nel provocato. In merito: P. Siracusano, cit., pag. 47. 1066 Cassazione penale, sez. VI, 28 maggio 1999, n. 10239, Pellegrini, in Cass. pen., 2000, p. 2252 (s.m.). 1067 Cass. 22 luglio 1992 n. 8266, cit. 1068 Cass. 20 aprile 1983 n. 3308, cit.
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reazione oltraggiosa del privato, i requisiti dello stato d’ira e della conseguente immediatezza della
reazione”1069.
La giurisprudenza di legittimità1070, infatti, definendo il «fatto ingiusto altrui» come qualsiasi
comportamento intrinsecamente illegittimo, ossia contrario alle norme del vivere civile, in antitesi
con i princìpi dell'ordinamento o del diritto naturale, che abbia in se la potenzialità di suscitare un
giustificato turbamento nell'animo dell'agente, a prescindere dalla sua contrarietà a norme
giuridiche, utilizza una formula che presenta una significativa assonanza con la scorrettezza, la
sconvenienza, l'aggressività che - secondo la concezione c.d. oggettiva seguita dalla Corte
costituzionale - denotano e caratterizzano in termini di arbitrarietà l'operato del pubblico ufficiale
contrastante con gli specifici doveri attinenti allo svolgimento delle sue funzioni.
Quanto allo stato d’ira, esso deve ritenersi esistente in re ipsa, nel senso che il solo fatto che il
privato reagisca all'atto arbitrario è dimostrativo della sussistenza dello stato d’ira. L'atto di reazione
(secondo anche il significato letterale della parola) è, insomma, conseguenza esclusiva dello stato
emotivo in cui versa il privato a causa del comportamento del pubblico ufficiale1071 .
Per quanto riguarda poi il rapporto di immediatezza temporale al quale non si fa esplicito
riferimento nella causa speciale di giustificazione in esame (richiamato invece nell'altra di cui
all'art. 599 comma 2 c.p.), è da rilevare la impossibilità, in senso tecnico- psicologico, che la
reazione segua l'atto arbitrario dopo un periodo più o meno lungo di calma assoluta, poiché, se un
tanto avvenisse, si verserebbe in ipotesi di vendetta non idonea ad escludere la responsabilità. Per
tale motivo la giurisprudenza1072 ha più volte ribadito che per la sussistenza dell'esimente in parola è
necessaria l'attualità della reazione del privato rispetto all'atto arbitrario del pubblico ufficiale,
poiché, in difetto di tale attualità, viene anche a mancare quel nesso di causa ed effetto che senza
dubbio il legislatore ha preteso che debba intercorrere fra i due atti1073.
Un ulteriore requisito della reazione agli atti arbitrari, che accomuna tale istituto a quello della
provocazione, è dato dalla necessaria presenza di un rapporto di causalità tra il comportamento del
1069 In merito anche Cass., sez. VI, 19 aprile 1999, n. 8636 in Giust. Pen., II, p. 508. 1070 A tal riguardo, cfr. Cass. pen., Sez. V, 27 marzo 1993, Ruggeri, in Cass. pen., 1994, p. 2998, n. 1849; Cass. pen., Sez. V, 29 marzo 1984, Fontana, in Giust.pen., 1985, II, p. 219 e Cass. pen., Sez. V, 23 novembre 1979, Melone, ivi, 1980, II, p. 586. 1071 In dottrina hanno evidenziato questo requisito, implicito Ardizzone S., cit., p. 4; Bargis M., cit., 1974, II, c. 400; Chiariotti F., cit., p. 63 ss. 1072 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 7 marzo 1970, Giovagnetti, in Cass. pen., 1971, p. 122; Trib. Cagliari, 18 novembre 1970, Cao, in Foro it., 1971, II, c. 659. 1073 In dottrina, in senso conforme, cfr. Crespi A., cit., p. 309; in senso difforme, invece, Antolisei F., cit., p. 379 s., per il quale il requisito dell’attualità è indispensabile “nel caso di reazione materiale, diretta ad impedire il compimento dell'atto arbitrario del pubblico ufficiale”, mentre non lo sarebbe “nel caso di reazione verbale, la quale, in realtà, configura un'ipotesi di provocazione a cui la legge eccezionalmente attribuisce efficacia scriminante”.
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pubblico ufficiale ed il fatto preveduto dall'art. 341 c.p., ovvero una relazione per la quale l'atto
arbitrario debba considerarsi determinante la reazione del privato1074.
A questo riguardo la giurisprudenza1075 ha osservato che, perché possa riconoscersi la legittimità
della reazione, è necessario che l'atto arbitrario del pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, con
la conseguenza che, nell'ipotesi in cui la reazione del privato sia stata causata non dal
comportamento attuale e legittimo del pubblico ufficiale, ma dall'essere stato in passato vittima di
un comportamento illegittimo ed arbitrario da parte di altro rappresentante della p.a., non è
applicabile la citata causa di giustificazione1076.
Infine, dottrina1077 e giurisprudenza1078 affermano che, per la configurabilità dell'esimente in parola,
è anche necessaria - così come per la provocazione - una certa proporzione tra offesa e reazione, da
valutarsi tenendo conto della gravità del comportamento arbitrario con riferimento all'entità della
reazione offensiva, e soprattutto valutando i mezzi reattivi a disposizione dell'offeso e quelli da lui
effettivamente adoperati.
Così brevemente delineati i rapporti tra provocazione e reazione agli atti arbitrari, è evidente che -
come d'altro canto hanno sostenuto i giudici della Consulta - non sussiste l'ipotizzata disparità di
trattamento tra un soggetto che reagisce alla provocazione di un privato, e lo stesso soggetto che,
invece, reagisce ad un atto arbitrario di un pubblico ufficiale, giacché la provocazione, rilevante per
escludere la punibilità dell'ingiuria o della diffamazione, ex art. 599 comma 2 c.p., lo è anche ai fini
della non punibilità dell'oltraggio, in virtù di una più corretta interpretazione del disposto del citato
art. 4.1079
1074 Sono di tale avviso, Azzali G., cit., p. 39 s.; Bargis M., cit., p. 399; Crespi A., cit., p. 308 s.; Fiandaca G. - Musco E., cit.., p. 306; Grosso C.F., .cit., p. 342; Spizuoco R., cit., p. 137 s.; Venditti R., cit., p. 140 ss. 1075 Cfr., anche se non recenti, Sez. V, 27 marzo 1972, Bigantina, in Cass. pen., 1973, p. 529 e Sez. V, 22 gennaio 1965, La Cotera, ivi, 1965, p. 921. 1076 Cfr. Sez. V, 24 febbraio 1989, in Riv.pen., 1990, p. 682 e Sez. IV, 17 aprile 1986, ivi, 1987, p. 789. 1077 Sull’argomento, cfr. Azzali G., cit., p. 64 s.; Crespi A., cit., p. 310; Venditti R., Sul requisito della proporzionalità della reazione agli atti arbitrari, in Riv.it.dir. e proc. pen., 1958, p. 817, che, con riferimento alla reazione verbale, reputa «proporzionato quell'oltraggio che può ritenersi spiegabile in relazione alle concrete circostanze della situazione di fatto e al turbamento psichico generato dall’atto arbitrario». Poiché atto arbitrario ed oltraggio sono «entità molto spesso incommensurabili, cioè entità fra le quali non esiste un denominatore comune sulla cui base valutare la proporzione o meno della reazione», a quest'ultimo Autore «non sembra fuor di luogo [...] ricercare un raccordo fra l'una e l'altra, individuando tale raccordo nell'attinenza o meno dell'insulto alla natura dell'atto arbitrario». 1078 La Corte di Cassazione, sempre nell'ottica di un atteggiamento interpretativo volto a restringere l'operatività della norma in esame, tende a richiedere anche la proporzione tra fatto commesso ed arbitrio subito, come ad esempio in Sez. VI, 20 maggio 1993, Belanzoni, in Riv.pen., 1994, p. 345, in cui i giudici della legittimità sostengono che «la macroscopica sproporzione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale esclude la concorrenza della causa di non punibilità di cui all'art. 4 d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 288. Infatti, perché tale norma possa trovare applicazione, occorre che le azioni, che potrebbero integrare i reati in essa indicati, dipendano, in termini di causalità e di proporzionalità, dagli atti arbitrari posti in essere dal pubblico ufficiale. Diversamente verrebbe disatteso il principio più generale del ristabilimento dell'equilibrio giuridico, in quanto, anziché giustificare, in via eccezionale, il ripristino di una situazione alterata dall'arbitrio dell'autorità, si consentirebbe, attraverso il riconoscimento di cause di non punibilità, reazioni altrettanto arbitrarie, proprio perché sproporzionate». 1079 In merito Pitton D., cit., 7, osserva “l’interpretazione conforme a Costituzione non solo appare in linea con le ragioni storico-politiche che hanno determinato il legislatore alla reintroduzione nell'ordinamento penale della causa
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A giudizio della Corte, dunque, la causa di giustificazione della reazione ad atti arbitrari del
pubblico ufficiale, quando sia applicata al delitto di oltraggio, ricalca la struttura della
provocazione, dalla quale si differenzia per gli elementi specializzanti della qualità di pubblico
ufficiale della persona offesa e della conseguente specificità del fatto ingiusto su cui si innesta la
reazione, individuato in relazione alle funzioni del soggetto passivo e ai doveri di correttezza, di
convenienza e di urbanità che debbono connotare i rapporti tra i pubblici ufficiali ed i privati.
