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CONVEGNO DI STUDI Lo STATUTO dei DIRITTI del CONTRIBUENTE Aspetti processuali e sostanziali (L. n. 212/2000) ROSSANO 15 MARZO 2008 PALAZZO S. BERNARDINO, SALA ROSSA

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CONVEGNO DI STUDI

Lo STATUTO

dei DIRITTI

del CONTRIBUENTE

Aspetti processuali e sostanziali (L. n. 212/2000)

ROSSANO ● 15 MARZO 2008 PALAZZO S. BERNARDINO, SALA ROSSA

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INDICE DELLE RELAZIONI

Avv. Michele Marincolo, Giudice Tributario (CTP Cosenza)..........................................................................4 “Introduzione al Convegno” Prof. Gianni Marongiu, ordinario di Diritto Tributario Università di Genova. .............................................10 “Lo Statuto del contribuente e i vincoli al legislatore”

Prof. Raffaele Botta, Consigliere di Cassazione SS.UU. .............................................................................38 “L’interpretazione dello statuto del contribuente nelle sentenze della Suprema Corte di Cassazione”

Avv. Giuseppe Falcone, già Consigliere di Cassazione SS.UU. ..................................................................49 “L’ interpello e la tutela giurisdizionale del contribuente in ambito statutario” Dott. Antonio Montesano, Notaio in Paola. ................................................................................................63 “La tutela dell’affidamento del contribuente. Profili di rilevanza notarile” Prof. Francesco D’ Ayala Valva, ordinario di Diritto Tributario Università del Molise. ...............................97 “Il garante del contribuente per una buona amministrazione tributaria.”

Avv. Serafino Trento, Avvocato Tributarista del Foro di Rossano. ...........................................................107 “La motivazione degli atti impositivi”

Prof. Antonio Uricchio, docente di Diritto Tributario Università di Bari. ..................................................145 “Le garanzie in materia di illeciti amministrativi e reati tributari”

Avv. Licia Fiorentini……………………………………………… ..........................................................168 “I vizi degli atti tributari e lo statuto del contribuente”

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INTRODUZIONE AL CONVEGNO

AVV. MICHELE MARINCOLO, Giudice Tributario (CTP Cosenza).

La legge n.212 del 27 luglio 2000, più brevemente conosciuta

come “Lo statuto del contribuente”, ha rappresentato un

importante passaggio nel cammino intrapreso dall’amministrazione

finanziaria verso quel processo di cambiamento nel rapporto tra

Stato-cittadino, con l’intento di dare maggiore democraticità e

trasparenza al prelievo fiscale. Un cammino il cui inizio va

sicuramente ricondotto alla legge n. 241 del 7 agosto 1990 (che,

lo ricordiamo, ha introdotto nuove norme in materia di

procedimento amministrativo, di accesso ai documenti e di

semplificazione dell’azione amministrativa). Non a caso

l’articolo 7 dello Statuto, richiama proprio l’articolo 3 della

legge 241 del 1990, elencando tassativamente gli elementi che

l’amministrazione finanziaria deve indicare negli atti ai fini

della motivazione (ancorché tralasci di comminare un’adeguata

sanzione).

Non v’è dubbio che le disposizioni contenute nello statuto

rappresentino una concreta tutela dei diritti economici dei

contribuenti.

Ma, a distanza di otto anni dalla entrata in vigore di questa

legge, sembra lecito porsi una domanda: queste disposizioni

hanno trovato, nel corsi degli anni, effettiva operatività?

Ossia, sono state effettivamente applicate?

Ebbene, la risposta non credo possa essere del tutto positiva;

anzi, al riguardo diverse sono le perplessità ed i dubbi circa

la sua effettiva applicazione.

L’elenco risulterebbe troppo lungo. E’ sufficiente solo rifarci

alle critiche apparse sulla stampa – specializzata e non – di

questi ultimi giorni con riferimento alla recente legge di

conversione del decreto “mille proroghe”, su cui certamente gli

illustri relatori avranno modo di soffermarsi, anche per i

risvolti di rilevanza costituzionale che la legge sicuramente

contiene.

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Pur tuttavia, la consapevolezza che la ratio dello statuto è

rappresentata comunque (per come dicevo) dalla volontà dello

Stato di voler continuare quel percorso di cambiamento nel

rapporto Stato-cittadino, intrapresa con la 241/90, ha spinto

gli organizzatori di questo convegno, a portare l’argomento –

dopo otto anni dall’entrata in vigore della legge –

all’attenzione, non solo degli operatori del diritto tributario,

ma anche e soprattutto della generalità dei cittadini.

Ed, infatti, nello statuto del contribuente c’è una marcata

attenzione del legislatore alle attese del "cittadino-cliente" e

ai criteri di efficienza, di trasparenza e d’imparzialità che

devono necessariamente caratterizzare l’azione amministrativa.

Attese che, però, ripercorrendo questi otto anni, per alcuni

versi, sono andate deluse.

Ed allora, per evitare che il citato cambiamento rimanga

ristretto in ambiti gestionali o procedimentali del diritto

amministrativo e tributario, è necessario compiere

qualcos’altro; è necessario – a mio avviso – che chi è chiamato

a questo compito, svolga un lavoro formativo più efficace e più

incisivo, al fine di favorire una più ampia riflessione sul

diritto che lo Stato ha d’imporre tributi, essenziale, certo,

per la sua sopravvivenza, ma anche sui suoi limiti a fronte dei

diritti di libertà economica dei cittadini, che sono il

presupposto dell’effettiva libertà delle persone e delle

famiglie (cenno alle politiche fiscali di questi anni).

Il prof. Marongiu – per essere stato uno di quelli che più si è

speso per la sua approvazione – ricorderà sicuramente che la

legge 212 era attesa da molto tempo; tanto è vero che il disegno

di legge governativo fu approvato dal Consiglio dei Ministri

nell’agosto del 1996 (Cfr. Senato della Repubblica, atto n.

1286. Va evidenziato che negli ultimi dieci anni si sono

susseguiti numerosi disegni di legge, presentati sia al Senato

della Repubblica — atto n. 1244 del 1994 —, sia alla Camera dei

Deputati: atti n. 5079 del 1990, n. 254 del 1992, n. 1124 del

1992, n. 1125 del 1992, n. 391 del 1994, n. 324 del 1996, n.

4546 del 1998 e n. 4818 del 1998. Il tema ha interessato anche

la dottrina: cfr. Gianni Marongiu, Contributo alla realizzazione

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della "Carta dei diritti del contribuente", in Diritto e pratica

tributaria, vol. LXII, Padova 1991, parte I, pp. 585-636.

E solo dopo quattro anni di discussioni fu licenziato in via

definitiva un testo tuttora in vigore di appena ventuno

articoli, subendo, tra l’altro, durante il cammino parlamentare,

diverse modifiche.

I giudizi di allora, ancorché contrastanti, furono per lo più

positivi.

Chi non ricorda i titoli dei principali quotidiani di

quell’anno: Fisco più umano, pagherà i propri errori (2), Un

Garante del contribuente (3), Maggiori garanzie per i

contribuenti (4), Varato lo statuto del contribuente. Del Turco:

pagherà anche lo Stato (5), Per lo statuto un debutto dimezzato

(6).

Ed a proposito di giudizi, voglio qui richiamare, fra i tanti,

quello espresso dal Consiglio Nazionale dei Ragionieri

Commercialisti, che, nella circolare n. 32 del 2 agosto 2000,

dava atto che la nuova legge fissa "[...] una serie di

disposizioni volte ad assicurare il rispetto dei diritti

fondamentali del contribuente tra cui si possono individuare,

come si legge nella relazione governativa al provvedimento, una

migliore informazione e chiarezza delle norme tributarie,

un’adeguata conoscenza delle conseguenze delle proprie azioni

sul piano fiscale, la speditezza e tempestività dell’azione

fiscale, la semplificazione degli adempimenti e un equo e

regolare svolgimento delle procedure di accertamento" .

Certo, non mancarono anche i giudizi negativi, determinati dalla

mancanza dei decreti di attuazione ma soprattutto dalla sfiducia

di alcuni nella capacità di ricezione e di applicazione, da

parte dell’amministrazione finanziaria, dei princìpi e delle

regole enunciati dalla legge. Ma dobbiamo, però, riconoscere

che, per la prima volta, con lo statuto del contribuente,

vengono raccolte una serie di norme che codificano i diritti dei

contribuenti, interessati all’attività di accertamento e di

riscossione degli uffici fiscali.

Principi, questi, certamente ovvii ed evidenti, dato che sono

già ampiamente disciplinati nella Carta Costituzionale.

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Eppure, c’è chi ha definito tali principi “tanto banali quanto

rivoluzionari”. Evidentemente perché i diritti dei contribuenti

erano stati talmente dimenticati, calpestati e banalizzati da

norme, circolari, sentenze, comunicati stampa, al punto tale da

determinare il legislatore ad avviare una specifica iniziativa

parlamentare che ha portato poi alla emanazione di una magna

carta dei diritti del contribuente: il così detto appunto

“Statuto del contribuente”.

Grazie, quindi, a quella presa di posizione del Legislatore che

oggi possiamo dire che lo Statuto del Contribuente è una legge

dello Stato e quindi una realtà con cui bisogna necessariamente

fare i conti. Una legge che dal punto di vista formale è una

legge – è vero – come le altre, ma che dal punto di vista

sostanziale è sicuramente una legge dal contenuto normativo di

chiaro stampo costituzionale: violare i principi in essa

contenuti vuol dire – a mio avviso – violare la nostra carta

costituzionale.

Si tratta, in buona sostanza, di una legge importante e, per

alcuni versi, molto impegnativa, per la cui effettiva attuazione

ed applicazione è richiesto, da parte di tutti gli operatori, un

quotidiano sforzo culturale.

Il problema è tutto qui.

Questa legge, così come ogni legge, non vale soltanto per quello

che contiene sul piano formale, ma per quanto si radica nella

coscienza dei consociati, per come viene attuata dai

destinatari, che in base ad essa hanno degli obblighi, e anche

per come viene chiesta e invocata da chi in essa trova la fonte

e lo strumento per la difesa dei propri diritti.

E’ questo aspetto che – mi sembra – si debba maggiormente

evidenziare e che riguarda tutti indistintamente (P.A.

contribuenti, operatori del diritto, giudici ecc.).

Si tratta, cioè, di convincersi che una legge di questo tipo,

pur non essendo da sola sufficiente a cambiare le cose,

costituisce però lo strumento per raggiungere una migliore

tutela dei diritti del contribuente.

E’ vero, si potrebbe obiettare: non sono visibili molte sanzioni

nei casi di violazione dello Statuto.

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D’altra parte, si tratta di una legge che enuncia principi

generali, che da un lato individua gli obblighi dei contribuenti

e dall’altro stabilisce i limiti del potere pubblico. Ma

ribadire sempre principi generali, si contribuisce a tenerli

vivi.

Proprio per questo è importante, per la loro effettiva

applicazione, lottare per la loro difesa, sollevare eccezioni

tutte le volte che vengono violati, dinanzi alle Commissioni

Tributarie o più in generale dinanzi agli organi competenti

(penso soprattutto alla figura del Garante – Prof. D’Ayala).

Così facendo, non solo si contribuisce a riempirli di

significato, ma vuol dire anche esserne gelosi custodi e

soprattutto evitarne la desuetudine.

Nel corso della giornata, gli illustri relatori, si

soffermeranno sicuramente sui risvolti pratici avuti

dall’applicazione dello Statuto del contribuente, grazie

all’opera coraggiosa di molti operatori del diritto.

Pensate, per esempio all’eccezione che non manca quasi mai nei

ricorsi e che viene sollevata quasi per abitudine, ossia la

carenza di motivazione degli atti della Pubblica

Amministrazione. Ebbene, c’è voluto l’articolo 3 della legge 241

del 1990 per ribadire questa necessità nei confronti del

cittadino, così come è stato necessario ribadire tale obbligo di

motivazione anche nei confronti del contribuente, quasi non

fosse questi, innanzi tutto, un cittadino.

Eppure, in termini pratici, seppure a fatica, tutto questo si è

tradotto in un obbligo di reale motivazione degli avvisi di

accertamento ed ha portato anche ad un rinnovato “look” delle

cartelle esattoriali, pena la censura in sede processuale da

parte dei giudici tributari.

Quindi, la necessità di rispettare e far rispettare una legge

dello Stato dalla valenza sostanziale rilevante, come quella di

cui oggi ci occupiamo.

Ed a proposito, mi piace fare un parallelo con l’esperienza

della famosa L. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori), la

cui forza normativa ha caratterizzato il mondo del lavoro degli

ultimi trenta e più anni.

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Ma mentre in quel caso il soggetto forte dal quale “tutelarsi” è

il datore di lavoro, nel mondo tributario lo Statuto del

Contribuente serve a difendere la parte contribuente dalla

“prepotenza” dello Stato.

E’ sicuramente singolare essere costretti ad emanare un

articolato di legge per arginare e limitare la Pubblica

Amministrazione nell’esercizio delle proprie prerogative nei

confronti dei cittadini: qui, infatti, i titolari degli obblighi

sono soggetti di diritto pubblico ed il loro eventuale

inadempimento crea obiettivamente maggiori difficoltà

nell’effettiva applicazione della norma.

E le difficoltà verso una effettiva e piena applicazione della

legge 212, nascono, a mio avviso, proprio dal considerare tale

aspetto.

Non v’è dubbio che, sotto tale profilo, lo Statuto del

contribuente ha subìto dei duri colpi a causa degli attacchi da

parte dello stesso legislatore che, pur avendone concepito la

nascita, ne ha poi, in parte e contraddittoriamente, favorito la

disapplicazione, laddove, nel corso di questi anni, ha emanato

leggi finanziarie addirittura con la seguente espressa

previsione: “alla presente legge non si applicano le norme dello

Statuto del Contribuente!”

L’ultima, in ordine di tempo (lo ricordavo prima), è stata

l’approvazione della legge di conversione del decreto c.d.“mille

proroghe”, di cui è inutile riportare i commenti negativi e

quali siano state le reazioni.

Sono questi, purtroppo, cattivi esempi, dati fra l’altro, già

all’indomani dell’entrata in vigore dello Statuto, che, pur

essendo stati tutti stigmatizzati, di fatto fanno capire la

enorme difficoltà per una effettiva applicazione.

Ed allora è giunto il momento (per i giudici, gli operati del

diritto, gli autorevoli studiosi ed esperti della materia), di

dovere necessariamente incidere sul contenuto normativo delle

singole disposizioni, proseguendo quella azione di resistenza e

difesa cui tutti sono tenuti a continuare per vedere, finalmente

ed effettivamente, attuati tutti i principi stabiliti dallo

Statuto dei diritti del contribuente.

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Ecco, perché (e mi avvio alla conclusione), mi auguro che anche

da questo convegno possa chiaramente venire fuori un invito

forte – direi quasi un’esortazione – da rivolgere a tutti gli

operatori del settore, perché la difesa dei diritti dei

contribuenti sia costante e provenga, prima di tutto, dal

legislatore; così come auspico un’altrettanta costante

attenzione (ed anche fermezza) da parte dei giudici tributari

tutte quelle volte in cui sono chiamati a pronunciarsi sulla

violazione di norme della legge 212 del 2000.

E’ così, infatti, che si educano i destinatari di provvedimenti

di legge a rispettarne il contenuto.

PRIMA SESSIONE

RELAZIONE INTRODUTTIVA

Prof. Gianni Marongiu, ordinario di Diritto Tributario

Università di Genova.

“Lo Statuto del contribuente e i vincoli al legislatore”

1. A metà degli anni “80”, riflettendo sullo stato, non buono,

della disciplina dei tributi si richiedeva, almeno, “una nuova

politica legislativa e della codificazione fiscale".

"La legislazione fiscale non può essere - come è stato dopo la

riforma del 1971-1973 - analitica ed enumerativa, per casi e

sottocasi, soprattutto in un sistema che estende la libertà

contrattuale fino ad ammettere i contratti innominati e dunque

l'uso indiscriminato di strumenti civilistici per ottenere

risultati fiscalmente non previsti o previsti con la minima

incidenza fiscale. Lo sforzo di inseguire e fotografare con

norme fiscali i processi reali dell'economia ha creato un

apparato normativo la cui inutilità è data e segnata proprio

dalla sua espansione e che ormai si avvita nella paralisys by

analysis, con effetti di blocco e di ritardo dannosi per

l'economia. La legislazione fiscale deve essere ricostruita per

principi (come era nel testo unico delle imposte dirette del

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1958). Il corpo normativo deve essere raccolto in un nuovo testo

unico che non può essere una raccolta delle norme esistenti per

i vari tributi ma che deve contenere una parte generale di

regolazione degli istituti generali e, dunque, comuni ai vari

tributi"1.

In sintesi, all’esigenza della semplificazione applicativa e

amministrativa si affiancava l’altrettanto impellente necessità

dell’arresto della profluvie normativa e della stabilizzazione

dell’ordinamento tributario per evitare che le leggi tributarie

si riducessero a dei “palinsesti di norme incapaci di

sopravvivere alla annuale legge finanziaria”2.

La maggiore trasparenza e conoscibilità delle norme, si

soggiungeva, avrebbe, ovviamente, interagito anche sugli

adempimenti formali onde “semplificazione”, “trasparenza”,

“stabilità” divennero la formula sintetica per coloro, che, da

posizioni di minoranza, intendevano agevolare la realizzazione

della pretesa fiscale.

Obiettivi che rimasero tali ancora per alcuni anni se, nella

relazione al Senato a un disegno di legge costituzionale del

1992 (relativo a una possibile “Carta dei diritti del

contribuente”), si legge: “L’attuale sistema tributario è sempre

più condizionato dalle soluzioni, peraltro sempre più precarie e

di emergenza, immaginate dalle forze di governo per far fronte

ai problemi posti dalla “crisi fiscale dello Stato”.

“In tale contesto è opportuno riportare al centro

dell’attenzione l’esigenza di una piena realizzazione dei

diritti dei cittadini nella coscienza che il “contratto sociale”

delle moderne società si regge essenzialmente sul “patto

fiscale”, patto che implica “diritti” e “doveri” reciproci dello

Stato e del cittadino. In tal modo si può meglio comprendere che

praticare una politica dei diritti non significa affatto

trascurare il momento della “responsabilità” individuale o

collettiva. Il presente disegno di legge prospetta quindi una

“Carta dei diritti del contribuente”.

1 La relazione è pubblicata in Il foro it., 1986, V, col. 119. 2 Così G. MARONGIU, Le riforme tributarie a “costo zero” in Riv. trim. dir. pubbl., 1989, p. 378.

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“La nostra proposta di legge mira essenzialmente a mettere

ordine e a restituire correttezza al rapporto tra cittadino e

amministrazione tributaria anche al di là dei limiti in cui ciò

è reso possibile dall’applicazione all’area tributaria dei

principi fissati nella recente l. 7 agosto 1990, n. 241, sul

procedimento amministrativo.

“L’esigenza di realizzazione di una Carta dei diritti del

contribuente appare oggigiorno indiscutibile, specie se si

considera che la legge n. 241 del 1990, nel dettare nuove norme

in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi, ha

espressamente ribadito che la pubblica amministrazione ha

l’obbligo di improntare la propria azione a “criteri di

economicità, di efficacia e di pubblicità”, così come ha

generalmente garantito in maggior misura la tutela dei diritti

civici nei confronti dell’azione amministrativa.

“Il dato principale dal quale occorre muovere è che il vigente

sistema fiscale incentra la fase di accertamento dei

procedimenti tributari sulla attiva ed esclusiva collaborazione

del cittadino-contribuente, sul quale ricade l’onere di

conoscere ed interpretare una normativa vasta, frammentaria e

complessa, fonte pressochè inesauribile di nuovi obblighi e

vincoli di carattere spesso meramente formale.

“Queste difficoltà di conoscenza e di intelleggibilità della

normativa rappresentano la causa prima della mancata

conformazione dell’attività tributaria ai menzionati canoni di

economicità, efficacia e pubblicità, così come la frammentarietà

costituisce una delle principali cause tecniche delle

diseguaglianze fiscali”3.

* * * * * *

2. Dalle descritte esigenze mossero i progetti, ufficiosi4 e

ufficiali5, di redigere uno Statuto dei diritti del

contribuente.

3 Così la relazione di accompagnamento al d.l.cost. 4 gennaio 1992, atto n. 322, primo firmatario il sen. prof. Vincenzo Visco, pubblicata, assieme al testo dell’articolato, in Dir. prat. trib., 1993, I, pg. 240-254 con un’osservazione di G. Marongiu. 4 Si veda G. MARONGIU, Contributo alla realizzazione della “Carta dei diritti del contribuente”, in Dir.prat.trib., 1991, I, pg. 585-636 e Id., Disposizioni sulla legge tributaria in

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Progetto che incontrò difficoltà sempre maggiori quanto più, dal

1996, entrò in una fase decisiva con la presentazione al Senato

(18 settembre 1996) dello schema di legge approvato dal

Consiglio dei Ministri l’8 agosto 19966.

Ebbene, quando le prospettive di un sollecito varo dello Statuto

si fecero concrete7, apparve sull’orizzonte una minaccia ancor

più sottile e subdola delle dure resistenze in specie

burocratiche8, il suggerimento di approvarlo con la veste di una

legge costituzionale.

Evidente era la trappola ove si consideri che l’“iter” normale

di discussione e approvazione è durato quattro anni, dal 1996 al

2000: i tempi si sarebbero raddoppiati e neppure nella

tredicesima legislatura lo Statuto avrebbe visto la luce e,

molto probabilmente, in una stagione (quali sono stati gli anni

dal 2001 al 2005) connotata dall’uso e dall’abuso dei condoni,

l’antitesi dei principi costituzionali, esso sarebbe stato

definitivamente affossato.

Al riguardo è, quindi, opportuno spendere qualche ulteriore

parola perché, anche a Statuto emanato, qualcuno ha lamentato la

mancata adozione di una legge costituzionale e ha denunciato

questa scelta come un limite, foriero del suo immaginabile, e da

qualcuno fosse auspicato, fallimento.

Un autorevole quotidiano economico scrisse: “Lo Statuto

nonostante pretenda di contenere principi generali

dell’ordinamento tributario, come pomposamente si legge nel suo

art. 1, continua a manifestare i suoi limiti … “Limiti che non

si sarebbero manifestati se anziché approvare una legge

purchessia, si fosse seguito il suggerimento di adottare una

legge costituzionale”. generale, ivi, 1994, I, pg. 337 sg. e qui (pg. 366-368) il testo di un elaborato normativo redatto in collaborazione con il prof. Cesare Glendi. 5 Si veda la più risalente proposta di legge 20 dicembre 1990 (n. 5079) in Dir.prat.trib, 1991, I, 198 sg. e poi ancora il disegno di legge citato alla nota 90. 6 Si veda il testo in Corr.trib., 1996, n. 36, pg. 2805 sg. corredato dalla Relazione di accompagnamento. 7 Si veda G. MARONGIU, Contributo alla realizzazione dello Statuto del contribuente, in Tributi, 1999, p. 3. 8 Si vedano G.MARONGIU, Statuto del contribuente: primo consuntivo a un anno dall’entrata in vigore in Corr.trib., 2001, pg. 2069 sg.; e anche F. D’AYALA VALVA, Il principio di cooperazione nello Statuto dei diritti del contribuente, Roma, 2003, pg. 46 sg.

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Una legge purchessia? Era da più di due lustri che si

susseguivano i progetti ma nessuno era mai arrivato in porto

perché lo Statuto incontrava fortissime, seppure sotterranee,

resistenze, anche perché esso, in un mondo popolato di

frettolosi decreti-legge, era un apprezzabile spezzone di

diritto tributario parlamentare.

L’Europa giuridica avrebbe riso e avrebbe tratto amare

conclusioni sull’affidabilità di un paese nel quale per imporre

la motivazione degli atti tributari non basta(va) la legge del

1990, per imporre il principio di buona fede non basta(va) il

codice civile, per introdurre l’interpello non era sufficiente

una legge ordinaria: ci voleva una legge “Costituzionale”!

In realtà, e a ben guardare, non era opportuno

costituzionalizzare neppure i precetti oggi contenuti negli

articoli 3 e 4 perché il divieto assoluto di retroattività e di

spiccare decreti legge in materia tributaria avrebbe costretto

il legislatore ordinario in un inaccettabile e inopportuno letto

di Procuste, esso sì contrario ai principi costituzionali

proprio per l’impossibilità di affrontare anche gli effettivi

stati di emergenza o di porre rimedio a errori o ingiustizie.

Ma, anche a ritenere di dover riconoscere (in astratto) valenza

costituzionale ai precetti contenuti negli artt. 3 e 4, due

sarebbero state le alternative certamente rovinose, o rinunciare

a tutte le norme successive all’art. 4 o scrivere due Statuti,

uno con dignità di legge costituzionale e uno con dignità di

legge ordinaria: insomma uno Statuto di serie A e uno di serie

B.

E’ facile immaginare gli ulteriori sorrisi per un vero

capolavoro del perpetuo bizantinismo.

Una sola è allora la previa conclusione: di fronte a norme nuove

vale la loro qualificazione formale ma soprattutto l’impegno a

studiarle per coglierne tutte le possibili implicazioni.

E lo Statuto merita di essere studiato e applicato (come accade)

perché esso, anche nella sua qualificazione di legge ordinaria

recante “principi”, “si sta dimostrando, per la sua organicità

e, se si vuole, per la sua solennità, un riferimento

interpretativo importante nella prassi amministrativa e

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giurisprudenziale”9 nonché, si può soggiungere, nella crescita

di una consistente e qualificata produzione dottrinaria.

E’ vero, certamente, che il legislatore lo soffre, tende a

svilirlo e a mortificarlo10 ma in ciò sta il segno della sua

vitalità se non altro perché è la misura dello scostamento della

legislazione dai “buoni e corretti principi” e dà fondo e

spessore giuridico, anche in termini di legittimità

costituzionale, a doglianze che, altrimenti, rimarrebbero le

ennesime giaculatorie11.

E peraltro significativo che il 1° agosto 2007 la Commissione

finanze del Senato, presieduta da Giorgio Benvenuto, abbia

votato, all’unanimità, una mozione affinché, nella

predisposizione della “Finanziaria 2008”, Governo e Parlamento

rispettino soprattutto l’intero art. 3 dello Statuto12

* * * * * *

3. In sintesi, e tornando alla genesi dello Statuto, tutte le

esigenze e le istanze sopra ricordate furono rese concrete dalla

legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo “Statuto dei diritti

del contribuente”, che codifica i principi generali

dell’ordinamento tributario mai formulati prima nel nostro

Paese13. Provvedimento talmente importante e innovativo che ha

dato impulso all’esigenza di ridisegnare l’ordinamento

9 Così R. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, Milano, Giuffrè, 2005, ottava ed., p. 34. 10 In una intervista a Giorgio Benvenuto, presidente della Commissione finanze del Senato e tenace sostenitore dello Statuto, si legge a proposito delle norme tributarie retroattive: “Abbiamo contato una violazione nella XIII legislatura e 17 dal giugno 2001 all’aprile di quest’anno. E altre sei da quando il centrosinistra è tornato al Governo”; ma lo stesso senatore soggiunge: “Le tasse che retroagiscono sono il risultato del modo convulso con cui si fanno le leggi fiscali in Italia: sulla pelle del contribuente che deve confrontarsi con continue violazioni dei suoi diritti” (così su Il Sole-24 Ore di sabato 25 novembre 2006, p. 25). 11 Sulle violazioni, perpetrate dal legislatore, degli artt. 2, 3 e 4 dello Statuto si veda la relazione della Corte dei conti depositata il 25 maggio 2007 (rel. il consigliere Stefano Siracusa). 12 Si veda Il Sole 24 Ore di giovedì 2 agosto 2007. 13 A commento, anche con ampi riferimenti alla giurisprudenza e alla letteratura, si vedano Lo Statuto del contribuente, a cura di A. FEDELE e di A. FANTOZZI, Milano, Giuffrè, 2006 (di seguito citato come “Lo Statuto, Milano, cit.”); G. MARONGIU, Statuto del contribuente in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. CASSESE, Milano, Giuffrè, 2006; G. MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente nella quinquennale esperienza giurisprudenziale, in Dir. prat. trib., 2005, I, p. 1007 sg.; A. URICCHIO, Statuto del contribuente, in Digesto disc. priv. sez. comm., agg. 11, Torino, 2003, pg. 845 sg.,nonché il volume collettaneo citato nella nota seguente.

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tributario italiano e non a caso esso era esplicitamente

richiamato nella legge delega per la riforma del sistema fiscale

statale (legge 7 aprile 2003, n. 80)14. Certo quest’ultima non è

stata attuata ma in essa, per la prima volta, si prevedeva la

codificazione15 “articolata in una parte generale” e in una

parte speciale e si soggiungeva che “la parte generale ordina il

sistema fiscale sulla base di più principi e tra questi sancisce

che “le norme fiscali, in coerenza con le disposizioni contenute

nella legge 27 luglio 2000, n. 212, sono informate ai principi

di chiarezza, semplicità, conoscibilità effettiva,

irretroattività”.

Traspare, all’evidenza e immediatamente, che la legge del 2000 è

innovativa non solo perchè l’Italia non ha mai avuto uno

“Statuto dei diritti del contribuente” ma perchè esso va ben al

di là di ciò che suggerisce il suo titolo e di ciò che fino ad

oggi hanno attuato Paesi che lo Statuto hanno da tempo.

Non è certamente questa la sede per procedere a una analisi dei

differenti “Statuti”, o “Carte dei diritti del contribuente”,

adottati in Francia nel 1975, in Australia nel 1982, in Canada

nel 1985 e in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nel 1988 16. Può

dirsi, peraltro, senza tema di smentite, che, mentre la più gran

parte delle “Carte” degli Stati aderenti all’OCSE è volta a

informare i contribuenti dei loro diritti nel procedimento

amministrativo di imposizione e a garantirli17, quello italiano

va oltre poiché disciplina “anche il modo di legiferare in

14 Per le speranze suscitate dalla cennata legge delega, andate presto deluse per l’inerzia del Governo, proprio nel 2003, in coincidenza con il centesimo anniversario della nascita di Ezio Vanoni, si tenne a Genova, per iniziativa dell’ANTI, un convegno dedicato al commento dello Statuto: i lavori di M. Beghin, R. Cordeiro Guerra, L. Del Federico, E. Della Valle, G. Marongiu, M. Miccinesi, L. Salvini, S. Sammartino, D. Stevanato, A. Uricchio sono raccolti nel volume collettaneo “Lo Statuto dei diritti del contribuente” a cura di G. Marongiu, Torino, Giappichelli, 2004, di seguito citato come “Lo Statuto,Torino, cit.” 15 Si veda G. MARONGIU, Dallo Statuto del contribuente al codice tributario nel ricordo di Ezio Vanoni, in AA.VV., La politica economica tra mercati e regole, Rubbettino, 2005, pg. 237 sg. 16 Si veda OCSE, Droits et obligations des contribuables: description de la situation légale dans les pays de l’Ocde, Paris, 1990. 17 Si veda F. d’AYALA VALVA, Origini e prospettive dell’istituto del garante del contribuente. Riflessioni dopo il primo quinquennio, Padova, 2006, spec. pg. 9-12.

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materia tributaria, costituendo il primo passo verso la

codificazione fiscale”18.

Significativamente l’art. 1 della legge statuisce che le sue

disposizioni costituiscono principi generali dell’ordinamento

tributario e attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della

Costituzione.

Infatti, le disposizioni dello Statuto, in quanto dichiarate

principi generali, assumono una particolare collocazione nella

gerarchia delle fonti del diritto19. E’ ben vero che le

disposizioni speciali possono derogare a quelle generali di

principio ma “è altrettanto vero che la specialità della legge

derogativa dei principi deve essere in qualche modo giustificata

sulla base di esigenze particolari e che, inoltre, i principi

forniscono la chiave interpretativa delle disposizioni speciali,

le quali, per quanto possibile, devono essere conformate ai

principi”20.

A maggior ragione, soggiungo, se tali principi costituiscono

l’attuazione di fondamentali precetti costituzionali.

* * * * * *

18 Così si legge nella relazione della VI Commissione permanente della Camera presentata il 20 settembre 1999 dall’on.le prof. G. Marongiu. 19 Per una considerazione della gerarchia delle fonti del diritto, all’interno di una fonte dello stesso grado, si veda RUSSO-DORIA-LENER, Istituzioni delle leggi civili, Padova, 2004 ove (a pag. 13) si legge:”E’ ravvisabile una gerarchia anche nell’ambito di una fonte di un certo grado. Ad es., nel codice civile esistono disposizioni che vengono ritenute fondamentali (c.d. principi) in ragione del loro livello elevato di generalità. Queste disposizioni informano del loro contenuto le disposizioni particolari ed attribuiscono ad esse uno specifico significato. Sono, quindi, gerarchicamente superiori e le disposizioni particolari se vogliono derogare ad esse devono porsi esplicitamente come norme derogatrici di un principio”. Nel testo si sottolinea la particolare importanza della gerarchia delle fonti dello stesso grado, val quanto dire dei rapporti tra diritto generale e diritto speciale: “Il vero è che raramente si pone un conflitto di fonti (per il contrasto tra le norme poste da esse) risolvibile applicando il criterio “gerarchico”. E ciò perché le fonti di grado superiore contengono norme che hanno un campo di applicazione generale mentre le fonti di grado inferiore hanno un campo di applicazione più ristretto, e a volte assai specifico. La fonte di grado inferiore, quindi, non confligge apertamente e direttamente con la fonte di grado superiore, ma opera in concorrenza e in combinazione con quest’ultima in un campo di applicazione specifico. Esistono, poi procedimenti per “adeguare” il significato delle fonti di grado inferiore al significato delle fonti di grado superiore, le quali esplicano la loro incidenza, (la loro superiorità gerarchica) nell’ambito del procedimento di interpretazione della legge”. 20 Così E. RUSSO, La natura negoziale “determinativa” della dichiarazione dei redditi in Riv.dir.civ. 2005, pp. 395-396.

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4. Lo Statuto, coerentemente, nelle sue prime norme, è volto a

garantire una disciplina tributaria scritta per principi,

stabile nel tempo, affidabile e trasparente e perciò idonea ad

agevolare, nella interpretazione, sia il contribuente che

l’amministrazione finanziaria (anch’essa ha ripetutamente e

giustamente documentato difficoltà nell’intendere e nel gestire

un ordinamento “torrentizio”) e a diminuire gli alibi del primo

nel tentare e realizzare comportamenti “evasivi”.

E’, per altro, riduttivo intendere i precetti dello Statuto

(ancorchè esso non abbia natura di legge costituzionale) come

una sorta di manifesto di buone intenzioni, come qualcuno

frettolosamente scrisse, volto a condannare in astratto i

comportamenti non esemplari del legislatore, ma inidoneo a

ostacolarli in concreto per la mancata sovraordinazione dello

Statuto stesso21.

Innanzi tutto,la lettura dei singoli precetti, congiuntamente

con la clausola di autoqualificazione di cui all’art. 1, comma

primo, esprimente la funzione attuativa di determinate

disposizioni della Costituzione, e in particolare degli artt. 3,

23, 53 e 97 Cost. 22, è stata salutata con favore in quanto

“l’intento di orientare in senso garantistico tutta la

prospettiva costituzionale del diritto tributario merita

particolare apprezzamenti alla luce della tendenza costante, fin

qui manifestata dal legislatore, a sfruttare la propria

discrezionalità in materia, fino a farla trasmodare in

arbitrio”23.

Muovendo dalla riconosciuta e lodata connotazione garantista del

complesso delle norme e delle più puntuali disposizioni dello

Statuto, può allora prospettarsi una ricostruzione che non fonda

la vincolatività delle meta-norme su profili formali, ma,

21 Contro questa lettura riduttiva si veda L.PERRONE, Valenza ed efficacia dei principi contenuti nello Statuto del contribuente, in Diritto tributario e Costituzione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, p. 433 sg. 22 Si vedano a commento G.FALCONE Il valore dello Statuto del contribuente in Il Fisco, 2000, 11038 sg. e S. LOMBARDI, Statuto dei diritti del contribuente e teoria delle fonti, in Riv.dir.trib. 2005, n. 2, pg. 165 sg. e qui ampie considerazioni in specie sugli artt. 3 e 4. 23 Si veda C. PINELLI,Sulle clausole rafforzative dell’efficacia delle disposizioni dello Statuto dei diritti del contribuente (l.n. 212 del 2000) in Foro it., 2001, n.5, p.102 sg.

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all’opposto, sulla rilevanza del contenuto, invece che del

contenente, della legge.

Il che sta a significare che le disposizioni dello Statuto

possono fungere da ausilio interpretativo nella lettura degli

stessi articoli della Costituzione in esso richiamati e i suoi

principi possono e debbono rivestire la funzione di un canone

ermeneutico vincolante per l’interprete.

Ebbene è proprio questa l’impostazione della Corte di Cassazione

che dello Statuto ha colto lo spirito e la valenza.

Lo spirito allorquando ha statuito che “il cosiddetto Statuto

del contribuente è uno strumento di garanzia del contribuente

che serve ad arginare il potere dell’erario nei confronti del

soggetto più debole del rapporto di imposta”24 e ancora che “uno

Stato moderno che operi secondo criteri di efficienza e di

coerenza non deve avere timore di porsi su un piede di parità

con il cittadino (non più suddito)”25.

La valenza quando il Supremo Collegio ha affermato e asseverato

la “superiorità assiologica” dei principi dello Statuto26.

Questa è, quindi, la nuova linea interpretativa, e cioè che va

rifiutata, di una norma (si trattava di una norma del processo

tributario), l’interpretazione che la porrebbe “in patente

contraddizione con la ratio del nuovo processo tributario, che è

ispirato alla tutela dei diritti del contribuente (e in

particolare dell’inalienabile diritto di difesa), nel quadro di

una assimilazione ai caratteri del processo civile, nonché con i

principi “forti” che, alla luce della legge n, 212 del 2000,

caratterizzano l’attuale sistema tributario nella direzione di

un “riequilibrio” delle posizioni delle parti in

contraddittorio”: “imporre al contribuente, ha soggiunto il

Supremo collegio, l’impugnazione cumulativa dell’atto successivo

e dell’atto presupposto del quale sia stata omessa la

notificazione, significherebbe privilegiare immotivatamente

l’amministrazione finanziaria, recuperandone in via processuale

l’azione impositiva esercitata in violazione della specifica

24 Così Cass., sez. trib., 21 aprile 2001, n. 5931. 25 Così Cass. sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760. 26 Così Cass., sez.trib., 12 febbraio 2002, n. 17576: si veda amplius al par.

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scansione procedimentale dettata dalle regole di diritto

sostanziale”27

Da questi primi riferimenti emerge, senza tema di smentita, che

sono forti le “rationes” obiettive sottese allo Statuto e anche

quale è la sua specifica incisività.

Esso vuole fare uscire da una stagione negativa nella quale

l’intento “protezionistico” dell’erario lo si trovava nei

provvedimenti legislativi o emergeva prepotente

nell’interpretazione della giurisprudenza guidata da una

malintesa tutela dell’interesse fiscale (in alcuni non rari casi

sarebbe più corretto parlare di “ragione di Stato”) e ciò

accadeva nonostante che una illustrissima dottrina insegnasse,

già decenni or sono, che “niente nell’art. 53 Cost., sta ad

indicare che all’interesse fiscale sia data una qualsiasi

prevalenza nell’ordine dei valori costituzionali”28.

E vi riesce per più ragioni e sotto diversi profili. In primo

luogo le disposizioni dello Statuto, esprimendo una valutazione

del legislatore, un giudizio di valore, rafforzato

dall’autoqualificazione dello Statuto stesso come legge di

attuazione costituzionale, comportano che eventuali deroghe a

tali disposizioni, qualora non siano sufficientemente

giustificate, possono essere censurate sul piano della loro

costituzionalità. In secondo luogo i principi determinati dal

legislatore rappresentano il parametro per l’interpretazione di

altre disposizioni normative che devono essere sorrette dalla

regola espressa dallo stesso principio. Infine, i principi

statutariamente fissati esprimono precetti la cui forza

espansiva trova fondamento nella volontà del legislatore29.

In sintesi, il richiamo agli artt. 3, 23, 53 e 97 della

Costituzione “sta a significare che le prescrizioni dello

Statuto rappresentano, per espresso e autorevole riconoscimento

del legislatore ordinario, il necessario ed equilibrato

27 Così Cass. sez.un., 25 luglio 2007, n. 16412. 28 Così V. CRISAFULLI, In tema di capacità contributiva, in Giur. cost., 1965, spec. pg. 861-862. 29 Si vedano amplius, M. LOGOZZO, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, Giuffrè, 2002, spec. pg. 38 e G. TINELLI, I principi generali, in Atti del convegno di Perugia del 10 marzo 2001 in Il fisco, 2001, n. 39, p. 9.

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contemperamento delle contrapposte esigenze di rango

costituzionale che si fronteggiano in materia tributaria”30.

Ed esse, come la concreta esperienza ha subito dimostrato,

esprimendo valori fondanti dell’ordinamento tributario,

collegati a quelli sanciti dalla Costituzione, sono destinate a

orientare sia l’attività interpretativa che la produzione

normativa assicurando nel contempo la sindacabilità dell’unità e

della coerenza dell’ordinamento: anzi, ha deciso il Supremo

Collegio “quando si tratti di leggi in senso sostanziale emanate

dal Governo su delega parlamentare, quando si tratti, cioè, di

“leggi di parte” la lettura costituzionale deve essere più

penetrante31.

* * * * * *

5. Lo Statuto ha inteso attribuire alle proprie disposizioni il

valore di “principi generali dell’ordinamento tributario” e,

come già sottolineato dalla Corte di Cassazione, questa

autoqualificazione “trova puntuale rispondenza nella effettiva

natura della maggior parte delle disposizioni stesse, quale si

desume dal loro contenuto normativo, dal loro oggetto, dal loro

scopo e dalla loro incidenza nei confronti di altre norme della

legislazione e dell’ordinamento tributario, nonchè dei relativi

rapporti”.

A queste specifiche “clausole rafforzative” di

autoqualificazione delle disposizioni stesse “deve essere

attribuito, perciò – soggiunge la Corte smentendo i pavidi e i

conformisti32 – un preciso valore normativo ed interpretativo

sia sé hanno la funzione di dare attuazione alle norme

costituzionali richiamate dallo Statuto sia sé costituiscono

“principi generali dell’ordinamento tributario”.

“Il legislatore, infatti, ha manifestato esplicitamente

l’intenzione di attribuire ai principi espressi nelle

disposizioni dello Statuto, o desumibili da esso, una rilevanza

del tutto particolare nell’ambito della legislazione tributaria

30 Così P. RUSSO, Manuale di diritto tributario, parte generale, Milano, Giuffrè, 2002, 63. 31 Così Cass., sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760. 32 Per una replica ad alcune prime letture scettiche dello Statuto rinvio alla mia noterella apparsa in Corr. Trib., 2001, 2069 sg.

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e una sostanziale superiorità rispetto alle altre disposizioni

vigenti in materia. Nella categoria dei principi giuridici è

insita inoltre – come si desume dal secondo comma dell’art. 12

delle preleggi – la funzione di orientamento ermeneutico ed

applicativo vincolante nell’interpretazione del diritto”.

Ne consegue, insegna ancora la Corte di Cassazione, che,

enucleati, dall’art. 1, primo comma, quattro enunciati – a)

l’autoqualificazione delle disposizioni dello Statuto come

attuative della Costituzione; b) il valore di tali norme, come

principi generali dell’ordinamento tributario; c) il divieto di

deroga o modifica delle norme, in modo tacito; d) il divieto di

deroga o modifica mediante leggi speciali, “Quale che possa

essere l’incidenza dei quattro enunciati normativi contenuti nel

primo comma dell’art. 1 della legge n. 212 del 2000….. è certo,

però, che alle specifiche clausole rafforzative di

autoqualificazione delle disposizioni stesse come attuative

delle norme costituzionali richiamate e come principi generali

dell’ordinamento tributario, deve essere attribuito un preciso

valore normativo”. E poiché “… il tratto comune ai quattro

distinti significati della locuzione “principi generali

dell’ordinamento tributario” è costituito, quanto meno, dalla

superiorità assiologica dei principi espressi o desumibili dalle

disposizioni dello Statuto e, quindi, dalla loro funzione di

orientamento ermeneutico, vincolante per l’interprete”….. “il

dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla

portata di qualsiasi disposizione tributaria che attenga ad

ambiti materiali disciplinati dalla legge n. 212/2000 deve

essere risolto dall’interprete nel senso più conforme ai

principi statutari”33.

E “questa prescrizione non è diretta soltanto al futuro

legislatore tributario, ma si riflette come criterio

interpretativo sull’esercizio della stessa attività applicativa

dell’interprete, che è chiamato ad applicare quei principi anche

con riferimento a leggi tributarie che non siano state oggetto

33 Così Cass. sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17576, in Giur. it., 2003, I, 2194, con nota di A. TURCHI, e anche Cass., sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760.

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di correzione, vale a dire virtualmente tutte le altre norme

dell’ordinamento tributario”34.

Fondamentale è, quindi, il ruolo dello Statuto

nell’interpretazione delle disposizioni tributarie di rango

legislativo35, così come il Supremo Collegio, con la sentenza

ora citata (Cass. n. 17576), mostra di condividere

l’impostazione secondo la quale lo Statuto contiene disposizioni

volte a orientare in senso garantistico tutta la prospettiva

costituzionale del diritto tributario, “per cui, dopo questa

sentenza, il collegamento tra diritto tributario e diritto

costituzionale appare più stretto e la Costituzione appare più

vicina”36.

* * * * * *

6. In coerenza con il suo impianto, per cui “le disposizioni

dello Statuto costituiscono principi generali dell’ordinamento

tributario” (e quindi di tutto l’ordinamento tributario), l’art.

1 statuisce, al terzo comma, che “le Regioni a statuto ordinario

regolano le materie disciplinate dalla presente legge in

attuazione delle disposizioni in essa contenute”37.

Soggiunge il quarto comma che “gli enti locali provvedono, entro

sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge,

ad adeguare i rispettivi statuti e gli atti normativi da essi

emanati ai principi dettati dalla presente legge”.

In adesione a una delle interpretazioni prospettate in dottrina

sulle conseguenze del mancato adeguamento allo Statuto da parte

delle province e dei comuni, la giurisprudenza ha correttamente

e inequivocabilmente deciso che le norme dello Statuto (nel caso

concreto si trattava della disposizione che ha reso obbligatoria

l’allegazione dell’atto richiamato al provvedimento impositivo)

sono immediatamente applicabili anche agli atti delle

34 Così Cass., sez. trib. 14 aprile 2004, n. 7080. 35 Al riguardo si veda L. MURCIANO, Statuto del contribuente e fonti del diritto tributario: un’ipotesi interpretativa sull’art. 23 Cost., in Riv.dir.trib., 2002, I, 921 sg. e spec, 950 sg. 36 Così G. FALCONE, Statuto dei diritti del contribuente e Cassazione tributaria, in Il Fisco, 2003, 2221 e sg. 37 Lo stesso terzo comma prevede che “Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, ad adeguare i rispettivi ordinamenti delle norme fondamentali contenute nella medesima legge”.

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amministrazioni locali a prescindere dal termine assegnato agli

stessi per adeguare i rispettivi statuti e regolamenti ai

principi desumibili dallo Statuto38.

Soluzione condivisibile, quella per cui “i principi dello

statuto si applicano ai rapporti fra contribuente ed ente

impositore diverso dall’amministrazione finanziaria dello

Stato”39 anche sé molte delle norme dello Statuto non richiedono

alcun adeguamento: così dicasi della informazione del

contribuente (art. 5), dell’effettiva conoscenza degli atti a

lui destinati (art. 6) e dell’interpello (art. 11) in relazione

al quale appare condivisibile l’opinione secondo cui esso trova

applicazione anche per i tributi locali pur in assenza delle

norme regolamentari dettate al riguardo dall’ente locale40.

Ma un rilievo non minore hanno, per i tributi locali, le norme

che sanciscono la motivazione degli atti pretensivi, la tutela

dell’integrità patrimoniale e il rispetto dell’affidamento e

della buona fede41.

Sarebbe, per altro, limitativo ritenere che abbiano concreta

applicazione solo le norme dello Statuto che attengono allo

specifico e concreto rapporto obbligatorio.

Invero dalla qualificazione dello Statuto sopra evidenziata

discendono conseguenze rilevanti anche sotto il profilo della

sua attuazione nell’ordinamento delle Regioni e degli enti

locali.

