Lo ZEN e l’arte di sopravvivere dentro la scuola di questa ... · ma che nessuno ha mai avuto il...

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Lo ZEN e l’arte di sopravvivere dentro la scuola di questa massa ovvero tutto quello che avreste voluto sapere sui docenti skazzati, ma che nessuno ha mai avuto il coraggio di dirvi

Transcript of Lo ZEN e l’arte di sopravvivere dentro la scuola di questa ... · ma che nessuno ha mai avuto il...

Lo ZEN

e l’arte di sopravvivere dentro la scuola di questa massa

ovvero

tutto quello che avreste voluto sapere sui docenti skazzati,

ma che nessuno ha mai avuto il coraggio di dirvi

RITRATTO

Nel senso che nego fin da adesso tutto quello che andrò a dire?

Troppo raffinato… roba che se la può permettere solo un Presidente del Consiglio.

Volo basso: Vi fornirò una fototessera di un docente skazzato. Una sola. La mia.

Per amore di onestà o per amore di brevità. Scegliete voi.

E poi perché soffro di intolleranza prenatale per il pensiero categorico. Non quello

di Kant.

Ma quello che fa dire ai vari genietti di turno… tutto quello che volete sapere sugli

italiani, sui cuochi, sulle donne in carriera, sui single, sulle veline e sui calciatori…

presi così, a confezione industriale, che tanto, quando ragioni per categorie e ti

capicolli a denunciarne vizi e virtù, più i primi che le seconde, passi sempre da

novello Catone, ci fai una bella figura, solletichi sempre l’intelligenza di chi si crede

intelligente – ce ne sono a milioni – e fai i soldi.

Devo farvi i nomi? Neanche davanti a un plotone di esecuzione. Trovateveli da voi.

Ho sempre interrotto i rapporti molto bruscamente con chi si è rivolto a me

chiamandomi…Voidocenti. E non ho mai rinnovato appuntamenti a chi ragiona sui

politici presi tutti nel mazzo o sui giornalisti che son tutti una razza ecc.ecc.

Non aspettatevi da me una categorizzazione facilefacile, glamourglamour… sul

corpo insegnante.

Il motivo c’è e a me non pare tanto irrilevante o gratuito. Ve lo fornisco e poi ne

fate quello che volete.

Chi sceglie di fare l’insegnante – e chi non lo ha scelto e fa il docentepercaso lo

deve imparare cammin facendo – ha un’unica convinzione: ogni vita è singola ed è

insostituibile. Punto.

Adesso, come mi vedete adesso, ho cinquantatre anni, la menopausa è un ricordo di

giovinezza, i vuoti di memoria prolificano come conigli, e pure i vuoti nell’arco

dentale aumentano vieppiù, e sputacchio alla grande tenendo lezione.

Solo ora capisco perché Pitagora insegnasse nascosto dietro una tenda.

Non sono un grande spettacolo per le fanciulle in fiore. Men che meno per i

rigogliosi palestrati che da sotto il banco fuoriescono di centoventi centimetri di soli

polpacci Nike escluse. (Ma le aziende che forniscono mobili alla scuola hanno preso

atto delle nuove anatomie adolescenziali?)

Lo so, come minimo sarebbe quasi tempo di passare alla dentiera. Ma ci vorrebbero

soldi che non ho.

Solito piagnisteo dei docenti sottopagati??? Naaaaaaaaaaaaaaaaaa.

Visto che lo Zen deve avere a che fare qualcosa con questo libro… chiamiamola

pure… reincarnazione accidentale di percorso.

Signoramia, che vuole che Le dica… ero anche riuscita a programmarmi una vita di

quelle fatte cosìcosì, che ce ne sono a milioni, tanto inflazionate che certo non vanno

a finire sui giornali o in televisione e nei libri tantomeno.

Un profilo da Fossa delle Marianne, insomma, ma almeno lunare come il Mare della

Tranquillità.

Un marito impiegato, una figlia invidiabile, la scuola quasi sottocasa, due anziani

genitori cui badare a trenta chilometri di distanza… tre locali più un servizio – senza

box - nella travolgente periferia milanese, e un balconcino affacciato su un mare di

tetti a schiera, molto opportuno come sito per la raccolta differenziata dei rifiuti.

Potrebbe mai una donna con la testa sulle spalle desiderare di meglio?

E come potrebbero decine di genitori affidare ogni primo settembre i loro pargoli…

a donne che non abbiano una testa sulle loro spalle?

Eh sì… non lo si dice mai, ma un cervello funzionante è il minimo patrimonio

dotale di un docente…

Per esempio, fossi rimasta a casa, adesso avrei una dentiera e non sputacchierei

nelle classi.

Esemplare di una specie in via d’estinzione, docente reclutata dalle file del

proletariato emigrante ed emigrato, nomade per coatta vocazione, e soprattutto certa –

nonostante gli antibiotici e il Prozac - che a cinquant’anni si debbano fare i conti con

la vita e con la morte – diosanto questi proletari snob che hanno letto Seneca

blehaaaaaaaa - … insomma, a dirla tutta, mi sono rifatta una vita.

Ci si alza una mattina e si decreta di dover morire. Come dire oplà. Ho

arbitrariamente decretato che dopo aver trascorso cinquant’anni nell’Italia metà

galera, mi spettava di diritto di vivere il poco che mi resta nell’Italia metà giardino.

Ho coronato una storia d’amore, ho riportato il cerchio al punto di partenza, ho dato

ascolto a una briciola di DNA e le ho detto…SI’.

Non affannatevi a cercare l’altro… e se proprio siete fatti per le categorie

piazzatemi in quella di cui la sociologia non si è ancora accorta: sono sposata fuori

casa.

Ma ero troppo innamorata degli ulivi e dei pini marittimi per poter farne ancora a

meno.

A due passi da un lago vulcanico del Lazio, ho comprato cinquanta metri di casa

popolare. Non ho il box, ma ho finalmente un’amaca sotto una pergola, un piccolo

prato su cui camminare a piedi nudi, due rose da coltivare… e metà stipendio che se

va in un mutuo di venticinque anni. Le banche si fidano della longevità dei Docenti.

Parlandone come da Zen… ho programmato felicemente la mia prossima

evaporazione ventura. Non c’è oro che possa ripagare il regalo di poter evaporare in

un luogo dove ancora nascono gli asfodeli. Segnatevelo, l’inverno del 2000. L’ultimo

che ho passato in Lombardia. Non finirà nei manuali di storia, ma in quell’inverno

morirono tutti i merli. Per malattia, per inquinamento, non so. Albe da silenzio

tombale, neanche un fischio di merlo a dare il buongiorno. Non se n’è accorto

nessuno.

Non si può evaporare bene in luoghi in cui i merli muoiono e nessuno lo sa.

Il Ministero se ne farà una ragione… si tenga una Docente sdentata che deve

pagarsi il lusso di godere di una Bellezza che non appartiene a nessuno.

Pensa che novità… devo lavorare per vivere.

SIAMO COSI’ CERTI CHE SIA UN LAVORO?

Socrate, vecchio brigante! Fuori c’è il silenzio caldo delle cicale… e compatisci il

ronzìo del ventilatore. Ma solo quando scoppia l’estate il docente skazzato può

mettersi seriamente a lavorare. Mettiti comodo, e non fare domande su questo arnese

diabolico che proietta scrittura senza sognarsi di materializzarla.

Se cominci così c’infiliamo in un ginepraio di discorso peso che neanche i cani

randagi ci seguiranno più.