Si discute se la causa della reazione possa consistere in un comportamento omissivo del pubblico
agente1080. In merito è possibile individuare due diverse posizioni. La prima nega tale eventualità
sulla base del dato testuale che fa espresso riferimento agli “atti” attraverso i quali si esplica
l’eccesso. Di conseguenza quest’ultimo sarebbe incompatibile con la forma omissiva1081. La
seconda, invece, ritiene che anche il comportamento omissivo può costituire causa della
reazione1082.
In adesione a questo indirizzo è stata sostenuta, da ultimo, la coincidenza tra “illegittima
arbitrarietà” della condotta del pubblico ufficiale, di cui all’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288/1944, e “fatto
ingiusto”, di cui all’art. 599, c. 2, c.p. Al riguardo la Corte costituzionale ha affermato
esplicitamente che l’esimente dell’art. 4 del d.lgs.lgt. n. 288/1944 è una speciale ipotesi di
provocazione, qualificata dallo status di pubblico ufficiale di colui che pone in essere l’atto
arbitrario e «dalla specificità del fatto ingiusto su cui s’innesta la reazione, individuato in relazione
alle funzioni del soggetto passivo e ai doveri di correttezza, di convenienza e di urbanità che
debbono connotare i rapporti tra i pubblici ufficiali e i privati»1083.
di giustificazione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, ma rappresenta un ulteriore passo avanti nel difficile cammino della Corte costituzionale verso la completa «democratizzazione» della norme penali contenute nel capo del codice penale relativo ai delitti dei privati contro la p.a.” 1080 Qualche riferimento in Azzali, op cit., 52, 87 1081 Manzini V., Trattato, cit. 363; Maggiore, Diritto penale, cit. 211; Perseo, La resistenza non può aversi contro le omissioni del pubblico ufficiale, in Riv. pen. 1950, II, 578; Cass. 22 ottobre 1915, ivi, 1916, 126 1082 Spizuoco, op cit.,67; Venditti, op.ult. cit., 93; Fornaro, La non punibilità della reazione del privato agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, in Giust. pen. 1953 II, 682; Leonelli, La circostanza esimente del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, ivi, 1949, II, 474; Morselli op. cit.,56, nt. 60 limitatamente all’ipotesi di reazione verbale 1083 La Corte, infatti, nella sent. n. 140 del 1988, cit., evidenzia che «la struttura della causa di giustificazione della reazione agli atti arbitrari richiama, quantomeno nella specifica ipotesi della reazione oltraggiosa del privato, i requisiti dello stato d’ira e della conseguente immediatezza della reazione». In merito anche Cass., sez. VI, 19 aprile 1999, n. 8636, Romano, in Giust. pen., II, 508. Cass. pen., 4 maggio 1992, in Giur. It., 1993, II, 370, con nota redazionale di Pedrotta.
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I REQUISITI PER LA QUALIFICAZIONE DELLA CONDOTTA REATTIVA COME LEGITTIMA
La reazione del privato, inoltre, deve trovare la propria causa nella condotta del pubblico
funzionario, nel senso che tale reazione deve essere ricollegabile, sul piano eziologico, al
comportamento arbitrario1084. Deve sussistere un nesso di causalità tra atto arbitrario e reazione1085.
Parte della dottrina e della giurisprudenza ha evidenziato che deve sussistere un rapporto di
causalità psichica1086 tra l'eccesso arbitrario del p.u. e la reazione del privato, il primo determina
nella vittima uno stato di disagio psichico consistente o nel sentimento di un’ingiustizia subita o in
uno stato di collera1087 o in uno stato di timore, che innescano la reazione1088. L’atto arbitrario è un
fattore scatenante, la cui adeguatezza a determinare la reazione deve essere valutata considerando
anche le particolari condizioni psichiche del reagente1089.
Si tratta di una causalità di tipo psicologico, nel senso che ciò che ha determinato la reazione non
deve essere stato un movente estraneo all’episodio, ma deve costituirne la ragione determinante1090
e non la semplice occasione1091. Al riguardo si è chiarito1092 che la specificazione illustrata non deve
1084 In dottrina cfr. Ardizzone S., cit., p. 9, il quale evidenzia che “muovendo dalla stessa esigenza espressa nel disposto normativo, l’affermazione fondamentale è che la reazione deve avere come causa il comportamento del pubblico agente. Si tratterebbe dell’emergere di un principio generale, secondo cui la spiegazione della misura giuridica di produzione di un accadimento viene fornita dalla sua ragione casuale. La relazione che deve intercedere tra le due condotte è tale che il comportamento del pubblico ufficiale deve essere ricondotto alla reazione come a sua causa”. Cfr. Antolisei F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, cit., p. 431; Vinciguerra S., cit., p. 132. Cass. Pen., 21 novembre 1986, in C.E.D. nr. 174347, Corte Cost. 140/1998, cit.. 1085 Cassazione penale, sez. VI, 11 novembre 1998, n. 404, Broccato, in Cass. pen. 2000, 582 (s.m.), Giust. pen. 2000, II, 122 (s.m.) secondo la quale in tema di resistenza a pubblico ufficiale, qualora l'attività violenta o minacciosa sia posta in essere da un terzo che intenda contrastare l'accompagnamento coattivo di una persona (già identificata) da parte dei carabinieri in una caserma, assumendo l'illegittimità del comportamento dei pubblici ufficiali, non può, comunque, trovare applicazione la scriminante della reazione ad atti arbitrari, in quanto la locuzione usata dal legislatore nell'art. 4 del d.lg.lt. 14 settembre 1944 n. 288, secondo la quale "non si applicano le disposizioni degli art. 336, 337, 339, 341, 342, 343 c.p. quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari, i limiti delle sue attribuzioni", determina una correlazione indefettibile tra persona che può invocare la scriminante e la vittima dell'arbitrio, nel senso che le due figure debbono essere necessariamente riconducibili al medesimo soggetto e presuppone un rigoroso rapporto causale fra la condotta arbitraria del pubblico ufficiale e la reazione da parte di colui che l'ha subita; Cassazione penale, sez. VI, 09 luglio 1998, n. 9722, Garavaglia, in Cass. pen. 2000, 582 (s.m.), Giust. pen. 2000, II, 121 (s.m.) 1086 In questo senso Vinciguerra S., cit., p. 132, secondo il quale il nesso è di tipo psichico, come nell’ipotesi di provocazione. 1087 Come nella provocazione. 1088 Vinciguerra S., cit., p. 132. In giurisprudenza Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2006, n. 2263, in D&G, Diritto e Giustizia, 2006, 9, p. 47, secondo la quale il comportamento del privato deve essere determinato dalla condotta oggettivamente non corretta del p.u., avvertita come ingiusta e sopraffattrice. 1089 Vinciguerra S., cit., p. 132 1090 In merito Ardizzone S., cit., p. chiarisce che si tratta “di una causalità determinante da cogliere sul piano psicologico del movente, piuttosto che in base ad un riferimento obiettivo materiale. L’atto illegittimo ed arbitrario agirebbe quale movente psicologico della reazione”. Nello stesso senso: Spizuoco R., cit., p. 137; Azzali G., cit., p. 39; Morselli E., cit., p. 35. In giurisprudenza: Cass. Pen., 3 maggio 1993, in Giust. Pen., 1994, II, pag. 404 ss.; Pret. Campana 25 ottobre 1949, in Arch. Ric. Giur., 1950, 365. 1091 Come nel caso di rancori precedenti al fatto verso cui si reagisce: Manzini V., cit., p. 404 ss. In giurisprudenza Cassazione penale, sez. VI, 09 luglio 1993, Scaduti, in Giust. pen. 1994, II, 404 (s.m.) secondo la quale l’esimente di cui all'art. 4 del d.lgs.lgt. 14 settembre 1944 n. 288, postulando che il pubblico ufficiale "abbia dato causa al fatto...
