LO STATUTO LOCALE NEL QUADRO DELLE FONTI DEL DIRITTO€¦ · 12868/2005 Secondo la sentenza della...

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Dott. Matteo Esposito – www.matteoesposito.it LO STATUTO LOCALE NEL QUADRO DELLE FONTI DEL DIRITTO (note a margine della sentenza corte cassazione n. 12868/2005) SOMMARIO: 1. PRIME NOTE A MARGINE DELLA SENTENZA C.CASS. N. 12868/2005 2. L’AUTONOMIA STATUTARIA: EVOLUZIONE STORICA 3. NATURA GIURIDICA DELLO STATUTO 3.1 CARATTERISTICHE DELLO STATUTO 4. LO STATUTO DELL’ENTE LOCALE NEL SISTEMA DELLE FONTI … 4.1 … DOPO LA LEGGE 265/1999 4.2 … DOPO IL TESTO UNICO 267/2000 4.3 … DOPO LA LEGGE 3/2001 4.4 … DOPO LA LEGGE 131/2003 4.4.1 LA COLLOCAZIONE NEL SISTEMA DELLE FONTI DELLO STATUTO. LA TESI DELLA SUA NATURA REGOLAMENTARE E IL PRINCIPIO DI GERARCHIA DELLE FONTI 4.4.2 LA TESI DELLA NATURA SUBPRIMARIA O ATIPICA DELLO STATUTO. IL PRINCIPIO DI COMPETENZA E LA C.D. RISERVA DI STATUTO 4.4.3 LA TESI INTERMEDIA 5. L’ADOZIONE DELLO STATUTO, LE FORME DI PUBBLICAZIONE E L’EFFICACIA 6. IL CONTENUTO STATUTARIO 6.1 LA PREVISIONE DEL TESTO UNICO DEGLI ENTI LOCALI 6.2 I CONTENUTI DELLO STATUTO DOPO LA LEGGE 131/2003 6.3 I LIMITI ALL’AUTONOMIA STATUTARIA 7. IL PROCEDIMENTO DI APPROVAZIONE DELLO STATUTO 1

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Page 1: LO STATUTO LOCALE NEL QUADRO DELLE FONTI DEL DIRITTO€¦ · 12868/2005 Secondo la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Unite, n. 12868 del 16 giugno 2005, lo statuto comunale

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LO STATUTO LOCALE NEL QUADRO DELLE FONTI DEL DIRITTO (note a margine della sentenza corte cassazione n. 12868/2005)

SOMMARIO: 1. PRIME NOTE A MARGINE DELLA SENTENZA C.CASS. N. 12868/2005 2. L’AUTONOMIA STATUTARIA: EVOLUZIONE STORICA 3. NATURA GIURIDICA DELLO STATUTO 3.1 CARATTERISTICHE DELLO STATUTO 4. LO STATUTO DELL’ENTE LOCALE NEL SISTEMA DELLE FONTI … 4.1 … DOPO LA LEGGE 265/1999 4.2 … DOPO IL TESTO UNICO 267/2000 4.3 … DOPO LA LEGGE 3/2001 4.4 … DOPO LA LEGGE 131/2003 4.4.1 LA COLLOCAZIONE NEL SISTEMA DELLE FONTI DELLO STATUTO. LA TESI DELLA SUA NATURA REGOLAMENTARE E IL PRINCIPIO DI GERARCHIA DELLE FONTI 4.4.2 LA TESI DELLA NATURA SUBPRIMARIA O ATIPICA DELLO STATUTO. IL PRINCIPIO DI COMPETENZA E LA C.D. RISERVA DI STATUTO 4.4.3 LA TESI INTERMEDIA 5. L’ADOZIONE DELLO STATUTO, LE FORME DI PUBBLICAZIONE E L’EFFICACIA 6. IL CONTENUTO STATUTARIO 6.1 LA PREVISIONE DEL TESTO UNICO DEGLI ENTI LOCALI 6.2 I CONTENUTI DELLO STATUTO DOPO LA LEGGE 131/2003 6.3 I LIMITI ALL’AUTONOMIA STATUTARIA 7. IL PROCEDIMENTO DI APPROVAZIONE DELLO STATUTO

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1. BREVE NOTA A MARGINE DELLA SENTENZA C.CASS. N. 12868/2005 Secondo la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Unite, n. 12868 del 16 giugno 2005, lo statuto comunale non è più in rapporto di gerarchia rispetto alla legge ma è da considerarsi come strumento di integrazione ed adattamento dell’autonomia locale ai principi derogabili dalla legge. Nello specifico, la sentenza stabilisce che lo statuto del Comune può legittimamente affidare la rappresentanza a stare in giudizio ai dirigenti, nell'ambito dei rispettivi settori di competenza, quale espressione del potere gestionale loro proprio, ovvero ad esponenti apicali della struttura burocratico-amministrativa del Comune, ma ove una specifica previsione statutaria non sussista il sindaco resta il solo soggetto titolare del potere di rappresentanza processuale, ai sensi dell' art. 50 del d. lvo. n. 267 del 2000. Inoltre, se lo statuto affida la rappresentanza a stare in giudizio in ordine all'intero contenzioso al dirigente dell'ufficio legale, questi, ove ne abbia i requisiti, può costituirsi senza bisogno di procura, ovvero attribuire l'incarico ad un professionista legale interno o del libero foro (salve ovviamente le ipotesi, legalmente tipizzate, nelle quali l'ente può stare in giudizio senza il ministero di un legale: v. da ultimo, in relazione al processo tributario, l'art. 3 bis del d.l. n. 44 del 2005, convertito, con modif., nella l. n. 88 del 2005), ed ove abilitato alla difesa presso le magistrature superiori può anche svolgere personalmente attività difensiva nel giudizio di cassazione. Il testo della sentenza dà l’occasione per ricostruire il percorso storico – normativo che ha interessato la potestà statutaria degli enti locali. 2. L’AUTONOMIA STATUTARIA: EVOLUZIONE STORICA

“Il tema statutario ha sempre avuto di per sé una grande suggestione, in quanto richiama il processo di autodeterminazione dei corpi sociali, … il momento primo della democrazia… Ancor più questa suggestione il tema statutario l’ha quando è riferito ai Comuni, prima sede della democrazia”1. L’attribuzione di autonomia statutaria non rappresenta una novità del nostro tempo, bensì ha origini antichissime, risalenti ad una delle maggiori forme di civiltà prodotte dalla nostra storia, quella del libero comune medievale, che con la sua gloria ha dato il nome ad un’epoca. Nell’età medievale il termine statutum “designava tecnicamente la norma deliberata dagli organi costituzionali di ordinamenti particolari sottoposti ad un’autorità superiore, a differenza del termine lex, che rimase riferito per eccellenza alla norma emanata dall’ordinamento primario”2; in seguito,

1 Così Rossi, “Lo statuto dei Comuni nella legge di riforma delle autonomie locali”, (dattiloscritto), Perugia, 1991 2 Cfr. Lessico univ. Ital. Treccani, col. XX, 706

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l’espressione, adoperata tanto al singolare quanto al plurale, designerà l’atto normativo tipico del Comune, avente efficacia generale, ovvero corpi di leggi autonomi, generati da un lato dall’esigenza di ancorare la regolamentazione degli interessi ad un determinato ambito territoriale in modo uniforme e dall’altro da quella di mettere per iscritto le norme consuetudinarie3. Nel medioevo si mise spesso in discussione il fatto che potesse esistere una giurisdizione propria delle città, ritenendosi, prevalentemente, che gli statuti fossero invece frutto di concessione imperiale, ma gli storici hanno successivamente rilevato che se forse all’inizio della sua storia il Comune, ancora debole come istituzione, ebbe bisogno che le massime autorità di quel tempo (Pontefice ed Imperatore) riconoscessero i propri statuti, in seguito (secoli XII e XIII) non più, poiché nella fase podestarile ed ancor più in quella del popolo4, esso acquistò piena indipendenza e riconobbe in sé stesso e nel proprio potere lo ius statuendi, vincolante per tutti, cittadini e stranieri5. A conferma di ciò, il capovolgimento della gerarchia delle fonti: il diritto statutario assurge alla posizione di diritto sovrano facendo diventare, a sua volta, sussidiario il diritto imperiale, sicchè l’ordinamento (che precedentemente prescriveva di giudicare secundum leges et iura et statuta civitatis) prescrive di giudicare secondo gli statuti delle comunità o, in alternativa, secondo gli usi ed i costumi riconosciuti dalle comunità e solo in mancanza di queste fonti, secundum leges et iura.

3 Cfr. M.L. Zappetta, Statuto e autonomia dei “nuovi” Comuni, (dattiloscritto), p. 2 4 Il Comune ha vissuto vicende mutevoli e la sua affermazione quale ordinamento particolare autonomo nell’ambito dell’ordinamento generale dell’impero è stata graduale; a scandire le diverse fasi della storia comunale i diversi regimi instauratisi, i quali prendono il nome proprio dalle autorità avvicendatesi al governo delle città: regime consolare (comune consulum), podestarile (comune potestahs) e popolare (comune populi). L’affermarsi di questi ultimi due, avvenuta dopo la pace di Costanza (1183), tappa fondamentale per i rapporti con l’impero, consentirà al Comune di vivere i momenti maggiori della sua gloria e della sua indipendenza. Per un’analisi puntuale ed articolata sulla storia comunale, cfr., tra i tanti, Cassandro, voce “Comune (cenni storici)”, in Nss. Dig. It., vol. III, Torino, 1959, 810 ss.; Calasso, voce “Autonomia (storia)”, in Enc. Dir., vol. IV, Milano, 1959, 349 ss.; Id., voce “Comune (storia del diritto)”, in Enc. Giur. It., vol. III, p. 2, sez. III, Milano, 1930 (3° edizione), 863 ss.; Gabotto, “Dalle origini del Comune a quelle della Signoria”, in Atti del congresso storico internazionale, III, Roma, 1903 5 Nel corso di tutto il XII secolo, benché di fatto esistesse un diritto statutario, quale ius novum che poteva non solo integrare ma anche derogare al diritto romano, rimase nei giuristi la convinzione che “solus princeps possit facere legese”, onde si riteneva che ai sudditi non fosse consentito esercitare una potestà normativa contraria a quella imperiale. Ma anche nel secolo XIII le cose cambiarono e non solo si ammise ormai la perfetta legittimità degli statuti, ma si attribuì alle città lo ius statuendo condendi, da assimilarsi allo ius proprium, che ogni popolo produceva e poteva usare accanto allo ius comune, rappresentato dalle norme generali dell’organismo superiore sempre riconosciute dall’organismo inferiore. Cfr. Benedetto, voce “Statuti (diritto intermedio)”, in Nss. Dig., vol. XVII, Torino, 1957, 385 ss.

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Con la formazione dello Stato moderno (seconda metà del XVIII secolo) quale nuovo tipo di ordinamento generale, prevarrà l’idea dell’unità politica e giuridica all’interno dei singoli stati nazionali, rispetto a quella, debolmente sostenuta, di dare un moderato riconoscimento alle amministrazioni locali (pouvoir municipal) sia pure collegate e coordinate nell’unità dello Stato centrale. Gli ordinamenti comunali saranno così travolti dall’avvento dello Stato che negherà loro ogni diritto di autonomia e nel cui ambito perderanno la loro individualità determinando, inesorabilmente, la fine della loro esperienza politica. Nel 1848 si è dato il nome di statuto alla Costituzione piemontese di Carlo Alberto. Ma lo “statuto albertino” non aveva dello statuto che il nome6 e non era deliberato da alcun organo rappresentativo. Esso era, invece, una Costituzione “ottriata”, cioè concessa dal sovrano ai sudditi. Con l’unificazione (1861) si affermerà anche in Italia il sistema centralizzato di stampo francese: una solida amministrazione centrale, munita di una serie di organi locali con ampi poteri ed un complesso di enti locali assoggettati al controllo dell’organo locale di governo: tale sistema, passato alla storia col nome di “sistema prefettizio”, è destinato ad avere lunga vita nel nostro Paese, funzionale com’è alla soppressione di ogni libertà in nome dell’uniformità. Nel corso di tutto l’Ottocento ogni tentativo volto a modificare il sistema delle autonomie locali ed a riformare l’Amministrazione si dimostra vano7, poiché ogni ideale autonomistico riferito agli enti locali è visto come una minaccia per l’unità amministrativa, impostasi quale corollario dell’unità politica; ogni potere promana dallo Stato, quale “esclusivista dell’interpretazione dei bisogni della società” e, parallelamente, “esclusivo detentore dei mezzi per soddisfare quei bisogni”8. All’alba del nuovo secolo, il Comune, quale ordinamento originario ed autonomo, non esiste più; esso è ormai “organo dello Stato per ciò che atteneva ai rapporti con gli individui, e suddito dello Stato, … per ciò che concerneva invece la propria condizione”9. Gli interessi delle singole

6 Si riteneva che il nome di “Costituzione” rievocasse le Costituzioni giacobine della rivoluzione francese 7 Si pensi alla Legge Rattazzi (1859) la quale si ripropose di consiliare l’autonomia delle libertà locali con l’autorità, ma la sopravvivenza di un rigido sistema di controllo centralizzato e la forte diffidenza nei confronti di ogni forma di autonomia, impedirà il riconoscimento di una pur minima libertà degli enti locali. Sopraggiungeranno le battaglie condotte da Cavour all’insegna del sistema delle autonomie amministrative, attuabili solo mediante il decentramento, ma la scomparsa dello statista farà naufragare i suoi progetti sul regionalismo, banditi dai più forti progetti conservatori ed antiliberali. 8 Cfr. BERTI, Commento art. 5 Cost., in Commentario della Costituzione, (a cura di G. Branca), vol. I, Bologna, 1975, 277 ss.; sulle motivazioni della ragione unitaria, cfr., Benvenuti, Mito e realtà nell’ordinamento amministrativo italiano, in Atti del congresso celebrativo delle leggi di unificazione amministrativa, Vicenza, 1969; in generale, sulle vicende della legislazione comunale e provinciale italiana dall’Ottocento all’era fascista, SAREDO, La legge sull’amministrazione comunale e provinciale, vol. I, Torino, 1901-1907; PETRACCHI, Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale, Padova, 1969, vol. I. 9 “La naturale attitudine del Comune ad essere potere, a interpretare cioè esigenze comunitarie e a soddisfare interessi generali, si tradusse in una posizione giuridica verso lo Stato… e in una funzione di tramite della volontà statale verso gli individui che costituirono