Lo so che è una vita che non scendi tra i mortali, ma se devo spiegarti il mouse il

display la rava e la fava qua ci giochiamo il meglio. Se chiudi gli occhi, ci troviamo

un bel prato per te e per me e aspettiamo Pan e le Ninfe che ci diano bellezza

all’anima e che ci proteggano perché le nostre parole siano in armonia con tale

bellezza.

E non fare quella faccia… se recito la tua preghiera non è certo per piaggeria.

Pensa te se alle due di un pomeriggio di luglio mi metto a far l’adescatrice della tua

benevolenza… no, non te lo spiego cos’è un telecomando, rimettilo a posto. Sei tu

che mi devi delle spiegazioni.

Questa cosa qui, per esempio, che è andata persa in qualche interstizio del tempo…

Che le parole di un Maestro partono dal cuore, transitano per il cervello, e poi

arrivano alle labbra… e che è meglio, molto meglio, se gli Dei e la Bellezza

proteggono l’intero percorso… e quell’altra cosa… che anche il discepolo deve

condividere la stessa preghiera del Maestro prima di cominciare una qualsiasi

conversazione… perché strade separate non generano armonia…

Non voglio darti pessime notizie, ma che insegnare sia un affare d’anima e di cuore

– e scordati soprattutto gli dei e la Bellezza – non sta più scritto da nessuna parte.

Fuori moda, fuori corso, fuori tutto. Anche fuori di testa. Se ci sentissero ci

manderebbero in Siberia. Cos’è la Siberia?

Scusa, se ci sentissero brinderemmo a cicuta. Più chiaro, così?

Già, per me senz’altro, è più chiaro. Anche ai tuoi tempi tirava brutta aria.

Ci riesci sempre nei panni della levatrice, vecchio Sileno barbuto…

Fare il Maestro e fare il Docente sono due cose diverse.

I Docenti mica hanno bisogno di pregare insieme ai loro allievi all’inizio dell’ora,

perché le cose che dicono o che fanno siano armate di buone intenzioni, oneste nei

loro confronti, utili e vantaggiose alla loro vita.

Ti immagini le facce se entrassi in classe con una simile proposta? (Non escludo

che lo farò, prima o poi).

Cos’è un Docente??? Te ne sei persa di acqua sotto i ponti, amatissimo amante…

Dopo trent’anni di questo lavoro, dovrei risponderti a razzo… scusa…

fulmineamente.

E invece, più il tempo passa, più ne capisco di meno.

Tira fuori il tuo contratto, Socrate! Quel bel privatissimo contratto che tu, da

Maestro, hai stipulato con gli dei… Come diceva? Se un’anima sceglie di reincarnarsi

per cinque volte di seguito nel corpo di un maestro… dopo la quinta reincarnazione è

estromessa dalla gazzarra del mondo, raggiunge il Nirvana e chi s’è visto s’è visto.

Bello! Non escludo che in certi ambienti possa ancora far colpo.

Beh, i Docenti firmano contratti solo con i Trenta Tiranni, dentro e fuori dalla

metafora. Calcola che negli ultimi tre decenni i Tiranni hanno cambiato idea almeno

una mezza dozzina di volte, per carità con le loro ragioni…

Risultato: siamo una razza di reincarnati vita natural durante.

Ho raggiunto il Nirvana, in una vita sola, e per puro beneficio di legge.

E scusa se è poco.

Lo so, sgangherato come discorso, ma non capita tutti i giorni averti qui,

approfittare della tua compagnia… vederti giocare con l’Artemide… è solo una

lampada… come dici scusa? Che mi devo aspettare da un mondo che ha trasformato

gli dei in lampadine elettriche? Oh beh, questo è il minimo… se sapessi in quante

cose li abbiamo trasformati!!!

Ma perché mi porti sempre dentro argomenti che non ho nessuna voglia di

affrontare?

Sei speciale in questo… e mi sa che non posso darti torto. La radice del problema di

solito sta sempre proprio nelle cose che non si vogliono affrontare. Qualcuno un

giorno l’ha anche battezzata questa cosa qui… processo di rimozione, sì, credo si

chiami così… se ti dà fastidio un ricordo, un pensiero… lo seppellisci, fingi che non

esista e la vita procede che è una bellezza.

I cadaveri puzzano? Sì, hai fatto centro, poi si corre il rischio che il cadavere

cominci a puzzare.

E allora niente… chi ha i soldi va da un tizio che si chiama analista che è una specie

di becchino all’incontrario, dissotterra il cadavere, te lo fa vedere, disinfetta il tutto…

è una cosa che ha i suoi costi. E chi non ha soldi? Boh… gli danno delle pillole credo,

quelle sono gratis.

Ma adesso che mi ci hai fatto pensare… le cose cambiano. Vedi, sono anni che un

sacco di gente dice le stesse cose… che a scuola si sta male, ci si deprime… parlo di

tutti sai, mica solo docenti… ogni tanto esce un libro… qualcuno infierisce sui

legislatori, qualcun altro sul vuoto pneumatico… gli americani hanno inventato la

formuletta… burnout… per quelli che lavorano nel sociale, compresi i docenti… alla

fine si spengono come una candela. Pensa che hanno pure cominciato a fare convegni

per docenti depressi… davvero, non sto scherzando!

Non si toglie il dolore a botte di decreti e non si raggiunge il Nirvana ope legis.

Vero, parole sante. Dimmi che stiamo pensando la stessa cosa… sarebbe ora di

cominciare a dissotterrare cadaveri???

IL METAFORICO CRONICO

Ovvero quando la cronaca diventa metafora.

Non ve la sto a fare tanto lunga… ma quest’anno scolastico sarà annoverato come

l’anno dei lucchetti. Il lucchetto è il cardine dell’impegno di un Preside.

Chiusa a doppia mandata la toilette dei Docenti. Pare che non ci sia un idraulico in

grado di farla funzionare.

Chiusi i cancelli della scuola. Delle quattro uscite cardinali ne funziona solo una, e

l’edificio non è precisamente un cabina da spiaggia. Motivi di sicurezza. Ho visto

docenti uscire scavalcando le inferriate. Uguale e preciso agli studenti.

Messi i lucchetti alle macchinette delle bibite e delle merende. Motivi non accertati.

Infine, a castagnola, incatenata la macchinetta del caffè. Fortuna che le colleghe

tecnologicamente avanzate non mancano mai… thermos pieni di caffè portati da casa

uscivano puntuali da borsoni da spiaggia. Clima da gita fuori porta, o da treni del Sud

quando ci si viaggiava trenta ore per fare tutta l’Italia in lungo.

GENIUS LOCI

Già, ogni luogo ha un’anima. E, fra di loro, le anime parlano.

Le anime di quelli che entrano in quel luogo, entrano in rapporto col Genio che lo

abita. Se ne accorge solo chi lo sa. Praticamente nessuno.

Chi lo sa, ha buone probabilità di diventare docente skazzato. Chi non lo sa ha

ottime probabilità per diventare docente depresso.

Gli allievi? Quelli sono giovani, e quindi hanno ancora il diritto all’immediatezza.

Nel senso che non perdono tempo a macerarsi dentro… ma improvvisano –

giustamente – immediati gesti di difesa.

Il Luogo abitato dal Genio dei Lucchetti invita all’evasione: nessuno ha voglia di

entrare, tutti cercano di uscire il più presto possibile.