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indurre a ritenere che il rapporto di causalità richiesto ai fini della configurazione della fattispecie
de qua sia diverso da quello che viene tradizionalmente in considerazione nella teoria del reato1093.
La causalità come collegamento tra due situazioni delle quali una sia condizione produttiva
dell’altra è una categoria generale che spiega lo sviluppo di avvenimenti ed è comprensiva della
realtà fisica e della realtà psichica1094.
Secondo la dottrina1095, tale nesso di derivazione casuale non può sussistere se la reazione del
privato non sia contestuale al contegno arbitrario, nel senso che il comportamento del privato è
giustificato fin quando sia in atto il contegno arbitrario del pubblico ufficiale. La contestualità, o
immediatezza temporale, è un elemento particolarmente qualificante perché permette di contenere
in un alveo di accettabilità per l’intera compagine sociale quella privata reazione che, altrimenti,
perderebbe il carattere dell’eccezionalità rispetto all’attivazione dei percorsi giuridici previsti per
vedersi riconosciuti e ristorati i propri diritti e, del pari, esigere la punizione nelle sedi proprie
(penale, civile ed amministrativa) di chi si sia reso responsabile di una loro arbitraria lesione1096.
La reazione difensiva, pertanto, deve essere realizzata nell’immediatezza dell’atto arbitrario:
sarebbe illogico ritenere autorizzato il cittadino ad usare violenza solo perché il pubblico agente ha
commesso atti arbitrari nei suoi confronti in un tempo passato1097. L’attualità o immediatezza della
reazione discenderebbe – si sostiene – dalla logica stessa dell’istituto. Sia nel caso di violenza o
resistenza (cosiddetta reazione materiale) che nell’ipotesi dell’oltraggio (cosiddetta reazione
verbale) solo ipotizzandone l’immediatezza sarebbe pensabile una giustificazione1098. Tale giudizio
eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni", presuppone, da un lato, un rapporto causale tra la reazione dell'agente e la condotta arbitraria del pubblico ufficiale e che non può, quindi, farsi consistere in una mera occasionalità dovendo costituire la ragione determinante della condotta offensiva, dall'altro lato, l'illegittimità dell'azione del pubblico ufficiale, improntata ad uno scopo di vessazione e di sopraffazione che, esaurendosi in una finalità esclusivamente personale dello stesso pubblico ufficiale, interrompe il rapporto con l'ufficio pubblico in cui è inserito ed in forza del quale è conferita la qualifica pubblica. 1092 Sul punto Ardizzone S., cit., p. 8. 1093 Venditti R., cit., p. 140; Vinciguerra S., cit., p. 132, il quale chiarisce che il nesso di causalità tra l’atto arbitrario e la reazione risponde ai requisiti definiti nella parte generale del diritto penale, ovvero agli artt. 40 e 41 c.p. 1094 Morselli E., cit., p. 35., 1095 Ardizzone S., cit., p. 7; Crespi, cit., p. 308 ss.; Sisti U., cit., 264 1096 Scandone G., cit., p. 482, il quale precisa che l’istituto opera solo in una logica di stimolo reazione, accettabile proprio perché conseguenza del giustificato turbamento indotto nell’immediatezza dall’altrui comportamento gravemente scorretto . 1097 Ardizzone S., cit., p. 7, scrive di simultaneità/attualità tra gli avvenimenti. Cfr. anche Morselli E., cit., p. 35; Pagliaro A., cit., p. 393; Venditti, cit. p. 146. In giurisprudenza vi è stata qualche incertezza: nel senso che l’immediatezza sia necessaria Cass. 18 febbraio 1952, in Giust. pen., II, p. 901; Cassazione penale, sez. VI, 24 maggio 1978, Valpreda, in Foro it. 1979, II,185, secondo la quale ai fini del reato di oltraggio perché possa trovare applicazione l'esimente della reazione ad un atto arbitrario è necessario che sussista immediatezza temporale fra la reazione offensiva del prestigio del pubblico ufficiale e l'atto arbitrario di quest'ultimo (nella specie, si è ritenuto che non sussistesse l'esimente per aver il pubblico ministero, cui nel corso del dibattimento erano state rivolte espressioni ingiuriose, tenuto un comportamento che si assumeva arbitrario durante l'istruzione). Nel senso che non occorra Cass. 21 dicembre 1950, in Giur. Cass. pen., 1950, p. 7203. 1098 Vinciguerra S., cit., p. 133 ricorda che vi sono opinioni contrastanti sulla necessità della sussistenza del requisito dell’immediatezza poiché inon è espressamente previsto, a differenza della provocazione. Secondo Antolisei F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, cit., p. 434, invece, mentre l’immediatezza è necessaria nei casi in cui la
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si fonderebbe sulla considerazione della sfera motivazionale del reagente, turbato dalla condotta
ingiusta.1099 E’, dunque, necessario non solo che la reazione sia diretta a respingere l’atto arbitrario
del funzionario, ma anche che non sia trascorso un notevole lasso di tempo in grado di annullare il
nesso di causalità1100 e trasformare la reazione legittima in mera occasionalità. In quest’ultimo caso
la reazione può assumere, oltre il carattere di difesa, il carattere della ritorsione, tenendo conto dei
rapporti che intercorrono tra l’eccesso arbitrario e l’attività funzionale del pubblico agente.1101 La
norma, invece, sancisce il diritto di resistenza perché nelle circostanze esso è l’unico mezzo idoneo
ad impedire l’atto arbitrario o a contrastarne l’esecuzione1102.
La reazione deve ritenersi legittima fin quando permangono le condizioni di fatto arbitrarie1103. Il
nesso di causalità, infatti, si spezza quando l’atto pubblico, pur inizialmente illegittimo, divenga in
prosieguo legittimo e la reazione si verifichi nell’attualità dell’atto legittimo.1104
Il rapporto causale non implica tuttavia, necessariamente una stretta contestualità o simultaneità
della reazione; per le reazioni verbali, infatti, l’attualità o l’immediatezza potranno allentarsi, seppur
entro la plausibilità del permanere del turbamento emotivo e psichico provocato dal fatto del
soggetto pubblico.
