LO CHIAMAVANO GIACINTO

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Giacinto Facchetti è stato uno dei più grandi simboli del calcio italiano e della centenaria storia dell'Inter. Vicecampione del mondo in Messico nel '70, campione d'Europa a Roma nel '68, ha giocato con la Nazionale azzurra 94 partite, delle quali 70 da capitano. In nerazzurro ha giocato 728 partite ufficiali, vincendo quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Famoso in tutto il mondo per le doti di "cannoniere" (come si diceva una volta), ha segnato in serie A 59 gol, record di tutti i tempi per un difensore

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1.Quando nascevano i Giacinti

(dove Facchetti scopre il calcio, incontra Meazza e Herrera, conquista l'Inter)

Quei nomi innanzitutto. Antichi. Guerrieri o gentili, remini-scenze greche e latine, di gentes romane, ricordo di uomini ardi-ti, di fiori profumati. Giuliano, Tarcisio, Giacinto, Aristide,Armando... Nomi di italiani in gita. Sarti-Burgnich-Facchetti-Tagnin (poi Bedin)-Guarneri-Picchi. Non è una formazionedell’Inter, è una filastrocca generazionale. Non è una squadra dicalcio, è una nenia di mamma, di quelle che ti fanno coraggio,l’auspicio bambino di una notte serena e di un giorno migliore.È un pezzo di storia collettiva. Titolari e riserve, campioni e gre-gari, tutti evocano un Paese antico che resiste alla trasformazio-ne. Ci sono Enea (Masiero), Aurelio (Milani), Saul (Malatrasi).C’è Spartaco Landini. Persino i nomi comunissimi si fanno par-ticolari. Sandro diventa Sandrino, Mario è Mariolino, come neibar dello sport o nei negozi di barbiere della desolata periferia,nelle mille via Gluck: diminutivi, vezzeggiativi, che rendonounica anche la più operaia delle esistenze.

Giacinto nasce a Treviglio, il 18 luglio del 1942. Il padre Feliceè ferroviere, la madre Elvira lavora in casa. Giacinto ha un fratello,Luigi e tre sorelle, Franca, Giovanna, Giuseppina, che in famigliachiamano Pina. Una vita fatta di piccole cose e poche pretese.Giacinto è un nome candido, a un violento potrebbe fare violenzaper una vita intera, ma Facchetti è un mansueto, va subito d’accor-do col proprio nome. Un giorno la maestra dà un compito in clas-se: che cosa vorreste fare da grandi? «Il muratore» scrive Giacinto.Che cosa potrebbe volere di più un ragazzo povero della bergama-sca, terra di capimastri e carpentieri che ancora oggi affollano l’au-

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tostrada o la vecchia Rivoltana? Ormai tutti padroncini e impresa-ri edili, all’assalto del ricco mercato milanese del cemento armatoe delle ristrutturazioni chiavi in mano.

Al ragazzo piace cantare, lo fa nel coro della parrocchia finoagli undici anni d’età. È ben intonato: una volta, quando è giànelle giovanili dell’Inter, i ragazzi nerazzurri si aggiudicano nonsolo il torneo al quale partecipano, ma anche una goliardicacoppa per il miglior coro. La vincono cantando Marina, gli arte-fici dell’exploit sono Dellagiovanna, Vincenzi e proprioFacchetti. Un’altra volta, già affermato, racconta a un settimana-le illustrato di quanto gli piaccia cantare in casa insieme allamoglie e alle due figlie già nate («magari anche a tavola. E insie-me facciamo anche i cori» dice). In famiglia, oggi, lo ricordanocanticchiare soprattutto in automobile: i motivi degli anniSessanta, i successi di Modugno o Morandi, i cori degli alpini. Incasa, da qualche parte, deve ancora esserci una vecchia cassettaaudio con Giacinto e i bambini che intonano Sul cappello.