Ho insegnato in vecchie fabbriche abbandonate, in containers prefabbricati, nelle

vecchie stalle di una Villa Reale (asburgica , francese e savoiarda), in villaggi scuola

con quattromila allievi, in moderni edifici vetro-cemento, in aule prestate dagli

oratori… non ricordo edifici accoglienti. Tranne due casi, in trent’anni. Di un Preside

che sapeva che il luogo va soprattutto fabbricato dall’interno e così aveva trasformato

la sua scuola in un grande laboratorio di cose da far vedere… piramidi egiziane

comprese. E il caso di una scuola media progettata da un architetto che sapeva che la

scuola va soprattutto abitata. Aule-giardino e laboratori connessi come fossero grandi

stanze di un singolo appartamento… il Rinascimento italiano ogni tanto resuscita, ma

non lascia grandi tracce.

Grandi cubi di cemento, con dentro piccoli buchi quadrati è il massimo dei risultati

ottenuti dall’architettura scolastica. E poi si apre il capitolo manutenzione.

A parte il cadavere di una piscina, vetrate rotte, invasione di rampicanti, muffe

sgorganti come le aliene gelatine di Blob… a parte il giardino-discarica delle vecchie

lavagne, delle sedie senza gambe, delle cattedre sfondate… l’interno della mia scuola

gode di finestre sempre chiuse perché rotte, di tapparelle sempre fisse perché andate,

di veneziane sventagliate che non riparano dal sole neanche a forza di riti vudù, di

porte che non chiudono – le uniche che dovrebbero garantire tale bisogna – di

immense vetrate inaccessibili alla pulizia ordinaria, di colori interni che vanno dal

grigio antracite al fumo di Londra.

E questo sarebbe anche sopportabile. Anzi, quasi logico. Se il tutto fosse immerso

in una triste landa padana, per esempio, nebbia, pioggia e capannoni industriali… chi

ne potrebbe soffrire?

Ma là a due passi, e dalle scale antincendio si vede bene… c’è uno specchio blu di

lago che vien voglia di mangiarselo, e svettano pini e oleandri, e le colline forse non

si prendono lo sfizio di diventare troppo verdi??? Sfacciatamente verdi.

C’è il Genio di Artemide là fuori. Diana la Bella lancia richiami azzurri ad ogni

folata di vento. Chi scommette un soldo bucato sul Genio dei Lucchetti???

Le scale antincendio sono le più abitate, d’inverno perché è l’unico luogo caldo,

arriva il sole, dentro i caloriferi sono sempre gelati; e in primavera il perché lo capite

da soli.

Le aule poi urlano desiderio di fuga da tutte le parti. Pareti scrostate, istoriate,

graffitate… retro di calorifero imbottito di carte di merende, orme di pedate anche sui

soffitti. Quasi per gioco e senza sperarci molto ho imbiancato l’aula con i miei

allievi… lungi da me mille miglia il tentare di spiegare loro la gravità del genius loci,

tanto quello si spiega da solo. Qualche mese dopo tutti gli allievi hanno preteso di

imbiancarsi le proprie aule, aggiungendo anche murales e decorazioni varie.

(Che schifo questa scuola di imbianchini… il commento più delicato…)

Hanno abitato ambienti più igienici e puliti, ma, non potendo più prendersela con il

loro lavoro, hanno aggredito le pareti esterne e i vetri delle finestre. Bombolette spray

riciclate in dichiarazione d’amore e in pubbliche accuse di tradimento. I vocaboli ce li

mettete voi.

Ma è sempre tanta la renitenza ad entrare, la voglia di scappare.

Terapia: severità severità punire punire. Dopo cinque entrate in ritardo si buttano

fuori. Non li si fa più entrare. (Infatti non chiedono di meglio). Questo alto tasso di

frequenza intermittente va estirpato con la forza. Ci vogliono lucchetti.

Un secondo dopo si mette mano al Progetto Accoglienza, perché, si sa, se la scuola

non ha un buon Progetto Accoglienza, le iscrizioni si abbassano.

Loro sono venticinque. Eccomi qua, l’Asino Grigio e i venticinque puledri giovani e

bianchi. Chi scommette un soldo bucato sull’Asino Grigio???

E poi l’ho presa stamattina la pastiglia vitaminica overcinquanta? E chi si ricorda

più. Sole perpendicolare, cielo azzurro, incoscienza in circolo, ormoni all’attacco…

da quando in qua mi sta stretta la parte della professoressa scema che si fa fregare?

Sulle scale antincendio tiro fuori distrattamente un aneddoto di storia. Butto là una

domanda, spiego un vocabolo. Raccogliessi energia dai loro pori, farei partire un

TIR. C’è solo l’auriga pazzo che li governa, quello della fame e della corsa.

Devo fare uno sforzo tremendo per ricordarmi di quello che fu il mio.

Dalla mia un solo vantaggio: io lo so che verso latte e miele solo sull’altare di

Artemide.

Caro Ministro, fammela la domanda, telefonami almeno una volta, chiedimelo

perché arrivano analfabeti all’Università.

DREAM (Vi avviso: capitolo patetico)

Grandi. Dicono tutti che devono essere grandi… i Sogni. I miei allievi sognano di

diventare Totti e di andare al Grande Fratello. C’è anche chi ha il diritto di sognare di

diventare Presidente degli Stati Uniti. Pieno di gente così che sogna di diventare

miliardaria.

Il motivo c’è: più il sogno è grande e più è innocuo.

Sono i sogni piccoli, i più pericolosi.

Riccardo Cucciolla. Anni Ruggenti, il film. Mai visto? Il contadino vissuto sempre

in caverna… che scrive al Duce per avere una finestra. Ha perso la moglie, e poi il

figlio restando vedovo del tutto. E sogna di avere la finestra che non ha mai avuta.

Questo è un sogno che fa paura, perché è infinitamente piccolo. E proprio per

questo non scende più a patti con niente, né rischio né caso né fortuna né possibilità.

Un sogno piccolo non esaudito è arsenico puro in tutte le pieghe dell’universo.

Un sogno piccolo non esaudito tracolla dall’ultima galassia e ancora continua ad

urlare nel vuoto.

Un sogno grande non esaudito se lo scorda anche chi l’ha sognato.

A me d’inverno capita di sognare di poter andare a lavorare in una stanza calda.

Con le finestre aggiustate e i vetri puliti. Non mi interessano tende sedie comode

quadri alle pareti. Solo una stanza calda. E sarebbe tutto. Punto.

IL METAFORICO CRONICO

Ovvero quando la cronaca diventa metafora.

Ore 15. Luglio africano. Da sette ore si ascoltano candidati, si riempiono verbali, ci

si gioca a dadi una pala di ventilatore.

Borse termiche, thermos di caffè… usciamo che sembriamo le fagottare di Ostia

mare.

Ci aggrediscono due operatrici scolastiche. Non lo sapevano che saremmo uscite

alte tre del pomeriggio. Devono restare a fare il turno fino alle sei, per ordini

superiori. E non hanno una beata minchia da fare.

“Mi dispiace…” farfuglio prima di catapultarmi sulla scala.

Del disguido degli ordini superiori… capiscono le bidelle, che era quello che

dovevano capire.

Mi dispiace che loro non abbiano visto che abbiamo fatto esami con le lavagne che

trasudavano il gesso di tutto l’anno scolastico, scolpite ancora a futura memoria le

equazioni algebriche del 30 di maggio.