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comunità locali si confondono nell’ambito dei prioritari interessi della “azione”; la volontà dello Stato si sostituisce a quella dell’ente locale; l’esigenza di uguaglianza dei cittadini viene utilizzata per uniformare l’apparato amministrativo e considerare l’amministrazione locale come parte “indiretta” dello Stato; la disciplina legislativa diventa sempre più dettagliata, sì da far corrispondere all’uniformità legislativa quella amministrativa. Da tutto ciò non può che derivare una legge comunale e provinciale che rappresenti una legge dell’amministrazione statale in cui i Comuni e le Province non sono che mere “partizioni o addirittura organi di essa”10. La necessità di preservare l’unità della Nazione ed il correlato timore che l’autonomia statutaria possa in qualche modo tradursi in autonomia politica minacciando quell’unità così faticosamente conquistata, determina la scomparsa dai testi delle nascenti leggi comunali e provinciali dello Statuto, quale fonte tendenzialmente primaria dell’ordinamento locale. I testi unici del 1915 e del 1934 rappresenteranno pertanto la migliore espressione dell’ideale autoritario e centralista, funzionale alla sottomissione (ed al conseguente annientamento) degli enti territoriali. La potestà statutaria comunale si ridurrà gradatamente, divenendo dapprima quasi un “privilegio” riconosciuto solo ad alcune categorie di Comuni e poi, man mano che gli enti comunali si integrano e coordinano nella compagine statuale, scomparirà del tutto, in nome della legge statale, generale ed astratta, cui viene affidata in via esclusiva la regolamentazione delle comunità locali. La compressione dell’autonomia statutaria avrà, quale contraltare, l’estensione della potestà regolamentare, peraltro angusta e limitata, potendosi svolgere solo negli interstizi della legislazione statale11. L’entrata in vigore della Costituzione repubblica (1948), in antitesi all’immobilismo centralizzatore ereditato dal passato, sembra fornire un’importante occasione alle autonomie locali per riacquistare il proprio ruolo nell’ordinamento12. Difatti, ispirata ai principi del decentramento e del

nell’insieme il suo sostrato sociale”, così, BERTI, “Crisi e trasformazione dell’amministrazione locale”, in R.T.D.P., 1973, 683. 10 Cfr., sul punto, BERTI, Commento art. 5 Cost., Op. cit., 281. Sulla necessità di “rifare” la legge comunale e provinciale perché lo Stato e gli enti autonomi devono poter concorrere insieme alla formazione dell’ordinamento complessivo, cfr. BENVENUTI, Per una nuova legge comunale e provinciale, in Riv. Amm., 1959, I, 29 ss. ed anche LUCIFREDI, Per un nuovo testo unico della legge comunale e provinciale, in Contributi al Dir. e alla sc. dell’Amm., 1959, I, 1 ss. (secondo tale Autore “nello spirito dell’Assemblea Costituente un soffio di vita nuova avrebbe dovuto penetrare nelle amministrazioni locali”, ma quel soffio, purtroppo, “ben tenue resta” finchè larga parte della materia resta disciplinata da testi concepiti e formulati in tempi lontani, secondo uno spirito diverso e addirittura antitetico all’attuale). 11 I Comuni sono sprovvisti della potestà statutaria e dotati solo di una limitata potestà organizzatrice “secundum et praeter legem”, in quanto è lo Stato, ente sovrano, l’unico titolare del potere di auto-organizzazione, nonché di organizzazione degli enti locali. 12 “Le autonomie locali nell’ordinamento costituzionale vanno al di là di quel ruolo tradizionalmente svolto di parti o articolazioni dello Stato per diventare lo stesso modo di essere della Repubblica che così si trasforma da Stato di diritto accentrato in Stato sociale decentrato e quindi in ordinamento delle autonomie”, così, CLEMENTI - PIRAINO,

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pluralismo, la Costituzione riconosce e promuove le autonomie locali (art. 5), sancisce il principio della rilevanza costituzionale di Comuni e Province (art. 114) e ne proclama l’autonomia (art. 128). Ragioni di ordine ideologico (forte senso dello statalismo), ma anche di ordine organizzativo (timore di una eccessiva frammentazione del potere centrale e di una conseguente perdita del controllo da parte del governo centrale) e politico, paralizzeranno il legislatore italiano, il quale non riuscirà a dare attuazione al disegno costituzionale. Negli anni ’70, l’istituzione dell’ordinamento regionale (anch’esso tardivo rispetto alle previsioni costituzionali), viene da più parti interpretato come il primo passo verso la realizzazione della c.d. Repubblica delle autonomie, onde si ritiene essere ormai prossima anche la riforma del sistema locale, ma così non sarà ed il disegno riformista resterà solo a metà, legittimando le critiche di quanti definiranno ”ambigua e incerta” la proclamata autonomia di comuni e province13. In seguito, le molteplici istanze politico-costituzionali, sociali ed economiche metteranno il legislatore dinanzi alle evidenti necessità di riformare l’ordinamento locale, in risposta alle continue trasformazioni della società ed alla rivendicazione di autonomia da tempo avanzata dai corpi locali e fortemente avvertita nell’intero sistema14. Questa impostazione si è ovviamente rafforzata con l'evoluzione del diritto positivo, in particolare allorquando – a partire dalla Legge n. 142/90 – si è espressamente sancito, nel quadro di una configurazione dell'autonomia dei comuni e delle province maggiormente in sintonia con il principio fondamentale dell'art. 5 Cost., il riconoscimento di un potere sia statutario che regolamentare degli enti locali, finalizzato soprattutto alla autoregolazione dell'organizzazione e dei procedimenti interni, nonché del funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione. La legge 142/90 rappresenta così il possibile avvio del funzionamento di un sistema istituzionale complesso, caratterizzato da distinti punti di formazione degli indirizzi politici che devono trovare nuovi equilibri tra i diversi livelli istituzionali. In questa prospettiva lo Statuto si pone quale strumento giuridico ideale per l’apertura della “stagione delle autonomie”. Con l’attribuzione della potestà statutaria e regolamentare, infatti, si materializza e valorizza l’intuizione del costituente, offrendosi finalmente ai minori enti territoriali,

Contenuto e limiti di un dovere, in AA.VV., Gli Statuti comunali (Guida per la formazione) (a cura dell’ANCI), Bergamo, 1990, I, 27. Sulla rilevanza e sul significato del riconoscimento delle autonomie locali nella costituzione repubblicana, soprattutto, ESPOSITO, Autonomie locali e decentramento amministrativo art. 5 della Costituzione, in ESPOSITO, La Costituzione Italiana. Saggi, Padova, 1954, 67 ss.; GHIANI, L’autonomia degli enti pubblici territoriali minori secondo la Costituzione, in Il Corr. Amm., 1957, 2177 ss.; GESSA, Le autonomie locali nella Costituzione, in F. Amm., 1970, 759 ss.; BOZZI, Le autonomie locali e la Costituzione, in Scritti per M. Nigro, Milano, 1991, I, 55 ss. 13 In tal senso, STADERINI, I principi costituzionali delle autonomie locali: in presenza davvero di un guscio vuoto ?, in N. Rass., 1987, n. 6, 678 ss. 14 “La legge n. 142 riesce a soddisfare l’esigenza di autonomia, fortemente avvertita, quale antitesi al secolare immobilismo centralizzatore e quale caratteristica dell’ordinamento repubblicano”, così ROMANO, Il nuovo Consiglio comunale e i suoi primi adempimenti, in Amm. It., 1990, 867.

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l’occasione per ritrovare il proprio ruolo nell’organizzazione dello Stato, assurgendo al rango di ordinamento autonomo, munito cioè di una effettiva autonomia politica, amministrativa ed istituzionale. Con gli articoli 2 e 4 della L. 142/1990 si esplicita la portata del previgente art. 128 Cost., nel senso di riconoscere a Comuni e Province il potere di adattare, con propri statuti, la normativa generale alle differenti e specifiche realtà locali. La svolta della L. 142 è stata in seguito ripresa e implementata da una serie di interventi di riforma riguardanti, a vario titolo, l'amministrazione e le istituzioni locali, in particolare dalla l. 59/97, nel cui art. 2 è stata significativamente sancita una generalizzata autonomia regolamentare degli enti locali per la disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni ad essi attribuite, nonché dalla legge n. 265/99, che ha circoscritto i limiti al potere normativo degli enti locali ai soli principi espressamente stabiliti dalla legge, con ciò ampliando notevolmente la ratio e la potenziale portata delle regole autonome. Infine il nuovo testo unico sull'ordinamento degli enti locali n. 267/2000 ha ribadito la previsione sia del potere statutario che regolamentare da considerare 'riservato' a comuni e province, nell'ambito di una sorta di minigerarchia locale15 delle fonti in cui il regolamento deve naturalmente rispettare non solo i principi fissati dalla legge ma anche lo statuto. Infatti, l’art. 3, comma 4, del T.U. prevede, per gli enti locali, accanto ad un’autonomia organizzativa e amministrativa, impositiva e finanziaria, una autonomia normativa, intesa quale potere di produrre norme che, come tali, si impongano ai cittadini appartenenti alla comunità che l’ente stesso rappresenta. L’esercizio di tale forma d’autonomia, che deve ovviamente svolgersi in maniera soggettivamente (quanto ai destinatari delle norme) e territorialmente limitata, si concretizza in un potere autonomo di porre norme (in parte) svincolato dal rapporto di attuazione o esecuzione di precedenti disposizioni di legge. L’autonomia normativa si estrinseca nell’autonomia statutaria, che è il potere dell’ente di porre in essere il proprio Statuto, e nella potestà regolamentare, che consente all’ente locale di emanare regolamenti disciplinanti determinate materie. L’art. 1, comma 3 T.U. individua nei soli principi della legislazione statale in materia di ordinamento egli enti locali e di disciplina delle funzioni ad essi conferite, il limite all’esplicazione della potestà normativa statutaria. Quest’ultimo articolo, tuttavia, va opportunamente riletto alla luce della riforma costituzionale del 2001, che novellando l’art. 114 Cost., al comma 2, prevede che i Comuni e le Province (oltre che le Città metropolitane e le Regioni) siano enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Con tale formulazione non solo per la prima volta viene ancorata alla Costituzione il fondamento dell’autonomia

15 Cfr. G.C. De Martin, La funzione statutaria e regolamentare degli enti locali, dattiloscritto, p. 2, nel corso del convegno promosso dall’Università di Palermo – Trapani, 3 maggio 2002

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statutaria degli enti locali, ma altresì si configurano i principi desumibili dalla Costituzione stessa quale unico limite alla sua esplicazione. 3. Natura giuridica dello Statuto Il testo unico n. 267/2000, attuale normativa vigente, ma che dovrà essere revisionato, in seguito alle modifiche apportate dalla riforma costituzionale e dalle leggi finanziarie degli ultimi anni, già al terzo comma dell’art. 1 (il quale, a sua volta, ripete esattamente il testo dell’art. 4, c. 2-bis della L. 142/90, come sostituito dalla L. 265/99) chiarisce che “la legislazione in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell’esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa”. E’ poi precisato che l’entrata in vigore di nuove leggi che enunciano tali principi, abroga automaticamente le norme statutarie con essi incompatibili e, conseguentemente, è stabilito che gli enti locali devono adeguare i rispettivi statuti entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette. Lo statuto, come del resto avvertiva il ministero dell’interno nella circolare interpretativa della Legge 265/199916, diventa così una nuova fonte del diritto per l’ordinamento degli enti locali. Non è agevole, tuttavia – come testimonia l’ampio dibattito che si sta sviluppando in materia – individuare con precisione il contenuto e i limiti di tale autonomia. E’ chiaro – e sul punto non sembra ci siano incertezze – che gli statuti degli enti locali siano una tipica espressione di autonomia, ma anche che essi sono comunque subordinati alla legge ordinaria, della quale devono rispettare i principi. Dalla stessa lettura della norma che disciplina, nell’ambito del testo unico, la materia statutaria17, si evince chiaramente che il legislatore ha inteso attribuire allo statuto il valore di fonte diversa dalla legge, ai cui principi è ancorata e dai cui principi è limitata. Indubbiamente lo statuto comunale e provinciale, quale fonte del diritto locale, costituisce una fattispecie del tutto atipica, con caratteristiche sue proprie, che la differenziano notevolmente non solo dalle altre fonti conosciute nel nostro diritto positivo, ma altresì dagli altri atti di espressione del potere di normazione secondaria (i regolamenti), peraltro

16 La circolare del ministero dell’interno 7 gennaio 2000, n. 1, espressamente afferma che, a seguito dell’entrata in vigore della Legge 265/99, si assiste ad un ampliamento dei contenuti statutari e regolamentari e, soprattutto, ad una diversa collocazione dello statuto nel sistema delle fonti di produzione normativa, sicchè “… le norme locali sono vincolate alle leggi dello Stato che contengono i principi inderogabili in materia di ordinamento degli enti locali, ma non sono subordinate alle altre leggi statali in materia”. 17 “Lo Statuto, nell’ambito dei principi fissati dal presente Testo Unico, stabilisce le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio. Lo statuto stabilisce, altresì, i criteri generali in materia di organizzazione dell’ente, le forme della collaborazione fra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini alle informazioni ed ai procedimenti amministrativi, lo stemma e il gonfalone e quanto ulteriormente previsto dal presente Testo unico” (art. 6, 2° co., D. Leg.vo n. 267/2000).

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anch’essa riconosciuta agli enti locali, come si avrà modo dire esaustivamente nel prossimo capitolo. Sotto il profilo del rapporto tra norme ordinarie e potestà normativa attribuita agli enti locali, è stato sostenuto che le norme di legge sarebbero normalmente derogabili da parte degli statuti locali18; più precisamente, è stato rilevato che la citata norma del T.U. (art. 6, citato in nota 19) che riconosce a comuni e province la potestà statutaria nell’ambito dei principi fissati dalla legge deve essere intesa nel senso che una disposizione di legge costituisce limite alla predetta potestà statutaria solo se qualificabile come norma di principio19. A tale ultimo riguardo, va precisato che norme di principio vincolanti per la potestà statutaria saranno, innanzitutto, per espressa qualificazione del legislatore, tutte quelle contenute nel testo unico. Devono, in particolare, ritenersi vincolanti le norme che distribuiscono la competenza tra gli organi dell’ente. Esse non configurano una mera articolazione interna di competenze ma rappresentano attuazione diretta del più generale principio di responsabilità e di distinzione tra indirizzo e gestione dell’ente20. L’autonomia statutaria, quindi, non può spingersi fino a innovare nell’ordine delle competenze degli organi fissate dalla legge. Va, invece, escluso che principi-limite dell’autonomia statutaria possano essere contenuti in leggi regionali. Circa la natura dello statuto, si ritiene esatta la qualificazione di esso come fonte sub primaria, per evidenziarne la diretta legittimazione costituzionale ed il suo potere di deroga anche a determinate materie primarie (ossia alle norme di non principio)21. Per quel che riguarda l’esatta individuazione dell’oggetto degli statuti, si richiama, in proposito, l’art. 6.2 del Testo Unico. Dispone detta norma che lo statuto, nell’ambito dei principi fissati dal testo unico stesso, stabilisce le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio. Lo statuto stabilisce, altresì, i criteri generali in materia di organizzazione dell’ente, le forme di collaborazione fra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell’accesso dei cittadini, alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, oltre allo stemma e al gonfalone e a quanto ulteriormente previsto dal T.U. La formulazione riportata, dunque, porta ad escludere che il legislatore abbia inteso assegnare allo statuto soltanto la formulazione delle norme fondamentali per l’organizzazione dell’ente, come pure era possibile ritenere sulla base dell’originaria formulazione della corrispondente norma (art. 4) della L. 142/90. La stessa elencazione delle tematiche tipiche dello statuto, contenuta nel richiamato art. 6, ha dunque un valore meramente esemplificativo, come si deduce, tra l’altro, dall’espressione, “in particolare”, che la precede. 18 Così L. Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali, Rimini, 2000, p. 178 19 Cfr. F. Staderini, Diritto degli enti locali, Padova, 1999, p. 181. Vedasi, inoltre, Oliveti, in Commento al T.U. in materia di ordinamento degli enti locali, Rimini, 2000, p. 60 ss. 20 Come ha riconosciuto il Consiglio di Stato, cfr. Sez. V n. 191 del 19 febbraio 1998 21 Cfr. F. Staderini, op. cit., p. 77

