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Lo statuto teorico dei principi fra norme e valori . In AA.VV., La forza normativa dei principi giuridici e il diritto ambientale. Profili di teoria generale e di diritto positivo, a cura di Domenico Amirante, CEDAM, Padova 2007, pp. 33-64, ISBN: 88 – 13-26239-6.

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Lo statuto teorico dei principi fra norme e valori. In AA.VV., La forza normativa dei principi giuridici e il diritto ambientale. Profili di teoria generale e di diritto positivo, a cura di Domenico Amirante, CEDAM, Padova 2007, pp. 33-64, ISBN: 88 – 13-26239-6.

Lo statuto teorico dei principi fra norme e valori. di Giuseppe Limone SOMMARIO: 1. La questione dei ‘principi’. Un caso illuminante. – 2. Un quesito. – 3. Per un’impostazione. – 4. Il ‘valore’. – 5. La ‘norma’. – 6. Un confronto: ‘norme’ e ‘principi’. – 7. Un possibile quesito nuovo: quale razionalità? – 8. Una precisazione essenziale. – 9. Alcune riflessioni. – 10. Ruoli del ‘principio’. – 11. Per una conclusione. 1. La questione dei principi. Un caso illuminante Ronald Dworkin, in un passo del suo testo più noto, I diritti presi sul serio, ricorda: “Nel 1889 un tribunale di New York, nel famoso caso Riggs v. Palmer, doveva decidere se una persona, designata erede nel testamento di suo nonno, potesse ereditare in base a quel testamento, sebbene a tale scopo avesse assassinato il nonno. Il tribunale iniziava il suo ragionamento con questa ammissione: <<E’ vero che le leggi che disciplinano la stesura, la prova, gli effetti dei testamenti e la trasmissione della proprietà, se interpretate alla lettera, e non potendosi in alcun modo o in alcuna circostanza attenuarne la forza e gli effetti, attribuiscono questa proprietà all’assassino>>. Ma il tribunale continuava osservando che <<tutte le leggi, come tutti i contratti, possono essere attenuate nel loro operare e nei loro effetti dalle generali e fondamentali massime del common law. A nessuno sarà permesso di trarre profitto dalla propria frode, o di trarre vantaggio dal suo illecito,

o di fondare una pretesa sul suo comportamento iniquo, o di acquisire una proprietà per mezzo di un delitto>>”. E Dworkin conclude: “L’assassino non ottenne la sua proprietà1”. A ben vedere, nella situazione prospettatasi ai giudici emergeva un fatto che appariva nuovo in quanto non previsto prima: risultava nominato erede dal testatore colui che l’aveva assassinato. Si trattava, a dire il vero, di un fatto che poteva essere percepito come ‘nuovo’ solo alla luce di una considerazione cruciale. Solo alla luce, cioè, della considerazione – da cui risultava difficile prescindere – che non fosse concepibile come prevista con favore dall’ordinamento una situazione in cui l’assassino potesse ereditare dall’assassinato. In realtà, in una situazione come questa si avvertiva, imperiosa, la rivolta della coscienza comune contro una qualsiasi interpretazione che vedesse, invece, in questo caso un qualsiasi caso di successione ereditaria, solo occasionalmente accompagnato dalla circostanza che l’erede era anche l’assassino del testatore. La coscienza comune si rivoltava, cioè, davanti all’ipotesi che il fatto accaduto fosse da considerare come non dissimile dagli altri casi di successione ereditaria, e quindi non nuovo. Ma una tale percezione di ‘novità’ non era, a ben vedere, la mera percezione di un ‘dato’, ma di un punto di vista. Infatti, la percezione di un tale fatto come ‘nuovo’ nasceva, in realtà, dalla percezione dell’ordinamento come lacunoso sul punto. E, d’altra parte, la percezione dell’ordinamento come lacunoso sul punto nasceva, a sua volta, dal bisogno ineludibile di assumere nella situazione data un’altra regola che, restringendo l’area semantica della regola positivamente normata, escludesse dalla successione ereditaria l’erede assassino sulla base del principio che, pur potendosi succedere in quanto nominati eredi, non si dovesse poter succedere in questo caso, perché sarebbe stato violentemente iniquo il poter trarre profitto da un proprio delitto. Intendiamoci. Se si ragionasse, qui, invece, secondo il modello prospettico con cui Hans Kelsen giuridicamente ragiona, ossia secondo la concezione del più radicale giuspositivismo, in questo caso non ci troveremmo davanti a nessun fatto ‘dissimile’ o ‘nuovo’ o ‘non previsto’ – e, quindi, non ci troveremmo davanti a nessuna lacuna dell’ordinamento. Secondo Kelsen, infatti, l’ordinamento giuridico, nella sua positività, dovrebbe essere considerato, anche in una tale specifica situazione, niente affatto lacunoso. Esso, infatti, non indicando esplicite eccezioni alla possibilità di ereditare, prevede in 1 R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 91.

realtà, in questo come in altri casi, che il chiamato all’eredità possa succedere al testatore che l’abbia nominato a prescindere dal delitto da lui consumato, non avendo rilevanza alcuna, per l’ordinamento giuridico considerato (altrimenti l’avrebbe esplicitamente disposto), la circostanza per cui il chiamato all’eredità abbia ucciso il testatore. Per la concezione kelseniana, infatti, affermare, contra l’ordinamento positivo in vigore, che questo ordinamento avrebbe dovuto prevedere un tal caso come dissimile dagli altri – da disciplinare, quindi, con una regola diversa – significherebbe, in realtà, semplicemente affermare che si desidererebbe che in questo caso l’ordinamento avesse disposto diversamente da come ha disposto. Il che significa che la pretesa ‘lacuna’ contestata all’ordinamento giuridico positivo è, in realtà, in questo caso, null’altro che l’avvertita discrepanza morale fra l’ordinamento giuridico esistente e l’ordinamento giuridico desiderato. Ma, come si sa, secondo il modello giuspositivistico, l’ordinamento giuridico desiderato non è diritto. L’idea di ‘lacuna’ quindi, in tali coordinate di pensiero, diventa null’altro che il travestimento ideologico del proprio desiderio di vedere, in quel punto della fattispecie, operare un diverso ordinamento – o un diverso suo segmento. Il problema del ‘principio’ nasce qui. Ci si domanda, a questo punto: l’idea che il significato della norma debba essere semanticamente ristretto secondo il principio per cui nessuno può trarre vantaggio dal proprio delitto, nasce da un mero desiderio di sottrarsi all’ordinamento giuridico – ossia, da una vaga aspirazione morale a uscire dalla sua cogenza tassativa – oppure nasce, invece, da un vincolante principio giuridico enucleabile dallo stesso ordinamento, per quanto attraverso un lavoro ermeneutico condotto per inferenze e implicazioni? Precisiamo un primo punto. Oggi, a meno che non si voglia ragionare secondo il modello kelseniano, l’incompletezza strutturale dell’ordinamento giuridico – di ogni ordinamento giuridico – è stata oggetto di convincenti argomentazioni. Ci basti qui ricordare la serrata discussione svolta da Norberto Bobbio in Teoria dell’ordinamento giuridico2, là dove egli individua le deficienze di quelle teorie – come quella dello ‘spazio giuridico pieno e vuoto’ e quella della ‘norma generale esclusiva’ – che intendevano dimostrare in modo rigoroso la completezza di ogni ordinamento giuridico. Né va dimenticata, in

2 N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Giappichelli, Torino, 1960, pp. 35 ss.

proposito, anche la teoria dell’incompletezza di Kurt Gödel, valida per ogni sistema teorico, e quindi anche per un sistema giuridico3. Un ordinamento giuridico, quindi, è, contrariamente a ogni pretesa scientifica di completezza, sempre incompleto, per lo meno nel senso che ci sono situazioni ermeneutiche in cui, come osserva ancora Bobbio, non è possibile dimostrare se si debba applicare la ‘norma generale esclusiva’ o la ‘norma generale inclusiva’, le quali accompagnano ogni norma – essendo, fra l’altro, impossibile la presenza permanente di una metanorma che in via astratta e generale decida. Infatti, anche se è sempre pensabile la presenza di un criterio positivizzato con cui distinguere quando si debba applicare una ‘norma’ e quando la corrispondente, non è pensabile che, a una seconda potenza, esista sempre la presenza di un criterio positivizzato con cui distinguere come interpretare quel criterio – ossia con quali criteri si debbano interpretare i criteri. Il risultato teorico è che resta, sempre, in un ordinamento giuridico, un varco ermeneutico ineludibile e indecidibile. E la lacuna, per Bobbio, è configurabile proprio in questa luce: come l’assenza di una norma che, applicandosi a norme, permanentemente predecida se debba – sul punto – applicarsi la ‘norma generale esclusiva’ o la ‘norma generale inclusiva’4. Un tale fenomeno di indecidibilità interpretativa mostra come il linguaggio abbia, per così dire, una propria costitutiva ambiguità: donde una situazione ermeneutica in cui non è pensabile la presenza permanente di una norma che stabilisca, in generale e una volta per tutte, come sciogliere l’ambiguità (ove, infatti, una tale ‘metanorma’ esistesse, sarebbe pur sempre anch’essa da interpretare – in un indomabile e indominabile regresso all’infinito). Non a caso, come è noto, lo stesso Herbert Hart ha sostenuto la concezione per cui il diritto ha sempre una struttura aperta: ossia, costitutivamente esposta a più interpretazioni possibili, di cui mai è predecidibile in via astratta e generale la chiave ultimativa5. Tali osservazioni possono mettere in luce, in realtà, come sia proprio la concezione kelseniana a rivelarsi, su un tale punto, surrettiziamente ideologica, se e in quanto essa medesima muove dalla finzione non confessata che l’ordinamento giuridico esistente contenga già tutte le soluzioni per tutti i casi e che, in questa chiave, a quest’unico

3 Sul punto rinviamo a Giuseppe LIMONE, Dimensioni del simbolo, Arte Tipografica, Napoli, 1997. 4 N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, cit., pp. 141 ss. 5 H. HART, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1991.