È il calcio, però, a farsi strada nella vita del giovanissimoFacchetti. Lo prende pian piano, lo strega, infine gli affolla le gior-nate. Frequenta i salesiani, poi l’oratorio Sant’Agostino, appenanato a trecento metri da casa: basse palazzine popolari, attorniateda campi e cascine, all’angolo tra via Giotto e via Casnida, che ogginon esistono più. «Facevo il giocatore-allenatore-massaggiatore-presidente-difensore-attaccante del Rapid e delle Schiere Azzurre»ricorderà anni dopo Giacinto. Mette insieme squadre e con questepartecipa ai moltissimi tornei che si disputano in zona. Gioca daterzino sinistro, come il padre Felice, calciatore nella squadra deiferrovieri anni prima, ai tempi della prima guerra mondiale. Felice,capo della squadra deviatori alla stazione di Treviglio, asseconda lapassione del figlio, lo porta sui campi da gioco sulla canna dellapropria bici, ma non confida molto (agli inizi) nelle sue qualità. Èun genitore vecchio stampo. Chi non lo è in quell’Italia ancorapatriarcale, appena uscita da una guerra rovinosa. Inflessibile,intransigente, onesto e disciplinato, lo giudica Giacinto anni dopo,diventato a sua volta uomo e padre: «Quando non gli ubbidivo midava pesanti ceffoni, se ho alcune buone qualità, penso proprio di

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averle ereditate da lui». È ancora lontanissima la rivoluzione cultu-rale che il Sessantotto imporrà al rapporto padre-figlio. Il premioper le vittorie di quei tanti Rapid-qualcosa è spesso null’altro cheun bicchiere di spuma ghiacciata. Ma ci sono tornei più importantidegli altri, in questi casi ai vincitori possono toccare anche cinque-cento lire a testa. Una sera Giacinto rimedia una multa: mille lireper essersi presentato, e aver giocato, in canottiera. Inutile far nota-re che la sua squadretta è così male in arnese da non avere neppu-re undici maglie di uguale foggia e colore. Niente, mille sono emille lire di multa restano. Quella volta, papà Felice è una furia:volano anche un paio di sberle. Al vecchio Facchetti non piacevaspendere soldi in sciocchezze. Il vecchio, ai figli, ripeteva spesso:«Meglio un solo vestito, ma pulito».

Giacinto gioca terzino, si diceva, ma ama fare gol. Quando lecose si mettono male, va in attacco per rimediare allo svantaggio,vuole sempre essere dove si trova la palla, prendere parte al gioco.Anni dopo si discuterà molto del terzino “cannoniere” (come sidiceva una volta) dell’Inter, della scelta rivoluzionaria di Herreradi votarlo all’offesa sistematica, dell’invenzione del terzino fluidi-ficante. Pochi, invece, ricorderanno che tutto era già nato sui cam-petti dall’erba incolta della bassa bergamasca. La prima vera squa-dra di Giacinto-bambino è la Mario Zanconti: ci giocano i ragazzipiù promettenti dell’oratorio Sant’Agostino, dove ci si divide inSchiere Azzurre e Azzurri. «Nelle prime i più grandicelli, negliAzzurri i nati del ’42 e del ’43, tranne lui che era già enorme, adul-to di fisico e di temperamento, subito in campo con le SchiereAzzurre» ricorda Domenico Casati, compagno d’infanzia diFacchetti, oggi allenatore, un passato da difensore in serie A conJuve, Atalanta, Brescia e Pisa. Nelle giornate di Giacinto c’è il cal-cio ma anche ogni altro tipo di sport praticabile. Corre gli 80 metri,gli 80 ostacoli, i 400 piani, gli 800, i mille, salta in alto, in lungo,fa le staffette veloci. E poi la pallavolo, la pallacanestro, per tremesi frequenta persino un corso di rugby. Nel ’54 vince la gara dei600 metri di corsa campestre alle “olimpiadi” del Vittorioso, il set-timanale per ragazzi di ispirazione cattolica che in quegli annivende centinaia di migliaia di copie. È alle scuole superiori, però,