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Pertanto, sembra di poter concludere che la sede statutaria legittimamente si presta anche ad operare una selezione e graduazione delle finalità e delle funzioni dell’ente (oltre quelle previste in via generale dalla legge), idonea a caratterizzare anche ideologicamente l’amministrazione locale; tale conclusione, del resto, appare coerente con la stessa concezione che la Costituzione e la legge hanno di comuni e province, enti esponenziali della propria comunità , in quanto tali autorizzati anche ad adeguare la propria azione alle specifiche necessità che la collettività e la concreta situazione richiedono. Semmai, sempre restando nell’ambito organizzativo, ci si è chiesto se la potestà statutaria possa ricomprendere anche la previsione di altri organi o di ulteriori e diversi poteri oltre quelli espressamente loro riconosciuti. Al riguardo non sembra possibile prospettare soluzioni di carattere generale. Il criterio fondamentale che deve guidare l’interprete discende dalla distinzione tra organizzazione meramente interna e con rilevanza esterna. La prima rientra naturalmente nell’autonomia organizzatoria dell’ente locale; per gli organi di rilievo esterno, invece, il principio di legalità assume una valenza maggiore ed importa un più diretto riferimento alla legge, per cui non sarà consentito in sede statutaria istituire nuovi organi, oltre quelli espressamente previsti, né modificare le attribuzioni o più genericamente il ruolo che siano stati loro conferiti direttamente dalla legge. Diversamente si può riconoscere allo statuto una sorta di competenza attuativa e di necessaria integrazione delle disposizioni legislative, che consenta di specificare meglio ciò che è implicito nel sistema legislativo. La concezione suesposta dell’autonomia statutaria è stata ribadita e rafforzata dalle recenti riforme; si richiama nuovamente, al riguardo, il disposto dell’art. 1.3 del T.U., il quale prevede espressamente che la legislazione interessante l’ordinamento degli enti locali indichi in modo esplicito i principi ritenuti inderogabili dall’autonomia locale. Non sarà, quindi, più possibile opporre all’esercizio di tale autonomia l’esistenza di norme che non siano presentate espressamente come principi, né l’esistenza di principi che non siano stati soltanto desunti in via interpretativa dal sistema complessivo. L’entrata in vigore di questi principi inderogabili comporterà l’abrogazione delle norme statutarie incompatibili; resta salvo in ogni caso (anche in assenza di una disciplina statutaria sul punto) l’obbligo di adeguare, cioè di recepire o di rendere conformi gli statuti ai nuovi principi nei successivi 120 giorni. 3.1 Caratteristiche dello Statuto dell’ente locale Lo statuto dell’ente locale, ed in particolare quello dei Comuni e delle Province, presenta le seguenti caratteristiche. a) Lo statuto è un atto necessario. Vi possono essere dei momenti in cui gli

enti, Comune o Provincia, non hanno ancora uno statuto, ma la deliberazione dello statuto è il naturale risultato dell’attività di questi enti, forniti di autonomia statutaria. E’ quindi nella logica del sistema che enti forniti di autonomia statutaria abbiano uno statuto, nel senso che se

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un ente ha un’autonomia statutaria, questo ente deve necessariamente avere uno statuto autonomo22.

b) Oltre che atto necessario, lo statuto è unico ed esclusivo, nel senso che non può riferirsi altro che ad un ente e solo a questo23.

c) Lo statuto è poi veritiero, almeno nel senso che deve indicare esattamente i fini istituzionali dell’ente. E’ infatti dallo statuto che si deducono le finalità dell’ente24, e, quindi, per vari aspetti, la sua natura pubblica o privata, la sua posizione rispetto ad altri enti, ecc. Si potrebbe obiettare che talune norme dello statuto sono generiche, e contengono sovente promesse di carattere politico non facilmente realizzabili. Ma l’obiezione non sarebbe persuasiva. Infatti, un ente può avere delle finalità proiettate nel tempo, ma sono queste, e non altre, le finalità di questo ente. Oltre a ciò, lo statuto contiene le norme fondamentali per l’organizzazione dell’ente, e l’organizzazione delineata nello statuto è l’organizzazione reale, e quindi veritiera, dell’ente. Lo statuto costituisce, quindi, la fedele immagine dell’ente e deve indicare esattamente lo scopo o gli scopi dell’ente, che possono avere rilievo ai fini della qualificazione dell’ente stesso.

d) Lo statuto comunale e provinciale ha poi la caratteristica della stabilità, nel senso che esso è destinato a disciplinare stabilmente l’organizzazione, la struttura e l’attività dell’ente Comune e Provincia.

e) Ma la caratteristica più importante dello statuto di Comuni e Province è quella di essere un atto normativo. Tale qualificazione prescinde dal momento genetico, dove lo statuto si presenta come il risultato di una “contrattazione” fra forze politiche, e pone invece in luce lo statuto sotto l’angolo visuale della sua natura giuridica. Lo statuto non è quindi un negozio, o un atto amministrativo. La natura normativa degli statuti dei Comuni e delle Province si deduce, oltre che dal riconoscimento costituzionale e dal testo unico, anche dalla considerazione che essi possono avere efficacia nei confronti di coloro che non li hanno deliberati, né sono componenti dell’ente Comune o Provincia, ma che vengono a trovarsi a contatto con la sfera giuridica dell’ente stesso. Lo statuto non è, quindi, una disposizione interna.

f) Quanto detto sopra appare confermato dall’altra caratteristica sostanziale degli statuti comunali e provinciali, che è quella di rappresentare un quid nuovo e diverso, rispetto alle regole dell’ordinamento generale. Infatti, la norma statutaria comunale e provinciale disciplina l’organizzazione dell’ente in modo nuovo e diverso da come sono o possono essere disciplinati altri simili enti o gruppi organizzati. Ne deriva che lo statuto comunale e provinciale è un atto

22 Così V. Italia, Lo statuto dell’ente locale dopo la L. 265/1999, Milano, 1999, p. 9 23 Così il Cons. Stato, I, 35, 18 gennaio 1949: “Lo statuto di un’opera pia non essere che unico, anche se l’ente abbia più fini”; ed ancora, cfr. LEVI, Sull’approvazione degli statuti pubblici, in Riv. Dir. Pubbl., 1938, p. 10: “Lo statuto di unte pubblico si riferisce solo ed esclusivamente all’ente che esso regola”. 24 Cfr. Cons. Stato, 9 febbraio 1960, n. 1263: “la finalità di un ente va stabilita in base allo statuto e non già in base agli scopi da esso in pratica perseguiti, in difformità dallo statuto stesso”

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normativo, rivolto ad uno scopo determinato, ed il cui contenuto è nuovo e diverso da quello stabilito, dalle regole di diritto comune pubblico (o anche privato), per altri enti dello stesso genere.

4. Lo statuto dell’ente locale nel sistema delle fonti … 4.1 … dopo la legge 265/1999 Lo statuto non è annoverato tra le fonti del diritto dall’art. 1 delle disposizioni sulla legge in generale. L’assenza è dovuta a ragioni storiche giacché lo statuto come fonte normativa degli enti locali nasce solo con la legge 142/90 che, sotto tale aspetto, porta a compimento il disegno costituzionale che vuole comuni e province autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica (art. 128 Cost.). L’autonomia, infatti, comporta come prioritaria componente la capacità di darsi «regole proprie», ma tale concetto era ancora sconosciuto al legislatore del ’42 che limitava la capacità di autodeterminazione dell’ente locale ad una potestà regolamentare di mera esecuzione. Ovviamente l’assenza di previsione non significa negare allo statuto natura di fonte del diritto, sia pure limitatamente all’ambito di efficacia dell’ordinamento dell’ente locale che lo assume, ma impone all’interprete di ricercare la giusta collocazione dello stesso nel sistema delle fonti. I problemi interpretativi nascono dalle peculiarità proprie dello statuto: - dalla sua natura sostanzialmente normativa ma, al pari del regolamento, formalmente amministrativa; - dal suo essere sovraordinato al regolamento, ma subordinato alle leggi pur nell’ambito dell’autonomia comunque riconosciutagli ed insita nella locuzione «nel rispetto dei principi della legge» (art. 4 comma 2 legge 142/90) e nel fatto che la sua fonte legittimante è la stessa legge 142/90, legge di principio immodificabile se non per espressa previsione (art. 1 L. 142/90). Sostanzialmente le posizioni dottrinarie sul punto possono essere ricondotte principalmente alle seguenti: - statuto come fonte subprimaria. Tale collocazione è attribuita allo Statuto da quanti pongono l’accento, oltreché sulla sua sovraordinazione al regolamento e subordinazione ai soli principi di legge, sulla sua natura specificamente «politico-normativa» (e non semplicemente normativa), che gli deriva da alcune peculiari caratteristiche: la maggioranza particolarmente qualificata necessaria per adottarlo, che richiede il coinvolgimento di larga parte del consesso consiliare e dunque anche della minoranza (a differenza di quanto richiesto per i regolamenti, con la giusta eccezione espressamente introdotta dall’art. 11 comma 1 L. 265/99 per il regolamento sul funzionamento del consiglio); l’entrata in vigore che avviene, superato il controllo del CO.RE.CO., con la pubblicazione sull’albo pretorio senza bisogno di recepimento nella legge statale (come avviene invece per gli statuti delle regioni ordinarie) e, dunque, senza bisogno di legittimazione «esterna». È da evidenziare che prima della L.265/99 l’entrata in vigore dello statuto conseguiva alla pubblicazione sul bollettino regionale, pubblicazione ancora

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prevista ma con efficacia meramente dichiarativa a seguito della modifica introdotta dall’art. 1 comma 3 L. 265/99. - Statuto come fonte secondaria «rinforzata» ponendo l’accento sulla sua natura innegabilmente amministrativa al pari del regolamento, cui però rimane sovraordinato. Sul punto è da osservare che la subordinazione del regolamento allo statuto è totale anche dopo la riforma realizzata dalla L. 265/99. Infatti, l’art. 5 nuova formulazione rafforza l’autonomia regolamentare solo con riguardo alle leggi giacché stabilisce che l’adozione dei regolamenti debba avvenire non più nel rispetto delle leggi, ma dei principi da queste fissati. La modifica dell’art. 5 non ha invece riguardato il rapporto regolamento-statuto così che la norma regolamentare deve tuttora essere emanata nel rispetto dello statuto e, dunque, non solo dei principi da questo dettati, ma di ogni sua disposizione. - Vi è, infine, chi rigetta tale ripartizione classica per adottare la cosiddetta classificazione per competenza. Lo statuto non può essere classificato secondo il criterio «verticistico» della gerarchia delle fonti, ma secondo quello «orizzontale» della competenza: nei propri ambiti di competenza materiale e territoriale esso è sostanzialmente fonte esclusiva. 4.2 … dopo il Testo Unico 267/2000 L'articolo 1 del testo unico degli enti locali intende determinare quale tipo di fonte sia il testo unico, e quale la portata della disciplina degli enti locali in rapporto alla normativa regionale e nazionale. A questo scopo, assembla e coordina le norme contenute negli articoli 1, commi 1 e 3, 3, comma 2, e 4, comma 2-bis, della legge 142/1990, come novellati dalla legge 265/1999. Il comma 1 introduce, rispetto al testo dell'omologo della legge 142/1990, una differenza testuale estremamente importante proprio per la corretta qualificazione del testo unico, dalla quale derivano conseguenze rilevanti anche sulla controversa questione della forza normativa degli statuti e della loro collocazione nel sistema delle fonti. Infatti, la formulazione dell'articolo stabilisce che “il presente testo unico contiene i principi e le disposizioni vigenti in materia di ordinamento dei comuni e delle province e loro forme associative”. Il testo unico degli enti locali non è solo una legge di principi, ma anche la raccolta di disposizioni in materia di ordinamento di comuni, province e loro forme associative. Proprio sulla qualificazione di sola legge di principi della legge 142/1990 la dottrina si è basata per sottolineare, sia pure con diversa intensità, come la riforma dell'ordinamento degli enti locali abbia attuato in maniera piena l'autonomia di comuni e province, in attuazione del disposti degli articoli 5 e 128 della Costituzione. In particolare, il filone “municipalista”, specie dopo l'entrata in vigore della legge 265/1999, ha sostenuto con forza che in presenza di una legge sull'ordinamento generale degli enti locali che si autoqualifica come norma di principio, l'autonomia degli enti – ed in particolar modo l'autonomia statutaria – incontrerebbe limiti normativi esclusivamente nelle disposizioni di principio, ed in particolare, per il futuro, in quelle espressamente

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qualificate dal legislatore medesimo quali principi inderogabili. Sicchè, al contrario, le norme non di principio (o non qualificare come principio inderogabile) sarebbero pienamente derogabili, o comunque, in quegli ambiti, ampia e sostanzialmente indefinita sarebbe la possibilità per gli enti di introdurre norme con contenuti diversi rispetto a quelli previsti dalla legge25. Per tale ragione, questo filone dottrinale ha qualificato gli statuti come fonte “subprimaria”, collocata immediatamente al di sotto della legge ed al di sopra delle altre fonti generali, ma comunque dotata della forza di derogare a qualsiasi norma di legge, purchè non enunciata dal legislatore quale principio inderogabile26. Dall'altro versante, altri autori nel sottolineare a loro volta che la riforma dell'ordinamento degli enti locali ha attuato e riconosciuto effettiva autonomia alle comunità locali, hanno rilevato come l'autoqualificazione della legge come di “principio” non fosse di per sé sufficiente a riconoscere agli enti un'amplissima possibilità di derogare alla legge medesima, ritenendo gli statuti fonte pur sempre secondaria, subordinata alla legge, quanto meno nella parte in cui essa, lungi dal prevedere norme di principio (siano o meno derogabili) detta discipline di dettaglio, e quindi cogenti. Secondo questo orientamento, allora, il problema è semmai rappresentato dalla capacità effettiva del legislatore di emanare una normativa che sia realmente di principio e non di diretta normazione degli aspetti organizzativi e gestionali della vita degli enti. La legge 265/1999, novellando l'articolo 4 della legge 142/1990, ha ivi introdotto il comma 2-bis, trasfuso nel comma 4 dell'articolo 1 del testo unico, nella disposizione in esso contenuta secondo la quale la legislazione in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell'esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa. Questa disposizione, letta in combinato con l'autoqualificazione della legge 142/1990 come sola legge di principio, ha rafforzato nella dottrina “municipalista” l'opinione di un'affrancazione della normativa statutaria dai vincoli della legge e di una conseguente esaltazione dell'autonomia locale, ben raffigurabile nella rappresentazione del rapporto esistente tra legge e norme locali non in termini di gerarchia, bensì di competenza. Sicchè nelle materie assegnate alla competenza della normativa locale essa avrebbe acquisito forza di legge e generale capacità di derogare alla legge. Il Ministero dell'interno si è decisamente pronunciato in questo senso, con la circolare 7.1.2000, n. 1, secondo la quale si rileva, per effetto della riforma della legge 265/1999 “l'ampliamento dei contenuti statutari e regolamentari ma anche e soprattutto, una diversa collocazione dello statuto nel sistema delle fonti di produzione normativa”, sicchè “le norme locali sono vincolate alle leggi dello Stato che contengono i principi inderogabili in materia di ordinamento degli enti locali, ma non sono subordinate alle altre leggi statali in materia”. 25 Cfr. L. Oliveri, Lo statuto nella gerarchia delle fonti in relazione alle disposizioni del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, (dattiloscritto), p. 1, in www.lexitalia.it 26 Cfr. L. Oliveri, Lo statuto nella gerarchia delle fonti in relazione alle disposizioni del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, (dattiloscritto), p. 1, in www.lexitalia.it