In tali casi, la sussistenza o meno della simultaneità segna il discrimen principale tra la
configurazione della reazione arbitraria o dell’applicazione della sola attenuante della provocazione
di cui all’art. 62 nr. 2.
Infatti, se in via generale il “tempo non influisce sulla causa”1105 mette, però, a dura prova la
credibilità della reazione verbale non riconoscendo più la ragione della legittima difesa.
In effetti, la ragion d’essere della reazione legittima ora prevista dall’art. 393 bis c.p. sta nel
riconoscimento, della legittimità alla reazione del privato, nel momento in cui e fino a che non vi sia
un tempestivo intervento da parte dell’ordinamento: quando, infatti, il passare del tempo avrà
mitigato la situazione non si potrà più giustificare la risoluzione immediata di un conflitto
reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è diretta ad impedire la lesione o la messa in pericolo di un interesse del privato, non può, invece, ritenersi tale nei casi di reazione verbale, perché si tratterebbe di un fatto di provocazione, per il quale, secondo le regole generali, non è essenziale. Cfr. anche Romano, cit., p. 18. 1099Venditti, La reazione, cit., 147 s; Morselli, La reazione, cit., 35 s. 1100 Cass., sez. VI, 19.5.1998, n. 1433. 1101 Azzali G.,cit., . 60 ss.; Morselli E., La reazione, cit., p. 71 s., Manzini V., cit., p. 438 ha precisato che se non sussiste il requisito dell’attualità viene meno anche il nesso di causalità determinante tra offesa e reazione: il motivo della determinazione, infatti, non sarebbe più quello di allontanare un pericolo o un pregiudizio, bensì di trarne vendetta. In tale eventualità l’atto arbitrario non avrebbe dato causa, ma semplicemente occasione al fatto. 1102 Vinciguerra S., cit., p. 133. 1103Crespi A., cit., p. 309 1104 Crespi A., cit., p. 309 ss. secondo il quale la reazione può seguire l’attività del pubblico agente a condizione che l’illegittimità dell’atto pubblico non sia esaurita e non sia sostituita da una condizione di legittimità. Per un caso di specie Cass. 20 marzo 1963, in Giust. pen., 1964, II, 785 1105 Bondi A. - Di Martino A.- Fornasari G., I delitti di violenza, minaccia, resistenza ad un agente pubblico, cit. p. 334 ss.
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d’interessi da parte del privato cittadino, ma si dovrà ricorrere necessariamente alle vie legali, sede
in cui il comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato, potranno rilevare, semmai, ai fini
dell’applicazione dell’attenuante di cui si è detto1106.
Sebbene la legge non lo preveda espressamente, secondo la dottrina1107 per la sussistenza del
rapporto di causalità tra offesa e reazione occorre l’ulteriore requisito dell’idoneità: la causa deve
presentarsi idonea a produrre la reazione del privato, intendendosi per idoneità l’adeguatezza, in
concreto, della condotta stessa a cagionare il risultato verificatosi1108.
Si è discusso sulla necessaria sussistenza, o meno, del requisito della proporzionalità ai fini
dell’applicabilità dell’istituto in esame. In merito sono state prese due distinte posizioni.
Secondo la prima, favorevole un’interpretazione strettamente letterale del dato lessicale, la
proporzionalità non è richiesta perchè non è esplicitamente nel testo della norma1109. La proporzione
tra reazione ed atto rappresenterebbe un’inutile “superfetazione dogmatica”, perchè il limite alla
reazione giustificabile è già legislativamente individuato attraverso i requisiti strutturali delle
fattispecie di reato richiamate dalla norma1110. Di conseguenza, una violenza, ad esempio, eccedente
i limiti tipici sussumibili nell’art. 336 c. p., non potrebbe essere giustificata, a causa dell’atipicità
della condotta rispetto alla previsione dell’art. 393 bis c.p. e non, invece, per l’assenza di un
requisito di proporzionalità.
Per un opposto indirizzo1111, anche giurisprudenziale1112, sebbene non scritto, il requisito della
proporzionalità tra la reazione e l’atto arbitrario si ricava da un implicito principio logico connesso
1106 In tal senso Cass. Pen., 12 ottobre 1984, Perseu, in Cass. Pen., 1986, p. 695 ss. 1107 Antolisei F., cit., p. 431. 1108 Crespi, cit., p. 308, secondo il quale “la causa deve essere idonea all’effetto, nel senso dell’adeguatezza in concreto della condotta del pubblico agente a cagionare la reazione prodottasi”. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., Sez. VI, 17 aprile 1984, Guzzonato, in Giust. pen., 1985, II, c. 200. 1109 Maggiore G., Diritto penale, II, t. 1, Bologna, 1968, p. 220. 1110 In tal senso Curatola, Osservazioni in tema di resistenza legittima, reale e putativa, Giust. pen. 1952, 1113; Canino A., Sulla sproporzione della reazione per l'applicazione dell'art. 4 r. d. l. 14 settembre 1944 n. 288, Giust. pen. 1954, II, p. 799; De Marsico, Sul concetto di proporzionalità fra reazione del privato e l'atto arbitrario del pubblico ufficiale, Riv. it. dir. proc. pen. 1912, II, 560, che, senza mezzi termini afferma “... Ogni indagine sulla proporzionalità fra il materiale obbiettivo del reato e l'arbitrio che l'origino' dovrebbe non che stimarsi superfluo, proscriversi come contraria a legge”. 1111 Antolisei F., cit., p. 432; Ardizzone, S. cit., p. 4; Azzali G., cit., p. 74 ss.; Fiandaca G., Musco E., cit., p. 309; Flora G., Il redivivo oltraggio, cit. p.1454; Maggiore, cit., p. 220; Sisti U., cit., 263; Spasari M., Osservazioni, cit., 341-342; Venditti R., La reazione, cit., 149 ss.; Vassalli G., La nuova legislazione penale, 1946, vol. I, p. 86; Vinciguerra S., cit., p. 133 . 1112 In giurisprudenza la necessità che la reazione sia proporzionata all’atto arbitrario è stata più volte riconosciuta dalla Cassazione. Cassazione penale, sez. VI, 24 giugno 1999, n. 11093, E.C., in Ced Cassazione 1999 RV 214335, secondo la quale in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, perché si configuri l'atto arbitrario è necessario che il p.u. ecceda dai suoi poteri con la piena consapevolezza di farlo, per perseguire uno scopo estraneo alle sue funzioni, o che usi mezzi non consentiti dall'ordinamento giuridico o si avvalga del suo potere in modo aggressivo, vessatorio o anche semplicemente sconveniente e non consono alle regole della normale convivenza civile. Ne consegue che la mera illegittimità dell'atto non si identifica con l'arbitrarietà del medesimo. (Ha precisato la Corte che, per l'operatività dell'esimente in questione, devono ricorrere i requisiti dell'attualità e della proporzione tra offesa e reazione; quanto al primo, va precisato che lo stesso deve essere inteso in senso non rigoroso, ma tale comunque da non fare venire meno il nesso di causalità che è senza dubbio alla base della previsione legislativa; quanto alla proporzionalità, anch'essa deve
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alla struttura ed alla “ratio” stessa dell’istituto1113. Specificamente la proporzionalità dovrebbe
essere intesa come requisito implicito1114, in quanto costituisce un aspetto particolare del nesso
eziologico che intercorre tra le due condotte1115. In particolare si dedurrebbe dalla previsione
normativa: l’art. 393 bis c.p., infatti, dichiara non punibili soltanto alcune condotte previste da
specifiche norme del codice penale, le quali già contengono in sé i limiti strutturali, con la
conseguenza che, qualora la reazione fosse eccedente tali limiti, il fatto non potrebbe essere
scriminato perché atipico.
