Lm... · Web viewE quali ri e quali duca da parte de Troiani fosseronce andati in loro defensa. E...

47

Transcript of Lm... · Web viewE quali ri e quali duca da parte de Troiani fosseronce andati in loro defensa. E...

2. Auctores canonici
3. Forme e modi della trasmissione : commenti e glosse
La ricerca delle fonti di un autore, intesa come possibilità di stabilire un rapporto genetico fra un testo e il suo modello, tanto cara agli eruditi della fine del secolo scorso, appare oggi definitivamente superata a favore di un'indagine che privilegi la ricostruzione delle modalità di lectura di un determinato autore nel tempo, attraverso la ricerca dei canali concreti e delle condizioni materiali in cui un testo è stato fruito.
4. Storia e geografia della tradizione manoscritta
Chi voglia tracciare la storia della tradizione manoscritta di un autore dovrà sempre tenere presente l'oggetto libro nella sua materialità, cercando di rintracciare quale progetto "editoriale" vi sia sotteso, e quindi prima di tutto verificare se si tratta di un insieme di testi riuniti insieme dall'inizio oppure assemblati in un momento successivo. Rintracciata la composizione originaria del codice sarà allora possibile chiedersi il "perché‚" delle costanti che si osservano nella tradizione di certi testi e insieme il "come" sono stati traditi, cioè se il compilatore del codice interviene sui testi modificandoli, selezionandone alcune parti, creando elementi di raccordo, insomma mirando a confezionare un prodotto omogeneo. Le spie " materiali" di questo progetto sono molte e possono essere cercate nelle partizioni del codice (iniziali, rubriche ecc.) nella presenza o meno dei nomi degli autori, in prologhi introduttivi, nelle glosse ecc..
Concetto di tradizione
Nel noto prologo del Cligés[footnoteRef:1] Chrétien de Troyes sintetizza con chiarezza due concetti fondamentali per comprendere la valenza che l'intellettuale medioevale conferiva alla tradizione: è il libro il depositario della saggezza, ed è il libro a garantire la continuità e la conservazione del sapere: [1: Ed. A. Micha, Paris 1982. Tutti i corsivi inseriti nelle citazioni dei testi sono miei. Per il Cligès, si veda ora anche la nuova edizione apparsa per le Lettres gothiques: Chrétien de Troyes. Cligès. Edition critique du manuscrit B.N. fr. 12560. Traduction et notes par C. Méla et O. Collet. Introduction par C. Méla. Suivi des Chansons courtoises de Chrétien de Troyes, Présentation, édition critique et traduction par M.C. Gérard-Zai, Paris 1994.]
Cligés, vv. 25-27
Les fez des ancïens savons
Et del siegle qui fu jadis.
Inoltre, se un tempo sede privilegiata della la sapienza era la Grecia, e da lì era arrivata a Roma, simbolo di tutta latinità, ora è la Francia ad essere investita del compito di trasmettere il sapere degli antichi:
vv. 28-37
Qu'an Grece ot de chevalerie
Le premier los et de clergie.
Puis vint chevalerie a Rome
Et de clergie la some,
Qui or est an France venue.
Dex doint qu'ele i soit maintenue
Et que li leus li abelisse
Tant que ja mes de France n'isse
L'enors qui s'i est arestee.
Ma la voce degli antichi è ormai fioca:
vv. 38-42
Car de Grezois ne des Romains
Ne dit an mes ne plus ne mains,
D'ax est la parole remese
Et estainte la vive brese[footnoteRef:2]. [2: Secondo L. Rossi, voce Provenzale, letteratura, in Enciclopedia virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 328-34, p. 329: «Nell’annunciare un decisivo mutamento del proprio stile, alludendo alle opere composte prima del «nuovo racconto», Chrétien riproduce il modulo del preproemio dell'Eneide ».]
Ora dunque lo spazio d'elezione è la Francia e depositari del sapere sono i poeti volgari, coloro che sono in grado di appropriarsi di questa tradizione e superarla, ad un tempo riattualizzandone il senso e aggiungendo il loro sapere, di glossare la lettera, di mediare un sapere altrimenti oscuro. Si veda quanto scrive Maria di Francia nel prologo dei suoi Lais[footnoteRef:3]: [3: Ed. J. Rychner, Paris 1966.]
vv. 9-16
Assez oscurement diseient
E ki aprendre les deveient,
K'i peüssent gloser la lettre
E de lur sen le surplus mettre.
I grandi auctores sono depositari di un sapere che ora tocca ai nuovi poeti tradurre nel senso etimologico del termine. È inutile sottolineare come sovente questi auctores vengano citati solo come riferimenti esemplari, in grado di conferire autorevolezza al proprio narrare, senza che questo corrisponda necessariamente ad una conoscenza diretta. Significativo risulta, a questo proposito, il prologo del Roman de Thèbes[footnoteRef:4], libero rifacimento della Tebaide di Stazio, dove, accanto al topos della scienza che non deve essere nascosta e deve dare frutti, ritroviamo un catalogo di auctores trai quali non compare Stazio di cui pure si farà menzione nel corpo del roman: [4: Ed. G. Raynaud de Lage, Paris 1966-68. Sulla questione cf. A. Punzi, Oedipodae confusa domus. La materia tebana nel Medioevo latino e romanzo, Roma 1995, pp. 77-80, cui rinvio anche per la bibliografia di riferimento e G. Paradisi, Intertestualità e riscritture. Un esempio dal Roman de Thèbes, in Prassi intertestuale, a cura di S. Bianchini, Roma 1996, pp. 21-41, in particolare pp. 30 ss. ]
vv. 1-8
ainz doit por ce son senz moutrer
que quant il ert du siecle alez
touz jors en soit mes ramenbrez.
Se danz Omers et danz Platons
et Virgiles et Quicerons
leur sapïence celissant,
ja n'en fust mes parlé avant[footnoteRef:5]. [5: Cf. Ovidio, Ars amandi, III, 413-4 «Sed famae vigilare iuvat. Quis nosset Homerum, /Ilias aeternum si latuisset opus ?».]