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all’istituto tecnico Guglielmo Oberdan dove studia ragioneria, cheintensifica la pratica della corsa: a sedici anni è campione provin-ciale studentesco, corre gli 80 metri ostacoli in 10 secondi e 8. Ha«un personale di 8”9 sugli 80 metri a 17 anni quando primatistaera Ottolina con 8”8», si legge in uno dei suoi più bei ritratti gior-nalistici. Circostanza che può contribuire alla mitologia del super-Facchetti, ma che trova smentita autorevole nello stesso SergioOttolina, recordman europeo dei 200 negli anni Sessanta e storicoantagonista di Livio Berruti: «Correvo gli 80 in 9 secondi e 2, èdifficile che Giacinto abbia potuto fare meglio. Aveva leve troppolunghe, più adatto al mezzofondo che allo sprint». Il ragazzo diTreviglio, comunque, è un agonista nato, uno splendido risultatodella genetica. Un atleta di Lussino, un Apoxyòmenos che affron-ta la gloria con quiete e compostezza, ma è il calcio ormai la suaragione di vita. Poco gli importa se nella corsa potrebbe avere unfuturo, si nutre della lettura del Calcio illustrato e la domenica, alcinema dell’oratorio, prima del film non si perde mai La settima-na Incom, unico modo per vedere all’opera i campioni, idoli lon-tani, esseri quasi soprannaturali.

È in questo contesto di situazioni e aspettative, che il terzinodella squadra dell’oratorio si presenta a un provino organizzatodall’Atalanta, la gloriosa società del capoluogo. Lo supera, da pre-destinato, ma basta poco a don Guido Crippa, il prete che dal ’55anima l’oratorio, per convincere papà Felice a non sradicare ilragazzo: c’è tempo per lasciare famiglia e paese. Giacinto resta, siaccasa alla Trevigliese e gioca il campionato promozione ’57-’58.«Aveva 15 anni, per me era ancora un bambino, fu giusto non farloandare via subito. Ricordo che la Zanconti ebbe per il suo cartel-lino 35 mila lire. Una bella cifra, a quei tempi, che ci permise difinanziare la squadretta a lungo» dice don Guido, oggi ottantenne.

Per tenere d’occhio il ragazzino, cominciano ad arrivareanche gli osservatori di grosse società: ancora l’Atalanta, ilComo, il Torino. E l’Inter, appunto. A capo delle squadre giovanilinerazzurre c’è una specie di monumento che cammina, autenticoeroe popolare: è Giuseppe Meazza, il Peppin, il grande attaccantedell’Italia due volte campione del mondo. Il provino si fa a

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Rogoredo, periferia della metropoli, dove in quegli anni si allenanole giovanili nerazzurre. Giacinto si presenta insieme al compaesanoGiuseppe Setti, un mediano. Meazza non ha dubbi: il difensore è daInter e decide di portarlo immediatamente con sé, al torneo giovani-le che si gioca come ogni anno a Ginevra.

In attesa di una degna cornice, piegata in quattro, con i bordiingialliti, i figli di Giacinto hanno ritrovato da poco tra le cartedel padre, la lettera di convocazione di quel lontano torneo.Tenerla tra le mani è come un viaggio sulla macchina del tempo:«Milano, marzo 1958. Al giuocatore Facchetti Giacinto. Ci ègradito comunicarti che sei stato incluso a fare parte della comi-tiva che si recherà nelle prossime feste di Pasqua a Ginevra».Seguono indicazioni di massima («accertarsi di essere in posses-so di documento», che gli indumenti siano «in perfetta efficien-za»), consigli di sopravvivenza spicciola («procurarsi per pro-prio conto il necessario per la cena di venerdì sera»). E un avver-timento finale: «Ognuno è tenuto a mantenere, come sempre, uncomportamento serio, educato, rispettoso e disciplinare. SalutiMeazza». I dirigenti della Trevigliese, però, hanno ben altro perla testa. Hanno fatto firmare a papà Felice una promessa di ces-sione alla solita Atalanta. Dicono: l’Inter non lo vuole più, ilsignor Facchetti non ha ragione di dubitarne. Bella storia. C’è unimpegno scritto e carta canta, ma c’è anche il carattere di quelragazzo all’apparenza mite, tutto d’un pezzo nel fisico come nellospirito. C’è, infine, l’antica saggezza contadina della gente al di làdell’Adda, dove non è ancora Milano e non è già più bergamasca;quel misto di concretezza e di deferenza che fa ancora dire: «Chil’vòlta i spale a Milà, a l’volta i spale al pà».