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Non è mancato chi27, lungo questo filone, ha ritenuto che nel silenzio del legislatore le disposizioni di legge sarebbero generalmente derogabili da parte della normativa locale, sicchè il comma 4 dell'articolo in esame autorizzerebbe statuti e regolamenti locali ad operare in deroga alla legislazione statale, ponendo un'eccezione alla disposizione contenuta nell'articolo 4 delle preleggi, secondo il quale i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi. Questa autorevole opinione è certo degna di attenzione, soprattutto perché contribuisce all'evoluzione del sistema delle autonomie locali. Tuttavia appare necessario contenere la radicalizzazione di un'opinione verso le estreme conseguenze della medesima28. La stessa formulazione dell'articolo 1, comma 1, del testo unico consente di inquadrare il rapporto tra legge sull'ordinamento degli enti locali e fonti normative di competenza di questi ultimi in modo diverso. Infatti, il testo unico oltre a contenere i principi, contiene anche “disposizioni” in materia di enti locali. Si ha una conferma testuale da parte del legislatore delegato della circostanza innegabile che la legislazione sull'ordinamento degli enti locali, nonostante si fosse qualificata di principio, contiene pur tuttavia regole cogenti, appunto disposizioni. Secondo i dizionari per disposizione si deve intendere un ordine inteso sia come ordine spaziale (ad esempio il disporre libri negli scaffali), sia come comando, precetto. La disposizione, allora, si presenta come fattispecie del tutto diversa dal principio, che invece è ciò che sta alla base, a fondamento di qualcos'altro. Autorevole dottrina29 ha definito il principio nel campo giuridico una disposizione normativa importante, basilare, fondamentale, dalla quale dipendono, come corollario, altre disposizioni normative secondarie o di dettaglio. Pertanto, dal principio derivano una o più conseguenze: in questo caso è l'ente, sulla base della propria autonomia, che può scegliere quale corollario applicare al principio, introducendo una norma speciale, tipica del suo specifico ordinamento interno. In presenza di una disposizione, invece, non v'è spazio per una disciplina che non sia di esecuzione o di completamento, senza possibilità di scelte derogatrici o alternative. La formulazione dell'articolo 1, comma 1, del testo unico, allora, ammette che l'ordinamento degli enti locali non è composto solo da principi, ma anche da disposizioni cogenti e di dettaglio. Che in quanto tali, pur non essendo principi inderogabili, non possono certo essere modificate, né ammettere norme secondarie in deroga. Pertanto, rispetto a norme che dettano disposizioni, l'articolo 4 delle preleggi non può certamente ritenersi disapplicato, ma sempre pienamente operante, nei confronti dei

27 Cfr. L. Vandelli, Nuovo ordinamento degli enti locali e status degli amministratori, ed, Maggioli, Rimini, 1999, pag. 44 28 Cfr. L. Oliveri, Lo statuto nella gerarchia delle fonti in relazione alle disposizioni del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, (dattiloscritto), passim, in www.lexitalia.it 29 Cfr. V. Italia, Statuti: al via le operazioni di restyling, in Il Sole 24ore n. 327 del 29.11.1999, pag. 34

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regolamenti locali30. Ma lo stesso vale anche per gli statuti i quali possono stabilire norme interne “nell'ambito dei principi fissati dal presente testo unico”, come prescrive l'articolo 5, comma 2. Questa norma, essendo presenti nel testo unico anche disposizioni cogenti, allora va intesa non nel senso che dovendosi intendere tutte le norme contenute nell'ordinamento degli enti locali “principi” lo statuto possa sempre e comunque introdurre norme diverse e al limite derogatorie: può farlo solo laddove la norma sia effettivamente un principio. Non può, invece, in presenza di una disposizione. Un esempio può essere utile per comprendere la diversa forza normativa dello statuto a seconda della norma con la quale abbia a confrontarsi. Non vi è dubbio che la previsione contenuta nell'articolo 51, comma 2, della legge 142/1990, trasfusa nell'articolo 107, comma 1, del testo unico, introducendo il principio della separazione delle funzioni di indirizzo e controllo da quelle gestionali sia appunto una norma di principio. Gli enti locali in conseguenza di questo principio avrebbero dovuto attraverso gli statuti ed i regolamenti applicare a detto principio il corollario dell'assegnazione ai dirigenti di tutti gli atti gestionali, secondo le modalità da essi individuate. Successive disposizioni di legge, dal D.lgs 77/1995 alla legge 127/1997, al D.lgs. 80/1998, intervenute per dare contenuto attuativo al principio in realtà si sono sostituite all'inerzia degli enti locali, che non applicando in pieno la previsione della separazione delle funzioni, hanno sostanzialmente demandato al legislatore il compito di individuare (sia pure comunque solo esemplificativamente) le specifiche competenze della dirigenza e le modalità di esplicazione delle medesime. E', invece, indubitabilmente disposizione di dettaglio e cogente quella contenuta nell'articolo 47, comma 1, del testo unico in materia di composizione delle giunte. La legge, in questo caso, ha fissato la struttura della giunta, lasciando agli statuti il solo spazio per individuare il numero concreto dei componenti, a seconda della dimensione demografica. La legge, pertanto, ha esaurito praticamente tutta la potestà normativa esistente in questo ambito, sicchè gli statuti o i regolamenti non potrebbero introdurre legittimamente alcuna deroga. Dunque, non si può concordare con chi ritiene che lo statuto o i regolamenti (per le materie di propria competenza) possano derogare alla legge quando essa non disponga norme di principio; occorre specificare con chiarezza che se la norma non di principio è una disposizione, essa è vincolante per fonti secondarie quali lo statuto o i regolamenti31. Anche in assenza dell'espresso riferimento alle disposizioni contenuto nel comma 1 dell'articolo le valutazioni fin qui esposte avrebbero avuto comunque fondamento, in quanto, come insegna la Corte Costituzionale, la natura della norma (principio o disposizione) va comunque desunta dall'analisi specifica del suo contenuto. E le disposizioni cogenti di legge non possono comunque considerarsi non vincolanti.

30 Cfr. L. Oliveri, op. cit., p. 2 31 Cfr. L. Oliveri, op. cit., p. 3

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Sarebbe in ogni caso stato eccessivo ritenere anche in assenza della precisazione introdotta dal testo unico che la legge 265/1999 avrebbe avuto l'effetto di introdurre un'eccezione all'articolo 4 delle preleggi. La migliore dottrina32 sottolinea da sempre che la deroga è il fenomeno tipico attraverso il quale una fonte anche subordinata ad un'altra introduce rispetto ad una norma di principio un'eccezione, una disposizione speciale che sottrae particolari fattispecie alla disciplina generale dettata dal principio, per assoggettarle alla diversa disciplina derogatoria. La deroga, in quanto norma speciale convive con la regola generale che non viene pertanto abrogata e conserva, anzi, valore suppletivo, nel senso che opera finchè non sia emanata una disposizione speciale diversa. In ogni caso, la norma-principio riprende vigore non appena per qualsiasi causa la deroga cessi. La deroga permette alla fonte speciale di disciplinare la specifica fattispecie in modo diverso, ma non contrastante con la norma-principio: è ammissibile che l'atto di deroga disponga una regola diversa la quale però non può essere in contraddizione col principio cui fa riferimento, ma deve essere compatibile con la regola generale dettata dal principio. Nel caso della separazione delle competenze tra organi politici e dirigenti, il Consiglio di stato33 ha ritenuto che lo statuto possa introdurre una disposizione speciale che, in attuazione di detto principio, assegni ai dirigenti la competenza ad adottare il provvedimento di costituzione in giudizio. Si tratta di una deroga (almeno per chi ritenga che tale competenza sia rimasta in capo alla giunta comunale) compatibile però col principio di separazione. Al contrario, il Tar Puglia-Bari34 ha negato che lo statuto possa attribuire agli organi politici competenze gestionali, perché in tal caso la norma speciale statutaria si porrebbe in contrasto col principio della separazione delle funzioni. La norma in deroga non può, pertanto, dettare una disciplina contraria, incompatibile col principio generale. In questo senso, allora, la norma, subordinata o subprimaria che sia, non può <<contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi>> ovvero deve obbedire alla previsione di cui all'articolo 4 delle preleggi, rispetto al quale la legge 265/1999, allora, non avrebbe introdotto alcuna eccezione. E se ciò è vero per quanto riguarda il rapporto tra norma di principio e norma in deroga, ancora più evidente lo è per quel che concerne norme dispositive, che prevedono ovvero disposizioni, ordini. Non a caso, infatti, l'articolo 4 delle preleggi vieta proprio il contrasto tra regolamenti (o fonti secondarie intese anche in senso lato) e <<disposizioni>> delle leggi. Pertanto, in presenza di norme dispositive gli statuti e i regolamenti non possono che essere considerati alla stregua di norme di esecuzione o di completamento.

32 Cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II ed. Cedam, Padova, 1984; V. Italia, I problemi dello snellimento del procedimento amministrativo alla luce della Bassanini ter - l'attribuzione di funzioni ai responsabili degli uffici o dei servizi <<in deroga ad ogni diversa disposizione>>, in L'amministrazione Italiana, ed. Barbieri Noccioli, n. 10/1998 33 Cfr. sentenza sez. IV, n. 1164 34 Cfr. sentenza sez. II 23 marzo 2000, n. 1248

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Allora, la forza innovatrice degli statuti in particolare deve essere graduata a seconda del tipo di norma che ne presuppone l'operatività: è minima in presenza di disposizioni; è un po' più ampia in presenza di principi inderogabili, rispetto ai quali non può dettare mai, comunque, enunciazioni contrastanti; è ancora maggiore in presenza di norme che non siano disposizioni o principi inderogabili; è massima quando la legge, sul modello delle norme dispositive derogabili di diritto privato, assegni alla sua disposizione la forza di regolare una certa disciplina finchè non venga dettata dallo statuto una disposizione differente, al limite anche contrastante. Poiché deve esistere però un vasto spazio normativo per gli enti locali per attuare pienamente l'articolo 128 della Costituzione, è compito del legislatore autolimitarsi e ridurre al minimo indispensabile il contenuto dispositivo-cogente delle norme sull'ordinamento degli enti locali, per ricorrere il più possibile a norme di principio o norme espressamente derogabili, lasciando così sufficiente spazio ad un'effettiva autonomia normativa locale. Il significato del comma 4 dell'articolo 1 appare proprio questo: non consiste nell'assegnazione allo statuto di una diversa collocazione nelle fonti e di una particolare forza di resistenza alle disposizioni di legge, bensì avere affidato allo stesso legislatore l'obiettivo di disciplinare l'ordinamento degli enti locali soprattutto attraverso principi35. Con l'ulteriore obbligo, qualora intenda considerarli inderogabili, di enunciarli come tali, ovvero di rendere esplicita l'impossibilità per statuti e regolamenti di prevedere una normativa diversa e contrastante, sì da limitare le incertezze applicative derivanti dall'interpretazione. Fermo restando che, in ogni caso, sarà la magistratura ad individuare la regola interpretativa da adottare di volta in volta. Sulla base delle considerazioni sin qui svolte, si può concludere che gli statuti non abbiano assunto una collocazione nella gerarchia delle fonti diversa da quella propria delle norme secondarie sia pure atipiche, né che il rapporto tra legge e statuto sua configurabile in termini di competenza. Infatti il rapporto di competenza si presenta quando la disciplina delle fonti escluda una certa fonte da un certo ambito, per riservare ad altra fonte la competenza a dettare regole in quell'ambito medesimo. Vi deve essere, allora, una netta linea di confine tra il potere normativo di due diverse fonti, perché si escluda l'operatività del principio gerarchico. Ma quando sulla medesima materia più fonti possono intervenire per disciplinarla, quella di rango superiore conserva sempre la possibilità di limitare le fonti inferiori, dettando nuove regole. Nessuna norma, né di rango costituzionale, né ordinario, ha però assegnato in linea generale agli statuti ambiti od oggetti riservati. Nell'ordinamento degli enti locali si rinviene qualche norma che assegna espressamente allo statuto il compito di disciplinare una certa materia, dando vita al contenuto obbligatorio o facoltativo dello statuto. Ma per lo

35 Cfr. L. Oliveri, op. cit., p. 4

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più si tratta di norme a completamento della disciplina normativa, non di <<devoluzione>> della competenza. Per tale ragione è da ritenere che sebbene la legge 265/1999, e di conseguenza il testo unico che ne riprende le norme, abbiano aumentato lo spazio dell'autonomia statutaria imponendo al legislatore di regolare l'ordinamento degli enti locali attraverso norme di principio, non sembra si possa affermare che gli statuti non siano più fonti subordinate gerarchicamente alla legge. Anche l'affermazione contenuta nella richiamata circolare 1/2000 del Ministro dell'interno secondo la quale le norme statutarie non sono subordinate che alle norme di principi in materia di ordinamento degli enti locali, appare allora da mitigare e temperare, constatando che esistono leggi generali della Repubblica quale il D.lgs 29/1993 o le leggi finanziarie, che pur non concernendo direttamente l'ordinamento degli enti locali, possono porre principi e disposizioni rispetto alle quali la normativa locale non può non essere adeguata, in particolare se si tratti di norme generali di riforma del sistema amministrativo ed economico. Non si vede come sia possibile, del resto, che le leggi regionali debbano conformarsi alle norme fondamentali di riforma economica sociale, mentre un simile onere possa non incombere sugli statuti, in presenza di leggi generali riguardanti dette materie. La prova che lo statuto resti fonte subordinata è data dall'espressa previsione del comma 4 dell'articolo 1, a mente della quale l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano i principi inderogabili per l'autonomia normativa abroga le norme statutarie con essi incompatibili, ed i consigli hanno 120 giorni dalla data di entrata in vigore delle leggi suddette per adeguare gli statuti. Se il rapporto legge-statuto fosse impostato in base alla competenza, non si avrebbe certamente l'effetto abrogativo delle nuove leggi rispetto alle disposizioni statutarie. Effetto che deve essere riconosciuto anche alle norme dispositive. A questo proposito, occorre dare conto di una tesi dottrinale36 che sostiene che l'incompatibilità tra le nuove leggi di principio e lo statuto non determinerebbe l'immediata abrogazione delle norme statutarie, ma soltanto l'insorgere per l'ente dell'obbligo di recepire i nuovi principi adeguando lo statuto entro 120 giorni. Detta tesi ritiene questa interpretazione maggiormente rispettosa della finalità complessiva della riforma. Ovvero dare maggiore spazio all'autonomia statutaria e perché evita di porre il problema dell'eventuale sanzione che potrebbe conseguire all'inadempimento dell'obbligo di adeguamento dello statuto. Insomma l'effetto <<ghigliottina>> sarebbe posticipato al decorso dei 120 giorni. E' pur vero che il rango degli statuti di fonte specificamente disposta a disegnare non solo l'organizzazione ma anche l'ordinamento interno degli enti locali può ricavarsi, come sostiene la dottrina più recente, dagli articoli 5 e 128 della Costituzione. Ma la Costituzione stessa non individua lo statuto quale fonte di diritto, operazione svolta invece dalla legge