ordinamento occorra riferirsi per regolare tutte le situazioni possibili. O, ancora più precisamente, potrà dirsi che la concezione kelseniana della cosiddetta ‘dottrina pura’ sceglie – fra le tante possibili finzioni – la sua, che rimane pur sempre una finzione. Veniamo a un secondo punto. Nel momento in cui si ritiene che un ordinamento giuridico, davanti a situazioni percepite come ‘nuove’ o come ‘non previste’, sia lacunoso (incompleto) o contraddittorio (incoerente), si riconosce, al tempo stesso, la necessità di individuare in esso principi: ‘principi’ che possano, in quanto tali, concorrere a colmare le lacune o a risolvere le contraddizioni. Ma ciò non significa ancora che si stia parlando, in tal caso, di principi giusnaturalistici, o assoluti, o autofondati. Perché ben può trattarsi, invece, come effettivamente si tratta, di principi ricavati per inferenze e implicazioni dall’ordinamento stesso e conseguiti col metodo topico-retorico, ossia attraverso un complesso di ‘ragioni’ fondate sulle opinioni meglio selezionate, emergenti da un dibattito razionale che realizzi un confronto (‘probatio’) delle (proprie e/o altrui) migliori argomentazioni pubbliche (‘retorica’), tali che, orientandosi sul punto specifico (‘topica’), siano capaci di sostenere e/o mettere alla prova la formulazione più persuasiva. Un ‘principio’ è, in un tale contesto, il risultato di un percorso argomentativo idoneo a mirare, per inferenze successive, a un asserto finale, capace di tenere insieme, in maniera ponderata, tutti i punti della discussione. Ci si domanda, però: che cosa accade quando un tale ‘principio’ – cui si perviene per implicazioni e argomentazioni progressive – viene (non ricostruito per libera interpretazione ma) formulato per legge, o attraverso un qualsivoglia strumento giuridico formale che produce diritto? Si potrebbe sostenere, in realtà, che, in un simile caso, un tale ‘principio’ diventi ‘norma’. Ma si potrebbe anche sostenere, all’opposto, che esso resti ‘principio’, per quanto formalmente nominato e costituito6. Come rispondere a un tale interrogativo?

2. Un quesito

6 Sul punto della distinzione fra principi conseguiti per implicazione e principi sanciti per disposizione formale, fra ‘principi in senso forte’ e ‘principi in senso debole’, vedi R. GUASTINI, Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto, Giappichelli, Torino, 1996. Sul tema, vedi anche G. TARELLO, L’interpretazione della legge, Giuffrè, Milano, 1980.

Se pensiamo al concetto e alla parola ‘principio’, ne troviamo il più vario e vasto impiego. Si pensi al ‘principio’ come ‘arché’ dei Greci; al ‘principio’ come formula del Vangelo giovanneo (‘In principio era il Verbo’), al ‘principio’ moderno delle scienze umane (la ‘ragione’), al ‘principio’ di ‘Umanità’ in Giambattista Vico, al ‘Principio-Speranza’ di Ernst Bloch, al Principio dell’Altro in Emmanuel Lévinas, al ‘Principio-Responsabilità’ di Hans Jonas, al ‘principio’ di sussidiarietà in Rosmini e nell’era contemporanea, ai ‘principi’ di uguaglianza e di libertà dei cittadini nelle Costituzioni moderne, al ‘principio’ dello Stato sociale nel Welfare State, al ‘principio’ della buona fede e dell’affidamento nei contratti, ai ‘principi’ sanciti nei brocardi giuridici antichi, ai ‘principi’ di responsabilità, di prevenzione e di precauzione nel Diritto ambientale contemporaneo (‘chi inquina paga’; ‘bisogna prevedere piuttosto che risarcire’; ‘bisogna prevedere l’esistenza dell’imprevedibile irreversibile, e quindi fornire la prova della non pericolosità della propria azione in condizioni di incertezza, piuttosto che semplicemente prevenire’– e si potrebbe continuare). Gennaro R. Carriò7 ha compiuto, in proposito, un utile sondaggio linguistico e concettuale, distinguendo, nell’area semantica del ‘principio’, più significati: 1. Parte o ingrediente importante di qualche cosa; 2. Regola, guida, orientamento, indicazione generale; 3. Fonte generatrice, causa, origine; 4. Finalità, obiettivo, proposito, meta; 5. Premessa, punto di partenza di ragionamento; 6. Regola pratica di contenuto evidente o verità etica indiscutibile; 7. Massima, aforisma, proverbio, frammento di sapienza pratica. Sul piano del ‘principio di diritto’, lo stesso Carriò ne compie, inoltre, una puntuale scrutinazione: 1. Il Principio di diritto nel senso di una combinazione di tratti; 2. La formulazione di un ‘principio’ capace di isolare aspetti caratteristici e importanti di un ordinamento giuridico; 3. Le generalizzazioni ricavate dalle regole del sistema; 4. Il ricorso alla ratio legis o alla mens legis8;

7 G. R. CARRIO’, Principi di diritto e positivismo giuridico, in AA.VV., Problemi di teoria del diritto, a cura di R. Guastini, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 75 ss. 8 Non va trascurato, sul punto, che Giambattista Vico, nel De Uno, distingue nettamente fra ‘mens legis’, che ha da fare con l’‘intenzione della legge’ e ‘ratio legis’, che ha

5. I criteri ai quali si attribuisce un contenuto intrinsecamente o manifestamente giusto; 6. L’identificazione di requisiti formali o esterni di tutti gli ordinamenti giuridici; 7. Le Direttive rivolte al legislatore, aventi un carattere meramente esortativo; 8. Le indicazioni di giudizi di valore inerenti alla giustizia o alla morale corrente; 9. Le massime provenienti dalla tradizione giuridica; 10. Una misteriosa fonte generale che si trovi al di sotto delle norme del sistema; 11. Gli enunciati che si pretende derivino da un’enigmatica essenza dei concetti giuridici considerati come entità9. Ci domanderemmo, a questo punto: occorrerà, per definire il ‘principio’ – e il ‘principio giuridico’ in specie – adottare un metodo ‘ricognitivo’ e ‘ricostruttivo’ che parta dalla pratica interpretativa dell’ordinamento esistente oppure, all’inverso, occorrerà partire, invece, da un metodo ‘postulativo’ e/o ‘stipulativo’ emergente dalla libera assunzione analitica di un ‘principio’ scelto con funzione discretiva? Noi preferiremmo pervenire – nella questione che è nostra – a una definizione del ‘principio’ che, movendo da una pratica ricognitiva e ricostruttiva, sappia emanciparsene, a un certo punto, con un adeguato ‘salto’ postulativo e/o ‘stipulativo’. E imboccheremmo, in questo senso, una strada diversa da quella percorsa da Sergio Cotta, il quale, distinguendo fra ‘principi dell’ordinamento giuridico’ e ‘principi del diritto’, sembra palesemente mirare a configurare i secondi come separati e indipendenti dai primi – e, in quanto tali, oggetto della pura considerazione filosofica10. Si tratta, invece, ad avviso di chi scrive, di istituire una connessione forte fra i due momenti – quello ordinamentale e quello metaordinamentale –, a partire dai possibili percorsi topici ricostruibili in un diritto e in una società.

invece da fare con la ‘ragione adeguata allo specifico fatto, della quale quella legge è portatrice’ (G. VICO, De uno universi iuris principio et fine uno, in ID:, Opere giuridiche. Il Diritto Universale, introduzione di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze, 1974, pp. 98 ss.). 9 G. R. CARRIO’, op. cit., pp. 80-82. 10 Vedi S. COTTA, I principi generali del diritto. Considerazioni filosofiche, in AA.VV., I Principi generali del diritto, Roma, 27-29 maggio 1991, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1992, pp. 31 ss. Vedi anche l’intero volume degli Atti.

3. Per un’impostazione Vorremmo sostenere, a questo punto, una tesi che potrebbe sembrare paradossale. I ‘principi’, vagliati a fondo, sembrano resistere a ogni configurazione che tenda a pensarli nel loro concetto11. Essi appaiono, per così dire, a ogni tentativo di catturarne l’identità, come un’anguilla. Eppure, ciò nonostante, è ben possibile, a nostro avviso, guadagnarne una prima configurazione concettuale unitaria che cerchi di domarne la resistente polivocità. Ciò può farsi, almeno in una prima approssimazione, osservando la loro collocazione topologica fra le ‘norme’ e i ‘valori’ e cogliendo questo loro spazio ‘di mezzo’ – del ‘metaxý’ fra ‘norme’ e ‘valori’ – come spazio non meramente descrittivo, ma costituente – ossia, direttamente generatore del loro essere ciò che sono: ‘princípi’. Un tale ‘spazio’ sistematico, quindi, non va visto come un mero ‘luogo’ descrivibile quale semplice ‘dato’, in cui i princípi siano collocati in base a una loro natura semantica già definita – perché, all’opposto, è proprio l’atto del collocarli in quello spazio ‘topico’ a generarne l’identità. Si tratta di uno ‘spazio’, quindi, a ben vedere, né puramente descrittivo né puramente rappresentativo, ma epistemologico e costituente. E ciò vale sia in quanto si tratti di meri ‘principi’ in senso ampio sia che si tratti di ‘principi giuridici’ in senso stretto. Potremmo, forse, addirittura dire che è proprio una tale collocazione fra le ‘norme’ e i ‘valori’ a sottrarli, per molti versi, alla loro resistente polivocità. E a delinearne la legittimazione teorica a categoria epistemologicamente unitaria. Potremmo, pertanto, dire, in una prima approssimazione, che è proprio un tale spazio fra le ‘norme’ e i ‘valori’ a ‘inventare’ la natura dei ‘principi’, ravvisabili quasi come parallelogrammi delle tensioni operanti in un simile spazio.

11 Su questa difficoltà teorica vedi anche J. WROBLEWSKI, Principes de droit, in L’Encyclopédie de théorie et de sociologie du droit, Paris, 1993, p. 475 e passim. Sui caratteri dell’interpretazione vedi anche ID., Teoria e ideologia dell’interpretazione, in AA.VV., Problemi di teoria del diritto, a cura di R. Guastini, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 247 ss. Vedi, inoltre, tutti i contributi presenti in questo collettaneo. Cfr. anche Nicolas DE SADELEER, Les principes du polluer-payer, de prévention et de précaution, Bruxelles, Paris, 1999; ID., Environmental Principles: from Political Slogans to Legal Rules, Oxford, 2002. Sui principi in diritto ambientale vedi ancora P. Dell’Anno, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, Giuffrè, Milano, 2004.