La norma de qua, quindi, attribuisce la facoltà della reazione, ma solo entro il preciso limite di una
sua concreta funzionalità per contrastare l’atto del pubblico ufficiale (nel caso di una reazione
materiale) o, comunque (nel caso di una reazione verbale) per opporsi a comportamenti socialmente
inurbani subiti dal cittadino1116.
In merito si è precisato che ai fini dell’applicabilità dell’art. 393 bis c.p. è indispensabile una
reazione strettamente limitata al quantum necessario per paralizzare l’attività arbitraria
dell’agente1117 e che al fine di valutare la proporzione tra reazione e atto si dovrà avere particolare
essere prudentemente apprezzata nella prospettiva che la reazione non esorbiti determinati limiti e non si atteggi, a sua volta, come autonoma e ingiustificata offesa); Cassazione penale, sez. VI, 11 marzo 1993, Belanzoni, in Mass. pen. cass. 1993, fasc. 8, 116, Riv. pen. economia 1994, 67, secondo la quale la macroscopica sproporzione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale esclude la concorrenza della causa di non punibilità di cui all'art. 4 d.lgs. luogot. 14 settembre 1944 n. 288. Infatti, perché tale norma possa trovare applicazione, occorre che le azioni, che potrebbero integrare i reati in essa indicati, dipendano, in termini di causalità e di proporzionalità, dagli atti arbitrari posti in essere dal pubblico ufficiale. Diversamente verrebbe disatteso il principio più generale del ristabilimento dell'equilibrio giuridico, in quanto, anziché giustificare, in via eccezionale, il ripristino di una situazione alterata dall'arbitrio dell'autorità, si consentirebbe, attraverso il riconoscimento di cause di non punibilità, reazioni altrettanto arbitrarie, proprio perché sproporzionate. Cfr. Cass., sez. VI, 17 marzo 1970 e 6 ottobre 1984 in Giust. pen., 1971, II, 266 e in Riv. pen., 1985, 602 1113 Sul punto Venditti R., Sul requisito della proporzionalità, cit., p. 816. 1114 Canino A., cit., p. 799 e Venditti R., Sul requisito della proporzionalità, cit., p. 815 ss. 1115 Secondo Del Gaudio M., cit., la necessità della proporzionalità trova un addentellato letterale nella struttura della norma quando questa richiede che alla reazione "abbia dato causa" l'arbitrio del pubblico ufficiale. Nello stesso senso Flora G., Il redivivo oltraggio, cit. p.1454. 1116 Antolisei F., , cit., p. 432; Pagliaro A.– Parodi Giusino M., Principi di diritto penale, cit., p. 363 ss.; Visconti G., cit., p. 59 ss. 1117 Cass. 28 novembre 1953, Cornali, Riv. it. dir. pen. 1954, 416; Cass. 11 Marzo 1958, Segatti, Riv. it. dir. proc. pen. 1958, 815; Cass. 19 novembre 1965, Musumeci, Cass. pen. 1966, 1340; Cass. 13 marzo 1970, Cass. pen. Mass. ann. 1971, 1079; e piu' di recente Cass. sez. VI, 17 aprile 1984, Guzzonato, Giust. pen. 1985, II, 200 ss. secondo la quale per aversi l'esimente della reazione ad atto arbitrario del pubblico ufficiale occorre il requisito del rigoroso rapporto di causa ed effetto tra la condotta arbitraria e la reazione, quindi dell'adeguatezza: la reazione deve essere proporzionata alla causa che l'ha provocata. Tale requisito inerisce alla stessa natura giuridica dell'esimente, sia che questa si voglia ricondurre, quale causa speciale di giustificazione, alla legittima difesa, sia che la si voglia invece assimilare alla circostanza della provocazione con eccezionale attribuzione di efficacia scriminante; Cass. 17 aprile 1986, Fiorillo, Riv. pen. 1987, 789; Cass. 24 febbraio 1989, Monacelli, Riv. pen. 1990, 682; Tribunale Torino, 15 febbraio 1983, Siviero, in Foro it. 1984, II,469, secondo il quale non si configura il reato di resistenza a pubblico ufficiale, ex art. 337 c.p. ma si applica la scriminante prevista dall'art. 4 d.l. 14 settembre 1944 n. 288 nel caso del privato che abbia reagito alla arbitraria violenza fisica usata da pubblici ufficiali, quando tale reazione difensiva sia proporzionata alla entità delle offese e nessun'altra forma di difesa sia consentita allo stesso privato.
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riguardo alla gravità dell’aggressione subita rispetto all’entità della reazione offensiva, nonché ai
mezzi di reazione a disposizione e quelli effettivamente utilizzati dalla vittima1118.
In riferimento all’ipotesi di reazione materiale (resistenza) è stato, inoltre, chiarito che l’istituzione
di un rapporto di proporzione tra i due comportamenti svolgentisi in senso opposto deve ritenersi
implicita nella valutazione operata dal legislatore tra gli interessi in conflitto del pubblico ufficiale e
del privato nonostante il silenzio dell’art. 4 d.l.l. 14 settembre 1944 n. 288. Nel caso di specie, però,
la valutazione in concreto della proporzionalità dovrà svolgersi in modo meno rigoroso rispetto a
quella richiesta espressamente dal legislatore in tema di legittima difesa, perchè la violenza o
minaccia costituiscono resistenza giustificata solo nella misura in cui sono necessarie per impedire
il compimento dell’atto arbitrario.
L’accertamento della proporzione nelle ipotesi di reazione verbale, invece, risulta più difficile. In
materia di oltraggio, infatti, è stato osservato che la particolare natura della reazione non si adatta
alla comune nozione di proporzionalità ed esige un congruo adeguamento della stessa alle singolari
caratteristiche della situazione di fatto. L’unità di misura comune, necessaria a stabilire, una
proporzione, sembra qui venire meno, costituendo l’oltraggio e l’atto arbitrario due realtà molto
spesso eterogenee e di contenuto profondamente diverso. In merito si è ritenuto proporzionato
quell’oltraggio che può ritenersi spiegabile in relazione alle concrete circostanze della situazione di
fatto e di turbamento psichico generato dall’atto arbitrario. Così, se è spiegabile che al pubblico
ufficiale, che gli usa una grave scorrettezza, il privato reagisca con insulti inerenti alla natura della
scorrettezza medesima (es. maleducato, prepotente, villano,) non è spiegabile che reagisca con
ingiurie che nessuna relazione hanno con quest’ultima (es. assassino, ladro). In questo caso potrà
eventualmente (in relazione alle concrete circostanze, non facilmente ipotizzabili in astratto)
ravvisarsi la sussistenza di una sproporzione.
La proporzionalità va dunque intesa e valutata secondo un criterio che dipende dalla specificità
della fattispecie; essendo atto arbitrario e oltraggio entità molto spesso incommensurabili, cioè
entità fra le quali non esiste un denominatore comune sulla cui base valutare la proporzione o meno
della reazione, non sembra fuor di luogo ricercare un raccordo fra l’una e l’altra, individuando tale
raccordo nell’attinenza o meno dell’insulto alla natura dell’atto arbitrario. In questo modo,
attraverso la valutazione di un dato qualitativo, si può giungere a definire, sia pure imperfettamente
e con validità alquanto limitata, quegli elementi quantitativi dalla cui valutazione comparativa
scaturisce il giudizio di proporzionalità.
1118 Fiandaca G., Musco E., cit., p. 309. Cass. 13 marzo 1970, in Cass. pen. Mass. Ann., 1971, p. 1079.
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CONCLUSIONI
Il nuovo art. 341 bis c.p., come già evidenziato, non reintroduce la vecchia fattispecie disciplinata
dall’abrogato art. 341 c.p., ma configura un nuovo delitto. Sul tema si propongono alcune
considerazioni aventi ad oggetto i riflessi della nuova struttura della fattispecie sull’individuazione
del bene giuridico protetto ed i persistenti dubbi d’incostituzionalità della norma secondo una parte
della dottrina e il loro parziale superamento.