36 Cfr. M. Rubino, Lo statuto comunale nel sistema delle fonti dopo la riforma della legge 265/99, in www.insa-italia.com

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142/1990, prima, e confermata dal testo unico, quali leggi generali della Repubblica in materia di ordinamento degli enti locali. Se da un lato si può riconoscere che la Costituzione abbia inteso assegnare all'ordinamento comunale un ruolo di rilievo costituzionale quale ordinamento giuridico indipendente - nel senso di non subordinato - da quello statale (ma pur sempre omogeneo all'ordinamento generale), tuttavia non sembra di cogliere come conseguenza di ciò che gli statuti siano stati collocati in una posizione paritaria rispetto alla legge. La legge, infatti, è la fonte da cui deriva il riconoscimento dell'autonomia statutaria; ma secondo la dottrina tradizionale37 alla legge è vietato creare fonti aventi efficacia maggiore o uguale a quella propria, potendo invece dare vita a fonti dotate di efficacia minore. E nei confronti di queste la legge, pur conservando il suo ruolo di fonte sovraordinata, può operare una devoluzione normativa, disporre di se stessa consentendo deroghe o diverse discipline, se non addirittura forza abrogativa di altre leggi. E' ciò che avviene con i regolamenti delegati di delegificazione, emanati dal Governo ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 400/88. Anche se, accorta dottrina rileva che neanche nel caso appena citato il regolamento dispone di una propria vis abrogandi. Infatti, si rileva che è la legge delegante ad abrogare la legislazione previgente individuando con disposizione espressa le norme da abrogare, anche se l'effetto è differito all'emanazione del regolamento delegato. La forza derogatoria, allora, delle fonti subordinate, quando è possibile e legittima, non può spingersi fino al potere di disapplicare le disposizioni sovraordinate, a meno che non siano queste a stabilirlo. Ciò vale anche per l'atto amministrativo extra ordinem tipicamente identificato come dotato di forza derogatoria anche nei confronti della legge, ovvero l'ordinanza38. L'ordinamento locale, in sostanza, anche se autonomo, è ancora configurato come ordinamento uniforme proprio perché esistono norme che pongono disposizioni cogenti e principi inderogabili tali da rendere di fatto ancora abbastanza flebile la forza della fonte statutaria di creare un ordinamento locale specifico fortemente tipizzato. Questo è confermato dalla semplice constatazione che la legge 142/1990 nonostante si fosse proclamata legge di principi ha continuato a dettare norme di dettaglio immediatamente precettive per l'ordinamento interno. E' opportuno ricordare che a più riprese la giurisprudenza ha tracciato confini molto ben demarcati sia alla forza normativa degli statuti, sia alla loro potestà derogatoria. Il Tar Umbria39 ha apertamente qualificato gli statuti come atti di normazione secondaria rispetto alla legge; il Consiglio di Stato40 ha considerato illegittima la disposizione di uno statuto comunale con cui si disponeva la sottoposizione delle deliberazioni della giunta all'esame del consiglio, posto che in tal modo si sarebbe introdotta una forma ulteriore di controllo sui provvedimenti della giunta, in aperta 37 Cfr. Zagrebelsky, Il sistema delle fonti del diritto. Manuale di diritto costituzionale, ed. Utet, Torino, pag. 5 38 Cfr. L. Paladin, Diritto costituzionale, ed. Cedam, Padova 1998, pag. 131 39Cfr. sentenza 23 aprile 1996, n. 176 40Cfr. sentenza Sez. V, 23 novembre 1996, n. 1408

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violazione dei criteri di riparto delle competenze tra organi, nonché un inammissibile controllo di merito sulla giunta41. Alcuni autori hanno criticato queste posizioni giurisprudenziali. In particolare42 si è ritenuta la sentenza del Tar Emilia Romagna - Bologna, (sez. I, 15 ottobre 1993, n. 472) che ha ritenuto inammissibile per lo statuto prevedere un ampliamento delle ipotesi di delega sindacale ai sensi dell'articolo 38 della legge 142/1990 in quanto è la legge statale la fonte di attribuzione delle competenze agli organi, occorrendo sempre una necessaria conformità degli statuti alle norme di legge nonostante gli statuti possano operare nell'ambito dei principi della legge. Detta dottrina ha ritenuto questa posizione giurisprudenziale gravemente penalizzante l'autonomia dell'ente. Ma proprio nel caso della possibilità del sindaco di utilizzare l'istituto della delega il problema consiste nell'esatta qualificazione della norma di legge. L'articolo 38, trasfuso nell'articolo 53 del testo unico, non può essere certo visto come norma di principio, in quanto è evidentemente una disposizione di dettaglio, poiché descrive minutamente i casi nei quali la delega è esercitatile ed i soggetti cui può essere rivolta, esaurendo, dunque, la disciplina della delega. Questa norma non essendo un principio, ma una disposizione, non può essere considerata derogabile o integrabile o modificabile dallo statuto; poiché la norma ha direttamente determinato la disciplina, lo statuto non deve né conformarsi, né non conformarsi, ma semplicemente non può intervenire, essendogli stato sottratto spazio normativo. E' probabilmente criticabile una disposizione del genere, in quanto certamente sottrae spazi all'autonomia locale. Ma la critica alla norma non può portare a ritenere che lo statuto possa contenere una disciplina in deroga per ciò solo43. Né l'indagine sulla forza normativa dello statuto può far sostenere che esso abbia la forza di derogare alla legge quando ciò sia valutato opportuno o necessario da parte degli organi politici, come avviene proprio per l'istituto della delega, ampiamente <<rivendicato>> come metodo di distribuzione degli incarichi politici e sistema organizzativo dei vertici amministrativi, pur in mancanza della norma di legge che la consenta espressamente. Appare strano che, invece, per fattispecie rispetto alle quali aprioristicamente si ritiene lo statuto non in grado di dettare una disciplina differente, si accettino acriticamente interpretazioni miranti a garantire l'uniformità <<comunque>> dell'ordinamento degli enti locali, pur trattandosi indubitabilmente di norme di principio. E' il caso del disposto dell'articolo 109, comma 2, del testo unico, derivante dall'articolo 51, comma 3-bis, della legge 142/1990. Esso stabilisce che il sindaco possa attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari nei comuni privi di qualifiche dirigenziali: siamo in presenza di una norma non di dettaglio, ma di un principio che quindi potrebbe essere applicato in modo eterogeneo. Ma in

41 Per una più completa rassegna di sentenze in merito, si rinvia a V. Italia, Lo statuto dell'ente locale, ed. Giuffrè, Milano 1999, pagg. 49-55 42 Cfr. T. Groppi, L'ordinamento dei comuni e delle province, ed. Giuffrè, 2000, Milano, pag. 124 43 Cfr. L. Oliveri, op. cit., p. 6

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questo caso è noto che la dottrina maggioritaria e lo stesso Ministero dell'interno con la circolare 4/98, abbiano negato qualsiasi spazio all'ordinamento interno di ciascun ente di operare, attraverso lo statuto, la scelta di non affidare le funzioni dirigenziali ai funzionari, definendo in modo diverso l'assetto istituzionale tra comuni di dimensioni diverse. Interpretazione, questa, basata a sua volta su un principio - quello della separazione delle funzioni - che però, guardando alla lettera della norma, si potrebbe in astratto considerare derogato non dallo statuto o dal regolamento, ma dalla disposizione di legge che con quel <<può>> consentirebbe in realtà al sindaco di scegliere più di una strada operativa. E', per la verità, da considerare corretto non consentire nell'ordinamento degli enti locali un assetto interno differenziato tra enti. Eppure in realtà amministrative nelle quali v'è una maggiore tensione all'autonomia, come in Germania, si assiste al fenomeno di una forte caratterizzazione degli specifici e singoli ordinamenti interni, addirittura anche in relazione alle norme sulle elezioni degli organi. Ed in parte questo è previsto anche dall'ordinamento degli enti locali italiano, ad esempio per i municipi: infatti, la legge lascia amplissimo spazio all'autonomia per disporre quali e quanti organi eleggere e scegliere se nominare i componenti col voto a suffragio universale diretto o con la nomina di secondo grado. Ma in questo caso, così come nel sistema tedesco, l'ampia libertà all'autonomia statutaria deriva dalla legge, non è <<data>> a priori. Non si vede perché in nome dell'autonomia si consideri derogabile una norma dispositiva quale quella sulla delega, e non derogabile una norma di legge che in realtà di per sé è una deroga. Occorre, evidentemente, coerenza anche nell'interpretare le norme e qualificarle come principi o disposizioni. Da questo punto di vista sarà importante che il legislatore si attenga al disposto del comma 4 dell'articolo 1 del testo unico, provvedendo davvero ad enunciare di volta in volta i principi considerati inderogabili. L'esempio cui si dovrebbe fare riferimento è dato dall'articolo 108 del D.lgs 77/95, trasfuso nell'articolo 152, comma 4, del testo unico. In realtà la norma del testo unico ha invertito la tecnica di individuazione delle norme inderogabili. La norma del D.lgs 77/1995, infatti, aveva espressamente dichiarato quali tra le norme in esso contenute dovessero considerarsi principi inderogabili, consentendo espressamente agli enti di disapplicare le altre norme, recando una disciplina differente nel regolamento di contabilità. L'articolo 152, comma 4, del testo unico, invece stabilisce che tutte le previsioni in materia di contabilità contenute nel testo unico siano da considerare principi inderogabili, individuando, invece, espressamente le norme che è possibile disapplicare con una disciplina differente da parte del regolamento di contabilità. In apparenza il risultato è lo stesso; in realtà l'articolo 108 del D.lgs 77/1995 era più fedele all'impostazione dell'articolo 1, comma 4, del testo unico, perché il legislatore deve indicare espressamente quali norme sono da considerare principi inderogabili e non le previsioni rispetto alle quali è consentita una disciplina differente. Stabilire in linea generale che tutte le norme sono principi inderogabili non risponde appieno al dovere di

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enunciare, di indicare ovvero analiticamente, quali norme abbiano tale natura, di talchè in sostanza si finisce per limitare la potestà normativa decentrata e per non risolvere il problema interpretativo della corretta individuazione delle norme di principio. Infatti, un'enunciazione così generale come quella proposta dall'articolo 152, comma 4, del testo unico non può esimere l'interprete dall'indagare se realmente la norma, al di là del nomen iuris, contenga un principio. Il comma 5 dell'articolo in esame ripropone la clausola di rafforzamento dell'ordinamento degli enti locali, già presente nell'articolo 1, comma 3, della legge 142/1990. Tale disposizione impone alle leggi della Repubblica di derogare alle disposizioni del testo unico solo mediante modifica espressa delle sue disposizioni. E' noto che la dottrina ha ampiamente criticato questa disposizione: si tratta, infatti, di un autoqualificazione della norma quale legge rinforzata, contraria al già citato orientamento degli studiosi tendente ad identificare nel sistema delle fonti il principio del divieto per le leggi di creare fonti a sé pariordinate o sovraordinate. L'esperienza ha insegnato che spesso il legislatore non ha tenuto in conto la clausola di rafforzamento contenuta nella legge 142/1990. In presenza, tuttavia, di un testo unico, appare maggiormente necessario ed opportuno che ogni eventuale riforma legislativa non avvenga in modo episodico, e sia mirata a modificare espressamente quanto previsto dal testo unico, affinchè esso permanga tale il più a lungo possibile nel tempo. A conferma del ruolo centrale che il testo unico intende acquisire, esso stabilisce all'articolo 5, comma 2, che lo statuto definisce le norme fondamentali dell'ente non più nell'ambito dei principi fissati dalla legge, come da ultimo aveva previsto la legge 265/1999, bensì nell'ambito dei principi fissati dal testo unico medesimo. Il che starebbe a significare che anche i successivi interventi legislativi, perché limitino ed indirizzino l'attività statutaria, dovranno necessariamente operare una riforma espressa del testo unico. 4.3 … dopo la legge 3/2001 La costituzionalizzazione che ora è stata operata dalla l.c. n. 3/01 sia di statuti che di regolamenti degli enti locali ha, dunque, come antefatti tutta questa serie di vicende, che confermano in certo modo un dato di continuità tipico della realtà delle istituzioni locali. Per altro verso, tuttavia, va sottolineato che è mutato – e non di poco – il quadro di riferimento generale dell'autonomia locale in cui si inserisce anche il riconoscimento costituzionale del potere normativo di comuni e province, poiché il nuovo orizzonte del Titolo V sviluppa appieno le potenzialità dell'art. 5 Cost. e dà vita ad un sistema di istituzioni territoriali di diverso livello parivalenti, nell'ambito di una nuova statualità in cui le autonomie territoriali concorrono a plasmare la stessa essenza della sovranità popolare (come ha significativamente riconosciuto la recentissima sentenza n. 106/2002 della Corte Costituzionale)44.