Mi dispiace che loro non vedano quei due gerani nell’atrio cementati in una zolla

sahariana che non ha più nemmeno il coraggio di dire che ha sete.

(Vogliamo parlare del resto?)

Mi dispiace che il Genius Loci abbia colpito là dove veramente voleva colpire.

Finalmente ha mandato in sotto vuoto ermetico anche il cervello.

GENIUS PERSONAE

Non ridere sotto la barba che tanto ti vedo… Tu me l’hai detto che dovevo

dissotterrare cadaveri, e il primo che mi è venuto in mente è quello del luogo di

lavoro. Banale, lo so, non mi è venuto di meglio. Anche meschino? Sì certo… sai che

novità sapere che in tutti i pollaietti che si rispettano ci si sta a stracciare le vesti

facendo finta di non vedere quello che non si vuol vedere ecc. ecc.

Non lo sopporto più, tocco il fondo della meschinità, mi fa schifo lavorare dentro lo

sporco, lo sciatto, il trasandato, l’abbandonato… dentro tutto ciò che è brutto.

Certo che era molto meglio il mercato del Pireo. Cento volte meglio, e non far finta

anche tu di non capire.

E allora senti anche questa: siamo una delle otto potenze economiche mondiali e

questo è il luogo di lavoro in cui dovremmo trasmettere saperi, cultura e buone

maniere. Che fai? Non ridi più?

Sono andata a scuola in piena ricostruzione post-bellica. Appesi alle pareti c’erano i

disegni delle bombe a mano… se le vedi non toccarle… Nient’altro, perché carte

colorate e gingilli vari erano un lusso.

L’inchiostro nel calamaio, e cinque pastelli. Un grembiule nero. Due quaderni, uno

a righe uno a quadretti.

I vetri erano puliti, e anche la lavagna.

Questo si chiama decoro della povertà.

Mi spieghi perché dovrei scendere a patti con la sporcizia della ricchezza????????

Ok ok… più dentro che fuori dalla metafora. E spegni il televisore che tanto non te

lo spiego chi è Moggi.

In questo luogo che già dal primo lucchetto t’invita a veder il mondo color di rosa, e

nel quale, non mi vergogno a dirlo, spesso sono entrata con la boule di acqua bollente

nascosta sotto il cappotto… in questo luogo entrano persone.

Col peso dell’anima sulle spalle, tutte, giovani ed adulte. Il loro privatissimo Genio

caracolla al loro fianco. Lascia stare, qua non ci ascolta nessuno, possiamo dirlo fra

me e te come stanno veramente le cose.

Per motivi diversi, ma tutti vorrebbero essere da un’altra parte. E’ così chiaro… che

anche il sole a paragone mi diventa un lumino votivo.

Tra colleghi basta un incrocio di sguardi, anche il saluto è superfluo nell’ultimo

secondo in cui ognuno può ancora stare solo con se stesso e maturare, proprio a se

stesso, l’addio.

Si firma, si agguanta un registro… si va. Un attimo ancora, e saremo travolti da una

doppia colonna di TIR. Stretti in bocca i pochi denti che restano imploro energia

sfogliando a memoria le orbite di tutti i pianeti.

Nella mia prima reincarnazione gli allievi in piedi al loro banco attendevano in

silenzio il prof. e lo salutavano.

Nella mia seconda reincarnazione gli allievi seduti al loro banco attendevano in

silenzio il prof. e lo salutavano.

Nella mia terza reincarnazione gli allievi parlottavano a gruppetti sparsi nella classe,

intravedevano l’insegnante, correvano al banco, si sedevano e, in silenzio, salutavano.

Nella mia quarta reincarnazione gli allievi ridevano e squittivano a gruppetti sparsi,

si strattonavano braccia e spalle, qualcuno a voce alta reclamava una dritta o una

risposta. Io mi fermavo sulla soglia, e nel giro di tre minuti, con calma,

raggiungevano i loro banchi, si sedevano, e mi salutavano.

Nella mia quinta reincarnazione gli allievi sparsi dovunque, fra classe, corridoio e

cessi, alla mia vista sgomitando di corsa rientravano in classe, perpetuavano ombre di

libertà girando fra banchi spostando sedie inciampando sugli zaini, emettendo

imprecisati gridolini isterici ogni volta che uno spigolo di banco entrava in rotta di

collisione con le cosce e con le pance… dopo cinque minuti si sedevano e mi

salutavano.

Nella mia sesta reincarnazione imbocco il corridoio… stanno nei cessi, sulle scale

antincendio, ammassati alla porta come cavalli di Frisia, i più scafati ancora nell’atrio

si gingillano con la prima lattina di coca e con l’ultimo boccone di pizza…

Uno mi urla all’orecchio che il compito non l’ha portato, uno mi urla alla spalla

destra una domanda attorno al programma della lezione odierna (traslescion: ah

professorè ma che faaaaaaaaaaaaamo oggi????).

Ce ne sono due che mi urlano alla spalla sinistra l’elenco completo dei compagni

non ancora presenti (quello sta ar cesso, quell’artro sta in segreteriaaaaaaaaaaa)…

Dribblando i cavalli di Frisia, dentro l’aula m’investe la pogata quotidiana.

Corpi che si stratificano in orizzontale sui banchi, in totale assenza di

conversazione, ma in compenso le urla mettono in forte discussione la decimale

gradazione dei decibel. A brevi scadenze, dalla massa informe si stacca una Nike

maschile che sferra un calcio a una natica femminile, poi sarà la Nike femminile a

trastullarsi con la natica maschile. Le strattonate sono un bel ricordo dei tempi

antichi. Gli spintoni effluviano, esondano, tracimano. Qualcuno a terra, qualcun altro

ci andrà già sollevato sulle spalle da un compagno. Che io sia entrata o no, non

interessa una beata minchia a nessuno.

Entrano i ritardatari, che non vanno al banco, ma trovano naturale la loro

estemporanea partecipazione alla prima pogata della mattina. Scappellotti, lanci di

sinistro al torace, gomitate ai fianchi, Nike a un metro e mezzo da terra in

collocazione ormai fisiologica.

Esistono sempre due marziani che stanno seduti in silenzio al loro posto. Incrocio i

loro sguardi. Il mutismo ci rende più complici e più impotenti.

Non basta la pastiglia overcinquanta, solo una pista di buona neve aumenterebbe le

mie prestazioni.

Sono bambini? No, vanno dai diciassette ai vent’anni. I due terzi di loro mi

sovrastano di una testa e mezza. Le Nike vanno dal 39 al 45.

Sono i poveri, i borgatari, i sottoproletari di turno, i disadattati, gli emarginati, i

derelitti e abbandonati, i difficili, i disagiati, i Franti di antica memoria ma come

simulacro funziona ancora?

Ma come fanno a venirvi in mente certe cose? Datemi uno dei loro cellulari e mi

pago il mutuo per tre mesi.

Siccome il Ministero non mi passa ancora la pista di neve, mi siedo e mi do alla

meditazione Zen.

Rilke è rimasto a casa, insieme alla mia anima. Mi stava raccontando di quando ha

visitato gli Uffizi per la prima volta. Visualizzo Lippi e Botticelli… la Bellezza

esiste, è già uno zatterone su cui imbarcarsi. Della mia anima ho notizie incerte, ne

rientrerò in possesso a luglio, fino al trenta di agosto. Grasso che cola. Adesso

giochiamoci per l’ennesima mattina la parte dell’istrione. Per quanto ancora? Fino a

sessant’anni? Sessantacinque?