Quanto alle prime ciò appare evidente alla luce della nuova

formulazione dell’art. 117 Cost.42 secondo il quale “nelle

materie di legislazione concorrente (fra le quali rientra il

coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario)

spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la

38 Così Cass., sez. trib., 22 marzo 2005, n. 6201. 39 Così Cass., sez. trib., n. 21513 del 2006. 40 Così A. URICCHIO, in Lo Statuto, Torino, cit., pag. 179 sg. e anche A. URICCHIO, L’attuazione dell’interpello negli Enti territoriali, in AA.VV., Il diritto di interpello, a cura di G. CAPUTI, Roma, 2003, pg. 233 sg. 41 A quest’ultimo proposito si veda infra ( al par. ) la sentenza della Corte di cassazione che ha applicato detto principio alla Tarsu. 42 Si veda la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e a commento M.C. FREGNI, Autonomia tributaria delle Regioni e riforma del titolo V della Costituzione in Diritto tributario e Corte costituzionale, cit., p. 477 sg.

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determinazione dei principi fondamentali, riservata alla

legislazione dello Stato”.

Sebbene nel nuovo titolo quinto della Costituzione non si

precisi la portata di tale locuzione, ritenendosi “principi

fondamentali” quelli stabili e univoci in qualche modo legati

alla tutela dell’unità dell’ordinamento giuridico e ricavabili

dai parametri costituzionali”43, può ragionevolmente concludersi

che tra i “principi fondamentali” di cui all’art. 117 Cost.

rientrano le norme dello Statuto del contribuente sia se emanate

in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost. sia se “principi

generali dell’ordinamento tributario”44.

Resta da chiedersi se le norme dei regolamenti comunali e

provinciali che si pongono in contrasto con le disposizioni

dello Statuto debbano considerarsi abrogate, sia pure in modo

implicito. Sebbene la legge non rechi una norma esplicita deve

ritenersi che i regolamenti non adeguati ai principi generali

posti dallo Statuto finiscano per essere viziati da

illegittimità sopravvenuta, la quale trascina con sé tutti gli

atti normativi consequenziali. Tale conclusione, si scrive, non

discende, soltanto, dalla collocazione dello Statuto del

contribuente e dei regolamenti comunali su piani diversi nella

gerarchia formale delle fonti, ma soprattutto dalla capacità

condizionante dello Statuto conseguente alla qualificazione di

principi generali delle disposizioni ivi contenute.

* * * * * * *

7. Lo “Statuto” vuole essere, in primo luogo, un piccolo ma

sostanzioso contributo alla chiarezza e alla trasparenza delle

disposizioni tributarie.

E’ un’esigenza, questa, addirittura elementare perchè le norme

tributarie sono troppo spesso incomprensibili a causa dei rinvii

mediante date e numeri a leggi precedenti e, ciò che è peggio,

43 Così F. GALLO, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 Cost., in Rass. trib., 2002, p. 596; così mi pare anche A. FEDELE, Appunti delle lezioni di diritto tributario, Torino, Giappichelli, 2005, p. 119 secondo il quale “l’inserzione nello Statuto del contribuente qualifica incontestabilmente la regola dell’irretroattività come principio generale del diritto tributario, operante anche nelle materie di competenza legislativa regionale se non altro come principio di coordinamento” 44 Così A. URICCHIO, in Lo Statuto, Torino cit., p. 175.

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non facilmente identificabili perchè inserite in provvedimenti

che non hanno natura tributaria.

Al riguardo la legge del 2000 ha enucleato, nei quattro commi

dell’art. 2, alcune regole che così sono formulate:

“Le leggi e gli altri atti aventi forza di legge che contengono

disposizioni di carattere tributario devono menzionare l’oggetto

nel titolo e la rubrica delle partizioni interne e dei singoli

articoli deve menzionare l’oggetto delle disposizioni ivi

contenute;

“le leggi e gli atti aventi forza di legge che non hanno un

oggetto tributario non possono contenere disposizioni di

carattere tributario, fatte salve quelle strettamente inerenti

all’oggetto della legge medesima;

“i richiami di altre disposizioni contenuti nei provvedimenti

normativi in materia tributaria si fanno indicando anche il

contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende

fare rinvio;

“le disposizioni modificative di leggi tributarie debbono essere

introdotte riportando il testo conseguentemente modificato”45.

Se questo dispone lo Statuto è agevole dedurre il “bene”

protetto, la conoscibilità effettiva degli articolati normativi.

Essa è garantita, in positivo, disponendo la facile

individuazione delle disposizioni tributarie e in negativo

statuendo che i precetti fiscali non possono essere contenuti in

provvedimenti non tributari (è, in altre parole, la garanzia

dell’omogeneità); inoltre, battendo in breccia una prassi

deteriore, si vuole che i richiami di altre disposizioni

legislative devono indicare, seppure sinteticamente, il

contenuto della disposizione richiamata, mentre le norme

modificative di leggi tributarie debbono riportare il testo

modificato.

Evidente, come si diceva, è l’intento perseguito perchè se, da

un lato, sussiste l’esigenza dell’ente impositore di contare su

risorse determinate in tempi certi per consentire alla mano

pubblica di realizzare i propri compiti, dall’altro chi

45 Per la attenta, diffusa, analisi di questi precetti si veda F. VARAZI, Contributo alla certezza della norma tributaria, in Statuto , Milano, cit,, pg. 73-87.

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contribuisce alla spesa deve poter conoscere l’ammontare e le

modalità della propria partecipazione.

E’ questa un’esigenza sottesa anche ad altre norme dello stesso

Statuto tant’è che, secondo l’art. 5, “l’amministrazione

finanziaria deve assumere idonee iniziative volte a consentire

la completa e agevole conoscenza delle disposizioni legislative

e amministrative vigenti in materia tributaria, anche curando la

predisposizione di testi coordinati e mettendo gli stessi a

disposizione dei contribuenti presso ogni ufficio impositore”.

Ma è un obbligo che grava, innanzi tutto, sul legislatore che,

ai sensi dell’art. 2, deve garantire, ai destinatari delle norme

fiscali, la loro individuazione e la loro, non anodina, lettura.

Il che, si badi, costituisce, logicamente, un “prius” rispetto

alla cronica mutevolezza di cui soffre l’ordinamento (si fa per

dire) tributario italiano.

L’art. 2 costituisce un “prius” perchè vuole garantire non solo

norme chiare e intelleggibili ma anche individuabili e

reperibili da parte di chi a quei precetti è chiamato a dare

ampia applicazione, come è, oggi, per il contribuente.

Significativamente la direttiva del Ministro delle finanze 21

settembre 2000 esige che “d’ora in avanti particolare attenzione

sia riservata alla qualità dei testi normativi perchè è evidente

che lo Statuto in questa parte si rivolge sia al Governo che al

Parlamento”; così come la relazione illustrativa del decreto

legislativo recante le disposizioni correttive di leggi

tributarie vigenti46 sottolinea che l’art. 2 è finalizzato “a

rendere immediatamente percepibile per il contribuente la

portata delle modifiche dei testi”.

Orbene, alla luce di queste considerazioni non è facile

individuare cosa può accadere quando il legislatore adotti una

tecnica legislativa in violazione dell’art. 2 dello Statuto.

46 Si veda il d.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, emanato in esecuzione dell’art. 16 dello Statuto che, assai significativamente, ha delegato il Governo a emanare, “entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, uno o più decreti legislativi recanti le disposizioni correttive delle leggi tributarie vigenti strettamente necessarie a garantire la coerenza con i principi desumibili dalle disposizioni della presente legge”.

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Può concludersi, come si è concluso, che la violazione dell’art.

2 non costituisce di per sè una violazione della Costituzione47

o, come altri ha scritto che “il suo valore rimane

prevalentemente “politico” risultando più difficile prospettarne

un utilizzo forte, nei termini di ragionevolezza e di

rovesciamento del favor legittimitatis prima indicati, da parte

della Corte costituzionale”48. Anche se, soggiunge Varazi,

“Sembra possibile ritenere che una violazione dell’art. 2

fornisca elementi per valutare se vi sia una violazione

dell’art. 3 della Costituzione e come tale possa essere causa di

incostituzionalità della normativa tributaria”49.

Resta, però, a chi scrive un dubbio. E’ vero, infatti, che il

dovere di informazione e di conoscenza costituisce, per il

contribuente, diretta esplicazione dei doveri di solidarietà di

cui all’art. 2 Cost. perchè “la Costituzione richiede dai

singoli soggetti la massima, costante tensione ai fini del

rispetto degli interessi dell’altrui persona umana ed è per la

violazione di questo impegno di solidarietà sociale che la

stessa Costituzione chiama a rispondere penalmente anche chi

lede tali interessi non conoscendone posivitamente la tutela

giuridica”50.

Ma è altrettanto vero che l’art. 3, secondo comma, della

Costituzione impone alla Repubblica di rendere concreta la

conoscibilità della legge, rimuovendo gli ostacoli di ordine

economico e sociale che limitano di fatto la libertà e

l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il diritto

alla conoscenza compiuta e tempestiva della legge, si impone

quale libertà costituzionale strumentale all’esercizio di ogni

altro potere giuridico soggettivo di livello costituzionale51.

47 Così F. VARAZI, Contributo alla certezza, cit., loc. cit., p. 87. 48 Così L. ANTONINI, Intorno alle “metanorme” dello Statuto dei diritti del contribuente, rimpiangendo Vanoni, in Riv. dir. trib., 2001, p. 619 sg. e spec. 632; Antonini, per altro, soggiunge che una maggiore efficacia si potrebbe, invece, ipotizzare nell’ambito del sindacato di costituzionalità sui decreti legislativi qualora, nel silenzio della legge delega, il Governo apportasse delle deroghe alle disposizioni dell’art. 2 dello Statuto”. 49 Così F. VARAZI, op. ult. cit., p. 87. 50 Così Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364. 51 Si veda MIRABELLI, Il rischio”da diritto”: il costo dell’incertezza ed alcune possibili economie, in La certezza del diritto, Milano, 1993, pg. 39 sg.

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Per non dire che la libertà economica e la libera iniziativa

imprenditoriale dei privati sono assicurate solo da un sistema

che garantisca la certezza, la prevedibilità e la conoscibilità

della legge.

Orbene, se la pretesa fiscale (come quella sanzionatoria) si

realizza attraverso la legge (art. 23 Cost.)52 ciò comporta che

anche lo Stato legislatore deve rispettare i suoi doveri

costituzionali e, in primis, quelli attinenti alla formulazione

dei precetti, alla loro struttura e ai loro contenuti. Se ciò

implica, per le norme penali, che esse devono essere, tra

l’altro, “chiaramente formulate”, ebbene uguale esigenza deve

valere per le norme fiscali che limitano la proprietà personale.

Lo insegna oggi, (seppure senza averne fatto ancora

un’applicazione concreta) il Supremo Collegio secondo il quale

“l’esame complessivo di queste disposizioni chiarisce che la

correttezza e la buona fede nei confronti del contribuente

debbono essere osservate non solo dall’amministrazione

finanziaria in fase applicativa, ma anche dallo stesso

legislatore tributario all’atto dell’emanazione delle fonti

normative, come emerge in particolare dall’art. 2 che detta i

criteri di chiarezza e trasparenza che debbono essere osservati

nelle disposizioni tributarie53”.

E’ appena il caso di ricordare, qui, come molto spesso

discipline fiscali innovative si rinvengano nei cosiddetti

maxiemendamenti delle cosiddette “finanziarie” di fine anno e

come la dottrina costituzionalistica sia sostanzialmente

concorde nel segnalare da tempo l’illegittimità costituzionale

del fenomeno degli emendamenti – controprogetti specie quando

esso si abbina alla questione di fiducia.

Ancora più recentemente si è denunciata la prassi dei

maxiemendamenti come “indecorosa e spudorata frode alla

Costituzione, avallata dalla compiacenza dei presidenti delle

due Camere” perché “non può essere seriamente contestato che un

articolo composto di 100 commi od oltre (l’autore era ancora

52 Si veda S.CIPOLLINA, La riserva di legge in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in Diritto tributario e Corte costituzionale , cit., pp. 163 sg. 53 Così Cass., sez. trib., 14 aprile 2004, n. 7080.

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ottimista) è un fatto abnorme, sicuramente proposto al solo fine

di aggirare la Costituzione”54

Orbene, tornando al nostro specifico tema, posto, dunque, che lo

Stato, sul versante sanzionatorio, “deve adempiere ai propri

doveri e quindi deve esistere per l’agente l’oggettiva

possibilità di conoscere le leggi penali”, anche per le norme

tributarie il dovere di conoscerle diventa concretamente

possibile se esse si rendono conoscibili55.

L’art. 2 dello Statuto soddisfa, per l’appunto, questa esigenza

e disciplina il contenuto minimo per la individuazione, la

riconoscibilità e la conoscibilità delle disposizioni fiscali;

con la conseguenza che un precetto tributario che non rispetti

lo stesso art. 2 può contrastare con l’art. 23 Cost. perchè ogni

prestazione personale e patrimoniale può essere imposta solo con

una legge conoscibile.

E’ certo che, se anche dovesse dubitarsi della percorribilità

della strada descritta e della relativa conclusione, nessuno

potrebbe essere punito, si intende neppure con una sanzione

amministrativa, per la violazione di una legge o di una

disposizione che non avesse i requisiti di riconoscibilità

previsti dall’art. 2.

Considerato, infatti, che ai sensi dell’art. 10 dello Statuto

“le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione

dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e

sull’ambito di applicazione della norma tributaria”, a maggior

ragione esse non possono essere applicate quando (non è incerto

il significato della norma ma) addirittura la norma la si è

dovuta scovare dentro “1300” commi di un unico articolo di legge

privo di titolo, di partizioni interne e delle loro specifiche

individuazioni o quando ci si è imbattuti in una disposizione

fiscale contenuta in un provvedimento che di fiscale non ha

nulla, nè nel titolo nè nell’oggetto o quando, infine, come

54 Così G.U.RESCIGNO, L’atto normativo, Bologna, 1998, p. 139 e anche, con ulteriori riferimenti dottrinali, N. LUPO, Il potere di emendamento e i maxiemendamenti alla luce della Costituzione , in Quaderni regionali, rivista quadrimestrale fondata da F. Cuocolo, 2007, n. 1-2, pp. 243 sg. e spec. 261 sgg. 55 Per le espressioni virgolettate si veda ancora Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364.

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spesso accade, siano violati il terzo e il quarto comma

dell’art. 2 dello Statuto56.

In questi casi vale il brocardo “ad impossibilia nemo tenetur” e

se si parla di sanzioni è impossibile imputare una qualche

negligenza (dove sarebbe la colpa?) al contribuente il cui

obbligo di informarsi è subordinato all’altrettanto

imprescindibile dovere dello Stato di rendere possibile e

agibile l’informazione.

* * * * * * *

8. Alla luce di queste prime osservazioni appare già

inequivocabile l’intento del legislatore dello Statuto di

dettare alcune regole che valgano a garantire anche la stabilità

e la ponderatezza della legislazione fiscale.

Intento encomiabile, che ha trovato la sua genesi non solo nella

frequenza degli interventi legislativi, non solo nella loro

sovrapposizione ma anche e soprattutto per l'abuso del decreto-

legge.

Ciò spiega il disposto del citato art. 4, che, recuperando la

volontà dei “padri costituenti”, per anni tradita e mortificata,

statuisce che “non si può disporre con decreto legge

l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di

tributi esistenti ad altre categorie di soggetti”.

Evidente è l’intento dello Statuto che vuole proteggere

l’interprete-contribuente non solo dal peso di nuovi tributi,

frettolosamente pensati o peggio realizzati, ma anche dall’onere

gravissimo di intendere la nuova disciplina da solo, senza il

conforto di adeguati lavori preparatori, senza l’ausilio delle

relazioni delle Commissioni tributarie (molto spesso

pretermesse), senza la preconoscenza dell’ordito normativo

proprio della burocrazia che, sovente, nei decreti, detta e

scrive le norme che è poi chiamata a interpretare e applicare.

Una solitudine rischiosa perchè ai nuovi precetti si

accompagnano adempimenti applicativi da eseguirsi in tempi

56 Sulla violazione, da parte del legislatore, dello Statuto, e in particolare del suo art. 2, perchè “le Finanziarie sono sempre più spesso caratterrizzate dalla presenza eccessiva di commi e dalla mancata indicazione del contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende fare rinvio” si veda la relazione della Corte dei Conti citata alla nota (11).

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ravvicinati all’entrata in vigore del provvedimento e l’errore,

al riguardo, può essere costoso.

Orbene non si intendono riprendere tutte le osservazioni altrove

svolte sulla fisiologica utilizzazione del decreto-legge, che

non mortifica affatto le possibilità di scelta del legislatore

che, aumentando o diminuendo aliquote di tributi esistenti, può

operare scelte di politica economica non incidenti sulla

struttura dell’ordinamento tributario esistente57.

Si intende, però, sottolineare che il precetto contenuto nello

Statuto si apprezza proprio alla luce dell’insegnamento della

Corte Costituzionale per cui “il difetto dei requisiti del caso

straordinario di necessità ed urgenza, anche una volta

intervenuta la conversione del decreto legge, si traduce in un

vizio in procedendo della relativa legge onde l’esistenza dei

cennati requisiti può essere oggetto di scrutinio di

costituzionalità”58: principio, lo si ricorda, che è stato

ribadito con la sentenza n. 341 del 2003, mentre con altre la

Corte ha ritenuto di prescindere da tale questione perchè era da

escludere l’evidente carenza dei su indicati presupposti (si

vedano le sentenze n. 178 e 196 del 2004).

Orbene, ricordato che un diverso orientamento era stato

adottato, ma senza una specifica motivazione, da altre

sentenze59, la stessa Corte, di recente, ha ritenuto di dovere

ribadire il principio affermato nel 1995 per diverse ragioni,

tutte diffusamente argomentate e anche perchè “affermare che la

legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto

significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario

il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze

del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle norme

primarie”.

Pertanto, ha concluso la Corte, in un caso in cui ha dichiarato

incostituzionale un precetto contenuto in un decreto-legge

convertito in legge, “occorre verificare, alla stregua di indici

57 Si veda G. MARONGIU, Lo Statuto del contribuente: le sue “ragioni”, le sue applicazioni, in Dir.prat.trib., 2003, I, pg. 1008 sg. e spec. 1016-1026. 58 Così Corte cost. 27 gennaio 1995, n. 29. 59 Si vedano le sentenze n. 336 del 1996 e n. 419 del 2000.

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estrinseci ed intrinseci alla disposizione impugnata, se risulti

evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà

del caso di necessità e d’urgenza cui provvedere”60.

Procedendo in questa analisi la Corte ha precisato che

“l’utilizzazione del decreto-legge non può essere sostenuta

dall’apodittica esistenza delle ragioni di necessità e di

urgenza, nè può esaurirsi nella constatazione della

ragionevolezza della disciplina che è stata introdotta”.

Occorre, invece, riscontrare se le affermate ragioni di

necessità e di urgenza siano riferibili a tutte le norme

contenute nel decreto legge. Nel caso concreto, la Corte -

considerato che nel preambolo di quello oggetto del sindacato i

requisiti previsti dall’art. 77 della Costituzione erano

invocati per emanare disposizioni in materia di enti locali con

particolare riferimento “alle procedure di approvazione dei

bilanci di previsione”, “alle difficoltà finanziarie dei Comuni

di ridotta dimensione demografica” e “al risanamento di

particolari situazioni di dissesto finanziario”, - ha ritenuto

giustificata la più gran parte delle norme ma ha concluso che

“nulla risulta, nè dal preambolo nè dal contenuto degli

articoli, che abbia attinenza con i requisiti per concorrere

alla carica di sindaco” onde “la norma censurata si connota per

la sua evidente estraneità rispetto alla materia disciplinata

dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita”61:

di qui l’incostituzionalità dell’articolo denunciato per

violazione dell’art. 77 Cost.

Alla luce di queste considerazioni ben si può apprezzare la

capacità espansiva del conseguente insegnamento applicato alle

normative tributarie ove, molto spesso, precetti fiscali sono

inseriti in provvedimenti che non hanno un oggetto precipuamente

tributario, ove molto spesso i primi (contenuti in poche e

sparse disposizioni) sono del tutto estranei alla materia

disciplinata dalle altre disposizioni: con il che le ragioni di

necessità e di urgenza possono essere state appalesate ed

60 Per le frasi virgolettate si veda Corte cost., 23 maggio 2007, n. 171. 61 Così ancora la sentenza n. 171 del 2007.

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esistere con riguardo alle “altre” disposizioni ma non a quelle

tributarie.

Oggi i decreti-legge “omnibus”, questi veicoli di trasporto

“multipurposes”, usati spregiudicatamente come strumenti per

veicolare qualsiasi novità, hanno trovato, al fine, un posto di

blocco nel quale è possibile chiedere se “tutte le norme”

trasportate hanno una evidente ed evidenziata ragione di

necessità e di urgenza.

* * * * * *

9. Alla luce di queste considerazioni è certamente legittimo

l’uso del decreto-legge in materia tributaria al fine di

apportare modificazioni non strutturali al relativo ordinamento

come nel caso in cui, sussistendone le condizioni previste

dall’art. 77 della Costituzione, si vogliano modificare le

aliquote di una o più imposte o tasse.

E’ proprio questo che volevano i “padri costituenti” ed è

proprio la loro volontà che nel tempo è stata tradita come

emerge dai lavori della Commissione economica dell’Assemblea

costituente. “Il problema dell’urgenza – si legge nel relativo

rapporto – è certamente un grave e serio problema; ma pare che

alle maggiori necessità che esso affaccia può essere provveduto

entro la linea delle esperienze fatte in tutti i paesi a regime

parlamentare. I decreti catenaccio, cioè i decreti che portano

variazioni di tariffe, che se conosciute in precedenza darebbero

luogo a speculazioni private ingiustificate ed a forme intese ad

evitare l’aggravio, possono essere esplicitamente ammessi nella

Costituzione e fatti oggetto di particolare regolamento inteso

ad assicurarne la sollecita presentazione e discussione al

Parlamento62”.

L’esigenza esposta fu, nel farsi dello Statuto, sentita in modo

così categorico che un disegno di legge costituzionale sanciva

che “il ricorso al decreto legge è consentito esclusivamente per

apportare variazioni alle aliquote di tributi esistenti”63.

62 Così Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione economica, vol. V, Finanza, Relazione, Roma, 1946, p. 20. 63 Così il d.d.l. cost., 4 giugno 1992 (atto n. 322; primo firmatario il sen. V. Visco) pubblicato in Diritto e pratica tributaria, 1993, I, p. 240 sg. e spec. 246.

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Formulazione a ben guardare non tanto rigorosa quanto rigida

perchè nulla può impedire di pensare che, in casi straordinari

di necessità finanziarie, si possa provvedere anche con mezzi

diversi da quello della variazione delle aliquote.

Lo Statuto più opportunamente (non a caso esso non è stato

approvato con legge costituzionale) ha previsto che “non si può

disporre con decreto legge l’istituzione di nuovi tributi nè

prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie

di soggetti” (così l’art. 4).

Anche questa regola trova la sua origine in una aspirazione

risalente a una fonte autorevole tant’è che nel citato Rapporto

della Commissione economica si legge: “E’ universale il rilievo

che il sistema della legislazione per decreto legge ha creato

una situazione caotica, frammentaria, insostenibile nella

legislazione tributaria; che il normale cittadino con una

normale diligenza non arriva a conoscere tutti gli obblighi e

tutti gli adempimenti che gli sono richiesti dalle leggi

d’imposta, per cui nella confusione e complicazione delle norme

trova un facile alibi per violare anche gli obblighi essenziali

per la buona amministrazione dei tributi; che gli stessi

funzionari della pubblica amministrazione si orientano

difficilmente nella selva selvaggia delle norme tributarie; che

il troppo rapido variare delle regole dei tributi e l’incauta

introduzione di nuove forme d’imposta rinnova continuamente gli

attriti propri delle nuove imposte, irritando le economie,

rendendo instabili gli accomodamenti e gli equilibri dei

rapporti, creando e mantenendo nocive ragioni di incertezza

nelle previsioni degli operatori. In sostanza questi rilievi si

risolvono e si concludono nell’affermazione che il sistema

tributario per essere efficace, e per essere sopportato coi

minori inconvenienti, deve avere un fondamentale carattere di

permanenza nel tempo, in particolare nella sua struttura

formale; e tale permanenza si pensa di realizzare richiedendo

forme rigorose per l’approvazione delle leggi d’imposta”64.

64 Così Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione economica, cit. p. 20.

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Sembrano parole scritte oggi ed invece sono solo profetiche di

una realtà per provvedere alla quale è occorso elevare il

livello degli interventi.

Ebbene la formulazione adottata dallo Statuto non sembra, una

“mera dichiarazione di intenti politici”, come pure è stato

scritto, perchè da un canto non costringe il legislatore in un

letto di Procuste e, dall’altro, consente un sindacato sulla

ragionevolezza delle scelte del legislatore.

Se ex art. 77 Cost. particolare deve essere la necessità, se

straordinario deve essere il caso, se impellente deve essere

l’esigenza, con specifico riguardo alla materia tributaria il

decreto legge può essere utilizzato non solo per provvedere ad

eventuali urgenti necessità finanziarie con le manovre sulle

aliquote di tributi esistenti ma anche istituendo nuove imposte,

a condizione per altro, che siano straordinarie e cioè non

destinate a durare.

E’ il caso, concreto, della c.d. Socof (1983) o della c.d. ISI

(1992), istituite entrambe per un solo anno per fare fronte a

specifiche, eccezionali necessità.

Lo rilevò la Corte, con riguardo all'imposta straordinaria sugli

immobili che essa “costituisce un tributo la cui istituzione,

come emerge dai lavori parlamentari, aveva il fine di reperire

mezzi per il bilancio dello Stato in una situazione economica

del Paese che appariva di notevole gravità, esigendo dai

cittadini sacrifici straordinari per altro limitati a un solo

anno”65.

La legittimità di questo tributo non fu, allora, contestata

sotto il profilo qui considerato ma se questa censura fosse

stata fatta, ad essa avrebbe potuto replicarsi che, per

sopperire alle straordinarie e urgenti necessità della finanza

pubblica, può utilizzarsi uno strumento legislativo non

ordinario, quale è il decreto legge, e quindi con esso istituire

anche un tributo straordinario, destinato a vivere una breve

stagione, quella dell’emergenza. Insomma una sequenza

ineccepibile: esigenze gravi ed eccezionali, strumento

65 Così Corte cost., 5 febbraio 1996, n. 21.

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legislativo derogatorio delle normali competenze, tributo

straordinario.

Non appare, invece, compatibile con il principio statutario

l’istituzione, con decreto legge, di un tributo ordinario perchè

appare contradditorio provvedere con esso a soddisfare

un’esigenza straordinaria e urgente.

In altre parole è legittimo chiedersi se avrebbe potuto essere

istituita per decreto legge, come avvenne nel lontano 1989, la

tormentatissima ICIAP, l’imposta comunale per l’esercizio

d’imprese, arti e professioni (si veda il d.l. 2 marzo 1989, n.

66, convertito con modificazioni della legge 24 aprile 1989, n.

144) perchè essa non era, e non voleva essere, a differenza

della Socof e dell’ISI, sopra ricordate, una imposta

straordinaria e non intendeva fare fronte a una specifica

eccezionale necessità ma si presentava come una modificazione

strutturale e permanente dell’ordinamento tributario comunale.

Al riguardo non sarebbe valsa neppure la constatazione che,

allora, nessuna imposta chiamava a contribuire alle spese

comunali la ricchezza mobiliare, derivante dall’esercizio di

un’impresa, di un’arte, di una professione.

Era così, infatti, da anni, da decenni onde alla lacuna

strutturale dell’ordinamento tributario comunale non si poteva

certo provvedere con un tributo straordinario, transeunte,

confliggente con l’intento perequativo perseguito che era

strutturale e non eccezionale.

Ecco allora la duplice valutazione che avrebbe dovuto farsi (e

che dovrà farsi) in presenza della norma oggi dettata dallo

Statuto del contribuente.

L’intervento con un decreto-legge, nell’esempio fatto, avrebbe

dovuto trovare giustificazione nell’esigenza straordinaria di

intervenire urgentemente a favore della fiscalità comunale (e la

situazione del 1989 offriva ben più di uno spunto) anche con un

tributo; ma la scelta di un tributo ordinario si sarebbe

scontrata con il canone generale che, oggi, in presenza dello

Statuto, ne preclude in via di principio l’adozione.

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In sintesi la disciplina statutaria ha una sua autonoma valenza

che, con riguardo alla materia tributaria, integra il disposto

dell’art. 77 della Costituzione.

Prof. Raffaele Botta, Consigliere di Cassazione SS.UU.

“L’interpretazione dello statuto del contribuente nelle sentenze

della Suprema Corte di Cassazione”

1. Debbo confessare di essere rimasto sorpreso che il tema

assegnato a questo Convegno fosse lo Statuto del contribuente.

Mi sembra, infatti, che questa non sia più un’epoca di statuti,

anzi non sia più un’epoca di diritti.

Dopo le dolorose vicende dell’11 settembre 2001 e quelle che a a

tale avvenimento sono seguite, è iniziato, in tutto il mondo ed

in tutti gli ordinamenti giuridici, un cammino di regressione

dei diritti e soprattutto della tutela dei diritti.

Si è conseguentemente determinato un (forse dai più inavvertito)

rafforzamento degli “elementi di prepotenza” del legislatore e

dei governi, fino ad arrivare a considerare nel novero delle

possibilità l’utilizzo della tortura come mezzo di

interrogatorio.

Questo oscuro percorso di formazione del diritto e della

giustizia lascia, quindi, abbastanza perplessi sulla possibilità

di parlare efficacemente di tutela dei diritti. Ma proviamo a

riflettere ugualmente sulla realtà attuale di almeno uno del

mezzi di tutela che l’ordinamento giuridico italiano, in anni

precedenti a questi dolorosi sviluppi, ha tentato di

predisporre.

2. Il “cosiddetto” Statuto del contribuente, come lo ha

efficacemente definito il Prof. Marongiu nella sua bellissima

relazione, si compone di due parti.

Se si riflette bene sulla prima parte, in particolare ai quattro

articoli iniziali, è abbastanza agevole scoprire che ci si trova

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di fronte ad una sorta manuale del buon legislatore, che sembra,

a mio avviso, perdere parte della sua forza proprio per essere

(riduttivamente) classificato con “statuto del contribuente”.

E’ noto che il legislatore non sopporta vincoli, quasi sempre li

ritiene intollerabili e uno “statuto” che fosse imperativo, sul

piano generale dell’ordinamento (e non solo) per una disciplina

di settore, potrebbe avere conseguenze di rilievo. Per questo

sembra davvero non condivisibile la lettura riduttiva che di

redente la Corte costituzionale sembra patrocinare nei confronti

di detto statuto.

Eppure è difficile dimenticare che proprio la Corte

costituzionale, certo in anni meno recenti, ha “qualificato” una

particolare categoria di norme come principi supremi

dell’ordinamento costituzionale. Un categoria normativa questa

riprende gli esiti di una polemica antica su quale debba essere

la interpretazione del criterio di gerarchia delle fonti.

Alla gerarchia formale delle fonti del diritto la Corte

Costituzionale, con i principi supremi dell’ordinamento

costituzionale, ha voluto associare definitivamente una

gerarchia materiale delle norme giuridiche.

Gerarchia materiale, che non corrisponde ad una sorta di diritto

vivente rafforzata dal diritto di maggioranza (o di prepotenza

della maggioranza). No. E’ qualcosa totalmente altra.

Nella categoria delle norme che possono ritenersi ad altre

sovraordinate nonostante siano dotate della stessa forza

formale, tradizionalmente si colloca il principio di

irreformabilità della Costituzione c.d. “materiale” se non

attraverso lo “spargimento del sangue”, in quanto comporta la

rottura del patto costituzionale che sta a fondamento della

stessa Costituzione.

Nell’attuale testo costituzionale un siffatto principio viene

esplicitato solo con riferimento alla forma repubblicana dello

Stato (art. 139 Cost.), ma in realtà esso è alla base dei

diritti fondamentali della persona e trova una basilare

espressione nell’art. 2, che è stata definita dalla Corte

Costituzionale e dalla dottrina in forma kelseniana come la

Grundnorm dell’ordinamento costituzionale italiano. Una norma

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che esprime un principio di solidarietà che non si può rompere

se non rompendo l’ordinamento.

L’irruzione sulla scena dei principi supremi dell’ordinamento

costituzionale evidenzia l’esistenza all’interno di uno stesso

quadro normativo di norme, come potremo dire, che sono più

costituzionali di altre, nel senso che hanno un superiore limite

di reformabilità. Questo introduce nell’ordinamento un principio

di organizzazione delle fonti in cui, anche all’interno dello

schema della legge ordinaria, fonti formali si possono

affiancare le a fonti materiali.

3. Lo statuto del contribuente si dovrebbe porre all’interno di

questo disegno costituzionale che vede accanto alle norme

costituzionali – peraltro anch’esse organizzate in una loro

interna gerarchia materiale – quelle fonti che sono definiti

leggi “rinforzate”, fonti cioè che hanno una resistenza passiva

all’abrogazione superiore alla propria collocazione secondo la

gerarchia formale.

Lo statuto del contribuente per non essere declassato a “carta

dei servizi” dovrebbe inserirsi in questo quadro. Esso, infatti,

non si prospetta come una “norma sull’organizzazione della

pubblica amministrazione”, ma esprime principi che sono relativi

alla formazione del diritto, vere e proprie norme sulla norma,

cioè norme procedurali che indicano al legislatore il modo di

confezionare le leggi (nel caso di specie, in materia

tributaria).

Ma proprio per questa caratteristica, i principi espressi dallo

Statuto, in particolare quelli che sono codificati nei primi

quattro articoli, dovrebbero trovare una applicazione più ampia

grazie a un lavoro di esegesi che potrebbe spettare alla Corte

Costituzionale.

I problemi che pongono, ad es., le leggi finanziarie di un

articolo con 1800 commi e l’utilizzo continuo del decreto-legge

trovano la propria radice nel malfunzionamento del Parlamento:

il legislatore è costretto a agire così, non è una scelta, il

prezzo è non legiferare addirittura, perché il procedimento

legislativo è spesso utilizzato in modo alterno dalle forze

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politiche come interdittivo del risultato finale: e spesso un

determinato procedimento diviene, come efficacemente ha detto il

professor Marongiu, un tram per portare a destinazione qualcosa.

E’ piuttosto evidente lo svantaggio che ne deriva al cittadino

(e non al solo contribuente): e allora la Corte Costituzionale

dovrebbe avere il “coraggio” di affermare che una legge fatta

così è incostituzionale e basta, perché viola le norme sulla

corretta procedura legislativa, oltre che porre seri problemi di

conoscibilità delle norme da parte del destinatario (problema

tipico delle c.d. leggi omnibus, oggi tanto utilizzate).

4. Il principio di trasparenza, cui l’ordinamento deve

(dovrebbe) rispondere a partire dalla formazione della norma per

giungere fino all’organizzazione dell’amministrazione, è un

principio generale che comporta che la norma sia semplice, che

la norma sia comprensibile, nei limiti in cui sia possibile per

non snaturare la fondamentale funzione di essere contenitore

predisposto a contenere quello che c’è oggi ma anche quello che

ci sarà.

Il diritto è per sua natura qualcosa che segue sempre gli

avvenimenti: il problema sorge prima all’interno della compagine

sociale e il diritto rappresenta una risposta a quel problema.

Occorre che sia una buona risposta, una risposta che abbia anche

una capacità di resistenza (non si effimera, cioè si risolva in

una “legge provvedimento”).

Come ottenere questo risultato è il problema fondamentale dello

Stato, e soprattutto dell’ordinamento dello Stato italiano, che

si può risolvere solo attraverso una approfondita riforma del

procedimento legislativo da porre nella Costituzione, perché è

solo la Costituzione che può efficacemente costituire un limite

per il legislatore, in special modo quando si tratti di una

Costituzione rigida come quella di cui il nostro paese si è

dotato nel processo costituente del secondo dopoguerra.

L’augurio è che i cittadini abbiano sempre la lungimiranza di

non concedere mai a nessuno una maggioranza tale da consentirgli

di cambiare la Costituzione senza ricorrere al patteggiamento

parlamentare con la minoranza, nel luogo deputato alla massima

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mediazione politica. I padri costituenti non a torto hanno

costruito il procedimento di revisione costituzionale chiedendo

la necessità di specifiche maggioranze “aggravate” che possano

impedire la prepotenza assoluta della maggioranza di rifare la

Costituzione a propria immagine e somiglianza (la tentazione c’è

sempre). All’epoca si riteneva impossibile arrivare ad avere

maggioranze tali che consentissero il mutamento della norma

costituzionale: ma oggi, con la polarizzazione che sempre più

sta subendo il sistema politico il problema potrebbe porsi.

5. La legge ordinaria, invece, non riesce a stabilire, come la

vicenda dello Statuto del contribuente mostra, un efficace

limite al legislatore.

Persino la Corte Costituzionale esclude che possa pensarsi, pur

in un caso così particolare, ad una scissione tra forza

“formale” e forza “materiale” della fonte, al punto che lo

Statuto potrebbe non costituire alcun ostacolo ad una diversa

volontà legislativa, pur quando la ratio legis di questa

particolare fonte del diritto – l’intentio che il legislatore vi

ha espresso – svela che la predetta normativa è nata per

costituire un limite invalicabile, o quanto meno non valicabile

mediante il normale processo legislativo, che aspira ad eccedere

la categoria, i contribuenti, per la quale è stata adottata.

Anzi poiché la sfera di applicazione della norma tributaria

risponde al tradizionale principio “no taxation without

legislation”, la scelta di affidare questo messaggio di regole

di comportamento diretto al legislatore ad uno Statuto del

contribuente potrebbe non essere del tutto impropria e avere una

notevole capacità espansiva nel sistema.

Singolarmente la Corte di Cassazione ha riconosciuto alla prima

parte dello Stato la funzione di chiave interpretativa della

seconda parte dello Statuto medesimo, anzi di più: la Corte ha

dato alla parte introduttiva dello Statuto la consistenza di

parametro di valutazione di conformità “quasi costituzionale” di

altre norme tributarie. Qualcosa di simile a quella attività che

il giudice delle leggi da tempo chiede al giudice del merito e

di legittimità: verificare l’esistenza di una possibile

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interpretazione di una norma in senso costituzionalmente

conforme prima di denunciarne il sospetto di incostituzionalità.

Una corretta applicazione dello Statuto, rafforzato da questa

valenza di canone interpretativo riconosciutogli dalla

giurisprudenza della Corte di Cassazione, potrebbe ridurre

l’intervento del legislatore nell’elaborazione di norme

interpretative, che quasi sempre esprimono il “fastidio” del

legislatore per i “risultati” della giurisprudenza nella

applicazione delle norme (di diritto tributario in particolare,

stante la forza cogente delle esigenze di cassa).

Ma la norma interpretativa è la norma più scandalosa

dell’ordinamento. Lo è ancor più in un ordinamento come quello

italiano perché sconta i tempi lunghi della giustizia, sì da

determinare, a seconda della durata di un processo, trattamenti

differenziati di situazioni regolate dalla stessa disposizione

di legge (in un senso prima del sopraggiungere della norma

interpretativa, in altro successivamente all’entrata in vigore

di questa).

Proprio la consapevolezza di questa possibile ingiustizia, ha

determinato il legislatore dello Statuto ad obbligare il futuro

legislatore a dichiarare espressamente il carattere

interpretativo di una norma che egli stesse per emanare: un

rafforzativo dell’opera che può sempre svolgere la Corte

costituzionale negando ad una norma, che pur si dichiari tale,

di non avere i caratteri per essere realmente una norma

interpretativa.

L’idea di un rafforzamento delle tutele è connaturata

all’esistenza di uno statuto che concerna un rapporto

asimmetrico, come è il caso dello statuto dei lavoratori. In

tutti i rapporti asimmetrici c’è bisogno di una maggiore tutela

nei confronti della parte debole: il contribuente è una parte

particolarmente debole, perché l’altra parte – lo Stato – può

addirittura cambiare le regole del gioco in corso, attraverso la

norma interpretativa.

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6. La “seconda” parte dello Statuto è quella che concerne il

rapporto tra contribuente ed amministrazione, un rapporto

presidiato per la ricordata asimmetricità delle posizioni.

Tuttavia, va anche sottolineato che finora la Corte di

Cassazione ha interpretato i principi dello Statuto in una

prospettiva “in negativo” più che “in positivo”: nel senso cioè

di riconoscere ai principi in questione una forza espansiva

verso il passato, ma esclusivamente una cogenza verso il futuro.

Eppure non sarebbe fuor d’opera dubitare che questo tipo di

legge stabilisca norme solo per l’avvenire. Si tratta, infatti,

di una legge che esplicita principi costituzionali, una legge

che chiarisce quello che già c’era nell’ordinamento, quello che

già c’è, è una sorta di norma interpretativa, se vogliamo, di

quello che volevano esprimere le disposizioni di tutela del

contribuente presenti all’interno del disegno costituzionale.

Potrebbe, quindi, ben trattarsi di norme applicabili anche per

il passato, almeno all’interno di determinati confini. In ogni

caso in esse c’è l’individuazione di principi che sono

indicativi di una tutela che vuole essere rafforzata.

Un principio di questo tipo è stato, per esempio, visto

nell’art. 6 che prescrive la conformazione all’ordinamento

comunitario, imponendo all’amministrazione di non potersi

rifugiare in una astratta negazione di aver ricevuto la domanda

che il contribuente asserisce di aver presentato, ma deve dare

prova di questo, potendo addirittura il giudice, ecco qui

entriamo in una prospettiva processualcivilistica, formarsi un

convincimento sulla base del comportamento processuale tenuto

dalla stessa amministrazione.

Ecco, questo contatto, che è continuo nel disegno di riforma,

tra processo tributario e processo civile, mi rassicura sulla

efficacia della tutela del contribuente che può realizzarsi nel

momento dell’esercizio della giurisdizione, la garanzia di una

indipendenza di giudizio che si sviluppi senza “guida”

predeterminata. Per questo sono prudente nel giudicare sui

limiti dell’autonomia della giurisdizione tributaria, nel senso

che mi turba ogni tentativo di creare una distanza tra istituti

processuali civilistici e istituti processuali tributari. Più di

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tutto mi turbano le istanze, anche assai autorevoli, per la

istituzione di una “Cassazione Tributaria”, che mi sembra

somigliare ad una resurrezione della Commissione Centrale e ad

una possibile morte dell’efficace tutela del contribuente, .

La Cassazione rappresenta l’unitarietà dell’ordinamento dello

Stato e minare l’unità della Corte Suprema significa, può ben

significare, ridurre la giustizia tributaria a giustizia

amministrativa (come giustizia del “principe”), significa

regredire nel percorso che tanto faticosamente si è fatto per

portare il processo tributario al livello degli istituti

processuali civilistici.

La Corte di Cassazione si è sforzata di esprimere questa

vicinanza ai principi processuali civilistici, e posso dire che

le soluzioni più nuove e più interessanti per gli istituti

processualcivilistici lo stanno realizzando le Sezioni Unite

proprio prendendo spunto dalla materia tributaria. E’ stato così

per la rilevanza del giudicato esterno ed attualmente una

ordinanza della Sezione tributaria ha posto il problema della

notifica di una sola copia del ricorso ad un procuratore che

rappresenta più parti, ritenendo che la tutela del diritto di

difesa non sarebbe accresciuta in nulla, anche stante l’attuale

tecnologia (fax, fotocopiatrici, ecc.), dalla notifica di più

copie dello stesso atto.

7. Tra gli altri principi dello Statuto credo abbia una notevole

rilevanza il principio di collaborazione, di cui è figlio il

principio di affidamento: la trasparenza, assicurare la

trasparenza, è un problema fondamentale nel rapporto tra

l’ammini-strazione ed il contribuente.

In base a siffatto principio la Corte di Cassazione ha affermato

che: «i tema di contenzioso tributario, nel caso in cui il

contribuente deduca che la prova di una determinata circostanza

a lui favorevole emerge dalla documentazione detenuta

dall’amministrazione finanziaria (nel caso, bollette e documenti

comprovanti l’avvenuto pagamento), quest’ultima è tenuta, in

forza del principio di collaborazione fra P.A. e privati,

confortato dalla legge n. 212/2000 che ha dettato le

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disposizioni in tema di statuto del contribuente (da cui deriva

una diversa ricostruzione dei loro rapporti anche in materia di

distribuzione dell’onere della prova), a pronunciarsi in maniera

espressa e non generica sull’effettivo possesso degli atti in

questione, potendo in caso contrario il giudice desumere

argomenti di prova dal suo comportamento omissivo» (Cass. n.

21512 del 2004).

Tutto ciò non è forse una conseguenza, uno sviluppo se si vuole,

dei principi espressi dall’art. 97 Cost.? La Corte

costituzionale non ha mancato, ad esempio, di sottolineare che

l’osservanza, sul piano comunitario, dei principi di parità di

trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di

trasparenza, sul piano interno, costituisce attuazione delle

stesse regole costituzionali della imparzialità e del buon

andamento, che devono guidare l’azione della pubblica

amministrazione ai sensi dell’art. 97 Cost. (v. Corte cost. n.

401 del 2007): un orientamento, a ben vedere, non molto diverso

da quello adottato dalla Corte di Cassazione

nell’interpretazione del principio di collaborazione stabilito

dallo Statuto del contribuente. Un orientamento capace di

ridurre efficacemente l’amministrazione ad interpretare il ruolo

di una delle parti del processo, con il conseguente

accrescimento della sfera di tutela del contribuente.

Nella stessa direzione mi sembra si muova la Corte di

Cassazione, quando, a Sezioni Unite, ha affermato che «la

circolare con la quale l’Agenzia delle entrate interpreti una

norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli

uffici gerarchicamente subordinati, esprime esclusivamente un

parere dell’amministrazione non vincolante per il contribuente»

(Cass. S.U. n. 23031 del 2007). La circolare esprime la

“dottrina dell’am-ministrazione”, ma non è (e non equivale a)

una norma.

8. Al principio dell’affidamento che emerge dal principio di

collaborazione è strettamente connesso il principio, anch’esso

espresso dallo Statuto, della chiarezza della motivazione degli

atti, perché il contribuente ha diritto a conoscere la pretesa

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tributaria nei suoi esatti confini, per poter efficacemente

esercitare il diritto fondamentale alla difesa.

Una importante presa di posizione in tema di principio di

affidamento, mi sembra che la Corte di Cassazione l’abbia

adottata con la sentenza n. 1231 del 2007, che riprende una più

risalente decisione (la n. 17576 del 2002): «In tema di condono

fiscale, con riguardo alla chiusura delle liti pendenti prevista

dall’art. 2-quinquies del d.l. 30 settembre 1994, n. 564,

convertito nella legge 30 novembre 1994, n. 656, la previsione

della natura perentoria del termine, di cui all’art. 6, comma 3,

del regolamento reso col d.P.R. 28 settembre 1994, n. 591, per

la comunicazione, da parte dell’ufficio, dell’insussistenza dei

presupposti per la definizione, con conseguente decadenza

dell’amministrazione finanziaria dall’esercizio del potere di

reiezione dell’istanza di condono, oltre a non essere contenuta

nella norma regolamentare, non si ricava dalla disciplina

legislativa della materia, nella quale non si riscontra alcun

limite temporale alla comunicazione sull’istanza del

contribuente. L’osservanza del termine posto dal comma 3

dell’art. 6 del regolamento è, del resto, espressamente esclusa,

dal successivo comma 6, per le istanze relative a liti fiscali,

come quella oggetto della controversia di specie, di valore

superiore a lire 20 milioni. Una volta venuta meno la necessità

per l’amministra-zione di osservare il detto termine

regolamentare, in presenza di una comunicazione tardiva

sull’istanza di condono proposta, non è configurabile la

violazione del principio di affidamento del contribuente di

fronte all’azione dell’ammini-strazione finanziaria, ai sensi

dell’art. 10, commi 1 e 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212,

il quale dà luogo ad una situazione tutelabile quando sia

caratterizzata: a) da un’apparente legittimità e coerenza

dell’attività dell’Amministrazione finanziaria, in senso

favorevole al contribuente; b) dalla buona fede del

contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata

dall’assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza

gravante sul medesimo; c) dall’eventuale esistenza di

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circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la

sussistenza dei due presupposti che precedono».