Giacinto vuole l’Inter. Ammira l’Inter in contrasto con gliamici di Treviglio che sono tutti della Juve. S’impunta:«Piuttosto lascio. Non giocherò mai più». Resta a casa due mesie mezzo, consigliato dal factotum delle giovanili nerazzurre, uncerto Anselmo. A novembre del ’59, la Trevigliese lo lascia tor-nare all’Inter. In cambio del suo giocatore la piccola societàstrappa un milione e mezzo, più una muta di divise nuove dipacca. Un affare. Una Fiat 500 modello “tetto apribile”, l’ulti-

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missima versione dell’utilitaria in produzione già da due anni,costa 435 mila lire. La vendita del cartellino prevede una percen-tuale anche per Facchetti. Incassa sessantamila lire, lo stipendiomensile di un impiegato. Tutte insieme, gli paiono una ricchez-za: intonse, una sull’altra, consegna le banconote al padre checorre a metterle in banca. A Giacinto restano gli spiccioli per unaserata al cinema con gli amici del paese.

Milano, la grande città, la grande squadra. L’Inter. Non è dif-ficile immaginare la tempesta di emozioni, il sovraccarico disperanze che tutto ciò deve rappresentare per un ragazzo didiciassette anni, seppure sorretto dai saldi principi e dalla parsi-monia contadina inculcati dal padre. Quell’anno, il 1959, è ilprincipio ed è anche la fine. C’è l’Inter e c’è la morte di mammaElvira. Facchetti si concederà senza indugi alla stampa, neglianni a venire: nei suoi ricordi la figura del padre è onnipresente,quella di Elvira lontana, segreta, chiusa nel cuore. Soltanto unavolta, nel 1963, racconta a Oggi Illustrato il dramma di quell’ad-dio. Giacinto partecipa al suo primo torneo importante, inAustria, con la Nazionale juniores. Ci sono Rivera, Rosato,Bercellino... Gente che farà strada, davvero una bella squadra.Una partita del torneo è persino trasmessa in tivù. «Mia madreche soffriva da tempo di cuore, provò un’emozione fortissima.Tornai a casa appena in tempo, per abbracciarla per l’ultimavolta. “Giacinto”, mi disse, “ho capito che questa è la tua strada.Continua a giocare, sono certa che diventerai un campione”.Morì mezz’ora più tardi». C’è tutto il sovraccarico stilistico delgiornalismo da rotocalco popolare anni Sessanta in una similericostruzione. Ma tant’è. Elvira e il suo auspicio vivranno persempre, sommessi, nel cassetto della memoria.

Facchetti adesso è un pendolare del pallone, sospinto da unaferrea determinazione e dall’aiuto di papà. La mattina il lunga-gnone frequenta l’istituto tecnico a Treviglio, il pomeriggio,prima il solo giovedì, poi due volte alla settimana, fa la spola conMilano. Il padre alle dieci del mattino lo raggiunge a scuola e gliconsegna sei panini imbottiti. Il ragazzo li fa fuori, uno dietro l’al-tro, in un’ora scarsa. Il pranzo a quel punto è archiviato.

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All’uscita il padre è di nuovo ad attenderlo, a cavallo della pro-pria bicicletta e con un’altra, retta per mano fin là. Via! Alla sta-zione ovest: due chilometri di pedalata. Treno che parte all’una ediciotto in punto, arrivo in Centrale a Milano, poi in tram. Primala linea 20, che oggi non esiste più: lento sferragliare da via LuigiSettembrini a piazzale Corvetto; da qui con il 32 fino a Rogoredo,altri cinquecento metri a piedi. A dire il vero, quasi sempre dicorsa. Ed ecco l’allenamento con Meazza, ammantato di gloria,che arriva a bordo della sua 1100 verde pisello, l’unica auto (e cheauto…) posteggiata ai bordi del campo. Infine, di nuovo tram,ancora treno e ancora il padre pronto a riportarlo a casa.

Oggi il quartiere di Rogoredo è lambito dai lavori di un’im-mane opera di speculazione edilizia, «il più grande progetto diriqualificazione urbana d’Europa» recitano i depliant pubblicita-ri: una vera e propria città di residenze-lusso, voluta da LuigiZunino, uno degli immobiliaristi più rampanti che animano laMilano dei primi anni Duemila, e affidata al genio visionariodell’inglese Norman Foster, architetto alla moda, conosciuto intutto il mondo. Alla fine degli anni Cinquanta, però, Rogoredonon doveva apparire granché differente dalla Milano disegnatada Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli. Un borgo operaiofagocitato dal mostro metropolitano, immerso nella nebbia, allo-ra davvero fitta, alimentata com’era da mille fabbriche in produ-zione. I capannoni della Montedison, le ciminiere delle acciaie-rie Redaelli e la stazione ferroviaria, avanguardia della città per iconvogli in arrivo da Sud con il loro carico misto di stanchezze edi speranze. Milano, in principio, per l’adolescente innamorato delcalcio, è solo questo: un susseguirsi di cantieri edili e ciminiere chesi alternano a campi ancora verdi e immacolati. L’annuncio di unbenessere in embrione e la testimonianza della fatica quotidiana.