Abbozzo il tentativo di un appello, dopo venti minuti loro forse decidono di mettersi

seduti. Gambe di sedie e di banchi tentano di trivellare il pavimento. Qualcuno

risponde, qualcuno no. Sguardi persi nel vuoto, catatonia pupillare, hanno intuito

che la pogata è finita. Metà della classe si mette a pensare su come deve fare per

sopravvivere la prossima mezz’ora facendo finta di esserci. Preparano le cuffie del

cd, attrezzano sms col cellulare, toccano il sacchetto della pizza, guardano fuori dalla

finestra, rifilano pedate alla sedia davanti provocando l’ira del compagno. Un quarto

della classe si sta ricomponendo a rilento, sgomitano, soffocano risa, improvvisano il

verso del maiale o del piccione, rimbalzano un po’ sulla sedia come rimbalza una

palla dopo un bel tonfo. Il quarto rimanente vorrebbe far lezione, ma non si può

permettere di darlo tanto a vedere. Se mi faccio venire la folle idea di chiedere che

tirino fuori un quaderno e una penna, vanno via altri dieci minuti. Ricerca neanche

tanto affannata, richieste varie di fogli e di penne, perché metà della classe non ha il

materiale. E perché dovrebbero… fra pizza cellulare cd portatile mazzo di carte e

calcolatrice, si è già raggiunta la soma massima di sopravvivenza.

La comunicazione podologica mi irrita quanto una cimice nel letto. Le loro urla

gliele rifarei ingoiare con cucchiate di cianuro. La loro imbecillità anabolizzata mi

costerà un intero pomeriggio di resetaggio energetico.

La pantomima si ripeterà almeno quattro volte nell’arco della mattinata, ad ogni

inizio dell’ora. Di questi esemplari… me ne godo 82 al giorno.

Avete qualche dubbio??? Certo che li odio. Alla sesta reincarnazione ho cominciato

a odiare… e qualsiasi quantità di odio voi stiate immaginando ora… ritenetela

sempre approssimata per difetto.

IL METAFORICO CRONICO

Ovvero quando la cronaca diventa metafora.

Pare sia andata così, in un mattino di marzo o giù di lì. Hanno rubato il Pronto

Mobili dall’armadietto della bidelleria.

L’hanno spruzzato tutto sulla soglia della porta dell’aula.

E poi si sono messi ad aspettare quello che avevano in mente di aspettare.

La collega è entrata, è scivolata, si è fratturata una vertebra.

Per aver il piacere di veder un’insegnante cadere, lo rifarebbero di nuovo. Così

hanno detto. Nessuno li ha denunciati. Credo che se la siano cavata con un paio di

giorni di sospensione con obbligo di frequenza. La collega non è più tornata al

lavoro.

Sono piccoli? Sì, molto piccoli. Hanno tutti il diritto di voto.

Non affannatevi a rifarvi il trucco con i buonisti pensieri: l’odio è reciproco.

TRAGOS

Vedi come sono brava? Adesso ti parlo di cose che conosci, così ti levi finalmente

quel mascherone da malcapitato che ti si è incollato sulla faccia.

Una bella tragedia, Socrate mio. Ce ne andiamo a teatro, io e te, due cuscini, una

ricotta freschissima, una fiasca di vino annacquato, e ce ne stiamo lì fino a quando il

sole si tuffa a mare e dal cielo scende un dio che risolve tutto quanto.

Una bella tragedia greca come gli dei comandano… non ti va l’idea?

No eh… non mi puoi perdonare nemmeno il secondo cadavere che ho dissotterrato.

Quel bello spettacolo di giovani, insieme ai quali dovrei crescere, creare, lavorare…

dire e fare qualcosa di utile ecc.ecc., tutte le sante mattine che li vedo, e tutti i santi

pomeriggi che cerco di capire cosa possa poi fare il giorno dopo… mentre quella

strega di Atropo prende le misure del mio filo…

Un vero peccato che tu non mi segua, che neanche tu riesca ad intuire che oggi le

tragedie sono state espulse dai loro luoghi deputati… sono scese dalle belle gradinate

di roccia, strisciando infide e bieche come vipere, piano piano vanno a fare il nido

altrove, sputano veleni là dove non avrebbero mai dovuto penetrare, e non

pretendono applausi quando la notte le ingoia.

Qual è il problema se Oreste uccide la madre, se Medea avvelena i suoi figli?

Poi le gradinate si svuotano, i mascheroni vanno a dormire nei carri, gli attori

tornano a casa a baciare la madre, a riabbracciare i figli.

Siamo diventati civili, Socrate. Ci hanno fatto diventare così civili che ogni bipede

umano che vedi camminare adesso, è costretto d’ufficio – e a sua totale insaputa – a

incarnare da solo il suo privatissimo tragos.

Oh, non è difficile come pensi… è un giochetto di prestigio di infimo livello.

Qualcuno scrive un copione, ma non lo dà in mano a un attore solo. Oggi come oggi

ci sono mezzi con cui puoi mandare quel copione a milioni di persone nel tempo di

un amen. E poi li puoi anche convincere a recitarlo. Li convinci così bene che

potrebbero ucciderti se vai a dire loro che sono diventati i burattini di Mangiafuoco.

E lo sapevo che avresti preteso un esempio… Pensa te che ho l’imbarazzo della

scelta. Se cito Auschwitz o Norimberga, non ti dicono nulla vero? Piazza Venezia?

Men che meno.

Se ti parlo dell’ultimo copione sulla guerra? La guerra la conosci, no? Spartani,

Achei, Troiani… questi sì che ti dicono qualcosa. I soldati partivano e sospettavano

che in guerra si rischia di morire. Anche chi li vedeva partire, lo sospettava. Anche i

generali che ce li mandavano, lo sospettavano.

E non dirmi che è più banale di un’oliva col nocciolo.

Hanno riscritto il copione. Oggi i soldati partono armati fino ai denti per andare a

far la pace. E adesso sputa l’oliva, che rischi di soffocare.

Ci credono tutti: è il copione più bello che sia mai stato scritto. E poi? Poi niente,

quando le bare ritornano a casa, indossano tutti un’espressione tipo… ma come

diavolo è mai potuto succedere? E’ quell’imbecille di Atropo che ha tagliato i fili nel

posto sbagliato. Non si tagliano fili impunemente in zona di guerra. Ci devono

credere tutti, e tutti ci credono: dal Presidente della Repubblica, agli orfani alle

vedove ai genitori. Le vedove di pace, presumo che siano chiamate così adesso,

vengono intervistate dai giornalisti che fanno la solita domanda… cosa sta provando

signora? Rispondono, da copione, che non avrebbe dovuto morire chi era partito per

fare la pace.

Scippato anche il diritto di essere divinamente Andromaca.

Che sia guerra, è vietato dirlo. Poi si rischia che la gente si spaventi troppo…

Si chiama … manipolazione di massa. Sì, si chiama così. Ma anche qui è stato

riscritto il copione… oggi la massa deve sapere che non c’è più in giro nessuno che si

sogni di manipolarla. E ci crede. Ci deve credere. Giochetto di prestigio da leccarsi i

baffi.

Io sono un’operatrice della scuola di massa.

Bella novità dici tu. Eh no caro mio, qua adesso ci buttiamo sui distinguo.

Di questa massa. Io sono un’operatrice della scuola di QUESTA massa.