Non si tratta, quindi, per noi, di un mero collocare descrittivamente i ‘principi’ fra ‘norme’ e ‘valori’, ma di scoprire che cosa questa collocazione costituisce. Lo spazio sistematico, per così dire, non è il posterius della definizione, ma il prius. Possiamo domandarci, a questo punto: è sostenibile, quindi, che i principi si distinguano, da una parte, dalle norme e, dall’altra, dai valori sulla semplice base del loro contenuto semantico e/o della loro struttura proposizionale? Per delineare le prime coordinate dello spazio in cui si muove questa domanda, pensiamo si debba parlare – appunto – dei ‘valori’, delle ‘norme’, dei ‘principi’ – per chiederci del loro universo teorico. 4. Il ‘valore’ Che cos’è il ‘valore’ e che funzione ha, nei suoi confronti, il ‘principio’? a. Diremmo, in un primo approccio di sfondo, che il ‘valore’ è una macchia emozionale. Una ‘macchia emozionale’ con significato relazionale. Il ‘valore’, se è tale, non posso non sentirlo a partire dal mio vissuto radicale (Max Scheler). E’ difficile, in realtà, definire concettualmente e linguisticamente un ‘valore’, quale che sia. Esso è ‘macchia emozionale’ in quanto mostra distintamente il nucleo centrale, lasciando in qualche misura indistinta l’area periferica. Sia che si guardi il fenomeno dal punto di vista del ‘cognitivismo etico’ (‘si possono conoscere i valori’) sia che lo si guardi dal punto di vista del ‘non cognitivismo etico’ (‘non si possono conoscere i valori’), il problema della loro collocazione nella società contemporanea non può essere eluso, per lo meno in quanto i valori si pongono come fenomeni mentali profondi che, radicati nella realtà sociale, producono gravitazioni reali. Quale il problema del ‘valore’, quindi? Diremmo che esso è, in sintesi, più problemi connessi: il problema della sua esistenza, della sua concettualizzabilità, della sua dicibilità, della sua esprimibilità, della sua comunicabilità, della sua linguisticità. Ossia, a ben guardare, il problema del Gorgia sofista che s’interroga sull’Essere. E il valore, in quanto macchia emozionale a valenza relazionale, trova la sua direttrice specifica nella ragione. Perché la ragione è relazione. Anzi, potrebbe dirsi, più radicalmente, che la relazione è ragione: in

quanto tale, un’invariante strutturale a contenuto (storicamente) variabile. Ma il valore, a guardar bene – rispetto al complesso fenomeno del ‘concettualizzare’, ‘esprimere’, ‘comunicare’ che intenderebbe adeguarlo – radicalmente eccede questa sfida: le resiste. b. In un secondo approccio, diremmo che il ‘valore’, in quanto vissuto emozionale a vettore relazionale, si mette in tensione – in arco – col ‘logos’. Col logos del discorso, del pensiero, del linguaggio, dell’espressione, del dialogo, della comunicazione. E lo stesso ‘valore’, in quanto incontra il ‘logos’ del ‘diritto’, genera un crocevia speciale. Perché il ‘diritto’, nell’intercettare il ‘valore’, lo costringe a parlar chiaro e a tradursi in classi di concetti, in classi di operazioni certe, in modelli concettuali comprensibili e applicabili. E, proprio nel far ciò, in questo suo concettuale concretizzarsi, il valore non può non pagare il fio di un impoverimento essenziale. Che, d’altra parte, non può scongiurare, proprio nel momento in cui deve guardarsi dall’eterogenesi dei fini, ossia da quell’effetto perverso che si dà quando un movimento attuativo, per realizzare il valore, perviene a rovesciarlo nel suo opposto. E’, questo, a ben vedere, il luogo – e il problema – della cosiddetta ‘filosofia del diritto’. Ossia, il luogo teorico in cui la filosofia incontra il diritto e il diritto la filosofia. Là dove il diritto mira a costringere la filosofia a parlar chiaro e a esprimersi per classi di concetti giuridicamente percettibili e operativi, mentre la filosofia mira a costringere il diritto a pensare, ossia a cogliere ciò che il suo ‘agire regolativo’ sottintende in termini di valori e di scelte. Ma – ci si domanda – come può configurarsi e traghettarsi un ‘valore’ in concetti giuridicamente applicabili? Potremmo, qui, dire che, nel momento stesso in cui il ‘valore’ deve poter trasformarsi in ‘diritto’, il problema del diritto si porrà come quello di tradurre il valore in classi di concetti e, di qui, in classi di azioni e/o relazioni, e, di qui, in classi di soggetti e di decisioni, e, inoltre, in classi di situazioni e mutamenti – e, ancora, in classi di classi, e in classi di classi di classi, e così via. Ciò, in un itinerario nel quale, per quanto il valore sia denso e complesso, possa – anzi: debba poter – almeno a un certo metalivello, esprimersi in classi di fatti precisi e prevedibili, assunti come simili e seriali.

Ciò significa che il ‘valore’, in quanto un ‘pieno che resiste’, pur eccedendo ogni totale previsione, deve poter e saper trasformarsi in classi di prevedibili da regolare. E’ su questa strada che il valore, nel cercare il diritto, trova il principio. Ed è su questa medesima strada che il diritto, nel cercare il valore, trova, dall’altro lato, il principio. Più precisamente: il valore, nel cercare la norma, trova il principio; la norma, nel cercare il valore, trova ancora il principio. Sicché potremmo dire che il valore sta al principio come il principio sta alla norma. Ossia che il principio è il medio proporzionale fra la norma e il valore. Oseremmo, qui, ricordare il concetto di ‘tentativo’ quale si dà in diritto penale: là dove un delitto tentato è punito nella misura in cui abbia generato un complesso di atti inequivocamente tendenti a conseguire il risultato vietato. Potrebbe qui dirsi, per certi aspetti, che il valore, nel diventare principio, si attesta come un ‘tentativo di norma’ a direzione inequivoca e a contenuto concettuale. Se un ‘principio’ non escludesse concettualmente nulla e continuasse, quindi, a indicare contemporaneamente tutte – o quasi tutte – le direzioni, non sarebbe altro che un flatus vocis. Il ‘principio’, quindi, alla luce di quanto sosteniamo, si pone come il tentativo riuscito del ‘valore’ di tradursi in una prima frontiera (‘classe’) di concetti dotati di una direzione (il ‘che fare’) e ‘operazionabili’, che spetterà – poi – alla ‘norma’ di portare a compimento. Quindi: se il valore interroga il diritto sui criteri della giustificazione, il diritto interroga il valore sui criteri dell’attuazione. Il punto comune d’incontro è, appunto, il principio. Che si pone, quindi, come il valore al varco della concettualizzazione. E al varco dell’applicazione. E preso così tanto sul serio da essere perentoriamente interrogato su come tradursi in ragione applicativa. Se la norma, attraverso il principio, secolarizza il valore, il valore, attraverso il principio, la pensa. Riflettiamo. In questo itinerario del ‘valore’ verso il ‘diritto’, il ‘principio’ si pone come una prima riduzione di complessità del valore. In un percorso che è, per così dire, un imbuto della ragion pratica. Lungo l’itinerario di un simile imbuto (dal ‘valore’ al ‘diritto’), noi incontriamo, a una prima approssimazione, la riduzione di complessità costituita dal concettualizzare; a una seconda approssimazione, la formulazione di proposizioni deontiche; a una terza approssimazione, l’applicare. In definitiva, il movimento del ‘valore’, nel suo farsi

‘principio’, è lo specifico movimento del proprio tradursi in classi di concetti, di decisioni, di azioni, di relazioni, di situazioni, di comportamenti, di mutamenti, di operazioni attuative – e in classi di possibili classi di questo percorso articolato. 5. La ‘norma’ Che cos’è, in un tale contesto, la ‘norma’? La ‘norma’ che ‘fa’? Essa regola comportamenti, azioni, relazioni, decisioni, accertamenti, situazioni, mutamenti, operazioni attuative – fino a compiere l’ autoidentificazione della propria stessa area di esistenza e di azione (si tratta, a quest’ultimo livello di analisi, della funzione che Herbert Hart attribuisce a quella norma che egli chiama, non a caso, ‘norma di riconoscimento’)12. E la norma, in quanto tale, in questo suo tragitto e lavoro, si esprime in classi, in classi di classi, in classi di classi di classi, e così via. Ovverossia, in classi e classificazioni. Là dove il carattere comune di base è la definizione certa dei confini (e, a volte, anche la tassatività della composizione). Qual è, in un tale contesto, il rapporto fra i ‘principi’ e le ‘norme’? Vediamo, in proposito, il confronto fra Dworkin e Hart. Ronald Dworkin, pur apprezzando lo sforzo teorico prodotto dalla dottrina del giuspositivismo (nella specie, quello di Herbert Hart), ha sferrato un attacco contro di essa. Attacco che si regge su una precisa considerazione: non essere vero che il giurista, nel momento in cui conosce e applica il diritto, guardi solo alle regole fissate dall’Autorità giuridicamente competente a fissarle (competente, pertanto, a partire da una norma giuridica di riconoscimento). Non è vero – Dworkin osserva – che il giurista faccia soltanto questo, perché egli, invece, per riconoscere e applicare il diritto, argomenta avvalendosi non solo di regole ma di princìpi (il principio, ad esempio, di non potere giovarsi di un proprio delitto). Princìpi che non sono semplicemente e genericamente morali, perché sono, invece, giuridicamente rilevanti e vincolanti per l’argomentazione. C’è, però, per Dworkin, una differenza essenziale fra regole e princìpi. Mentre le regole si applicano secondo il criterio del ‘tutto o niente’, il principio, invece, si applica secondo un criterio che spinge in una direzione morale, che orienta, e che va però equitativamente ponderata con altri princìpi che eventualmente 12 H. HART, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1991.