Tra i magni auctores compaiono sempre nomi accolti nel canone della prassi scolastica medievale e tra questi ovviamente non può mancare Omero, puro nome è chiaro, ma nome segnaletico della grande poesia epica e poeta padre perché legato al nebuloso mondo greco, all'inizio della poesia[footnoteRef:6]. Un nome la cui sopravvivenza è garantita dalla tradizione esegetica medioevale, dove il cantore cieco è continuamente ricordato come il primo e il più grande dei poeti: princeps Heliconis, secondo Claudiano (Carm. min. 23, 13; divinarum omnium inventionum fons et origo per Macrobio (comm. Somn. Scip. II, X, 11). [6: Sulla conoscenza di Omero nel Medioevo e più in generale sulla diffusione della materia troiana si vedano almeno: W. Eisenhut, Die spätantike Troja-Erzählungen-mit einem Ausblick auf die mittelalterliche Troja-Literatur, in «Mittelateinisches Jahrbuch», XVIII (1983), pp. 1-28; W. Kullmann, Einige Bemerkungen zum Homerbild des Mittelalters, in Litterae Medii Aevi, Festschrift J. Autenrieth, Sigmaringen 1988.]
Un'accurata ricerca delle altre allusioni al poeta nei romanzi francesi conferma quest'uso del nome assolutamente sottratto ad ogni reale conoscenza, simbolo di grande sapienza e accostato ad altri grandi saggi:
Wace, Brut[footnoteRef:7], vv. 1448-1449 [7: Cf. Le Roman de Brut, ed. I. Arnold, 2 vol., Paris 1938-40. ]
Dunc esteit Samuel prophetes
E Homer ert preisiez poëtes.
Philomena, vv. 131-133[footnoteRef:8] [8: Cf. Chrestien de Troyes, Philomena, ed. C. De Boer, Paris 1921. L'edizione De Boer è stata ora ripubblicata per le Lettres gothique, Paris 1994, con una traduzione curata da O. Collet.]
ne la langue Platon
ne la Omer ne la Caton
qui mout furent de grant savoir.
o citato accanto ad Ovidio nel Roman de la Rose di Jean de Meung[footnoteRef:9]: [9: Cf. G. de Lorris et J. de Meun, Le Roman de la Rose, publ. par F. Lecoy, II, Paris 1966. Ora si veda anche Le Roman de la Rose [de] Guillaume de Lorris et Jean de Meun. Edition d'après les manuscrits B.N. 12786 et BN 378. Traduction, présesntation et notes par A. Strubel, Paris 1992.]
vv. 13617 -13620
qu'il n'est riens que povre home vaille;
se c'iert Ovides ou Homers,
ne vaudroit il pas deus gomers.
Nell'unica citazione rintracciabile nell'epica francese, Omero è richiamato insieme a Virgilio solo come simbolo di antichità:
Chanson de Roland, vv. 2614-2616
En Babilonie Baligant ad mandét
(Ço est l'amiraill, le viel d'antiquitét,
Tut survesquiét e Virgilie e Omer)[footnoteRef:10]. [10: Cf. La Chanson de Roland, a cura di C. Segre, Milano-Napoli 1971.]
Se ci volgiamo alla lirica provenzale, troviamo ulteriori conferme in questa direzione[footnoteRef:11], siamo, infatti, di fronte a citazioni direttamente desunte dai r [11: Nessuna menzione di Omero in F.M. Chambers, Proper names in the lyrics of the troubadours, Chapel-Hill 1971. . ]
Così nell'incipit dell'Ensenhamen di Arnaut de Maruelh (fine XII sec.), la ripresa del topos del sapere che non dev'essere celato e l'enumerazione dei grandi auctores deriva, probabilmente, dal RdTh :
vv. 1-12
Ja.l sen de Salamon,
Ni.l saber de Platon,
Ni l'engens de Virgili,
D'Omer ni de Porfili,
Ni dels autres doctors
S'agues estatz selatz.
Proprio l'ensenhamen di Arnaut de Maruelh costituisce probabilmente la fonte diretta del Maldit Benit del trovatore catalano Cerveri de Girona, Ascout qui vol ausir, scritto nel 1271:
vv. 617-624
segons aquest guirens,
ed Omer e Porfili,
e David e Plato,
e Lot e.l fort Samso.
Un particolare interesse riveste l'allusione ad Omero, che s'incontra nella canzone Nueyt e iorn ai dos mals senhors attribuita a Guilhem de Saint Gregori, su cui ha di recente richiamato l'attenzione Michele Lo Porcaro. Si tratta tuttavia di una ricostruzione congetturale seppure convincente, da assumere quindi con una certa cautela:
vv. 1-10
ni m'aus d'elhs partir ni lunhar:
aisso es ma dompna ez Amors,
a cuy per aisso platz mos dans
quar lur servirs m'es cars e bos
a quascun iorn mais per un dos;
e sai qu'aquest forfagz es grans,
mas per lo rey Omer de chans
fon faitz de maior tort perdos
- Ma particolarmente significativo risulta il famoso prologo del Roman de Troie[footnoteRef:12] di Benoit de Sainte Maure, doce Il recupero dell’antico, la conservazione della memoria, il ruolo del libro, la responsabilità dell’intellettuale di trasmettere ai posteri il proprio sapere [12: Ed. L. Constans, Paris 1904-1912. Sul riassunto della vicenda che Benoit propone all'inizio della sua opera, si veda A. Stefenelli, Zu Komposition und Stil des «Résumé» des Trojaromans, in «Vox romanica», XXIII (1964), pp. 104-116.]
CORSO 2019.20 I SEMESTRE
Le Roma de Troie par Benoît de Sainte-Maure, publié d’après tous les manuscrits connus par Léopold Constans, 6 voll., Paris 1904-1912, Testo elettronico (vv. 1-10000) acquisito e trascritto da Silvia De Santis
Le Roman de Troie par Benoît de Sainte-Maure, publié d’après tous les manuscrits connus par Léopold Constans, 6 voll., Paris 1904-1912
Testo elettronico acquisito e trascritto da Silvia De Santis PROLOG0
Salemon nos enseigne e dit,
E sil list om en son escrit,
Que nus ne deit son sen celer,
Ainz le deit om si demostrer
5
Qu’ensi firent li ancessor.