Questa massa, che ha in mano un copione che neanche Euripide, avesse scritto

ancora un milione di tragedie, ci sarebbe mai arrivato.

Adesso sì che fai il curioso… lo vuoi conoscere il canovaccio che ciascuno andrà a

produrre con le sue battute, con le sue papere… ma senza mai discostarsi più di tanto

dal prologo e dall’epilogo…

Ti ho manipolato, Socrate! Alla fine ti ho convinto a venire a teatro con me.

Che dici? Usciamo dalla comune?

IL METAFORICO CRONICO

Ovvero quando la cronaca diventa metafora.

- Ma poi, era su moije, vero?

- Noooo… Dante non ha mai sposato Beatrice. Ha sposato Gemma Donati.

- Eh ma che str… amava Beatrice e ha sposato un’altra???

- No, scusate. Beatrice è la sua storia d’amore… ma poi lasciamo stare Dante.

Voi avete l’età giusta per averlo capito… che innamorarsi trasforma, ci fa

vedere parti di noi che non sapevamo di avere… l’esperienza d’amore ci cambia

o no?

- Ehhhhhhhhhhhh professorè… ma chi ci crede più!

- Chi ci crede più a cosa, scusa?

- All’amore no? Io nun ce credo più!

- (Bel record a diciott’anni…) E perché non ci credi più?

- Ma ccome, nun lo vede che tutti i matrimoni finiscono cor divorzio???

- Ma perché scusa… amore e matrimonio sono la stessa cosa???

- ECCERTO NO!

STAR’S DUST

Questo è un bel cadavere marcio. Di quelli che sono stati seppelliti così di fretta che

nessuno si è ancora sognato di affibbiargli un nome.

Abbiamo due indizi per riesumarlo: quello stronzo di Dante che non ha sposato

Beatrice, e la cera sul pavimento per far cadere l’insegnante.

Se vuoi scardinare le serrature dell’anima, ti servono due piedi di porco, sempre

quelli: uno si chiama odio e l’altro si chiama amore.

Lo so vecchio pazzo che ai tuoi tempi era normale, e quel povero Platone non

reggeva il tuo ritmo a stenografare digressioni varie e notturne sull’anima e

sull’amore, che poi ne hai parlato una volta di troppo e ti hanno fatto fuori.

Le masse manipolate le riconosci da questo: devono amare e odiare secondo

copione, tutti allo stesso modo. Perché mai ti sei messo a raccontare a destra e a

manca che occorre rinviare il copione al mittente, perché Eros, quello vero, quello

che è divinamente Eros, predilige gli uomini liberi e non si fila di pezza il pecorame?

Bella cappellata che hai fatto, Socrate mio. Beh, allacciati le cinture, perché adesso,

tu ed io, rifacciamo la stessa identica cappellata.

Il mio pecorame, pardon, i miei allievi… si giocano un copione rozzo, riguardo

all’odio e all’amore.

L’amore è quello di mamma e papà, che si sono sposati, poi si sono tenuti stretti

stretti e sono nati loro. L’odio è ancora più facile: è sufficiente odiare tutti quegli

scassacazzo che li vorrebbero trascinar via dai loro giochi preferiti, palestre, pogate,

playstescion, sms, motorino, piscine, discoteche ed altre varie amenità. Nella

fattispecie gli unici rimasti: gli scassacazzo dei docenti. Punto.

Spartito facile facile, che l’abbiamo suonato e ballato tutti quanti, nel tempo di

nostra vita mortale quando era normale suonarlo e ballarlo… diciamo fra i sette e i

tredici anni?

Poi si prendeva la prima tramvata per il ragazzino della porta accanto, al primo tre

in pagella si prendevano pedate nel culo… e allora si intuiva che da qualche parte il

copione doveva andare rimaneggiato.

Di solito, da qui cominciava l’adolescenza.

Che caspita è l’adolescenza? Lo so che tu non l’hai mai vista. Ma la cosa ancora più

buffa è che oggi tutti credono che sia sempre esistita.. Devono crederlo, fa parte del

copione.

E vuoi saperne un’altra? Ci sono pezzi interi di pianeta, e neanche tanto piccoli, in

cui non è ancora comparsa, ma anche questa cosa nessuno la deve sapere.

L’adolescenza è un affare del mondo ricco, civilizzato e tecnologicamente avanzato.

E’ una mutazione sociale della specie che vive in questo preciso habitat.

In teoria l’hanno inventata gli antichi Romani. Già, sono arrivati ad Atene, ma tu te

n’eri già andato. Ma non ti preoccupare, molti Ateniesi l’hanno capito subito che

erano solo barbari pecorari.

Ma tecnologicamente avanzati. E davanti al nuovo che avanza, chi vuoi che si tiri

indietro?

La prima civiltà mediterranea che ha capito che aveva bisogno di maschi addestrati.

Alla guerra, al governo, all’economia, ai tribunali, all’amministrazione…

Prendeva i maschi, non tutti, e li addestrava. Li ha chiamati adolescentes.

Puer, adolescens, vir: la fulgida carriera del rampollo romano, la prima mutazione

sociale della specie.

Le donne? Più che sufficienti per loro i ritmi ancora imposti da madre natura, dopo

la prima mestruazione scodellavano figli. Puella et domina. Ed era anche troppo.

La donna adolescente ha fatto la sua comparsa solo da qualche decennio. E ti

assicuro che si vede. Sui banchi di scuola, chi ha occhi attrezzati per vedere, lo nota

ancora.

Non basta un amen per mutare la specie. Un amen è sufficiente solo per

distruggerla.

Ci vogliono sofisticati meccanismi economici, oliatissimi ingranaggi politici, e una

sana dose di violenza culturale.

Solo così la specie muta, e sopravvivono solo gli individui che si adattano. Non per

scelta, ma per selezione.

Ti sarebbe piaciuto il vecchio Charles, ma non credere che sia scontato. Lui va bene

per le farfalle per le giraffe e per le iguane. Vietato dire che è anche applicabile alla

specie umana. Lo vieta il copione.

Eppure sono due millenni ormai, che viaggiamo così di mutazione in mutazione,

scardinando leggi norme e comportamenti, inaugurando ad ogni giro di boa il nuovo

trovarobato delle etiche prêt a porter, il grande magazzino degli alibi morali,

stuprando cellule dentro e fuori dalla metafora… eppure continuiamo a crederci

l’eterno unico immodificabile sale di questa terra. Lo vuoi dire tu? Sì, dai, dillo tu…

fa parte del copione.

Dalla mia prima alla mia terza reincarnazione ho fatto in tempo a vedere gli

adolescenti.

Somigliavano ancora vagamente al vecchio modello romano: in qualche modo

intuivano che adolescere significava attrezzarsi per diventare adulti, prendersi in

mano la propria vita e andare a sostituire i vecchi che, da che mondo è mondo, sono

fabbricati per essere sostituiti.

Entravano in classe ancora con l’idea che era logico poterti derubare di qualche

trucco, di carpirti qualche istruzione per l’uso. Intuivano che trasmettere nozioni

informazioni e saperi, ha qualcosa a che fare con delle note testamentarie. Ma sì,

prendetevi ‘sto lascito, e poi fatene quello che volete. Ho fatto in tempo a vedere

qualcuno che ha avuto l’iniziativa di impugnare il testamento.

La scuola E’ un affare di vita e di morte. E’ l’unico valido motivo che può

giustificare il fatto che si rinchiudano giovani e vecchi nello stesso luogo per sei ore

al giorno tutti i giorni della settimana.