spingano in una diversa direzione, avente pur essa un qualche valore morale13. Noi potremmo qui, in proposito, citare, accanto al principio esemplificato da Dworkin, quello che è valso a sollecitare – quasi a costringere – l’ultima giurisprudenza italiana a rovesciare il suo punto di vista – il punto di vista delle regole – fino a non ammettere il disconoscimento della paternità da parte di chi aveva preventivamente prestato il proprio consenso all’inseminazione eterologa della partner e intendeva poi, in base alle regole del diritto civile, legittimamente revocarlo. Qui, a ben vedere, il ‘principio’ cercato rivela l’insorgenza – al contatto con la nuova fattispecie – di presupposti non chiariti14. Le situazioni nuove, infatti, sono il grimaldello teorico, offerto dalla società, per rivelare l’esistenza di presupposti che erano celati. O meglio, come sopra dicevamo: le situazioni appaiono ‘nuove’ proprio in quanto rivelano alla coscienza, al suo contatto reattivo con i fatti, l’emergere di presupposti che erano celati. Si ha, qui, a ben guardare, una situazione bifronte: da un lato, la coscienza comune, al contatto reattivo coi fatti, imperiosamente coglie la novità di situazioni da essa percepite come non riconducibili all’interno di una somiglianza fra casi raccolti serialmente in un tipo; e, dall’altro lato, la novità di queste situazioni si costituisce come tale alla luce della reazione della coscienza che, nel conoscersi, le guarda e, nel guardarle, si conosce. Ciò accade, in realtà, perché nessuna ‘regola’ può preventivamente sapere della totalità delle condizioni cui è sottoposta. Ragion per cui almeno una parte di una tale ‘totalità’ emerge solo al cospetto di situazioni critiche, di masse situazionali critiche – di situazioni non previste. Le quali rivelano, appunto, l’esistenza di presupposti non chiariti. Come osserva Dworkin, in proposito, a partire da tali situazioni nuove si mette in moto “un’esigenza di giustizia, di correttezza, o di qualche altra dimensione della morale”15. Dall’impatto fra ‘norme’ e ‘valori’, quindi, emergono e si attivano ‘principi’. Tutto ciò ci dice senza dubbio sulla collocazione – topologica e costitutiva – dei principi fra norme e valori. Ma con una differenziazione ancora in negativo. Che però, quando tenta di costituirsi in positivo, almeno nella declinazione datane da Dworkin, non appare del tutto soddisfacente.

13 Sul punto vedi R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982. 14 Un utile rinvio, qui, è alla teoria della presupposizione di B. Windscheid. 15 R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 90.

6. Un confronto: ‘norme’ e ‘principi’ Abbiamo detto sulla differenziazione in negativo. Qui il ‘principio’ si rivela differente dalla ‘norma’ perché appare imperiosamente esigìto dall’apparire di situazioni nuove che, invocando i valori, comandano di individuare i presupposti della norma che risultano fin allora non pensati. Possiamo riflettere adesso – per quanto concerne il rapporto fra ‘norme’ e ‘principi’ – su una differenziazione in positivo, che faccia leva sulla loro struttura specifica. Sono state identificate, in proposito, tante possibili strade, pur fra loro connesse: ma tutte – a nostro avviso – discutibili e insoddisfacenti. O, per lo meno, parziali. Vediamone alcuni profili. Un primo profilo. Secondo alcuni, i principi possono distinguersi dalle norme secondo il criterio della determinatezza. In questo senso, i principi sarebbero indeterminati, laddove le norme sarebbero determinate. Altri, più raffinatamente, distinguono fra ‘concetti indeterminati’ e ‘clausole generali’ (Alpa). Ma, a ben vedere, la distinzione fra ‘indeterminatezza’ e ‘determinatezza’ segnerebbe pur sempre una differenza di grado, non di natura (De Sadeleer). Né appare possibile, o decidibile, in realtà, istituire un criterio ultimo per definire quale sia il livello di grado da attribuire al principio e da negare alla norma. E, d’altra parte, resta pur sempre attuale, in proposito, la critica implicitamente ricavabile da Kelsen, là dove egli osserva che ogni norma ha un suo grado di indeterminatezza, rispetto alla quale altra norma deve, nei limiti della propria competenza, compiere atto di riempimento16. In un tale contesto, quindi, le norme rimangono tali pur variando in grado di determinatezza. Mentre, d’altra parte, il concetto di ‘principio’ diventerebbe, in tal caso, rispetto a quello di ‘norma’, pressoché inutile. E noi sappiamo che è inutile introdurre concetti inutili. Come il rasoio di Occam insegna, entia non sunt multiplicanda sine necessitate. Un secondo profilo. Per altri autori, le norme si distinguono dai principi perché le prime sono inclusive/esclusive, laddove i secondi non sono tali. La differenza correrebbe, qui, fra il ‘tutto o niente’ disposto 16 Vedi, fra i tanti possibili testi kelseniani, H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1981.

dalla norma e la compossibilità e concorrenzialità esistenti fra i principi. E’, come si sa, l’impostazione realizzata da Ronald Dworkin. In realtà, a ben guardare, anche fra norme sono possibili conflitti, e non necessariamente nel senso che una escluda l’altra. E anche fra principi può esserci, talora, reciproca esclusione, se si pensa, per esempio, al rapporto fra ‘specialità’, ‘gerarchia’ e ‘cronologia’17. Un terzo profilo della distinzione. Altri autori distinguono fra il livello a cui si colloca la norma e il metalivello a cui si colloca il principio. Fra il livello della norma e il livello della metanorma. Fra il livello della micronorma e il livello della macronorma. Fra il livello della ‘norma molecolare’ e il livello della ‘norma molare’. Si tratterebbe, qui, in realtà, di distinguere fra norme che riguardano direttamente l’oggetto sociale (azioni e/o relazioni) e norme che riguardano norme (distinzione, questa, connettibile, per molti versi, con quella istituita fra norme che riguardano azioni e norme che riguardano relazioni). Ma, a ben vedere, un ‘principio’ semplicemente inteso come ‘norma che regola norme’ è una norma anch’essa – a qualsiasi livello o metalivello si ponga. In realtà, in un tale contesto di pensiero, fra ‘norme’ e ‘principi’ continua a vigere ancora una sostanziale continuità. Un quarto profilo della distinzione. Altri autori distinguono fra programmaticità dei principi e precettività delle norme. O fra indiretta applicabilità e diretta applicabilità. In realtà, a ben vedere, esistono principi, come quello della libertà e dell’uguaglianza che, nei sistemi giuridici contemporanei, sono immediatamente precettivi e attributivi di diritti, e niente affatto ‘programmatici’, pur continuando a dirsi ‘principi’. Un quinto profilo (connesso in qualche misura col precedente). Per altri autori, il ‘principio’ si distinguerebbe dalla ‘norma’ per i destinatari: perché, mentre le ‘norme’ si rivolgerebbero ai cittadini, i ‘principi’ si rivolgerebbero, invece, direttamente ai titolari del pubblico potere. Ma anche una tale distinzione non coglierebbe, a nostro avviso, nel segno, dal momento che sono ravvisabili norme che riguardano i funzionari e principi che riguardano i cittadini, e, d’altra parte, che sono identificabili norme e principi che riguardano gli uni (i funzionari) e gli altri (i cittadini). Si pensi, in proposito, al principio di uguaglianza, al

17 Vedi N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Giappichelli, Torino, 1960, pp. 94 ss.

principio di libertà, al principio di affidamento nei contratti, al principio di buona fede nell’adempimento e nell’interpretazione dei contratti, etc. Un sesto profilo della distinzione. Altri autori distinguono fra presenza immediata di effetti e assenza immediata di effetti. O tra effetti immediati ed effetti differiti (De Sadeleer). Anche in tal caso, va osservato, in connessione con le riflessioni precedenti, come possano, in realtà, individuarsi norme a effetto differito e principi a effetto immediato. Un settimo profilo. Altri autori tendono a distinguere principi e norme secondo la forza. Ma nemmeno una tale distinzione convince, perché, come si sa, possono esserci norme di primo rango e, d’altra parte, principi che sono semplicemente interpretativi o, addirittura, in quanto raggiunti per mera inferenza dottrinale, di nessun rango definibile. Un ottavo profilo. Esistono, inoltre, forme di distinzione fra norme e principi che virtuosamente si avvalgono di una possibile combinazione di approcci (contenuto semantico, bersaglio oggettuale, qualità di destinatari, efficacia temporale, etc.). Si pensi all’illuminante esempio offerto da Gennaro R. Carriò con l’acuta analisi della ‘regola del vantaggio’ nel calcio, là dove egli richiama l’attenzione sulle coordinate in essa visibili controluce18. La ‘regola del vantaggio’ è infatti, egli dice, quella per cui “non si deve punire un’infrazione (per esempio, un fallo di mano, un fuori gioco, un gioco pericoloso) nei casi in cui la conseguenza della sanzione andrebbe a vantaggio della squadra che l’ha commessa e a danno della squadra che ne è stata vittima”19. Una tale regola, osserva Carriò, ha una funzione diversa dalle altre regole, se ne distingue rispetto alla persona dei destinatari e ha conseguenze normative diverse20. In realtà, a ben guardare, una tale regola, che per Carriò è assimilabile senz’altro a un ‘principio’, rivela alcune caratteristiche particolari, così riassumibili: “a. riguarda l’applicazione di altre regole del gioco (è, per così dire, una metaregola) e si può considerare pertanto una regola di secondo grado); b. è rivolta principalmente agli arbitri e a chi ne fa le veci, […] e sarebbe non solo falso ma assurdo e senza senso affermare che questa regola, non punendo il fallo inefficace del difensore del nostro esempio, conferisca a questo giocatore il diritto di commettere falli inefficaci e gli proibisca

18 AA.VV., Problemi di teoria del diritto, a cura di R. Guastini, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 76 ss. 19 G. R. CARRIO’, op. cit., p. 76. 20 G. R. CARRIO’, op. cit., p. 76.