Indubbiamente la fattispecie per alcuni aspetti è simile alla precedente (l’essenza della condotta
tipica rimane quella di chi offende l’onore e il prestigio del pubblico ufficiale), ma per altri si
presenta diversa in modo significativo (ovvero nella definizione dei suoi elementi costitutivi).
Per alcuni commentatori la previsione di requisiti meglio definiti testimonierebbe la volontà del
Legislatore di recuperare, in sede di tutela penale, la centralità del carattere plurioffensivo della
condotta, carattere che consentirebbe, in una prospettiva costituzionalmente orientata, la
qualificazione autonoma del titolo di reato e metterebbe in evidenza come la ratio della
reintroduzione poggi soprattutto sull’esigenza squisitamente pubblicistica di garantire il regolare
svolgimento dei compiti assegnati al pubblico ufficiale.
Certamente la modifica degli elementi strutturali dell’oltraggio rispetto all’ingiuria incide in modo
profondo sui contenuti teleologici della fattispecie.
L’introduzione del requisito del contestuale compimento dell’atto d’ufficio sarebbe indicativa della
voluntas legis di limitare la configurazione dell’oltraggio ai casi in cui possano essere lesi sia il
prestigio sia il buon andamento della pubblica amministrazione. La necessità, che l’offesa sia recata
nel momento in cui il p.u. pone in essere un determinato e concreto atto del suo ufficio, testimonia
l’intenzione legislativa sia di sanzionare solo quei comportamenti che, provocando un significativo
turbamento nel soggetto passivo, producono inevitabili riflessi sul regolare svolgimento dell’azione
amministrativa, sia di sottolineare che il p.u. non è tutelato in virtù del suo status privilegiato, ma
solo in quanto sta concretamente ponendo in essere degli atti al servizio dei cittadini1119. Detto
requisito, insieme alla concomitante offesa all’onore e al prestigio nonché alla pubblicità del reato,
costituisce uno dei punti che qualifica la fattispecie differenziandola dalla precedente, rafforzando,
da un lato, il collegamento inscindibile tra il reato e le pubbliche funzioni esercitate1120 e dall’altro
mostrando ulteriormente la volontà del legislatore di restringere l’ambito di applicazione della
norma.
1119 Pasella, Reintroduzione, cit., p. 37. 1120 Scandone G., cit., p. 474.
246
Anche la ridefinizione della condotta, nel senso della necessità di un’offesa congiunta all’onore e al
prestigio del p.u. contribuisce a radicare la ratio dell’incriminazione nella difesa della pubblica
amministrazione e non solo nell’onore del privato. Nella configurazione originaria del delitto de
quo, ai fini della sua consumazione, era sufficiente la sola offesa all’onore o al prestigio del p.u.
Secondo alcuni autori in tal modo si produceva una polarizzazione dell’offesa verso una tutela
privilegiata di un “valore” percepito dal soggetto in quanto p.u. e, quindi, inevitabilmente, in quanto
dotato di una posizione differenziata, a prescindere da un nesso funzionale con l’esercizio del
pubblico ufficio. Nella prospettiva dell’originario art. 341 c.p. l’offesa all’onore del p.u. faceva
emergere un rapporto d’immedesimazione necessaria tra l’onore personale e la funzione, per cui
l’offesa al primo si traduceva nella lesione della seconda, con un automatismo comprensibile solo
concependo il p.u. come un soggetto di per sé “diverso”. Con l’art. 341 bis c.p., invece, non è più
sufficiente che l’offesa colpisca il sentimento del proprio valore, ma occorre che coinvolga anche la
dignità dell’ufficio rivestito dal p.u.: la tutela si orienta necessariamente alla dimensione
pubblicistica dell’attività, mirando all’interesse della pubblica amministrazione ed, in particolare, al
buon andamento dell’attività dei soggetti qualificati che ne esercitano i poteri1121. Il predetto
requisito, dunque, non solo svolge una funzione selettiva delle condotte punibili, in quanto più
gravi, ma sancisce espressamente la natura necessariamente (e non eventualmente) plurioffensiva
del delitto di oltraggio.
I presupposti del luogo pubblico o del luogo aperto al pubblico e della presenza di più persone, che
costituiscono il necessario contesto di svolgimento della condotta tipica, determinano l’autonoma
configurazione della figura delittuosa e contribuiscono anch’essi a trasformare l’offesa all’onore
individuale del singolo in un fatto lesivo del prestigio e del buon andamento della Pubblica
amministrazione. Il carattere della pubblicità della manifestazione dell’offesa, infatti, è un sintomo
della particolare gravità della stessa, gravità dovuta alla sua potenziale più ampia diffusione e alla
conseguente perdita di credibilità subita dalla pubblica amministrazione. In questo senso si colloca
anche la ratio della circostanza aggravante speciale dell’attribuzione di un fatto determinato, dove
emerge la più intensa incisività dell’offesa, che attenendo ad un fatto specifico attribuito, assume
potenzialmente carattere di maggior plausibilità.
Anche la previsione dell’exceptio veritatis si iscrive nell’orbita di una tutela della pubblica
amministrazione ed delle sue esigenze di buon andamento, perchè vincola l’onore ed il prestigio,
aggrediti dall’attribuzione di un fatto oltraggioso determinato, alla sussistenza effettiva dei valori ad
essi sottesi1122.
1121 Padovani T., Sub art. 1, comma 7, cit., p. 25. 1122 Padovani T., Sub art. 1, comma 7, cit., p. 32.
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Infine la previsione di due distinti obblighi risarcitori nei confronti sia del p.u. sia dell’ente di
appartenenza comprova il fatto che il nuovo reato di oltraggio lede l’onore individuale ed il
prestigio della pubblica amministrazione e conferma, pertanto, la sua plurioffensività.
Dall’esame della nuova disciplina, pertanto, emerge chiaramente la preoccupazione del legislatore
di limitare le ipotesi nelle quali i fatti di oltraggio possono, e devono, essere sanzionati con la
reclusione fino a tre anni, nonché la volontà di dare maggiore consistenza alla lesività del fatto nei
riguardi del prestigio e del buon andamento della Pubblica amministrazione. Infatti se da un lato
l’area applicativa della fattispecie si riduce rispetto al passato, in quanto il fatto tipico risulta più
circoscritto, dall’altro il suo contenuto di disvalore si accentua, perché l’offesa si dimostra più
diffusiva.