Ma ancor più importante potrebbe rivelarsi, per quanto ho prima

detto in ordine alla possibile estensibilità in senso

retroattivo dell’applicazione dei principi dello Statuto,

l’affermazione che la Corte di Cassazione ha fatto nella

sentenza n. 5951 del 2007: «Nel processo tributario, il ricorso

avverso un avviso di mora, emesso dal concessionario per la

riscossione, che venga notificato all’ufficio non competente,

ricorrendo l’ipotesi, prevista dall’art. 6 del d.P.R. 26 ottobre

1972, n. 644, di costituzione in una medesima circoscrizione

territoriale di due distinti ed autonomi uffici distrettuali

delle imposte dirette, assegnatari di differenti servizi, non

può essere ritenuto inammissibile. Ciò in quanto, considerato

che l’atto impugnato non conteneva nella specie alcuna

indicazione nominalistica dell’ufficio finanziario, ritenere

inammissibile il ricorso si porrebbe in contrasto con il

principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino,

ora codificato, in materia tributaria, dalla legge 27 luglio

2000, n. 212, ma già costituente, alla luce degli artt. 3, 23,

53 e 97 Cost., un principio fondamentale dell’ordinamento,

vigente anche a prescindere, ed oltre, la portata della

normativa del 2000, ed idoneo ad orientare la soluzione di

questioni, come quella di specie, basata su formalistiche

distinzioni di servizi esplicati nel medesimo settore

impositivo».

Come si vede nell’orientamento della Corte di Cassazione, a

differenza di alcuni segnali di significato incerto che vengono

dalla Corte costituzionale, sembra prevalere l’apertura verso

una lettura dello Statuto costituzionalmente orientata in un

senso forte e non in un senso debole. Vedremo quali saranno i

risultati nel futuro.

E’ certo comunque che lo Statuto del contribuente rimane un

complesso di norme che costituisce un esempio di quello che si

dovrebbe fare per migliorare il processo di formazione

legislativa e la tutela del cittadino dalle tentazioni di

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prepotenza del legislatore e delle maggioranze politiche

temporanee.

Lo Statuto del contribuente è un’esperienza positiva

dell’ordinamento giuridico italiano.

Avv. Giuseppe Falcone, già Consigliere di Cassazione SS.UU.

“L’ interpello e la tutela giurisdizionale del contribuente in

ambito statutario”.

1.L’interpello.

Nell’ambito dello Statuto, l’interpello è probabilmente

l’istituto che ha suscitato il maggiore interesse pratico. Basti

pensare che dal giugno 2001 e fino alla fine del 2005 l’Agenzia

delle Entrate ha dato risposta tempestiva a ben 34.424

interpelli ordinari ed ha reso così un servizio sicuramente

apprezzato dai contribuenti.

Presupposto per esercitare il diritto di interpello è che vi

siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta

interpretazione e applicazione di disposizioni tributarie a casi

“concreti e personali”. L’art. 11 dello Statuto richiede che

l’istanza di interpello venga fatta in maniera “circostanziata e

specifica”. Questo vuol dire che l’esposizione del fatto, o del

comportamento da tenere, assume grandissima importanza al fine

di consentire l’individuazione della norma che deve essere

applicata, nonché il suo ambito di operatività.

Va subito evidenziato che con l’interpello si risolvono soltanto

questioni di diritto attraverso la qualificazione dei fatti e

dei comportamenti che vengono prospettati (comportamenti che non

sono stati ancora tenuti e che si intendono porre in essere). La

risposta che l’Agenzia fornirà non è idonea ad accertare fatti.

Questo è compito che fuoriesce dall’interpello e compete

all’Amministrazione in sede di accertamento.

Di recente, è stato escluso l’utilizzo dell’interpello nel caso

di determinazione del “valore normale” di alcuni immobili (ris.

N.170/E del 13 luglio 2007- Agenzia delle Entrate), sul

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presupposto che a seguito delle modifiche apportate dall’art.

35, comma 2 D.L. n.223/06 (c.d. manovra Prodi), a favore

dell’Ufficio esiste ormai una presunzione relativa, spiegata

anche nella circolare n.6/E del 06.02.2007, basata su una serie

di elementi la cui presenza consente di considerare il

corrispettivo indicato nell’atto come non corrispondente al

prezzo effettivamente pagato. Forse è opportuno segnalare che in

questa materia il contenzioso è destinato ad aumentare in

maniera sensibile per effetto delle presunzioni che le norme

recenti hanno introdotto nelle compravendite immobiliari nel

tentativo di agevolare l’azione accertativa ancorata al c.d.

“valore normale”. Si deve convenire sulla esattezza di questa

risoluzione poichè la ricognizione (o la ricostruzione) dei

fatti non può costituire oggetto di istanza o di risposta di

interpello, costituendo questo solo uno strumento di attività

consultiva dell’Amministrazione in ordine alla interpretazione

delle norme tributarie, e non potendo essere utilizzato per

ottenere una forma di salvacondotto sulle prove che si intendono

utilizzare nel giudizio.

L’interpello è sicuramente uno strumento preventivo, ma non si

può negare che esso venga usato anche quando il contribuente ha

già applicato delle norme, ma è ancora nei termini per

esercitare altre attività giuridicamente rilevanti, quali per

esempio una dichiarazione integrativa e forse anche un

ravvedimento operoso. La conoscenza del pensiero

dell’Amministrazione può essere utile al contribuente che ha

ancora dei margini di tempo per correggere la sua impostazione

iniziale su una questione che si presta a soluzioni differenti,

previo utilizzo di strumenti previsti dall’ordinamento.

La risposta all’interpello ha il valore di un parere e non

costituisce esercizio di potestà impositiva nei confronti del

richiedente. Essa vale esclusivamente per il contribuente che ha

formulato l’interpello, tranne il caso in cui un numero elevato

di contribuenti abbia prospettato la stessa questione a fronte

della quale può essere emanato un atto generale che, quanto a

vincolatività, avrà lo stesso valore giuridico e gli stessi

effetti di una risposta singola.

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Il valore particolare della risposta in sede di interpello

consiste nel fatto che l’Amministrazione è vincolata a tenere

ferma quella risposta, anche se essa dovesse risultare poi –re

melius perpensa- inesatta o errata. La norma prevede, infatti,

la nullità di un provvedimento impositivo o sanzionatorio emesso

in contrasto con la risposta. E’ chiaro che qui la norma fa

prevalere il principio dell’affidamento sul principio di

legalità mentre, al di fuori dell’interpello, nel caso in cui

l’Amministrazione modifichi il proprio orientamento espresso in

altri atti (per esempio in una circolare), prevale il principio

di legalità nel senso che, il contribuente che si sia adeguato

alle indicazioni contenute nella circolare, non pagherà gli

interessi e le sanzioni, ma dovrà pagare l’imposta se

l’Amministrazione manifesta una opinione diversa rispetto a

quella già manifestata. Sia la norma che prevede gli effetti

dell’interpello, e sia la norma che tutelano l’affidamento sono

norme eccezionali e non possono valere oltre i casi in esse

previste.

La mancata risposta nel termine di 120 giorni fa formare il

silenzio-assenso, valido ovviamente nell’ambito del

comportamento descritto nell’istanza. Pare che fino a questo

momento l’Amministrazione abbia sempre dato una risposta.

Il contribuente è libero di accettare la risposta e di

conformare il proprio comportamento ad essa o di disattenderla.

Se si adegua, otterrà una stabilizzazione degli effetti del

rapporto poiché l’Ufficio non potrà più porre in discussione la

soluzione data.

Ritengo che non ci sia la possibilità di impugnare una risposta

che dichiari l’inammissibilità dell’interpello posto che una

tale impugnativa non è prevista da nessuna norma.

-

2.La tutela del contribuente in ambito statutario.

La legge n.212/2000 è intitolata “Disposizioni in materia di

statuto dei diritti del contribuente”.

Il termine statuto fa pensare ad un complesso di norme formulate

per meglio individuare e per meglio tutelare i diritti di una

categoria di soggetti.

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Se lo statuto riconosce situazioni di favore per alcuni

soggetti, in quello stesso momento pone a carico di altri

soggetti una serie di obblighi, il cui adempimento è dato spesso

come un fatto abbastanza generalizzato e prevedibile. Con uno

strumento di questo tipo in effetti si da visibilità normativa

ad orientamenti in linea di massima abbastanza condivisi e

diffusi, o quantomeno auspicati dalla gran parte della gente,

orientamenti che anche a seguito di un riconoscimento esplicito

tendono a diventare un costume. Questo è avvenuto per lo statuto

dei lavoratori che è divenuto patrimonio comune, ormai

tendenzialmente irreversibile, anche se è contenuto in una legge

ordinaria.

La differenza tra i due statuti è che mentre i datori di lavoro

sono soggetti privati, che prima o poi pagano il prezzo di un

inadempimento, nel caso dello statuto del contribuente, le

controparti sono soggetti pubblici, che storicamente hanno

goduto e godono (almeno il legislatore) di un potere di

supremazia e di una sostanziale impunità. Basta pensare che il

legislatore tributario è alla ricerca di un equilibrio fin dagli

anni settanta. Da una parte vi è un livello di evasione molto

alta, e dall’altra vi è una pressione altrettanto alta nei

confronti di chi è conosciuto dal Fisco. Da alcuni anni buona

parte del dibattito politico ruota attorno al problema

tributario proprio perché in questo settore si riscontrano le

più grosse ingiustizie che toccano i cittadini nella

quotidianità. La speranza è che le regole dello statuto, proprio

perché esprimono valori di civiltà, vengano sentite come proprie

non solo dai contribuenti, ma anche da chi deve applicarle,

rispettarle e farle rispettare, sempre che questi soggetti si

convincono che questa è la strada maestra.

Al di là della singola norma, lo statuto deve orientare la

giurisprudenza del futuro, come è stato scritto nel 2000 da un

giurista insigne, Vincenzo Carbone, che all’epoca è stato

presidente presso la Sezione Tributaria, e che da un anno è

Primo Presidente della Cassazione. Nell’articolo apparso su

Guida Normativa del 14.12.2000, Carbone significativamente ed

incisivamente ha scritto che ““Lo statuto del contribuente può

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avere un impatto importante sul diritto tributario, ma perché

ciò avvenga occorre che contribuenti, difensori e interpreti se

ne facciano paladini invocandone l’applicazione e

l’interpretazione da parte dei giudici. Il problema è

l’acquisita consapevolezza della rilevanza dello statuto come

tale, anche se nel caso concreto si invoca una singola,

specifica disposizione. Bisogna evitarne la frammentazione che

accrescerebbe la debolezza dello statuto, aumentando il degrado

di un diritto già eccessivamente casistico, per puntare, invece,

come in un puzzle sulla norma relativa al caso di specie

cogliendo contestualmente lo spirito dell’intero statuto che

tiene insieme le varie parti: dalla tessera musiva si risale al

mosaico. Se attraverso l’interpretazione dei giuristi lo statuto

decollerà, lo dovrà non alla fortuna di una o più disposizioni,

ma al successo della ratio di una tela ordinamentale, percepita

e vissuta come tale: lo statuto che sancisce la tutela del più

debole, meritevole di protezione da parte dell’ordinamento. E’

il percorso di un’idea portante, la tessitura dell’intero

statuto, accompagnata dalla consapevolezza che si può resistere

all’invasione degli eserciti, ma non si resiste all’invasione

delle idee e delle esigenze come la tutela del contribuente di

fronte al Fisco, in un rapporto che ricorda Davide di fronte a

Golia””.

Ecco, a distanza di circa otto anni, le parole del Presidente

Carbone manifestano la loro attualità. Oggi, però, forse si

stanno manifestando anche le difficoltà a fare valere i diritti

scritti nello Statuto, quando la controparte è lo Stato

legislatore, che nella sua posizione di supremazia diverse volte

ha rinnegato quanto aveva scritto nel 2000. Occorre riconoscere

che la Cassazione da subito ha fatto e continua a fare

egregiamente la sua parte, come è emerso dalla relazione

dell’illustre Consigliere Raffaele Botta. Bisogna auspicare che

questa tendenza possa contagiare anche altri livelli

dell’ordinamento, che hanno la capacità di apprezzare sul piano

culturale i valori espressi dallo statuto, anche essi se non

hanno l’involucro della legge costituzionale, ma a quelle norme

hanno voluto dare attuazione.

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2.1.La tutela delle situazioni giuridiche nell’ambito

statutario.

Nello statuto del contribuente ci sono norme che assegnano

posizioni di diritto soggettivo (la cui tutela è assegnata ai

Giudici Tributari), norme che assegnano genericamente posizioni

di interesse legittimo (e per queste, almeno a livello di atti

generali, la tutela è riservata dall’art. 7, ultimo comma al

Tar), ci sono norme (a mio avviso le più significative e le più

importanti) che riconoscono solo un interesse di fatto e

diffuso, collegato al diritto di cittadinanza (per alcune di

queste la tutela è assegnata al Garante e per altre la tutela

resta affidata o alla Corte Costituzionale o al self restraint

del soggetto passivo).

Per il primo tipo di norme, portatrici di diritti soggettivi ed

affidate alle cure dei Giudici Tributari, pensiamo ad esempio al

principio della obbligatorietà della motivazione, ormai

generalizzata e intesa come strumento che legittima in senso

democratico l’esercizio del potere di accertamento e

sanzionatorio, e la cui violazione comporta sicuramente la

nullità dell’atto.

-

Per il secondo tipo di norme, portatrici di interessi legittimi,

ed affidate alle cure dei Giudici amministrativi, pensiamo ad

esempio alla corretta applicazione dei procedimenti previsti per

l’emanazione degli studi di settore, del redditometro, di atti

generali nelle materie più varie (per ultimo, si veda il

decreto ministeriale in tema di determinazione del valore

normale degli immobili).

Qui, in verità occorre soffermarsi un momento.

L’art. 7, comma 4, dello Statuto ha previsto che la natura

tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di

giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti.

Sembrava, in base a questa norma, che anche atti aventi natura

individuale, allorché lesivi di interessi legittimi,

appartenessero alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Poi, nel 2001 è stato modificato l’art. 2 del D.Lgs. n.546/1992

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ed è sembrato che sia stata creata una giurisdizione esclusiva a

favore dei Giudici Tributari. Poi, nel 2006, il fermo

amministrativo e l’iscrizione di ipoteca (che costituiscono

tipici atti discrezionali) sono stati assegnati alle Commissioni

tributarie.

Intanto, è necessario richiamare le sentenze emesse dalle

Sezioni Unite della Cassazione in tema di autotutela (sentenze

nn.16776/05, 7388/07, 22245/06). Il Supremo Collegio ha

confermato la creazione di una giurisdizione esclusiva anche per

gli atti discrezionali, ed ha spostato il problema sulla

proponibilità della domanda, e quindi sulla impugnabilità

dell’atto di cui si discute.

Al Giudice amministrativo restano sicuramente gli atti generali

(cfr. in questi sensi SS.UU. sent. n.16428/07) che tanta

importanza stanno assumendo nel diritto tributario da quando

sono state introdotte massicciamente le presunzioni, che la

riforma degli anni 70 aveva lasciato ai margini del sistema,

avendo operato una scelta più garantista che poi –purtroppo per

la storia italiana- non è stata attuata con la necessaria

determinazione.

A questo punto, è indispensabile richiamare una sentenza molto

recente delle Sezioni Unite in tema di impugnabilità delle

circolari, sentenza redatta dal qui presente Prof. Botta nella

quale è stato formulato il seguente principio di diritto ““La

circolare con la quale l’Agenzia delle Entrate interpreti una

norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli

uffici gerarchicamente subordinati perchè vi si uniformino,

esprime esclusivamente un parere dell’amministrazione non

vincolante per il contribuente, e non è, quindi, impugnabile né

innanzi al giudice amministrativo, non essendo un atto generale

di imposizione, né innanzi al giudice tributario, non essendo

atto di esercizio di potestà impositiva””. Su questa base, il

Supremo Collegio ha dichiarato il difetto assoluto di

giurisdizione ed ha cassato senza rinvio. Ritengo di dovere

condividere in pieno e senza riserve i principi affermati in

questa sentenza che –pur ribadendo orientamenti già formulati in

precedenza- ha il pregio di avere con estrema lucidità

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ricondotto l’attività dell’Amministrazione nei suoi giusti

limiti assegnando alla circolare il valore di documento di

parte, senza altri ulteriori significati paranormativi. Mi piace

riferire un passaggio specifico che rende molto bene il senso

del principio di legalità, al quale ognuno deve attenersi in

materia tributaria. Si dice nella sentenza che se (la

interpretazione contenuta nella) circolare è errata, l’atto

emanato in difformità sarà legittimo perché è conforme alla

legge, se invece la (interpretazione contenuta nella) circolare

è corretta l’atto emanato in difformità sarà illegittimo per

violazione di legge. Anche per questa via, emerge un principio

al quale sono molto legato: quello che conta, ai fini di

assegnare valore ad un atto, non è la veste giuridica che esso

assume, ma è la validità intrinseca del pensiero che esso

esprime.

Allora, per concludere sul punto, al giudice amministrativo oggi

sono riservate le posizioni di interesse legittimo derivanti

dalla approvazione dei regolamenti, dei Decreti Ministeriali,

degli atti generali quali gli studi di settore, o degli atti

aventi un valore impositivo generale, quali quelli di

determinazione dei valori degli immobili o di altri beni, fatte

a livello centrale ed in via generale ed astratta. Questo

giudice ha il potere di annullamento dell’atto amministrativo,

mentre il giudice tributario ha il potere di disapplicazione

dell’atto ritenuto illegittimo.

Il sistema di tutela che ne esce è senz’altro abbastanza

completo posto che un provvedimento, se è lesivo di una

situazione giuridica, potrà essere annullato dal giudice

tributario se ha natura tributaria o disapplicato da questi se

ha natura amministrativa, e annullato dal Giudice

amministrativo, se si tratta di atto generale.

-

Per il terzo tipo di norme, quelle che sono collegate al diritto

di cittadinanza e che dovrebbero servire a contribuire a creare

una migliore qualità della vita perché trattano di questioni più

generali, mi sembra necessario ed opportuno formulare qualche

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riflessione su come lo statuto è stato considerato in questi

ultimi anni dai vari soggetti dell’ordinamento.

Per onestà intellettuale occorre sottolineare subito che

l’Amministrazione Finanziaria, in tutte le sue articolazioni, e

anche altri Enti titolari di un potere impositivo, sia con lo

strumento dell’interpello, e sia nei rapporti quotidiani ed

individuali, hanno interiorizzato lo statuto e lo hanno fatto

diventare strumento abbastanza visibile. Il clima nei rapporti è

sicuramente cambiato a seguito dello statuto.

Anche i Giudici tributari hanno fatto la loro parte soprattutto

attraverso la rimessione di diverse questioni importanti

all’esame della Corte Costituzionale, manifestando così una

grandissima sensibilità verso il tentativo di creare un sistema

normativo più aderente ai valori costituzionali, che era uno

degli scopi dello statuto.

Negli anni immediatamente successivi all’emanazione dello

statuto, da parte della dottrina c’è stata prima un diffuso

senso di scetticismo e di svalutazione della normativa. Forse

questo è accaduto perché gli studiosi conoscevano bene il

sistema e l’evoluzione normativa degli ultimi anni. Certo è che

un argomento così importante nei migliori manuali istituzionali

era appena accennato e che le pubblicazioni organiche

sull’argomento non sono abbondate. Poi, forse anche per la presa

di posizione della Cassazione, c’è stata una consapevolezza

diversa.

Sono però aumentati quelli che hanno insistito sul fatto che la

legge n. 212/2000 è in sostanza una legge ordinaria che può

essere modificata senza alcuna limitazione da ogni legislatore

successivo. Ed è stata così offerta una sponda preziosa al

legislatore che sin dal primo momento, almeno in tema di norme

interpretative e retroattive, e di allungamento dei termini

dell’accertamento, ha apportato diverse deroghe ai principi

dello statuto.

A mio avviso, è stata sprecata una occasione storica per fare un

salto di qualità, ossia per passare da un fatto formale ad un

fatto sostanziale. Ci sono paesi che non hanno leggi scritte o

che ne hanno poche e non per questo alcuni valori resistono meno

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nel tempo, con la scusa che il contenitore non è di cemento

armato. Era forse il momento di capire se i principi dello

statuto veramente volevano attuare valori contenuti nelle norme

costituzionali richiamate dallo stesso legislatore, se su quei

principi si poteva essere d’accordo o meno, e se quei principi

meritavano rispetto da tutti o potevano essere rispettati da

qualcuno ad nutum.

Quei principi sono stati definiti dal legislatore come principi

generali del diritto tributario, ossia come principi che devono

guidare l’interprete perché hanno una forza ed uno spessore

superiore ad altri principi o a principi opposti.

Se questi principi esprimono dei valori condivisibili, occorre

sostenere che ad essi si deve attenere anche il legislatore

sulla base dell’antico “Pacta sunt servanda”, utilizzato anche

nei rapporti tra Stati, e cioè ai massimi livelli, allorché non

ci sono né Carabinieri né Giudici ad applicare una sanzione.

Come si vede,allora, il problema non è se la legge è una legge

ordinaria o una legge costituzionale. Il problema è di vedere se

siamo d’accordo o meno su quei principi. Perchè, se siamo

d’accordo, dobbiamo esprimere il nostro fermo dissenso nei

confronti di un legislatore che sul piano culturale fa un

arretramento, molto negativo per le conseguenze che ricadranno

sul sistema in termini di credibilità della massima istituzione

quale è il Parlamento, che non può dire oggi una cosa e domani

un’altra, poiché o sbagliava prima o sbaglia dopo.

Ora, è chiaro che un tale problema non può essere appannaggio

solo della dottrina o della Corte costituzionale, ma deve essere

sentito e vissuto come problema di tutti, dagli operatori del

diritto ma anche da chi, al di fuori del mondo giuridico, pensa

che sia ancora attuale e valida l’esigenza di tendere al

miglioramento dei rapporti tra cittadini e stato e da chi in

definitiva ha a cuore le sorti del proprio Paese.

Già i Romani si erano posti il problema di chi custodisce i

custodi. E la risposta l’hanno data i grandi giuristi che sono

passati alla storia per avere individuato ed indicato i principi

fondamentali del sistema, a prescindere da quello che era il

contenuto delle singole leggi. Anche oggi, l’unico strumento,

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nel caso in cui il self restraint non funziona, è quello di

fare capire e di dimostrare –sul piano culturale- da parte delle

persone più attente e più credibili che le soluzioni in deroga

ai principi generali (se non sono legittimate da esigenze vere e

condivisibili) costituiscono un male peggiore di quello che con

esse si voleva evitare. Il male peggiore è proprio quello della

perdita della fiducia.

Quando le deroghe sono tante, bisogna avere il coraggio di

abrogare quei principi generali perché generali non sono più (o

forse non sono mai stati se non nella mente illuminata di chi

ha creduto che anche in Italia ci fossero le condizioni per un

cambiamento, rectius per un miglioramento).

Quello che non può essere fatto è lasciare lo statuto e

devitalizzarlo, perché si torna al passato, ad un passato di

sudditi privi di un diritto di cittadinanza piena, che

sicuramente non era più felice. Il principio dell’affidamento

(che vale innanzitutto nei confronti dello stato legislatore) è

un principio rispettato nelle democrazie più mature poiché vi

sono regole che si possono fare e regole che è meglio non fare.

E qui sta la distinzione tra diritto e legge, che resta attuale

anche in questo momento, pur caratterizzato da forme di

consapevolezza culturale mai conosciute nella nostra storia.

Un legislatore attento si preoccupa di perseguire il diritto, un

legislatore meno attento si accontenta di fare una legge.

Un discorso a parte deve essere fatto per la Corte

Costituzionale, che sembra avere scelto, con riferimento allo

statuto, la strada del valore formale di legge ordinaria

utilizzata dal legislatore del 2000.

Questo è stato scritto nella recentissima ordinanza n. 41/08

depositata il 27.02.2008 a proposito della norma interpretativa

con la quale è stato stabilito che le aree edificabili, a fini

Ici, sono ab imis anche quelle per le quali manca l’approvazione

del piano da parte della Regione o per le quali manca uno

strumento di attuazione, ma è stato scritto anche in precedenza.

Nell’ordinanza n. 41/08 è stato scritto che la norma denunciata

(l’art. 36, comma 2 d.l.n.233/06) ““in quanto dotata della

stessa forza della legge n. 212 del 2000 (che non ha valore

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superiore a quello della legge ordinaria, come sottolineatola

questa Corte con le ordinanze n.180 del 2007, n. 428 del 2006 e

n. 216 del 2004) è idonea ad abrogare implicitamente

quest’ultima e, conseguentemente ad introdurre nell’ordinamento

una valida norma di interpretazione autentica, ancorché priva di

una espressa autoqualificazione in tal senso””. La soluzione sul

piano della gerarchia delle fonti è ineccepibile, anche se essa

è insoddisfacente poichè il metro della ragionevolezza, spesso

meritoriamente applicato in molte occasioni negli anni passati,

è rimasto totalmente fuori dalla valutazione.

A me sembra che ci si dovrebbe chiedere se sia ragionevole il

principio generale secondo cui le norme interpretative devono

essere emanate solo in casi eccezionali e con qualificazione

espressa. Se a questa domanda diamo risposta positiva poiché

siamo convinti che sia giusto –in via generale- che

l’interpretazione delle norme non spetta a chi le fa (ma ad

altri, in base al principio della divisione dei poteri, di cui

ancora oggi non possiamo fare a meno), dobbiamo rispondere senza

alcuna remora che non è ragionevole riconoscere forza abrogante

implicita ad una norma emessa senza accertare la ricorrenza

della eccezionalità. L’accertamento della eccezionalità diventa

sul piano culturale indispensabile perché o accettiamo la

validità del principio generale e siamo conseguenti, o

accettiamo la validità della eccezione ed eliminiamo quella

regola generale, che evidentemente tale non è.

-

Altre due vicende, una già definita e una in corso di

svolgimento, meritano di essere esaminate proprio perché esse

hanno le radici nel principio di uguaglianza che lo Statuto

avrebbe dovuto attuare, e la cui attuazione (almeno in queste

due ipotesi) appare molto lontana.

La prima riguarda il problema della nullità delle cartelle non

contenenti l’indicazione del responsabile del procedimento.

E’ accaduto che la Corte Costituzionale, nella ordinanza

n.377/07, ha richiamato la normativa dell’art. 7 dello Statuto,

ed ha precisato che ““l’obbligo imposto ai concessionari di

indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del

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procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo

scopo di assicurare la trasparenza dell’attività

amministrativa,la piena informazione del cittadino (anche ai

fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la

garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del

buon andamento e dell’imparzialità della pubblica

amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost. (si

veda, ora, l’art. 1, comma 1, della legge n.241 del 1990, come

modificato dalla legge 11 febbraio 2005, n.15, recante

“Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n.241,

concernenti norme generali sull’azione amministrativa”)””.

E’ accaduto ancora che il legislatore, ritenendo che la mancanza

di questo elemento comporta la nullità, ha fatto una norma che

dichiara la prevede la nullità per il futuro (e cioè per le

cartelle relative ai ruoli che saranno consegnati a partire dal

01.06.2008), e che esclude quella nullità per il passato.

La situazione è diventata a questo punto paradossale poiché se

quell’elemento era veramente così importante da comportare la

nullità della cartella, la soluzione doveva essere una sola: una

norma interpretativa che affermasse la stessa soluzione per il

passato e per il futuro. Se, invece, si riteneva che la mancanza

di quell’elemento (in un atto dovuto, a contenuto vincolato) non

fosse lesiva di alcun interesse concreto (anche perché nessuno

avrebbe potuto negare una eventuale azione di responsabilità in

capo al concessionario, a prescindere dalla individuazione della

persona fisica), una norma che distingue tra passato e futuro

non doveva essere mai fatta sul piano della ragionevolezza.

L’Agenzia delle Entrate, con circolare n.16/E del 6 marzo 2008,

emanata dopo l’entrata in vigore dell’art. 36, comma 4 ter del

d.l.n.248/07, in l. n.31/08, ha invitato gli Uffici a resistere

in giudizio nelle controversie di questo tipo sul presupposto

che l’indicazione del responsabile del procedimento non era

prevista, nell’art. 7, comma 2, lett. a) dello Statuto a pena di

nullità. Il che comporterà il proliferare di un consistente

contenzioso, che dovrà essere risolto con la ricerca di una

soluzione unica per tutte le controversie, per evitare che nel

corso dei vari giudizi si possano creare intollerabili soluzioni

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differenti tra loro. Ne va di mezzo il fondamentale principio di

uguaglianza richiamato dal legislatore del 2000 all’art. 1 dello

Statuto e trattato con disinvoltura dal legislatore del 2008,

che per lo stesso vizio ha dato due soluzioni differenti.

-

La seconda vicenda, ancora da definire, è quella che riguarda il

divieto di allungamento dei tempi dell’accertamento previsto

dall’art. 3, comma 3 dello Statuto, secondo il ““I termini di

prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non

possono essere prorogati””.

Anche qui, la veste formale data alla legge dello statuto non

c’entra per niente, perché i soggetti che operano a vario titolo

nell’ordinamento o sono d’accordo sulla validità di questo

principio generale, o non sono d’accordo.

Se sono d’accordo, devono rispettare il principio proprio perché

esso è un principio generale, che può avere una deroga solo in

casi eccezionali (come in tutti i casi della vita).

Se non sono d’accordo, è meglio che dicano chiaramente che

questo principio è irrazionale e va abrogato.

La proroga dei termini previsti a pena di decadenza comporta un

mutamento delle regole mentre la partita ancora è in corso, ed è

chiaro che una proroga fatta e legittimata senza che ci sia

alcun fatto eccezionale, diventa incomprensibile sul piano del

sistema. E infatti, oggi, nel 2008, nessuno può volere, può

legittimare o può auspicare un mutamento delle regole mentre la

partita è ancora in corsa, senza mettere in discussione il senso

stesso della civiltà.

E’ accaduto, come è noto, che la legge n.289/02, da una parte ha

premiato alcuni soggetti (attraverso una rinuncia a fare valere

il potere accertativo e sanzionatorio), e dall’altra ha

penalizzato altri soggetti (che avevano la colpa di non avere

fatto il condono) prorogando di due anni i termini previsti a

pena di decadenza per l’accertamento.

La Commissione Tributaria di Cosenza, a seguito di una eccezione

di illegittimità costituzionale, con una ordinanza esemplare

(sez. XI, 24.08.2007, Pres. Rizzuti, rel. Marincolo, in Corr.

Trib. N.43/07 pag.3509, con commento favorevole di E. De Mita),

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ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale che dovrà

risolvere il problema.

Io credo che non basterà rilevare che la legge n. 212/2000 è una

legge ordinaria, poiché questa volta il principio da salvare o

da rinnegare è quello che discende dall’antico “pacta sunt

servanda”.

Si tratta, probabilmente, di valutare se questo principio

merita di restare negli schemi della ragionevolezza che sono

necessari per governare meglio la vita di relazione anche e

soprattutto in una società complessa, o se invece un preteso

senso di modernità può travolgere una regola così elementare che

continua a valere nei rapporti tra amici, tra parenti, tra

cittadini in genere, e che diventa –nei rapporti tra cittadini e

stato- carta che si può stracciare quando si vuole.

Dott. Angelo Gargani, Presidente del Consiglio di Presidenza

della Giustizia Tributaria.

Il cerchio si chiude, mi pare che l'ultima relazione è del

collega Falcone, mi consenti se ti chiamo ancora collega, ha

dato maggiore incisività più di quanto abbia fatto il professor

Marongiu o il collega Botta, peccato che non c'è una voce

contrastante, evidentemente forse non deve esserci. Va bene ora

diamo la parola al dottor Antonio Montesano notaio in Paola.

Dott. Antonio Montesano, Notaio in Paola.

“La tutela dell’affidamento del contribuente. Profili di

rilevanza notarile”.

1. Introduzione.

I principi di buona fede e di tutela dell’affidamento sono

radicati nell’intero ordinamento giuridico, a garanzia dei

rapporti che si instaurano tra soggetti privati, relativamente

alle varie vicende negoziali.

Nel particolare ambito dell’ordinamento tributario, detti

principi hanno trovato espresso riconoscimento con

l’approvazione dello “Statuto dei diritti del contribuente”

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(legge 27 luglio 2000, n. 212) che ha segnato la fine dell’era

della supremazia amministrativa nei rapporti tra i due soggetti,

privato e pubblico, dell’obbligazione tributaria.

In particolare:

• le disposizioni dello Statuto dei contribuenti, in

attuazione degli articoli 3 (principio di pari dignità sociale

di tutti i cittadini e di uguaglianza davanti alla legge), 23

(divieto di imporre prestazioni personali o patrimoniali se non

in base alla legge)66, 53 (obbligo di tutti di concorrere alle

spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva)67 e

97 (organizzazione degli uffici della Pubblica Amministrazione

secondo le disposizioni di legge)68 della Costituzione,

costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e

possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da

leggi speciali (articolo 1, comma 1);

• eventuali norme interpretative in materia tributaria

possono essere introdotte soltanto:

in casi eccezionali;

con legge ordinaria, qualificando come tali le

disposizioni di interpretazione autentica (articolo 1, comma 2).

2. Riferimenti normativi

L’articolo 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del

contribuente, sotto la rubrica «Tutela dell’affidamento e della

buona fede. Errori del contribuente», dispone che: «I rapporti

tra contribuente ed Amministrazione finanziaria sono improntati

al principio della collaborazione e della buona fede69».

66 Si tratta di una riserva di legge relativa, secondo la quale la legge non deve regolare integralmente il rapporto tributario, ma deve contenere gli elementi necessari per individuare il tributo. Sarà poi un regolamento delegato ad integrare la legge. Si ricorda che, secondo l’opinione della dottrina prevalente, l’art. 23 in esame si applica solo alle imposte e non alle tasse; tuttavia, non mancano, al riguardo, opinioni contrarie. 67 Questa norma, di carattere precettivo e non programmatico, limita la libertà dei cittadini, affermando un loro dovere e un corrispondente diritto dello Stato. 68 Il fine della norma è quello di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. 69 Come è stato precisato (Cass. 10 dicembre 2002, n. 17576, in Il Fisco 2003, pag. 137), «… il termine “collaborazione” allude, per un verso, ai principi di “buon andamento”, “efficienza” ed “imparzialità” dell’azione amministrativa tributaria di cui all’art. 97, comma 1, della Costituzione (richiamato dall’art. 1, comma 1, dello Statuto), e, per l’altro, a comportamenti non collidenti con il dovere, sancito dall’art. 53, comma 1, della Costituzione (anch’esso richiamato dalla predetta

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Detta norma fissa le regole generali di comportamento

(“collaborazione” e “buona fede” in senso oggettivo) - che

debbono sempre informare lo svolgimento delle attività di

amministrazione finanziaria e contribuente nei loro reciproci

rapporti; si tratta di regole che devono trovare applicazione

relativamente a tutti i rapporti giuridici tributari, e cioè a

tutte le attività mediante le quali essi si costituiscono, si

svolgono e si esauriscono.

Il comma 2 del medesimo articolo aggiunge: «Non sono irrogate

sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente,

qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti

dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente

modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo

comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti

direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori

dell’amministrazione stessa»70.

Il comma 3, infine, precisa: «Le sanzioni non sono comunque

irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di

incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della

norma tributaria o quando si traduce in una mera violazione

formale senza alcun debito di imposta; in ogni caso non

determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un

giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria. Le

violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario

non possono essere causa di nullità del contratto71».

3. Profili definitori.

disposizione statutaria) ed imposto a “tutti” i contribuenti, di “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”; … il termine “buona fede”, se riferito all’amministrazione finanziaria, coincide, almeno in gran parte, con i significati attribuibili al termine “collaborazione”, posto che entrambi mirano ad assicurare comportamenti dell’amministrazione stessa “coerenti”, vale a dire “non contraddittori” o “discontinui” (mutevoli nel tempo); … il medesimo termine, se riferito al contribuente, presenta un’analoga, parziale coincidenza con quello di “collaborazione” ed allude ad un generale dovere di correttezza, volto ad evitare, ad es., comportamenti del contribuente capziosi, dilatori, sostanzialmente connotati da “abuso” di diritti e/o tesi ad “eludere” una “giusta” pretesa tributaria». 70 È evidente che, alla base di siffatte ipotesi, sta la tutela - espressamente limitata all’esclusione dell’irrogazione di sanzioni e/o della richiesta d’interessi moratori - dell’affidamento del contribuente, ingenerato in quest’ultimo dai fatti ivi indicati. 71 Comma modificato dall’articolo 1, comma 1, del D.L. 17 giugno 2005, n. 106, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 156.

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In linea generale, i termini “buona fede” e “affidamento”,

benché siano spesso accomunati, non sono tra loro equivalenti.

In particolare, per “affidamento” deve intendersi la condizione

psicologica propria di chi ha fiducia in qualcosa o qualcuno.

La locuzione “buona fede”, invece, ha due accezioni: una

soggettiva ed una oggettiva. La prima fa riferimento allo stato

psicologico di chi ritiene di avere agito in conformità della

legge (ignoranza di ledere una situazione giuridica altrui),

mentre la seconda consiste in un generale dovere di correttezza

che impone atteggiamenti leali e vieta comportamenti contrari

alle legittime aspettative altrui, originate da un proprio

precedente comportamento.

In ambito tributario, il principio della tutela dell’affidamento

del contribuente costituisce un mero svolgimento dei contenuti

dei principi di collaborazione e di buona fede; «infatti, se in

base ai principi della collaborazione e della buona fede

l’amministrazione finanziaria ha il dovere di esercitare la

propria attività e di adottare le proprie decisioni, oltreché in

modo legittimo (ossia, in base al generale principio di legalità

dell’azione amministrativa), anche in maniera “coerente”,

qualsiasi comportamento dell’amministrazione stessa non conforme

a tali canoni può essere idoneo a costituire, secondo le

circostanze del caso concreto, in capo al contribuente in buona

fede (in senso oggettivo), cui non sia addebitabile alcun

comportamento “scorretto” …, una situazione giuridica soggettiva

di vantaggio, fondata proprio sul convincimento (buona fede in

senso soggettivo) delle apparenti legittimità e coerenza

dell’attività amministrativa tributaria: situazione, che,

secondo le circostanze del caso concreto appunto, in forza del

principio dell’affidamento, è considerata dal legislatore dello

Statuto meritevole di tutela»72.

I presupposti che integrano una situazione di legittimo

affidamento del contribuente di fronte all’azione

dell’Amministrazione finanziaria e che consentono al primo di

72 Cass. 17576/2002, cit.

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invocarne la relativa tutela, si possono, dunque, così

sintetizzare73:

a) attività dell’Amministrazione finanziaria idonea a

determinare una situazione di apparente legittimità e coerenza

dell’attività stessa in senso favorevole al contribuente;

b) conformazione in buona fede (in senso soggettivo) da

parte del contribuente alla situazione giuridica apparente,

purché nel contesto di una condotta dello stesso (buona fede in

senso oggettivo) - anteriore, contemporanea e successiva

all’attività dell’amministrazione - connotata dall’assenza di

qualsiasi violazione del generale dovere di correttezza gravante

sul medesimo (affidamento legittimo);

c) eventuale presenza di circostanze specifiche del caso

concreto e idonee a costituire altrettanti indici della

sussistenza o dell’insussistenza dei predetti presupposti74.

3.1. “Buona fede” e “affidamento” nella giurisprudenza

amministrativa.

Il supremo Giudice amministrativo ha sempre considerato i

principi della buona fede e del legittimo affidamento tra i

canoni regolatori ultimi dei rapporti tra Pubblica

Amministrazione e amministrati nelle più diverse fattispecie75.

In particolare, il Consiglio di Stato ha più volte ribadito che

il potere di autotutela deve essere esercitato nella

ponderazione dell’interesse privato, che viene sacrificato, in

comparazione con quello pubblico, avuto riguardo all’affidamento

73 Cass. 17576/2002, cit. 74 Ad esempio, la situazione normativa astrattamente idonea a disciplinare la concreta fattispecie; ovvero, lo stesso fluire del tempo, quale indice della “coerenza” dell’azione amministrativa tributaria e/o dell’affidamento del contribuente e/o del “consolidamento” della situazione giuridica soggettiva favorevole a quest’ultimo. 75 Cfr. Cons. St., sez. V, 22 maggio 1981, n. 206, in Foro amm. 1981, I, 1, pag. 1088; Id., sez. IV, 6 ottobre 1986, n. 651, in Foro amm. 1986, 1, pag. 2064; Id., Ad. plen., 30 settembre 1993, n. 11, in Rass. Avv. Stato 1994, I, 4, pag. 524 con nota di F. Basilica; Id., sez. IV, 17 dicembre 1998, n. 1815, in La legge plus on line, IPSOA. In numerose decisioni è stato affermato il principio secondo cui, la determinazione di recupero di somme indebitamente pagate è un tipico provvedimento di annullamento d’ufficio, destinato ad eliminare gli atti in base ai quali l’indebito pagamento è stato effettuato, talché, alla stregua dei principi generali, essa può essere legittimamente adottata solo se il pubblico interesse perseguito non collida con situazioni giuridiche contrarie, quale quella conseguente, in base al principio dell’affidamento, alla percezione in buona fede, da parte dell’interessato, delle somme non dovute (cfr., tra le altre, Cons. St. 9 marzo 1985, n. 77, in Cons. Stato 1985, I, pag. 257; Id., 23 novembre 1985, n. 559, in La legge plus on line, IPSOA).

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riposto nella legittimità dell’azione amministrativa76; tale

ponderazione - necessaria quando dall’annullamento d’ufficio

derivi un danno per il privato - non lo è quando si tratti di

rimuovere un ingiusto vantaggio dallo stesso conseguito.

Inoltre, il potere di annullamento d’ufficio può essere

limitato, sulla base del principio generale della tutela

dell’affidamento del privato, dallo stesso trascorrere del tempo

che abbia consolidato la situazione giuridica di vantaggio

acquisita dal privato medesimo77.

In quest’ottica, si è assistito ad un proliferare di

fattispecie, nei vari settori del diritto amministrativo, nelle

quali è stata data prevalenza al principio della tutela del

legittimo affidamento del cittadino di fronte all’azione della

Pubblica Amministrazione78.

Nella stessa direzione si muovono anche le prime pronunce della

Corte di cassazione, che hanno fatto applicazione delle

disposizioni statutarie79.

4. La valenza costituzionale della tutela del legittimo

affidamento del cittadino.

Il principio della tutela del legittimo affidamento del

cittadino di cui all’art. 10 dello Statuto dei contribuenti,

come si è detto, trova origine nella Costituzione e,

precisamente negli artt. 3, 23, 53 e 97, espressamente

76 Cfr., ex pluribus, Cons. St., sez. IV, 13 gennaio 1984, n. 9, in La legge plus on line, IPSOA; Id., 28 luglio 1992, n. 704, in Riv. amm. 1992, IV, pag. 1300; Id., 11 aprile 1996, n. 399, in La legge plus on line, IPSOA. 77 Cfr., ad es., Cons. St., sez. VI, 29 marzo 1996, n. 520, in La legge plus on line, IPSOA; Id., sez. V, 18 ottobre 1996, n. 1253, ivi; Id., 20 febbraio 1998, n. 161, ivi. 78 Ad es., nell’interpretazione ed applicazione dei bandi di concorso: cfr. Cons. St., sez. V, 30 maggio 1997, n. 582, in La legge plus on line, IPSOA. Ovvero quale limite al potere discrezionale dell’autorità amministrativa, competente alla pianificazione urbanistica, di modificare, senza congrua motivazione, precedenti piani di lottizzazione, proprio in ragione dell’esigenza di tutelare l’affidamento che il cittadino fonda su tali piani: cfr. Cons. St., sez. IV, n. 1785/1999.

79 E così, è stato precisato (Cass., 5 ottobre 2001, n. 12284, in Foro it. 2001, I, pag. 3530; Id., 14 novembre 2001, n. 14141, in La legge plus on line, IPSOA) che la disposizione di cui al primo periodo del comma 4 dell’art. 6 dello Statuto dei diritti del contribuente - secondo cui “al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti ed informazioni già in possesso dell’amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente” - è espressiva del “principio di collaborazione” nei rapporti tra contribuente ed amministrazione finanziaria. Cfr., inoltre, Cass., 22 novembre 2001, n. 14782, in La legge plus on line, IPSOA, che ha dato importanza al principio dell’affidamento, basato su un provvedimento concessivo dell’Amministrazione ed ha affermato che il contribuente che si affida al suo creditore e ne attua le disposizioni non può essere penalizzato con la esclusione da un beneficio riguardante le sanzioni. Lo stesso principio è stato espresso nella sentenza 21 marzo 2001, n. 4050, ivi.

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richiamati dall’art. 1 dello Statuto medesimo; esso, pertanto, è

immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce

uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle diverse

articolazioni, limitandone l’attività legislativa e

amministrativa80.

A differenza di altre norme dello Statuto, che presentano un

contenuto innovativo rispetto alla legislazione preesistente, la

previsione del citato art. 10 è dunque espressiva di principi

generali esistenti nell’ordinamento tributario anche prima

dell’entrata in vigore della legge n. 212/2000; per questo

motivo, deve ritenersi che tale disposizione, in forza del

canone ermeneutico dell’interpretazione adeguatrice a

Costituzione, risulti applicabile:

• ai rapporti tributari sorti in epoca anteriore alla

sua entrata in vigore81. È stato, invece, escluso che le norme

di natura procedimentale dello Statuto possano essere applicate

retroattivamente82. Ciò in quanto, tenuto conto dello stato

della legislazione preesistente, le disposizioni di tale natura,

in linea di massima, istituiscono nuove garanzie in favore del

contribuente, o ampliano significativamente garanzie già

previste in misura minore;

• ai rapporti fra contribuente ed ente impositore

diverso dall’Amministrazione finanziaria dello Stato;

• ad elementi dell’imposizione diversi da sanzioni e

interessi, giacché i casi di tutela espressamente enunciati dal

comma 2 del citato art. 10 riguardano situazioni meramente

esemplificative, legate ad ipotesi maggiormente frequenti, ma

non limitano la portata generale della regola, idonea a

disciplinare una serie indeterminata di casi concreti.

Su quest’ultimo punto, attese le rilevanti implicazioni pratiche

ad esso correlate, si tornerà nel prosieguo del presente lavoro

(v. punto 6.1.).

80 Oltre la sentenza 17576/2002, cit., cfr. Cass., 6 ottobre 2006, n. 21513, in La legge plus on line, IPSOA. 81 Cass., 14 aprile 2004, n. 7080 in Il fisco n. 27/2004, fascicolo n. 1, pag. 4238; Id., 17576/2002, cit. 82 Cfr. Cass., 12 ottobre 2001, n. 12462, in La legge plus on line, IPSOA.

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Ora è bene precisare che, non sempre la valenza costituzionale

delle norme Statutarie guida i passi del legislatore tributario;

infatti, non sono pochi i provvedimenti legislativi che ne

violano i precetti.

Ad esempio, il D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con

modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, si pone in

contrasto con lo Statuto in questione, laddove indica le varie

date di decorrenza degli effetti di alcune disposizioni in esso

contenute. Si fa riferimento alla norma:

• sui paradisi fiscali (art. 1, comma 6);

• sugli immobili in leasing (art. 2, comma 18), che ha

effetto dal 4 luglio 2006;

• sui fringe benefit (art. 2, commi 71 e 72), che

retroagisce al 1° gennaio 2006;

• sulle auto aziendali (art. 2, commi 71 e 72), che

decorre dal 3 ottobre 2006;

• sul riporto delle perdite (art. 2, comma 22), che

decorre dal periodo in corso al 4 luglio 2006;

• sulle società in trasparenza (art. 2, comma 23), che

decorre dal 4 luglio 2006;

• sui contributi per l’editoria (art. 2, commi da 124 a

128), vigente per l’anno 2006.

Lo stesso decreto, inoltre, con riferimento all’imposta sulle

successioni e donazioni, prevede che le disposizioni ivi

contenute si applichino alle successioni apertesi dal 3 ottobre

2006 e agli atti pubblici formati, agli atti a titolo gratuito

fatti, alle scritture private autenticate e alle scritture

private non autenticate presentate per la registrazione, a

decorrere dal 1° gennaio 2007.

Per le donazioni, invece, ai fini dell’applicazione

dell’imposta, a decorrere dalla data di entrata in vigore della

legge di conversione (29 novembre 2006) si tiene conto della

data del rogito notarile.

Per le dichiarazioni di successione già presentate alla data di

entrata in vigore della predetta legge e per i decessi avvenuti

dal 3 ottobre 2006 in poi, le imposte già pagate sono ripetibili

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(se versate in più) perché, in molti casi, non si è tenuto conto

della “franchigia” introdotta per le devoluzioni in linea retta,

mentre restano invariate le liquidazioni per quelle in favore di

altri soggetti.

Appare, dunque, evidente che l’accavallarsi di date e di effetti

della nuova disciplina crea non poche difficoltà non solo agli

operatori del settore e agli interpreti ma, soprattutto, ai

contribuenti, a dispregio della ratio dello Statuto.

5. La tutela dell’affidamento e della buona fede del

contribuente quale limite alla retroattività sfavorevole della

legge tributaria.