44 Cfr. G.C. De Martin, La funzione statutaria e regolamentare degli enti locali, op. cit., p. 2

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Con il nuovo Titolo V tutto il baricentro del sistema si sposta, non solo sul piano amministrativo, ma anche su quello normativo, a cominciare dal rovesciamento di prospettiva nel rapporto tra il potere legislativo statale e quello regionale, che porta a qualificare la regione come soggetto legislativo generale (e residuale). Al di là delle fonti legislative, appare in ogni caso di particolare rilievo il nuovo quadro delle fonti normative locali, che non possono certo considerarsi – visto tra l'altro il nesso tra gli ambiti materiali di statuti e regolamenti locali con campi strategici per il ruolo di autogoverno dei comuni e delle province – come fonti integrative e accessorie della legge, se non addirittura mero strumento dell'autonomia amministrativa, bensì come espressione di una specifica riserva di un potere di autoregolazione, coperto da una specifica garanzia costituzionale, strettamente connessa con il principio di autonomia tout court (che ha, d'altronde, nello stesso etimo il germe e il fondamento di un imprescindibile contenuto normativo)45. Si tratta indubbiamente di un riconoscimento che si lega ad un ruolo proprio – e quindi insostituibile - delle fonti locali, che sono da considerare quindi le uniche ora abilitate a disciplinare determinati oggetti o comunque a dettare un certo ambito di disciplina. Semmai si pone in modo nuovo un problema di collocazione degli statuti e dei regolamenti locali nel sistema delle fonti, partendo dalla matrice di democraticità-sovranità popolare indubbiamente da riconoscere a questi strumenti normativi, che entro certi limiti dovrebbero poter certo essere anche opponibili alla legge (ferma restando, ovviamente, la impossibilità per fonti non legislative di disciplinare aree oggetto di riserva assoluta di legge). Il nuovo sistema delle fonti giuridiche, per avere una classificazione logica, deve partire da quanto stabilito dall’art. 114 della Cost. ove è scritto “La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato (comma 1). I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione” (comma 2). L’ aver collocato il comune e la provincia (ed anche la città metropolitana) sullo stesso piano giuridico costituzionale delle regioni e dello Stato, quali istituzioni pubbliche - elementi costitutivi della Repubblica - vuol dire assegnare una pari dignità giuridica formale e sostanziale a tali enti locali, che soprattutto nel caso dei comuni preesistono allo Stato moderno e di diritto, oggi sovrano nella sua personalità di diritto pubblico internazionale, e quindi, riconoscere alla communitas naturale il valore di soggetto titolare del diritto di emanare norme giuridiche vincolanti erga omnes la propria comunità territoriale46. Infatti, l’autonomia (autos nomos) si estrinseca con lo “ statuto”, con i “poteri” e con le “funzioni” tutti “propri”. Trattasi di poteri pieni ed esclusivi ed opponibili a terzi, da parte delle istituzioni locali, che agiscono in nome e per conto delle loro comunità, che 45 Cfr. G.C. De Martin, La funzione statutaria e regolamentare degli enti locali, op. cit., p. 2-3 46 Cfr. V. Papadia, La riforma del titolo V, parte II, della Costituzione, alla luce della l.c. n. 3/2001, effetti sugli statuti e sui regolamenti degli enti locali: nuovo assetto delle fonti giuridiche, in Comuni d’Italia, settembre 2002, p. 1107

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si sono espresse direttamente con il voto democratico, ad investire di poteri, i legittimi rappresentanti, quale espressione della sovranità popolare (artt.1 e da 18 a 54, Cost. e legge 81/93). Da ciò discende che gli unici limiti a norme statutarie, poteri e funzioni di comuni e province (e città metropolitane) sono quelli dei “principi fissati dalla Costituzione”, senza nessun altra riserva di legge né assoluta né relativa, fatto salvo, appunto, quanto già stabilito dalla stessa Costituzione per la potestà esclusiva dello Stato sul sistema elettorale, gli organi e sulle funzioni fondamentali (art.117, comma 2, lett. p) Cost). Sicchè, lo statuto dei comuni e delle province (e delle città metropolitane) è di pari rango dello statuto delle regioni, la cui specialità di cinque di esse, (Friuli - Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Val d’Aosta) non potrà più, in futuro, estrinsecarsi verso gli enti locali, come per il passato, in forza dei precedenti statuti costituzionali, a pena di violazione delle norme dell’art. 114 della Cost. Da ciò discende che i limiti per gli statuti autonomi degli enti locali sono, in generale, gli stessi, di quelli posti a base della potestà legislativa e concorrente delle regioni. Ovviamente tenendo conto della competenza territoriale in tutto ciò. In buona sostanza i vincoli sono di due ordini:

- esterni; - interni.

I vincoli esterni trovano limite: - nell’ordinamento comunitario; - negli obblighi internazionali.

Sicchè, la potestà statutaria, dei singoli consigli degli enti locali, esercitata nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Ma si deve rammentare che tali limiti esterni alla sovranità della Repubblica sono dati dalla stessa Costituzione; che, li fa propri, con l’art.10, comma 1, che stabilisce che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute” nonché con l’art.11, comma 1, che consente “in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento, che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni. In tale quadro si inseriscono i regolamenti europei, che sono norme precettive di immediata applicazione, per l’Italia nonché i trattamenti internazionali e le direttive dell’U.e., che hanno bisogno di essere recepite per essere attuate nell’ordinamento interno italiano, ma che comunque conservano una presunzione di legittimità costituzionale iuris et de iure, salvo errato recepimento e attuazione, che rileverebbero sotto il profilo costituzionale47. Per quanto attiene ai limiti interni posti ipso iure agli enti locali, questi sono gli stessi posti alle regioni. In particolare si tratta di osservare:

- la libera circolazione delle persone e delle cose tra le regioni (e tra gli enti locali) (art.120, comma 1, Cost.);

47 Cfr. G. Arrigo, L:P:A:, n.1, Milano, 2002, pagg.103/128

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- l’esercizio del diritto al lavoro (artt. 2 e 4, Cost.) in qualunque parte del territorio nazionale (art. 120, comma 1, Cost.);

- la tutela dell’unità giuridica (art. 5, Cost.) ed economica (artt. 35/47, Cost.) ( art.120, comma 2, Cost.);

- la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili (artt. 13/28 Cost.) e sociali ( artt. 29/34 Cost.);

- il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario ( artt. 23 e 52, Cost.) ( art. 119, comma 2, Cost.).

In tale quadro, dove le funzioni degli enti locali sono storicizzate ed ampliate, dopo le leggi Bassanini, (d.lgs. 112/96, 114/98 e segg.), non v’è bisogno di atti interposti dello Stato, per quanto di sua competenza, e delle regioni, per quanto di loro competenza, poiché sino a quando questi non si pronunciano per proprio conto, la legislazione vigente e i principi di buona amministrazione e le funzioni amministrative si detengono ed il resto si desume, in quanto ai principi dettati dalla Costituzione vigente, in analogia a quanto in passato sentenziato dalla Corte costituzionale (23.3.1983, n.69; 19.9.1984, n.290; 12.7.1985, n.214)48. Il tradizionale primato della fonte legislativa – che già era stato messo in discussione prima della recente riforma costituzionale per quanto riguarda il rapporto con le fonti normative di comuni e province – deve ora sempre più fare i conti con il ruolo specifico degli statuti e con l'ambito materiale entro certi limiti riservato alla fonte regolamentare49. D'altra parte, va anche osservato che le previsioni di poteri normativi, sia statutari che regolamentari, delle autonomie locali sono da considerare senz'altro immediatamente operative, ossia autoapplicative: non c'è quindi bisogno di alcuna ulteriore previsione o intermediazione legislativa per poter attuare il nuovo quadro di riferimento costituzionale relativo alle funzioni normative degli enti locali, anche se qualche commentatore e financo qualche sede istituzionale sembra attardarsi a prospettare ipotesi di questo genere50. Semmai può essere opportuno, in tale intervento legislativo, precisare sia il regime di immediata 'cedevolezza' della legge a fronte del subentro della fonte locale, sia, per altro verso, il regime transitorio di applicazione delle vigenti norme statali e regionali fino all'emanazione dei regolamenti locali.

48 Cfr. B. Caravita, La costituzione dopo la riforma del titolo V; G. Giappichelli Ed., Torino, 2002, pagg.39/54 e 127/139. 49 In tal senso significativa è, ad esempio, la ricostruzione di A. Ruggeri, La ricomposizione delle fonti in sistema, nella Repubblica delle autonomie, e le nuove frontiere della normazione, intervento svolto al convegno su La funzione normativa di Comuni, Province e Città metropolitane nel nuovo sistema costituzionale, Trapani 3-4 maggio 2002 e di una lezione tenuta all’Università di Macerata, nell’ambito del ciclo su Nuove prospettive per il sistema delle fonti, organizzato da A. Simoncini, 17 maggio 2002, il quale prospetta, nella Repubblica delle autonomie, il superamento del modello 'legicentrico' e una nuova ricomposizione delle fonti in sistema secondo una logica di 'integrazione' delle competenze e di garanzie della integrità dell'autonomia 50 V., ad esempio, la relazione al disegno di legge governativo promosso dal Ministro La Loggia, nella quale si pretenderebbe di 'attribuire' con legge la nuova potestà statutaria e regolamentare

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Quello che si può, inoltre, aggiungere è che certamente e a maggior ragione non può essere in alcun modo immaginata, dopo la riforma costituzionale, una qualche forma di relazione gerarchica tra i regolamenti statali o regionali e quelli locali: lo impedisce, oltre che la ratio di quanto già osservato in ordine al valore delle nuove fonti rafforzate di autonomia, anche la impostazione sistematica del sesto comma dell'art. 117, nel quale emerge con evidenza la voluntas del legislatore costituzionale di operare un riparto per materia in ordine alle varie fonti regolamentari (statali, regionali e locali), evitando ogni logica di prevalenza formale di una categoria di regolamenti sulle altre51. 4.4 … dopo la legge 131/2003 Per inquadrare la “nuova” potestà statutaria, occorre muovere dall’ art. 4 della Legge 131/2003, che si propone come”attuazione dell’art. 114, secondo comma, e dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione in materia di potestà normativa degli enti locali”52. Per la verità è dubbio che le suddette previsioni costituzionali richiedano una norma di legge ordinaria (statale) per la loro attuazione53, anche se la previsione dell’attuazione di disposizioni costituzionali attraverso leggi ordinarie non è nuova. Ad esempio, gli statuti speciali delle Regioni prevedevano norme di attuazione (Sicilia, articolo 43; Sardegna, articolo 56, Trentino Alto Adige (1972) articolo 107, ecc.). Per questo aspetto la norma va letta in collegamento con l’art. 2 della L. 131/2003, il quale, nel conferire delega al Governo per la individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, prevede che si provveda altresì alla revisione delle disposizioni legislative in materia di enti locali, comprese quelle contenute nel T.U. n. 267 del 2000, per adeguarle alla legge costituzionale n. 3 del 200154.

51 Cfr. G.C. De Martin, La funzione statutaria e regolamentare degli enti locali, op. cit., p.4 52 “L’espressione <<attuazione>> deve essere collegata con l’espressione <<adeguamento>>, che si ritrova nel titolo esterno dello disegno di legge (Adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 3/2001)”. Così V. Italia, in Il nuovo ordinamento della Repubblica. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 (La Loggia), AA.VV., Milano, 2003, p. 232 53 Cfr. A. Corpaci, La potestà normativa degli enti locali. Commento all’art. 4, in Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, (a cura di Giandomenico Falcon), Il Mulino, Bologna, 2003, p. 98, per il quale “la scelta compiuta corrisponde, piuttosto, ad una certa interpretazione della novella costituzionale, in particolare e in primo luogo quanto alla estensione della potestà legislativa statale nelle materie tradizionalmente pertinenti all’ordinamento degli enti locali, nonché ai rapporti tra ordinamento regionale e autonomie locali”. 54 Sostanzialmente il compito che dovrà assolvere il nuovo Testo Unico sarà quello di consentire “una lettura nuova dell’ordinamento degli enti locali, una lettura che non sia rivolta verso il passato – alla ricerca di quello che rimane alla legge statale – ma piuttosto verso il futuro, alla ricerca degli spazi nuovi dell’autonomia statutaria e regolamentare, alle nuove funzioni, agli spazi della legislazione regionale”, così R. Carpino, in Quali

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Se da un lato non è contestabile che la potestà normativa degli enti locali trova oggi in Costituzione un diretto riconoscimento55, non si può negare che specie con riguardo alla potestà statutaria il nuovo testo appare lacunoso, alimentando dubbi sulla necessità o meno di un intervento di disciplina-conformazione da parte della legge ordinaria56. Diversamente dal passato, la condizione di autonomia è oggi definita unitariamente per Regioni, Province e Comuni, e non solo viene proclamata, ma si vuole, anche per questi ultimi, direttamente conformata “secondo i principi fissati dalla Costituzione”57. Trattasi, in questo caso, di disposizioni di principio che sono esplicitate, indicate, stabilite, fissate dalla Costituzione. L’individuazione dei principi fissati dalla Costituzione non può essere svolta secondo un libero criterio interpretativo, ma deve essere radicato necessariamente nella lettera della Costituzione58. Pur essendo circoscritto, il limite della potestà normativa degli enti locali si è molto ampliato. Infatti nelle precedenti leggi59 si prevedeva, per lo statuto, “l’ambito dei principi fissati dalla legge … e per il regolamento, il rispetto della legge e dello statuto”, formula poi modificata con la legge 265/99 nel rispetto “dei principi fissati dalla legge”. Per capire fin dove può spingersi lo spazio normativo degli enti locali rispetto alla carta costituzionale, occorre esaminare quali sono i “principi fissati dalla Costituzione”, che costituiscono i limiti alla potestà locale. Questi principi sono innanzitutto i “principi fondamentali” (dall’art. 1 all’art. 12), che rappresentano gli elementi costitutivi del sistema dell’ordinamento costituzionale60. In particolare, l’articolo 5 costituisce il necessario punto di

modifiche per il testo unico degli enti locali, in www.federalismi.it, p. 1. 55 Cfr. tra gli altri S. Mangiameli, La funzione statutaria e regolamentare delle Istituzioni locali, in La funzione normativa di Comuni, Province e Città nel nuovo sistema costituzionale, a cura di A. Piratino, Palermo, 2002, 151 ss.Di segno opposto, F. Pizzetti, in Legge “La Loggia”. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, AA.VV., 2003, 90, per il quale “la norma merita particolare attenzione perché in realtà il testo costituzionale non parla mai in modo esplicito di potestà normativa di questi enti, ma si limita a specificare che essi sono enti autonomi “con propri statuti” (art. 114, comma 2) e che ad essi spetta la “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. 56 Cfr. A. Corpaci, La potestà normativa degli enti locali. Commento all’art. 4, in Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, op. cit., 99. 57 Questo inciso rappresenta la chiave di lettura essenziale per vagliare l’ampiezza della potestà normativa degli enti locali. L’espressione può essere collegata ad altre espressioni simili che hanno stabilito un limite ad una potestà normativa, sia regionale, sia locale. Ad esempio, vedasi l’art. 117 Cost. (… nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato) oppure alle analoghe espressioni: “principi fissati dalla legge”, contenute negli artt. 6 e 7 del T.U.E.L. 58 Cfr. V. Italia, in Il nuovo ordinamento della Repubblica. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 (La Loggia), AA.VV., op. cit., 234, il quale fa “notare che l’espressione è: “fissati dalla Costituzione” e non “nella Costituzione”: vi deve quindi essere un’esplicita indicazione di norme da parte della Costituzione”. 59 Cfr. articoli 4 e 5 della legge 142/90, comma 2. 60 I principi fondamentali costituzionali rappresentano “il risultato di valutazioni e scelte politiche su tutto l’ordinamento; sono stabiliti dal soggetto che ha il potere di creare e modificare le linee basilari della struttura dell’ordinamento”, così Mortati, Istituzioni di

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raccordo di tutte le altre norme del Titolo V, specialmente quelle di cui agli articoli 117, 118 e 119. La formula “secondo i principi” non esprime un limite circoscritto tassativo, un limite esclusivamente negativo, ma si tratta di un’espressione che indica una banda di oscillazione, uno spazio nel cui ambito può essere stabilito il contenuto della potestà normativa locale, sia statutaria che regolamentare61. Anche per questa ragione, quindi, lo spazio previsto per li statuti ed i regolamenti di Comuni e Province si presenta molto ampio. Infatti, non soltanto questo spazio è circoscritto dai principi fissati dalla Costituzione, ma le modalità di svolgimento della potestà normativa statutaria e regolamentare avvengono “secondo”, “nell’ambito” di questi principi. Ne deriva che statuto e regolamento hanno una loro discrezionalità, operando “secondo” questi principi. Il comma 2 dell’articolo 4 della legge 131/2003 non fa che esplicitare meglio la portata normativa dello statuto comunale, chiarendo che oltre ad essere in armonia con la Costituzione, deve armonizzarsi anche con i principi generali in materia di organizzazione pubblica62. Tra di essi rientrerà quindi, ad esempio, la disciplina dell’accesso (art. 10 t.u.), dell’azione popolare (art. 9 t.u.), l’obbligo della motivazione degli atti amministrativi, la disciplina del personale degli enti locali (nella parte in cui non si debba considerare ordinamento civile). Ma nei limiti dei principi di organizzazione pubblica rientrano ancora le regole per l’azione amministrativa nelle materie di competenza regionale. Tra i principi della Costituzione occorre richiamare quello della piena titolarità delle funzioni amministrative (art. 118 comma 1), dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa (art.119 Cost.), del principio di sussidiarietà (art.118 comma 3)63. Secondo una parte della dottrina, che ne da’ una interpretazione restrittiva, tali principi non sono solo quelli desumibili o fissati dalla Costituzione, ma anche dalla legislazione in materia di organizzazione pubblica64, e quindi non può che trattarsi di principi desumibili dalla legislazione, dal momento che l’articolo 4, comma 2, li tratta come cosa distinta dai principi costituzionali65.