In conclusione la norma incriminatrice in esame tutela sia il prestigio ed il normale funzionamento
della pubblica amministrazione1123, sia l’onore ed il prestigio del pubblico ufficiale, considerato in
questo caso come individuo e, quindi, nella medesima logica sottesa al delitto d’ingiuria. Un’ultima
osservazione: non si condivide quell’impostazione per la quale la nuova formulazione della
fattispecie risulta incompatibile con la tutela anche del buon andamento della pubblica
amministrazione. Si sostiene che la limitazione dell’applicabilità della norma solo ai fatti commessi
in luogo pubblico o aperto al pubblico mal si concilierebbe con la tutela del buon andamento: il
turbamento psicologico del p.u. oltraggiato, infatti, sarebbe compatibile con fatti che si realizzano in
luoghi diversi da quelli menzionati dalla legge, quali un’abitazione privata o un luogo esposto al
pubblico1124. In realtà, però, l’obiezione non coglie totalmente nel segno: la scelta del legislatore di
limitare l’ambito di applicazione della norma è dettata dalla convinzione (condivisibile) che quel
determinato contesto spaziale caratterizzerebbe l’offesa di particolare gravità dovuta alla sua
potenziale maggior diffusione. Ciò non toglie che l’oltraggio consumato anche in luoghi diversi da
1123 Secondo un orientamento dottrinario, accolto dalla Corte Costituzionale, la norma tutela il regolare svolgimento dei compiti assegnati al pubblico ufficiale, apprestando un presidio penale anche rispetto all’ipotesi, eventuale, del turbamento psicologico che potrebbe assalire il pubblico ufficiale oggetto di offese nel contesto soprarichiamato, potenzialmente foriero di un nocumento alla sua capacità analitica, valutativa, decisionale ed operativa, di guisa da condurlo a risolversi in scelte diverse da quelle corrette o ad essere incerto ed esitante nella propria azione, rischiando in tal modo che venga compromesso il buon andamento della Pubblica amministrazione. Giova specificare che da tale impostazione Scandone G., cit., p. 477 trae un ulteriore argomento a favore della tesi secondo la quale l’oltraggio continua a costituire un reato di pericolo e non di danno, perché quella che si determini effettivamente un turbamento psicologico del p.u. è solo un’eventualità, seppur ritenuta meritevole di tutela. 1124 Flora G., Il redivivo, cit., p. 1445; Gatta G.L., cit., p. 164. In merito Scandone G., cit., p. 476, obietta che “il turbamento non deve necessariamente realizzarsi ed anzi è auspicabile che il rischio che effettivamente si produca è inversamente proporzionale al livello di preparazione e di addestramento del pubblico ufficiale, senza che la mancanza di un concreto turbamento faccia venir meno la configurabilità del reato; infine, la situazione riconduce al requisito della pubblicità le diversificate modalità di azione dei pubblici ufficiali, pubblicità che è invece in re ipsa., nel delitto perseguito a mente dell’art. 343 c.p. (ed è difficile ipotizzare un verosimile frangente in cui manchi nel delitto punito dall'art.342 c.p. ), dove sono ancora minori, ma non escludibili, le probabilità che il magistrato perda la serenità in un luogo ed in una situazione in cui egli è dominus, per di più assistito dai poteri di disciplina dell’udienza conferiti, con la correlata disponibilità, per il presidente e per il pubblico ministero, la forza pubblica (per il processo penale, v. art. 470 c.p.p.)”.
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quelli indicati dalla norma possa potenzialmente ledere anche il buon andamento della Pubblica
amministrazione: in questi casi, però, il legislatore ha ritenuto che la suddetta lesione, essendo meno
grave, meriti un trattamento sanzionatorio più lieve: quello dell’ingiuria, non semplice, ma
aggravata.
Per quanto attiene i dubbi manifestati sull’incostituzionalità del delitto di oltraggio, ad avviso di chi
scrive trattasi di un falso problema; la questione deve essere affrontata secondo diversi livelli.
In primo luogo il legislatore, in base al principio della separazione dei poteri, deve operare
valutazioni politiche e farsi interprete delle istanze e delle aspettative giuridiche attuali dei
consociati e, sulla base di tali premesse, sanzionare quelle condotte che, in quel momento storico,
sono ritenute da quest’ultimi effettivamente cariche di un disvalore meritevole della sanzione
penale, operazione più semplice quando si tratta dei c.d. delitti “naturali”, categoria a cui, però,
l’oltraggio non appartiene. La perdurante vigenza nell’ultimo decennio delle altre fattispecie di
oltraggio (artt. 342 e 343 c.p.) – è bene, infatti, rammentare che la legge 205/1999 si è limitata a
rimodulare il trattamento sanzionatorio e non ad abrogarle – nonché i progetti di riforma del c.p.
elaborati dalle diverse Commissioni che si sono avvicendate negli anni, testimoniano proprio che la
condotta di oltraggio, sebbene limitatamente ad alcune specifiche ipotesi, è stata considerata fino ad
oggi penalmente rilevante.
Inoltre le censure mosse da una parte della dottrina e della giurisprudenza contro l’art. 341 c.p. non
attenevano alla rilevanza penale tout court dell'offesa all’onore di un p.u., bensì alla irragionevole
specialità del trattamento riservatogli dalla norma abrogata, nel confronto con quanto disposto in via
generale dall'art. 594 c.p. per le ingiurie tra privati. Anzi, le prese di posizione della Corte
Costituzionale sono state volte al riconoscimento della plausibilità politico-criminale di un
trattamento differenziato, in ragione della dichiarata plurioffensività del fatto di oltraggio (quanto
meno nelle ipotesi in cui la sussistenza di un chiaro nesso causale tra il fatto e l'esercizio delle
funzioni renda plausibile l'offesa al prestigio della funzione pubblica). Anche l’intervento della
Corte del 1994, concentrandosi sull’irragionevole disparità di trattamento tra l'oltraggio e l'ingiuria,
aggravata dalla sussistenza del nesso indicato dall'art. 61 n. 10 c.p., ha confermato non solo
l’ammissibilità di una qualificazione di illiceità del fatto, ma altresì di una illiceità maggiore di
quella dell'ingiuria.
A supporto delle suesposte riflessioni si evidenzia un ulteriore dato. Premesso che non si tratta di un
elemento costitutivo della fattispecie, all’interno del codice penale, l’aggravante prevista all’art. 61,
n. 10, c.p. costituisce un indice rivelatore della convinzione che una condotta di reato realizzata nei
confronti di un pubblico ufficiale presenta – in termini assoluti, cioè a prescindere dall’eventuale
ricorrenza nel caso di specie di attenuanti – un carattere di disvalore maggiore rispetto a quella
249
rivolta in danno di un privato (ad es. minaccia), probabilmente anche perché rivela un quid pluris
sotto il profilo dell’elemento psicologico e, pertanto, un atteggiamento antidoveroso della volontà
più grave e tale da giustificare un aggravamento della pena.
Queste considerazioni non sono mutate nel corso di un lungo arco temporale (cioè dall’emanazione
del codice Rocco fino ad oggi), non essendo intervenuta alcuna modifica normativa ed hanno
caratterizzato sia uno Stato autoritario (ma non totalitario), sia uno democratico. Perciò si cade in
errore se si ritiene che il rispetto delle Istituzioni, non solo di ciò che rappresentano, ma soprattutto
di quello che sono chiamate a fare per la collettività, sia un valore che connoti solo il primo e non il
secondo. Non dovrebbe, pertanto, stupire o far ritenere che si sta compiendo un passo indietro nel
consolidamento dell’affermazione del principio di uguaglianza, canone fondamentale dello Stato di
diritto, con la scelta legislativa di criminalizzare nuovamente la condotta di oltraggio a p.u.
Ciò su cui, invece, è necessario riflettere – e che costituisce il secondo livello di approfondimento -
attiene alle modalità di realizzazione della suddetta scelta ovvero al “come” è formulata la norma,
specificamente al suo ambito di applicazione. E dall’analisi operata emerge con chiarezza che il
legislatore non ha voluto conferire un particolare status al pubblico ufficiale o riconoscergli una
tutela rafforzata, ma semplicemente proteggere la pubblica amministrazione nello svolgimento dei
suoi compiti istituzionali, che avviene, come noto, attraverso persone fisiche. Pertanto, ciò su cui si
dovrebbe discutere non è nè la sussistenza o meno della reale necessità di incriminare l’oltraggio,
dato che la condotta oltraggiosa è percepita dalla comunità (o, per lo meno, da una gran parte della
comunità sociale) come connotata da un maggior disvalore, né, tantomeno, la costituzionalità o
meno della norma, ovvero il suo rispetto dei precetti costituzionali, che risultano osservati nella sua
riformulazione, ma la scelta, sempre più frequente, del legislatore di risolvere problemi (di disagio)
sociali contingenti e di rispondere alla sempre più diffusa richiesta dei cittadini di sicurezza
attraverso il ricorso ad una legislazione di “emergenza” e allo strumento della sanzione penale (un
classico esempio è costituito non solo dall’introduzione di nuove fattispecie di reato, ma soprattutto
dall’innalzamento dei trattamenti sanzionatori, in netto contrasto con la legislazione degli anni
novanta, volta, invece, alla depenalizzazione). La prospettiva del diritto penale, infatti, è quella di
una legislazione varata, soprattutto in materia di sicurezza pubblica, non sulla spinta di allarmi
sociali di attualità, ma destinata a durare nel tempo, pena la produzione di forti distorsioni del
sistema (si veda la legislazione d’emergenza sui reati di terrorismo e il c.d. diritto penale del
nemico) non rispettose dei principi costituzionali fondamentali.