Nell’affrontare il problema dei limiti all’efficacia retroattiva

delle leggi interpretative, la Corte Costituzionale, in alcune

pronunce83, li ha individuati - oltreché in quello previsto

esplicitamente per la materia penale (art. 25, comma 2, della

Costituzione) – anche in quelli che attengono alla salvaguardia

di norme costituzionali; tra questi viene annoverato il

principio «della tutela dell’affidamento legittimamente posto

nella certezza dell’ordinamento giuridico»; in particolare, è

stato precisato, quello «sull’affidamento del cittadino nella

sicurezza giuridica è principio che, quale elemento essenziale

dello Stato di diritto, non può essere leso da norme con effetto

retroattivo che incidano irragionevolmente su situazioni

regolate da leggi precedenti»84.

Recependo l’insegnamento del Giudice delle leggi, il Legislatore

statutario, con riguardo alla disciplina dei tributi, statuisce

che: «Salvo quanto previsto dall’art. 1, comma 285, le

83 Cfr. le sentenze n. 211/1997, n. 416 /1999 e n. 525 /2000 (anticipate, tra le altre, dalle sentenze n. 349/1985, n. 822/1988 e n. 390/1995), consultabili nella Sezione «Giurisprudenza» sotto la voce «Ricerca sulle pronunce» del sito http://www.cortecostituzionale.it/. 84 In termini, sentenza n. 525/2000, cit., con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3, comma 1, della Costituzione, dell’art. 21, comma 1, della legge 13 maggio 1999, n. 133, nella parte in cui estende anche al periodo anteriore alla sua entrata in vigore l’efficacia della interpretazione autentica, da essa dettata, dell’art. 38, comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, «poiché in questo modo è stato frustrato l’affidamento dei soggetti nella possibilità di operare sulla base delle condizioni normative presenti nell’ordinamento in un dato periodo storico, senza che vi fosse una ragionevole necessità di sacrificare tale affidamento nel bilanciamento con altri interessi costituzionali». 85 Che disciplina l’ipotesi dell’adozione di norme interpretative.

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disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo» (art. 3,

comma 1, primo periodo, della legge n. 212/2000).

Pertanto, «ogni qualvolta una normativa fiscale sia suscettibile

di una duplice interpretazione, una che ne comporti la

retroattività e una che la escluda, l’interprete dovrà dare

preferenza a questa seconda interpretazione come conforme a

criteri generali introdotti con lo Statuto del contribuente e,

attraverso di essi, ai valori costituzionali intesi in senso

ampio e interpretati direttamente dallo stesso legislatore

attraverso lo Statuto»86.

Tuttavia, va precisato che «il c.d. Statuto del contribuente è

uno strumento di garanzia del contribuente e, quindi, mentre

serve ad arginare il potere dell’Erario nei confronti del

soggetto più debole del rapporto di imposta, non può ostacolare

l’approvazione di disposizioni che siano a favore del

contribuente, che si risolvano eventualmente in un ulteriore

autolimitazione del potere legislativo (una sorta di autotutela

legislativa)»87.

In quest’ottica deve essere intesa la natura eccezionale delle

norme interpretative.

In particolare, secondo la Corte di cassazione,

l’irretroattività della legge disposta dall’art. 11 delle

preleggi è una regola generale che può essere derogata solo per

due ordini di motivi:

1. se risulta l’espressa ed univoca dichiarazione del

legislatore;

2. se la nuova norma appaia emessa per precisare il

significato di norme preesistenti ed imponga una variante che

risolva, con intervento chiarificatore del legislatore, un

precedente contrasto interpretativo, fornendone interpretazione

autentica, purché compatibile con il loro tenore letterale88.

86 Cass., 14 aprile 2004, n. 7080, in Corriere trib. 2004, n. 29, pag. 2290, con nota di G. Marongiu. 87 Cass., 21 aprile 2001, n. 5931, in Corriere trib. 2001, 35, pag. 2644, con nota di M. Bruzzone. 88 Cass., 26 aprile 2005, n. 8637, in La legge plus on line, IPSOA. Negli stessi termini, cfr. Corte costituzionale, sentenze n. 376/1995, n. 397/1994, n. 229/1999 e n. 525/2000, consultabili nella Sezione «Giurisprudenza» sotto la voce «Ricerca sulle pronunce» del sito http://www.cortecostituzionale.it.

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Quanto al carattere d’interpretazione autentica di una legge,

come è stato affermato89, «esso dipende esclusivamente dal suo

contenuto caratterizzato dall’enunciazione di un apprezzamento

interpretativo circa il significato di un precetto antecedente,

a cui la norma si ricollega nella formula e nella ratio, e da un

momento precettivo, con il quale il legislatore impone questa

interpretazione, escludendone ogni altra».

Accertata la natura interpretativa di una norma, la stessa deve,

di conseguenza, considerarsi «applicabile anche ai rapporti non

ancora definiti senza che tale efficacia retroattiva possa dar

luogo a dubbi di legittimità costituzionale»90.

5.1. Determinazione della rendita catastale delle turbine e

delle centrali idroelettriche

Così, ad esempio, la Corte di Cassazione91 ha risolto la

questione relativa alla computabilità del valore delle turbine

nella quantificazione della rendita catastale delle centrali

elettriche, sostenendo l’efficacia retroattiva dell’art. 1-

quinquies del D.L. 31 marzo 2005, n. 44, convertito dalla legge

31 maggio 2005, n. 8892.

Questa problematica - intorno alla quale si è sviluppato un

lungo contenzioso tra l’Enel S.p.A., da un lato, e gli Uffici

del Territorio e i Comuni, dall’altro -, trae origine

dall’impugnazione da parte dell’Enel degli atti di classamento -

89 Cass., Sezioni Unite, 4 marzo 1983, n. 1622, in Foro it. 1983, I, pag. 1257; Id., 12 giugno 1986, n. 3928, in La legge plus on line, IPSOA; Id., 10 febbraio 1989, n. 829, ivi; Id., 20 giugno 2003, n. 9895, ivi. Cfr. pure Corte costituzionale, sentenza n. 525/2000, cit., secondo la quale «il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni legislative non solo quando sussista una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali, ma anche in presenza di un indirizzo omogeneo della Corte di Cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore». 90 Cass., 22 gennaio 2004, n. 1026, in La legge plus on line, IPSOA. 91 Sentenza 7 giugno 2006, n. 13319, in La legge plus on line, IPSOA. 92 Secondo tale norma: «Ai sensi e per gli effetti dell’art. 1, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, l’art. 4 del r.d.l. 13 aprile 1939, n. 652, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 1939, n. 1249, limitatamente alle centrali elettriche, si interpreta nel senso che i fabbricati e le costruzioni stabili sono costituiti dal suolo e dalle parti ad esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria, cui possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione, parti mobili allo scopo di realizzare un unico bene complesso. Pertanto concorrono alla determinazioni della rendita catastale, ai sensi dell’art. 10 del citato decreto-legge, gli elementi costitutivi degli opifici e degli altri immobili costruiti per le speciali esigenze dell’attività industriale di cui al periodo precedente anche se fisicamente non incorporati al suolo».

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con i quali gli Uffici del Territorio rettificavano la rendita

catastale delle centrali elettriche - e degli avvisi di

liquidazione - con i quali i Comuni che ospitano le centrali

ponevano in riscossione l’ICI relativa alle medesime centrali -

emessi sulla base della rendita rettificata, nonché delle

relative sanzioni.

Ciò avveniva all’indomani dell’approvazione della cosiddetta

procedura DOCFA regolata dal D.M. n. 701/1994.

In particolare, la società elettrica, nell’attuare siffatta

procedura di determinazione della rendita, ha riformulato il

classamento delle centrali termoelettriche, omettendo il valore

(assai rilevante) delle turbine, non ritenute dall’ente impianti

fissi, ottenendo così rendite inferiori del 60-70% rispetto alle

precedenti determinate dagli uffici e abbattendo il gettito ICI

dei piccoli comuni di appartenenza. Secondo le società di

produzione, infatti, il valore delle centrali elettriche deve

essere determinato solo dal valore dell’area e dei muri, con

esclusione degli impianti.

Questa tesi, però, contrasta con la prassi interpretativa ed

applicativa delle norme catastali in materia di fabbricati di

categoria D.

Il contenzioso ha generato contrastanti pronunce della

giurisprudenza di merito93 e di legittimità94, fino a richiedere

- quando la questione era già stata rimessa all’attenzione delle

Sezioni Unite della Corte di Cassazione - l’intervento del

legislatore con le disposizioni di cui agli articoli 1, comma

540, della legge n. 311/200495, prima, e 1-quinquies del D.L. n.

44/2005, poi.

93 Cfr. Commissione Tributaria Regionale Umbria 13 marzo 2003, n. 13, consultabile nella sezione «Servizi», sotto la voce «Doc. economica e Tributaria» (cliccando prima su «Estremi», poi su «Giurisprudenza») del sito http://www.cerdef.it/site.php?page=home e Commissione Tributaria Regionale Lazio 17 giugno 2003, n. 261, ivi, per la non computabilità delle turbine; Id., 24 febbraio 2004, n. 48, ivi, e Id., 16 settembre 2005, n. 133, ivi, per l’opposta soluzione. 94 Cfr. Cass., 6 settembre 2004, n. 17933, in La legge plus on line, IPSOA, per la non computabilità delle turbine e Cass., 17 novembre 2004, n. 21730, ivi, in senso favorevole al computo delle turbine. 95 La norma interpretativa di cui alla legge n. 311 del 2004 (Finanziaria 2005) è stata abrogata dall’art. 4, comma 1, del D.L. n. 35/2005, come modificato dalla legge di conversione n. 80/2005: ciò perché, il contenuto generico della disposizione interpretativa aveva preoccupato molte piccole imprese che temevano di veder considerati come immobili i più disparati macchinari e veder così aumentare eccessivamente la loro imposizione fiscale (in specie ai fini ICI).

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Sicché, oggi, è alla luce di queste norme che deve essere

risolta la questione e l’ambito della discussione trova «il

proprio naturale confine nella valutazione della natura

interpretativa dell’intervento del legislatore e della

compatibilità costituzionale della norma approvata»96.

Con riferimento alla prima questione (natura della norma in

esame), deve essere precisato che il citato art. 1-quinquies del

D.L. n. 44/2005 può essere considerato norma d’interpretazione

autentica97 per due ordini di motivi:

1. esso è formalmente qualificato come norma

d’interpretazione dallo stesso legislatore;

2. è volto a chiarire il senso di una norma preesistente

per porre termine al contrasto giurisprudenziale che la

riguarda98.

Ciò posto, va ricordato che, secondo la norma in esame, con

riferimento alle centrali elettriche, una costruzione può essere

definita “stabile” se è costituita «dal suolo e dalle parti ad

esso strutturalmente connesse, anche in via transitoria, cui

possono accedere, mediante qualsiasi mezzo di unione, parti

mobili allo scopo di realizzare un unico bene complesso»99.

L’art. 1-quinquies del D.L. n. 44/2005, in pratica, ha

considerato le turbine quali elementi essenziali costitutivi del

bene “centrale elettrica” (bene immobile per incorporazione di

mobile a immobile) e non rileva il mezzo di unione tra “mobile”

e “immobile”: sia perché quel che davvero conta è

l’impossibilità di separare l’uno dall’altro senza la

sostanziale alterazione del bene complesso (che non sarebbe più,

nel caso di specie, una centrale elettrica), sia perché “mezzo

di unione” idoneo a determinare l’incorporazione non può essere

qualificato solo quello che tale poteva considerarsi al tempo

dell’approvazione del codice civile; al riguardo, infatti, si

deve tener conto del progresso tecnologico e dei mezzi

96 Cass. 7 giugno 2006, n. 13319, cit. 97 Di conseguenza, esso ha efficacia retroattiva. 98 E, come si è detto, proprio questa è, tradizionalmente, una delle ragioni dell’intervento del legislatore in sede d’interpretazione autentica. 99 Del resto, ai sensi dell’art. 812 del codice civile si considerano beni immobili, tra l’altro, le costruzioni, anche se unite al suolo a scopo transitorio.

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utilizzati per venire incontro a specifiche esigenze tecniche

(come accade per le turbine, per le quali devono utilizzarsi

particolari mezzi di unione al suolo, in ragione della necessità

di tener conto della dilatazione cui sono soggette per le

elevate temperature di esercizio)100.

Con riferimento alla seconda questione (compatibilità

costituzionale della norma), non si può certo affermare che

l’articolo de quo sia viziato per irragionevolezza, per aver

stabilito che una determinata norma si interpreti in un senso

riguardo ad alcuni soggetti che ne sono destinatari e in un

senso diverso (addirittura opposto) rispetto ad altri101.

La norma in discussione, infatti, è diretta a risolvere, in via

definitiva, un contrasto ermeneutico insorto relativamente alla

situazione specifica delle centrali elettriche, e non stabilisce

affatto che la norma interpretata sia soggetta ad una diversa

esegesi in situazioni omogenee102.

Né si potrebbe ritenere che, la disposizione in esame, comporti

violazione dell’art. 53 della Costituzione.

Infatti, anzitutto non è prospettabile una lesione del tipo

indicato in relazione alla determinazione della rendita

catastale (che non costituisce né un’imposta, né un presupposto

d’imposta); inoltre, la capacità contributiva, quale idoneità

soggettiva all’obbligazione d’imposta - desumibile dal

presupposto economico al quale l’imposta è collegata - può

essere ricavata, in linea di principio, da qualsiasi indice

rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al

legislatore, salvo il controllo di costituzionalità, sotto il

profilo della palese arbitrarietà e manifesta

100 In termini, cfr. la più volte citata sentenza della Cassazione 7 giugno 2006, n. 13319. 101 Sentenza 7 giugno 2006, n. 13319, cit. 102 Essa, pertanto, non contrasta con l’articolo 3 della Costituzione. Infatti, la situazione delle centrali elettriche è del tutto specifica; inoltre non sussiste alcuna significativa omogeneità tra tutti gli immobili classificabili nel gruppo catastale D, come rivela immediatamente la circostanza che alla loro valutazione catastale si debba procedere, per espressa previsione normativa, mediante stima diretta.

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irragionevolezza103, ipotesi che non sussistono nel caso di

specie104.

5.2. Determinazione di area fabbricabile

Altra questione è sorta con riferimento all’articolo 36, comma

2, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (convertito, con

modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248), secondo il

quale: «Ai fini dell’applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n.

633, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, del D.P.R. 22 dicembre

1986, n. 917 e del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, un’area è da

considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in

base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune,

indipendentemente dall’approvazione della regione e

dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo».

Questa norma, entrata in vigore il 4 luglio 2006, ha risolto

un’annosa questione che, all’interno della sezione quinta della

Corte di cassazione, ha dato luogo a contrastanti indirizzi

giurisprudenziali.

Infatti, mentre alcune pronunce sostenevano che un suolo può

essere considerato edificabile soltanto sulla base di uno

strumento urbanistico perfezionato con l’approvazione regionale,

altre, invece, ritenevano sufficiente, ai fini della valutazione

fiscale, che un suolo risultasse inserito in una zona di

edificazione di un piano anche soltanto adottato dal comune e

non ancora approvato dalla regione.

La questione era di particolare importanza, sia perché ricorreva

frequentemente, sia perché gli interessi coinvolti erano spesso

notevoli.

5.2.1. Linee generali.

Posto che i maggiori problemi ermeneutici hanno avuto ad oggetto

il concetto di “utilizzabilità a scopo edificatorio”, occorre

103 Corte costituzionale, sentenze n. 362/2000, n. 143/1995, n. 315/1994, n. 42/1992 e n. 226/1984, consultabili nella Sezione «Giurisprudenza» sotto la voce «Ricerca sulle pronunce» del sito http://www.cortecostituzionale.it.

104 Nello stesso senso, Commissione Tributaria Regionale Lombardia, 27 dicembre 2005, n. 131, in GT - Rivista di giurisprudenza tributaria, 2006, 7, 628, con nota di E. Carrasi.

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chiarire cosa deve intendersi con tale espressione, dopo

l’approvazione del D.L. n. 223/2006.

La qualifica di area fabbricabile presuppone l’utilizzabilità

dell’area stessa a scopo edificatorio, in base allo strumento

urbanistico.

Secondo alcune pronunce giurisprudenziali, per aree fabbricabili

si deve intendere, ai fini fiscali (con specifico riferimento

all’ICI), «i terreni immediatamente utilizzabili a scopo

edificatorio, con possibilità legale ed effettiva di rilascio di

concessione edilizia al momento dell’imposizione tributaria,

distinguendosi, nella disciplina dell’imposta, tra le zone

urbanizzate per le quali è consentito il rilascio della

concessione edilizia secondo le previsioni del piano regolatore

generale del comune, ancora prima dell’adozione dei piani

attutivi, e le zone che, pur comprese nelle previsioni del piano

regolatore generale, non sono immediatamente utilizzabili a

scopo edificatorio, essendo il rilascio della concessione a

edificare subordinato all’adozione dei piani particolareggiati o

dei piani di lottizzazione»105.

Dopo la novella del 2006, però, tale tesi non è più sostenibile.

Il testo della legge non consente più di distinguere a seconda

delle “fasi di lavorazione” degli strumenti urbanistici106;

105 Cass., 15 novembre 2004, n. 21573, in La legge plus on line, IPSOA; Id., 16 novembre 2004, n. 21644, ivi. Secondo queste sentenze, «il legislatore ha voluto sottoporre ad imposta, con base imponibile diversa, quelle aree immediatamente utilizzabili a scopo edificatorio, con possibilità legale ed effettiva di rilascio di concessione edilizia al momento dell’imposizione fiscale, distinguendo tra zone urbanizzate, per le quali è consentito il rilascio di concessione edilizia in base al P.R.G., ancora prima dell’approvazione dei piani attuativi, e quelle che, non trovandosi in tale situazione anche se comprese nel P.R.G., devono attendere i piani particolareggiati o i piani di lottizzazione per potere ottenere tale concessione». In altri termini, «il legislatore ha inteso riservare un diverso trattamento fiscale, con la previsione di una base imponibile sul valore reale, per quelle aree la cui utilizzazione a scopo edificatorio è attuale e non rinviata alla adozione e successiva approvazione regionale degli strumenti urbanistici attuativi e, quindi, per quei terreni per i quali il rilascio della concessione edilizia è previsto da provvedimenti definitivi e non in fieri. Se non avesse inteso dire quanto sopra esposto, il legislatore avrebbe potuto limitarsi a definire l’area fabbricabile quella , “compresa nel PRG” oppure quella “destinata all’edificazione”, senza riferimento agli strumenti urbanistici “attuativi” o alle “possibilità effettive di edificare” richiamando, inoltre, i criteri contenuti nella L. n. 359 del 1952 (possibilità legali ed effettive di edificazione)». 106 Si ricorda che, in materia di ICI, già l’art. 11-quaterdecies, comma 16, del D.L. 30 settembre 2005, n. 203, (convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248) aveva anticipato che: «Ai fini dell’applicazione del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, la disposizione prevista dall’articolo 2, comma 1, lettera b), dello stesso decreto si interpreta nel senso che un’area è da considerare comunque fabbricabile se è utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale, indipendentemente dall’adozione di strumenti attuativi del medesimo». La norma, però, non chiariva se lo strumento urbanistico generale dovesse essere stato approvato dalla regione.

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questo perché, quello che interessa al legislatore fiscale è che

venga adottato un diverso criterio di valutazione dei suoli,

quando questi siano avviati sulla strada (non necessariamente

senza ritorno) dell’edificabilità107.

Ciò dipende, soprattutto, dal fatto che le finalità della

legislazione urbanistica si differenziano da quelle della

legislazione fiscale: la prima tende a garantire il corretto uso

del territorio urbano, e, quindi, lo ius aedificandi non può

essere esercitato se non quando gli strumenti urbanistici siano

perfezionati (garantendo la compatibilità degli interessi

individuali con quelli collettivi); la seconda, invece, mira ad

adeguare il prelievo fiscale alle variazioni dei valori

economici dei suoli, che si registrano e progrediscono, in

parallelo, dal sorgere della mera aspettativa dello ius

aedificandi, fino al perfezionamento dello stesso.

Ne consegue, che le chiavi di lettura dei due comparti normativi

possono essere legittimamente differenti; pertanto, in sede di

valutazione, la minore o maggiore attualità e potenzialità

dell’edificabilità dovrà essere considerata ai fini di una

corretta valutazione del valore venale delle stesse, ai sensi

dell’art. 5, comma 5, del D.Lgs. n. 504/1992, per l’ICI, e

dell’art. 51, comma 3, del D.P.R. n. 131/1986, per l’imposta di

registro108.

5.2.2. Imposta di registro

Con specifico riferimento a quest’ultima imposta, la

problematica in questione discende dal tenore del D.P.R. n.

131/1986. In particolare, si ricorda che:

a) in linea di principio, la base imponibile dell’imposta

di registro, per i contratti di compravendita è costituita dal

valore dei beni trasferiti (art. 43 del citato decreto);

b) per gli atti di trasferimento di beni immobili, «si

intende per valore il valore venale in comune commercio» (art.

51, comma 1, del citato decreto); 107 Normalmente, infatti, già l’avvio della procedura per la formazione del PRG determina una “impennata” di valore, pur con tutti i necessari distinguo (riferiti alle zone e alla necessità di ulteriori passaggi procedurali). 108 Così Cass., SS.UU., 30 novembre 2006, n. 25505, in La legge plus on line, IPSOA.

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c) se l’ufficio ritiene che gli immobili ceduti hanno un

valore venale superiore a quello dichiarato o al corrispettivo

pattuito, provvede alla rettifica, e alla conseguente

liquidazione (art. 52, comma 1, del citato decreto) «avendo

riguardo ai trasferimenti a qualsiasi titolo e alle divisioni e

perizie giudiziarie, anteriori di non oltre tre anni alla data

dell’atto o a quella in cui se ne produce l’effetto traslativo o

costitutivo, che abbiano avuto per oggetto gli stessi immobili o

altri di analoghe caratteristiche e condizioni, ovvero al

reddito netto di cui gli immobili sono suscettibili,

capitalizzato al tasso mediamente applicato alla detta data e

nella stessa località per gli investimenti immobiliari, nonché

ad ogni altro elemento di valutazione, anche sulla base di

indicazioni eventualmente fornite dai comuni» (art. 51, comma 3,

del citato decreto);

d) l’ufficio non può rettificare «il valore o il

corrispettivo degli immobili, iscritti in catasto con

attribuzione di rendita, dichiarato in misura non inferiore, per

i terreni, a settantacinque volte il reddito dominicale

risultante in catasto» (cd. “valutazione automatica”109), salvo

che si tratti di «terreni per i quali gli strumenti urbanistici

prevedono la destinazione edificatoria» (art. 52, comma 4, del

citato decreto).

Proprio con riguardo quest’ultimo punto, come si vede, la norma

originaria non specificava se lo strumento urbanistico dovesse

essere soltanto adottato o anche approvato; di qui le

oscillazioni giurisprudenziali che hanno portato al denunciato

109 Si ricorda che il criterio cosiddetto della “valutazione automatica” ha subito una notevole contrazione in seguito all’entrata in vigore del D.L. n. 223/2006, prima, e della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007), poi. In particolare, l’articolo 35, comma 23-ter, del D.L. n. 223/2006 ha aggiunto il comma 5-bis all’articolo 52del D.P.R. n. 131/1986, secondo il quale, le disposizioni dei commi 4 e 5 non si applicano alle cessioni di immobili e relative pertinenze diverse da quelle disciplinate dall’articolo 1, comma 497, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 e successive modificazioni (legge finanziaria 2006). Secondo quest’ultima disposizione, in deroga all’art. 43 del D.P.R. n. 131/1986, «per le sole cessioni nei confronti di persone fisiche che non agiscano nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali, aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e relative pertinenze, all’atto della cessione e su richiesta della parte acquirente resa al notaio, la base imponibile ai fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali è costituita dal valore dell’immobile determinato ai sensi dell’articolo 52, commi 4 e 5, del D.P.R. n. 131/1986, indipendentemente dal corrispettivo pattuito indicato nell’atto. Le parti hanno comunque l’obbligo di indicare nell’atto il corrispettivo pattuito. Gli onorari notarili sono ridotti del 30 per cento» (cosiddetto “criterio del prezzo-valore”). La forfetizzazione della base imponibile e la conseguente inibizione dei poteri di controllo dell’Amministrazione finanziaria, quindi, trova applicazione nelle sole ipotesi ivi richiamate.

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contrasto e, ora, all’approvazione della legge interpretativa di

cui al D.L. n. 223/2006.

Come è stato precisato110, quest’ultimo provvedimento ha accolto

la tesi sostanzialistica, secondo la quale: «non occorre che lo

strumento urbanistico, adottato dal comune, abbia perfezionato

il proprio iter di formazione mediante l’approvazione da parte

della regione, atteso che l’adozione dello strumento

urbanistico, con inserimento di un terreno con destinazione

edificatoria, imprime al bene una qualità che è recepita dalla

generalità dei consociati come qualcosa di già esistente e di

difficile reversibilità e, quindi, è sufficiente a far venir

meno, ai fini anzidetti, la presunzione del rapporto

proporzionale tra reddito dominicale risultante in catasto e

valore del terreno medesimo, posto a fondamento della

valutazione automatica»111.

In altri termini, dinanzi ad una vocazione edificatoria di un

suolo, formalizzata in un atto della procedura prevista dalla

legislazione urbanistica, l’erario ritiene che, a prescindere

dallo status giuridico formale dello stesso, non sia più

possibile apprezzarne il valore sulla base di un parametro di

riferimento, come il reddito dominicale, che deve considerarsi

superato da più concreti criteri di valutazione economica.

Non interessa, dunque, ai fini fiscali, che il suolo sia

immediatamente ed incondizionatamente edificabile, perché possa

farsi ricorso legittimamente al criterio di valutazione del

valore venale in comune commercio: l’inizio della procedura di

“trasformazione” urbanistica di un suolo, implica, di per sé,

una “trasformazione” economica dello stesso, che non consente

più la valutazione, ai fini fiscali, secondo il criterio del

reddito dominicale112.

Tuttavia, l’aspettativa di edificabilità di un suolo, non

comporta, ai fini della valutazione fiscale, l’equiparazione sic

110 Cass., SS.UU., 30 novembre 2006, n. 25505, cit.

111 Cass., 9 dicembre 2002, n. 17513, in Il Fisco 2003, pag. 762; Id., 27 marzo 2002, n. 4381, ivi 2002, pag. 3926, con nota di F.P. D’Orsogna; Id., 22 marzo 2002, n. 4120, in La legge plus on line, IPSOA; Id., 12 dicembre 2002, n. 17762, in Il Fisco 2003, pag. 294; Id., 18 settembre 2003, n. 13817, in La legge plus on line, IPSOA. 112 Pertanto, se la procedura per la formazione del PRG è stata avviata, la situazione in movimento non consente più di beneficiare del criterio della valutazione automatica.

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et simpliciter all’edificabilità, ma soltanto, l’assoggettamento

ad un regime di valutazione differente da quello specifico dei

terreni agricoli. 113

In conclusione, ai fini dell’applicazione del D.P.R. n.

131/1986:

1. un’area è da considerarsi fabbricabile se

utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento

urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente

dall’approvazione della regione e dall’adozione di strumenti

attuativi del medesimo;

2. in caso di trasferimento di tali aree, non opera

l’inibizione del potere di controllo di cui all’art. 52, comma

4, con la conseguenza che l’accertamento del valore deve essere

effettuato ai sensi dell’art. 51, tenendo conto anche di quanto

sia effettiva e prossima l’utilizzabilità a scopo edificatorio

delle stesse, e di quanto possano incidere gli ulteriori

eventuali oneri di urbanizzazione.

5.2.3. Efficacia (retroattiva o irretroattiva) dell’art. 36,

comma 2, del D.L. n. 223/2006.

Dunque, il citato art. 36, comma 2, del D.L. n. 223/2006 ha

natura d’interpretazione autentica e, in quanto tale, detta

norma ha efficacia retroattiva: essa, cioè, si applica anche

alle fattispecie verificatesi anteriormente alla sua entrata in

vigore.

Va, tuttavia, rilevato che, nonostante l’autorevolezza della

fonte della suesposta tesi114, sul punto in questione esiste

ancora qualche incertezza.

Basti pensare che la Commissione Tributaria Regionale

dell’Emilia Romagna, in una recente sentenza115, si è espressa

in senso opposto a quello sopra precisato ed ha affermato che la

113 In definitiva, non rileva il fatto che, in ipotesi, lo strumento urbanistico possa essere modificato o non approvato, con la conseguenza che il suolo torni ad essere inedificabile. Del resto, l’imposta di registro non ha natura periodica, ma colpisce un evento istantaneo, nella specie il trasferimento di un bene immobile, che costituisce il fatto imponibile, la cui valutazione fiscale deve essere effettuata tenendo conto della situazione vigente al momento in cui si verifica il fatto imponibile stesso. Quindi, nessuna influenza possono avere le variazioni successive, se non rispetto agli eventuali ulteriori atti di trasferimento. 114 Cass., SS. UU., 30 novembre 2006, n. 25505, cit. 115 29 gennaio 2008, n. 91.

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norma in questione, in quanto introduttiva di criteri nuovi, non

ha natura interpretativa ed è applicabile alle sole fattispecie

verificatesi successivamente alla sua entrata in vigore.

I giudici tributari hanno sottolineato, in particolare, che,

dalla sistematicità utilizzata nella redazione e approvazione di

tale disposizione, emerge come il legislatore, quando ha voluto

applicare la norma con effetto retroattivo, lo ha fatto

espressamente, derogando specificamente all’art. 3, comma 1,

dello Statuto dei contribuenti116.

La richiamata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di

Cassazione117, secondo i giudici tributari, non contrasterebbe

con questa tesi.

Essa, infatti, avrebbe considerato l’articolo in questione come

norma di interpretazione autentica solo ai fini

dell’inapplicabilità del sistema della valutazione automatica;

ma questa valutazione di fatto, che interferisce con una

determinata situazione giuridica, non produrrebbe l’automatico

superamento dei principi contenuti nello Statuto dei

contribuenti, che rimarrebbe applicabile al di fuori dei casi

specificamente esclusi dal suo ambito di applicazione, secondo

le indicazioni contenute nello stesso articolo 36 del D.L. n.

223/2006.

6. La tutela dell’affidamento e della buona fede del

contribuente quale limite al ripensamento interpretativo

sfavorevole dell’Amministrazione finanziaria.

Il principio della tutela del legittimo affidamento è stato

ravvisato in fattispecie relative alle ipotesi prefigurate

dall’art. 10, comma 2, dello Statuto dei diritti del

contribuente118.

116 Ad esempio, lo stesso articolo 36 del D.L. n. 223/2006, al comma 8 stabilisce, tra l’altro, che: «In deroga all’articolo 3, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, le norme di cui ai precedenti commi 7 e 7-bis si applicano a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto anche per le quote di ammortamento e i canoni di leasing relativi ai fabbricati acquistati o acquisiti a partire da periodi d’imposta precedenti …». 117 Cass. 30 novembre 2006, n. 25505, cit. 118 Cfr. Cass. 22 novembre 2001, n. 14782, cit., secondo la quale: «Il beneficio dell’esclusione della soprattassa, previsto dall’art. 21 della legge n. 154/1989 si applica nel caso di presentazione di

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In particolare, è stato affermato il principio secondo il quale,

le circolari ministeriali in materia tributaria non

costituiscono fonte di diritti e di obblighi; per cui, qualora

il contribuente si sia conformato ad un’interpretazione erronea

data dall’amministrazione finanziaria in una circolare,

successivamente modificata, è esclusa l’irrogazione delle

relative sanzioni proprio in base al principio della tutela

dell’affidamento espressamente sancito al citato art. 10, comma

2119.

In altri termini, se l’interpretazione normativa fornita in

precedenza dall’Amministrazione è erronea e, quindi,

illegittima, l’adozione di un’interpretazione diversa o

addirittura opposta non può fungere da base per la pretesa

dell’amministrato di ottenere comunque un provvedimento

contrario alla legge, ma può giustificare la pretesa del

contribuente di non essere sottoposto a sanzioni.

6.1. L’incidenza del principio della tutela dell’affidamento

sulla possibile debenza del tributo.

Ciò posto, è bene ricordare che la Corte di cassazione, nella

ben nota sentenza n. 17576/2002, si è spinta oltre ed ha

affermato che, nel principio di affidamento legittimo del

contribuente è insita - in ragione sia della sua natura di

principio sia del suo contenuto - una “capacità espansiva” non

limitata alle fattispecie specificamente considerate dal secondo

comma dell’articolo 10 dello Statuto dei diritti del

contribuente; tali fattispecie, pertanto, come si è sopra

anticipato, devono considerarsi meramente esemplificative,

ovvero specifiche espressioni del principio stesso relative a

casi ritenuti dal legislatore maggiormente frequenti.

un’istanza di rateizzazione formulata dal contribuente prima della scadenza del ruolo, poiché tale istanza, anche alla luce delle disposizioni contenute nella legge n. 212/2000 in materia di statuto del contribuente e recante il titolo “ tutela dell’affidamento e della buona fede”, costituisce atto idoneo a manifestare la volontà di adempimento, soprattutto quando tale volontà ha trovato attuazione anche per la parte relativa agli interessi, con la conseguenza che il mancato rispetto della scadenza del ruolo rappresenta fatto puramente formale, privo di rilievo sul piano sostanziale, non avendo il ritardo provocato alcun danno all’amministrazione creditrice».

119 Cass., 14 febbraio 2002, n. 2133, in Corriere trib. 2002, 30, pag. 2713, con nota di A. Benazzi.

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Conseguentemente, possono darsi dei casi in cui - accertata la

sussistenza dei presupposti dell’affidamento del contribuente -

ne consegua necessariamente non soltanto l’inapplicabilità di

sanzioni e/o di interessi moratori, ma addirittura

l’inesigibilità tour court della prestazione tributaria.

In tutti questi casi, il giudice può e deve pronunciare

l’annullamento totale dell’atto impositivo, anche con riguardo

all’imposta, se accerti che la pretesa fiscale è difforme (e

superiore) rispetto a quella determinabile sulla base

dell’interpretazione fornita nella circolare cui il contribuente

si fosse adeguato o, comunque, in contrasto con un atto o con un

comportamento dell’Amministrazione.

Nella stessa logica si pone il principio secondo il quale, «deve

essere ammesso alla definizione agevolata il contribuente che

abbia sostanzialmente rispettato la condizione fissata dalla

disposizione che la introduce, provvedendo al versamento delle

somme iscritte a ruolo non nell’originario termine di scadenza,

ma in quello successivo fissato a seguito di formale

provvedimento di dilazione concesso dall’Amministrazione

finanziaria». Infatti, «la contraria interpretazione … si pone

in evidente contrasto con il principio di affidamento che deve

guidare l’interprete nella valutazione delle vicende attinenti

alla nascita e alla evoluzione dei rapporti tributari» e,

quindi, «il comportamento del contribuente che … sia stato

rispettoso delle prescrizioni ministeriali, non può poi essere

ritenuto illegittimo o comunque preclusivo di benefici»120.

In sintesi, in base a questo orientamento:

120 Cass., 13 novembre 2003, n. 17129, in Corriere trib. 2004, n. 5, pagg. 389 e seguenti, con nota di M. Basilavecchia. Secondo questa sentenza, nel campo di applicazione dell’art. 10, comma 1, dello Statuto dei contribuenti deve essere compreso anche il sostituto d’imposta. Tale affermazione non è scontata, in quanto la disposizione de qua impiega il termine “contribuente” che, in senso proprio, andrebbe riferito al solo soggetto passivo su cui grava effettivamente l’obbligo tributario, non a quei soggetti che, come il sostituto o il responsabile d’imposta, si sostituiscono o si affiancano al contribuente nell’adempimento degli obblighi tributari, avendo però l’obbligo o la possibilità di rivalersi sul contribuente. È però evidente, sottolinea l’Autore (M. Basilavecchia), «che la funzione della norma che sancisce la rilevanza dell’affidamento non può che investire la totalità dei soggetti che si confrontano con l’Amministrazione finanziaria, quale che sia il ruolo dagli stessi svolto sul piano sostanziale e formale di ciascun tributo; così che gli obblighi di collaborazione e di buona fede non possono che riferirsi, nei riflessi attivi e passivi, ad una nozione più ampia possibile di “contribuente” e di “Amministrazione finanziaria”».

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a. se l’atto con il quale l’Amministrazione finanziaria

ha fornito un’interpretazione erronea ha un contenuto

inequivocabile, senza possibilità di prospettazioni alternative,

neppure l’imposta potrà essere pretesa da chi ad esso si sia

attenuto;

b. se l’atto erroneo dell’Amministrazione prospetta una

mera ipotesi interpretativa – un’indicazione preferenziale, ma

non esaustiva - non dovranno essere pretesi interessi né

irrogate sanzioni a chi ad essa si sia attenuto121;

c. fuori dal campo dell’affidamento e della tutela della

buona fede (e quindi a prescindere dall’esistenza di circolari e

di risoluzioni), non potranno essere irrogate sanzioni quando la

violazione dipenda da obiettive condizioni di incertezza sulla

portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria122.

Invero, tale impostazione – secondo la quale, accertata la

sussistenza dei presupposti dell’affidamento del contribuente,

ne consegue necessariamente non soltanto l’inapplicabilità di

sanzioni e/o di interessi moratori, bensì l’inesigibilità tour

court della prestazione tributaria – non va esente da critiche.

È stato, infatti, rilevato che, quella tributaria è una attività

vincolata, la quale trova origine, limiti e fondamento

esclusivamente nella legge123.

Sicché, a fronte dell’art. 10, comma 1, della legge n. 212/2000

- che ha introdotto la possibilità di utilizzare, anche in

materia tributaria, il fondamentale principio dell’affidamento -

si pone il comma 2 della stessa norma, per il quale

l’affidamento potrà essere la causa dell’abbattimento delle

sanzioni e degli interessi (che non si giustificherebbero per la

buona fede del contribuente, che ha seguito le indicazioni

dell’Amministrazione), ma non potrà essere in alcun caso la

causa di un abbattimento dell’imposta (che è disciplinata in

maniera oggettiva dalla legge soltanto).

121 G. Marongiu, Lo Statuto dei diritti del contribuente, in Il Fisco 2006, I, 20. 122 Così statuisce il comma 3 dell’art. 10 dello Statuto. 123 In termini, G. Falcone, Statuto dei diritti del contribuente e Cassazione tributaria, in Il Fisco 2003, 15, 221.

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E in questo senso, sul piano dei principi generali, vi è una

giurisprudenza che ha riconosciuto il diritto

dell’Amministrazione di agire in via di autotutela e di

annullare o revocare, ad esempio, condoni o accertamenti con

adesione illegittimi, in quanto in contrasto con la legge124.

Si deve concludere, allora, che un affidamento da tutelare non

può fare venir meno l’obbligo di pagare un’imposta che discende

dalla legge, e che viene dall’interprete solo accertata e

dichiarata in un provvedimento di autotutela, che va a

ripristinare la legalità.

Una conferma puntuale e sistematica a questa impostazione

discende, secondo una parte della dottrina125, dalla lettura

della norma sull’interpello, contenuta nell’art. 11 dello

Statuto medesimo, laddove il legislatore ha previsto al comma 2,

terzo periodo, che: «Qualsiasi atto, anche a contenuto

impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità dalla risposta

… è nullo».

In questo caso, la nullità dell’atto impositivo (difforme dalla

risposta) è sancita giustamente dalla legge e l’interprete non

può che dichiararla; in tal caso, l’Amministrazione ha consumato

il suo potere e, su quella questione, nei confronti di quel

contribuente, non potrà più fare nulla di diverso.

In altri termini, il legislatore ha posto un limite

all’autotutela e ha voluto sanzionare con la nullità qualsiasi

intervento (impositivo o sanzionatorio) contrastante con la

risposta fornita dall’Amministrazione nel caso specifico.

Ma, proprio questa previsione particolare e specifica

dell’interpello conferma, secondo questi Autori, la validità e

la legittimità della norma generale di cui al comma 2 dell’art.

10 dello Statuto, che lascia intatto il potere di autotutela

sotto il profilo impositivo e lo azzera solo sotto il profilo

sanzionatorio e degli interessi.

124 Cfr. Cass., 11 luglio 2002, n. 10102, in Il fisco n. 33/2002, fascicolo n. 1, pag. 5371; Id., 24 luglio 2002, n. 10800, in La legge plus on line, IPSOA.

125 G. Falcone cit; E. Grassi I reiterati interventi del giudice di legittimità sulla tematica concernente lo Statuto dei diritti del contribuente, con particolare riguardo al principio dell’affidamento in Il Fisco, 2005, 32, 4943.

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In conclusione, secondo questa tesi, la tutela dell’affidamento,

per quanto forte possa essere, non può esentare il contribuente

dal pagamento dell’imposta, quando l’imposta è oggettivamente

dovuta; l’estensiva applicazione della tutela dell’affidamento,

infatti, confligge con principi fondamentali dell’ordinamento,

primo fra tutti il principio dell’indisponibilità

dell’obbligazione tributaria126.

6.2. Principio di buona fede nel rapporto con i principi

generali del diritto comunitario e, in particolare, con la

nozione comunitaria di affidamento.

La Corte di Giustizia delle Comunità europee ha da tempo e

costantemente affermato che quelli della tutela del legittimo

affidamento e della certezza del diritto costituiscono principi

generali del diritto e dell’ordinamento comunitari127.

In particolare attuazione di tali principi, la Corte comunitaria

- sulla base della premessa secondo cui il diritto di esigere la

tutela del legittimo affidamento si estende a chiunque si trovi

in una situazione dalla quale risulti che l’amministrazione

comunitaria gli ha dato aspettative fondate128 - ha stabilito,

tra l’altro, che la revoca di un atto amministrativo favorevole

è generalmente soggetta a condizioni molto rigorose.

Sicché, è senz’altro innegabile che ogni istituzione

comunitaria, la quale accerta che un atto da essa emanato è

viziato da illegittimità, ha il diritto di revocarlo entro un

termine ragionevole con effetto retroattivo; tale diritto,

tuttavia, può essere limitato dalla necessità di rispettare il

legittimo affidamento del destinatario dell’atto.

A tal fine, è necessario verificare che:

126 In quest’ottica è stato precisato (C. Scalinci, Verso una “nuova” codificazione: uno statuto di principi tra ricognizione, determinazione e clausole in apicibus, in “Rassegna Tributaria” n. 2/2003, pag. 656, nota 109) che, la capacità espansiva delle norme statutarie può trovare terreno in altre disposizioni dello Statuto, come, per esempio, l’art. 7. comma 2, lett. c) che, limitandosi a stabilire taluni aspetti del modello di effettività del diritto di difesa, quali la doverosa informazione sui modi e sui tempi degli atti impugnabili, ben può essere considerato esemplificativo e non esaustivo dell’informazione stessa, a tutela del diritto medesimo. 127 Cfr., sentenze 3 maggio 1978, in causa 112/77, e 21 settembre 1983 in cause riunite 205-215/82. 128 Cfr. sent. 19 maggio 1983, in causa 289/81; nonché Tribunale di primo grado, sent. 17 dicembre 1998, in causa T-203/96.

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1. nessun interesse di ordine pubblico prevalga

sull’interesse del destinatario a conservare una situazione che

egli poteva considerare stabile;

2. che il destinatario non abbia provocato l’atto

mediante indicazioni false o incomplete.

In proposito, la Corte ha precisato che il momento determinante

per stabilire quando nasce il legittimo affidamento del

destinatario di un atto amministrativo è rappresentato dalla

notifica dell’atto stesso e non dalla data della sua adozione o

della sua revoca129.

7. L’affidamento e l’emendabilità degli errori della

dichiarazione fiscale.

In un sistema improntato ormai, per effetto dell’entrata in

vigore dello Statuto del contribuente, ai principi di tutela

dell’affidamento e della buona fede, deve riconoscersi al

contribuente la possibilità di far valere, attraverso la

procedura del rimborso – disciplinata compiutamente dall’art. 38

del D.P.R. n. 602/1973 - «ogni tipo di errore (materiale o di

diritto, ancorché non rilevabile ictu oculi dalla dichiarazione)

commesso in buona fede nel momento della redazione della

dichiarazione e da cui sia derivato un pagamento indebito»130.

A queste conclusioni, invero, si è giunti non senza qualche

difficoltà, a causa dei contrastanti orientamenti che si

registrano nel panorama nella giurisprudenza di legittimità131.

E precisamente, secondo la tesi, per così dire, restrittiva

(maggioritaria), fondata sulla necessaria osservanza dei termini

prescritti dalla legge per la presentazione delle dichiarazioni

tributarie, la correzione delle dichiarazioni stesse doveva

ritenersi esclusa oltre la scadenza di detti termini, a meno che

129 Cfr. sent. 17 aprile 1997, in causa C-90/95; cfr. anche sentt. 26 febbraio 1987, in causa 15/85, e 20 giugno 1991, in causa C-248/89. 130 Cass. 10 settembre 2001, n. 11545, in La legge plus on line, IPSOA; Id., SS.UU., 25 ottobre 2002, n. 15063, ivi. Si ricorda che la prova dell’inesistenza dell’obbligazione tributaria a causa di un errore e la prova del verificarsi di un indebito grava sul contribuente, che deve fornire gli elementi costitutivi della sua pretesa. 131 Si veda, al riguardo, M. Logozzo, Le SS.UU. della Cassazione riconoscono la ritrattabilità della dichiarazione tributaria, in Corriere tributario, 1 / 2003, p. 55.

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non si trattasse di errori materiali o di calcolo risultanti

ictu oculi dal testo della medesima dichiarazione.

Il fondamento di tale filone giurisprudenziale rispondeva

all’esigenza di dare “stabilità” ad un atto giuridico

assoggettato a precisi vincoli di forma e di tempo che importano

una sostanziale irritrattabilità.

Del resto, è stato precisato, se si riconoscesse al contribuente

la facoltà di modificare radicalmente la dichiarazione

originaria (al di là, dunque, dei casi di errori materiali o di

calcolo) «si vanificherebbero tutte le norme che disciplinano ed

assoggettano a limiti temporali rigorosi le dichiarazioni del

contribuente stesso»132.

L’orientamento, per così dire, “liberale” (minoritario),

viceversa, affermava la rettificabilità da parte del

contribuente degli errori, anche non materiali e di calcolo,

contenuti nella dichiarazione, sul rilievo che la stessa

dichiarazione ha natura di manifestazione di scienza (non

costitutiva, quindi, del debito d’imposta) e, in quanto tale, si

inserisce nell’ambito del procedimento di accertamento dei

tributi.

La ritrattabilità doveva essere fatta valere nei termini

previsti per azionare il rimborso d’imposta ovvero per impugnare

gli atti impositivi, essendo destinate a rimanere irritrattabili

soltanto le dichiarazioni riferite a rapporti tributari che, per

il trascorrere del tempo e/o per il sopravvenire di decadenze,

si dovevano ritenere esauriti133.

Oggi, soprattutto dopo la pronuncia delle Sezioni Unite della

Cassazione134, che ha accolto la tesi cosiddetta “liberale, si

può affermare, con una certa tranquillità, che al potere

dell’ufficio di rettificare la dichiarazione deve corrispondere

il potere-dovere del contribuente di correggere la stessa anche

a suo favore, soprattutto allorché l’errore commesso comporti 132 Cass. 3 aprile 1997, n. 2885, in Foro it. 1997, I, pag. 1385; Id. 13 agosto 1992, n. 9554, cit.. 133 Cass., 1° agosto 2000, n. 10055, in Giur. imposte 2000, II, pag. 1294 e Giur. it. 2000, pag. 2193. Secondo la citata sentenza, non derogano a questo quadro di esigenze di un rigoroso rispetto delle modalità e dei termini di presentazione le dichiarazioni in tema di IVA, rispetto alle quali tali esigenze si fanno - anzi - tanto più nette, ove si considerino - ad esempio - i meccanismi di detrazioni d’imposta operanti a favore del cessionario del bene o della prestazione di servizio. 134 Sentenza 25 ottobre 2002, n. 15063, cit.

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l’applicazione di un’imposta superiore a quella realmente

dovuta.

Ad esempio, la dichiarazione è stata ritenuta rettificabile nei

seguenti casi:

⎯ errore sull’esistenza del presupposto tributario135;

⎯ errore materiale136;

⎯ errore od omissione137;

⎯ erronea valutazione di una situazione giuridica o

erronea rappresentazione di circostanze di fatto138;

⎯ errore “di diritto” circa la qualificazione come

reddito imponibile di una determinata imposta139.

Ed invero, sulla base dell’indirizzo che riconosce

all’emendabilità degli errori (anche non meramente materiali o

di calcolo), contenuti in dichiarazioni (o, comunque, in atti

dello stesso contribuente costituenti il presupposto

dell’imposizione fiscale), valenza di principio generale del

sistema tributario140, «il contribuente può procedere alla

rettifica di errori di qualsiasi genere, anche dopo la scadenza

del termine per la presentazione della dichiarazione e tale

rettifica, se formulata, deve essere presa in considerazione

dall’ufficio ai fini della liquidazione dell’imposta dovuta»141.