Giacinto con le squadre giovanili dell’Inter disputa un paio dicampionati. È terzino, naturalmente, per potenza fisica e perrigore interiore, ma anche qui si spinge in avanti senza ritegno.A Peppin Meazza non dispiace che negli ultimi dieci minuti dipartita il ragazzo abbia carta bianca per le sue incursioni. Senzacontare che Facchetti se lanciato a dovere lungo la fascia latera-

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le, è capace di confezionare cross precisissimi per i compagniattaccanti. Nel suo primo campionato federale con la formazio-ne giovanile (oggi sarebbe il torneo Primavera che ha preso pro-prio il suo nome), Giacinto segna 18 gol: è il secondo cannonie-re dietro Bruno Petroni, di professione centravanti, che giocheràa lungo nell’Atalanta e nel Catania. Insomma, il ragazzo è perl’Inter più di una promessa. A dispetto di quel fisico così poco dacalciatore, Facchetti comincia ad allenarsi con la prima squadra.

La sua fortuna si chiama Helenio Herrera. L’allenatore hafama di innovatore, ha fatto benissimo in Spagna, si picca diavere inventato il catenaccio. Ha metodi da imbonitore, ma capi-sce come pochi altri di calcio e intuisce che quel giovane gigan-te di provincia fa proprio al caso suo. Herrera, all’inizio, prova anon arrendersi al difensivismo del campionato italiano. La suasquadra, d’altronde, è partita come un razzo. A Milano hannocominciato a parlare con enfasi dei “diavoli di Helenio”, ma allasettima giornata, l’Inter ha rimediato una legnata dal Padovacatenacciaro di Nereo Rocco e questo ha convinto Herrera afarsi più guardingo. Tanto da pretendere a novembre l’ingaggiodi Balleri, il più classico dei liberi da piazzare davanti al portie-re. Infine, per riconquistare lo slancio offensivo, si intestardiscesul fatto che, invece di arretrare un attaccante (il cosiddetto tor-nante) come si è soliti fare in serie A, la sua Inter dovrà sgan-ciare uno dei due terzini. Facchetti con le sue lunghe leve, conla sua velocità, con la sua incredibile progressione, sembral’ideale per i rapidi ribaltamenti di fronte, tipici del gioco diHelenio e necessari a sorprendere gli avversari. È il destino,insomma. Il primo incontro tra i due è sbrigativo. L’Inter giocaun’amichevole e l’avanspettacolo è affidato ai ragazzi dellajuniores. Al rientro negli spogliatoi, Facchetti si trova l’allena-tore di fronte: «Hai i numeri, non perderti» intima Helenio. Mada lì a poco Giacinto si ammala, i medici diagnosticano un’eso-tica febbre maltese. Lo scherzetto di un virus che per quattromesi lo tiene al palo. «Riuscirò a recuperare il tempo perduto?»si chiede di continuo il ragazzo. Tranquillo. Herrera non l’hadimenticato.