diritto pubblico, Padova 1969, I, 140 ss. 61 Cfr. V. Italia, in Il nuovo ordinamento della Repubblica. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 (La Loggia), AA.VV., op. cit., 240, passim. 62 Cfr. L. OLIVERI Il rispetto della Costituzione come vincolo invalicabile alla potestà normativa di regioni ed enti locali – Effetti della sentenza della Consulta 24.7.2003, n. 274 sull’interpretazione delle disposizioni di cui alla legge 131/2003, in www.lexitalia.it, agosto 2003 63 Cfr. R.Carpino, Quali modifiche per il testo unico degli enti locali, in www.federalismi.it 64 Cfr. L. OLIVERI Il rispetto della Costituzione come vincolo invalicabile alla potestà normativa di regioni ed enti locali – Effetti della sentenza della Consulta 24.7.2003, n. 274 sull’interpretazione delle disposizioni di cui alla legge 131/2003, in www.lexitalia.it, agosto 2003 65 Cfr. L. OLIVERI Il rispetto della Costituzione come vincolo invalicabile alla potestà normativa di regioni ed enti locali – Effetti della sentenza della Consulta 24.7.2003, n. 274 sull’interpretazione delle disposizioni di cui alla legge 131/2003, in www.lexitalia.it, agosto 2003 il che conferma l’insussistenza di un rapporto di competenza tra legge e statuto, in

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Va osservato peraltro che già in precedenza , ai sensi dell'art. 1 comma 3 primo periodo, del T.U. n. 267 del 2000 «la legislazione in materia di ordinamento degli Enti locali e di disciplina dell'esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa» onde -si sottolineava- detto limite non può ricavarsi aliunde, in base a principi generali derivati da altre leggi. Secondo il Ministero dell’interno già con il testo unico ,alla maggiore autonomia attribuita agli enti locali si ricollegava necessariamente l’ampliamento dei contenuti statutari e regolamentari ma anche, e soprattutto, una diversa collocazione dello statuto nel sistema delle fonti di produzione normativa66. Infatti, l’art.1 comma 3 del testo unico prevede che la legge statale indichi «espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per l’autonomia normativa dei comuni», così che per effetto di questa previsione le norme locali sono vincolate alle leggi dello Stato che contengono i principi inderogabili in materia di ordinamento degli enti locali, ma non sono subordinate alle altre leggi statali in materia67. Non mancano, al contrario, interpretazioni che attribuiscono alla legge 131/2003 un significato di maggiore portata. Si tratta, per esempio, delle posizioni dell’Anci68 che ritiene che l’art. 4 della legge 131/2003 è una “disposizione che rafforza il potere statutario e regolamentare dell'ente locale rimarcando la riserva di competenza prevista in Costituzione della potestà regolamentare in ordine alla organizzazione e allo svolgimento delle funzioni amministrative esercitate dell'ente locale”. Il quesito fondamentale che si pone al riguardo, attiene quindi al rango primario o secondario della normativa statutaria, ossia ai rapporti che intercorrono tra lo statuto e la legge. L’interrogativo circa la collocazione degli Statuti nella gerarchia delle fonti torna infatti di estrema attualita’ dopo l’entrata in vigore della legge cost. 3/2001: come noto essa prevede (articolo 114, comma 2, della Costituzione) che "i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione". La copertura costituzionale riconosciuta agli enti locali di un'effettiva autonomia statutaria sembrerebbe garantire maggiore spazio agli enti locali nel normare le materie entro le quali esplicare la propria attivita’, con l’effetto di rendere ampiamente superato il Testo unico degli enti locali ,la cui genesi peraltro trova fondamento in un assetto costituzionale molto diverso. In pratica, come rilevato in dottrina, dopo la Riforma del Titolo V lo scenario per lo statuto cambia: vi è chi ritiene si tratti di una fonte subprimaria, tra legge e regolamento; chi ritiene che l’ordinamento degli enti locali rientri nella potestà legislativa regionale esclusiva; chi ancora ritiene che gli statuti siano una fonte speciale che, in quanto tale, non è

quanto la competenza esclude qualsiasi tipo di influenza di una fonte normativa nell’ambito della potestà normativa di altra fonte. 66 Cfr. MINISTERO DELL’INTERNO CIRCOLARE 7 gennaio 2000, n. 1/2000 67 Cfr. MINISTERO DELL’INTERNO CIRCOLARE 7 gennaio 2000, n. 1/2000 68 Cfr. ANCI ,Nota interpretativa della legge 131/2003, 3 luglio 2003

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subordinata né sovraordinata alla legge ma bensì titolare di un proprio spazio69. 4.4.1 LA COLLOCAZIONE NEL SISTEMA DELLE FONTI DELLO STATUTO. LA TESI DELLA SUA NATURA REGOLAMENTARE E IL PRINCIPIO DI GERARCHIA DELLE FONTI L’opinione prevalente è che lo statuto comunale, al pari di quanto suole normalmente avvenire per gli statuti degli enti pubblici, sia una fonte di grado secondario, e stia pertanto in rapporto di subordinazione gerarchica rispetto alla legge. Va sottolineato che la giurisprudenza immediatamente successiva all’emanazione della 142 aveva respinto la prospettazione circa la pretesa « natura normativa di carattere primario » assunta dagli Statuti comunali: anzi, essa70 aveva apertamente qualificato gli statuti come atti di normazione secondaria rispetto alla legge. Inoltre la stessa «Carta europea dell'autonomia locale», firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985, con l'auspicio del Consiglio d'Europa e recepita nel nostro ordinamento con L. 30 dicembre 1989 n. 439, all'art. 3 riconduce espressamente il concetto di autonomia locale al «diritto» e alla «capacità effettiva, per la collettività locale, di regolamentare ed amministrare nell'ambito della legge... una parte importante di affari pubblici». Pare evidente, perciò, che anche lo standard europeo dell'autonomia locale presuppone uno svolgimento delle funzioni amministrative, da parte degli Enti pubblici territoriali (riconosciuti «autonomi» ), in un sistema di fonti normative, comunque, subordinato alla legge71. 4.4.2 LA TESI DELLA NATURA SUBPRIMARIA O ATIPICA DELLO STATUTO. IL PRINCIPIO DI COMPETENZA E LA C.D. RISERVA DI STATUTO Si vanno diffondendo, tuttavia, quelle correnti di pensiero che sono inclini ad attribuire allo statuto carattere di fonte atipica, di rango sub-primario piuttosto che secondario tout court. Secondo quest’ultima opinione, infatti, lo statuto non ha alcun rapporto di subordinazione né rispetto alle leggi regionali, né tanto meno ai regolamenti governativi. Esso non si pone piu’ come fonte integrativa e accessoria della legge bensì come tributaria di un ambito materiale che in quanto coperto da una specifica garanzia costituzionale costituisce specifica riserva di un potere di autoregolazione, strettamente connessa con il principio di autonomia tout court (che ha, d'altronde, nello stesso etimo il germe e il fondamento di un imprescindibile contenuto normativo)72. Si tratta indubbiamente di un diverso assetto delle fonti che si lega a un riparto di materie stabilito al livello piu’ alto e che costituisce applicazione del principio di competenza normativa: secondo l’Anci esso trova esplicita conferma nell’art.4 della legge 131/2003 che è una “disposizione che rafforza il potere statutario e regolamentare dell'ente locale rimarcando la 69 Cfr. R.Carpino, Quali modifiche per il testo unico degli enti locali, in www.federalismi.it 70 TAR Lombardia Brescia n.796 del 4/7/92, Tar Umbria sentenza 23 aprile 1996, n. 176 71 TAR Lombardia Brescia n.796 del 4/7/92 72 De Martin La funzione statutaria e regolamentare degli enti locali, op. cit., passim

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riserva di competenza prevista in Costituzione della potestà regolamentare in ordine alla organizzazione e allo svolgimento delle funzioni amministrative esercitate dell'ente locale ”73. Non vi è quindi una equiparazione formale tra fonte legislativa e le fonti statutarie e regolamentari locali, ma una diversa suddivisione del lavoro tra le fonti e alle attribuzioni operata dalla Costituzione e dalla legge 131/2003: addirittura gli enti territoriali sono dotati di una autonomia normativa nuova rispetto all’ordinamento costituzionale precedente, in guisa che essi possono comunque esercitarla, anche quando questo conduce all’abrogazione o alla modificazione della normativa statale in vigore […]74. Cio’ implica che al riparto di competenze consegue naturaliter che la normativa statale in vigore è già diventata normativa “cedevole” in tutti quei casi in cui le nuove fonti di autonomia normativa riconosciuta agli enti territoriali possano già oggi determinare la loro modifica o abrogazione75. A confortare tale tesi sembra che militi la previsione contenuta all’art.4 della legge n.131 laddove viene chiaramente ribadito che “…. La disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell’ente locale ……. Fino all’adozione dei regolamenti degli enti locali, si applicano le vigenti norme statali e regionali …..”. 5. L’adozione dello statuto, le forme di pubblicazione e l’efficacia L’art. 6 del T.U. n.267/200076, dopo aver previsto al primo comma che “i comuni e le province adottano il proprio statuto”- chiaramente attribuendo carattere obbligatorio a tale adempimento per i due enti locali territoriali- indica ai successivi commi secondo e terzo il contenuto del provvedimento77 ed infine, agli ultimi tre commi specifica il procedimento per la sua adozione ed entrata in vigore. La particolare importanza dello statuto, il suo carattere di atto fondamentale destinato a regolare stabilmente la struttura dell’ente e ad influenzarne positivamente o negativamente la sua azione successiva, giustificano la richiesta per la sua adozione della maggioranza di due terzi dei consiglieri assegnati. Qualora tale maggioranza non venga raggiunta, la votazione è ripetuta nelle successive sedute da tenersi entro trenta giorni e lo statuto si intende approvato soltanto se ottiene per due volte il voto favorevole della maggioranza assoluta, sempre dei consiglieri assegnati (art.6.4, cit.). Appare evidente da quanto sopra L’intento del legislatore, sia con la previsione di un quorum iniziale così elevato che della successiva 73 ANCI ,Nota interpretativa della legge 131/2003 ,3 luglio 2003 74 ANCI ,Nota interpretativa della legge 131/2003 ,3 luglio 2003 75 Cfr. ANCI, Nota interpretativa della legge 131/2003, 3 luglio 2003 76 Nulla dice l’art. 4, comma 2, della Legge 131/2003 circa la modalità di adozione dello statuto: ciò significa che dovrà procedersi a norma del vigente art. 6 D.lgs. 267/2000. 77 Il terzo comma dell’art.6, in particolare, stabilisce che “Gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della Legge 10 aprile 1991, n.125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti”.

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procedura aggravata, di favorire l’aggregazione di forze politiche diverse, al di là della stretta maggioranza di governo, su un disegno costituzionale unitario. Lo statuto una volta approvato dal consiglio, è sottoposto al controllo di legittimità e ad una triplice forma di pubblicazione: a livello locale, mediante affissione all’albo pretorio dell’ente; a livello regionale, con la pubblicazione nel bollettino ufficiale della regione; a livello nazionale con l’inserzione nella raccolta degli statuti, curata dal ministro dell’interno. L’entrata in vigore dello statuto avviene decorsi trenta giorni dall’affissione all’albo pretorio. Ma nulla osta a che l’efficacia di alcune norme statutarie sia espressamente rinviata a data successiva nel tempo, così come, anche senza esplicito rinvio, la natura programmatica e, quindi, generica e di indirizzo, di alcune disposizioni può rendere indispensabile attendere, per la loro piena operatività, l’entrata in vigore delle successive norme regolamentari, di integrazione e di attuazione; in entrambi i casi sarà necessario darsi carico, ove occorra- in relazione al contestuale venir meno dell’ordinamento vigente- del problema di prevedere un disciplina transitoria. L’art. 59 della Legge 142/90, inserito tra le disposizioni finali e transitorie, prevedeva il termine di un anno per l’adozione dello statuto da parte dei consigli comunali e provinciali. Data la natura chiaramente ordinatoria del termine dell’adozione dello statuto, occorreva domandarsi quali conseguenze potessero ricollegarsi ad una prolungata inerzia dell’amministrazione, essendo inconcepibile che l’ente potesse essere privato indefinitamente di uno strumento fondamentale per il suo funzionamento. Al riguardo sembrava corretta l’opinione che ravvisava nella fattispecie la ricorrenza di una ipotesi di “grave e persistente violazione di legge”, cui, come vedremo, è legata la possibilità di scioglimento del consiglio. In linea di fatto va segnalato che anche il ministero dell’interno ha aderito a questa tesi, provvedendo allo scioglimento di quei consigli comunali( per fortuna non molti) che, trascorso il termine predetto e quello ulteriore comminato in via amministrativa, non avevano provveduto a tale essenziale adempimento. 6. Il contenuto statutario Il secondo comma dell’art. 4 della Legge 131/2003 definisce il contenuto obbligatorio dello statuto locale, vale a dire l’ambito materiale sottratto alla disponibilità di tale fonte, su cui quindi grava l’obbligo di confezionare un’apposita disciplina in ordine a quei profili reputati essenziali per la vitalità organizzativa dell’ente78.