E ciò anche alla luce del principio - esistente ancor prima

dell’espresso riconoscimento contenuto nell’art. 10 della legge

n. 212/2000 - della collaborazione e della buona fede, che deve

caratterizzare i rapporti tra contribuente ed amministrazione

finanziaria.

135 Commissione Tributaria Centrale, sez. II, 11 ottobre 1972, n. 8988. 136 Commissione Tributaria Centrale, 24 novembre 1978, n. 16278, in Corriere trib., 1980, 1795. 137 Cass. 23 gennaio 1985, n. 271, ivi, 1985, 857. 138 Commissione Tributaria Centrale, sez. XX, 15 gennaio 1991, n. 260, in Corriere trib., 1991, 1225. 139 Cass. 27 giugno 1994, n. 6157, in Il fisco, 1994, 11470. 140 Ciò in quanto, come è stato affermato (Cass. 20 giugno 2002, n. 8972, in La legge plus on line, IPSOA) «la dichiarazione non ha valore confessorio, né costituisce fonte dell’obbligazione tributaria - inserendosi nell’ambito di un più complesso procedimento di accertamento e di riscossione. Inoltre, i principi della capacità contributiva e di buona amministrazione rendono intollerabile un sistema legale che impedisse al contribuente di dimostrare, entro un ragionevole lasso di tempo, l’inesistenza di fatti giustificativi del prelievo. Ai citati principi costituzionali si aggiunge quello di legalità dell’amministrazione».

141 Cass. 20 giugno 2002, n. 8972, cit. Questa sentenza, sebbene circoscritta alla tematica della dichiarazione di successione, costituisce una novità giurisprudenziale di notevole rilievo, ponendosi in antitesi rispetto all’orientamento, per così dire, restrittivo sino a quel momento manifestato dai giudici di legittimità in materia di ritrattabilità della dichiarazione tributaria.

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Non solo. Il principio di buona fede, che impone al contribuente

di tenere un comportamento, per così dire, leale nei confronti

dell’Amministrazione Finanziaria, non può essere inteso nel solo

senso di consentire, al contribuente stesso, di dichiarare o

correggere situazioni a sé sfavorevoli e favorevoli

all’amministrazione e non anche nel senso contrario di

correggere situazioni a sé favorevoli e sfavorevoli all’altra

parte142.

In altri termini, l’interesse fiscale o pubblico non può

realizzarsi a danno del contribuente e a vantaggio

dell’amministrazione, consentendole di trattenere somme

indebitamente riscosse solo perché risultanti da un’errata

dichiarazione; se così fosse verrebbe violato l’obbligo di

correttezza a carico del Fisco che, prima ancora di essere

sacralizzato nello Statuto del contribuente, trova la sua fonte

nell’art. 97, comma 1, della Costituzione, nella parte in cui

sancisce il principio del buon andamento dell’azione

amministrativa.

7.1. Ritrattabilità della dichiarazione di successione, in

particolare.

La Corte di Cassazione, in una nota sentenza,143 ha stabilito

che, in tema di imposta di successione, il contribuente può

procedere alla rettifica di errori di qualsiasi genere,

contenuti nella dichiarazione, anche dopo la scadenza del

termine per la sua presentazione; tale rettifica, se fondata,

deve essere presa in considerazione dall’ufficio, ai fini della

liquidazione dell’imposta dovuta, ex art. 33 del D.Lgs. 31

ottobre 1990, n. 346 (Testo Unico in materia di imposta sulle

successioni e donazioni).

Il caso è paradigmatico.

Alcuni soggetti presentano, in qualità di eredi, una

dichiarazione di successione nella quale attribuiscono a un bene

ereditario un determinato valore.

142 F. Moschetti, Emendabilità della dichiarazione tributaria, tra esigenze di stabilità del rapporto e primato dell’obbligazione dovuta per legge, in Rass. trib., 2001, n. 4, 1168. 143 Sentenza 20 giugno 2002, n. 8972, cit.

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Successivamente, l’ufficio del registro-successioni notifica ai

medesimi eredi un avviso di liquidazione dell’imposta,

determinata in base ai valori dichiarati.

I contribuenti, affermando di avere per errore attribuito al

detto cespite un valore superiore a quello risultante dalla

moltiplicazione della rendita catastale per il coefficiente di

legge, provvedono al pagamento di una somma inferiore a quella

dovuta in base al valore dichiarato, dandone notizia all’ufficio

mediante lettera raccomandata e presentando, altresì, dopo il

decorso di sei mesi dalla data di apertura della successione144,

una nuova dichiarazione nella quale indicano il valore che

ritengono corretto.

L’ufficio notifica nuovo avviso di liquidazione per la

differenza tra il pagato e il preteso.

Si apre, così, un contenzioso tra Fisco e contribuenti che si

conclude a favore di questi ultimi145.

In particolare, secondo la Cassazione, la regola contenuta

nell’art. 33, comma 2, del D.Lgs. n. 346/1990, secondo il quale:

«In sede di liquidazione l’ufficio provvede a correggere gli

errori materiali e di calcolo commessi dal dichiarante nella

determinazione della base imponibile …», lungi dal prevedere un

potere discrezionale conferito esclusivamente

all’amministrazione finanziaria, deve considerarsi espressione

del principio della collaborazione e della buona fede contenuto

nell’art. 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del

contribuente.

Ne consegue che il contribuente può procedere alla rettifica di

errori di qualsiasi genere, anche dopo la scadenza del termine

per la presentazione della dichiarazione.

Ovviamente – prosegue il Collegio - l’ipotesi dell’errore deve

essere ben distinta da quella dell’indicazione consapevole di un

valore diverso da quello precedentemente dichiarato (e cioè il

144 Detto termine di sei mesi dalla data di apertura della successione entro il quale la dichiarazione deve essere presentata è oggi fissato, come noto, in 12 mesi dalla medesima data. 145 Si ricorda, tuttavia, che sia la Commissione Tributaria Provinciale che la Commissione Tributaria Regionale avevano accolto la tesi del Fisco, sul rilievo che la dichiarazione può essere rettificata dagli eredi soltanto entro il termine utile per la sua presentazione: scaduto il termine, la rettifica può avvenire solo per errori di diritto.

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vero e proprio ius poenitendi), facoltà che deve essere

esercitata nei termini previsti per la presentazione della

dichiarazione.

7.2. Limiti temporali all’emendabilità della dichiarazione.

In relazione ai limiti temporali dell’emendabilità della

dichiarazione, occorre operare, secondo la giurisprudenza, una

necessaria distinzione.

In particolare, «quando si tratta di errore materiale o di

calcolo, rilevabile ictu oculi dalla stessa denunzia, per la sua

rettifica non è necessario uno specifico atto d’impugnazione da

proporsi entro un termine di decadenza, essendo esso

correggibile anche d’ufficio146 o su una qualunque

sollecitazione dell’interessato, entro il termine di

prescrizione del diritto al rimborso in base al principio della

falsa demonstratio non nocet»147.

Nell’ipotesi in cui, invece, il contribuente intenda far valere

precisazioni o rettifiche diverse dai meri errori materiali o di

calcolo, occorre utilizzare le stesse forme e rispettare gli

stessi termini previsti per la dichiarazione che si intende

correggere, la quale viene così sostituita da quella

successivamente presentata148.

146 Ad esempio, per le imposte sui redditi, per mezzo dell’art. 36-bis, comma 2, lett. a), del D.P.R. n. 600/1973. 147 Cass., 23 gennaio 1985 n. 277, in Corriere trib., 1985, 857. 148 In tal senso, Cass., 27 aprile 1988, n. 3174, in Corr. trib., 1988, 1571; Id., 13 agosto 1992, n. 9554, ivi, 1992, 730; Id., 5 febbraio 1996, n. 946, in Riv. not. 1996, II, pag. 1219. Quest’ultima, in particolare, afferma che, «al di fuori degli errori materiali o di calcolo, contenuti nella dichiarazione del contribuente - per la cui correzione non è necessario uno specifico atto d’impugnazione, da proporsi entro un termine di decadenza, dovendosi procedere d’ufficio alla correzione dell’errore ed al rimborso della somma indebitamente versata entro il termine di prescrizione del diritto del contribuente - a questo è consentito correggere gli errori - sia di fatto che di diritto - in via di “ritrattazione” con obbligo per l’Ufficio di tenerne conto, solo presentando una dichiarazione “sostitutiva” con le modalità e nel termine stabiliti dalla legge per l’adempimento dell’obbligo tributario. Pertanto, la denuncia di successione, rettificativa di quella originaria con riferimento al valore dichiarato dei vari cespiti ereditari, presentata oltre i termini di cui all’art. 39 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, non assume funzione sostitutiva di quest’ultima e non costituisce, quindi, base per il calcolo dell’imposta di successione dovuta. Ne deriva che la mancata tempestiva impugnazione dell’avviso di liquidazione dell’imposta principale, emesso sulla base dei valori risultanti dalla denuncia originaria, rende l’imposta principale definitiva ed incontestabile, escludendo la possibilità di far valere, nei confronti del Fisco, con altri mezzi, gli “errori di valutazione”, asseritamente contenuti nella prima denuncia, per ottenere la riduzione dell’imposta principale dovuta». Nella specie, il contribuente aveva proposto istanza di rimborso in via amministrativa, chiedendo la riliquidazione dell’imposta principale sulla base della dichiarazione

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Al riguardo, le pronunce succedutesi nel tempo mostrano un certo

qual favor per il comportamento virtuoso del contribuente che

adegua quanto dichiarato alla realtà dei fatti e delle norme149.

In questa prospettiva, è stato ritenuto che la rettifica da

parte del contribuente possa aver luogo anche in sede

contenziosa, sino a quando il rapporto non si sia

definitivamente esaurito150, in virtù del principio secondo il

quale un’imposta non può considerarsi definitivamente dovuta

solo in quanto oggetto di dichiarazione151.

Una considerazione a parte merita l’ipotesi della rettifica

della dichiarazione dei redditi, in ordine alla quale entra in

gioco l’istituto della dichiarazione integrativa in diminuzione,

previsto dall’art. 2 del D.P.R. n. 435/2001, che ha aggiunto,

all’art. 2 del D.P.R. n. 322/1998, il comma 8- bis: sulla base

di tale disposizione, la dichiarazione dei redditi (e la

dichiarazione IRAP e quella dei sostituti d’imposta) può essere

integrata dal contribuente per correggere errori od omissioni

che abbiamo determinato un maggior reddito o, comunque, un

maggior debito d’imposta.

Come è stato rilevato, il profilo più delicato è quello della

ristrettezza dei tempi per la presentazione della dichiarazione

in diminuzione, la quale può essere presentata “non oltre il

termine prescritto per la presentazione della dichiarazione

relativa al periodo d’imposta successivo”152.

rettificativa e, successivamente, aveva presentato ricorso alla Commissione Tributaria avverso il silenzio - rifiuto dell’Ufficio. 149 Si è sostenuto, ad esempio, che ove la dichiarazione dei redditi contenga un errore – derivato nella specie da una erronea certificazione resa al contribuente dall’Inps e da questi utilizzata in buona fede per la redazione della dichiarazione – costui può rettificare la dichiarazione prodotta, nel termine di cinque anni che è concesso all’Amministrazione finanziaria dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 per la rettifica della stessa; in tal modo, il contribuente potrà ottenere il rimborso di quanto indebitamente versato, indipendentemente dalla scadenza del termine per l’impugnazione del ruolo. In termini, Comm. centr., sez. III, 18 aprile 1991, n. 2987, in Riv. dir. trib., 1991, II, 601; Id., sez. IX, 15 novembre 1997, n. 5561, in Giur. imp., 1998, 365; Id., sez. I, 21 aprile 1998, n. 2059, in Giur. imp., 1998, 763. Secondo quest’ultima pronuncia, la rettificabilità in sede contenziosa deriva dal fatto che oggetto della cognizione del Giudice – nel processo tributario – è l’accertamento della sussistenza o meno del rapporto d’imposta e del conseguente debito del contribuente. 150 In questi termini Comm. centr., sez. XIX, 31 maggio 1989, n. 3906, in Giur. imp., 1989, 453. 151 Cfr. Comm. trib. di Reggio Emilia, sez. VII, 13 ottobre 1993, n. 703, in Boll. trib., 1994, 1364. 152 Cfr. M. Logozzo, “Le dichiarazioni integrative in aumento e in diminuzione”, in Corr. Trib. n. 9/2002, pag. 745, secondo il quale, la ristrettezza dei termini per la presentazione della dichiarazione in diminuzione può essere spiegata solo se si considera che ciò consente al contribuente di utilizzare in compensazione il credito

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Ora, non sembra possibile affermare che il termine previsto per

la dichiarazione integrativa in diminuzione sia il termine

ultimo per la ritrattazione: siffatta interpretazione del comma

8-bis dell’art. 2 del D.P.R. n.322/1998, infatti, segnerebbe un

arretramento rispetto alle più recenti posizioni della

giurisprudenza di legittimità153.

È stato quindi affermato che, nel caso in considerazione,

superato l’anno dal momento della sua presentazione, «la

dichiarazione erronea potrà essere ritrattata con gli strumenti

“classici”, ossia la proposizione dell’istanza di rimborso entro

i termini stabiliti dalla legge (per le imposte sui redditi art.

38 del D.P.R. n. 600/1973) ovvero il ricorso contro un atto

d’imposizione (avviso di accertamento, iscrizione a ruolo,

avviso di liquidazione, ecc.) per sottoporre al giudice la

cognizione dell’intero rapporto tributario, compresa la parte

oggetto di dichiarazione erronea»154.

7.3. La rettifica della dichiarazione, considerazioni

conclusive.

Dall’esame delle pronunce sopra richiamate possono trarsi le

seguenti conclusioni.

Come affermato da una parte della giurisprudenza, la rettifica

della dichiarazione è ammissibile fino allo spirare del termine

previsto per l’esercizio dell’attività di accertamento.

Secondo questa tesi, che evidentemente attribuisce alla dichiarazione natura di dichiarazione di

scienza155, l’intento di far prevalere la realtà sull’apparenza deve essere considerato

preminente rispetto al generale interesse relativo alla certezza dei rapporti giuridici; di

conseguenza, la dichiarazione risulta sempre emendabile, purché non sia intervenuta la

prescrizione di ogni debito restitutorio dell’Amministrazione156.

d’imposta scaturente da detta dichiarazione con il debito d’imposta della dichiarazione del periodo successivo e attribuisce all’Amministrazione un congruo lasso di tempo per effettuare il controllo della nuova dichiarazione. 153 E. De Mita, “Un passo verso la codificazione”, in Il Sole 24-Ore del 30 ottobre 2002, pag. 25. 154 M. Logozzo, op. cit. 155 Si rinvengono, infatti, tre contrapposti orientamenti dottrinali che configurano la dichiarazione come: 1) dichiarazione di volontà; 2) confessione stragiudiziale; 3) manifestazione di scienza.

156 Principio cristallizzato nell’art. 10, comma 1, della legge n. 212/2000, secondo il quale «i rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede»: ed è, senza alcun dubbio, conforme alla buona fede provvedere alla restituzione di somme non dovute.

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SECONDA SESSIONE

Prof. Francesco D’ Ayala Valva, ordinario di Diritto Tributario

Università del Molise.

“Il garante del contribuente per una buona amministrazione

tributaria.”

SOMMARIO: .1 Alla ricerca di una migliore tutela dei diritti dei cittadini. – .2.– I Garanti dei diritti del contribuente..

– .3 Competenza per materia – .4 L’ambito regionale di intervento –5 I problemi di un organo collegiale –6 La

temporaneità dell’incarico – .7 Qualificazione e professionalità del Garante – .8 L’autonomia dell’organo ed

indipendenza economica . –9 La segnalazione al Garante ed i moderni processi di comunicazione fiscale –.10 Il

potere di attivazione dell’autotutela –.11 Riflessioni conclusive.

1. Alla ricerca di una migliore tutela dei diritti dei

cittadini.

Il Garante del contribuente non ha avuto, presso l’ampio

pubblico dei contribuenti ma anche degli stessi giuristi, quella

risonanza che le funzioni ad esso attribuite permettevano di

poter sperare. Ad oltre otto anni di distanza dalla sua

istituzione questa nuova figura stenta ad imporsi, in parte

soffocata dalla presenza di altre Authority157 di maggiore

rilevanza158 ed impatto mediatico, quale quella sugli scioperi o

sulla Privacy, in parte travolta dalla vivacità delle tematiche

normative, annunziate ed, alle volte, solo limitatamente attuate

negli ultimi otto anni159. L’alba del nuovo millennio è stata,

infatti, caratterizzata da una vasta produzione normativa,

continuata, anche con maggiore vigore, negli anni successivi,

157 IACOLARI M.A., La rappresentanza e la mediazione degli interessi nell’ordinamento tributario italiano, ESI, 2007, 157, nota 5; V. ONIDA, “La Costituzione”, Mulino, 2004, 105. 158 M. CLARICH, Autorità indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello, Il Mulino, Bologna 2005; G. GRASSO, Le autorità amministrative indipendenti della Repubblica tra legittimità costituzionale e legittimità democratica, Giuffré, Milano, 2006; la proliferazione di Autorità-Garanti è ora oggetto di riesame, con ipotesi di accorpamento lì dove lo spazio dei confini delle competenze si sta dimostrando di complessa gestione. 159 Anche per il garante del contribuente era stato presentato, alla fine della legislatura, un progetto di legge di ampliamento dei relativi poteri, senza alcuna possibilità temporale di un suo esame ed approvazione.

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tendente ad aggiornare il diritto scritto160 con il diritto

vivente161. L’interpretazione evolutiva162 delle norme sembrava

mostrare, alle volte, dei limiti sempre più insuperabili e

l’emersione ed il consolidarsi di alcuni principi generali

richiedeva sempre di più una loro collocazione in nuovi atti

normativi.

L’intervento del legislatore non si è limitato agli atti comuni

di normazione163, ma si è volto anche alla carta costituzionale,

proprio nell’intendimento di adeguarla alle nuove esigenze. Il

riferimento è alla riforma del titolo V della parte seconda

della Costituzione164, preceduta da altre significative

innovazioni, pur sempre riguardanti le Regioni165 e le fonti di

autonomia territoriale in genere166, proseguita poi con

160 L’evoluzione della semplificazione dell’apparato normativo si è spinto verso una sostanziale abrogazione della precedente normativa, tramite una legge delega. Sul punto vedi alcune riflessioni di P. AQUILANTI, Abrogare le leggi più vecchie, e anche quelle di mezza età, Foro it. 2005, V, 162. 161 Una forte spinta all’evoluzione del diritto vivente è stata fornita dalla nuova attenzione all’”Etica” ed alle sue connessioni con il diritto, specie negli affari. Sul punto vedi G. VISENTINI, Etica e affari. Una prospettiva giuridica, Luiss University Press, 2005, passim.; CAPRIGLIONE F., Etica della finanza e finanza etica, Laterza, 1997, 5, evidenzia che si è in presenza di una tendenza al superamento dell’interpretazione utilitaristica, che in passato ha caratterizzato la rilevanza teorica del mercato. Ciò da luogo ad una lettura dei fenomeni sempre più orientata alla valorizzazione di alcuni principi (quali la solidarietà, la redistribuzione, l’equità, ecc.) che appaiono destinati ad attenuare la rigida applicazione delle categorie proprie della scienza economica ed a consentire un’impostazione etica dei rapporti intersoggettivi. L’Autore intravede una concezione dei rapporti economici nella quale liceità della proprietà privata, libertà d’iniziativa, libertà di associazione dovrebbero essere ispirate alla “cultura del dare”. Da questa riflessione consegue che proprio nel campo tributario si riscontra, in misura maggiore, la scelta egoistica ed asociale dell’evasore che non “ da”, negando la partecipazione alle spese pubbliche, in relazione alla propria capacità contributiva e nella misura determinata dal legislatore. 162 GUASTINI R., Le fonti del diritto e l’interpretazione, Giuffrè, 1993, 385, ricorda che mutando le circostanze storiche (sociali, culturali, etc.) nelle quali una legge deve essere applicata, deve mutare (“evolversi”) altresì il modo di interpretarla. Dello stesso Autore vedi L’interpretazione dei documenti normativi, in Trattato di diritto civile e commerciale, Giuffré, 2004, 196. 163 Lo sforzo di adeguare le norme alle nuove esigenze non si è tuttavia esaurito ed è stato di recente auspicato da G. ALPA, Riti e normative da semplificare, Il sole 24 ore, sabato 4 marzo 2006, n. 62, 21, nella qualità di Presidente del Consiglio nazionale forense. In particolare, prendendo le mosse dai progetti normativi sui cosiddetti servizi legali, ha dichiarato che l’avvocatura chiede al futuro legislatore di ricevere uno statuto normativo proprio, in relazione al ruolo che essa assolve nel sistema costituzionale, nell’ambito di amministrazione della giustizia, nella soluzione stragiudiziale delle controversie e nel predisporre e concretare le operazioni, che sono il motore dell’economia. Si auspica, quindi, uno “Statuto dell’avvocatura” idoneo ridisegnare la professione forense in forma unitaria, sottraendola ad iniziative non coordinate. E interessante notare che in questo caso è stata invocata la particolare forma normativa “Statuto”, riconoscendo la particolare valenza di tale “forma” nell’ambito della legislazione ordinaria, sulla scia forse dello statuto dei diritti del lavorator prima e del contribuente poi. 164 A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori, Lezioni, Giappichelli, 2005, quarta edizione, 4, afferma che le novità sono state di tale ampiezza da non consentirgli di salvare neppure un rigo della precedente trattazione relativa alle fonti regionali e locali in genere. 165 La pressione su un nuovo rapporto stato enti locali faceva perno anche su un diverso criterio di ripartizione dei tributi. Di una rotazione dell’asse del prelievo fiscale dal centro alla periferia parlano G. TREMONTI G. VITALETTI, Il federalismo fiscale. Autonomia municipale e solidarietà sociale, Laterza, 1994.

166 A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Giappichelli, Torino, 2005, 34, evidenzia come nella nuova formulazione del titolo V della carta costituzionale il contenuto della nozione “sistema tributario” sembra mantenere il suo significato, designando l’insieme di tutti gli istituti fiscali presenti nell’ordinamento giuridico. Osserva che, invece, nuova appare la nozione di “sistema tributario dello Stato”, che

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ulteriori interventi del legislatore con la legge costituzionale

recante “Modifiche alla Parte II della costituzione”167,

disattesa dal referendum confermativo168. Ricordare l’evoluzione

normativa fa prendere coscienza della nuova difficoltà

dell’interprete nel cercare di cogliere la portata della

normativa precedente alla luce del differente e mutante quadro

normativo, nel quale è pur sempre chiamata ad operare.

In un contesto di particolare effervescenza normativa169, alle

volte condannata ad esaurirsi nella sola enunciazione di un

provvedimento170, è stato emanato un testo normativo di

particolare rilievo171, più conosciuto come Statuto dei diritti

del contribuente, finalizzato ad introdurre nel sistema

normativo una nuova forma di tutela indiretta del contribuente.

E’ stato puntualmente osservato172 che l’approvazione, dopo una

lunga e complessa vicenda parlamentare, della legge 27 luglio

2000, n. 212, costituisce una novità importante nel panorama

legislativo. Pur con una certa frammentarietà e con il

dichiarato intento di limitare l’intervento ai soli profili di

garanzia per il contribuente, la legge si caratterizza come vera

e propria legge generale, volta a fissare “principi generali”

identifica i soli tributi erariali, contrapposti a tutti gli altri. Sul punto vedi da ultimo A. DI PIETRO, Federalismo e devoluzione nella recente riforma costituzionale: profili fiscali, Rass. Trib., 2006, 1, 245; P. SELICATO, La nuova autonomia degli enti territoriali, Dir. prat. trib., 2005, I, 1196; S. PELLEGRINI, L’autonomia tributaria delle regioni è condizionata dalle leggi statali di coordinamento, Dir. prat. trib., 2005, II, 1291. 167 G.U. 18 novembre 2005, n. 269; A. PIZZORUSSO, Le riforme costituzionali: una transizione per destinazione sconosciuta, Foro it. , 2005, V, 217.

168 Ricordare l’evoluzione normativa fa prendere coscienza della nuova difficoltà dell’interprete nel cercare di cogliere la portata della normativa precedente alla luce del differente e mutante quadro normativo, nel quale è pur sempre chiamata ad operare. E’ appena il caso di ricordare il passaggio di consegne tra l’Amministrazione delle Finanze e le Agenzie fiscali, con i complessi problemi interpretativi sul soggetto legittimato ad agire ed a contraddire nel processo tributario; l’assenza di una normativa intertemporale ha portato la Corte di Cassazione a soluzioni inizialmente contraddittorie e, quindi, ad una ipotesi elastica tra agenzia centrale e locale. 169 G. MARONGIU, Dallo Statuto del contribuente al Codice tributario nel ricordo di Ezio Vanoni, in AA VV, La politica economica tra mercati e regole, Rubettino, 2005, 243, afferma che alla stabilità normativa giova, indubbiamente, una disciplina per principi che è, esattamente, l’antitesi di quanto è avvenuto negli ultimi venti anni durante i quali la gran massa di provvedimenti normativi sono connotati da discipline, di settore, per dettagli e continuamente rinnovatesi. 170 G. NAVARRINI, Le forme rituali della politica, Laterza, 2001, 170, evidenzia come la presentazione di un disegno di legge alle volte non corrisponde al desiderio di vederlo subito approvato, ma anche più limitatamente di essere presente sulla scena politica come fabbrica di notorietà. 171 BRONZETTI G., Il Garante del Contribuente: realtà e prospettive, Riv. dir. trib., 2007, n. 5, I, 547. 172 A. FANTOZZI A. FEDELE, Statuto dei diritti del contribuente, Prefazione, Giuffrè, 2005, VI; F. D’AYALA VALVA, Dall’ombudsman al garante del contribuente, Studio di un percorso normativo, in Riv. Dir. trib., 2000, 1037.

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della materia173 e con l’esplicita previsione di clausole

“autorafforzative”174.

Nella legge possono enuclearsi, unitamente alla affermazione di

principi generali tratti dalla Costituzione, anche nuovi

istituti, che costituiscono un insieme di particolare rilevanza

in quanto esplicitazione ed attuazione concreta dei principi

costituzionali con la stessa norma riaffermati. La

giurisprudenza della Corte di cassazione, dopo una iniziale

perplessità derivata dalle prime prese di posizione della

dottrina, ha accolto con favore il messaggio contenuto nelle

disposizioni dello Statuto, richiamandole ed approfondendone il

contenuto175. In particolare, con la sentenza n. 17.576 del 10

dicembre 2002176, di rilevante valore interpretativo e di

173 LONGO A., I valori costituzionali come categoria dogmatica.Problemi e ipotesi, Novene, Napoli, 2007, 143, parla di maggior contenuto di valore del principio rispetto alla norma o se si preferisce una sua maggior prossimità rispetto al valore costituzionale cui da attuazione. 174 C. PINELLI, Sulle clausole rafforzative dell’efficacia delle disposizioni dello Statuto del contribuente, Foro it., 2001, V, 102. 175 G. MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Giappichelli, Torino, 2008.

176 In Riv. Dir. trib., 11/2004, II, 661, con nota V. MASTROIACOVO, Ancora sull’efficacia dello Statuto dei diritti del contribuente, 672; E. DE MITA, Lo Statuto del contribuente alla prova della gerarchia, Dir. prat. trib., 2004, II, 847. E’ utile ricordare i passi più salienti della pregevole sentenza dovendo in qualche maniera rileggere l’intero apparato normativo tributario alla luce dei principi indicati dallo statuto. :- "Le disposizioni della presente legge, in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell'ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali" (comma 1). In particolare la Corte ha affermato che l'autoqualificazione delle disposizioni della legge come "principi generali dell'ordinamento tributario" trova puntuale rispondenza nella effettiva natura della maggior parte delle disposizioni stesse, quale si desume dal loro contenuto normativo, dal loro oggetto, dal loro scopo e dalla loro incidenza nei confronti di altre norme della legislazione e dell'ordinamento tributario, nonché dei relativi rapporti. Ha precisato che quale che possa essere l'incidenza dei quattro enunciati normativi contenuti nel comma 1, dell'art. 1 della L. n. 212 del 2000 (e cioè:autoqualificazione delle disposizioni dello Statuto come attuative delle norme costituzionali richiamate e come "principi generali dell'ordinamento tributario"; divieto di deroga o modifica delle disposizioni stesse in modo "tacito", ovvero mediante leggi speciali), complessivamente considerati, sull'efficacia delle disposizioni statutarie dal punto di vista del sistema costituzionale delle fonti (vale a dire, ad esempio, sul piano della loro "forza" "attiva" e "passiva", ovvero della loro attitudine ad essere qualificate quali possibili parametri, "integrativi" delle norme costituzionali "attuate", nel giudizio di costituzionalità delle leggi) - delicato e complesso problema, questo (relativo, in altri termini, alla possibilità ed alla efficacia di "norme sulla normazione" contenute in fonti pari ordinate a quelle che si intendono disciplinare) è certo, però, che alle specifiche "clausole rafforzative" di autoqualificazione delle disposizioni stesse come attuative delle norme costituzionali richiamate e come - principi generali dell'ordinamento tributario" deve essere attribuito un preciso valore normativo. Infatti, quest'ultima espressione, in particolare, deve essere intesa come formulazione sintetica di quattro diversi e specifici significati: in primo luogo, quello di "principi generali del diritto, dell'azione amministrativa e dell'ordinamento particolare tributari" (artt. 3 e 5-19, che dettano disposizioni volte sia a disciplinare l'efficacia temporale delle norme tributarie, sia ad assicurare la "trasparenza" dell'attività stessa, sia, come è stato rilevato esattamente in dottrina, ad "orientare in senso garantistico tutta la prospettiva costituzionale del diritto tributario"); in secondo luogo, quello di "principi fondamentali della legislazione tributaria", tesi a vincolare in vario modo l'attività del futuro legislatore tributario, statale e regionale, sia nella scelta della fonte di produzione (artt. 1, comma 2, e 4) e del relativo oggetto (art. 2, comma 2), sia nella tecnica di redazione delle leggi (art. 2, commi 1, 3 e 4); in terzo luogo, quello di "principi fondamentali della materia tributaria", in relazione all'esercizio della relativa potestà legislativa "concorrente" da parte delle regioni ed infine, quello di "norme fondamentali di grande riforma economico sociale", in relazione all'esercizio della potestà legislativa "esclusiva" da parte delle regioni ad autonomia speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano. Ha ancora affermato che tanto premesso - e tenuto conto, da un lato, che, alla base delle predette quattro "clausole rafforzative" dell'efficacia delle disposizioni

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indirizzo anche per il legislatore, ha affermato che le

disposizioni contenute nello Statuto debbono essere interpretate

ed applicate alla luce di quanto affermato nell'art. 1 della

stessa legge. L’autoqualificazione come principi generali

dell’ordinamento tributario delle norme dello statuto devono

statutarie sta, comunque, l'esplicita intenzione del legislatore, acché le disposizioni stesse (al di là di ogni eventuale ostacolo "formale” o sistematico) magis valeant nella legislazione tributaria; e, dall'altro, che è insita nella categoria dei "principi giuridici" la funzione di orientamento ermeneutico ed applicativo vincolante nell'interpretazione del diritto (cfr., ad esempio, art. 12, comma 2, secondo periodo, delle disposizioni sulla legge in generale) - il tratto comune ai quattro, distinti significati della locuzione principi generali dell'ordinamento tributario" è costituito, quantomeno, dalla "superiorità assiologica" dei principi espressi o desumibili dalle disposizioni dello Statuto e, quindi, dalla loro funzione di orientamento ermeneutico, vincolante per l'interprete: in altri termini, il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria, che attenga ad ambiti materiali disciplinati dalla L. n. 212 del 2000, deve essere risolto dall'interprete nel senso più conforme ai principi statutari. Siffatta prospettiva appare ulteriormente confermata da quanto stabilito nell'art. 16, comma 1, dello Statuto, laddove il Governo viene delegato "ad emanare uno o più decreti legislativi recanti le disposizioni correttive delle leggi tributarie vigenti strettamente necessarie a garantirne la coerenza con i principi desumibili dalle disposizioni della presente legge".È noto che tale delega è stata esercitata dal Governo con l'adozione del (solo) del D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32. Ma, al di là del concreto esercizio della delega, conta sottolineare la volontà esplicita del legislatore delegante - ovviamente consapevole della mole enorme "delle leggi tributarie vigenti" e, quindi, della inevitabilità di limitare la delega alla emanazione delle "disposizioni correttive strettamente necessarie a garantire la coerenza delle leggi tributarie vigenti con i principi statutari" (e cioè, alla emanazione di quelle disposizioni relative alle "leggi tributarie vigenti" di più frequente applicazione: come è dimostrato dal contenuto, quantitativamente modesto, delle modificazioni apportate dal D.Lgs. n. 32 del 2001) - di riaffermare, in consonanza con l'art. 1, comma 1, la necessità di "garantire la coerenza delle leggi tributarie vigenti (id est: di tutte le leggi tributarie vigenti) con i principi desumibili dalle disposizioni" dello Statuto. In altre parole - se le "disposizioni correttive" del D.Lgs. n. 32 del 2001 per definizione, "garantiscono la coerenza" delle (sole) leggi ivi considerate con i principi statutari - identica coerenza deve essere assicurata non soltanto nell'esercizio dell'attività del futuro legislatore tributario, ma anche nell'esercizio dell'attività dell'interprete, che tali principi è chiamato ad applicare anche con riferimento a leggi tributarie "non corrette" dal legislatore delegato, e cioè a "tutte le altre" leggi tributarie vigenti. Il predetto valore ermeneutico dei principi statutari si fonda su un duplice rilievo. In primo luogo, su quello, secondo cui l'interpretazione conforme a Statuto si risolve, in definitiva, nell'interpretazione conforme alle norme costituzionali richiamate, che lo Statuto stesso dichiara esplicitamente di attuare nell'ordinamento tributario. In secondo luogo e conseguentemente, su quello, secondo cui (alcuni de)i principi posti dalla L. n. 212 del 2000 - proprio in quanto esplicitazioni generali, nella materia tributaria, delle richiamate norme costituzionali - debbono ritenersi "immanenti" nell'ordinamento stesso già prima dell'entrata in vigore dello Statuto e, quindi, vincolanti l'interprete in forza del fondamentale canone ermeneutico della "interpretazione adeguatrice" a Costituzione: cioè, del dovere dell'interprete di preferire, nel dubbio, il significato e la portata della disposizione interpretata conformi a Costituzione. Lo Statuto, pertanto, qualifica gli elementi (non procedimentali) contenuti nel testo come principi generali; poichè questi sono l’attuazione del disposto costituzionale, retroagiscono tendenzialmente al momento della sua promulgazione. I principi della "collaborazione", della "buona fede" e dell'"affidamento". e della “cooperazione”, nei rapporti tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, sanciti dai primi due commi dell'art. 10 e dal settimo comma dell’articolo 12 della L. n. 212 del 2000, anche perché immediatamente deducibili, rispettivamente, dai principi di "buon andamento" e di "imparzialità" dell'Amministrazione, di "capacità contributiva" e di eguaglianza (sub specie del rispetto del canone della ragionevolezza), garantiti dagli artt. 97 comma 1, 53 comma 1, e 3 comma 1, della Costituzione - debbono essere annoverati tra quelli "immanenti" nel diritto e nell'ordinamento tributari già prima dell'entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente (prima, cioè, del 1° agosto 2000: cfr. art. 21 della L. n. 212 del 2000). L'art. 10, comma 1, si riferisce ad un unico principio "della collaborazione e della buona fede", trattando i due diversi termini quasi come espressione di un'endiadi; può osservarsi, innanzitutto, che il termine "collaborazione" allude, per un verso, ai principi: di "buon andamento", "efficienza" ed "imparzialità" dell'azione amministrativa tributaria di cui all'art. 97, comma 1, della Costituzione (richiamato dall'art. 1, comma 1, dello Statuto), e, per l'altro, a comportamenti non collidenti con il dovere, sancito dall'art. 53 comma 1, della Costituzione (anch'esso richiamato dalla predetta disposizione statutaria) ed imposto a "tutti" i contribuenti, di "concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva"; in secondo luogo, che il termine "buona fede", se riferito all'Amministrazione finanziaria, coincide, almeno in gran parte, con i significati attribuibili al termine "collaborazione", posto che entrambi mirano ad assicurare comportamenti dell'Amministrazione stessa "coerenti", vale a dire "non contraddittori" o "discontinui" (mutevoli nel tempo); ed infine, che il medesimo termine, se riferito al contribuente, presenta un'analoga, parziale coincidenza con quello di "collaborazione" ed allude ad un generale dovere di correttezza, volto ad evitare, ad esempio, comportamenti del contribuente capziosi, dilatori, sostanzialmente connotati da "abuso" di diritti e/o tesi ad "eludere" una "giusta" pretesa tributaria.

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costituire un nuovo faro nell’interpretare anche il tessuto

normativo precedente e nello stesso tempo indirizzare i

comportamenti sia dell’Amministrazione che del contribuente

La figura del Garante del contribuente 177 è posizionata alla

fine delle disposizioni, quasi a suggellare la funzione di

tutela, diretta ed immediata, delle stesse norme e di quelle

tributarie in genere. In particolare non può sfuggire il

collegamento con il riaffermato principio di collaborazione e

della buona fede178, come modalità necessaria del rapporto tra

fisco e contribuente, la cui tutela difficilmente può trovare

concreta attuazione dinanzi agli organi giudiziari ordinari. Il

Garante, pertanto, si inserisce in questo spazio equidistante

tra le distinte posizioni del contribuente e l’Amministrazione

finanziaria in tutti i profili nella quale si manifesta.

Le Agenzie fiscali, che sono subentrate all’Amministrazione

Finanziaria, nonostante i ripetuti interventi di

riorganizzazione e controllo di efficienza179, nel loro agire,

in relazione anche ai mutati contesti normativi, evidenziano

profili comportamentali alle volte, ma sempre con minore

frequenza rispetto ai precedenti periodi, sul confine della

legalità. Il Garante si inserisce, quindi, in uno spazio rimasto

scoperto da un’efficace tutela giudiziaria180. Il livello di

“alegalità”, vale a dire di prassi o comportamenti

differenziati, che si collocano tra il sistema delle norme,

rigidamente uniforme per tutto il territorio nazionale, e

l’estrema varietà delle situazioni e dei contesti socio-

economici locali, con “performances” così diverse, sono idonee

ad incrinare, in concreto, il sistema delle garanzie e delle

aspettative dei cittadini contribuenti.

177 L. SALVINI, Il Garante del contribuente, in AA.VV., Lo statuto dei diritti del contribuente, Giappichelli, 2004, nella relazione al convegno tenuto a Genova il 24 ottobre 2003 riporta una indagine dalla quale emerge che la figura e le funzioni del Garante del contribuente sono (ancora) marginalmente conosciute dai cittadini. 178 E. DE MITA, Statuto fondato sull’affidamento, Il sole 24 ore, 22 ottobre 2006, 21. 179 R. GALULLO, Riorganizzazione del fisco, Il Sole 24 ore, 23 gennaio 2006, ricorda che l’Agenzia delle Entrate agisce non solo sul versante assunzioni, per rafforzare i settori informazioni al contribuente, controlli e lotta all’evasione fiscale, ma promuove anche una massiccia opera di riqualificazione del personale. 180 G. ZAGREBESLSKY, La domanda di giustizia, G. Einaudi, 2003, 26, ricorda che la giustizia non si esaurisce nella legalità.

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Questa situazione, non risolvibile con i mezzi tradizionalmente

predisposti dall’ordinamento181, ha favorito lo studio di una

figura estranea alla struttura dell’amministrazione finanziaria

statale. Si tratta,dell’introduzione nel nostro sistema

tributario di un nuovo soggetto, che si inserisce nel

tradizionale rapporto obbligatorio fisco-contribuente182.

Da questa originaria matrice, tendente a tutelare il cittadino

nei confronti della pubblica amministrazione183, si è sviluppata

anche in Italia una pluralità soggetti, con finalità più

delimitate ed oggetti diversi184, tra i quali possono

identificarsi alcuni, il cui scopo è quello di tutelare anche il

cittadino, che riveste la qualifica di contribuente.

.2 I Garanti dei diritti del contribuente.

Va innanzi tutto rilevato che la norma sul Garante del

Contribuente, pur inserita in un contesto esprimente i principi

generali del diritto tributario desumibili dalla Carta

Costituzionale, richiama o per meglio dire fotografa soggetti,

rapporti e tributi vigenti nel contesto normativo e culturale

proprio del lungo iter di approvazione della legge. Dopo un

quinquennio l’interprete non può non riconoscere che

l’orizzonte, nel quale era prevista l’operatività del Garante, è

ormai molto mutato e richiederebbe un sostanzioso intervento

normativo, per renderlo, nel rispetto delle finalità che ne

181 F. d’AYALA VALVA, Spunti sulle tutele del contribuente e dell’interesse fiscale collettivo, in Atti Convegno Nuove forme di tutela delle situazioni giuridiche soggettive nelle esperienze processuali, Messina 26 settembre 2003, Pubblicazione della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Messina, giuffrè, 2004, 247. 182 BRONZETTI G., Il Garante del Contribuente: realtà e prospettive, Riv. dir. trib., 2007, n. 5, I, 551. 183 N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi,1997, 262 afferma che non pare dubbio che le varie tradizioni si stiano avvicinando e stiano formando insieme un unico grande disegno di difesa dell’uomo, che comprende i tre sommi beni della vita, della libertà e della sicurezza sociale. Il nuovo rapporto cittadino stato si inserisce, quindi, in questo cambiamento, che mette al centro dell’attenzione l’uomo cittadino e non l’uomo suddito. 184 L’affermazione dei nuovi diritti della persona ha fatto emergere situazioni che progressivamente hanno richiesto una qualche nuova forma di tutela. Da questi si è affermata la figura del “consumatore”, in tutti i profili ove possa estrinsecarsi ed anche indipendentemente dalla qualità di “cittadino”, che sta avendo una considerevole attenzione. Sul punto vedi G. FERRARA, Contributo allo studio della tutela del consumatore. Profili pubblicistici, Giuffrè, Milano, 1983, 377, ove richiama la figura dell’Ombudsman, che vede codificata nella figura del difensore civico. G. ALPA, Il diritto dei consumatori, Laterza, 2002, 4, afferma che la scoperta del “consumatore” è piuttosto recente ed è un dato tipico delle società opulente e avviene gradualmente in tutti i paesi occidentali. Puntualizza che alla scoperta del consumatore non fa seguito l’adozione immediata di misure legislative a sua difesa. Richiama infine (pag. 439) tra gli strumenti di tutela l’ombudsman in alcune sue applicazioni concrete, soffermandosi in particolare sull’ombudsman bancario.

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hanno motivato l’istituzione, più aderente alle mutate

disposizioni.

Rinunciando a creare un Garante del contribuente unico a livello

nazionale ed anticipando la successiva approvazione delle norme

costituzionali regolanti i nuovi rapporti Stato, Regioni ecc., è

stata operata la scelta di istituire tale soggetto presso ogni

Agenzia Regionale delle entrate, confermando la funzione di

collegamento più immediato tra il cittadino e gli uffici

tributari locali. La creazione di questo nuovo organo, di

derivazione costituzionale e con specifiche funzioni e finalità,

prima della nuova suddivisione dei rapporti istituzionali dei

nuovi enti locali non può essere sottovalutata e ci si può

chiedere se la nuova potestà normativa attribuita

successivamente a questi ultimi possa in qualche maniera

scalfire o addirittura sostituire le funzioni attribuite al

Garante del contribuente. La questione non appare teorica in

quanto le regioni, nei loro statuti, tendono ad inserire anche

la figura del garante del contribuente di ambito regionale, con

funzioni analoghe a quelle attribuite al garante previsto nello

Statuto del contribuente.

Il differente assetto Stato, regioni ed enti locali e la futura

regolamentazione della materia tributaria porterà alla ribalta

la figura del Garante ed i rapporti con questi nuovi soggetti.

La localizzazione regionale del Garante del contribuente ed i

nuovi o anche vecchi tributi regionali o locali ha già portato

momenti di contatto con le istituzioni locali e la emersione

della necessità di nuove regole a tutela del contribuente locale

ed a favore di una migliore organizzazione delle strutture e dei

soggetti che, a vari livelli, gestiscono i tributi locali185.

Una soluzione già si intravede alla luce della più recente

giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di ICI186.,

185 Sul punto vedi le osservazioni ed i richiami di F. BATTOCCHI, Il garante del contribuente, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, Giuffrè, 2005, 727

186 La Corte Costituzionale ha avuto l’occasione di precisare che per tributi erariali si intendono anche i precedenti tributi, identificati quali tributi locali per la destinazione del gettito e non per l’origine, negandone la disponibilità da parte dei nuovi enti territoriali locali. Con la recentissima sentenza n. 75 del 24 febbraio 2006 la stessa Corte ha ribadito il proprio pensiero, censurando l’art. 27 della legge regionale Friuli Venezia Giulia 4 marzo 2005, n. 4, poiché quest ultima interveniva su materia non attribuita alla potestà legislativa regionale. In particolare ha affermato: “La potestà legislativa della Regione nella materia tributaria deve esercitarsi «in armonia con i principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato» e deve limitarsi all'«istituzione di tributi

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valevole per tutti i tributi locali di origine statale, per i

quali i nuovi enti non possono incidere se non nei limiti

previsti dalle singole normative impositiva, ricomprendono sia i

tradizionali tributi erariali che tutti quelli in precedenza

istituiti dallo Stato sotto qualsiasi denominazione corrente

come tributi locali, comunali o altro. Da ciò può affermarsi che

sussiste la competenza del Garante del contribuente, di diretta

derivazione Statutaria (l. n. 212/2000), su tutti i tributi

preesistenti e le relative regolamentazioni ed uffici ad essi

demandati. Da questo spartiacque emerge altresì che i nuovi

Garanti, di derivazione statutaria regionale o comunque locale,

potranno svolgere la loro funzione di tutela esclusivamente nei

confronti dei nuovi futuri tributi locali ed i relativi uffici

ad essi preposti.

La costituzione nello Statuto del contribuente di una pluralità

di garanti non è stata seguita anche dalla previsione di un

organo di collegamento o coordinamento tra i vari Garanti;

questa scelta può essere vista quale ulteriore garanzia “di

piena autonomia” del singolo Garante, così come recita il

secondo comma dell’art 13; d’altro canto non esclude,

nell’ambito del potere di auto disciplinare le proprie regionali prevista nell'articolo 51». Quest'ultimo articolo, a sua volta, stabilisce che l'istituzione dei tributi regionali deve essere effettuata con legge regionale, «in armonia col sistema tributario dello Stato, delle Province e dei Comuni». Dal combinato disposto di tali norme risulta, dunque, che la potestà impositiva della Regione può concernere solo i tributi regionali, e cioè quei tributi che la Regione medesima ha facoltà di istituire ai sensi di detto art. 51. L'ICI non è istituita dalla Regione e, quindi, non è un tributo regionale ai sensi dello statuto. È, invece, un tributo erariale, istituito dalla legge dello Stato (art. 1 del citato d.lgs. n. 504 del 1992) e da questa disciplinato (v., ex plurimis, le sentenze numeri 37, 381 del 2004 e n. 397 del 2005), salvo quanto espressamente rimesso all'autonomia dei Comuni (art. 4 del d.lgs. n. 504 del 1992 e art. 59 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, recante «Istituzione dell'imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell'Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali»). Ne consegue che l'impugnato art. 27 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 4 del 2005, nell'introdurre casi di esenzione dall'ICI, interviene su materia non attribuita dallo statuto alla competenza del legislatore regionale e si pone, perciò, in contrasto con l'evocato art. 5 dello statuto medesimo.” La Corte, per fugare altri dubbi e precisando il suo pensiero sul contenuto dell’espressione finanza locale ha anche precisato che: “Tale conclusione non è smentita dal richiamo della norma impugnata all’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 9 del 1997, secondo cui «spetta alla regione disciplinare la finanza locale». Tale articolo, essendo norma di mera attuazione statutaria in tema di ordinamento degli enti locali, può riguardare, infatti, solo quella parte della finanza locale presa in considerazione dallo statuto e non quei tributi comunali che, come l'ICI, sono invece previsti e istituiti esclusivamente dalla legge statale e, nei limiti da questa indicati, disciplinati dai regolamenti comunali.” Ha quindi preso posizione suo rapporto con il nuovo testo della carta costituzionale affermando che: “La Regione Friuli-Venezia Giulia non ha potestà legislativa in materia di ICI, non solo ai sensi delle norme statutarie, ma neanche ai sensi del combinato disposto degli articoli 117, terzo comma, Cost. e 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001. Essendo infatti l'ICI tributo statale, la sua disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tributi erariali, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Tale riserva di competenza impedisce che le norme denunciate rientrino nella invocata potestà legislativa concorrente e non consente, nella specie, di effettuare la comparazione richiesta dal citato art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 tra le forme di autonomia garantite dalla Costituzione e quelle statutarie”.