Se cil qui troverent les parz
E les granz livres des set arz,
Des philosophes les traitiez,
Se fussent teü, veirement
Vesquist li siegles folement :
Come bestes eüssons vie ;
15
Remembré seront a toz tens
E coneü par lor granz sens,
Quar sciënce que est teüe
20
Qui set e n’enseigne o ne dit
Ne puet muër ne s’entroblit;
E sciënce qu’est bien oïe
Germe e florist e frutefie.
25
De ço ne se deit nus retraire.
E por ço me vueil travaillier
En une estoire comencier,
Se j’ai le sen e se jo puis,
La voudrai si en romanz metre
Que cil qui n’entendent la letre
Se puissent deduire el romanz:
‘Salomone ci insegna e dice / - lo si legge nel suo libro / – che nessuno il suo sapere deve celare, / ma lo deve ben mostrare / per conquistare pregio e onore, / che cosi fecero i predecessori. / Se quelli che trovarono le parti, / e i grandi libri delle sette arti / e dei filosofi i trattati, / da cui tutti hanno imparato, / avessero taciuto, veramente / vivrebbe il mondo follemente: / da bruti noi condurremo la vita, / e cosa sia sapere e follia / non sapremmo riconoscere, / né l’uno dall’altra distinguere. / Saranno ricordati in ogni tempo/ e conosciuti per il gran senno, / poiché la scienza che è taciuta/ presto è dimenticata e perduta. / Chi sa e non l’insegna e dice, / l’oblio non può evitare; / ma la scienza ben ricevuta / germoglia e fiorisce e frutta. / […] / E chi più sa, più deve fare; / da ciò non si deve nessuno sottrarre. / E perciò mi voglio adoperare / per un racconto cominciare, / che dal latino, in cui lo trovo, / se ne ho il sapere e posso, / in romanzo lo voglio mettere/ sì che chi non comprende il latino / possa godere del romanzo.’)
40 Mout est l'estoire riche e granz E de grant uevre et de grant fait.
En maint sen avra l’om retrait, Saveir com Troie fu perie, Mais la verté est poi oïe.
45 Omers, qui fu clers merveillos
E sages e esciëntos,
Escrist de la destrucion,
Por quei Troie fu desertee,
50 Que onc puis ne fu rabitee.
Mais ne dist pas sis livres veir,
Quar bien savons senz nul espeir Qu'il ne fu puis de cent anz nez Que li granz oz fu assemblez :
55 N’est merveille s’il i faillit, Quar onc n’i fu ne rien n'en vit.
La storia è davvero ricca e fgrande/ e fondata su opere grandi e grandi eventi/ e molto si sarà arricchiti / nel sapere come Troia fu distrutta/ ma la verità è poco ascoltata./ Omero che fu uno scrittore straordinario/ e saggio e sapiente/ scrisse della distruzione, / del grande assedio e della causa/ per la quale Troia fu abbandonata/ e mai più ripopolata./ Ma il suo libro non dice la verità/perché sappiamo chiaramente, senza dubbio/ che nacque 100 anni dopo che l’assedio fu compiuto:/ non c’è da stupirsi se ha sbagliato/ perché non ha mai visto nulla.
Quant il en ot son livre fait E a Athenes l’ot retrait,
Si ot estrange contençon :
60 Dampner le voustrent par reison,
Por ço qu’ot fait les damedeus Combatre o les homes charneus.
Tenu li fu a desverie
E a merveillose folie
Faiseit combatre as Troïains,
E les deuesses ensement
70 Plusor por ço le refuserent.
Mais tant fu Omers de grant pris
E tant fist puis, si com jo truis,
Que sis livres fu receüz
E en autorité tenuz.
Ci fu uno strano dibattito/lo volevano condannare a morte/ con l’accusa d’aver fatto combattere/ gli dei con gli uomini mortali./ Fu considerata una follia,/ una stranezza stupefacente/ che facesse lottare gli dei/ come se fossero uomini/ coi Troiani, e altrettanto/ che le dee/ facessero combattere con le persone./ E quando recitarono il suo libro,/ molti per questo lo rifiutarono. / Ma Omero fu di tale pregio/ e tanto fece, come poi trovo( che il suo libro fu accolto/ e reputato autorevole.
75 Après lonc tens que ç’ot esté,
Que Rome ot ja piece duré,
El tens Saluste le vaillant,
Que l'on teneit si a poissant,
A riche, a pro de haut parage
80 E a clerc merveillos e sage, Cil Salustes, ço truis lisant, Ot un nevo fortment sachant :
Cornelius ert apelez,
85 De lui esteit mout grant parole :
A Athenes teneit escole.
Un jor quereit en un aumaire Por traire livres de gramaire :
Tant i a quis e reversé
90 Qu’entre les autres a trové L’estoire que Daire ot escrite,
En greque langue faite e dite.
Dopo lungo tempo/ quando ormai vi era Roma/ al tempo del valente Sallustio/ ritenuto molto potente/ ricco, nobile/ un clerc straordinario e saggio/ quel Sallustio, trovo leggendo/ ebbe un nipote di grande sapienza/ era chiamato Cornelio/ ben formato e sapiente nelle lettere./ Di lui si parlava molto/ e teneva una scuola ad Atene/. Un giorno frugava in un armadio/ per cercava libri di grammatica/ tanto ha cercato e frugato/ che fra gli altri libri ha trovato/ la storia scritta da Darete/ fatta e dettata in greco.
Icist Daires dont ci oëz
Fu de Troie norriz e nez ;
95 Dedenz esteit, onc n’en eissi
Desci que l’oz s’en departi ; Mainte proëce i fist de sei E a asaut e a tornei.
En lui aveit clerc merveillos
100 E des set arz esciëntos :
Por ço qu’il vit si grant l’afaire
Que ainz ne puis ne fu nus maire,
Si voust les faiz metre en memoire :
En grezeis en escrist l’estoire. 105 Chascun jor ensi l'escriveit Come il o ses ieuz le veeit.