soltanto di giocare scorrettamente in modo efficace; c. serve per giustificare l’introduzione di eccezioni alle regole di primo grado …; d. presenta un certo grado di neutralità tematica o di indifferenza rispetto al contenuto…”21. Si tratta, in realtà, delle caratteristiche che Carriò puntualmente, poi, ricalcherà nel qualificare le componenti strutturali che per lui ha il ‘principio’22. Una teoria così impostata, che combina tratti diversi, è certamente raffinata. Ma, a nostro avviso, pur cogliendo aspetti rilevanti, non è decisiva, perché ne restano impropriamente esclusi, ad esempio, anche principi che sono immediatamente attributivi di diritti e che non si rivolgono soltanto ai funzionari attuatori del diritto. In definitiva, le varie distinzioni esperite, pur cogliendo ‘indizi’ e connotati rilevanti per approssimare una pertinente caratterizzazione, non riescono a distinguere ‘norme’ e ‘principi’ in modo soddisfacente: né secondo l’intensione semantica, né secondo l’estensione semantica, né secondo la forza gerarchica, né secondo la destinazione dei soggetti, né secondo ponderate combinazioni di tratti. Nessuna delle distinzioni qui dette risulta, quindi, decisiva. Ma, d’altra parte, a nostro avviso, ciò non significa che diventi priva di senso la ricerca di una distinzione plausibile. C’è un ‘quid’ di sommerso e sensato, infatti, che sembra continuare a comandare la necessità di una pertinente soluzione. 7. Un possibile quesito nuovo: quale razionalità? La discontinuità fra ‘principi’ e ‘norme’ può apparire meno sfuggente, forse, se, nel selezionare un criterio discretivo, mutiamo al nostro punto di vista l’asse di radicamento. Si tratta, infatti, a parere di chi scrive, di avvistare un criterio che, superando la metodica delle enumerazioni classiche (determinatezza / indeterminatezza, precettività / programmaticità, efficacia immediata / efficacia differita, etc.), guardi, più radicalmente, al luogo teorico da cui i ‘principi’ parlano – per catturare il modello di razionalità in essi implicato. Forse, in questo caso, l’‘anguilla’ del ‘principio’ può rivelare – alla ragione che ‘eroticamente’ lo guarda – possibili punti di presa.

21 G. R. CARRIO’, op. cit., pp. 76-77. 22 G. R. CARRIO’, op. cit., pp. 78-79.

Si tratta, infatti, a nostro avviso, di cogliere nel ‘principio’ un modello di razionalità diverso da quello inscritto nella ‘norma’. E’ a tutti noto come la ‘norma’ si esprima per classi di fattispecie previste e prevedibili, in cui ogni caso è sussunto come ‘simile’ all’altro e, in quanto ‘simile’ e ‘seriale’, appartenente al medesimo tipo: rispetto alla norma, infatti, non può darsi ‘novità’ di fattispecie cui essa si applichi, non essendo possibile alla fattispecie mettere in discussione il modello che la disciplina. Nel ‘principio’, invece, si esprime un diverso modello concettuale e operativo che, per sua funzione prolettica, consapevolmente eccede il previsto e il prevedibile per porsi come punto di riferimento e di orientamento anche nel nuovo, ossia anche in ciò che eccede i confini della catalogazione pensata per classi. Mentre nella ‘norma’ opera, infatti, nei confronti dei fatti, una razionalità di tipo parametrico, nel ‘principio’ sembra lavorare, invece, una razionalità d’altro tipo: una razionalità strategica. Come è noto, la razionalità ‘strategica’, diversamente da quella ‘parametrica’, si pone come quella che, lungi dall’applicare uno schema fisso a un insieme di dati di cui siano definiti i confini, sa permanentemente mutare, in relazione al loro mutare, la sua modalità di incidenza sulle situazioni. Nel piano di razionalità strategica, quindi, viene continuamente riassunta – man mano che l’azione dell’altro giocatore si evolve – la stessa sua mossa: la quale diviene, pertanto, essa stessa parte del proprio piano – sicché al mutare dell’azione dell’altro corrisponde il mutare della propria, perché il mutare della propria azione mira a mantenere invariata l’incidenza della propria ragione nel mutare della situazione, ossia nell’accadere del nuovo23. Nella ‘razionalità strategica’, in effetti, si ha un mutare del piano in corso d’opera – un mutare che punta, in realtà, a riorientare continuamente nel mutamento. Modello esemplare di razionalità strategica è, come è noto, il gioco degli scacchi. Chi, infatti, giocando a scacchi, seguisse una mera razionalità parametrica nei confronti dell’altro, invariabilmente perderebbe. La razionalità implicata nella ‘norma’, quindi, – col suo esaustivo ‘includere/escludere’ comportamenti a prescindere dalle possibili novità di situazioni incontrate – è una razionalità parametrica, laddove la razionalità implicata nel ‘principio’ è, appunto, quella strategica, se è vero, come è vero, che questa si pone come capace di orientare anche in

23 Per un approccio alle due razionalità si veda E. MORIN, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano, 1993.

casi e situazioni che – per il modo con cui interpellano la coscienza comune dei valori – appaiono ‘nuovi’, ossia eccedenti i confini delle classi calcolate. La natura dei ‘principi’, quindi, è identificabile innanzitutto nella ragione strutturale donde emergono – donde rampollano. In tal senso, la razionalità strategica non dice semplicemente la funzione di un ‘principio’ che sia già costituito su altra base (la quale sarebbe, pertanto, da sola, ragion sufficiente della distinzione: caratterizzandosi, ad esempio, per uno specifico contenuto semantico, per un particolare oggetto e/o per specifici destinatari, e/o per altro), perché, invece, è proprio la sua ‘funzione’ strategica a identificare la sua ‘razionalità’, ossia il cuore della sua identità. Il principio non ‘ha’ razionalità strategica. ‘E’’ la sua razionalità strategica. La sua razionalità strategica sub specie regolativa. Il ‘principio’ in quanto tale, quindi, – anche ove nasca dalla vocazione espansiva di una norma a superare i confini delle rigide classi cui è chiamata ad applicarsi – varca i limiti delle predette (classi di rapporti, di azioni, di situazioni, di decisioni, di norme, e classi di classi, etc.) per eccederle, permanentemente orientando la propria significazione e azione anche oltre di esse. Il ‘principio’ in quanto tale, quindi, superando i confini delle classi precostituite (cui si applicherebbe in quanto ‘norma’), esprime una vocazione espansiva che non solo è orientata oltre la classe predefinita, ma è esposta al ‘valore’: là dove un tale ‘valore’, lungi dall’essere un ‘che’ di sillogisticamente dimostrato, si pone come avvistato con metodo topico-retorico, circolante nell’ordinamento giuridico e/o nella società che gli corrisponde. Il ‘principio’, quindi, in quanto gli è intrinseca la razionalità strategica, che va oltre i confini delle classi definite, incorpora nella sua identità strutturale una capacità di risposta al nuovo, all’imprevisto e all’imprevedibile, che orienta nel mutamento governandolo attraverso una costitutiva apertura ed elasticità. La razionalità strategica si pone, pertanto, come una razionalità architettonica. In questo senso, potrebbe dirsi che la stessa ‘norma di riconoscimento’ di Hart si porrebbe, se accettasse al suo interno il ‘principio’, come aperta: in quanto esposta e permeabile ai valori implicati nell’ordinamento e/o ai valori socialmente creduti che a quell’ordinamento corrispondono. Ciò, a ben guardare, significa che una stessa regola può essere interpetrata come ‘norma’ e come ‘principio’. E che, a seconda

dell’interpretazione prescelta, acquisterà una diversa identità semantica. Decidere interpetrativamente, infatti, che una certa regola sia ‘norma’ o, invece, ‘principio’ è, in realtà, al tempo stesso, decisivo di ciò che questa regola significa ed è. E’ il tipo di razionalità riconosciuta (strategica o parametrica) a decidere del suo significato. Si tratta, qui, di un punto còlto, a ben vedere, dallo stesso Ronald Dworkin, là dove, pur intendendo istituire una differenza qualitativa fra ‘principio’ e ‘norma’ sulla base del loro contenuto semantico, non si perita, d’altra parte, di affermare, con finezza, che ci sono punti e momenti in cui un principio può apparire norma e una norma può apparire principio24. In realtà, se ben si osserva, ciò può accadere unicamente perché uno stesso enunciato può essere guardato come ‘norma’ o come ‘principio’ a seconda del vettore razionale lungo il quale se ne legge il significato. Ossia: a seconda di se lo si legga nella sua portata elastica, ultra-normativa, meta-normativa, ‘ultra-tipica’ (‘razionalità strategica’) o se lo si legga, invece, nella sua portata anelastica, normativa, ‘tipica’ (‘razionalità parametrica’). La capacità di espansione del ‘principio’, pertanto, si rivela un vettore specifico che costituisce il contenuto identitario del principio stesso – e non una sua mera funzione. Si noti, in proposito, come i penalisti preferiscano parlare, talvolta, della “elasticità della norma” come una condizione ermeneutica di ‘analogia anticipata’. Dove, infatti, si osserva una tendenza all’analogia, si coglie, in realtà, una situazione in cui la ‘norma’ aspira a porsi sul piano del ‘principio’ – mutando così, al tempo stesso, modello di razionalità e contenuto identitario. Ma c’è, nel cogliere la natura del ‘principio’, ancora un altro aspetto da sottolineare. Avevamo precedentemente osservato che eventi nuovi, (in quanto non previsti o in quanto percepiti come non assumibili all’interno dell’assetto parametrico della norma data), generano nel sistema ordinamentale lacune e contraddizioni. La risposta efficace al disorientamento che ne segue è l’introduzione del ‘principio’. E’ grazie alla sua razionalità strategica che diventa possibile, infatti, governare ciò che è assunto come nuovo. Ma possiamo domandarci, a questo punto: perché mai quegli eventi appaiono ‘nuovi’? Perché mai non funziona, per loro, il meccanismo della ‘tipicità’, per il quale la norma performativamente decide che tutti i fatti appartenenti alla classe da essa disciplinata sono ‘simili’? 24 R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 1982, pp. 97 ss.