Solo il monito della morte può tenere in piedi una follia del genere.

Prendete dalle nostre mani che stanno andando a morire quelle quattro carabattole

che vi possono servire per andare a vivere…

E’ un modello che per qualche secolo ha funzionato. Per i maschi soprattutto. Per le

femminucce è un capitolo a parte.

Esiliare madre natura dai corpi degli uomini non è un accidente di poco conto.

E’ una mutazione sociale che lascia cadaveri da tutte le parti. E in duemila anni non

abbiamo ancora finito di contarli. Ma non si resta civili e tecnologicamente avanzati

se non si seminano cadaveri.

E poi insomma basta con queste corbellerie… che differenza c’è, Socrate, se ai tuoi

tempi quindici anni bastavano per essere adulti mentre adesso una trentina non è

ancora sufficiente? Sarà mica una tragedia due decenni in più o in meno… sì lo so

che madre natura è convinta del contrario, ma, permetti?, chissenefrega di

madrenatura?

Una specie può mantenersi uguale a se stessa anche per centinaia di migliaia di

anni… basta che il suo habitat non subisca trasformazioni.

Può trasformarsi in pochi mesi se tra capo e collo si manda in frantumi l’equilibrio

dell’ecosistema. Ci vuole un disastro ecologico: le specie allora possono sparire del

tutto o possono anche riadattarsi diventando un’altra cosa. Ma ci vuole un disastro

ecologico.

Noi del secolo ventesimo sappiamo tutto sui disastri ecologici… taratogenesi da

radioattività, cancri ambientali, pesci al mercurio, ghiacci che si sciolgono… ci fanno

un baffo. Perché li sappiamo affrontare??? Naaaaaaaaaa… perché facciamo finta che

non esistano. Da copione.

Non ti dico poi di quelli che vanno ad attaccare direttamente la nostra di specie, che

ci stanno proprio sotto il naso e che un millimetro in più ci affoghi dentro con tutti i

piedi. Tripla carpiata all’indietro, censoria pennellata di nero… e chi è quel cretino

che ha il coraggio di dire che siamo in pieno disastro ecologico?

Eppure, se è vero che se un diciottenne viaggia con gli schemi mentali di un

bambino di sette anni allora si ricorre ai ripari cercando medici esperti e terapie… è

altrettanto vero che quando il fenomeno prende forma dentro le geografie della

massa… non servono più i medici.

Questo è un disastro ecologico.

E’ una specie che si sta attrezzando per la nuova mutazione prossima ventura.

Non ci stracciamo le vesti, no. Anzi. Gli adulti aiutano alla grande. Sono obbligati

da copione. Si sa… la vita è tragica… ma la cascia l’aggi’a truvà.

Si prende tempo, sta’ fetenzia di modello economico ci chiede tempo (e dio solo sa

se ce l’abbiamo)… Tanto c’è la laurea breve, e poi vai all’estero, magari viaggi… poi

cambi lavoro, ti butti in un call-center, fai il cococo, pensa com’è di moda, fai il

flessibile… imparare un mestiere? Eh bell’e mammà, poi rischi di andare a lavorare

sul serio, ma non li vedi al Grande Fratello che sono belli e giovani a trent’anni con

tutta la vita davanti a loro?

Non c’è uno straccio di orologio biologico in tutto il pianeta che possa scendere a

patti con questo bel programmino. Ma è obbligatorio crederci.

Infanzia allungata, adolescenza scippata, età adulta inconsistente.

Questo è un disastro ecologico. Come mandare in polvere le stelle.

Chi lo sa ha buone probabilità di diventare docente skazzato.

Chi non lo sa ha ottime probabilità di diventare docente depresso.

RALLENTY

Ci starebbe bene anche moviola, ma non sia mai di rischiare di rinunciare alla

propria dose di inglese quotidiano.

E poi… rallentare suona meglio. Contro la frenesia della vita moderna si sprecano

sempre carciofi e dosi industriali di elogi della lentezza.

Sei stressato bimbo mio? Siediti sulla riva a guardare il fiume che scorre.

Ricordati di mettere la sveglia, la mattina all’alba, segnatelo sull’agenda… scegliti

un fiume e buttaci tre ore della tua domenica. E poi vedrai con quanta letizia

affronterai la settimana che verrà.

Ci credono in molti. I libri che parlano di fiumi che scorrono vendono milioni di

copie.

Sono trentadue anni che sto spiaccicata sulla riva. Non esiste mestiere più rivaiolo

di quello del docente. Trentadue anni di fiume che mai si scolla dalla fase torrentizia.

A tua insaputa ti si fabbrica addosso un cervello da coazione a ripetere, un

onanismo mentale percussivo che starebbe bene solo dentro un capitolo di un

manuale di psichiatria.

Trentadue anni di teen-agers che stanno sempre come le mosche d’ottobre contro i

vetri, meno acneici di trent’anni fa, ma più anoressici e più bulimici.

Ma questo è solo un accidente dell’occidentale civiltà.

Sia chiaro per tutti: non siamo traghettatori. All’altra riva saranno portati da barche

pilotate da altri. E’ sull’altra riva che troveranno i guru scafati della modernità, quelli

che prometteranno loro tre ore domenicali di fiume che scorre da contrabbandare

come terapia contro la violenza dell’esistere.

Noi guardiamo. Lentamente, molto lentamente, noi guardiamo.

Lo Zen ci soccorre. Stampella unica ed ultima del docente skazzato.

Ripasso alla moviola i quintali di patatine fritte che mi hanno divorato davanti agli

occhi, i duplo le fieste i kinder, sputacchiati dalle macchinette, le bruschette salate le

girelle di liquirizia gli estathè… qualcuno di loro avrà già trovato il guru che li ha

convertiti alla purea di fave, alla pasta e ceci e alla zuppa di farro?

Qualche ex allieva mi telefona… sono quasi tutte sui trent’anni, senza uomo senza

figli senza lavoro stabile. Troveranno un guru che saprà convincerle che i figli si

possono fare anche a quarant’anni… e che quarant’anni di markette per la pensione

possono essere maturati anche arrivando a settant’anni… infondo c’è ancora un gran

pezzo di vita davanti a sé tutta da vivere…

Alla moviola ripasso tutto il loro tempo snervante da sala d’attesa da fila alla posta

da traghetto bloccato nell’afa d’agosto.

Qualcuno passa a scuola a trovarci dopo qualche anno… lauree brevi mai portate a

termine, qualche lavoretto sporadico e al nero. Mamma e papà pensano al tetto, e ad

offrire un letto per l’amore.

Passano più di due decenni a lottare per ingraziarsi il vantaggio dei contraccettivi, e

poi consumeranno qualche anno a lottare contro una vigliacca sterilità.

Gli ormoni restano sordi al lungo canto delle Sirene della modernità.

Ma intanto a scuola si scorre. Molto lentamente si scorre.

Una vita lunga e spensierata ci attende. Fino infondo giochiamoci la prodigalità

divina del copione.

KIT, COLT, CULT

Il benvenuto fra gli Immortali te lo dà la puzza di piscio.

Filtra assorbe disinfetta igienizza deodora… ma percorrendo auspici simmetrici ed

opposti a quelli del martellamento pubblicitario sull’alta tecnologia dei pannoloni.

Solo tu ne sei assorto, filtra e invade le nari, attacca le tonsille, impregna di sé il più

fetente e fetido dei tuoi pensieri.