Tot quant qu’il faiseient le jor
O en bataille o en estor,
Tot escriveit la nuit après
110 Icist que je vos di Darès : Onc por amor ne s’en voust taire De la verté dire e retraire.
Questo Darete del quale udite qui parlare / nacque e fu educato a Troia/ si trovava dentro la città e mai ne uscì/ fin quando l’armata greca si ritirò/ compì molte prodezze personali /negli assalti e nei tornei. /In lui c’era un chierico straordinario/e conoscitore delle sette arti:/ per il fatto di aver visto il grande evento/ tale che mai non ve ne fu di più grande/ volle fissarlo nella memoria/ ed in greco ne scrisse la storia./ Ogni giorno la scriveva/ così come la vedeva con i suoi occhi./ tutto quanto avveniva di giorno/ in battaglia o in tregua/ subito lo scriveva la notte/ costui che ho chiamato Darete:/ mai per amore volle tacere/ nel dire e raccontare la verità.
Por ço, s'il ert des Troïens,
Ne s’en pendié plus vers les suens,
115 Ne mais que vers les Grezeis fist : De l’estoire le veir escrist.
Lonc tens fu sis livres perduz,
Qu’il ne fu trovez ne veüz ;
Mais a Athenes le trova
120 Cornelius, quil translata :
De greu le torna en latin Par son sen e par son engin.
Mout en devons mieuz celui creire
E plus tenir s’estoire a veire
125 Que celui qui puis ne fu nez
De cent anz o de plus assez, Qui rien n'en sot, iço savon, Se par oïr le dire non.
Per questo, benché fosse troiano/ non ha parteggiato per i suoi/ più di quanto non abbia fatto nei confronti dei Greci:/ della storia scrisse la verità/ A lungo fu il suo libro perduto/ e più non fu Né trovato, né visto/ ma ad Atene lo trovò/ Cornelio che lo tradusse:/ dal greco lo volse in latino/ grazie al suo senno e alla sua abilità./ Dobbiamo davvero credere in lui/ e più considerare veritiera la sua storia/ rispetto a quella narrata da uno nato/ cent’anni dopo/ che nulla seppe, questo sappiamo, / se non per sentito dire.
Ceste estoire n’est pas usee,
13o N'en guaires lieus nen est trovee : Ja retraite ne fust ancore,
Mais Beneeiz de Sainte More
L’a contrové e fait e dit
E o sa main les moz escrit,
135 Ensi tailliez, ensi curez,
Ensi asis, ensi posez, Que plus ne meins n’i a mestier.
Ci vueil l’estoire comencier :
Le latin sivrai e la letre,
140 Nule autre rien n’i voudrai metre,
S'ensi non com jol truis escrit.
Ne di mie qu'aucun bon dit
N’i mete, se faire le sai,
Mais la matire en ensivrai.
Questa storia non è molto conosciuta,/ e non si trova in molti luoghi/e non sarebbe stata di nuovo raccontata,/ma Benoit de Sainte Maure/l’ha ripresa, composta e scritta /e ha vergato le parole di sua mano; /le ha così levigate, così curate / così disposte e così collocate, / che non le manca proprio nulla./ per questo voglio iniziare la storia/ seguirò la lettera ed il latino/ non voglio aggiungere null’altro/ se non ciò che trovo scritto:/Ma non eviterò di metterci qualche/bella espressione, se ne sono capace,/ però seguirò fedelmente il contenuto.
2. ROMAN DE TROIE EN PROSE =PROSE 1
Si ritiene che la prima mise en prose del RdT sia stata composta in Morea, verso la fine del sec. XIII, tuttavia la maggior fortuna, stando ai mss conservati risale al Quattrocento . Nel XV sec sarà rimaneggiata (version remaniée). Sin dal prologo si osserva come si accorci la distanza fra storia e romanzo: Prose 1 si segnala infatti per l’insistenza sull’esemplarità dei fatti degli antichi, la veridicità di quanto narrato e riduzione degli episodi amorosi e, ovviamente, del meraviglioso.
1. Ci comence le prologe et le livre DOU TRES noble ROMANS DE TROIES ET DE LA PLACE OU ELLE FU FONDEE, ET COMENT ELLE FU PREMIEREMENT DESTRUITE PAR l'ACHOISON de la Toison que Jason et Hercules alerent conquerre en l'isle de Colcos au tans dou roi Laomedon, qui peres j fu dou roi Priant qui puis fist la cité plus bele et plus forte qu’ele n’avoit esté avant. Et depuis descendirent les grejois pour l’achoison de Paris qui ravi Helene par force. Les anciens sages qui de philosofie parlèrent nous défendent a mener nostre vie ociousement et sanz labour, par ce que ociousetez esmuet le cuer et encline le cors a touz vices. Et pour ce amerent il ouvrer et traveillier le cors, non mie seulement a leur propre profit, mais au comun bien de touz les autres. Car, ensi come li repos est racine de vices monteplïer et acroistre, ausi a en labour et en travail norrissement et acroissance de vertuz. Et pour ce devons nous mot metre noz cuers a entendre les euvres des anciens et des vieilles estoires; quar l'en i puet assés apendre des bienz et des maus que il usoient en leur afaires. Et tout ce vos est necessaire chose a faire et a savoir: c'est le bien por ovrer pour nos et por nos amis et le mal por eschiver, quant auconne chose peut sorvenir que grever nos doie. Car par les choses passées puet l'on mout jugier de celés qui sunt a avenir, et se puet mout aidier en restorer la defaute que Aristotes dit que est es geunes homes, la ou il dit que jeunes honz ne puet estre sages. Et a cen prover trait il avant un tel argument; car il dist que grant sens ne puet estre, se il n'a esprové mout de choses, et grant espreuve ne peut estre sans longue vie. Mais nos devons savoir que le philosophe entendi jeunesse en deus manières: c'est d'aage et d'usage ; quar il ne peut chaloir se l’ ons est jeunes d'eage et il soit vieus par nobles merits et par honeste vie. Et tels jeunes fet plus a loer que le villart qui moine sa vie di-soluement ; car aveuc l'oneste et la bone manière que li jeunes hons a pert sa bone nature, et par usage la remembrance des vielles estoires et des grans euvres et les bons essemples dont jeunes se eslievent, alievent et adrecent a vigoureusement valoir et ouvrer en euvres de vertus : a cen que l'ame est bone naturelment. Et pour ce que nos entendons a traitier des ancïenes estoires, non mie tant seulement por délit et profit des autres, se nus en est mains sachant de moi, mais pour moi meïsmes delitier et adrecier a bien; et ja soit cen que les romaines estoires soient plus nobles et de greignor afaire, come celes que plus longement durerent que celés de Troye, qui fu devant grant tens et mout merveillouz ; car mout en i ot d'une part et d'autre des nobles homes de grant auctorité et de grant savoir et de grant fierté as armes, ou il esproverent merveilleusement l'une et l'autre vertu: c'est force de cors et engin de cuer ; et por miaus contenir l'euvre et que vos entendes miaux l'estre de la chose, si vos dirons qui fu celi qui la noble cité fonda; après vos dirons la place de terre ou elle fu fondée et quelz genz et de quel pais le vindrent a défendre et a destruire.