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iniziative, la operatività di periodiche conferenze comuni, in

vista, ad esempio, della presentazione della relazione

sull’attività svolta al Ministro delle finanze ed agli altri

uffici.

Sotto questo aspetto si è operata la scelta di creare più

collegi di Garanti, con competenza territoriale, pari alle

regioni, con ciò avvicinando la nuova figura alla struttura

territoriale del difensore civico regionale; i due organi

rimangono, comunque, distinti per competenze e sotto la veste

formale, in quanto quest’ultimo è un organo monocratico, ove si

assommano tutti i poteri; nello stesso tempo, la scelta di un

organo collegiale, pur analoga ad altre figure di Autorità o

Garanti, distingue quello del contribuente proprio in relazione

alla diffusione regionale, non presente nelle altre tipologie,

collocate in un unico ufficio centralizzato.

Particolare rilievo si deve dare ai rapporti con soggetti

privati appaltatori di servizi di accertamento, liquidazione e

riscossione di tributi di qualunque natura, previsti

esplicitamente nell’ultima parte dell’articolo 14 dello Statuto;

la generica previsione di applicabilità della stessa legge a

questi ultimi soggetti non sembra tutelare nella medesima misura

i contribuenti. Gli istituti dell’autotutela e dei procedimenti

disciplinari, posti a garanzia, mal si adattano ai soggetti

privati e richiederebbero uno sforzo interpretativo estensivo di

particolare portata.

.3 La competenza per materia.

La localizzazione presso l’Agenzia regionale delle entrate non

può, tuttavia, significare sotto altro profilo, che la funzione

sia limitata ai soli tributi di competenza di tale ufficio,

potendosi ben ritenere, alla luce della giurisprudenza della

Corte costituzionale sopra riportata, che questa sussista anche

per tutti i tributi “erariali”. E’ stato da taluni posta in

dubbio la possibilità di una tale estensione dei poteri del

Garante. Si ipotizzerebbe un Garante su base regionale, con

competenza circoscritta ai soli tributi tradizionalmente

denominati erariali; questo convincimento viene legato alla

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circostanza che mentre in numerosi articoli dello Statuto viene

indicata genericamente l’amministrazione finanziaria, le

attività esterne propriamente propulsive, quali le segnalazioni,

le comunicazioni e le relazioni, riguardano le direzioni

generali delle imposte, i comandi della guardia di finanza o lo

stesso Ministro, omettendo qualsiasi riferimento ad entità

territoriali locali.

La limitata competenza ipotizzata non sembra poggiare su basi

incontrovertibili. Lo Statuto nella sua intitolazione parla di

“contribuenti”, non dividendoli in alcun modo in relazione al

destinatario della contribuzione né alla fonte dell’obbligo.

L’art. 1 dello Statuto, dopo aver premesso che (tutte) le

disposizioni della stessa legge, in attuazione degli articoli 3,

23, 53, e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali

dell’ordinamento tributario, invitava le Regioni a statuto

ordinario (regolano), le Regioni a statuto speciale e le

province autonome di Trento e Bolzano (provvedono) e gli enti

locali (provvedono) ad adeguare i rispettivi ordinamenti i primi

alle norme fondamentali dello Statuto e gli ultimi ai principi.

I termini per tali adempimenti erano di gran lunga antecedenti

all’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 119 della

Costituzione e, quindi, nessun serio dubbio potrebbe opporsi a

ritenere parte integrante della normativa di tali enti locali

l’intero impianto dello Statuto.

Va ricordato, infine, il disposto dell’articolo 17 della

medesima legge il quale recita che le disposizioni si applicano

anche nei confronti dei soggetti che rivestono la qualifica di

concessionari e di organi indiretti dell’amministrazione

finanziaria, ivi compresi i soggetti che esercitano l’attività

di accertamento, liquidazione e riscossione di tributi di

qualunque natura.

La competenza del Garante dovrebbe ora trovare corrispondenza in

tutti i tributi richiamati dall’art. 1 D.Lgs. n. 546 del 31

dicembre 1992 sul processo tributario, nel testo novellato anche

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da ultimo con il d.l. 30 settembre 2005, n. 203 convertito con

modificazioni nella l. 2 dicembre 2005, n. 248187.

Certamente utile alla delimitazione della competenza del Garante

può essere il richiamo agli elementi per la qualificazione di

una legge come tributaria, così come ricordati dalla Corte

Costituzionale nella recente sentenza n. 11 del 12 gennaio 1995,

in tema di referendum abrogativo, ove è stato affermato che

questi sono necessariamente costituiti dall’ablazione delle

somme con l’attribuzione delle stesse ad un ente pubblico e la

loro destinazione allo scopo di approntare i mezzi per il

fabbisogno finanziario dell’ente medesimo188. Di conseguenza

qualsiasi prelievo con tali caratteristiche potrà essere motivo

d’intervento del Garante presso l’ente (finanziario)189.

Il richiamo al D.lg. n. 546/92 pone il quesito se sia di

competenza del Garante anche la segnalazione di disfunzioni,

irregolarità, scorrettezze, prassi anomale o irragionevoli degli

uffici del territorio preposti all’intestazione, delimitazione,

figura, estensione, classamento dei terreni e la ripartizione

dell’estimo tra compossessori a titolo di promiscuità di una

stessa particella, nonché degli uffici demandati alla

delimitazione della consistenza, classamento delle singole unità

immobiliari, urbane e l’attribuzione della rendita catastale.

Una lettura restrittiva della norma limitata, alla sostanza del

tributo, ne escluderebbe la competenza; una tale interpretazione

non sembra condivisibile, stante lo stretto collegamento delle

operazioni catastali con il presupposto di numerosi tributi

erariali e locali. In ogni caso il generico richiamo “agli

187 L’ampliamento della giurisdizione tributaria avviene anche ad opera della giurisprudenza della Corte di cassazione, che ad esempio con la recentissima sentenza n. 618 del 13 gennaio 2006 (Corr. Trib. 9/2006, 717) ha riconosciuto che spetta al giudice tributario la giurisdizione in materia di diritti camerali. Sul punto rinvio al mio lavoro Il “nuovo processo tributario” in attesa di una revisione dopo l’ampliamento della giurisdizione delle Commissioni, in Il Fisco, 31/2006, 4741; nonché a F. PISTOLESI, Le nuove materie devolute alla giurisdizione delle commissioni tributarie, Giur. Imp., 2002, n. 6,1463.. 188 La natura tributaria di un prelievo è oggetto di un rinnovato studio, stante alcune recenti innovazioni sulla struttura e destinazione dei prelievi. Sul punto vedi da ultimo A. FEDELE, Appunti, cit., 16, R. LUPI, Società, diritto e tributi, Il sole 24 ore, 2005, 119; id, Diritto tributario, Parte generale, Giuffrè, 2005, VIII ed, 35. 189 G. GAFFURI, Diritto tributario, V ed. Cedam, 2006,, 16, distingue invece i tributi in generale da altre figure similari, quali i contributi, pur riconoscendo (pag. 14) che la linea di confine tra i due generi di rapporti è di difficile tracciamento. Afferma ancora che la nozione eterogenea e assai allargata desumibile dalle norme processuali non può essere scambiata per un’attendibile definizione di prelievo fiscale in senso proprio, che resta ancorata a presupposti specifici e peculiari e ai criteri fissati dai principi della Costituzione in materia.

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uffici dell’amministrazione finanziaria” non può precludere

l’intervento del Garante presso gli stessi ora agenzie.

Sotto lo stesso profilo il Garante potrà esaminare le istanze

relative a questioni in materia di sanzioni irrogate dagli

uffici finanziari, non espressamente collegate ad un tributo, o

il mancato tempestivo rimborso di somme riscosse coattivamente e

riconosciute indebite dalle commissioni tributarie190. Non

dovrebbero esservi dubbi sulla competenza anche per i tributi

doganali, essendo previsto l’invio della relazione semestrale

del Garante nonché di tutte le segnalazioni dei comportamenti

dell’amministrazione, che possano determinare un pregiudizio ai

contribuenti o conseguenze negative nei rapporti con

l’amministrazione, anche ai direttori compartimentali delle

dogane.

Sullo sfondo potranno rimanere tutte le altre prestazioni

patrimoniali, quali i contributi ai consorzi di bonifica o il

canone televisivo, ove il profilo tributario della prestazione è

diluito dall’interesse del singolo alla stessa prestazione. Le

reiterate sentenze della Corte di Cassazione, che hanno

affermato la natura tributaria di questi ultimi, militano verso

una competenza del Garante anche per tali prestazioni. Di

rilievo infine è la controversa collocazione del contributo

previdenziale, collocato storicamente nella parafiscalità 191.

Ove venisse confermato l’orientamento della più recente dottrina

sulla natura tributaria del prelievo192 tutte le relative

questioni ricadrebbero nella competenza, per materia, del

Garante del contribuente e quindi delle Commissioni tributarie.

I disservizi sottoponibili all’attenzione del Garante

potrebbero, infine, riguardare i concessionari della riscossione

oppure tutti gli altri differenti soggetti che esercitano

l’attività di accertamento, liquidazione e riscossione di

190 Le sezioni unite della Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 15, depositata il 4 gennaio 2007, ha affermato che spetta al giudice ordinario, e non al giudice tributario, la competenza a giudicare sulle liti che riguardano il risarcimento del danno per comportamento illecito dell’amministrazione finanziaria, anche se tale comportamento derivava dalla illegittima richiesta di pagamento di una tassa automobilistica già regolarmente pagata dal contribuente. 191 G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Cedam, 2005, vol. I. 192 P. PURI, Destinazione previdenziale e prelievo tributario. Dalla parafiscalità alla fiscalizzazione del sistema previdenziale, Collana diretta da G. Falsitta e A. Fantozzi, Giuffrè, 2005, 141.

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qualunque natura, trovando applicazione l’intera normativa dello

Statuto del contribuente anche a questi soggetti, pur se

formalmente estranei alla amministrazione finanziaria, ma

espressamente destinatari delle disposizioni, ai sensi dell’art.

17 dalla più volte richiamata legge n. 212/2000. Nei confronti

di questi ultimi manca una norma che regoli i poteri del

Garante, ma questa lacuna potrebbe essere oggetto della

segnalazione semestrale o annuale dello stesso Garante. La

lacuna normativa è divenuta di pressante attualità dopo

l’ampliamento della giurisdizione tributaria anche alla “ganasce

fiscali”193. L’ampia libertà per l’uso di tali strumenti di

coazione offre un ampio margine di intervento del Garante ove

tali poteri non vengano utilizzati non solo legittimamente ma

anche correttamente

E’ compito del Garante esaminare preliminarmente la propria

competenza per materia, in relazione alla segnalazione scritta,

e comunicare immediatamente all’autore della segnalazione la

propria decisione in caso di diniego. In quest’ultimo caso

trattandosi di un atto definitivo emesso da un organo

amministrativo si può pensare ad una sua ricorribilità al

T.A.R.. Si può così ipotizzare un nuovo veicolo interpretativo,

a cura questa volta del giudice amministrativo, sulla natura di

talune decisioni del Garante del contribuente e poi sulla

tipologia di alcune prestazioni imposte, sia pure sotto il più

limitato profilo della competenza del Garante del contribuente.

.4 L’ambito regionale di intervento.

La norma tace sulla competenza territoriale dell’ufficio del

Garante. E’ pur vero che il domicilio fiscale del contribuente

radica la relativa competenza con gli uffici tributari, ma è

altrettanto vero che i rapporti tributari possono essere

incardinati anche con altri uffici, per i quali è irrilevante la

residenza. E’ sufficiente a tal fine ricordare l’ICI sulla

seconda casa, ubicata in altro comune, di altra regione e

l’eventuale richiesta di rimborso riconosciuta fondata dallo

193 F. d’AYALA VALVA, Le Ganasce fiscali ed il giudice tributario. Un porto sicuro, un attracco difficoltoso, in Riv. Dir. Trib., 2006, n. 9, I, 621.

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stesso comune e rimasta sospesa per inerzia del provvedere. Il

collegamento territoriale potrebbe variare secondo il rilievo

dato al domicilio del richiedente o dell’ufficio non

ottemperante.

Utilizzando il principio del foro del convenuto, la competenza

territoriale del Garante dovrebbe essere radicata per tutte le

questioni riguardanti gli uffici o enti territoriali con sedi

nella propria regione, rimanendo irrilevante l’eventuale

differente domicilio fiscale del richiedente. Ove, invece, la

localizzazione territoriale del Garante dovesse essere intesa

quale modo per l’esercizio più immediato del servizio al

cittadino, non si potrebbe escludere una competenza per tutte le

segnalazioni pervenute da soggetti residenti nella regione e ciò

indipendentemente dalla localizzazione dell’ufficio ove si

lamenta il disservizio. La questione ha la sua rilevanza anche

per le ipotesi nelle quali un singolo ufficio dell’Agenzia

deleghi l’espletamento di alcune attività ad altro ufficio della

stessa agenzia localizzato in altra regione (all’ufficio di

Reggio Calabria sono state attribuite delle funzioni relative a

pratiche di contribuenti residenti nel Lazio).

Anche in caso di diniego, per incompetenza territoriale, il

Garante dovrà comunicare immediatamente all’istante, la propria

risoluzione con l’indicazione del Garante ritenuto competente.

Questa scelta, tuttavia, potrebbe essere vista come una

sostanziale negazione della tutela richiesta e, quindi, sarebbe

più opportuna l’immediata trasmissione della segnalazione del

Garante che si ritiene incompetente al Garante, ritenuto

territorialmente competente, ed analoga comunicazione al

contribuente della stessa trasmissione. Il procedimento non

esclude, certamente, l’ipotesi di conflitto di competenza

territoriale, ove il secondo neghi anch’esso la propria

competenza; in mancanza di un organo gerarchico superiore, la

questione dovrebbe poter essere risolta dal secondo Garante.

.5 I problemi di un organo collegiale.

Il garante del contribuente, a differenza del difensore civico,

è un organo collegiale, costituito da tre membri, operante in

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piena autonomia. La scelta e la nomina di detti soggetti spetta

ad un organo istituzionalmente estraneo all’Amministrazione

Finanziaria, ma non avulso dalle problematiche tributarie, e

precisamente al Presidente della Commissione Tributaria

Regionale194, nella cui circoscrizione è compresa l’Agenzia

Regionale delle entrate. Inoltre il Presidente della Commissione

Tributaria Regionale assicura l’assoluta indipendenza nella

nomina dei membri dell’organo. Pur essendo libera la scelta,

questa deve ricadere su prefissate specifiche tipologie di

soggetti, istituzionalmente portatori di un’alta

professionalità, idonea allo scopo voluto dalla norma.

L’organo è composto di un presidente e da due membri; il

Presidente deve essere scelto tra magistrati, professori

universitari di materie giuridiche ed economiche, notai, sia a

riposo sia in attività di servizio; non è richiesta al

designando la residenza nella regione al momento della nomina né

l’obbligo di fissarvi la residenza per la durata

dell’incarico195. Per i magistrati, non essendovi nella norma

altra qualificazione, si deve intendere quelli ordinari,

amministrativi e militari, con ciò escludendo tutti coloro che

svolgono una qualche funzione giudiziaria onoraria; non vi

rientrano, quindi, sia i giudici tributari sia i giudici di

pace. Il Consiglio Superiore della Magistratura è restio a

concedere il nulla osta a magistrati in servizio e questa scelta

può condividersi, in relazione alla necessità di non distrarre

le limitate forze giudiziarie dai gravosi compiti del proprio

ufficio istituzionale. Alla luce delle nomine dei magistrati fin

qui effettuate queste sono ricadute su soggetti di alta qualità

in pensione, per lo più giudici tributari196. Per la categoria

194 Di recente è stata risolta positivamente dal TAR di Napoli la questione sulla possibilità che il Presidente f.f. della commissione tributaria regionale possa nominare i Garanti della propria regione, difformemente decisa in precedenza dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria. 195 L’art. 7 del d.ls. 31 dicembre 1992, n. 545 prevede, invece, espressamente tra i requisiti generali dei componenti delle commissioni tributarie, alla lettera f), “avere o aver dichiarato di voler stabilire la residenza nella regione nella quale ha sede la commissione tributaria. Analogamente non sussiste per il Garante del contribuente il divieto previsto espressamente per i componenti delle commissioni tributarie, nel terzo comma dell’art. 8 del medesimo d.ls n. 545, “Nessuno può essere componente di più commissioni tributarie”. 196 Il Consiglio della giustizia tributaria, in un primo moment,o aveva ritenuto sussistere una incompatibilità tra la funzione di giudice tributario e quella di componente del collegio del Garante del contribuente, sia come presidente che come membro. Tale presa di posizione, presupponeva la sussistenza di un potere di ingerenza del primo sulle scelte demandate al Presidente della Commissione tributaria regionale, agente non in una funzione

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“professori universitari” va notato che l’art. 5 lettera b) del

D. lgs. 545/1992, sull’ordinamento degli organi speciali di

giurisdizione tributaria, richiama i “docenti di ruolo

universitari”, e quindi si potrebbe ipotizzare che per il

Garante possa essere considerata una difforme e più ristretta

platea. Certamente in questa categoria sono considerati i

professori universitari di ruolo, fuori ruolo o a riposo,

compresi nella prima e nella seconda fascia dell’ordinamento

universitario. Per quanto riguarda i notai, fermo restante il

limite del superamento del concorso ed il loro permanere nel

relativo albo, non è previsto l’obbligo di residenza nella

regione né lo svolgimento dell’attività nella stessa.

Gli altri due membri devono, a loro volta, avere una distinta

provenienza, al fine evidente di mantenere una necessaria

pluralità di esperienze professionali. In particolare, la scelta

del secondo membro, deve ricadere su un dirigente

dell’Amministrazione finanziaria e su un Ufficiale Generale e

Superiore della Guardia di Finanza, scelti in una terna formata

per ciascuna delle Direzioni Regionali delle Entrate,

rispettivamente per i primi dal Direttore Generale del

Dipartimento delle entrate e per i secondi dal Comandante

Generale della Guardia di Finanza. Va osservato che la scelta

del dirigente dell’Amministrazione finanziaria deve essere

effettuata dal Direttore regionale delle entrate, di ciascuna

regione, ma, anche in questo caso, non è prescritto che il

designato abbia o non abbia svolto la propria attività nella

regione o sia ivi residente. La scelta dell’ufficiale generale

è, invece, demandata per tutte le regioni unicamente al

comandante Generale della G. di F., anche qui senza alcun

vincolo territoriale di provenienza o di residenza.

Per una maggiore garanzia di neutralità ed al fine di evitare

commistioni o possibili esami di proprie attività o di quella

svolta dal precedente ufficio, è previsto che questi soggetti

giurisdizionale, nonché l’adozione di una interpretazione più ampia dei casi di incompatibilità previsti dall’art.8 del d.lvo n. 545/1992. La presa di posizione cel Consiglio era stata probabilmente influenzata dalla circostanza che lo stesso soggetto avrebbe ricoperto le due funzioni nella stessa regione. Da ultimo (settembre 2006) il Consiglio ha rimeditato il proprio pensiero, dichiarando la sospensione dell’incarico da giudice tributario, per tutto il tempo in cui lo stesso soggetto va a ricoprire le funzioni di Garante del contribuente. Anche in questo caso non si è tenuto conto dell’eventuale differente localizzazione delle due funzioni.

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debbano essere a riposo da almeno due anni. Il maggior decorso

del tempo dall’inizio del pensionamento, per questa categoria

rispetto a quanto previsto per i professionisti, risulta

coerente con la necessità di un distacco dalla precedente

attività proprio per quei soggetti facenti parte

dell’amministrazione, della cui eventuale inefficienza si debba

trattare.

La scelta, per ogni regione, deve ricadere su di una triade e,

quindi, sarà necessario un preventivo accordo di ogni Direttore

regionale con il Comando generale della G. di f. per la

formalizzazione tempestiva della triade, da sottoporre al

Presidente di ogni commissione tributaria regionale.

Il terzo membro deve essere scelto anch’esso in una terna,

formata per ciascuna Direzione Regionale delle entrate, dagli

ordini degli avvocati, dottori commercialisti e ragionieri

collegiati; questi soggetti devono essere già pensionati al

momento della nomina e, quindi, il pensionamento può avvenire

anche dopo l’indicazione nella terna finale.

La formazione della triade, mentre appare più semplice

nell’ambito regionale, poiché fornita da tre ordini o collegi

professionale, non sembra tenere conto della difforme

consistenza numerica degli albi e dei collegi professionali e

nella mancanza nell’ambito della regione di un organo di

coordinamento interno tra ordini e collegi professionali, tale

da esprimere tempestivamente la terna. Il tenore della norma

potrebbe indicare che, in ogni regione, gli ordini ed i collegi

congiuntamente debbano esprimere la terna da sottoporre al

Presidente della commissione tributaria. Un eventuale disaccordo

nella presentazione potrebbe portare all’impossibilità per il

Presidente di effettuare la scelta, mancando l’elemento dal

quale trarre il terzo membro del collegio. Il disaccordo nella

composizione della terna potrebbe essere il più vario, iniziando

dalla paralisi nella presentazione dell’unica terna, alla

presentazione di più terne formate da differenti ordini o

collegi professionali.

Va osservato che per ciascuna categoria la terna deve essere

“formata” dai soggetti rispettivamente indicati, ma ciò non

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impedisce che le due terne siano composte solo da soggetti

provenienti da una sola figura professionale nell’ambito delle

due categorie (b/c dell’art. 13); la norma, infatti, richiede

che la terna debba essere formata con l’accordo dei

rappresentanti, ma non implica anche la necessità della

contemporanea presenza nella terna di tutti i profili

professionali. La prima terna potrebbe, quindi, essere composta

nell’ambito di una singola regione da soli rappresentanti

dell’amministrazione finanziaria e la seconda dai soli

rappresentanti del collegio dei ragionieri. Quello che conta è

la sola volontà dei rappresentanti, identificati dalla norma, di

fornire, concordemente, una terna, nella quale il presidente

dovrà effettuare la scelta.

La nomina non prevede uno specifico atto di accettazione né

formule particolari di rispetto della normativa, come ad esempio

prescritto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 545 del1992 prima

dell’immissione del giudice tributario nelle funzioni. Si può

ritenere che sarà comunque necessaria l’apposizione da parte del

presidente della commissione tributaria di un termine per

l’accettazione che potrà avvenire anche con una semplice

dichiarazione indirizzata al Presidente della commissione

tributaria; decorso tale termine il soggetto deve intendersi non

accettante e spetterà al Presidente scegliere un nuovo membro,

tratto dalla categoria del non accettante. Poiché l’organo non

prevede una sospensione dell’attività indirizzata ad un

interesse pubblico, le nuove nomine vengono effettuate

tempestivamente, in modo tale da far subentrare il nuovo

soggetto accettante al momento della scadenza del precedente.

.6 La temporaneità dell’incarico.

L’incarico ha una durata quadriennale ed è rinnovabile, tenendo

presenti professionalità, produttività ed attività già svolta.

Il rinnovo dell’incarico dei membri del collegio del Garante del

contribuente, avvenuto dopo il primo quadriennio, ha fatto

emergere alcune riflessioni. Va ricordato che il problema della

rinnovabilità degli incarichi è stato da qualche tempo oggetto

di attenta analisi dalla dottrina, ravvisandosi proprio un

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momento di rottura tra l’indipendenza dell’organo e la potestà

di rinnovo dell’incarico. A tal fine può essere ricordata la

sentenza n. 25 del 22 gennaio 1976, della Corte Costituzionale

che ebbe a dichiarare l’illegittimità della norma sulla

riconferma dei membri del Consiglio di Giustizia Amministrativa

della Regione Siciliana in sede giurisdizionale. In quella sede

la Corte ebbe ad affermare che il carattere temporaneo della

nomina per i membri designati dalla Giunta Regionale, ed

estranei ai ruoli organici del Consiglio di Stato, non

contrasta, di per sé, con i principi costituzionali, che

garantiscono l’indipendenza e con essa l’imparzialità dei

giudici siano essi ordinari o estranei alle magistrature: a tal

fine non appare necessaria un’inamovibilità assoluta, specie per

i membri laici, che ben possono essere nominati per un

determinato e congruo periodo, senza che perciò venga meno

l’indipendenza dell’organo o del singolo giudice. L’indipendenza

è, invece, compromessa per l’effetto della disposizione, che

prevede, al termine di un primo periodo, la possibilità di

riconferma dell’incarico, secondo il discrezionale apprezzamento

di un organo strettamente collegato con la funzione svolta dal

giudice. Sotto questo profilo l’estraneità del presidente della

commissione tributaria all’attività del Garante assicura una

tranquillizzante garanzia di indipendenza ed imparzialità.

Il rinnovo dell’incarico, al pari della scelta iniziale, appare

lasciato alla completa discrezionalità del Presidente, il quale

tuttavia, dopo la nomina, non è destinatario di alcuna

comunicazione diretta dell’attività del Garante e, quindi, non

sembra essere messo formalmente in condizione di poter valutare

l’opportunità di una conferma di tutti o di alcuni dei membri

dell’organo collegiale. Poiché il rinnovo del singolo componente

deve tener presente la “professionalità, produttività e attività

svolta” si rende necessario riconoscere un potere di esame e

controllo del singolo soggetto in scadenza; con la conseguenza

che il Presidente della commissione tributaria regionale

dovrebbe essere legittimato ad effettuare un controllo diretto

sull’attività svolta dal singolo nel periodo quadriennale, per

acquisire i relativi elementi di giudizio. In ogni caso il

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collegio dei garanti potrà inviare anche al Presidente della

commissione tributaria copia delle relazioni periodiche

sull’attività svolta, che gli stessi garanti sono tenuti a

presentare al Ministro ai sensi del comma 12 dell’art 13 dello

statuto. Il richiamo alla “professionalità, produttività e

attività svolta” deve costituire uno degli elementi del giudizio

per il rinnovo, ma non un elemento vincolante, in quanto la

scelta può ben ricadere su altro soggetto esterno qualora le

caratteristiche personali e la professionalità riconosciuta

possano far ritenere quest’ultimo più meritevole per la

copertura della carica di Garante. Il mancato rinnovo

dell’incarico ha provocato alcuni ricorsi al Tar, tutti

rigettati con la conferma della più ampia discrezionalità della

scelta del presidente della commissione regionale.

Non risulta, inoltre, alcuna menzione della procedura da

adottare nell’ipotesi di rinuncia o impedimento di taluni

membri. La legge 31 luglio 1997, n. 249, sull’istituzione

dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, prevede

espressamente che in caso di morte, di dimissioni o di

impedimento di un commissario, la Camera competente procede

all’elezione di un nuovo commissario, il quale resta in carica

fino alla scadenza ordinaria del mandato dei membri.

L’applicazione di tale procedura anche al garante del

contribuente non sembra corretta, potendosi ipotizzare una nuova

nomina quadriennale. La sostituzione del Presidente è certamente

più agevole, non essendo subordinata da alcuna attività di

terzi, mentre la sostituzione degli altri membri potrebbe essere

subordinata alla preventiva presentazione di una nuova triade,

nella quale effettuare la scelta. L’organo nelle more non

sarebbe in condizione di operare, con nocumento della funzione,

che richiede invece una sollecita trattazione delle

segnalazioni. Anche questa sembra essere una lacuna della

disposizione che non prevede membri supplenti.

La rinuncia all’incarico deve essere formalizzata e portata a

conoscenza del Presidente della commissione tributaria, perché

possa attivare la procedura di nomina di altro membro. La norma

non prevede ipotesi di decadenza o di sospensione dall’incarico.

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Certamente una condanna penale, in relazione a fatti che

incidano sull’attività del garante, costituisce elemento

sufficiente per una tale declaratoria. Può costituire ancora

motivo di decadenza la mancata partecipazione, non giustificata,

a più riunioni collegiali tale da impedirne la funzionalità

previa contestazione dei fatti rilevati. In questo caso il

Presidente o il membro più anziano nella funzione, ed in via

subordinata per età, potrebbe informare il Presidente della

Commissione Tributaria Regionale perché provveda alla

sostituzione.

La norma non prevede l’ipotesi di astensione di un membro per un

interesse diretto o indiretto nella questione da esaminare

oppure l’ipotesi di temporanea indisponibilità del membro per

malattia o cause familiari. La questione non è di facile

soluzione, non essendo previsti sostituti per i membri del

collegio e non potendo lo stesso essere operativo in assenza di

un suo membro. Da alcuni collegi si è distinta un’attività

istruttoria, delegabile ad un solo componente, dalle attività

propriamente decisionali per le quali l’organo collegiale deve

operare nella sua interezza.

.7 Qualificazione e professionalità del Garante.

Da un esame dei vari collegi regionali si può subito rilevare

una concreta garanzia di imparzialità, non sempre riscontrabile

in una composizione collegiale di diversa estrazione; inoltre

l’alta qualificazione prevista costituisce di per sé garanzia

per la funzione alla quale gli stessi soggetti sono chiamati. La

norma non prevede ulteriori elementi soggettivamente

qualificanti i candidati, quali pubblicazioni scientifiche,

partecipazione a convegni in qualità di relatore, partecipazione

a commissioni di studio ecc.; questo deve essere inteso non

nella possibilità di arbitrio nella scelta da parte del

Presidente della Commissione Regionale, ma come un elemento

comune di base per tutti i candidati, che devono rientrare nelle

categorie (professionali) indicate; inoltre per gli altri membri

la scelta in una terna prefissata, comporta che sia già avvenuto

un vaglio da parte dei rispettivi uffici o organi

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rappresentativi professionali sulle qualità e l’idoneità dei

soggetti proposti.

E’ stata già rilevata la diversa posizione dei membri, e la

prevalenza della qualifica di pensionato rinvenibile in tutte le

tre categorie. La previsione può essere intesa nell’opportunità

di non disperdere sicure acquisite qualificazioni professionali

in dipendenza della circostanza della maturazione dell’età

pensionabile. Il sistema attualmente in vigore prevede un limite

di anni lavorativi ed alle volte agevola l’uscita del lavoratore

ancora in vede età per il solo fatto dell’avvenuta maturazione

di un periodo minimo di contribuzioni, al fine di far subentrare

nuove energie o per rinnovar i dirigenti (spoil system). La

conseguenza è la presenza sul mercato del lavoro di soggetti

idonei e disponibili ad alcune funzioni, non altrimenti

inseribili in un processo lavorativo standardizzato. A questi

soggetti si rivolge la parte della normativa, favorendo la

prosecuzione di un’attività lavorativa professionale, che

altrimenti andrebbe perduta. In questo senso può ricordarsi la

figura del giudice di pace, che attinge proprio (di preferenza)

i propri membri da soggetti, che, in possesso di una laurea in

giurisprudenza, hanno svolto un’attività lavorativa qualificata

e, pur cessando la precedente attività, intendono offrire alla

società , sia pure sotto altri profili, le proprie energie

lavorative e capacità intellettuali.

La norma non indica un limite d’età dei membri, con ciò

confermando la responsabile scelta che deve essere effettuata

dal Presidente della commissione tributaria. In altre

situazioni, come per la nomina dei giudici tributari, la norma

prevede un limite di età massimo per la permanenza

nell’incarico, eliminando possibili situazioni di imbarazzo e di

aspettative197.

.8 L’autonomia dell’organo ed indipendenza economica.

197 L’identificazione normativa di una età massima, per la chiamata o rinnovo alla funzione di Garante del contribuente, sarebbe auspicabile, anche se, in sede di ricorso la tar contro il mancato rinnovo per età avanzata, si è fatto presente che la gravosa funzione di Presidente della Repubblica è stata egregiamente ricoperta anche da ultra ottuagenari.

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La norma, in un breve ma espressivo inciso, afferma che il

Garante opera” in piena autonomia”. La dizione è meno estesa di

quella prevista dalla legge 14 novembre 1995 n. 481 per tutte le

Autorità, ove si parla di “piena autonomia e con indipendenza di

giudizio e di valutazione”.

Dal testo breve della norma non si rinvengono limiti o regole

nell’attività del Garante e, quindi, sarà compito dei singoli

garanti l’eliminazione di tutti i vincoli che dovessero

frapporsi al conseguimento delle finalità volute dalla norma

istitutiva. Autonomia non vuol certamente dire libertà di non

osservare la normativa vigente, ma solo non essere soggetto alle

direttive di altri uffici o autorità. Vuol anche affermare che

in tutte le attività di accesso o di richiesta dati non può

essere opposto il rispetto di procedure predisposte per il

pubblico. Sotto altro profilo l’operare in piena autonomia deve

poter significare che ogni singolo ufficio del Garante ha il

potere di auto organizzare la propria struttura e che non

possono essere sollevate difficoltà da parte della Direzione

regionale in relazione alle scelte operative.

Ancora in relazione all’autonomia, quale caratteristica

dell’organo di non avere condizionamenti economici, va rimarcato

che il compenso per l’attività svolta ed i rimborsi spettanti ai

membri sono determinati con decreto del Ministro delle Finanze.

Può ben sollevarsi il dubbio sull’effettiva indipendenza

dell’organo subordinato, quanto alla sua attività, direttamente

dal soggetto controllato o dagli organi del medesimo. Questione

ora riproposta con il taglio al compenso precedente, disposto

dal Ministero, in ossequio alla generale direttiva precedente

legge finanziaria. Nelle relazioni annuali è stata evidenziata

la difficoltà di un controllo delle agenzie o degli uffici non

ubicati nel capoluogo della regione non essendo previsto un

idoneo servizio, ma il tutto lasciato alla buona volontà, anche

economica dei singoli garanti.

Per quanto riguarda le funzioni di segreteria e tecniche,

assicurate dagli uffici delle Agenzie Regionali delle entrate,

presso il quale è istituito, può legittimamente sollevarsi il

dubbio della mancanza di una vera autonomia organizzativa

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dell’organo, pur riconoscendo una generale fattiva

collaborazione delle Direzioni. Spetta in ogni modo all’organo

collegiale organizzare la struttura dell’ufficio in piena

autonomia in relazione dell’evolversi delle esigenze.

.9 La segnalazione al Garante ed i moderni processi di

comunicazione fiscale.

Dopo aver esaminato la struttura dell’ufficio del garante ormai

consolidatasi, può rilevarsi che l’attivazione della funzione è

molto informale, essendo sufficiente anche una segnalazione

inoltrata per “iscritto” dal contribuente o da qualsiasi altro

soggetto interessato.

La circostanza che la norma preveda una segnalazione “per

iscritto” non è stata ritenuta preclusiva di altre forme. La

norma non prevede specifiche modalità per l’invio e, quindi,

oltre alle classiche modalità della presentazione diretta dello

scritto presso l’ufficio protocollo o accettazione, della

spedizione a mezzo posta e dell’eventuale ma più formale uso dei

servizi dell’ufficiale giudiziario, dovrebbe essere ammesso

anche l’invio a mezzo Fax. Non è richiesta specificatamente la

sottoscrizione manuale della segnalazione, né l’autentica della

firma o l’accompagno della segnalazione con la fotocopia del

documento dell'autore della segnalazione. La segnalazione deve,

invece, contenere l’indirizzo del mittente, perché possa

ricevere l’informazione dell’esito da parte del Garante.

I Garanti hanno preso in esame anche le segnalazioni pervenute

per posta elettronica. Quest’ultimo mezzo ha ormai raggiunto una

sufficiente diffusione e permette una legittima acquisizione

della segnalazione. Tra i primi compiti del Garante vi è stato

quello di istituire, attraverso le reti telematiche, un canale

di scambio tra la segreteria del Garante ed il contribuente, con

la finalità di rendere più celere sia l’invio della

segnalazione, che la richiesta di chiarimenti in ordine alla

stessa, che infine l’invio dell’informativa finale allo stesso

autore della segnalazione. L’adozione di idonee strutture

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elettroniche ha consentito, per altro verso, una più rapida

comunicazione delle richieste ai vari uffici e l’evasione delle

stesse da parte di questi ultimi.

E’ stato osservato che uno dei principali obiettivi della

Pubblica amministrazione, nell’impiego della tecnologia, è

quello di aumentare la competitività dello Stato e, quindi, la

sua efficienza come impresa erogatrice di servizi. Il suo

atteggiamento deve, dunque, comprendere un ruolo d’utilizzo,

consapevole, ponderato ed efficiente, sia uno di garanzia, ossia

di tutela contro possibili effetti perversi derivanti dalla

scarsa o erronea regolamentazione della tecnologia stessa. La

struttura della segreteria del Garante deve rispondere anche a

tali esigenze, ed essere in grado di valutare anche le capacità

operative nuove degli uffici, dei quali si lamenta

l’inefficienza.

Può pertanto ritenersi che, indipendentemente dalla modalità per

mezzo con il quale la segnalazione è pervenuta, questa permette

la conoscenza della circostanza lamentata e l’attivazione del

Garante, avendo la facoltà di operare anche indipendentemente

dalla tipologia della segnalazione. Il distinguo potrebbe avere

una rilevanza sulla eventuale informativa da inviare all’autore

della segnalazione prevista dal sesto comma dell’art. 13, ma

questo adempimento potrebbe essere comunque effettuato, ove

fosse identificabile l’indirizzo dell’autore, proprio

nell’ambito di un più efficiente servizio da rendere al

contribuente. La norma non prevede la presentazione dello

scritto per il tramite di un soggetto terzo, sia esso

procuratore o rappresentante. Certamente non è vietata la

presentazione per il tramite di uno dei soggetti previsti

dall’art. 63 del d.p.r. 600/72, ma in tal caso è necessaria la

procura scritta, che potrà essere apposta sullo stesso

documento. Legittimati alla segnalazione sono il contribuente o

qualsiasi altro soggetto interessato.

Il testo della norma porta ad alcune considerazioni poiché non

chiarisce il rapporto tra il soggetto che effettua la

segnalazione e l’oggetto della stessa, potendosi identificare

distinte posizioni. La norma potrebbe essere intesa sotto il

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profilo soggettivo della necessaria qualificazione sostanziale

di “contribuente” per essere legittimato alla segnalazione, con

ciò escludendosi ogni soggetto che, per avventura, non rivesta

tale qualità; inoltre potrebbe ipotizzarsi la necessità che la

qualità di contribuente sia rivestita non nella generalità dei

casi, ma in relazione specifica al fatto ed al tributo

segnalato. Il dubbio nasce dalla contrapposizione testuale tra

“contribuente” e “qualsiasi altro soggetto interessato”

legittimato a presentare la segnalazione scritta; inoltre non è

definito se l’interesse alla segnalazione derivi in relazione ad

una circostanza che abbia, comunque, attinenza alla posizione

del soggetto, che effettua la segnalazione, oppure se sia

ammissibile la segnalazione da parte di un soggetto, che venendo

a conoscenza di un fatto, che rivesta le caratteristiche di

“maladministration”198, sia anche interessato alla segnalazione,

198 La Dottrina aveva già identificato alcune figure tipiche, riscontrabili nella realtà. Sono state così

evidenziate alcune forme che portano al fallimento dell’attività amministrativa: 1. la tendenza ad uccidersi di lavoro ovvero a lavorare in maniera antieconomica, in quanto i risultati desiderati vengono ottenuti a costi ingiustificatamente elevati; 2. comportamento controproducente: i risultati effettivamente ottenuti sono contrari a quelli desiderati; 3. l’inerzia che si ravvisa quando, ad uno stimolo interno o esterno, non fa seguito alcuna risposta; 4. l’inefficacia della stessa azione amministrativa, quando la risposta ottenuta consiste esclusivamente in un diversa disposizione degli input e degli output, senza che si produca alcun risultato significativo; 5. l’insoddisfazione perenne, quando ad un aumento di produzione, consegue unicamente una maggiore richiesta. A queste figure sono state affiancate altre ipotesi: A. eccesso e carenza di organizzazione, alle quali consegue pesantezza burocratica per procedure ritualizzate e corruzione; B. sprechi organizzativi: in quanto il personale viene addetto a compiti del tutto superflui; C. la sindrome del bastone conseguente a controlli e minacce controproducenti; D. dimostrazioni di forza con influenze negative derivanti dall’attuazione di misure che, nella realtà, suscitano antagonismi o scatenano meccanismi di risposta perversi; E. ritardi nell’attuazione di interventi necessari che rendono inutili e senza scopo le conseguenti attività; F. fittizia riorganizzazione della struttura, quando i cambiamenti assumono il significato di risposte simboliche, limitandosi ad interventi di facciata che lasciano inalterata la sostanza; G. sub-ottimizzazione quando le singole unità non tengono conto delle finalità globali; H. presenza di obiettivi conflittuali e mancanza di coordinamento; I. frammentazione professionale derivante da continue modifiche nell’attuazione dei compiti e delle spese. Altro autore ha evidenziato che la cattiva amministrazione derivava da disfunzioni imputabili ad assiomi autogiustificativi, quali: a). perseguire obiettivi astratti, senza definire una serie di obiettivi intermedi, che possano essere misurati, valutati e giudicati; b). intraprendere diverse attività contemporaneamente, senza fissare delle precise priorità da rispettare; c). perseguire la logica del “grasso è bello”, ovvero ciò che garantisce i risultati è l’abbondanza e non la competenza; d). essere dogmatici, anziché empirici; e). ignorare l’esperienza passata e ciò che da essa si può imparare; f). credersi immortali e non essere disposti ad abbandonare programmi inconcludenti. Alcune malattie delle amministrazioni pubbliche, derivanti da un male inteso concetto di professionalismo incline a degenerare, sono state così sintetizzate: 1. la perversità il professionismo finisce per diventare nemico degli stessi scopi che dovrebbe servire e si oppone a qualsiasi innovazione; 2. il tradimento – si oppone ai gradini dell’umanità in nome di una malintesa salvaguardia delle proprie procedure; 3. l’egoismo – il professionismo punta ad acquisire sempre maggiori poteri, privilegi e retribuzioni più elevate; 4. l’amore per la complessità e per i gergalismi – la tendenza a collaborare ed a utilizzare metodi di lavoro e gerghi sempre più complicati e laboriosi come strumento per conservare o accrescere il proprio status professionale; 5. timore delle definizioni rigorose – il professionismo è contrario alle decisioni e alle definizioni rigorose, che consentirebbero di adottare dei parametri di misura in base ai quali valutare le prestazioni; 6. l’insofferenza per tutte le forme di controllo – in particolar modo se esercitato dall’opinione pubblica “non informata”; 7. l’autovalutazione – la vanità, la tendenza ad attribuire un valore eccessivo ai risultati professionali conseguiti in passato; 8. la segretezza – il professionalismo non ha mai tollerato la presenza di occhi inquisitori; 9. la mancanza di creatività – le spinte al miglioramento vengono per lo più dai profani e incontrano l’opposizione dei professionisti; 10. l’abuso di potere – il professionalismo si è dimostrato poco cavalleresco,

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tesa al miglior funzionamento della struttura amministrativa.

Sotto questo profilo va ricordata la possibilità, estesa a

chiunque sia interessato, di effettuare segnalazioni

telefoniche, per fatti aventi rilevanza fiscale alla Guardia di

Finanza; tale servizio è stato qualificato di pubblica utilità,

poiché nato per fornire ai cittadini un filo diretto per tutti i

problemi che riguardano il fisco. E’ stato così evidenziato che

si tratta di uno sforzo dell’amministrazione per aiutare i

contribuenti a superare difficoltà amministrative e

burocratiche, offrendo a tutti una sponda immediata e facile da

raggiungere, coerente con l’obiettivo di ricostruire un rapporto

di fiducia e di comunicazione attiva e partecipata fra i

cittadini e le istituzioni, in relazione ad una trasformazione

di tutta l’amministrazione fiscale, sempre più aderente al

disposto dell’art. 97 Cost..

Qualora la notizia non pervenga da una specifica segnalazione

scritta, si può ritenere che questa possa essere acquisita per

il tramite di qualsiasi mezzo di informazione, quali la stampa,

la televisione o anche le notizie diffuse tramite internet.

Sotto questo profilo emerge il diverso atteggiarsi del potere

dell’organo, in quanto dalla posizione passiva di ricezione

della segnalazione fatta pervenire nell’ufficio, si passa

gradatamente dalla posizione di acquisizione dei fatti, per il

tramite di notizie diffuse da terzi con carattere di generalità,

alla ricerca diretta della notizia. Si passa, evidentemente, ad

una difforme e più delicata funzione, che richiederebbe

specifici poteri ispettivi per l’acquisizione e contestuale

valutazione dei dati. Sotto questo profilo la normativa sembra

indirizzata ad una regolamentazione restrittiva di tali poteri,

anche se non sono vietate attività di accertamento o di ricerca

delle eventuali disfunzioni degli uffici. Si potrebbe, infatti,

valorizzare il richiamo alle funzioni tecniche, operato dal tirannico o addirittura crudele nei confronti dei deboli affidati alla sua tutela; 11. la malignità – all’interno del professionismo si combatte una guerra di calunnie e di offese contro gli innovatori, insinuando che si tratti di elementi anormali, con poco senso pratico, deboli, squilibrati, privi di capacità di giudizio, ignoranti, arruffoni, plagiari, e spinti da motivazioni egoistiche o dalla ricerca dell’autorealizzazione e dell’interesse personale. In tal senso, S. Cassese, “Maladministration” e rimedi, Foro It., V, 1992, 247; ancora, sulle “storture” del concetto di buona amministrazione, da ultimo, Id., “L’ideale di una buona amministrazione”, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007.

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quinto comma dell’art. 13, per ipotizzare la creazione di una

struttura tecnica idonea a realizzare l’acquisizione di tali

notizie. Non è altresì prevista una qualche attività di

elaborazione o approfondimento del dato, oggetto della

segnalazione, ma questa deve intendersi compresa nei poteri del

Garante, non dovendo questo fungere da mero ripetitore delle

segnalazioni dei cittadini.

Il sesto comma dell’art. 13 prevede la possibilità di richiesta

di documenti o chiarimenti agli uffici competenti. Per quanto

attiene al termine “documenti”, si può ritenere che questo

riguardi qualsiasi atto in possesso dell’ufficio, ed

indipendentemente dalla sua struttura cartacea o elettronica. La

richiesta di documenti dovrà essere circoscritta all’argomento

della segnalazione. E’ evidente che la richiesta non potrà che

riferirsi a specifiche fattispecie, essendo dubbio che possa

riguardare la generalità dei comportamenti. La risposta

dell’ufficio dovrà essere sollecita e in ogni modo non dovrà

superare i trenta giorni. La mancata risposta o il superamento

immotivato del termine potrà essere motivo di ulteriore

segnalazione al direttore regionale, quale distinto disservizio

percepito direttamente dal Garante.

Un potere autonomo del Garante è quello previsto in relazione

all’accesso agli uffici finanziari. Questo potere potrebbe

essere inteso nel senso che l’accesso non è limitato dall’orario

di apertura al pubblico, ma a quello in cui è svolto il

servizio; potrebbe inoltre significare che il Garante può

predisporre autonomi accessi, indipendentemente da eventuali

precedenti segnalazioni di disservizi. Tuttavia l’unico potere

di controllo, espressamente previsto, ma collegato al potere di

accesso, riguarda quello della funzionalità dei servizi di

assistenza e di informazione al contribuente. Si tratta di

particolari servizi, progressivamente ampliati a favore del

cittadino contribuente, di grande utilità, per i quali tuttavia

va considerata la tipologia dell’intervento del garante.

L’intervento potrebbe essere indirizzato verso un rilievo

dell’insufficienza quantitativa o qualitativa dello stesso, con

monitoraggio eventuale del servizio ed in particolare delle

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risposte rese ai quesiti. La qualità delle risposte non potrebbe

essere limitata alla semplice esattezza, ma anche alla modalità

formale della risposta, sotto il profilo della sua

differenziazione in relazione anche al soggetto richiedente. La

funzionalità del servizio dovrebbe riguardare il tempo in cui

esso è reso nell’arco della giornata per gli sportelli aperti al

pubblico e la loro sufficienza in relazione alla domanda. Il

controllo andrebbe analogamente esteso anche ai servizi che non

prevedono accessi materiali agli uffici poiché resi

telefonicamente quali i “Call center” o per posta elettronica.