Noi pensiamo che ciò accada semplicemente perché il valutare alcuni fatti come ‘non nuovi’ significherebbe aprire, in realtà, una crisi con la coscienza comune dei valori o, almeno, con la coscienza comune dei valori che si ritiene circolino all’interno dell’ordinamento giuridico considerato (che pur su quella ‘coscienza comune’ non può non – in qualche misura – fondarsi). Tutto ciò implica che la percezione di un fatto come nuovo – e quindi l’avvertita esigenza di ricorrere a ‘principi’ che ampliino, restringano o integrino il significato della norma data – nasce dall’interrogazione che la norma, a contatto con situazioni, suscita in direzione dei valori. Il che significa che il ‘principio’, nascendo in tali condizioni, sorge strutturalmente dall’esposizione della norma ai valori. Ossia il ‘principio’, in quanto tale, oltre ad essere ‘razionalità strategica’, è razionalità esposta ai valori. Un tale ‘nuovo’ – meglio: una tale percezione di nuovo – non è espungibile. Se infatti consideriamo, da una parte, le sempre inedite situazioni che derivano dalle scoperte scientifiche e tecniche (si pensi, ad esempio, al settore ambientale e alla bioetica); da un’altra parte, la strutturale incompletezza di ogni sistema giuridico; e, infine, la permanente esposizione di tali ‘novità’ alla coscienza comune dei valori (che di tali ‘novità’ si pongono come la causa e l’effetto) – se consideriamo tutto questo, noi sappiamo che un tale permanente accadere del ‘nuovo’, oggi, è il nostro destino. Un sistema giuridico ha limiti come tale perché non può prevedere la totalità delle condizioni a cui è sottoposto, e, d’altra parte, una norma giuridica (e/o un gruppo di norme giuridiche) ha limiti in quanto tale perché non può prevedere la totalità dei casi a cui potrebbe dover e dovrebbe poter applicarsi. E’ la ragione per cui ‘fatti nuovi’ fanno emergere nel sistema, sempre e necessariamente, lacune e/o incoerenze. Si tratta – dicevamo – di ‘fatti nuovi’ che si rivelano tali nel momento in cui emerge lo scontro fra la ‘razionalità parametrica’ della ‘norma’ e la ‘razionalità strategica’ del ‘principio’. Si svelano, così, come a una cartina di tornasole improvvisa, presupposti non visti. Sono i ‘principi’. In questo senso, il caso Riggs citato da Dworkin e il problema del consenso prestato – e poi revocato – dal marito all’inseminazione eterologa della moglie, sono esemplari: nel primo caso, l’emergere del problema su se l’assassino possa essere normativamente concepito come un qualsiasi erede e, nel secondo caso, l’emergere del problema su se la revocabilità di un consenso prestato all’inseminazione possa lasciare un figlio senza paternità.

Osserviamo. Ci sono principi che si rivelano nel loro porsi ai limiti del sistema (si pensi all’impossibilità e allo stato di necessità) e principi che si rivelano nel loro porsi come presupposti condivisi del sistema (si pensi a quanto le nuove forme di vita, oggi, mettano in questione il sistema). Un ordinamento normativo, infatti, – come non può imporre ciò che è impossibile, come non può vietare ciò che si trova in ‘stato di necessità’ e come non può non presupporre ciò che pur non prevede – allo stesso modo non può nemmeno imporre ciò che è manifestamente non condiviso. Si tratta di limiti del sistema e/o della norma, a cui operativamente risponde la razionalità strategica del ‘principio’. Un sistema e una norma, ne siano consapevoli o no, implicano anche ciò che non sanno di implicare. Il ‘principio’, alla luce dei sempre nuovi fatti che emergono dal mondo, realizza un praticabile e indifferibile soccorso a questa situazione di sofferenza valoriale. Ne deriva che il ‘principio’, in un tale contesto, dichiarando quanto è implicato nelle norme, può restringerne, ampliarne e/o integrarne il significato, regolando conflitti e colmando lacune25. La sua identità strategica mira, in realtà, in questo caso, almeno a una prima approssimazione, a fare di un coacervo di disposizioni formali un complesso unitario, senza lacune e senza contraddizioni. 8. Una precisazione essenziale C’è, però, da osservare che, almeno nella vulgata linguistica, non esistono solo principi implicati nel sistema ed enucleabili a partire da esso attraverso un lavoro di inferenze combinate. Non esistono, cioè, solo principi generali dei singoli settori giuridici e principi generali dell’intero ordinamento, fondamentalmente intesi come principi dottrinali e/o giurisprudenziali e/o consuetudinari, ermeneuticamente ricostruiti e saggiati. Si sostiene che esistano, infatti, anche ‘principi’ formalmente generati da una fonte di produzione del diritto, che li presenta direttamente come tali: ossia, come ‘principi’. Ci si troverebbe, quindi, a questo punto, davanti a due strati di ‘principi’: principi ricavati per inferenza e implicazione e principi direttamente generati da una fonte formale di produzione.

25 Si pensi alla stessa teoria della presupposizione in B. Windscheid.

Dice Dworkin: “Vi è differenza fra dire che gl’inglesi vanno regolarmente al cinema una volta la settimana, e dire che gl’inglesi osservano la regola per cui ciascuno deve andare al cinema una volta la settimana”26. A ben guardare, nel caso dei principi prodotti giuridicamente, ci si trova davanti al secondo significato: gl’inglesi seguono la regola dell’andare regolarmente al cinema una volta alla settimana; nel primo caso, ci si trova, invece, davanti al primo significato: gl’inglesi, andando regolarmente ogni settimana al cinema, istituiscono questa regolarità. C’è da domandarsi: nel primo caso di Dworkin, ossia nel caso di principi prodotti giuridicamente da una fonte di produzione formale, si tratta ancora di ‘principi’? Diremmo di sì, ma a una condizione. Che si tratti di proposizioni che abbiano le stesse caratteristiche – già sopra indicate – dei principi ricavati per implicazione. Caratteristiche da noi identificate in due coordinate specifiche: la prima, consistente nel fatto che, collocandosi fra ‘norma’ e ‘valore’, quelle regole esprimano una razionalità strategica – la capacità di espandersi elasticamente fin dove è possibile, ossia finché un diverso principio non ne limiti l’estensione, concorrendo a escluderlo o a bilanciarlo; la seconda coordinata, consistente nel fatto che il principio sia esposto ai valori – sia permeabile ai valori –, quanto meno ai valori condivisi nell’ordinamento e nella società27. In realtà, la metodica di produzione giuridica consistente nel ‘legiferare per principi’28 si sta imponendo, nel mondo giuridico contemporaneo – soprattutto nel diritto ambientale ma non soltanto (si pensi ai settori infortunistici) – come il modo più aggiornato per 26 R. DWORKIN in AA.VV., Problemi di teoria del diritto, Il Mulino, Bologna, 1980, pp. 66-67. 27 Sul problema della permeabilità ai valori vedi la posizione di Habermas nella sua polemica contro Weber (di cui sub nota n. 31 e nel testo). Cfr., in proposito, da ultimo, il mio Dal giusnaturalismo al giuspersonalismo. Alla frontiera geoculturale della persona come bene comune, Graf, Napoli, 2005. Sulla prospettiva inversa della deriva cui è esposta oggi la reale produzione giuridica richiamiamo, qui, A. Rufino, G. Teubner, Il diritto possibile, funzioni e prospettive del medium giuridico, Guerini e Associati, Milano, 2005. 28 E’ un punto, questo, su cui ha richiamato l’attenzione, sulla base di notevoli studi, Domenico Amirante. Si veda, fra gli altri, D. Amirante, Diritto ambientale italiano e comparato. Principi, Jovene, Napoli, 2003. Per una importante ricostruzione della normativa ambientale ‘per principi’, vedi P. Dell’Anno, Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, cit.

affrontare il problema della ‘complessità’, fatta di una quota crescente di eventi imprevedibili e irreversibili. Potrebbe sembrare, in proposito, che, almeno a una prima considerazione, il ‘legiferare per principi’ riduca la certezza del diritto, esponendo i cittadini e gli operatori all’arbitrio e alla precarietà. Ciò, però, come è stato anche da più parti notato (Ferrajoli, De Sadeleer), non è necessariamente vero, perché, in una situazione come quella contemporanea, in cui i mutamenti sono corposi e rapidi, accade che le norme, a fronte dei mutamenti continui e imprevedibili, diventino rapidamente obsolescenti, generando incertezza del diritto nella misura in cui ‘certezza del diritto’ è non solo chiarezza di precetto ma anche durevolezza e stabilità. Il ‘legiferare per principi’ – ad esempio per ‘linee guida’ (vedi, in proposito, le analisi di Domenico Amirante) – può essere, quindi, in notevole misura, una metodica che dà più certezza del diritto di quanta ne possa dare una normativa molto circostanziata ma altrettanto prossima ad essere, proprio per ciò, rapidamente obsolescente. In questo senso, il principio è dotato di una vocazione espansiva che la norma non possiede. ‘Espansività’ che esso realizza o allo scopo di conseguire per inferenze e implicazioni un’unità nell’orientamento complessivo e nell’esposizione al valore, oppure allo scopo di costruirla – questa unità –, invece, per disposizione specificamente formale. Per dirla con una metafora da intendere cum grano salis, se la ‘norma’ è solida, il ‘principio’ è gassoso. Il che non significa, in nessuno dei due casi, che il ‘principio’ non abbia un’identità definita. Né significa che non sussista fra ‘norme’ e ‘principi’ una possibile trasmutazione e una reale coessenzialità. Il ‘principio’, in quanto ha valenza strategica ed esposizione ai valori, presenta, quindi, a ben guardare, una sua precisa architettonicità, individuabile sia nell’uno sia nell’altro strato di cui si diceva (cioè, quello dei principi enucleati per inferenza e quello dei principi prodotti per fonte formale). E ciò vale sia per il ‘principio’ in quanto circoli all’interno di un blocco di norme, sia per il principio in quanto circoli fra blocchi di norme, sia per il principio in quanto tenda a mantenere un’unità di fondo nel mutamento delle norme, sia per il principio in quanto ascenda dai criteri ai metacriteri con cui mantenere uno il costituito e orientare nel nuovo. In ognuno di tali casi, a ben vedere, il ‘principio’ si pone come sinapsi, come ponte, come ossigeno e sangue. Lungo il percorso