Guido delle Colonne nasce a Messina nei primi decenni del sec. XIII, fu un un giudice attivo tra il 1243 e il 1280. L'opera, composta da un prologo, 34 libri ed un epilogo, si rifà al "Roman de Troie" di Benoit de Saint Maure, ma arricchito da diverse fonti latine. Nell’epilogo Guido dichiara di avere intrapreso l’opera per ordine di Matteo di Porto, arcivescovo di Salerno e averla terminata nel 1287.
HISTORIA DESTRUCTIONIS TROIAE * CON TRADUZIONE DI FILIPPO CEFFI
*f. 1r*[Incipit prologus super hystoria destructionis Troye composita per iudicem Guidonem de Columpna de Messana.] 1 2 3 4 5
Licet cotidie uetera recentibus obruant, nonnulla tamen iam dudum uetera precesserunt que sic sui magnitudine uiuaci sunt digna memoria ut nec ea cecis morsibus uetustas abolere preualeat nec exacti8 temporis antiqua curricula sopita taciturnitate concludant. Vigent enim in illis pro gestorum magnitudine continuata recordia dum preteritorum in posteros sermo dirigitur. Et antiquorum scripta, fidelia conseruatricia9 premissorum, preterita uelud presentia representant, et viris strenuis quos longa mundi etas iam dudum per mortem absorbuit per librorum uigiles lectiones, ac10 si viuerent, spiritum ymaginarie uirtutis infundunt. Troyane11 igitur urbis excidium nulla dignum est12 longeui13 temporis uetustate detergi. Vt continuis recordiis successorum floreret in mentibus, multorum scribentium calamus fideli scriptura depinxit. Nonnulli enim iam14 eius ystorie poetice alludendo ueritatem ipsius in figurata commenta quibusdam fictionibus transsumpserunt, vt non uera que scripserunt uiderentur audientibus perscripsisse sed pocius fabulosa. Inter quos suis diebus maxime auctoritatis Homerus apud Grecos eius ystorie puram et simplicem ueritatem in uersuta uestigia uariauit, fingens multa que non fuerunt et que fuerunt aliter transformando.
FILIPPO CEFFI
Avegnadiochè continuamente le cose vecchie, sopravegnendo le nuove, caggiono, non pertanto alquante cose vecchie già per addietro sono passate, le quali per la loro eccellenza sono sì degne di viva memoria, che antichitade con ciechi morsi, cioè la morte, non le puote consumare , nè gli antichi corsi del consumato tempo con adornamento di silenzio le racchiudono. Certo in loro regna per grandezza di scritture continua memoria, infino che il sermone delle cose passate si dirizza a quelli che debbono venire, e la fedele scrittura degli antichi conservativa delle cose anzidette presenta le cose passato, siccome fossero presenti, ni a' valenti uomini, i quali la lunga etade del mondo già per addietro inghiottìo per morte , per l’studiosi lettori de libri , siccome elli vivessero, immaginevolmente spirito infondono. Adunque la struzione della città di Troia per nulla antichitade di lungo tempo degna d'essere oscurata, acciocché per continue ricordanze fiorisse nelle menti di quelli che venire debbono , la fedele penna di molti scrittori con iscrittimi dipinse. Alquanti ancora la detta istoria poetevolmente gabbando, la sua veritate mutarono in bugie figurate con alquante intuizioni, sì che non paiono vere le cose che eglino scrissero a quelli che l'odono, ma piene di favole; intra i quali ne' suoi dì di grandissima autoritade Omero appo li Greci la pura e semplice veritade della detta istoria varioe in diversi travagliameli e componendo molte cose le quali non furono altrimenti, trasformò.
Paris BN 617
Trascrizione de Ms. Ital 617
c. 1r. Avvengadio che per lo continuo le cose antique se renuzeno per nove. Ma so stati alcune de li facti vechi passati che inde·llore grande memoria so digne de recordio e delectura azo che vechieze antiqua le non possa storvare ne lontano tiempo le poza concludere ad amentecamento. Cha per li scripti de li fidile antique scripturi si se trovano cutale cose passate de tale opatume e prudize che neccessariamente convene a li delectusi letcuri e ad altri che de tal cose se delectano della vere ne tanto siano invechiate inde·lloro dellectazione e memoria commo a cose ben nove. Siche la destructione de Troia la grande, per dui volte che fo, non e de tanto pizola fama che considerate le cose maravegliose che·nce foro facte e dicte e li grande affanne che·nce foro sostenute, che non sia degna de gloria e de essere sempre fresca a la mente de li audituri o vero de li scripture. Et inperzo che alcune poete, usando le loro poetiche fabule e per la plu gran parte menzogne, queste storie delle grande vactaglie de Troia, si le aiano voluti rescrivere in de li loro libre per argumenti figurate con exposiciune non verdose chi in illi libri mancandonze e chi iongendo.