Altro profilo su cui è necessario riflettere – e che costituisce, infine, il terzo livello di
approfondimento, nonché il cuore del problema - è il trattamento sanzionatorio: è ragionevole, nel
senso di proporzionato, il ricorso alla pena detentiva, soprattutto in considerazione della finalità
250
rieducativa della pena, che verrebbe ragionevolmente compromessa dal ricorso alla privazione della
libertà personale nei casi meno gravi? È ragionevole che in un bilanciamento d’interessi la libertà
personale possa soccombere a vantaggio della tutela dell’onore e del prestigio del pubblico
ufficiale, anche a fronte di offese di minima entità? A favore della previsione della pena detentiva si
potrebbe obiettare alle domande sopraposte evidenziando che quella pecuniaria, nella realtà dei
fatti, risulta ineffettiva e costituisce un motivo di confusione tra i tre pilastri punitivi –
giurisprudenza ordinaria, giudice di pace, illecito amministrativo – su cui si fonda il nostro sistema,
perché l’esborso di una somma di denaro non permette di distinguere qualitativamente quale tipo di
violazione c’è stata. Ma questo, però, è un altro discorso, che concerne il nostro sistema
sanzionatorio in generale.
Posto che la lontana origine autoritaria dell’art. 341 c.p. non ne comporta automaticamente
l’incostituzionalità è necessario interrogarsi se il trattamento sanzionatorio possa essere giustificato
in funzione della tutela di un bene giuridico ulteriore rispetto a quello della dignità sociale dei
soggetti direttamente offesi oppure in funzione del perseguimento di uno scopo che possa
ragionevolmente ritenersi pregiudicato dal fatto oltraggioso.
La formulazione della norma, infatti, è sospettata di contrastare con il principio di proporzione non
solo in ordine alla previsione della pena detentiva e all’ampia discrezionalità rimessa al giudice
nella determinazione della stessa, che può addirittura oltrepassare i limiti previsti dall’art. 163 c.p.
per la sospensione condizionale, ma anche in ordine al quantum di pena irrogabile, ritenuto
eccessivo, soprattutto in riferimento all’ipotesi di oltraggio aggravato dell’attribuzione di un fatto
determinato. In quest’ultima ipotesi il giudice potrebbe discrezionalmente ritenere di dover irrogare
una pena detentiva di quattro anni, misura ritenuta sproporzionata se confrontata con quella prevista
dall’art. 594, comma terzo, c.p. per l’ingiuria aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato (ex
art. 52 d.lgs. 74 n. 274/2000 la sola multa o, in alternativa, la permanenza domiciliare da sei a trenta
giorni ovvero il lavoro di pubblica utilità da dieci giorni a tre mesi)1125.
Si è, anche, detto che i danni provocati all’individuo (e al suo diritto alla libertà personale) e alla
società sono sproporzionatamente maggiori ai vantaggi ottenuti dalla società stessa con la tutela
dell’onore e del prestigio dei pubblici ufficiali1126. Come insegna la Corte Costituzionale, la lesione
del principio di proporzionalità arreca necessariamente un vulnus all’art. 27 Cost., sub specie del
finalismo rieducativo della pena. La reclusione, in quanto pena sproporzionata, sarà avvertita come
1125 Gatta G.L., cit., p. 173. 1126 Gatta G.L., cit., p. 173.
251
ingiusta, con conseguente pregiudizio della possibilità di realizzare quella rieducazione del
condannato indicata dall’art. 27 Cost.1127.
In realtà non è proprio così. Per lungo tempo le critiche rivolte dalla dottrina e gli interventi della
Corte Costituzionale sono stati contrassegnati da uno specifico elemento di continuità, costituito dal
costante ed espresso riferirsi delle cadenze argomentative impiegate dalla Corte al delitto di ingiuria
come tertium comparationis, rispetto al quale la Corte di volta in volta ha misurato la
ragionevolezza della diversa disciplina dettata dalla norma. In questo quadro di fondo si inserisce,
anche l'intervento legislativo del maggio 1999, che porta a coronamento quell'opera di progressiva
eliminazione delle differenze di disciplina tra i reati di oltraggio e di ingiuria.
La nuova formulazione della norma, però, spezza, in un certo senso, quel legame di genere a specie
che sussisteva tra l’ingiuria e la precedente formulazione dell’oltraggio, consentendo di ricollocarlo,
più correttamente, all’interno dei reati dei privati contro la pubblica amministrazione. Ed è proprio
che in questa sede che deve essere valutato, in un’ottica di progressiva gradualità, il suo trattamento
sanzionatorio.
Sarebbe, pertanto, auspicabile un intervento del legislatore volto a conferire sistematicità e ad
assegnare, secondo una logica della gradualità – cioè rispettando il principio di proporzione – un
trattamento sanzionatorio che, tenendo conto delle diverse fattispecie (artt. 336, 337, e ss.), sia
proporzionato all’effettivo disvalore del fatto, valutato non solo in riferimento agli interessi protetti,
ma anche all’attuale percezione della gravità dell’offesa che ha la comunità. Di conseguenza,
ragionando in astratto, la condotta di oltraggio non dovrebbe avere una sanzione privativa della
libertà personale superiore o uguale a quello della violenza o minaccia a pubblico ufficiale o a
quello della resistenza, perché i due fatti di reato rivelano una potenzialità lesiva diversa.
Nelle more del suddetto intervento legislativo spetterà all’interprete valutare correttamente le
diverse situazioni onde evitare applicazioni della norma che violino il principio di uguaglianza. Il
giudice, quindi, dovrebbe orientarsi verso il massimo della pena edittale dell’oltraggio solo
nell’ipotesi in cui la condotta sia posta in essere con violenza e/o minaccia e, di fatto, non solo
ostacoli, ma concretamente impedisca che il p.u. ponga in essere l’atto d’ufficio, realizzando così le
finalità di pubblico interesse di cui sia portatore.
Per quanto, infine, attiene alla disposizione contemplata dall’art. 393 bis c.p. si può rilevare che in
generale l’ordinamento prevede una serie di soluzioni contro lamentate lesioni dei beni giuridici
della personalità, cosicché la reazione diretta del cittadino è considerata come ipotesi eccezionale e,
proprio per evitare una incontrollabile e pericolosa dilatazione della sfera consentita del c.d. diritto
1127 Gatta G.L., cit., p. 161.
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di resistenza, nel tempo si è consolidato un perimetro solo all’interno del quale può dirsi lecito e
meritevole di positivo apprezzamento.
Sviluppando ulteriormente tali considerazioni, potrebbe forse argomentarsi che, proprio alla
maggiore tutela riservata, per i motivi sopra riportati, all’onore e al prestigio dei pubblici ufficiali
con il rigore sanzionatorio caratterizzante i reati di oltraggio rispetto a quello di ingiuria, dovrebbe
corrispondere un analogo rigore nella valutazione della correttezza della condotta del funzionario
(offeso dal reato di oltraggio) per l’individuazione dell’arbitrarietà del suo comportamento, rispetto
alla valutazione della condotta del privato cittadino (offeso dal reato di ingiuria) rilevante ai fini
della fattispecie della provocazione: ne conseguirebbe la legittimità o, addirittura, l’opportunità, di
un’applicazione della scriminante della legittima reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale
addirittura piú lata rispetto a quella dell’esimente della provocazione.
253
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