Anche in questo caso non è inibito un monitoraggio delle

modalità di espletamento del servizio. Di certamente minore

portata, ma ugualmente indicativo, è il potere di controllo

dell’agibilità degli spazi aperti al pubblico. Il controllo non

dovrebbe essere limitato agli uffici dell’amministrazione

finanziaria in senso stretto, ma anche agli uffici degli enti

locali, soggetti attivi di tributi, degli stessi concessionari

della riscossione ed infine delle commissioni tributarie, poiché

locali aperti al pubblico e messi a disposizione

dall’Amministrazione Finanziaria. Non sembra che la norma possa

essere intesa in forma restrittiva, limitando il potere di

controllo dell’agibilità degli spazi aperti al pubblico

esclusivamente a quelli ove si svolgono servizi d’assistenza e

d’informazione al contribuente da parte della sola

amministrazione finanziaria. Il potere di controllo non può

certamente essere lasciato al solo gusto soggettivo del Garante,

ma dovrà tener presente gli standard previsti anche in sede

europea. Di particolare rilevanza è anche la competenza

territoriale generale sull’intero territorio della Regione e

quindi sugli uffici ivi aventi sede. La qual cosa comporta la

necessità dell’accesso anche nelle sedi degli uffici fuori dalla

sede propria del Garante, ostacolata dal limitato rimborso delle

spese vive e dall’assenza di mezzi propri dell’ufficio che

assicurino una decorosa logistica per le attività esclusive.

La segnalazione al Garante deve avere per oggetto situazioni

identificabili come disfunzioni, irregolarità, scorrettezze,

prassi amministrative anomale o irragionevoli o qualunque altro

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comportamento suscettibile di inclinare il rapporto di fiducia

tra cittadini e Amministrazione Finanziaria. Va rilevato che

l’elenco delle tipologie non sembra dover essere inteso in senso

tassativo, potendosi ipotizzare situazioni analoghe, che, pur

non concretizzandosi in una violazione di norme, realizzano

fattispecie non identificabili come buona amministrazione, sotto

il profilo voluto dall’art. 97 della carta costituzionale199.

In particolare, il contribuente che lamenti disfunzioni,

irregolarità, scorrettezze, prassi amministrative anomale o

irragionevoli o qualunque altro comportamento suscettibile di

incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazione

finanziaria, ha la possibilità di partecipare

all’amministrazione, per il tramite del Garante, detti fatti,

che, per le tradizionali vie dell’autocontrollo della gestione,

non potrebbero facilmente emergere. Questa segnalazione ha una

doppia valenza, sia diretta per l’interessato istante, che si

attende una correzione del fatto evidenziato (autotutela

negata); sia in relazione ad un mutamento dei comportamenti,

concretamente adottati, ritenuti dall’istante come non conformi

all’attesa di una buona amministrazione (cambiamento della

procedura).

Il fatto, oggetto della segnalazione, potrebbe avere dei profili

di rilevanza penale, che dovranno essere oggetto di denuncia

all’autorità competente.

.10 Il potere di attivazione dell’autotutela.

Di particolare rilevanza è l’inedito potere attribuito al

Garante di “attivare le procedure di autotutela”. Nel contesto

grammaticale di un sofferto periodo, questo sembra essere un

potere consequenziale, e in ogni caso successivo, a quello di

rivolgere chiarimenti all’ufficio, in ordine alla pervenuta

segnalazione di prassi amministrative anomale o irragionevoli,

ma non limitate a queste sole ipotesi. Questo potere risulta

circoscritto in relazione agli “atti amministrativi di

199 R. LUPI, Diritto tributario, cit., 213, riconosce che con la creazione del garante, quello che avrebbe potuto essere un mero servizio reclami è divenuto una struttura indipendente che – pur senza sovrapporsi ai poteri dei giudici tributari – ha maggiore voce in capitolo nei rapporti con i vertici regionali e nazionali dell’amministrazione finanziaria.

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accertamento o di riscossione notificati al contribuente”.

Dall’insieme della previsione normativa sembra emergere una più

limitata competenza, rispetto al potere di autotutela, riservato

agli uffici dall’art. 68 del D.P.R. 27 marzo 1992, n. 287, nel

quale si prevede l’annullamento totale o parziale dei propri

atti, riconosciuti illegittimi o infondati. Partendo da questa

premessa, va subito rilevato che si deve trattare di atti

“notificati” e detta circostanza esclude l’intervento nelle

ipotesi sia di atti, per i quali non è prevista la notifica, sia

gli stessi avvisi di accertamento o di riscossione non

notificati. Il riferimento è a tutte le situazioni previste

dall’ultimo comma dell’art. 19 del D.Lgs n. 546/1992 ed a tutte

quelle altre ove la Corte Costituzionale ha riconosciuto

sussistere il diritto di difesa dinanzi alle commissioni

tributarie. Inoltre il riferimento specifico a tali atti

sembrerebbe escludere qualsiasi iniziativa nei confronti di atti

della G. di f., non rientrando quelli indicati tra le competenze

di quest’ultimo corpo.

Dopo l’abrogazione della norma, che prevedeva l’avviso di mora,

la cartella di pagamento rimane il principale atto di

riscossione da notificare al contribuente, ai sensi dell’art. 26

del D.P.R. n. 602/1973. Va tuttavia considerato che l’art. 50

dello stesso D.P.R. n. 602, nel testo modificato dall’art. 16

del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, con effetto dal 1 luglio

1999, ha introdotto nel tessuto normativo un nuovo atto,

denominato “avviso”, che deve essere notificato al contribuente,

assoggettato a riscossione coattiva, qualora l’espropriazione

non sia iniziata entro un anno dalla notifica della cartella.

Detto atto deve contenere l’intimazione a adempiere l’obbligo

risultante dal ruolo entro cinque giorni dalla notifica, va

redatto in conformità al modello approvato con Decreto del

Ministro delle finanze e perde efficacia trascorsi centottanta

giorni dalla notifica. Trattandosi di un atto prodromico alla

riscossione la competenza del Garante non potrebbe essere

esclusa. Stante la genericità del richiamo agli atti di

accertamento e di riscossione va considerata l’ipotesi

dell’ipoteca sul bene immobile e la possibilità di un intervento

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del garante nell’ipotesi di sproporzione tra il valore

dell’immobile, anche qualora questo fosse l’unico posseduto dal

debitore, ed il credito tributario che si vuole tutelare oppure

l’inerzia del concessionario nella eliminazione di una tale

garanzia tributaria dopo una decisione favorevole della

commissione tributaria. Per quanto attiene gli altri avvisi di

accertamento l’espressione non deve essere intesa in maniera

restrittiva, ma seguendo l’insegnamento della Corte

Costituzionale, vanno ricompresi tutti gli atti con i quali

l’ammistrazione esterna una sua volontà impositiva e quindi

anche un eventuale avviso di liquidazione.

Delimitato l’ambito di applicazione della norma, va esaminato il

significato da attribuire alla locuzione “attiva le procedure di

autotutela”. La questione è certamente rilevante poiché nel

corso del quinquennio i casi pratici hanno portato all’emersione

di incerti confini200. Il termine “attiva” potrebbe contenere

una portata molto ampia, fino ad ipotizzare un intervento

diretto del garante nella procedura medesima; questa estensione

non sembra condivisibile in quanto non coerente con la figura

generale dell’Ombudsman, che tradizionalmente non ha il potere

di intervenire sull’attività dell’ufficio, ed inoltre estranea

alla figura del Garante, quale soggetto che non fa parte della

Amministrazione201. Solamente una norma esplicita potrebbe

attribuire poteri positivi o sostitutivi di un ufficio. Si può

ricordare una sola eccezione al principio è costituita dalla

figura del “commissario ad acta”, nominato dalla commissione

tributaria nell’ambito di un giudizio di ottemperanza, quale

soggetto espressamente autorizzato a sostituirsi all’ufficio

inadempiente. Nel nostro caso non sono riportati tali poteri e,

quindi, l’attivazione delle procedure di autotutela sembra

limitata ad un sollecito “qualificato” dal quale nasce l’obbligo

dell’ufficio di esaminare l’istanza202.

200 S. MUSCARA’, La giurisdizione (quasi) esclusiva delle commissioni tributarie nella ricostruzione sistematica delle SS.UU. della Cassazione, in Riv. Dir. trib., 2006, n.1 II, 33. 201 A. BUSCEMA, Garante del contribuente, in AA VV, Statuto del contribuente, Cedam, 2002, 183 ed autori ivi citati. 202 Sulla impugnabilità del rifiuto espresso o tacito dell’amministrazione a procedere ad autotutela vedi la recentissima sentenza della corte di cassazione SS. UU. n. 16776, del 10 agosto 2005, con nota di F. CERRIONI,

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Il contenuto di detto sollecito può essere visto sotto più

profili, in ogni modo destinati a far evolvere l’istituto. Parte

della dottrina ritiene che non vi sia in capo al contribuente,

che richiede all’ufficio un provvedimento in autotutela, un

correlativo diritto al riesame della pratica né il diritto-

dovere dell’ufficio di attivarsi a seguito della stessa istanza.

Così posta la questione e senza ulteriori approfondimenti in

questa sede, il potere del Garante sembra ora militare verso il

subentro di una forma di doverosa risposta all’istanza del

contribuente da parte dell’ufficio. L’attivazione della

procedura da parte del Garante non dovrebbe significare anche un

giudizio (positivo) di merito della stessa istanza in

autotutela, non risultando alcuna specifica previsione in tal

senso e potrebbe essere vista come un’indebita intromissione

nell’attività degli uffici203. L’operazione dovrebbe essere

simile alla delibazione dell’istanza di sospensione dell’atto

impugnato, prevista dall’art. 47 del d.lgs n. 546/1992.

Un maggior potere di valutare la conformità alla legge del

comportamento degli organi ispettivi è invece previsto dall’art

12 della medesima legge n. 212/2000. In questo caso il

contribuente, che si ritenga leso dalle modalità con le quali i

verificatori procedono all’ispezione, può rivolgersi al Garante.

Quest’ultimo, valutata la segnalazione, potrà richiedere

chiarimenti sui fatti esposti ed eventualmente sollecitare la

cessazione, in via di autotutela, dell’attività posta in essere

con modalità non conformi alla legge204. Il richiamo a modalità

ispettive “non conformi a legge” evidenzia un differente profilo

del potere di intervento del Garante, atto ad interrompere

procedure illegittime, potenzialmente idonee a far travolgere un

successivo atto di accertamento, basato su di un processo

verbale già riconosciuto illegittimo. Vi è da un lato una sorta

di richiesta cautelare da parte del contribuente (interruzione

della procedura illegittima e di per sé dannosa per l’istante) e Procedimenti di autotutela, dovere di riesame e tutela giurisdizionale in ambito tributario, Riv. Giur. Trib., 2005, n. 11, 1003. 203 F. D’AYALA VALVA, L’attivazione delle procedure di autotutela tributaria, Riv. Dir. trib. , 2004, 145. 204 F. D’AYALA VALVA,Il contribuente sottoposto a verifiche fiscali e l’intervento del Garante, Riv. Dir. trib., 2003, I, 179; F. NICCOLINI, Il codice di comportamento dei verificatori fiscali alla luce dello Statuto del contribuente, Rass. Trib., 2004, n. 4, 1415.

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dall’altro una sorta di delibazione sulla procedura in essere,

avente per oggetto il rispetto della normativa, analogo a quello

che potrebbe, in un secondo momento, effettuare il giudice

tributario, in funzione demolitoria dell’atto di accertamento

impugnato.

Il ruolo del Garante troverà, in futuro, nuova linfa in

relazione alla procedura di adesione al verbale di

constatazione, ex art. 5 bis d.lgs. 218/1997205. In particolare,

la suddetta norma prevede che il contribuente possa aderire ai

verbali di constatazione per gli accertamenti parziali in

materia II.DD. ed IVA, entro 30 giorni successivi alla data

della consegna del verbale. Innanzitutto, ci si domanda se la

procedura prevista per l’adesione al verbale di constatazione

non rappresenti, da un lato, una deminutio delle prerogative di

difesa del contribuente, visto che la norma statutaria prevede

il termine più amplio di 60 giorni dalla consegna del verbale

per produrre osservazioni e richieste. Dall’altro, la stessa, ad

un primo rapido approccio, non sembra neanche rispettare il

canone di buona amministrazione, inteso nel significato

“statutario” del termine, considerato che la fretta di chiudere,

in via anticipata, rilievi fiscali parziali, pur rispondendo a

criteri di celerità e certezza del gettito, potrebbe celare

errori materiali e/o impositivi, con conseguente violazione del

canone della giusta imposizione ex art. 53 Cost.. Lasciando per

il momento aperti gli interrogativi sui rimedi amministrativi e

giudiziali avverso una adesione definitiva (?) “ingiusta”, il

Garante, quale figura super partes, attraverso il controllo

della correttezza delle operazioni di verifica, potrà influire

sulla corretta attuazione dello strumento di adesione,

indirettamente monitorando l’intelligibilità del verbale di

constatazione e, dunque, la legittima e chiara determinazione

dell’imponibile e dell’imposta verificata.

Accanto a queste funzioni, che possono ritenersi analoghe a

quelle del difensore civico, sono previsti degli specifici

“richiami” agli uffici affinché rispettino il disposto

205 L’art. 5 bis è stato inserito nel contesto della d.lgs. 218/1997 dal D.L. 25 giugno 2008 n. 112 – L. 06 agosto 2008 n. 133.

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dell’articolo 5 e dell’articolo 12 dello statuto. Si tratta di

norme eterogenee, tese sostanzialmente al miglioramento della

stessa amministrazione. Il significato del richiamo, tende alla

mera segnalazione di non adeguati servizi. In particolare l’art.

5 prevede la messa a disposizione “gratuita”, anche in via

elettronica, dei testi di legge coordinati, le circolari e le

risoluzioni emanate dalla amministrazione finanziaria e

l’intervento del garante potrebbe essere di stimolo in tal

senso. Il sesto comma termina con la previsione di una

comunicazione dell’attività svolta alla direzione regionale o al

comando di zona della Guardia di finanza, nonché agli organi di

controllo, prevedendosi anche l’invio di un’informativa al

contribuente. Di particolare rilevanza, per il miglior

funzionamento dell’amministrazione, è la previsione del potere

di rivolgere raccomandazioni ai dirigenti degli uffici, ai fini

della tutela del contribuente e della migliore organizzazione

dei servizi206.

Il garante è, quindi, tenuto a segnalare agli uffici competenti

i casi di particolare rilevanza in cui le disposizioni in vigore

ovvero i comportamenti dell’amministrazione determinano un

pregiudizio dei contribuenti o conseguenze negative nei loro

rapporti con l’amministrazione.

E’ previsto il potere dovere di segnalazione diretta al

Ministero delle finanze, perché eserciti i poteri di rimessione

in termine dei contribuenti nelle ipotesi di cause di forza

maggiore, che possono aver impedito il tempestivo adempimento

degli obblighi tributari ivi compresi i versamenti dei tributi.

Va innanzi tutto distinta tale ipotesi da quella in cui il

mancato adempimento degli obblighi tributari sia dipeso da

eventi eccezionali ed imprevedibili in quanto distintamente

previsti dal secondo comma dell’art. 9; questi ultimi casi sono

tradizionalmente riferibili a calamità naturali eccezionali, che

possano coinvolgere vaste aree del paese. Nel primo caso,

invece, vanno annoverati episodi che coinvolgono la sfera

personale in maniera così determinante da impedire ad un

soggetto l’adempimento degli obblighi tributari; l’ipotesi

206 BRONZETTI G., Il Garante del Contribuente: realtà e prospettive, Riv. dir. trib., 2007, n. 5, I, 559.

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potrebbe riguardare un contribuente oggetto di sequestro. Al

Garante dovrebbe spettare il potere istruttorio, per valutare la

sussistenza della causa di forza maggiore e, nel caso di

insufficienza probatoria, potrebbe invitare il contribuente a

fornire ulteriori elementi di prova su quanto affermato. La

funzione del Garante in questo caso andrebbe proprio indirizzata

verso una funzione di concreto esercizio di una “attività di

tramite” attivo tra il contribuente ed il Ministero. Ove non si

dovesse riconoscere questa attività istruttoria di

collaborazione, sarebbe lecito chiedersi il motivo per il quale

la segnalazione di una causa di forza maggiore per un

contribuente debba transitare per il tramite dell’ufficio del

Garante e non piuttosto della direzione regionale delle entrate,

ubicata nella stessa sede.

Il Garante è tenuto a presentare una relazione semestrale

sull’attività svolta al Ministro delle finanze, al direttore

regionale dell’agenzia delle entrate delle dogane e del

territorio nonché al comandante di zona della Guardia di

finanza, individuando gli aspetti critici più rilevanti e

prospettando le relative soluzioni. Il tenore della norma indica

certamente lo svolgimento di un’attività particolarmente

impegnativa, che richiede un continuo monitoraggio dei casi

trattati e delle soluzioni adottate con successo dagli uffici;

richiede inoltre un’approfondita attività di studio teso a

prospettare le soluzioni più idonee per risolvere i lamentati e

più rilevanti disservizi. Si tratta di un’attività, che potrebbe

spaziare dal ricercare soluzioni nuove, nell’ambito dei

procedimenti previsti dalle norme, ed ipotesi di emendamenti

normativi, qualora, nell’ambito delle norme in vigore, non fosse

possibile adottare comportamenti e procedure diverse da quelle

disapprovate.

Inoltre ogni singolo garante regionale, con relazione annuale,

riferisce al Governo ed al Parlamento dati e notizie sullo stato

dei rapporti tra fisco e contribuenti nel campo della politica

fiscale. Si tratta di una ulteriore specifica funzione, che

implica una particolare alta professionalità, che si distingue,

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quanto alla qualità dei dati da elaborare, da una semplice

elencazione dell’attività svolta.

.11 Riflessioni conclusive.

Le strutture delle amministrazioni dello Stato ed ora delle

regioni e degli enti sotto ordinati non sempre riescono a

adeguarsi, con sufficiente immediatezza, all’evolversi delle

esigenze politiche, economiche e sociali. Da qui la bontà della

scelta di istituire un nuovo soggetto “di spinta”.

Il “Garante del contribuente”, analogamente al difensore civico,

rientra tra le figure istituite a tutela del cittadino

specificatamente nei confronti dell’apparato amministrativo. A

differenza da altri soggetti non ha il potere di incidere

direttamente sul fatto oggetto della segnalazione, ma solo

quello di indicare ad un’autorità politica ed agli uffici

dell’amministrazione finanziaria il disservizio lamentato. Si

tratta, pertanto, di un soggetto idoneo a farsi ascoltare,

probabilmente più per il carisma personale, che per gli

effettivi poteri che può esercitare. Per il cittadino è

certamente una figura che può “fare da tramite”, nel senso

originario dell’Ombudsman, perché gli uffici diano seguito alle

proprie istanze. La funzione di garanzia risiede proprio nel

differente atteggiarsi di questa figura, rispetto alla generica

disponibilità dell’amministrazione ad auto regolarsi in

direzione di una maggiore efficienza. Su queste premesse le

aspettative, in termini qualitativi, risultano rispettate.

Il termine “Garante del contribuente” sembra, tuttavia,

sovradimensionato, rispetto al servizio che può essere

concretamente svolto in favore di quest ultimo; le funzioni

svolte, o che possono essere svolte, dal Garante sembrano più

indirizzate a fornire elementi conoscitivi concreti e

tempestivi, ed anche servizi, in relazione alle segnalazioni per

eventi eccezionali ed imprevedibili ai sensi dell’art. 9, alla

amministrazione delle finanze al fine di migliorare il proprio

servizio. Sotto quest’ ultimo profilo sembra riduttivo pensare

che l’attività svolta dal Garante sia indirizzata unicamente a

favore del contribuente in quanto la reale funzione sembra

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piuttosto quella di ridurre i casi di cattiva amministrazione e

stimolare l’esercizio dell’autotutela da parte della stessa

amministrazione intesa in senso lato, nei casi in cui la norma

prevede la sua applicabilità.

L’istituzione del Garante del contribuente va salutata

positivamente, quale segno di una differente attenzione nei

confronti dei soggetti, che partecipano alle spese pubbliche,

sopportandone l’onere; l’istituto, anche alla luce delle

esperienze degli ultimi anni, appare sguarnito di una reale

potere di garantire e rimediare ad alcuni disservizi lamentati

(Prometeo incatenato), a differenza di quanto avviene per talune

autorità amministrative indipendenti e per lo stesso difensore

civico, ora dotato dalla legge 15 maggio 1997, n. 127 (Bassanini

bis) del potere di nominare un commissario ad acta, nei

confronti della stessa amministrazione inadempiente. In questo

senso non si rinviene una sostanziale differenza nell’ipotesi di

avvenuto riconoscimento del credito vantato dal contribuente,

per effetto di una sentenza definitiva o per espresso

riconoscimento dell’ufficio; nel primo caso è attivabile il

giudizio di ottemperanza, con la rapida nomina di un commissario

ad acta, mentre nel secondo caso il contribuente, dinanzi

all’inerzia (beffa-sono state attivate le procedure ed il

rimborso sarà effettuato quando vi saranno fondi disponibili), è

costretto ad attivare un più lungo e dispendioso processo

tributario, per poter usufruire, alla fine, della procedura del

giudizio di ottemperanza. In quest’ultimo caso, e con le idonee

garanzie, si potrebbe attribuire al Garante il potere di

nominare un commissario ad acta, per il sollecito pagamento

delle somme. Si tratterebbe di un potere circoscritto, di natura

amministrativa, sostitutivo, in casi di evidente inerzia

sindacabile dal Garante.

E’ auspicabile che le funzioni vengano adeguate al mutato

contesto normativo, specie in relazione alla differente

tipologia ora acquisita dalla mitica e tradizionale figura della

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Amministrazione Finanziaria207, e che siano progressivamente

riformulati, ampliandoli, i poteri e gli ambiti di intervento

del Garante del Contribuente, nella più generale riforma

tributaria, attuata in via strisciante e non coordinata.

Avv. Serafino Trento, Avvocato Tributarista del Foro di Rossano.

“La motivazione degli atti impositivi”

Prima di entrare nell'argomento, mi piace sottolineare come il

convegno di oggi abbia visto unite non solo la Athena, la

Universitá Telematica "Giustino Fortunato" ma anche l'Ordine

degli Avvocati di Rossano e il Consiglio Notarile di Cosenza.

Questo rappresenta un elemento importante, perché la

collaborazione fra le varie associazioni, credo che sia

importante per la riuscita delle manifestazioni. Con l'entrata

in vigore della legge 27.07.2000 numero 212, del cosiddetto

statuto dei diritti del contribuente, i rapporti fra il

cittadino contribuente e gli enti impositori sono profondamente

cambiati. Gli illustri relatori che mi hanno preceduto e credo

anche quelli che seguiranno, hanno trattato e tratteranno i

punti più importanti di questo statuto, che è stato introdotto,

appunto, dalla legge 212, ma anche poi dal decreto legislativo

32 del 2001 che è stata emanata in attuazione dell'articolo 16

di tale legge. Pertanto io mi limiterò a fare delle brevi

considerazione sul tema, argomento specifico, che mi è stato

assegnato: la motivazione degli atti impositivi. Come già diceva

la alla professoressa Bassano, la motivazione è un elemento

essenziale non solo degli atti in positivo, ma per tutti gli

atti, siano essi amministrativi che giudiziari. Tant'é che la

mancanza o la contraddittorietà della motivazione costituisce

motivo di impugnativa dell' atto, costituisce motivo di ricorso

per Cassazione. Però stasera parliamo, accenniamo brevemente

alla motivazione degli atti impositivi dell'amministrazione 207 CAMMELLI M., La pubblica amministrazione, Il Mulino, 2004, 40, riconosce che è stato messo in discussione il postulato dell’unità amministrativa, che dell’unicità dell’interesse generale è stato per lungo tempo corollario e garanzia.

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finanziaria ed alle conseguenze che derivano da una mancata o da

una insufficiente motivazione. Debbo dire per la verità che la

motivazione degli atti impositivi non è, in assoluto, stata

introdotta dalla legge, lo statuto del contribuente, dalla legge

212 del 2000, ma che già l'articolo 42 del d.p.r. 600 del '73

che era la disciplina all'accertamento dei redditi prevedeva

l'obbligo della motivazione. Stabiliva infatti questo articolo

che l'avviso di accertamento deve essere motivato in relazione a

quanto stabilito dalle disposizioni di cui ai precedenti

articoli che sono stati applicati e con la specifica indicazione

dei fatti e delle circostanze che giustificano il ricorso a

metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato

riconoscimento di deduzione e detrazione. Già prima della

entrata in vigore dello statuto del contribuente, io ricordo,

anche per aver fatto il presidente di commissione tributaria per

parecchi anni, che uno dei motivi più ricorrenti nelle

impugnative da parte dei contribuenti erano diretti alla

mancanza di motivazione, anche se nella vecchia normativa era un

po' più aleatorio il concetto di motivazione così come poi è

stato invece specificato dalla legge 212. Però appunto con le

disposizioni dell'articolo 46 la discrezionalità

dell'amministrazione era eccessiva e il contribuente perciò non

era messo nelle condizioni di poter valutare compiutamente le

ragioni dell'accertamento al fine di poter disporre una adeguata

difesa. Lo statuto dei diritti del contribuente ha quindi

introdotto nuovi principi di chiarezza sull'obbligo della

motivazione degli atti che vengono notificati ai contribuenti.

L'articolo 7 della legge 212 del 2000 stabilisce espressamente

che gli atti dell' amministrazione finanziaria sono motivati

secondo quanto prescritto, e questo è il punto importante, dall'

art. 3 della legge 7 agosto del 1990 n.141, la legge che

riguarda appunto la motivazione di tutti i provvedimenti

amministrativi e deve indicare i presupposti di fatto, le

ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione

dell'amministrazione. Aggiunge questa norma, è molto importante,

che se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto,

questo deve essere allegato all'atto che lo richiama. Con il

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richiamo all'articolo 3 della legge 241/90, lo statuto dei

diritti del contribuente interviene direttamente sugli atti

tributari e dispone quindi che tutti gli atti impositivi

dall'amministrazione debbano essere motivati, debbono cioè

indicare espressamente i presupposti di fatto e di diritto

posti alla base come fondamento del provvedimento

amministrativo. Il contribuente deve essere messo in condizione

di conoscere compiutamente tutti gli elementi sia di fatto che

di diritto che hanno determinato la decisione

dell'amministrazione. Qual'è lo scopo di questa norma? Lo scopo

di questa norma è proprio quello di fornire delle sufficienti

indicazioni sulla pretesa tributaria onde consentire al

contribuente la conoscenza effettiva dell' atto che

l'amministrazione gli ha notificato, allo scopo di rendere più

comprensibile l'operato dell' amministrazione, e di mettere il

contribuente in condizioni di poter capire meglio le pretese

formulate nei suoi confronti così da consentirgli di valutarne

la fondatezza e quindi l'opportunità di esperire l'azione

giudiziale e in caso positivo di contestarlo efficacemente,

anche allo scopo di poter predisporre una più opportuna e

adeguata difesa dalle pretese dell'amministrazione finanziaria,

soprattutto nel caso di contenzioso. E tutti gli elementi

conoscitivi debbono essere forniti all' interessato, non solo

tempestivamente, inserendoli cioè ab origine nel provvedimento

amministrativo, ma anche con quel grado di determinatezza ed

intelligibilità che permetta al medesimo contribuente un

esercizio non difficoltoso del diritto di difesa. La motivazione

in sostanza assolve ad una funzione processuale di garanzia del

diritto di difesa ed ha anche una funzione di trasparenza

dovendo essere indicate le ragioni di fatto e di diritto che

hanno indotto la amministrazione alla emanazione dell' atto. E'

da ribadire che, come appunto prevede l'articolo 7, nel caso in

cui l'amministrazione faccia riferimento ad un altro atto,

questo deve essere allegato all' atto che lo richiama. Sul

punto, anche la circolare del Ministero delle Finanze n. 150E

del 01/08/2000 ha chiarito che l' obbligo di una tale

allegazione da parte degli uffici sussiste anche per gli atti

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che in precedenza siano stati notificati allo stesso

contribuente; per esempio all'avviso di rettifica deve essere

allegato il precedente atto di accertamento anche se in passato

già notificato. L' obbligo della motivazione è previsto non solo

per gli atti dell'amministrazione finanziaria ma anche per

quelli delle amministrazioni locali e per i vari tributi della

fiscalità locale. In proposito, infatti, è da osservare che lo

statuto dei diritti del contribuente che all'articolo 16 aveva

disposto che il governo entro 180 giorni dalla sua entrata in

vigore provvedesse ad emanare, mediante uno o più decreti, le

disposizioni correttive delle leggi tributarie vigenti,

strettamente necessarie a garantire la coerenza con i principi

desumibili dalle disposizioni dello statuto medesimo. In

attuazione di tale disposizione il governo ha emanato il decreto

legislativo n. 32 del 26/1/2001 con il quale ha introdotto una

serie di disposizioni che hanno la finalità di correggere le

norme tributarie vigenti anche in tema di fiscalità locali a che

permette al contribuente di avere maggiori tutele nei confronti

delle azioni intraprese sia dalla amministrazione finanziaria

che dall'amministrazione locale. Tale decreto all'articolo 6 nel

modificare le singole discipline ha ribadito ed espressamente

previsto l'obbligo della motivazione anche per gli atti di

liquidazione e di accertamento in materia di fiscalità locale,

stabilendo che la motivazione dell' accertamento deve essere

fatto in relazione ai presupposti fatto e alla regioni

giuridiche che lo hanno determinato. Con questo decreto, però,

il legislatore ha aperto una porta più favorevole

all'amministrazione, intendendo agevolare il compito

dell'amministrazione. Infatti, mentre prima con la legge 212 era

obbligatorio comunque e sempre l' allegazione dell'atto

richiamato, con questo decreto il legislatore ha previsto che è

obbligatoria l' allegazione dell' atto, salvo che quest'ultimo

atto non ne riproduca il contenuto essenziale, quindi escludendo

la allegazione totale dell'atto. E' evidente che con tale

disposizione il legislatore oltre ad agevolare il compito

dell'amministrazione, ha lasciato una maggiore discrezionalità

all'ente impositore che può decidere cosa sia importante, far

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conoscere al contribuente tramite l'avviso di accertamento,

quale sia cioè il contenuto essenziale riprodotto nell'atto e

che impedisca l' allegazione dell'atto richiamato. In tal modo

non vi è certezza che possano ritenersi soddisfatte le

aspettative del contribuente e si creano delle situazioni che

spesso sono fonti di controversie. Come ho detto l'obbligo della

motivazione deve essere osservato non solo con riferimento agli

atti dell'amministrazione finanziaria, agli avvisi di

accertamento e liquidazione dei tributi locali ma è necessario

anche per l'irrogazione delle sanzioni; atteso che nonostante il

provvedimenti di irrogazione delle sanzioni sia contestuale

all'avviso di accertamento, lo stesso in ogni caso è ritenuto un

atto autonomo ed è pertanto necessario che anche esso sia

autonomamente motivato. Purtroppo spesso capita che specialmente

per quanto attiene alle sanzioni, l'amministrazione non ometta

completamente la motivazione. Purtroppo capita anche che poi il

contribuente nemmeno le eccepisca in sede di ricorso alle varie

commissioni, anche se trattandosi di nullità dovrebbe e potrebbe

essere rilevata anche d'ufficio dalle commissioni tributarie

decidenti. Perché spesso si chiede a proposito delle sanzioni,

si dice, si chiede di non pagarle che non sono dovute per la

difficoltà di interpretazione, ma difficilmente si chiede

l'annullamento dell'irrogazione della sanzione per la mancata

motivazione della stessa, motivazione, ripeto, che è necessaria

anche per le sanzioni. Accertata quindi la obbligatorietà della

motivazione degli atti impositivi occorre brevemente esaminare

quali siano le conseguenze della mancata o insufficiente

motivazione degli stessi. Non vi è dubbio, d'altra parte anche

nel diritto processuale civile è così, non è dubbio che la

mancanza o insufficiente motivazione determini la nullità

dell'atto. Ora, la dottrina per riguarda questo punto, sempre

ha sostenuto che, poiché l' atto di accertamento amministrativo

ha natura sostanziale e non solo processuale, la motivazione non

solo è necessaria ma deve contenere sotto pena di nullità tutti

presupposti di fatto e le circostanze di diritto che hanno

determinato il provvedimento dell'amministrazione, e deve essere

inserito nell'atto impositivo. La Cassazione in un primo momento

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si era opposta a tale indirizzo perché aveva ritenuto che

l'avviso di accertamento in realtà doveva essere considerato

solo come il primo atto del processo tributario cioè un mezzo

processuale per instaurare il contraddittorio. Per cui, secondo

le prime decisioni della Cassazione la motivazione dell'atto

doveva indicare solo i criteri astratti in base ai quali

l'avviso di accertamento era stato emesso salvo poi anche nel

corso del processo l'onere dell'ufficio di provare i fatti

giustificativi di tale accertamento. Questo per la verità era,

diciamo, una tesi contrastante con la dottrina ma è una tesi

che sostanzialmente non poteva essere condivisa perché si dava

all'amministrazione la possibilità di dire: " io non te l'ho

messa la motivazione totale, completa, nell'accertamento, però

nel processo indico e specifico i motivi per cui sano la

nullità". La stessa Cassazione ha successivamente cambiato

indirizzo, infatti con la sentenza 5924 del 21/4/2001la

cassazione ha affermato che l'avviso di accertamento ed in

particolare l'avviso di cui agli articoli 42 e ss. del d.p.r.

600/73 è atto non processuale e non specificatamente funzionale

al processo ma amministrativo; quindi ha recepito la tesi

dottrinaria sul punto esplicativo della potestà impositiva

dell'amministrazione finanziaria in sé e per sé perfetto e

pienamente efficace, sicuramente non espressivo di una pretesa

la cui fondatezza debba essere necessariamente vagliata in sede

giurisdizionale traendone la conclusione della inapplicabilità

della disciplina della sanatoria delle nullità. Qua parlava a

proposito della notificazione degli atti processuali alla

notifica dell'avviso dell'accertamento. E con la sentenza 59234

del 3 dicembre 2001 la stessa suprema corte dopo aver ribadito

che l'avviso di accertamento non è atto processuale bensì

amministrativo esplicativo in particolare della potestà

impositiva dell'amministrazione finanziaria dalla natura

sostanziale ha affermato che la motivazione costituisce un

requisito di legittimità dell'avviso di accertamento richiesto a

pena di nullità, articolo 42 comma due del d.p.r. 600/73, che il

contribuente può chiedere che sia dichiarato in giudizio è con

la modalità prescritta dall'articolo 61 del citato decreto. Il

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processo tributario infatti dice in questa sentenza della

cassazione che è diretto ad accertare la legittimità oltre che

la fondatezza della pretesa tributaria, sulla base dell'atto

impugnato ed alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto

in esso indicati entro i limiti delle contestazioni mosse dal

contribuente. Quindi la motivazione concorre a delimitare la

materia del contendere nel successivo eventuale giudizio. Questo

spiega perché l'amministrazione non possa in sede di giudizio

addurre ragioni di rettifica diverse da quelle già indicate

nell'atto impugnato. A proposito dell'allegazione degli atti,

cui far riferimento anche lo statuto del contribuente, la

Cassazione ha affermato della motivazione può assolvere alla

funzione informativa che le è propria facendo riferimento ad

elementi di fatto offerti da documenti diversi solo se tali

documenti sono allegati o sono comunicati al contribuente. Nel

corso degli anni abbiamo assistito ad un progressivo rifiorire

del dibattito in tema di motivazione degli atti impositivi

dell'amministrazione finanziaria e degli enti locali. La suprema

corte ha mostrato e mostra ormai sempre maggiore attenzione al

tema della motivazione affermando la nullità degli atti che

provvedono alla rettifica del reddito o all'accertamento di

altri tributi in maniera sbrigativa senza specificare i

presupposti che sono alla base dell'accertamento così come la

legge impone. In particolare con la sentenza 1905 del 30 gennaio

2007 la Suprema Corte ha ribadito in linea generale che la

motivazione dell'avviso di accertamento come si ricava anche

dalla più recente legislazione, e fa riferimento alla legge 241

del '90 sul processo amministrativo, la 212 del 2000 ed il

decreto legislativo n. 32 del 2001 costituisce strumento

essenziale di garanzia del contribuente, soggetto inciso nella

propria sfera giuridica dall'amministrazione finanziaria

nell'esercizio del suo potere di imposizione fiscale. Il giudice

di legittimità ha osservato che la previsione dell'obbligo della

motivazione si inserisce nell'ambito di quella norme dello

statuto del contribuente, oltre all'articolo 7 che

specificatamente lo contempla, gli articoli 2, 5, 6, 10 che sono

espressivi di principi generali anche di rango costituzionale,

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immanenti nell'ordinamento tributario e costituiscono perciò

criteri guida per orientare l'interprete e l'esegesi della norma

tributaria, anche anteriormente vigenti, le quali assolvono la

essenziale funzione di garantire la conoscenza e l'informazione

del contribuente nel quadro dei principi generali di

collaborazione, trasparenza e buona fede che devono improntare,

in quanto espressivi di civiltà giuridica, i rapporti tra fisco

e contribuente. Pertanto, secondo la Suprema Corte, nell'avviso

di accertamento, al fine di realizzare in pieno la anzidetta sua

finalità informativa debbono confluire tutte le conoscenze

dell'ufficio, e deve essere esternato con chiarezza, sia pure

sinteticamente, l'iter logico giuridico seguito per giungere

alla conclusione prospettata, fermo restando che tale contenuto

della motivazione si atteggia in concreto, diversamente, in

relazione alle singole norme applicabili nel caso specifico. Un

problema non trascurabile, l'avevo già accennato in questa breve

relazione, è quello della motivazione per relationem, cioè il

riferimento ad elementi di fatto offerti da altri documenti. In

proposito, sempre la sentenza 1905 del 2007 ha ribadito il

principio secondo il quale prima delle modifiche apportate dallo

statuto dei diritti del contribuente è dal decreto legislativo

32 del 2001, il requisito motivazionale dell'avviso di

accertamento poteva essere assolto per relationem, cioè mediante

il riferimento ad elementi di fatto offerti da altri documenti,

ma sempre a condizione che gli stessi fossero conosciuti dal

destinatario, presupposto sempre più degli atti anteriori che

deve ritenersi sussistente in re ipse quando il riferimento

attiene al verbale di ispezione e verifica compiuto alla

presenza del contribuente, a lui comunque già notificati o

comunicati nei modi di legge. Quando invece i verbali oggetto di

relazione riguardano un soggetto diverso l'amministrazione ha

all'onere di dimostrare, sia pure eventualmente tramite

presunzione, l'effettiva e tempestiva conoscenza dei documenti

stessi da parte del contribuente, non essendo sufficiente il

riferimento ad atti nei quali il contribuente possa procurarsi

la conoscenza, perché ciò comporterebbe una più o meno

accentuata e non giustificata riduzione del lasso di tempo lui

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concesso per valutare la fondatezza dell'atto impositivo con

indebita menomazione del diritto di difesa. Invece, per quanto

attiene gli atti successivi sembrerebbe da escludere la

motivazione per relationem, perché appunto, come già o più volte

detto, lo statuto del contribuente ha imposto l'obbligo di

allegazione dell'atto richiamato o comunque di sua riproduzione

nel atto notificato. Per la verità, l'indirizzo della Corte di

Cassazione è stato fatto proprio dalla giurisprudenza, direi

quasi unanime, delle commissioni tributarie che hanno

approfondito il tema ed hanno ribadito la nullità degli atti

impositivi affermando che l'assoluta mancanza di motivazione

mina la possibilità per il contribuente di conoscere l'iter

logico giuridico seguito, con gravi conseguenze sulla

possibilità di reagire ad atti arbitrari illegittimi ed erronei

ed incidendo così sulla possibilità di agire in giudizio a

tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, quindi in

violazione dell'articolo 24 della Costituzione. In tal senso

deve ritenersi che l'obbligo di motivazione, affermano le

commissioni tributarie, debba essere valutato con particolare

rigore. Avviandomi alla conclusione mi preme di fare un accenno

anche alle motivazioni delle cartelle di pagamento, che pur non

costituendo esse stesse un atto impositivo, la presentano

comunque il mezzo attraverso cui l'amministrazione finanziaria e

gli enti locali provvedono alla riscossione delle somme dovute a

seguito degli accertamenti. In proposito, la suprema Corte di

Cassazione con le sentenze numero 18415 del 16 settembre 2005 e

28318 del 21 dicembre 2005 ha affermato che quando la cartella

di pagamento non è stata preceduta da avviso di accertamento

debbono ritenersi applicabili i principi di ordine generale

indicati per ogni provvedimento amministrativo dall'articolo tre

della legge 490 espressamente recepiti in materia tributaria

dall'articolo 7 della legge 212, atteso che una diversa

interpretazione si vorrebbe in un contrasto insanabile con

l'articolo 24 della Costituzione. Quindi se la cartella non

segue ad un avviso di accertamento, anche la cartella deve

indicare i motivi per cui c'è la imposizione. Con la sentenza

18385 del 16 settembre 2005 la Suprema Corte ha affermato che

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l'ente impositore ha sempre l'obbligo di chiarire nella cartella

esattoriale, sia pure succintamente, le ragioni dell'iscrizione

a ruolo dell'importo preteso, in modo da consentire al

contribuente un non eccessivamente difficoltosa esercizio del

diritto di difesa. In conclusione, non può esservi dubbio

alcuno, in ordine alla obbligatorietà sotto pena di nullità

della motivazione degli atti impositivi da parte

dell'amministrazione finanziaria e degli enti locali. Vi

ringrazio dell'attenzione e vi auguro un buon proseguimento.

Prof. Antonio Uricchio, docente di Diritto Tributario Università

di Bari.

“Le garanzie in materia di illeciti amministrativi e reati

tributari”

Grazie presidente, innanzitutto vorrei ringraziare anche gli

organizzatori di questo interessante incontro denso di

problematiche, e ovviamente gli amici che sono ancora presenti

nonostante l'orario ormai avanzato, dopo una giornata

particolarmente densa e ricca anche di numerosi spunti di

riflessione. Il tema come ricordava il presidente della nostra

sessione è quello del rapporto fra statuto del contribuente e

disciplina sanzionatoria tributaria, quando l'amico,

l'organizzatore del convegno, l'avvocato Marincolo mi aveva

invitato a soffermarmi su questo invito, su questa tematica ho

avuto qualche momento di perplessità, perché la disciplina in

materia di statuto del contribuente guarda soprattutto alle

garanzie del contribuente, quindi il rapporto fra normativa

sanzionatoria di carattere tributario e normativa dello statuto

che guarda ai profili dei diritti e delle garanzie degli

elementi che interessano la posizione del contribuente sembrano

porsi in una posizione di profondo conflitto. Già in precedenza

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il professor è D' Ayala Valva ha consentito di ricomporre questo

apparente conflitto fra norme di carattere sanzionatorio e norme

che invece investono le garanzie del contribuente, e soprattutto

il professor D' Ayala Valva c'ha fatto capire come la disciplina

in materia di statuto del contribuente in veste invero non solo

le garanzie del contribuente e le posizioni soggettive che il

contribuente vanta nei confronti dell'amministrazione

finanziaria, a me interessa l'intero ordinamento tributario,

guarda alle garanzie del contribuente ma anche ai doveri che il

contribuente anche vanta, che deve anche considerare, guarda

alla posizione del contribuente ma guarda anche alla posizione

dell'amministrazione finanziaria. Bisogna però sottolineare che

nell'ambito della disciplina dello statuto del contribuente le

disposizioni che investono gli illeciti di carattere tributario

sono abbastanza scarne, è anzi la disciplina degli illeciti di

carattere tributario sebbene sono più o meno coeve sotto il

profilo temporale, la disciplina sulle sanzioni penali

tributarie è del 2000, si tratta di appena pochi mesi prima

dello statuto del contribuente delle disposizioni che riguardano

le sanzioni amministrative risalgono a qualche anno prima, al

1997 e le disposizioni tra discipline sanzionatorie disciplina

dello stato del contribuente sembrano tra loro abbastanza rive

di quel necessario collegamento che semmai invece occorre nel

momento in cui si guarda il fenomeno dell'illecito tributari

assumere. Bisogna anche dire che alcune delle disposizioni che

interessano le illecito tributario non sono nemmeno state

coordinate, basti pensare che la disciplina sull'interpello,

l'articolo 11, guarda esclusivamente all'interpello di carattere

ordinario, mentre la disciplina dell'articolo 16 del decreto

legislativo del 74 guarda all'interpello era regolamentato dalla

legge del 1991 in materia di comitato consultivo per

l'applicazione delle norme antielusive, quindi guardava

all'interpello speciale senza che invece anche nel momento in

cui sono entrate le disposizioni dello statuto del contribuente

anche alla normativa in materia di illecito penale prendesse in

considerazione il profilo dell'illecito tributario e soprattutto

l'eventuale ipotesi che il contribuente avesse eccepito

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nell'ambito del proprio comportamento e elementi forniti

dall'amministrazione nell'ambito dell'interpello tributario.

Addirittura oggi l'interpello che era regolamentato dalla legge

del 1991 è stata di fatto superata in vista appunto

dell'abolizione del comitato per l'applicazione delle norme

antielusive mentre la disciplina prevista dallo statuto del

contribuente in materia di interpello ordinario invece non è

stata nemmeno menzionata dalle norme di carattere tributario.

Allora, fatto questa necessaria premessa volevo soprattutto

soffermarmi fra rapporto fra disciplina sanzionatoria tributaria

penale e disposizioni dello statuto del contribuente. Il tema si

deve necessariamente collegare al profilo che è stato ampiamente

affrontato, presi in considerazione, se le disposizioni dello

statuto possano investire sulla materia sanzionatorio tributare

oppure semplicemente esprimano delle indicazioni meramente

programmatiche la cui inosservanza è inidonea anche ad incidere

sul profilo della responsabilità sotto il profilo sanzionatorio

amministrativo e sotto il profilo della responsabilità penale. È

stato ricordato anche nel corso della mattinata come soprattutto

nella fase immediatamente successiva all'entrata in vigore della

legge 212, molti erano convinti che le disposizioni contenute

nello statuto proprio perché esprimessero dei principi di

carattere programmatico, fossero del tutto a incidere sotto il

profilo della responsabilità sia di natura penale che di natura

anche amministrativa. Quindi le disposizioni contenute nello

statuto, pur avendo qualche valore di carattere programmatico,

non avrebbero potuto incidere sulle disposizioni in materia di

responsabilità sotto il profilo penale. Nello stesso tempo si

riteneva che i profili della responsabilità penale e

amministrativa fossero completamente estranei, completamente

sganciati, rispetto alle norme dello statuto. Il profilo della

responsabilità penale era completamente sganciato rispetto alle

garanzie che i contribuenti avrebbero potuto anche affidare.

Responsabilità da un lato e diritti di garanzia dall'altro

dovevano muoversi su piani completamente sganciati fra di loro,

del tutto privi di quel collegamento. Il contribuente avrebbe

dovuto rispondere anche dinnanzi alle responsabilità sotto il

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profilo della pubblica amministrazione ma non avrebbe potuto far

valere quelle garanzie che lo statuto del contribuente riteneva

assicurare. Ora mi pare che le disposizioni dello statuto del

contribuente prima di tutto non possano essere con considerate

come norme meramente programmatiche e quindi come tali avrebbero

potuto dispiegare profonde conseguenze quando ci muoviamo su un

profilo completamente diverso quale rapporto tra amministrazione

finanziaria e contribuente, ma soprattutto mi pare che le

disposizioni dello statuto, proprio per la complessità dei

principi che esprimono, proprio per il loro valore che trascende

le disposizioni manifeste cui inizialmente si riteneva di poter

intravedere, le disposizioni dello statuto del contribuente

attraversano in modo orizzontale, in modo verticale l'intero

sistema sanzionatorio amministrativo oltre che poi i profili

immediatamente riferibili alla posizione dell'amministrazione

finanziaria e all'attività che la pubblica amministrazione può

esercitare. Allora, componendo questi aspetti, si deve

innanzitutto respingere l'idea che il profilo sanzionatorio sia

sganciato rispetto al momento delle garanzie, ma soprattutto si

deve anche respingere l'idea che le disposizioni dello statuto

del contribuente esauriscano il proprio valore sotto un profilo

meramente programmatorio, di principio, e quindi non possono

dispiegare effetti ben precisi nel momento in cui si guarda le

disposizioni di carattere anche sanzionatorio, amministrativo e

penale.se guardiamo le norme dello statuto del contribuente si

deve innanzitutto riconosce come riflessi di carattere

sanzionatorio, amministrativo e penale siano molteplici. Già nel

corso della mattinata, lo diceva il professor Marongiu, è poi

anche in precedenza il professore D' Ayala Valva, si è avuto

modo di sottolineare come le disposizioni collocate

nell'articolo 2 dello statuto, la chiarezza e la trasparenza

delle disposizioni legislative. Le disposizioni contemplate

nell'articolo 10, il principio di buona fede, di affidamento; le

disposizioni contenute nei commi secondo e terzo dell'articolo

19 possono dispiegare profonde considerazioni sotto il profilo

esplicitamente tributario. Infatti se l'articolo 2 che

l'articolo 10 dello stato del contribuente ci fanno agevolmente

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comprendere come appunto talune disposizioni che sono contenute

nella normativa sanzionatorio penale, l'articolo 10 del decreto

472 del 97, penso poi ai principi più volte manifestati dalla

Corte Costituzionale con riferimento alle clausole di esclusione

della responsabilità, possono appunto discendere nel momento in

cui le disposizioni di carattere, contenute nelle statuto,

possano far applicazione nell'ambito dell'ordinamento

tributario. Si deve ricordare che le disposizioni in materia

sanzionatorio a e amministrativa e quelle di carattere penale

che a loro volta avevano avuto verso la fine degli anni 81

esplicita affermazione nell'ambito dell'ordinamento penale

inducono a ritenere che a fronte di disposizioni che non

esprimono in modo chiaro il diritto alla conoscenza come

ricordava stamattina il professor Marongiu, che esprimano delle

indicazioni da parte dell'amministrazione finanziaria non del

tutto rispondenti a quegli elementi che derivano dalla posizione

del contribuente, penso a punto alle situazioni che oggi trovano

largo riscontro nell'ordinamento positivo, inducono a farci

riconoscere come appunto si possano invocare disposizioni che

trovano una prima collocazione nelle disposizioni a punto dello

statuto, ma che poi trovano un agile collegamento con le

disposizioni contenute nell'ordinamento, anche di carattere

ordinario. L'articolo 10 dello statuto del contribuente, per

esempio nell'enunciare il principio di buona fede, di tutela

dell'affidamento, poi il secondo comma e il terzo comma

dell'articolo 10 dello statuto del contribuente possono offrire

elementi significativi nel momento in cui si va ad dare un campo

applicativo,una sfera applicativa, le disposizioni dello Stato.