Introduxit enim deos quos coluit antiqua gentilitas impugnasse Troyanos et cum eis fuisse uelut uiuentes homines debellatos. Cuius errorem postmodum poete curiosius insecuti, ut darent intelligi non solum Homerum fuisse uitiorum auctorem, multa deludia in libris eorum scribere presumpserunt. Vnde Ouidius Sulmonensis prodigo stilo in multis libris suis utrumque contexuit. Addidit enim multa commenta commentis, intermixtim etiam ueritatem non obmittens. Virgilius etiam in opere suo Eneydos, si pro maiori parte gesta Troum, cum de eis tetigit, sub ueritatis luce narrauit, ab Homeri tamen fictionibus noluit in aliquibus abstinere. Sed ut fidelium ipsius ystorie uera scribentium scripta apud occidentales omni tempore futuro uigeant successiue, in vtilitatem eorum precipue qui gramaticam legunt, ut separare sciant uerum a falso de hiis que de dicta ystoria in libris gramaticalibus sunt descripta, ea que per Dytem Grecum et Frigium Daretem, qui tempore Troyani belli continue in eorum exercitibus fuere presentes et horum que uiderunt fuerunt fidelissimi relatores, in presentem libellum per me iudicem Guidonem de Columpna de Messana transsumpta legentur, prout in duobus libris eorum inscriptum quasi una uocis consonantia inuentum est in Athenis.
Ceffi
imperocchè egli introdusse li Dei, li quali adoroe l’ antica nobilitade, avere combattuto contro a Troiani, ed essere stati con gli Greci, ed avere sconfitti gli uomini che vivevano. L'errore del quale poi molto curiosamente seguitando i poeti, acciocché dessero ad intendere che non solamente Omero fue autore di composite bugie, ardirono di scrivere molte ciance giochevoli ne' loro libri. Onde Ovidio Sulmonense con stilo larghissimo l' una cosa e l’ altra insieme compuose. Aggiunse molte bugie alle bugie, mischiatamente ancora la verità non lasciando. Ancora Virgilio nella sua opera dell' Eneide , avvegnadioché la maggior parte i fatti de Troiani narrasse sotto luce di veritade , quando di quelli trattoe ; non per tanto in alcuna parte non si volse astenere dalle composizioni di Omero ; ma acciocché la veritade de fedeli scrittori della detta storia appo li occidentali Regni per ogni tempo che venire dee succedevòlmente (1), principalmente in utilitade di coloro i quali leggono la grammatica , acciocché sappiano spartire il falso dal vero di quelle cose che sono scritte della detta istoria ne' libri grammaticali, quelle cose , le quali per Ditti Greco , e Darete Frigio , i quali nel tempo della battaglia Troiana continuamente nelle loro osti furono presenti, e delle cose che videro furono fedelissimi recitatori (3) ; per me Guido Giudice delle Colonne di Messina trasposte nel presente libro si leggeranno siccome in due loro libri si trovoe scritto in Atene, quasi in una consonanzia di voci.
Paris BN it 617
Si come fo lo poeta Homero, de grande auctoritate, chi monstrao inducere e de ponere che li Diei falsi, ali quali aveano cultura in chilli tiempi la gente fossero state ad invadire li troiane insembla co li Greci a modo de homini vivi e questo errore lo secutaro li altri poete di commo fo Ovidio de Sulmona, lo quale composse e mescao inde li suoi libri menzogna e veritate insembla. Ell’altro poeta si fo Virgilio chi, facendo mentione inde lo libro suo che se clama l’Eneida, per la plu gran parte de li facti troiane se no le narra bene apierte commo convenne, volcesse puro astinire in alcune cose dalle menzogne de Homero. Et azo che la maiure verdate de chesta istoria se declare maximamente a chille de la parte de occidente,chi gramatica legeno che saziano despartire lo vero dallo falzo de quello che de chesta istoria se trova scripto in de li libre gramaticali con assumpto e referuto per li fidilissimi referituri de chesta istoria, zoe, l’uno da la parte de li Greci chi se clamano per nome Dite e·ll’altro de la parte de li troiane chi se clamao Dares, li quali si foro continuamente presiente in de li exerciti di Greci e di Troiani. Et, e lo iuro, che de zo che vedettero non possero //c.1v// la busia. E per li loro scripti uno iudice Guido de la Colonna de Messina, homo de approbata descriptione e fertile intendemento e famoso dectatore, si l’ave transontato in chesta presente forma latina. E si·llo retrasse da dui libri chi se trovano facte e concordante in Athena per li dicti riffirituri chi si clamaro Dares e Dite.
1 Quamquam autem hos libellos quidam Romanus, Cornelius nomine, Salustii magni nepos, in Latinam linguam transferre curauerit, tamen, dum laboraret nimium esse brevis, particularia ystorie ipsius que magis possunt allicere animos auditorum pro nimia breuitate indecenter obmisit. In hac igitur serie libelli totum inuenietur inscriptum quod de tota ystoria uniuersaliter et particulariter gestum fuit: que fuit origo inimicitiarum et scandali que aduersus Frigios Greciam concitauit (vt appellatione Grecie non Magna Grecia, Ytalia uidelicet, ut uoluerunt nonnulli, debeat comprehendi, dicentes aduersus Troyanos et Magnam Greciam, id est Ytaliam, quam appellamus hodie Romaniam, confluxisse, cum parua scilicet sola, licet paucis aliis sibi adiunctis, uenerit expugnatura Troyanos, prout ipsius ystorie series per ea que infra legentur apertius demonstrabit). Sic ergo successive describetur in ipsa qui reges et qui duces Grecorum armata manu et quot nauibus se in predictum exercitum contulerunt, quibus armorum insigniis usi sunt, qui reges et qui5 duces in Troyane urbis defensionem aduenerunt,6 quanto tempore fuit protracta uictoria, quotiens bellatum extitit et quo anno, quis in bello ceciderit et cuius ictu (de quibus omnibus pro maiori parte Cornelius nihil dixit). Superest ergo ut ad eius narrationis seriem accedatur. Explicit prologus.
CEFFI
Avegnadiochè questi libri uno Romano, che ebbe nome Cornelio Nipote del magno Sallustio, traslatoe in lingua latina, non pertanto affaticandosi troppo per essere breve , cose particolari , le quali molto possono allettare gli animi degli uomini, per troppo abbreviamento sconciamente lasciò stare. Adunque neir ordine della battaglia si truova scritto quello che in tutta la storia generalmente e particolarmente fue fatto: quale fue il nascimento delle nimistadi e dello scandalo che commosse Grecia contra i Frigi, sicché non s' intenda per lo nome della Gran Grecia Italia, siccome volsero alquanti, dicendo , che incontro a' Troiani venne la Grande Grecia, ciò fue Italia , e la piccola Grecia, la quale oggi volgarmente chiamiamo Romania.