Puoi scegliere: o fuggi, o cerchi un cesso per vomitare, o scendi in apnea.

Io scendo in apnea. E’ il prestigioso vantaggio degli asmatici cronici. E io ne so

qualcosa. E’ l’unico caso in cui il respiro tagliato ed asfittico può venirti in soccorso.

BENVENUTO all’Ospizio!

Alla Casa di Riposo, alla Residenza Sanitaria Assistita, alla chiamala un po’ come ti

pare… BENVENUTO fra i vecchi dalla vecchiaia allungata, benvenuto

nell’anticamera della Morte!

Fra tutti i Docenti skazzati che puoi incontrare, esiste una categoria a parte, che poi

sarebbe quella più skazzata di tutte.

Età media: fra i cinquanta e i sessant’anni.

Sesso: tutte donne.

Caratteristica principale: hanno vecchi ottuagenari di cui dover prendersi cura,

hanno figli ventenni che stanno tentando di raggiungere una irraggiungibile riva.

Transitano dentro il rosso del loro autunno strattonate quotidianamente da giovani

che si rifiutano di crescere e vecchi che si rifiutano di morire.

E giovani e vecchi sanno abilmente riciclare dentro la sublime macroeconomia dello

Stato, quella fetta miserrima di reddito che loro producono.

Et voilà, sioriesiore, quella fetenzia di vita degli adulti attivi di sesso femminile, non

ancora toccati dal benefico soffio della demenza, ma già transitati in quella stagione

della vita in cui sarebbe più doveroso e istintivo pronunciare un vaffanculo…

piuttosto di un vieni qui non pensarci che tanto ti aiuto io.

Generazione esente dal diritto all’orfanità. E cosa ancora peggiore, dal diritto di

essere sostituita dai giovani. Siamo le uniche a rimpiangere seriamente i sapienti

progetti di Madre Natura, più sapienti senz’altro di questa artificialità di vita

programmata dalla occidentale civiltà.

Sempre se hai voglia di chiamarla Vita.

Svegliatevi una mattina, e provate soltanto ad immaginare una piccola parte di

quella rabbia che cova silente sotto i loro capelli brizzolati o tinti.

Non vi consiglio di immaginarvela tutta, perché ne rimarreste travolti e uccisi.

Cosa ho detto? Rabbia? Merce esportata momentaneamente su un altro pianeta dal

melenso buonismo dilagante.

Eppure ci sono giorni che se potessi comprimerla tutta e infilarmela dentro gli

occhi, giuro, ridurrei di sale chi osasse incrociare il mio sguardo.

Lo so, perché la vedo rispecchiata spesso negli occhi di quelle mie colleghe, che

dopo sei ore passate a sopportare il bambocciante adultismo degli allievi, saranno

risucchiate il pomeriggio dai vecchi malati, invalidi, piscianti, ed immortali.

La cifra degli ultimi dieci anni della mia vita? Antri d’attesa, ASL, Ufficio Invalidi,

pratiche pratiche pratiche,,, per comode, per sedie a rotelle, per pannoloni, per

riconoscimenti di invalidità (si scopre che in Italia se uno è invalido al 100%, poi

deve dimostrare che si è aggravato se vuole avere il diritto all’assegno integrativo),

per case di riposo… ed evito ospedali cliniche medici fisiatri ed analisi cliniche.

Prima per mio padre e dopo per mia madre, tutto doppio giustamente, e forse, da

figlia di nomadi, sono stata baciata dalla fortuna. Gli stanziali possono trastullarsi

fino al terzo grado dell’affinità parentale.

Sissignore, dai quarantatre anni in poi si impara a convivere col tanfo di morte,

senza il privilegio di poter pensare che si tratti della tua. Solo una permanente prova

generale. Un altro tipo di onanismo percussivo che ti trapana il cervello.

Non ci sarò più quando il disastro ecologico sarà assorbito dai nuovi equilibri:

quando finalmente sarà ripristinato il sacrosanto diritto all’orfanità. Per tutti quei figli

fortunati partoriti da madri quarantenni. Amen.

Intanto lo Zen aiuta, e guardo.

Guardo, facendo finta di non vedere. I campanelli che suonano, senza assistenti che

arrivano. I pannoloni strapisciati che non vengono cambiati. La realtà fasulla dei

vecchi assistiti. L’abbandono cimiteriale di uomini e donne semiviventi deposti sulle

sedie. L’edificante volto della miliardaria industria del vecchio.

Avrei ancora forza e vita e amore per pensare alla musica alla bellezza a Rylke e

alla poesia.

Ma il mio pensiero dominante, oggi, si chiama KIT.

Neanche alla pensione ci penso più di tanto. Tenetevela tutta, tenetevi quarant’anni

del mio lavoro.

Ma per tutti gli dei strainkazzati dell’Olimpo, fatemi mettere le mani su un Kit da

eutanasia.

Tanto prima o poi dovete togliervelo dalla testa: le generazioni che sto tirando su io

mai e poi mai fabbricheranno un reddito tale da mantenere centenari attaccati alla

sedia. Regalerete kit agli angoli delle strade, come dopo l’AIDS si sono tirati dietro

preservativi a tutti. Siamo in pochi ad aver memoria, ma ci fu un tempo in cui anche i

farmacisti li tenevano in cassaforte, perché solo a vederli la vostra morale ne sarebbe

uscita adontata e offesa.

Adesso stracciatevi le vesti col culto della vita. Domani, cari mestieranti delle etiche

prêt a porter, li farete trovare in edicola allegati ai quotidiani. Basterà la vostra

traballante macroeconomia a far vacillare le vostre granitiche certezze.

E adesso basta. Hai ragione. Ho parlato troppo. Fammi uscir dal vischio. Dai, una

coppa di vino… e filiamocela dal palco.

Il tragos è finito, anche stasera il sole è calato.

Socrate, amato amico di molte lontananze, parlami di qualcosa di cui valga la pena.

Riportami alla Verità, risvegliami l’assente nostalgia di un mondo in cui i giovani

avevano sete di vivere, e i vecchi sete di morire.

Se preferisci… in cui i giovani avevano sete di sapere, e i vecchi sete di insegnare.

Tanto tu ed io lo sappiamo che anche se cambi i verbi, il senso resta uguale e

inalterato.

IL METAFORICO CRONICO

Ovvero quando la cronaca diventa metafora

Nel gennaio più caldo del pianeta… i bulbi di anemoni iris e fresie mi sono

germogliati a Natale. Nel frattempo a scuola sono entrati i topi adescati dalle

dolciastre immondizie primaverili che ristagnavano ancora in pieno autunno perché

nessun bidello si era sognato di rimuoverle.

E’ arrivata l’asl e li ha avvelenati tutti.

Gli Americani hanno vinto una guerra impiccando un vecchio.

I vicini di casa massacrano due famiglie regalando indimenticabili attimi di estasi ai

giornalisti distratti.

Leggo Dante in classe sempre approfittando – parlandone come da Zen – della mia

momentanea assenza.

Le mie lolite velinette lanciano urletti isterici sugli ignavi… perché gli insetti jè

fanno schifo.

I mie begli efebi palestrati, ancora strozzati da decine di metri di cordone

ombelicale attorno al collo, mi offrono finalmente una inedita ed edificante esegesi

dantesca… ah professore’, ma se je faceva le corna ha fatto strabene ad ammazzalla

la Francesca…

Dio ti ringrazio… il mondo è ancora perfettamente in ordine!