Il contribuente che si conformi alle disposizioni provenienti

dall'amministrazione finanziaria può appunto invocare un

atteggiamento coerente con le disposizioni dello statuto per,

per esempio, evitare l'applicazione di carattere sanzionatorio.

L'articolo 10 terzo comma dello statuto che, per esempio,

esclude l'applicabilità di disposizioni di carattere

sanzionatorio quando il contribuente si sia per esempio

conformato a disposizioni di carattere penale che esauriscono la

loro sfera applicativa nell'ambito dell'applicazione delle

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sanzioni penali, costituiscono un'efficace momento di raccordo.

Tant'è vero che nell'articolo 6 dello statuto del contribuente

si esclude l'applicabilità di sanzioni penali nel momento in cui

il contribuente abbia semplicemente dato applicazione a

disposizione di carattere penali ovvero non abbia dato

applicazione a queste stesse disposizioni, ma non abbia posti in

essere comportamenti che invece abbiano determinato una

violazione sostanziale delle disposizioni di carattere

tributario. Anche poi con riferimento all'articolo due lo

statuto del contribuente, norma che è stata semplicemente

interpretata come norma programmatica, priva di un significato

avere proprio, mi pare che non potendo distinguersi fra norme di

carattere programmatico e norme di carattere precettivo, tutte

le disposizioni comprese quelle che individuano le modalità che

in precedenza il professor Marongiu definiva come "modalità di

reperimento" o che possiamo più in generale definire quelle

disposizioni che orientano la lettura delle disposizioni

consentono anche al contribuente di dare applicazione alle

disposizioni medesime; diciamo che anche questi aspetti possono

essere facilmente invocati nell'ambito dell'ordinamento

tributario. Quindi volendo riassumere i profili che emergono dal

confronto fra norme dello statuto e norme della disciplina

sanzionatoria, si deve senz'altro riconoscere che il

coordinamento fra l'articolo 2 e l'articolo 7 offre ulteriori

elementi che possono anche consentire di applicare norme di

carattere sanzionatorio in funzione dell'esplicazione di

disposizioni di carattere tributario. Questi aspetti poi

meritano di essere ulteriormente approfonditi se si guarda ad un

altro elemento che la Corte di Cassazione negli ultimi tempi ha

più volte evidenziato, le disposizioni dello statuto del

contribuente vanno non solo lette e interpretate e definite

nella loro sfera applicativa ma devono anche consentire un

fondamentale strumento di interpretazione secondo le

disposizioni dello statuto. Quindi al di là del significato che

l'espressione adoperate dal legislatore può assumere, le norme

devono assolvere ad un ulteriore funzione cioè quella di

orientare l'attività interpretativa del contribuente e del

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soggetto stesso. Questi altri elementi possono ulteriormente

consentire di dare applicazione a norme di carattere

sanzionatorio. Pensiamo presente le disposizioni contenute

nell'articolo 7, per esempio, della legislazione in materia

penale, del decreto 482 del 1997, che nell' individuare i

criteri di applicazione delle disposizioni transitorie impongono

anche una valutazione di carattere complessivo che si presta ad

essere meglio collegata alle disposizioni dello statuto del

contribuente. Per esempio l'articolo 7 in materia dello Stato

del contribuente fa riferimento a comportamenti che poggiano

sull'atteggiamento del soggetto, per esempio il richiamo al

dovere di collaborazione, il richiamo ai principi di buona fede,

il richiamo dei comportamenti che consentano anche di

ristabilire un equilibrato diritto fra contribuente e

amministrazione finanziaria possano diventare strumenti utili

nella determinazione per esempio dei criteri di determinazione

della prestazione di carattere tributario. Un comportamento del

contribuente che si conformi ai principi di collaborazione, ai

principi di buona fede, può meglio consentire l'applicazione di

carattere tributario delle disposizioni riguardanti le sanzioni.

Molto spesso gli uffici finanziari quando applicano norme di

carattere tributario tendono soprattutto ad applicare minimi e

massimi ma senza guardare al comportamento soggettivo fra il

contribuente e amministrazione finanziaria che invece va

definito, costruito e immaginato alla luce di quei principi come

buona fede, collaborazione e tutela dell'affidamento, che

possono rilevarsi particolarmente efficaci. C'è un altro aspetto

che va approfondito, questa volta è il rapporto tra le

disposizioni in materia di retroattività; di applicazione delle

disposizioni di carattere interpretativo e di applicazione delle

disposizioni in materia di decreto-legge, quindi le disposizioni

1,3,4 dello statuto del contribuente e le disposizioni ancora

una volta in materia di sanzione. già nel corso della mattinata

questi temi sono stati approfonditi e soprattutto si è potuto

verificare come molto spesso norme, come quelle definite sulle

metanorme, hanno una funzione di mera indicazione programmatica,

per cui il legislatore quando utilizza norme interpretative,

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attraverso disposizioni di rango successivo o anche superarlo.

Quando nell'ottica di norme riguardanti le disposizioni in

materia di retroattività o in materia di utilizzo di sanzioni,

anche qui il legislatore può spesso ignorare quella loro stessa

portata alla luce della r deroga abilità o della possibilità di

superare, attraverso norme ulteriori di rango modificativo, le

disposizioni riguardanti la materia dello statuto del

contribuente. Anche queste considerazioni, mi pare, non possano

essere sostenute e possono anche meglio analizzarsi e valutarsi

nel momento in cui si guardano profili di carattere

sanzionatorio. La legislazione dello statuto del contribuente

prevede la clausola dell'autoqualificazione e prevede la

derogabilità se non in modo espresso, salvo una disposizione di

rango transitorio oppure modificativo qualora in ossequio al

principio della sovranità popolare si intende seguire questa

particolare impostazione. È accaduto così negli ultimi tempi che

norme interpretative siano state frequentemente adoperate è che

anche norme che adottino decreti legge oppure norme di carattere

interpretativo possano essere frequentemente adottate. Si è

visto proprio nella relazione di questa mattina del notaio di

Paola che il legislatore molto spesso adopera altre espressioni,

si utilizzano forme di questo genere senza però rispondere in

modo rigoroso alle disposizioni sia in materia di statuto del

contribuente che alle disposizioni in materia di retroattività.

A mio parere, la soluzione che andrebbe anche ulteriormente

sviluppata nella giurisprudenza, le norme contenute

nell'articolo 1,3,4 dello statuto del contribuente sono norme

condizionanti, cioè norme che presuppongono l'adozione da parte

del legislatore ordinario di quelle tecniche e di quelle

modalità che lo statuto contempla. Quindi se viene adottata una

norma che rispetta le prescrizioni poste dall'art.1, perché vi

sia stata per esempio una violazione, oppure l'articolo 3 o

articolo 4, solo in presenza di queste condizioni le

disposizioni di rango successivo possono ritenersi rispondenti

alle disposizioni dello statuto. Se una norma ordinaria, quindi,

interpreta la norma sotto il profilo, per esempio come si è

visto nel corso della disposizione di stamattina, senza una

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precisa indicazione in tal senso, quindi il legislatore

qualifica una norma come di rango generico ma non imponga il

rispetto delle condizioni previste dallo statuto, allora questa

disposizione proprio perché non risponde all'efficacia

condizionante che la norma debba comportare può operare soltanto

per il futuro. La corte di cassazione con una sentenza molto

recente, la sentenza 22 gennaio del 2007, chiarisce che quando

una disposizione ancorché qualificata come retroattiva non

presenti quelle connotazioni in termini di retroattività può

operare esclusivamente per il futuro. Quindi la disposizione

opera per il futuro ma non opera per il passato, in altri

termini se la norma presenta un'efficacia condizionante può

operare per il futuro ancorché la disposizione stessa

sembrerebbe operare per il passato. Ora si riguarda i profili di

carattere sanzionatorio di elementi possono assumere particolare

importanza perché appunto le disposizioni di carattere

sanzionatorio muovono il profilo della retroattività o

irretroattività a seconda del comportamento posto a carico del

soggetto privato. Il soggetto privato può giovarsi di situazioni

di rango anche interpretativo, lui favorevole, quando la

disposizione di rango retroattivo givi nei suoi confronti,

mentre poi la disposizione posta dall'articolo 3 dello statuto

del contribuente opera per il futuro se il comportamento giova

nei confronti di quest'ultimo. Le disposizioni dello Stato del

contribuente evidenziano i due momenti, il soggetto che opera

per il futuro si trova in una clausola, quella dell'articolo tre

dello statuto del contribuente per lui favorevole, la norma

retroattiva opera solo se si tratta di una norma lui favorevole,

la norma successiva opera invece in senso superfluo. Questo

profilo induce quindi chiaramente ad operare in una funzione che

collega la disposizione di carattere transitorio,favor rei,

ovvero la disposizione di carattere sanzionatorio a seconda del

comportamento stesso. Ancora una volta, tirando il comportamento

del contribuente e quindi operando sotto il profilo

classificatorio bisogna considerare che le norme dello statuto

del contribuente sono di carattere retroattivo e operano in

senso interpretativo, diversamente per quanto concerne invece

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comportamenti del contribuente. Guardando ancora e profili che

interessano agli elementi sanzionatori bisogna appunto

comprendere che il legislatore tributario nell'assumere il

principio di fissità, nell'assumere il principio di

classificazione, opera in funzione auto limitativa della propria

sovranità popolare, è in questa prospettiva i principi di

garanzia che lo statuto del contribuente offre e in particolar

modo i principi generali dell'ordinamento che condizionano

l'ordinamento tributario possono dispiegare i suoi effetti sia

sotto il profilo sostanziale che sotto il profilo invece

processuale sanzionatorio. Grazie.

Avv. Licia Fiorentini.

“I vizi degli atti tributari e lo Statuto del contribuente”

1.- Premessa. 2.- Rapida panoramica sul regime delle invalidità nel sistema tributario: nullità ed annullabilità

dell’atto tributario, secondo i dettami degli artt. 21 septies ed octies L. 241/1990. 2.1.- Riflessioni circa

l’esaustività dogmatica del richiamo all’art. 21 septies L. 241/1990 in tema di nullità, a tutela delle prerogative

statutarie. 2.2.- Nullità nello Statuto del contribuente: mancata indicazione del responsabile del procedimento. 2.3.-

Ancora, in tema di annullabilità dell’atto tributario. Sulla natura meramente formale o sostanziale delle norme

statutarie. 3.- Conclusioni.

1.- Premessa.

Scopo di questo lavoro non è quello di arginare compiutamente il

mare magno delle invalidità dei provvedimenti tributari208,

espresse e latenti nello Statuto del contribuente, ma, più

semplicemente, di esaminare alcuni singoli temi di invalidità,

alla luce del perenne confronto dialettico tra i principi che

regolano la materia amministrativa e quelli che, in via speciale

e, di certo, autonoma, regolano la materia tributaria, specie in

tema di tutela del giusto procedimento209.

208 Per un’analisi completa della problematica, vedi F. Tesauro, “L’invalidità dei provvedimenti impositivi”, in Boll. Trib., n. 19/2005, pp. 1445 ss.. 209 Si pensi, da ultimo, alla pronunzia della sentenza della Cass., SS.UU. 25 luglio 2007 n. 16412, la quale, risolvendo il contrasto di giurisprudenza sul tema, ha affermato che “l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto

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In particolare, la questione delle invalidità si è, da ultimo,

riproposta con prepotenza nel panorama statutario per dare voce

e corpo al polverone innalzatosi, dapprima con la ordinanza

della Consulta210, con la quale si è riesumato dall’oblio

l’interrogativo circa il peso da dare all’art. 7, comma 2, L.

212/2000211 sull’inserimento dell’indicazione del responsabile

del procedimento nel contenuto tassativo degli atti tributari

dell’Agenzia delle Entrate e dell’Agente della Riscossione; poi,

con l’intervento successivo del Legislatore212, con il quale

quest’ultimo ha voluto fornire una risposta inequivocabile pro

futuro, con la previsione di una nullità testuale per l’ipotesi

di mancata indicazione del responsabile del procedimento nelle

cartelle di pagamento, escludendo il medesimo rigore

sanzionatorio per il passato.

La conseguenza dell’istantaneo risveglio della parola imponente

del Legislatore in un tanto laborioso, quanto faticoso processo

di definizione razionale e coerente del regime delle invalidità

dei provvedimenti tributari, rischia di rallentarne un

consequenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta di impugnare, per tale semplice vizio, l’atto consequenziale notificatogli – rimanendo esposto alla successiva azione dell’amministrazione, esercitatile soltanto se siano ancora aperti i termini per l’emanazione e la notificazione dell’atto presupposto – o di impugnare cumulativamente quest’ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria”, in banca dati fisconline, www.ilfisco.it., dando il giusto risalto alla necessità che le regole sul procedimento vengano rispettate dall’amministrazione finanziaria. Sul tema A. Cissello, “I vizi degli atti tributari nella segmentazione del prelievo. L’omessa notifica dell’atto presupposto”, in Il fisco, n. 8, 2008, pp. 1359 ss 210 Cfr. Corte Cost., ord. 05 novembre 2007 n. 377 (Pres. Bile, Red. Cassese), con la quale è stata dichiarata “manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, della L. 212/2000, sollevata in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97 della Costituzione. L’obbligo di indicazione del responsabile del procedimento non costituisce un adempimento di scarsa utilità posto a carico dei concessionari della riscossione bensì ha lo scopo di assicurare la piena informazione del cittadino / contribuente e garantire il diritto di difesa, altrettanti aspetti del principio di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione”, in banca dati fisconline, www.ilfisco.it. 211 Sul tema, vedi Abruzzese “Il principio di trasparenza negli atti dell’amministrazione finanziaria alla luce dello Statuto dei diritti del contribuente”, in Giust. It., 2001, 9 ss.; Buscema, Forte, Santilli, “Statuto del contribuente, analisi dottrinale ed evoluzione giurisprudenziale”, Padova, 2002, pp. 733 ss.; Magistro, “L’avviso di accertamento”, in Corr. Trib., 2002, 733 ss.. 212 D.L. 31 dicembre 2007 n. 248 (G.U. 31 dicembre 2007 n. 302), legge di conversione 28 febbraio 2008 n. 31, art. 36, rubricato “disposizioni in materia di riscossione”, comma 4 ter: “la cartella di pagamento di cui all’art. 25 del Dpr 602/1973, e successive modificazioni, contiene, altresì, a pena di nullità, l’indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e di quello di emissione e notificazione della stessa cartella. Le disposizioni di cui al periodo che precedente si applicano ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1° giugno 2008. La mancata indicazione dei responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento relative a ruoli consegnati prima di tale data non è causa di nullità delle stesse”, in banca dati fisconline, www.ilfisco.it. Sul punto, è interessante notare come l’Agenzia delle Entrate si sia subito adeguata all’iniziativa legislativa con il provv. 22 aprile 2008, prot. N. 44128, in banca dati fisconline, www.ilfisco.it.

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inquadramento unitario e sistematico, contribuendo apertamente a

creare non poche perplessità, in ordine alla capacità di

adattamento delle norme amministrativistiche, in tema di

invalidità, al sistema speciale tributario. Le zone di ombra sui

limiti alla validità del provvedimento tributario potrebbero

essere sintomo di un “tallone di Achille” dello Statuto,

ovverosia la portata immediatamente precettiva del suo tessuto

normativo, a scapito dell’effettiva tutela del contribuente.

2.- Rapida panoramica su alcuni profili problematici legati al

regime delle invalidità nel sistema tributario: nullità ed

annullabilità, secondo i tratti designati dagli artt. 21 septies

ed octies L. 241/1990.

Il primo interrogativo da porsi nell’ambito della tematica delle

invalidità, consiste nel chiedersi quando il provvedimento

tributario possa dirsi compiutamente emanato dalla

Amministrazione Finanziaria e/o dal Concessionario ed, in

particolare, se lo stesso debba trovare specchio in un prototipo

indefettibile. Qualora la risposta possa dirsi affermativa, ci

si chiede quale debba essere la sanzione correlata al “vizio”

dell’atto tributario.

Innanzitutto, vista l’indiscussa trasferibilità, all’ambito

tributario, dei principi dettati dalla L. 241/1990, il primo

passo verso una connotazione più puntuale delle invalidità non

può che prendere le mosse da una prima analisi degli artt.

21septies ed octies L. 241/1990, rispettivamente disciplinanti

il regime della nullità ed annullabilità del provvedimento

amministrativo.

2.1.- Riflessioni circa l’esaustività dogmatica del richiamo

all’art. 21 septies L. 241/1990 in tema di nullità, a tutela

delle prerogative statutarie.

La disciplina amministrativistica distingue quattro ipotesi di

nullità, rispettivamente due legate a vizi intrinseci ed altre

due legate a vizi estrinseci dell’atto.

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.- carenza degli elementi essenziali dell’atto, da intendere

come nullità strutturale;

.- atto viziato da difetto assoluto di attribuzione;

.- atto adottato in violazione o elusione del giudicato;

.- altri casi espressamente previsti dalla legge, da intendere

come nullità testuale.

L’analisi della normativa porta, dunque, a rilevare che

quest’ultima, a differenza del regime civilistico delle nullità

ex art. 1418 c.c., non prevede espressamente “nullità virtuali”,

ovverosia quelle che, in ambito contrattuale, sono determinate

dalla contrarietà a norme imperative213.

Il primo interrogativo consiste, dunque, nel chiedersi se il

regime tributaristico delle invalidità debba discostarsi in

tutto o in parte da quello amministrativistico ed abbracciare,

al pari del sistema civilistico, anche nullità “sistematiche”.

In via affermativa, abbiamo, da ultimo, assistito ad una

pronunzia della Suprema Corte a Sezioni Unite, volta a

proteggere la sequenza procedimentale stabilita dalla legge, a

tutela della posizione soggettiva del contribuente e del suo

diritto di difesa, sanzionando con la nullità l’emanazione

dell’atto successivo, non preceduto dalla notifica dell’atto

presupposto, ove previsto214. Qualche interrogativo sulla

connotazione “virtuale” della predetta nullità nasce dal

constatare che il richiamato art. 21 septies L. 241/1990

riconduce la categoria delle nullità strutturali alla carenza

degli elementi essenziali dell’atto e non, in senso più ampio,

agli atti essenziali della procedura.

213 F. Gazzoni, “Manuale di diritto privato”, XII ed., Ed. Scientifiche italiane, Napoli, 2006, pp. 988 ss. 214 Qualche interrogativo sulla sussistenza delle nullità virtuali in ambito tributario potrebbe porsi in relazione alla sentenza della Cass., SS.UU. 25 luglio 2007 n. 16412, la quale, risolvendo il contrasto di giurisprudenza sul tema, ha affermato che “l’omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato e tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta di impugnare, per tale semplice vizio, l’atto consequenziale notificatogli – rimanendo esposto alla successiva azione dell’amministrazione, esercitatile soltanto se siano ancora aperti i termini per l’emanazione e la notificazione dell’atto presupposto – o di impugnare cumulativamente quest’ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria”, in bancadati fisconline, www.ilfisco.it. Sul tema A. Cissello, “I vizi degli atti tributari nella segmentazione del prelievo. L’omessa notifica dell’atto presupposto”, in Il fisco, n. 8, 2008, pp. 1359 ss..

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Ciò potrebbe palesare l’insufficienza del regime

amministrativistico delle invalidità a sopire le difficoltà

ricostruttive dei “vizi invalidanti” dell’atto e/o del

procedimento tributario, non espressamente codificati, ma

conseguenza sistematica della portata direttamente precettiva

dello Statuto del contribuente, a tutela del coacervo di

principi costituzionali inderogabili. Sembra opportuno

sottolineare che gli ostacoli ad una ricostruzione coerente ed

unitaria della teoria delle invalidità e, di conseguenza, le

difficoltà a far valere i diritti del contribuente nella

patologia del procedimento215, spinge autorevole dottrina216 a

valorizzare la figura del Garante217, quale incentivo alla

corretta cooperazione e collaborazione tra l’Amministrazione

finanziaria ed il contribuente nella fisiologia del rapporto.

2.2.- Nullità nello Statuto del contribuente: mancata

indicazione del responsabile del procedimento.

Circa le nullità testuali, lo Statuto del contribuente ne

conosce svariate tipologie, tra le quali ricordiamo la nullità

comminata dall’art. 6, comma 5, per l’ipotesi di iscrizione a

ruolo derivante dalla liquidazione di tributi risultanti da

dichiarazioni, non preceduta dall’invito a fornire

chiarimenti218, nonché l’art. 11, comma 2, seconda parte, il

quale, in via del tutto innovativa, sanziona, con la nullità

espressa, l’atto emanato dall’amministrazione finanziaria in

difformità alla sua stessa risposta all’istanza di interpello, o

215 Sulle difficoltà che si incontrano, nel panorama attuale, nella ricostruzione del diritto del contribuente al contraddittorio in fase di verifica fiscale ex art. 12 L. 212/2000, se non per le ipotesi espressamente previste dalla legge, vedi S. Capolupo, “Manuale dell’accertamento delle imposte”, V ed., Ipsoa, 2007, pp. 1048 ss., nonché S. Salvini, “La nuova partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo Statuto del contribuente ed oltre), in Riv. Dir. trib. n. 1/2000, pp. 39 ss. 216 In tal senso, F. d’Ayala Valva, “Il contribuente sottoposto a verifiche fiscali e l’intervento del Garante”, in Riv. Dir. trib., fasc. 2, 2003, p. 190; Idem, “Dall'ombudsman al garante del contribuente. Studio di un percorso normativo”, in "Riv. Dir. Trib.", 2000, pagg. 1037-1119. 217 S. Capolupo, Garante del contribuente ed atti degli enti locali, in "il fisco" n. 23/2005, fascicolo n. 1,pag. 3467; 218 In tal senso, ex plurimis, sent. n. 52 del 25 febbraio 2008 (dep. il 10 marzo 2008) della Comm. trib. reg. di Napoli, Sez. staccata di Salerno, Sez. V, in bancadati fisconline, www.ilfisco.it..

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in difformità dall’interpretazione o il comportamento tenuto dal

contribuente, nelle ipotesi di silenzio – assenso219.

Le nullità strutturali, ovverosia i vizi radicali attinenti alla

struttura dell’atto, viceversa, devono essere ricavate dal

sistema, considerato che, differentemente dalla normativa

civilistica, nella quale sono elencati, come tali, gli elementi

essenziali del contratto, quella tributaria non qualifica gli

elementi essenziali dell’atto tributario, ovverosia quelli che

lo connotano, sotto il profilo soggettivo, oggettivo, causale e

volontaristico220, a meno che non si ritenga che l’art. 7 L.

212/2000 sia esaustivo ed inequivocabile in tal senso, ma se

così fosse stato, alcun dibattito sarebbe potuto sorgere circa

l’essenzialità dell’indicazione del responsabile del

procedimento, ai fini della validità dell’atto.

Tipica espressione di provvedimento impositivo, affetto da

nullità strutturale, è quello carente di motivazione, ex art. 7,

comma 1, L. 212/2000.

L’essenzialità del requisito della motivazione, intesa anche

come indicazione dell’imponibile accertato, delle aliquote

applicate e delle imposte liquidate, è stata esplicitata

dall’art. 42 Dpr 600/1973, con il quale il Legislatore, mediante

il riconoscimento espresso di una comminatoria testuale di

nullità per l’ipotesi di mancata indicazione della motivazione

nel contesto de quo, ha inteso confermare e riconoscere, in via

generale, la natura strutturale della motivazione, ai fini della

validità dell’atto tributario.

Ultimamente abbiamo, poi, assistito ad un intervento

legislativo, alquanto bizzarro, in materia di indicazione del

responsabile del procedimento221, ex art. 7, comma 2, dello

Statuto del contribuente.

219 Gianni Marongiu “Lo Statuto dei diritti del contribuente”, Giappichelli, Torino, 2008. 220 Sul tema, V. Azioni, “La nullità del provvedimento tributario alla luce della L. 11 febbraio 2005, n. 15”, in Il Fisco, 2006, 13, 1932; G. Livrieri, “Il regime di invalidità dell’atto tributario dopo le modifiche alla L. n. 241/1990: riflessi sull’obbligo di motivazione”, in Il Fisco, 2007, 27, 3990. 221 Sulla figura del responsabile del procedimento nel diritto amministrativo, in dottrina, tra tutti, Cassese, “Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale”, Milano, 2003. Vedi anche, sull’indicazione del responsabile del procedimento nelle cartelle di pagamento, Cucchi, “La nuova disciplina della riscossione coattiva mediante ruolo (c.d. esecuzione esattoriale)”, Padova, 1999, nonché, alla luce dello Statuto del contribuente, Abruzzese “Il principio di trasparenza negli atti

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In particolare, dopo che la Consulta222 ha ritenuto che

“l’obbligo di indicazione del responsabile del procedimento non

costituisce un adempimento di scarsa utilità”, la giurisprudenza

di merito, ha recepito siffatta interpretazione, connotando in

modo differenziato l’invalidità derivante dalla violazione

dell’art. 7, comma 2, citato, ora ritenendo configurabile il

vizio di nullità, ora quello di illegittimità dall’atto 223. Da

qui, l’impellenza sentita dal Legislatore di dire la sua in

merito alla tipologia dell’eventuale vizio, statuendo che “la

cartella di pagamento di cui all’art. 25 del Dpr 602/1973, e

successive modificazioni, contiene, altresì, a pena di nullità,

l’indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a

ruolo e di quello di emissione e notificazione della stessa

cartella. Le disposizioni di cui al periodo che precedente si

applicano ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a

decorrere dal 1° giugno 2008. La mancata indicazione dei

responsabili dei procedimenti nelle cartelle di pagamento

relative a ruoli consegnati prima di tale data non è causa di

nullità delle stesse”224.

dell’amministrazione finanziaria alla luce dello Statuto dei diritti del contribuente”, op. cit., pp. 9 ss.; Buscema, Forte, Santilli, “Statuto del contribuente, analisi dottrinale ed evoluzione giurisprudenziale”, op. cit. , pp. 733 ss.; Magistro, “L’avviso di accertamento”, op. cit., 733 ss.. 222 Cfr. Corte Cost., Ord. 05 novembre 2007 n. 377 (Pres. Bile, Red. Cassese), cit.. 223 Ad esempio, CTR Roma, 24 gennaio 2008 n. 7, in bancadati fisconline, www.ilfisco.it, ha ritenuto che “la mancata indicazione del responsabile del procedimento nel corpo della cartella di pagamento notificata al contribuente costituisce manifesta violazione dell’art. 7, comma 2, dello Statuto del contribuente con conseguente illegittimità dell’atto della riscossione”; conforme CTP Lucca, 12 dicembre 2007, banca dati fisconline, www.ilfisco.it. Per la diversa sanzione della nullità della cartella non recante l’indicazione del responsabile del procedimento, vedi CTP Bari, 10 dicembre 2007 n. 445, in bancadati fisconline, www.ilfisco.it, secondo cui “è nulla la cartella di pagamento che non rechi l’indicazione espressa del responsabile del procedimento in violazione dell’art. 7 dello Statuto del contribuente dovendosi ritenere generalmente applicabili anche ai procedimenti tributari, fatte salve le esplicte eccezioni, le disposizioni di cui alla L. 2411990. Tale adempimento è volto a garantire la trasparenza e piena informazione del destinatario dell’atto, nonché fonte di responsabilità diretta del funzionario incaricato, oltre ad assicurare il pieno diritto di difesa e tutelare il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, bene giuridico costituzionalmente rilevante ex at. 97 Cost.”. Nello stesso senso, vedi anche CTP Lecce, 12 dicembre 2007 n. 517, in bancadati fisconline, www.ilfisco.it. In senso contrario, CTR Venezia, 14 giugno 2007 n. 49, in bancadati fisconline, www.ilfisco.it, secondo cui “l’art. 7 dello Statuto del contribuente non commina alcuna specifica sanzione di nullità nell’ipotesi in cui nella cartella di pagamento notificata al contribuente sia omessa l’indicazione del responsabile del procedimento. Peraltro, la sanzione della nullità degli atti riflette una patologia talmente grave che deve trovare manifesta giustificazione ed espressione nella normativa di riferimento”. 224 D.L. 31 dicembre 2007 n. 248 (G.U. 31 dicembre 2007 n. 302), legge di conversione 28 febbraio 2008 n. 31, art. 36, rubricato “disposizioni in materia di riscossione”, comma 4 ter, citata.

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Occorre, innanzitutto, notare la natura mista di tale

disposizione, interpretativa per il passato, innovativa per il

futuro. In specie, il Legislatore, disponendo la nullità

testuale della cartella di pagamento per i “ruoli consegnati225

agli agenti della riscossione a decorrere dal 1° giugno 2008”,

ha indirettamente riconosciuto l’essenzialità dell’indicazione

del responsabile del procedimento all’interno della struttura

della cartella di pagamento, dando, in qualche misura, risalto

alla volontà normativa, quale espressa nello Statuto del

contribuente, circa il contenuto tassativo dell’atto tributario,

quale previsto del comma 2 dell’art. 7 citato.

Qualora, dunque, il legislatore non avesse aggiunto l’altra

parte di norma, di natura interpretativa, volta ad escludere la

nullità dell’atto per il medesimo vizio, in relazione ai ruoli

consegnati prima del 01 giugno 2008, avremmo potuto pensare che

la questione circa la gradazione di invalidità, adottata per

l’ipotesi di mancata indicazione del responsabile del

procedimento, si fosse risolta come per l’ipotesi di carenza di

motivazione dell’atto ex art. 7, comma 1, L. 212/2000, sul cui

vizio, in tema di imposte sui redditi, il legislatore era

intervenuto con la sanzione della nullità testuale, di tal fatta

riconoscendo implicitamente l’essenzialità dell’elemento de quo

per qualsiasi altro atto di natura tributaria, affetto, dunque,

da nullità strutturale.

Diversamente a dirsi, la legge non ha di certo seguito la

falsariga passata, escludendo espressamente che la riconosciuta

invalidità potesse costituire motivo di nullità strutturale

dell’atto per le ipotesi di invalidità pregresse.

D’altra parte, qualora lo stesso avesse ritenuto che la mancata

indicazione del responsabile del procedimento non potesse essere

225 Si rifletta, sul punto, che il momento spartiacque della consegna del ruolo, previsto dalla norma, essendo attività interna dell’amministrazione finanziaria non compare nella cartella di pagamento, ponendosi, la norma de qua, in evidente contrasto con i principi della trasparenza amministrativa, oltre a non essere criterio adeguato al nuovo assetto normativo, il quale, volto a tutelare il momento esterno ed intellegibile del procedimento, ha voluto espellere dal suo fulcro, ovvero abrogare, tutte le norme che in qualche modo dessero rilievo alla formazione e consegna del “ruolo”, non monitorabili dal contribuente. Con il riferimento alla consegna del ruolo, il Legislatore ha, in qualche modo, reso discutibile ed indefinita il termine iniziale di efficacia della normativa, facendola divenire una mera condizione sospensiva di natura potestativa. La norma, sotto il profilo de quo, si espone a fortissimi dubbi di incostituzionalità.

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inserito tra i vizi formali o tra le violazioni delle norme sul

procedimento, non invalidanti in relazione ad atti vincolati

secondo l’art. 21 octies, comma 2, L. 241/1990, lo stesso non

avrebbe sentito l’esigenza di salvare il salvabile226,

riconoscendo la gravità del vizio per ruoli ancora non

consegnati.

Ci si domanda, quale scenario si sta prospettando in relazione a

giudizi ancora pendenti aventi ad oggetto cartelle di pagamento?

Innanzitutto, i giudici del merito non potranno che chiedersi se

le invalidità pregresse siano atte a provocare, a prescindere da

una diretta declaratoria di nullità dell’atto, l’annullamento

autonomo della cartella di pagamento per illegittimità di natura

invalidante, o se, l’intervento normativo, appositamente volto

a salvare i crediti dell’Amministrazione finanziaria ante legem,

debba ritenersi lesivo di vizi di identica natura e portata, con

evidente violazione dell’art. 3 Cost..

In particolare, l’indicazione del responsabile del procedimento

rappresenta il presupposto procedimentale, affinchè si possa

instaurare un corretto dialogo tra Amministrazione finanziaria e

contribuente, a tutela del coacervo di principi costituzionali

con esso protetti, quali il buon andamento, l’imparzialità

dell’Amministrazione finanziaria, da un lato, e la tutela del

diritto di difesa del contribuente, dall’altro. Il significato

sostanziale del quale è carico l’art. 7, comma 2, citato,

potrebbe far pensare che le norme poste a tutela del

procedimento, quali espresse dallo Statuto, siano principi

fondamentali del sistema tributario, come tali connotati da

imperatività. Se così stessero le cose e qualora il Legislatore

non avesse escluso in via interpretativa il vizio della nullità

per il passato, la violazione di siffatta norma posta a tutela

del procedimento, avrebbe dovuto rappresentare, se non una

nullità di natura strutturale (e l’avverbio “tassativamente”

confermerebbe siffatta tesi), una nullità di natura virtuale,

connessa al significato inderogabile dello Statuto.

226 Sulla gestione “soluta” del potere legislativo, vedi C. Ricci, “Norme intruse ed abuso dei decreti legge: la dichiarazione di incostituzionalità per carenza “evidente” dei presupposti di necessità ed urgenza”, Riv. Dir. fin. e sc. delle fin., 2008, 4, pp. 97 ss..

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L’esclusione normativa di siffatta impostazione interpretativa

porta, pertanto, solo a riflettere circa la natura invalidante

dell’illegittimità segnata. Rammentando la portata precettiva

dello Statuto, si dovrebbe escludere che i vizi del procedimento

e, nel caso di specie, la mancata chance di un giusto

procedimento in contraddittorio tra le parti, si possa ridurre

alla categoria delle mere irregolarità formali227, proprio in

virtù dei diversi interessi in gioco che contraddistinguono la

materia tributaria rispetto a quella amministrativa, ove il

modello ivi partecipativo correlato alla posizione giuridica

soggettiva di interesse legittimo vantato dal privato non sembra

trovare lo speculare parallelo in ambito tributario nel

parametro costituzionale della giusta imposizione ex art. 53

Cost.228, alla quale anelano, attraverso l’esaltazione delle

rispettive posizioni, sia l’amministrazione finanziaria ex art.

97 Cost. che il contribuente ex art. 24 Cost..

Sotto questo profilo è il Legislatore stesso che ha escluso la

natura non invalidante dell’illegittimità de qua, nella misura

in cui per le ipotesi future ha riconosciuto la gravità della

violazione, sanzionandola con la nullità.

Tra l’altro, anche se si ritenesse che le ipotesi di mancata

indicazione del responsabile del procedimento antecedenti alla

consegna del ruolo rappresentino vizi non invalidanti229, ci si

dovrebbe chiedere quali dovranno essere le loro sorti alla luce

dell’introduzione legislativa in discorso.

Sul punto, è facilmente percepibile che le eccezioni di

invalidità in corso non potranno che essere risolte in due modi

dal giudice del merito: potrà essere riconosciuta la natura

227 Ancora, nel diritto amministrativo, sulla figura del responsabile del procedimento, Renna, “Il responsabile del procedimento nell’organizzazione amministrativa, in Dir. amm., 1994, 13 ss; Russo, “La legge n. 241/1990 ed i nuovi aspetti della responsabilità amministrativa”, in Cons. Stato, 1992, 133 ss.. 228 Sull’argomento, vedi E. De Mita, “Principi di diritto tributario”, IV ed., Milano, 2004, pp. 83 ss.. 229 Si pensi, ad esempio, al principio consolidato, secondo cui la mancata indicazione dell’organo giurisdizionale competente, richiesto tassativamente tra gli elementi dell’atto tributario dall’art. 7, comma 2, L. 212/2000, non è vizio invalidante dell’atto, qualora il ricorso sia stato correttamente e tempestivamente presentato. In giurisprudenza, ex plurimis, Cass. Sez. V, 19 dicembre 2002 n. 7558, in banca dati fisconline, www.ilfisco.it.

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invalidante del vizio di illegittimità dell’atto230, salvando i

giudizi in corso dalle lungaggini di una eventuale rimessione

della questione di costituzionalità della norma interessata;

oppure demandando alla Consulta, come da ultimo è stato anche

fatto231, la questione di legittimità costituzionale di una

norma che, pur riconoscendo espressamente la nullità della

cartella, mancante di indicazione del responsabile del

procedimento, al contempo lanci una scialuppa di salvataggio per

tutte quelle già emesse, affette dal medesimo vizio.

2.3.- Ancora, in tema di annullabilità dell’atto tributario.

Sulla natura meramente formale o sostanziale delle norme

statutarie.

Il problema generale delle invalidità, ove non sia espressamente

comminata la nullità dell’atto tributario, si complica in

relazione al vizio dell’annullabilità del provvedimento

amministrativo. L’analisi della problematica parte dall’art. 21

octies della L. 241/1990. In particolare, l’attenzione della

norma de qua cade sul secondo comma, ove è previsto che non sia

annullabile “il provvedimento adottato in violazione di norme

sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura

vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto

dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in

concreto adottato”.

In particolare, la norma sembra volta a salvare gli atti

vincolati emessi in violazione delle norme sul procedimento o

sulla forma degli atti, salvo previo giudizio in ordine alla

correttezza del contenuto dell’atto.

C’è, in particolare, da chiedersi quali risvolti abbia tale

norma di stampo amministrativistico sul sistema tributario,

ricordando che lo Statuto del contribuente rammenta, al suo

230 Vedi nota di riferimento 13. 231 La CTR Venezia con ord. n. 8, 11 marzo 2008, dep. 10 giugno 2008, ha provveduto alla trasmissione degli atti alla Consulta, promuovendo la questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 4 ter, D.L. 31 dicembre 2007 n. 248, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 97 Cost., perché lesiva “del principio di uguaglianza, del principio di difesa nonché dei principi di imparzialità e buon andamento dell’attività della Pubblica Amministrazione”, in bancadati fisconline, www.ilfisco.it.

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interno, delle norme che sono state ritenute tipicamente poste a

tutela del giusto procedimento, come il termine utile al

contraddittorio anticipato ex art. 12, comma 7, L. 212/2000232,

per la cui violazione il Legislatore non ha previsto alcuna

comminatoria di nullità testuale, né tantomeno la stessa

potrebbe essere ricondotta, per carenza di un elemento

essenziale dell’atto, alla categoria della nullità strutturale.

Sul tema, circa il presupposto della restrizione del regime di

annullabilità degli atti a quelli aventi carattere vincolato,

occorre, innanzitutto, chiedersi se i provvedimenti impositivi

emanati dall’amministrazione finanziaria abbiano siffatta natura

o meno.

Pur non essendo questa la sede per addentrarsi in una

trattazione complessa circa la natura vincolata o meno degli

atti tributari, non sembra possa negarsi che l’atto tributario

sia connotato dall’assoluta assenza di discrezionalità

amministrativa233 nel potere di imposizione, strettamente

connesso alla sussistenza dei presupposti fattuali e di legge

che giustifichino, in linea di principio, l’obbligo del privato

alla contribuzione, secondo indici di capacità patrimoniale

diretta, o comunque indiretta.

Tralasciando, dunque, tale aspetto e dandolo per presupposto

della nostra analisi sommaria e panoramica, il pericolo insito

nell’applicazione della norma de qua è che qualsiasi violazione

di legge, afferente norme procedimentali o sulla forma degli

atti, non sia manifestazione di un vizio invalidante, o

comunque, non rappresenti un autonomo motivo di annullamento,

avulso da un previo esame meritorio circa l’illegittimità

sostanziale dell’atto, ovvero l’infondatezza della pretesa234.

232 Sull’argomento, vedi V. Azzoni, “Brevi note circa l’avviso di accertamento emanato in violazione del termine utile al contraddittorio anticipato (art. 12, comma 7, L. 212/2000)”, in Il Fisco, 2007, 8, pp. 1 – 59; Lombardi, “omessa redazione del processo verbale di verifica e violazione del principio del contraddittorio”, in Boll. Trib., 2005, 13, pp. 1026 ss.. R. Miceli, Il diritto del contribuente al contraddittorio nella fase istruttoria, in "Riv. Dir. Trib.", 2001, II, pag. 371. 233 Lupi, Motivazione degli atti impositivi e (ipotetici) riflessi tributari delle modifiche alla legge n. 241/1990, in "Dialoghi di diritto tributario" fasc. 4, 2005, pagg. 535-544 234 Sulla trasformazione in atto della natura del giudizio, da mero giudizio di “impugnazione – annullamento”, a “giudizio sul rapporto giuridico”, nel diritto amministrativo, vedi “Procedimento amministrativo – portata applicativa dell’art. 21 octies, comma 2, L. 241/1990”, a cura di L. Carbone, M. D’Adamo, in Corr. Giur., 2008, 1, 29.

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Il legame a doppio filo e la dipendenza dell’eccepita violazione

di norme sul procedimento o sulla forma dell’atto con una

eventuale infondatezza della pretesa ivi vantata, fa sì che il

riconoscimento della violazione della norma procedimentale o

sulla “forma” dell’atto, qualora sia applicata la disposizione

in esame, non trovi alcun tipo di autonoma tutela giudiziale,

non potendo – di per sé – condurre all’annullamento dell’atto

illegittimo, ma al più concorrere nella quantificazione di una

eventuale condanna alle spese, nell’ipotesi di annullamento

dell’atto infondato.

La Suprema Corte a Sezioni Unite235, dal canto proprio, si è

mostrata profondamente sensibile alla tematica del rispetto del

procedimento, intendendo comminare la nullità, forse virtuale,

in ogni caso sistematica, dell’atto emanato in violazione delle

regole sul procedimento. Alla luce di quest’ultimo intervento,

al quale poteva seguire il riconoscimento della validità

dell’atto - perché in concreto legittimo e/o fondato, seppur

emesso a seguito di una sequenza procedurale incompleta, ovvero

illegittima – sembra opportuno ridimensionare la completa

aderenza dell’art. 21 octies citato alle peculiarità della

materia tributaria ed alle fondamenta sostanzialistiche, sulle

quali si poggiano, sia lo Statuto del contribuente, che la

derivata tutela del procedimento, inteso quale espressione

primaria dei principi da quello promanati, di buona

amministrazione236, da un lato, e di tutela della difesa del

privato, dall’altro, fermo restando che i rapporti tra le parti

debbano comunque essere improntati a collaborazione e buona

fede237.

La mancanza di una teoria unitaria delle invalidità e le

problematiche connesse alle difficoltà di individuare le diverse

graduazioni di vizi invalidanti, impaccia qualsivoglia analisi

235 Si rimanda alla nota di riferimento n. 6. 236 F. d'Ayala Valva, Il volto nuovo del fisco. Riflessioni sull'attuazione dell'art. 97 della Corte costituzionale, in Nuovi studi politici, 2003. 237 E. Della Valle, “L’affidamento nella certezza del diritto tributario (studi preliminari)”, Atena, Roma, 1996.

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delle differenze tra categorie giuridiche di invalidità

(annullabilità e nullità).

In particolare, seguendo l’art. 21 octies L. 241/1990 si rischia

di annullare totalmente qualsiasi forma di tutela del

contribuente per vizi dell’atto o del procedimento, per i quali

non vi sia alcuna comminatoria espressa di nullità, qualora

l’esame giudiziale del merito riveli una sostanziale fondatezza

della pretesa.

Occorre riflettere sulla possibilità che l’art. 21 octies

citato, acriticamente trasposto nel sistema tributario delle

invalidità, possa anche sanare nullità sistematiche latenti ed

espresse e, dunque, tutti quei vizi che, pur coinvolgendo

istanze garantistiche statutarie, anziché essere sottoposte ad

una previa declaratoria di nullità, portino ad un giudizio di

accertamento negativo, per raggiungimento dello scopo.

La confusione tra le prerogative proprie di ogni tipologia e

regime di vizio, d’altra parte, è facilmente percepibile nella

diatriba giurisprudenziale in tema di mancata indicazione delle

aliquote d’imposta concretamente applicate all’accertamento, ex

art. 42 Dpr 600/1973. Nonostante, difatti, la norma preveda che

il difetto de quo comporti la nullità espressa dell’atto, si è

discusso a lungo sulla natura invalidante o meno del vizio,

riconosciuta, in parte, a prescindere dall’accertamento

meritorio delle conseguenze del vizio238, ma in parte, nelle

sole ipotesi in cui “il giudice di merito ritenga che tale

omissione non abbia pregiudicato il contribuente”239.

3.- Conclusioni.

Seppur la tematica delle invalidità debba dirsi ancora oggi

irrisolta, è opportuno non cadere in categorizzazioni assolute,

che portino ad affermare che le violazioni delle norme sul

238 In tal senso, Cass., sez. V, 27 febbraio 2008 n. 15381, in bancadati fisconline, in www.ilfisco.it. 239 In tal senso, Cass., Sez. V, 05 febbraio 2008 n. 9784, in bancadati fisconline, in www.ilfisco.it. Non ci sarebbe da meravigliarsi se ci si trovasse dinanzi al disconoscimento del vizio invalidante della mancata indicazione delle aliquote, qualora il giudice ritenesse fondata nel merito la pretesa.

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procedimento o sulla “forma” degli atti siano mere irregolarità

o, comunque, vizi “non invalidanti”.

Se così fosse, a distanza di oltre otto anni dall’entrata in

vigore della L. 212/2000, si dovrebbe ritenere che tutte le

norme statutarie, preposte a tutela del giusto procedimento,

siano mere formalità e che la dinamica del rapporto non possa

trovare in esso adeguate garanzie. Pertanto, le gradazioni delle

invalidità, a tutt’oggi, non possono ritenersi cristallizzate

nelle specie volute dalla L. 241/1990, bensì assumono colori

distinti ed, a tratti, sorprendenti, non solo nella dinamica del

diritto vivente delle aule giudiziarie, ma anche nelle scelte

del Legislatore.

Nel lento percorso di affermazione delle garanzie statutarie di

buona amministrazione e difesa del contribuente, attraverso la

leale collaborazione tra le parti nel procedimento e nel

processo240, molte problematiche rimangono ancora irrisolte, sia

in relazione allo stato di avanzamento del sistema tributario

verso una effettiva attuazione dei principi costituzionali e

statutari, sia la capacità dello Statuto di raccogliere domande

autonome e concrete di tutela di singole situazioni soggettive

attive, e rispondere ad esse con una sanzione “invalidante”241.

Gli interrogativi strettamente connessi sono in linea generale

ancora imbrigliati, trovando, di volta in volta, singole

risposte, esemplificative, ma non sempre convergenti. E se, come

vuole Kierkegaard, è vero che “i concetti astratti sono, come la

linea retta, invisibili; visibili solo nelle concrezioni”242, lo

Statuto del contribuente è la nostra linea retta ed i suoi

contenuti, plasmati nella attuazione, ne sono la concrezione.

FINE

240 F. d’Ayala Valva, “L’onere della prova ed il principio di collaborazione fra pubblica amministrazione e contribuente nella fase amministrativa e nella fase processuale”, in “Riv. Dir. Trib”. Fasc. 4, 2002, 264-281. 241 Sulla necessità di tutela effettiva del cittadino, in relazione a tutte le situazioni giuridiche soggettive, a prescindere da categorizzazioni assolute, vedi A. Proto Pisani, “Le tutele giurisdizionali dei diritti”, Jovene, Napoli, 2003, pp. 709 ss.. 242 S. Kierkegaard, “Papirer”, a cura di P.A. Heiberg – V. Kuhr – E. Torsting, Kobenhavn, 1909 – 1949, II, A, 496.

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