Paris, BN it 617 (più ampio)
Et avvengadio che uno romano chi se clamao Cornelio Nepote de lo grande Salustio avessella voluta transformare in lingua latina chesta istoria e recazarela da li libri de li dicti rifirituri. Dares e Dite volendosente tosto scuitare de questa opera le particularitare neccessarie che veresemelemente deveno a traire li animi de li audituri a delectazione no·lle volce rescrivere nen declarare si commo fece quisto iudice Guido de Messina. Ora, adunqua, in chisto tenore de chesta istoria tucto e scripto particularemente chello che·nce fo operato in quelle vattaglie e qual fo lo principio de la nemestade e de lo scandalo conciputo la quale concitao Grecia contra Troiani. Non che se intenda per li licturi che la grande Grecia, zoe Italia, fosse stata comonemente a la destructione de Troia secundo che volevano alcuni extimare chi diciano che diceano che contra Troiani si foro la grande e la pizola Grecia inde·lloro potere assemblate. Ora inverdate sulo la pizola Grecia, la quale oi si s’appella Romania, con alcune poco capo caporale de la grande Grecia che li foro in succurso si fo inde lo scombattimento e destruzione di Troiani secundo che lo tenore de questa istoria lo demostrarra apertamente.
CEffi
Conciofossecosaché solamente la piccola Grecia con poche terre aggiunte a sé venisse a combattere li Troiani, siccome l'ordine della detta istoria per quelle cose che di sotto si leggeranno, apertamente dimosterrae. Così adunque ordinatamente si dichiarerà in essa , quali Regi , quali Duci de' Greci con armata potenzia , ed in quante navi sé e la loro oste raccolsero, quali insegne d' armati usarono , quali Regi , quali Duci vennero in difensione della cittade di Troia , quanto tempo fue indugiata la vittoria, quante volte fue combattuto e quanti anni: chi cadde nella battaglia et per lo cui colpo, e di tutte quelle cose delle quali per la maggior parte non disse niente il detto Cornelio.
Kesta adunque ebe a narrare l’ ordine della detta istoria si vegna.
Finisce il Prologo.
BN it 617
Declarasse ancora in questa istoria quali ri e quali duca de Grecia e con quanta nave de cavallaria bene armata e altra gente avessero andate co·lloro exercito contra Troiani e commonce andaro segnalate. E quali ri e quali duca da parte de Troiani fosseronce andati in loro defensa. E quanto tiempo so sperlongata la vectoria a li Greci. Quanta volte fo combattuto e quale anno, e chi per colpo de altrui fosse stato o morto o caduto inde la battaglia. Delle quale tutte cose lo dicto Cornelio Romano niente quasende disse in dell’opera soa.
PARTE SECONDA[footnoteRef:13] [13: Tutte le traduzioni sono prese da Benoît de Sainte-Maure, Roman de Troie, testo critico di Léopold Constans, trad. it., introduzione e cura di Enrico Benella, prefazione di Lorenzo Renzi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2019 (Studi e ricerche). ]
Ulisse si presenta come l’eroe dell’astuzia e dell’intelligenza, doti però ambigue e diversamente leggibili e interpretabili come ci conferma un rapidissimo sguardo ai grandi auctores latini:
 1) Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo desideroso, sopra ogni cosa, di conoscenza. Così dice di lui Orazio, nella seconda epistola del I libro (vv. 17-22):
Si propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e saggezza (quid virtus et quid sapientia possit), Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores hominum inspexit), mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il ritorno per sé e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai marosi dell'avversa fortuna.
E Seneca, in un passo del De constantia sapientis (II, 2), per elogiare la saggezza di Catone l’Uticense, ricorda che nei tempi antichi altrettanto saggio era ritenuto Ulisse:
(…) quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio di uomo sapiente ancora più alto di quello che ci avevano dato con Ercole e Ulisse nei secoli precedenti. Questi ultimi infatti vennero dichiarati sapienti dai nostri (maestri) stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum).
Diversamente Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi, nel riportare la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace ed Ulisse (contesa vinta da Ulisse grazie all’abilità della parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di scelleratezze.
Per Virgilio, il cui obiettivo ci dice Servio era “ Homerum imitari”, Ulisse è “scelerum inventus” “fandi fictor “ 9, 602
E sarà credo, proprio il modello virgiliano, amplificato dal commento serviano, come suggerisce l’immagine, che segnerà la lettura proposta da Benoit che arricchisce gli scarni elementi forniti da Ditti per costruire un vero e proprio racconto dell’ultimo segmento di vita dell’eroe.
Molti sono i luoghi che potremmo citare per mostrare le nefandezze di Ulisse
Vediamo che intanto l’attenzione su Ulisse si concentra nel momento del ritorno come l’Eneide e l’Odissea.
Intorno a questa figura di cui Ditti ci narra le gesta l’autore si inserisce per commentare e chiosare:
Ensi com jo vos ai conté
E com es Livre ai trové
Avint de cest destruiement,
Ravindrent lor grant encombrier
des ore orreiz lor destinees:
quant jos voi avrai recontees,
ne direiz pas qu’a nule gent
avenist onc plus malement.
a duel e a perdicion. (Vv. 26590-26602)
La distruzione di Troia avvenne come vi ho descritto e come ho trovato scritto nei libri. D’ora in poi udirete quali altri grandi ostacoli e quali grandi e terribili lutti affronteranno i greci. D’ora in poi udirete quali furono i loro destini : dopo che ve li avrò raccontati , direte certamente che a nessuno mai sono capitate sofferenze più terribili
Per Benoit invece Ulisse è tramatore di inganni e in questo è il modello virgiliano ad agire con forza e a suggerire anche l’aggettivazione, è l’Ulisse. E’ lui, e cito un episodio poi ripreso da Benoit a tramare contro Palamede, come ricorda Sinone En 2, 81-96 e a disputare con Aiace le armi di Achille in un modo che ricorda il Palladio e il famoso inganno del cavallo.