del ‘principio’, in realtà, passandosi dalla razionalità parametrica a quella strategica, si transita dalla natura logica alla natura teleologica, dalla valenza concettuale alla valenza metaforica, dalla funzione identitaria alla funzione architettonica. 9. Alcune riflessioni Una tale prospettiva dei ‘principi’ intesi come appartenenti all’ordinamento giuridico in una situazione di orientamento ultra-tipico e di esposizione ai valori, crediamo consenta, a questo punto, l’avvistamento di altri gradini ascensivi. E’ possibile, infatti, su questa strada, andare oltre la separazione segnata da Sergio Cotta fra ‘principi dell’ordinamento giuridico’ e ‘principi del diritto’29. Certo, l’approccio ‘principiale’ – in termini di ‘principi’, cioè – è fondamentale. Si osservi. Nel metodo con cui Leibniz cercherà di ricostruire il diritto in un’opera giovanile – la Nova Methōdus discendae docendaeque iurisprudentiae (1667) – può cogliersi – crediamo – un esempio magistrale di come si possa ricostruire, attraverso principi, la rete del diritto. Forse potrebbe addirittura individuarsi, a ben vedere, in un tale metodo una prima matrice prospettica di quella che sarà la configurazione monadica di Leibniz, là dove egli ritiene che ogni centro30, contenendo in sé tutto il mondo dalla sua prospettiva, si pone in una rete armonica prestabilita con tutti gli altri centri dell’insieme. E, d’altra parte, anche Vico nel De Uno (1720-21) cercherà, come è noto, nella sua prospettazione di un ‘Diritto universale’, una visione a scala plurimillenaria di quell’invariante che solo a quell’altezza si rivela. Una simile impostazione può consentirci, ora, di avvicinarci al fenomeno del diritto per progressive approssimazioni, assumendo come specifico asse di riferimento il rapporto fra ‘norme’, ‘principi’ e ‘valori’.

29 AA.VV., I Principi generali del diritto, Roma, 27-29 maggio 1991, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1992. 30 Vedi, sul punto, M. SERRES sulla rappresentazione monadica in Leibniz come alternativa a quella, fondata sul principio causa-effetto, di Newton: su un tale discorso rinviamo a G. LIMONE, Il sacro come la contraddizione rubata. Prolegòmeni a un pensiero metapolitico dei diritti fondamentali, Jovene, Napoli, 2001, pp. 204 ss.

a. In una prima approssimazione, può individuarsi il valore segretamente strutturante di quelle che vengono tradizionalmente configurate come mere caratteristiche logiche – date – di un ‘ordinamento giuridico’. Parliamo di unità, coerenza e completezza. Osserviamo. La teoria del diritto, nel parlare degli ordinamenti giuridici moderni, insiste su un punto. Si tratta, a ben guardare, di un’insistenza su cui occorre adeguatamente riflettere, senza darla pedissequamente per scontata. Qual è questo punto? Esso consiste nell’affermazione canonica per cui caratteristiche di un ordinamento giuridico sono l’unità (come riconducibilità a un’unica rete), la coerenza (come assenza di contraddizioni) e la completezza (come assenza di lacune). E si noti, fra l’altro, anche l’individuabilità, in un tale contesto, di un principio del mutamento (che, come è stato giustamente notato, nell’ordinamento romano antico non sarebbe stato affatto scontato31). Una simile richiesta prospettica da parte della teoria del diritto, a ben guardare, non indica un dato ‘naturale’. Anzi, non indica nemmeno un ‘dato’. Indica, invece, semplicemente un modo di guardare. Che, nel proiettarsi sull’oggetto, lo costruisce. E, nel costruirlo, lo dà per semplicemente constatato. E valga il vero. Si dice che un ordinamento giuridico è uno, coerente e completo per sottintendere, in effetti, che, per riconoscere il diritto come tale, in tal modo intendiamo guardarlo: ossia, perché solo a queste condizioni prospettiche esso si costituisce per noi come diritto. E’ troppo a noi noto che ‘diritto’ significa, a volte, di fatto, un puro ammasso di leggi, di regolamenti, di sentenze, di decreti, spesso ordinato, ma altrettanto spesso disordinato, contraddittorio e oscuro, che nessuno, d’altra parte, conosce nella sua interezza se non per finzione. Da un tale ammasso di norme emergono lacune, incoerenze, criteri in conflitto. Ciò, se ben si osserva, significa che, quando affermiamo come ‘oggettive’ le predette ‘caratteristiche’ dell’ordinamento giuridico (‘unità’, ‘coerenza’, ‘completezza’), noi, in realtà, non riflettiamo affatto su un ‘qualcosa’ di dato, ma su un ‘qualcosa’ che noi stessi stiamo generando come in quella guisa connotato. Domandiamoci perciò: che cosa in realtà si nasconde dietro questo nostro costituirlo come tale? Si nasconde il nostro ritenere che il

31 Cfr. invece – in H. HART, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 1991 – la funzione centrale di quella che egli chiama la ‘norma di mutamento’.

disperso materiale giuridico con cui abbiamo da fare non solo debba essere interpetrato come uno, ma che sia uno – e che questo suo essere uno debba essere guardato, almeno tendenzialmente, senza vuoti e senza contraddizioni. Che significa ciò? Significa che un tale caotico ammasso potrà trasformarsi in una rete di norme – anzi in un ‘ordinamento’ – alla sola condizione che in esso lavorino principi. Cioè, sinapsi logiche che, operando (normativamente, metanormativamente e metametanormativamente), trasformino quel frammentario complesso nell’‘ordinamento’ che è. b. Guardiamo, ora, in una seconda approssimazione. Domandiamoci ancora. Che cosa si nasconde, in realtà, dietro il ‘fatto’ (o meglio: dietro il ‘combinato disposto di opzioni’) costituito da tali caratteristiche congiunte? Vi si nasconde la ‘certezza del diritto’. Perché il valore del diritto, all’altezza dei modelli occidentali contemporanei, si esprime, come è noto, nel principio della certezza del diritto. La quale vi trova luogo, quindi, sia in quanto valore etico, sia in quanto valore topico sedimentatosi nella società civile e tradottosi poi (in modo invisibile e strutturato) nella forma del diritto. Potrebbe, oggi, forse, parlarsi di una certezza del diritto sincronica e di una certezza del diritto diacronica. La prima, fondata prevalentemente sulla chiarezza e determinatezza della norma; la seconda, sulla sua stabilità. Le esigenze di garanzia rispetto all’arbitrio del potere chiedono la prima; le esigenze di garanzia rispetto alla precarietà dell’esposizione al potere, la seconda. A ben guardare, i fondamentali principi del diritto ambientale (il principio ‘chi inquina, paga’ quale principio di responsabilità; e, ancora, il principio di prevenzione e il principio di precauzione) sono altrettante forme con cui si cerca di realizzare una possibile rete di contenimento rispetto ai possibili danni catastrofici cui è esposto il reale. c. Guardiamo, ora, in una terza approssimazione. Se ben si osserva, un mirare ai principi dell’ordinamento giuridico significa apertura ai valori. Si veda, in proposito, la critica di Habermas a Weber. Quali caratteristiche avrà – in questa luce – un ‘diritto’? Per Max Weber, come è noto, il diritto dev’essere razionale. In quanto tale, resistente a qualsiasi forma di etica. Questa, infatti, l’etica, inserisce nella forma del diritto una nefasta tendenza, quella a una deformalizzazione che lo priva dei rigorosi e limpidi caratteri della

modernità. E’ stato Habermas a dimostrare (Morale, Diritto, Politica32) contro Weber, invece, come la posizione weberiana inconsapevolmente nasconda il fatto che nel diritto moderno un’etica intera si è consumata facendosi procedura. In esso, infatti, una semantica di valori si è fatta una sintattica di procedure. Habermas mostra, pertanto, che la pretesa impermeabilità del diritto è solo una permeabilità già avvenuta (e ormai tacitamente accettata) e che, al tempo d’oggi, va pensata invece una razionalità che si faccia permeabile a un’etica post-tradizionale. Un ‘diritto’, infatti, per Habermas, deve essere sempre istituito e sostenuto da argomentazioni razionali permeabili all’etica. “Le modalità giustificative – dice Habermas – rimangono aperte nei confronti dei discorsi morali” (Morale, Diritto, Politica). Ciò sarà possibile istituendo, nella democrazia, un dibattito pubblico libero da dominio che possa anche costituire istanza di controllo sulle istituzioni rappresentative. Ci si potrà trovare, così, davanti a una ‘sovranità’ che si esprime in forma puramente procedurale, là dove l’eticità contemporanea si è tutta consumata in procedura. d. Guardiamo in una quarta approssimazione. L’approssimarsi a un ordinamento giuridico attraverso i suoi principi significa, in realtà, approssimarsi a un principio più radicale, l’equità. E’ un punto su cui ha richiamato l’attenzione, nel De Uno, Giambattista Vico33. Ed è il punto su cui ha posto più volte l’accento Giulio Maria Chiodi, nel suo considerare l’equità come la categoria costitutiva del diritto (e, con riguardo agli interessi disciplinati, regolativa)34. Si intende, in tale prospettiva, per ‘equità’ un principio strutturale di bilanciamento (di interessi, di valori, di interessi e valori) che si pone come la sostanza stessa del diritto: il costituirsi del suo essere ciò che è. Si tratta, in realtà, a questo punto, di una posizione più radicale del discorso per cui il diritto ha principi. Qui è il diritto stesso ad essere questo principio. Perché questo principio è il suo essere. Perché il diritto è il suo principio costitutivo. e. Guardiamo, ora, in una quinta approssimazione.

32 J. HABERMAS, Morale Diritto Politica, Einaudi, Torino, 1992. 33 G. VICO, De uno universi iuris principio et fine uno, in ID., Opere giuridiche. Il Diritto universale, introduzione di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Sansoni Editore, Firenze, 1974. 34 G. M. CHIODI, Equità. La categoria regolativa del diritto, Guida, Napoli, 1991.