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Il terzino, perfettamente ristabilito, debutta quasi in sordinanella semifinale di Coppa delle Fiere a Birmingham. Non vaaffatto male, la sua prestazione soddisfa l’allenatore. L’esordio“vero”, quello in serie A, cioè, arriva due settimane dopo aRoma. Mancano tre partite alla fine del campionato 1960-’61 el’Inter di Helenio Herrera si sente ancora in corsa (finirà terza inclassifica), sebbene dopo un brillante girone d’andata, i neraz-zurri adesso si mostrino stanchissimi. Facchetti intuisce che ilmomento è vicino, se ne parla nello spogliatoio e la cosa un po’lo indispettisce, lo carica di responsabilità. Continua ad arrivarein treno per allenarsi, quasi sempre con i libri sottobraccio, tenu-ti insieme da quegli elasticoni azzurri o rosa che forse oggi ricor-dano in pochi. Quasi sempre primo. «Ma sempre vi trovavoHerrera: mi sa che quello va al campo all’alba – racconta qual-che anno dopo – Eravamo soli, lui mi prese sottobraccio e midisse: “Te la senti di giocare domenica?” E che si può risponde-re, mi dica, ad una domanda così?». La domenica dopo è il 21maggio 1961, si gioca Roma-Inter. I giallorossi hanno un attac-co da paura, Menichelli più quattro oriundi sudamericani moltodiversi tra loro per carattere e temperamento: Ghiggia, il conna-zionale Schiaffino, gli argentini Lojacono e Manfredini. AFacchetti tocca il primo, Alcides Ghiggia: un mostro sacro, sep-pure al capolinea. Uno che non ha timore di dire, di se stesso:«Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanà: FrankSinatra, il Papa e io». È suo, infatti, il gol che nel 1950 ha con-segnato all’Uruguay il titolo mondiale nella partita decisiva di uninedito girone a quattro squadre, ha gelato l’intero Brasile e hacondannato il portiere Moacyr Barbosa all’ostracismo a vita.Sono passati undici anni, però. La polvere pesa più della gloriasulle spalle di Ghiggia, stortarello e malinconico, ma ancoracapace (l’anno dopo, passato al Milan) di vincere uno scudetto.Herrera è il più grande motivatore che abbia solcato un campo dicalcio, non lascia il ragazzo a fare i conti da solo con le pauredell’esordio. Prima della partita lo conforta, meglio, lo catechiz-za: «Sei più forte, sei più alto, sei più veloce di quel nanetto. Nongli farai vedere palla». Ghiggia è un’ala piccola e scattante, dalle

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gambe anch’esse minute, tutto dribbling e finte. Baffetti neri allaD’Artagnan, prova numeri da giocoliere, ma il giovanotto nonabbocca e randella, per poi chiedere scusa con imbarazzo ad ognicontrasto vinto. La Roma colpisce pali e traverse, l’Inter applicacon sufficienza il credo di Herrera. Due contropiede e due gol,finisce 0-2. Facchetti ha superato l’esame, ma nel commento diGualtiero Zanetti su La Gazzetta dello Sport non ve n’è traccia.Neppure una riga, come è lontano il calcio in pay tv. Oggi, unesordio con una tale disinvoltura, non sfuggirebbe alle truppecammellate di bordocampisti.

Gioca anche le ultime due partite, contro il Napoli (ed èl’esordio a Milano) e contro il Catania, ma la conferma di esse-re finalmente “uno dell’Inter” giunge in maniera impensabile.Arriva da una mancata convocazione. Costretta dalla federazio-ne a ripetere la gara con la Juventus, infatti, la società milaneserisponde con un gesto di protesta rimasto clamoroso: invia aTorino la giovanile. È la partita del famoso 9-1, Facchetti nonc’è: ormai è un nome da prima squadra.

A San Siro, contro il Napoli, ha anche segnato il suo primogol. Le cose sono andate pressappoco così: Armando Picchi hastoppato una palla e si è portato in avanti con la solita autorevo-lezza. Palla al piede ha iniziato a correre sulla destra. Facchettidall’altro lato ha fatto altrettanto. Picchi ha dribblato un avversa-rio, poi ha crossato e ha visto il portiere Bugatti volare, ma nonabbastanza da toccare il pallone. Facchetti che per istinto innatoè corso fin lì, se l’è ritrovato sui piedi e di piatto lo ha spinto inrete. È il primo gol in serie A. Diciassette anni dopo, al terminedella carriera, se ne conteranno 59. Una progressione che rappre-senta ben altro della pedissequa conta aritmetica. Una rivoluzio-ne copernicana del ruolo di terzino, di ciò che è bene un difenso-re faccia o non faccia. Una questione quasi filosofica, una pro-vocazione modernista. Ci vorrà l’avvento degli olandesi, del lorocalcio totale, a rendere Facchetti un precursore e non un fortuna-to atipico e questo, a scapito dello stesso Facchetti, protagonistadella disfatta azzurra al Mondiale del ’74 e, suo malgrado, dellacerimonia funebre del calcio all’italiana.

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