78 Cfr. Q. Camerlengo, Commento all’art. 4, in P. Cavaleri (a cura di), Commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131, in corso di pubblicazione con Giappichelli, Torino, p. 10. Peraltro, G. Rolla, op. cit., oltre a menzionare il contenuto necessario, distingue tra un contenuto facoltativo, identificabile nei casi in cui il t.u.e.l. riconosce a tale fonte la facoltà di disciplinare certi profili, ed un contenuto “praeter legem”, dal momento che “lo statuto può avere un contenuto ulteriore” rispetto a quanto previsto dal citato testo unico. Critico, quanto alla previsione di un contenuto obbligatorio, E. De Marco, voce Statuti comunali e

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Per affrontare il contenuto dello statuto di Comuni e Province, conviene prendere in considerazione una questione di carattere preliminare: se l’elencazione contenuta in questo comma debba considerarsi esemplificativa o non. La risposta più plausibile non può che essere nel primo senso, “sia perché una limitazione di tale portata inciderebbe così gravemente sulla autonomia degli enti da palesarne la evidente illegittimità costituzionale, sia perché quelli indicati appaiono comunque rappresentativi, più che di un elenco esaustivo, di alcuni oggetti”79. Analizzando tale disposizione, sorge immediatamente l’esigenza di recuperare l’omologa disposizione del testo unico80, allo scopo precipuo di abbozzare una comparazione: una curiosità, questa, non fine a sé stessa, dal momento che l’applicazione, astrattamente possibile, del criterio cronologico potrebbe attestare l’avvenuto superamento della disciplina da ultimo stabilita, sul punto, nel 200081. 6.1 La previsione del testo unico degli enti locali L’art. 6 del t.u. recita infatti che “lo Statuto, nell'ambito dei principi fissati dal presente testo unico, stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e, in particolare, specifica le attribuzioni degli organi e le forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze, i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio. Lo statuto stabilisce, altresì, i criteri generali in materia di organizzazione dell'ente, le forme di collaborazione fra comuni e province, della partecipazione popolare, del decentramento, dell'accesso dei cittadini alle informazioni e ai procedimenti amministrativi, lo stemma e il gonfalone e quanto ulteriormente previsto dal presente testo unico”. Il contenuto dello Statuto, la cui adozione resta un obbligo giuridico per l'Ente locale, come appena evidenziato, non è libero, ma è essenzialmente vincolato quanto all'oggetto ed alle finalità, nel senso che esso deve provinciali, in Enc. Dir., IV agg., Milano, 2000, 1145, che lamenta l’accentuato ridimensionamento della potestà statutaria. 79 Cfr. A. Corpaci, La potestà normativa degli enti locali. Commento all’articolo 4, in G. Falcon (a cura di) Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, op. cit., 104, per il quale il dubbio avanzato si stempera alquanto considerando che l’espressione “principi di organizzazione e funzionamento” sostanzialmente corrisponde a quella contenuta nell’art. 123 Cost., con riguardo ai contenuti dello statuto delle Regioni, ed in grado di comprendere nel suo seno gli altri oggetti di seguito indicati. Dello stesso segno, F. Pizzetti, in AA.VV. (a cura di), Legge “La Loggia”. Commento alla L. 5 giugno 2003 n. 131 di attuazione del titolo V della Costituzione, op. cit., 90, il quale sostiene che la novella di cui al comma 2 dell’art. 4 della L. 131/2003 “indica, unicamente a titolo di richiamo, solo il contenuto minimo ma non certo quello massimo dello statuto che ciascun ente si può dare”; ancora, M. Della Torre, AA.VV. (a cura di), Il nuovo ordinamento della Repubblica. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 (La Loggia), op. cit., 243, secondo il quale “nello statuto si possono distinguere un contenuto necessario, in quanto imposto dall’art. 123 Cost., per le Regioni, e dall’art. 6 D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, per gli altri enti locali”, e i “cc.dd. contenuti ulteriori, costituiti da tutte quelle disposizioni di natura teleologica e di carattere programmatico, relative ad altre forme di partecipazione, alla trasparenza, alle finalità sociali, ai metodi di governo”. 80 Cfr. art. 6, D.lgs. 267/2000 81 Cfr. Q. Camerlengo, Commento all’art. 4, in P. Cavaleri (a cura di), Commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131, in corso di pubblicazione con Giappichelli, Torino, p. 10

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contenere le regole rivolte alla determinazione degli aspetti essenziali per l'organizzazione ed il funzionamento dell'Ente medesimo, cioè alla delineazione degli aspetti di fondo di siffatta organizzazione, il cui dettaglio deve essere sviluppato e regolato, ai sensi del successivo art. 7, dai singoli regolamenti di settore . Per quanto concerne il contenuto dello statuto la dottrina appena richiamata è concorde nel riconoscere che vi sono da un lato contenuti obbligatori, dall’altro contenuti facoltativi. I primi, che non possono assolutamente mancare, sono definiti dall’art. 6, comma 2, del Testo Unico Enti Locali (D.Lgs. 267/2000) e sono: - la struttura degli organi di governo: per quanto attiene alla Giunta, spettando allo Statuto determinare il numero degli assessori (entro i limiti massimi stabiliti dalla legge), e prevedere la (eventuale) possibilità di eleggere come assessori cittadini non consiglieri; - le attribuzioni degli organi: pur senza incidere sulle competenze del Consiglio (fissate direttamente dalla legge) e sull’attribuzione alla Giunta della competenza residuale, lo Statuto individua essenzialmente le competenze del Sindaco (Presidente della Provincia), del segretario o dei funzionari dirigenti; - l’ordinamento degli uffici e dei servizi: stabilendo i principi (che dovranno poi essere sviluppati dai regolamenti) per l’organizzazione ed il funzionamento di questi; - le aziende speciali ed istituzioni, per la gestione dei pubblici servizi a rilevanza imprenditoriale (aziende) e sociale (istituzioni): spettando allo statuto determinare le modalità di nomina e revoca degli amministratori; - le “forme di collaborazione” tra comuni e province; - gli istituti di partecipazione popolare: disciplinando i rapporti del Comune con organismi e forme associative di partecipazione dei cittadini all’amministrazione locale; - il decentramento: l’organizzazione delle circoscrizioni per i Comuni, e dei circondari per le Province; - l’accesso dei cittadini agli atti ed alle informazioni di cui l’amministrazione dispone ed ai procedimenti amministrativi; - le norme per l’assicurazione della parità di trattamento tra uomini e donne ai sensi della L. 10.04.1991 n. 125. Per quanto riguarda il contenuto facoltativo è possibile accennare all’eventuale istituzione e disciplina del difensore civico. I contenuti dello Statuto devono essere collocati nell’ambito di un quadro di principi fissati dalla legge che in primo luogo, definisce la tipologia degli organi fondamentali, disciplinandone il relativo modo di elezione. Da ciò discende, quindi, che la funzione fondamentale ed inderogabile dello Statuto è, nell'ambito dei principi fissati dalla legge, quella di regolare le competenze ed i rapporti reciproci tra gli organi dell'Ente, tra questi e le.burocrazie e tra l'apparato dell'Ente ed i cittadini, tralasciando qualsivoglia normativa minuziosa, la cui fonte esclusiva, ancorché subordinata, è il regolamento . 6.2 I contenuti dello Statuto dopo la legge 131/2003

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La legge 131/2003 ha operato una ricognizione di tali contenuti sancendo che (art. 4 comma 2) lo statuto, in armonia con la Costituzione e con i princìpi generali in materia di organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, stabilisce i princìpi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare. Organizzazione e funzionamento sono riferiti all’ente, espressione ampia, idonea a ricomprendere sia il momento costituzionale che il momento amministrativo: quanto al primo, occorrerà definire la struttura, le attribuzioni ed il funzionamento degli organi “legislativi” ed esecutivi di Comuni, Province, Città metropolitane ed altri enti associativi. In particolare, si può integrare il disposto tuttora vigente del D.Lgs. 267/2000, e dunque potrà prevedersi, con riferimento agli uni l’istituzione del difensore civico, la possibilità di forme di decentramento amministrativo, la costituzione di commissioni permanenti e del presidente in sede consiliare nonché le modalità di svolgimento di attività ispettiva da parte dell’assemblea, dei suoi organi interni e dei singoli membri e via dicendo; con riferimento agli altri, potranno essere previste e disciplinate le modalità di esercizio del diritto di accesso e di partecipazione all’attività amministrativa dei cittadini ed in genere i criteri di trasparenza; le modalità per assicurare pari opportunità tra uomini e donne, e via dicendo82. Poco agevole è il riferimento alle forme di controllo, anche sostitutivo: in quanto oggetto di disciplina statutaria dell’ente è evidente che deve trattarsi di forme di controllo interne o, se esterne, rivolte ad enti ed aziende dipendenti dall’ente o strumentali. Il controllo, inteso in senso stretto, può essere tanto sugli atti quanto sugli organi, tanto di legittimitò quanto di merito e, ancora, può essere esercitato tanto sulla base di parametri normativi, quanto su parametri di efficienza, efficacia ed economicità83. Sempre con riferimento al controllo è da sottolineare, in primo luogo, che la Costituzione vedeva (e vede tuttora) con sfavore il controllo di merito, in quanto lesivo dell’essenza stessa dell’autonomia84: pertanto gli statuti non possono prevedere tale forma di controllo85; in secondo luogo, che il TUEL

82 Cfr. M. Della Torre, AA.VV. (a cura di), Il nuovo ordinamento della Repubblica. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 (La Loggia), op. cit., 245 83 Cfr. Barusso, Il diritto degli enti locali, Rimini, 2001, 531; Gulletta-Pavanini, Commento agli artt. 124 ss. D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, 544, in L’ordinamento degli enti locali, a cura di R. Bertolini, Bologna 2002; Italia-Landi-Potenza, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2000, 169 ss.; Ponte, commento agli artt. 124 ss. D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, 581, in La riforma degli enti locali, commento diretto da F. Piterà e R. Bigotti, Torino, 2002; Virga, Diritto amministrativo. Atti e ricorsi, Milano, 1999, 30 ss. E 83 ss.; legge 14 gennaio 1994 n. 20; D.Lgs. 25 febbraio 1995 n. 77. 84 Cfr. Neppi Modana (a cura di), Stato della Costituzione, Milano, 1998, 506; Perlingieri-Carimini, Commento all’art. 127 Cost., in Perlingieri, Commento alla Costituzione italiana, Napoli, 1997. 85 Cfr. M. Della Torre, AA.VV. (a cura di), Il nuovo ordinamento della Repubblica. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 (La Loggia), op. cit., 246.

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contempla la figura del c.d. controllo eventuale, che consente la sottoposizione a controllo di atti determinati su richiesta di un certo numero di consiglieri o sui richiesta della Giunta. Di qualunque forma di controllo si tratti, essendo in grado di incidere positivamente sullo svolgimento dell’attività amministrativa e sulla responsabilità dei titolari degli uffici, lo statuto si limiterà ad individuarne gli organi competenti, le categorie di atti o di attività da sottoporsi a controllo, i tipi di controllo da svolgersi su di essi e le forme di tutela, rimettendo la disciplina specifica ad apposito regolamento. In definitiva si può ben dire che per gli aspetti relativi al contenuto dello statuto l’art. 4 risulti ricognitivo di dati desumibili dalla Costituzione86. 6.3 I limiti all’autonomia statutaria L’esplicita subordinazione dello statuto alla Carta fondamentale, sia pure in termini di “armonia”, è verosimilmente il risultato della suggestione esercitata dall’art. 123 Cost. sugli statuti ordinari87. Si tratta di prendere in considerazione i limiti entro i quali può spaziare l’autonomia statutaria degli enti locali (escluse le Regioni) e delle loro forme associative. Essi sono espressamente costituiti da:

a) armonia con la Costituzione; b) principi generali in materia di organizzazione pubblica; c) potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di disciplina

elettorale, di organi di Governo e di funzioni fondamentali degli enti locali.

Quanto a sub a), il limite della armonia ha una portata sostanziale in quanto destinato non solo ad assicurare il rispetto formale della Costituzione, e quindi la non eludibilità delle disposizioni e degli istituti in essa stabiliti, ma anche il suo rispetto sostanziale, e dunque l’ineludibilità delle norme che da essa si desumono e che valgono a caratterizzarla come democratica e solidale88. Quanto a sub b), sembra più complesso stabilire che cosa debba intendersi con armonia con i principi generali in materia di organizzazione pubblica: da un lato, infatti, se è agevole concepire l’armonia con riferimento a disposizioni e a norme, non altrettanto lo è con riferimento a principi generali, ossia ai criteri, alle rationes inducibili ma non immediatamente desumibili da norme e da disposizioni; dall’altro, si tratta di individuare i

86 Cfr. A. Corpaci, La potestà normativa degli enti locali. Commento all’articolo 4, in G. Falcon (a cura di) Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, op. cit., 104 87 Cfr. Cfr. Q. Camerlengo, Commento all’art. 4, in P. Cavaleri (a cura di), Commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131, in corso di pubblicazione con Giappichelli, Torino, 5. 88 Cfr. M. Della Torre, AA.VV. (a cura di), Il nuovo ordinamento della Repubblica. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 (La Loggia), op. cit., 248.

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confini della materia di organizzazione pubblica89. Sotto quest’ultimo aspetto, la soluzione è facilitata dal limite dell’armonia con la Costituzione: ogni disposizione e ogni norma in essa contenuta, infatti, vale in quanto limite dell’armonia. L’espressione “principi generali in materia di organizzazione pubblica” si presta ad essere adeguata al testo fondamentale intendendola come specificativa della armonia con la Costituzione; in particolare, dell’armonia ai principi generali che la Costituzione detta in materia di organizzazione pubblica, in primo luogo nell’art. 9790 (legalità, buon andamento, imparzialità, competenza, responsabilità, accesso per concorso). Ma anche nell’art. 98 e in tutti quegli articoli, che sarebbe lungo elencare, che presuppongono un tra cittadino e pubblica amministrazione (dalla legalità per le prestazioni economiche e personali fino alla progressività del sistema tributario, dalla tutela della salute alla coerenza con l’utilità sociale dell’iniziativa economica pubblica e privata). Per quanto non discendente direttamente dalla Carta costituzionale, occorre riferirsi alle norme di scaturigine legislativa, quali, ad esempio, alle norme sul rapporto di lavoro pubblico, a quelle della separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestionali, a quelle sulla trasparenza dell’attività amministrativa e della partecipazione del soggetto privato interessato alla stessa. Infine, trattando del sub c), c’è solo da rilevare che spetta alla legge dello Stato, e quindi, al D.Lgs. 267/2000, stabilire quali siano gli organi di governo degli enti locali, le loro funzioni e le modalità della loro formazione91. 7. Il procedimento di approvazione dello Statuto Come detto, con la legge 142/1990 è stata riconosciuta per la prima volta a Comuni e Province la facoltà di dotarsi di propri Statuti, spettando ad essi di approvarli dai rispettivi Consigli a maggioranza dei 2/3 dei membri o, in difetto, per due volte dalla maggioranza assoluta entro un arco temporale di 30 giorni. Il procedimento di formazione dello statuto è quindi tale da distinguerlo nettamente, sul piano formale, dai regolamenti. Lo statuto in primo luogo è approvato dal Consiglio comunale (e provinciale) (mentre questo rappresenta l’id quod plerumque accidit per i regolamenti, con l’eccezione cioè del regolamento di organizzazione che è attribuito alla competenza della Giunta comunale art. 48 comma 3 del T.U.).

89 Cfr. Cfr. M. Della Torre, AA.VV. (a cura di), Il nuovo ordinamento della Repubblica. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 (La Loggia), op. cit., 248 90 Cfr. A. Corpaci, La potestà normativa degli enti locali. Commento all’articolo 4, in G. Falcon (a cura di) Stato, regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, op. cit., 105. 91 Trattasi, infatti, della potestà normativa esclusiva posta in essere dallo Stato in materia di legislazione elettorale, di organi di governo e di funzioni fondamentali degli enti locali (escluse le Regioni).

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In secondo luogo tanto per lo statuto che per le modifiche statutarie, la egge (art. 4, comma 3) richiede la maggioranza qualificata dei due terzi dei consiglieri assegnati; se tale maggioranza non si raggiunge, lo statuto è approvato se, in due sedute successive da tenersi entro trenta giorni, esso ottiene il voto favorevole della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati all’ente locale. Una volta esecutivo, lo Statuto viene affisso all’albo dell’ente locale per trenta giorni consecutivi, entrando in vigore al termine del periodo di pubblicazione; quindi viene pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione e viene trasmesso al ministero degli interni, perché venga inserito nella raccolta ufficiale degli statuti ivi istituita. luglio 2005

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