L’approccio al principio dell’equità consente oggi, forse, a questo punto, una prospettiva ancora più radicale. Posto, infatti, che l’equità è sia il bilanciamento fra interessi, situazioni e valori, sia il mirare alle individue situazioni e soggettività in gioco, essa (l’equità) ci richiama a quanto è, di ogni singolo, bene ineludibile. Alludiamo a quel bene fondamentale che è il bene proprio, custodito da quel cruciale diritto che è il diritto ai diritti – e che potremmo chiamare, in necessaria sintesi, la dignità. E che è, nel linguaggio vichiano, il pudore, in quanto messa in forma della libertà. Là dove l’equità e il pudore – asse orizzontale e asse verticale dell’umano nel complesso del suo agire - fondano il luogo della legittimazione radicale. 10. Ruoli del ‘principio’ Per comprendere un ordinamento giuridico come ordinamento, il suo ipocentro è il ‘principio’. E’ certamente vero che, senza principi, le norme non potrebbero dialogare col valore. Ma non basta dire ciò. Perché, in realtà, senza principi le norme non potrebbero dialogare nemmeno con sé stesse. Sarebbero, senza questi ponti e sinapsi essenziali, un ammasso informe – ancor più ‘ammasso’ in quell’epoca del continuo e rapido mutamento qual è il mondo contemporaneo. E una tale essenzialità costitutiva del principio nei confronti del diritto vige, in realtà, a tutto campo: in quanto concerne l’osservanza; in quanto concerne l’applicazione; in quanto concerne l’esecuzione; in quanto concerne l’interpretazione; in quanto concerne i gradi della produzione – fino al momento, sommo, in cui consiste la legittimazione. C’è un ‘qualcosa’ che è nascosto nel sistema – in realtà – di cui ci accorgiamo solo quando un tale ‘qualcosa’ è violato. Il discorso sui principi è la scienza del disoccultarlo e del condurlo, per progressivi indizi, alla luce. Come nella ricerca dei palinsesti sottesi alle opere di civiltà cui apparteniamo. Di cui non possiamo liberarci perché ci costituiscono. E che non ci dànno ombra, perché sono il nostro stesso essere al sole. 11. Per una conclusione

In un suo splendido racconto tutto da rimeditare – “The Three Horsemen of Apocalypse”35–, sullo sfondo di una strada bianca in cui operano ussari bianchi e cavalli bianchi, Gilbert Keith Chesterton esamina al rallentatore, col genio del paradosso che gli è proprio, un’impresa militare perfettamente congegnata. La quale, proprio perché tutti eseguirono con puntualità rigorosa il proprio mandato, fallì. E fallì per la perfetta esecuzione di ogni sua parte. Fallì interamente, perché in ogni sua parte essa era riuscita. Ciò che in questa impresa mancava – potremmo dire qui oggi noi – era semplicemente l’operatività strategica del principio dell’intero. Riflettiamo. Oggi non potrebbe costituirsi nessun ordinamento giuridico in quanto ordinamento senza principi. Principi, cioè, che ne assicurino l’unità, la coerenza, la (tendenziale) completezza, l’orientamento nel nuovo e l’esposizione ai valori. Insistiamo, perciò, sulle due coordinate dei principi di cui dicevamo come identificativi del loro essere. In negativo, la collocazione costituente del ‘principio’ fra norme e valori. In positivo, la duplice dimensione della razionalità strategica e dell’apertura ai valori. In questo senso, diremo che la norma ha la ragione epistemologica della frazione, laddove il principio ha la ragione dell’intero. Dove la frazione è guardata dalla norma secondo la logica delle componenti tassative e seriate, laddove l’intero è guardato dal principio secondo la complessiva logica del senso. Perché il ‘principio’ ha la memoria dell’intero, che la norma non ha. Potremmo forse dire qui, ricordando Pascal, che il principio ha le sue ragioni normative che la norma non conosce. Si rifletta. Come c’è una razionalità strategica dei principi rispetto alle norme (andare oltre il confine che le norme, per la loro razionalità parametrica, non riescono a superare, né a immaginare), c’è, corrispondentemente, una razionalità strategica del Valore rispetto ai ‘valori’ – ove questi ultimi siano, a loro volta, intesi come espressioni storiche del Valore (là dove, simmetricamente, il Valore riesce ad andare oltre il confine che le sue espressioni storiche non riescono a superare, né a immaginare). Non solo. Nel momento in cui i principi si costituiscono nel punto dell’urto tra la faglia delle norme e la faglia dei valori, può osservarsi come la razionalità strategica dei principi conosca un cruciale comportamento bifronte: operando, da una parte, nei confronti delle norme, per una loro convergenza verso un’unità e una 35 G. K. CHESTERTON, L’occhio di Apollo, Mondadori, Milano, 1990.

legittimazione (razionalità fondante) e operando, d’altra parte, nei confronti dei valori, per una loro traduzione operativa in classi concettuali definite (razionalità attuativa). Si potrebbe a questo punto anche dire, con linguaggio geometrico, che il ‘principio’ è la figura che si pone al limite fra la tendenza dei valori al limite della loro attuazione operativa e la tendenza delle norme al limite della loro riconduzione all’intero. Il ‘principio’ è, in questo senso – fra i valori e le norme – il luogo geometrico che costituisce il limite comune fra queste due tendenze al limite. Si tratta qui, se ben osserviamo, del punto di massima vicinanza fra ‘norma’ e ‘principio’. Occorre, però, guardare anche a un’altra prospettiva – quella in cui si scopre che ‘norma’ e ‘principio’ sono, al limite più lontano fra loro, centri di radicamento di due ragioni epistemologicamente opposte: da una parte, la ragione della norma, che si fonda sulle ragioni dei confini invalicabili e delle componenti tassative: la ragione delle parti – quella che Hegel avrebbe forse in questo contesto chiamato le ragioni dell’intelletto (der Verstand); e, dall’altra parte, la ragione del principio, che si fonda sulle ragioni dell’ultra-tipicità e dell’ultra-tassatività, che contengono l’idea del superamento dei confini: la ragione dell’intero – quella che Hegel avrebbe forse chiamato in questo contesto le ragioni della Ragione (die Vernunft). ‘Norma’ e ‘Principio’ custodiscono, da un tale punto di vista, ragioni epistemologiche opposte. Qual è, in tale orizzonte, la ragione dell’intero che costituisce la radice epistemologica del Principio? Direi che un tale ‘intero’ va concepito a più strati: ciò vale nella misura in cui possiamo considerare come ‘intero’ 1. sia l’interezza che è semplicemente coestensiva all’ordinamento giuridico costituito (ossia, l’albero dei principi che fanno logicamente e semanticamente ‘uno’ l’ordinamento giuridico esistente), 2. sia l’interezza che comprende, insieme con l’ordinamento giuridico, i valori circolanti nell’intero ordinamento (ossia, l’albero dei principi e valori che fanno assiologicamente ‘uno’ l’ordinamento giuridico esistente), 3. sia, insieme con l’ordinamento giuridico e i suoi valori, i valori circolanti all’interno della società (ossia, l’albero dei principi e valori che fanno assiologicamente ‘uno’ l’ordinamento giuridico esistente alla luce dei principi e valori circolanti nella società civile che gli corrisponde). Nella ‘norma’, in realtà, è la ragione esplicitamente normata la ‘clausola di chiusura’ del sistema, laddove nel ‘principio’ sono queste –

più o meno complesse – ragioni dell’intero36 a fungere da criterio di chiusura. Dario Fo, in una sua satira politica, una volta provocatoriamente domandava: in Italia esistono, certamente, le leggi. Ma esiste anche una legge che dice che bisogna rispettare le leggi? Anche noi, senza ironia questa volta, ci domandiamo: Esiste, nel mondo delle leggi, ossia del Diritto, una legge che dice che bisogna rispettare le leggi? A ben guardare, diremmo che una tale ‘legge’, anche se celatissima, esiste. E potremmo, forse, portarla alla luce se riuscissimo a vederla, quasi in un gioco di ‘figura’ e ‘sfondo’, come il principio enunciato da Giambattista Vico nel De Uno: quello di cui egli cercava il disoccultamento nel Diritto e che, troppo grande per essere visto da vicino, può esser colto nel suo essere solo a una scala di sguardo che superi i millenni. Giambattista Vico vedrà un tale principio – principio dei principi – nel pudore inteso come sentimento dei confini, che mette in forma la libertà e istituisce le condizioni dell’Umanità come reciproco soccorrersi nell’intero37: il principio, potremmo anche dire, per cui il ius precede la lex38. Questa ‘Legge’ c’è, se la si interpetra secondo un modello analogo a quello della rappresentazione monadica di Leibniz: il complesso di tanti centri principiali che, avendo ognuno in sé il tutto e avendolo dal proprio punto di vista, circolano in tutto il corpo del diritto. Questa ‘Legge’ c’è, se la s’interpetra nel senso in cui Dante concepiva la lingua nazionale: Qualibet redolet civitate nec cubat in ulla (nel nostro caso: Quolibet redolet ordine normante nec cubat in ullo). Questa legge che impone di rispettare le leggi c’è. Ma alla sola condizione che il Diritto in esse non sia perduto. Questa ‘Legge’ che riassume a un altro livello tutte le Leggi è, d’altra parte, il principio che riassume in apicibus tutti i principi. Perché è il principio di tutti i principi. Il principio radicale per cui il diritto di esistere è il fondamento dell’esistere del diritto. Il principio del diritto.

36 Sul punto del ‘principio di chiusura’ vedi i contributi di A. G. Conte in AA.VV., Problemi di teoria del diritto, a cura di R. Guastini, Il Mulino, Bologna, 1980. 37 G. VICO, De Uno Universi Iuris Uno Principio et Fine Uno, in ID., Opere giuridiche. Il Diritto universale, a cura di N. Badaloni, Sansoni Editore, Firenze, 1974. 38 Vedi G. M. CHIODI, Equità. La categoria regolativa del diritto, Guida, Napoli, 1991.