Ed ecco nel romanzo francese, dove la dialogia si fa occasione di ampliamento prospettico, l’astuzia di Ulisse farsi oggetto di dibattito. Si veda
(cfr. vv. 26639 ss) la disputa sul Palladio, statuetta di Minerva, occasione per contrapporre al tramatore d’inganni un Aiace combattente. Alla laconica osservazione di Ditti , libro V, cap. 14, che qui riporto in traduzione:
Ma un’aspra quistione insorse tra i capitani a cagione del Palladio, domandato avendolo Ajace Telamonio in premio di quanto colle opere del braccio suo valoroso e della sua sagacità avea fatto (…) Rimasero contendenti Ulisse ed Ajace ognuno dei quali faceva somma forza per averlo, mettendo innanzi entrambi quanto aveano fatto.
si contrappone un Ulisse che rivendica la sua capacità di astuzia come un valore positivo che irradia i suoi esiti su tutti i Greci:
Sos bosoignassent mes conseiz,
Quant jo vos trovai si afliz
E si atainz e si guenchiz triade agg
« Que par force e par estoveir,
Ne fust mon sens e mon saveir,
Vos en covenist toz aler, —
Affrontereste la questione in modo diverso se aveste ancora bisogno dei miei consigli, che vi sono stati utili in tante occasioni, quando vi ho trovato così affranti e così mal ridotti e così scoraggiati che, senza il mio acume e la mia intelligenza, sareste stati costretti ad andarvene tutti quanti.
e invece Aiace ribalta la posizione richiamando il peso di una vittoria ottenuta a prezzo del tradimento:
«Dont vos ici faites vantance
Ne dont vos tant cuidez valeir
Que il vos deie remaneir.
Por ço, se vos estes trichiere
E decevere e losengiere,
Nos sera mais toz jorz retrait
Que parjures somes e faus
E mençongiers e desleiaus,
«Bien nos avez apareilliez,
Par proëce, senz traison,
Por c'est bien dreiz qu'il vos remaigne?
Cent dahez ait la vostre ovraigne ! (vv. 26706-26722)
E’ una cosa davvero ignobile e davvero vile quella di cui vi state vantando e per cui credete di essere così tanto valoroso perché il Palladio spetti a voi. Per cui sarebbe un valido motivo perché il Palladio spetti a voi? Il fatto è che siete un baro, un imbroglione e un lestofante, e che per colpa vostra ci verrà rinfacciato per sempre di essere spergiuri, falsi, bugiardi e sleali? Ma che bell’aiuto ci avete dato, bisogna proprio lodarvi per aver trasformato in un motivo di eterno biasimo un’impresa che avremmo dovuto compiere grazie al nostro valore, senza ingannare nessuno. Sia cento volte maledetto il vostro inganno!
E dopo aver ribadito che di fronte ad Achille tutti sono secondi, Aiace conclude:
«Plus amisseiz, n'en dot de rien,
27030 Le mal eslire que le bien ;
De vos n'eissi onques conseiz
Qui fust leiaus, dreiz ne feeiz.
Ne devez ja en lieu parler
O jo seie, ne demander
27035 Chose ou jo bé. Ne vos hauceiz,
Quar ço n'est pas reisons ne dreiz.
Non ho alcun dubbio che avreste preferito scegliere il male al posto del bene; da parte vostra non è mai giunto un consiglio leale, giusto e corretto. Quando ci sono io non dovete proprio parlare o rivendicare una cosa che desidero io. Non celebratevi da solo perché è una cosa ingiusta e insensata.
Il Palladio viene alla fine assegnato a Ulisse e Aiace, la notte, viene brutalmente assassinato e non si suicida come in altra parte della storia. Si sospetta della morte Ulisse che, sentendosi braccato, fugge.
Ma nella linea proposta è interessante il caso dell’inganno perpetrato ai danni del prode Palamede.
L’episodio, di cui in Ditti si narra soltanto la tragica conclusione, (qui si riporta la traduzione (II, XV):
Nello stesso tempo Diomede e Ulisse s’intesero insieme per togliere di mezzo Palamede (…) avendo finto di voler dividere con lui un tesoro, che dicevano trovarsi in un certo pozzo, allontanato ogni altro, proposero a lui che discendesse per primo; dove, siccome non temeva di fraude, si fece calare con una corda; ma appena fu al fondo, tolti a gran furia i sassi ch’erano sparsi all’intorno, là giù l’oppressero.
Si sviluppa in Benoit con la narrazione delle false lettere:
Ulisse che era un uomo malvagio fino a tal punto odiava davvero a morte Palamede perché era ben consapevole che l’esercito greco non avrebbe mai fatto nulla, nessuna grande impresa, né in positivo né in negativo se non glielo avesse ordinato, comandato e suggerito Palamede. Perciò Ulisse lo odiava e gli voleva male e tramava contro di lui. Ora udite che trappola gli tese a tradimento. Scrisse due lettere con due diverse calligrafie e nei messaggi vi era dunque la prova che Palamede si era messo d’accordo con i troiani per tradire l’esercito greco in cambio di una ricompensa: questo era scritto.
In filigrana ecco affiorare l’Ulisse virgiliano, che roso dall’invidia trama contro Palamede, come ricorda Sinone En 2, 81-96 che riporta con l’aiuto dell’esegesi serviana l’intero episodio, si vedano quanto scrive Servio che ritroviamo glossato nel vat lat 2761:
Servio non solo ricostruisce con cura le ragioni dell’odio fra Palamede e Ulisse ma sottolinea il tarlo dell’invidia 2, 80:
FANDO ALIQVOD SI FORTE TVAS PERVENIT AD AVRES ‘dum dicitur’. (…) Postea, cum Vlixes frumentatum missus ad Thraciam nihil advexisset, a Palamede est vehementer increpitus. Et cum diceret adeo non esse neglegentiam suam ut ne ipse quidem, si pergeret, quicquam posset advehere, profectus Palamedes infinita frumenta devexit. Qua invidia Vlixes auctis inimicitiis fictam epistolam Priami nomine ad Palamedem, per quam agebat gratias proditionis et commemorabat secretum auri pondus esse transmissum, dedit captivo, et eum in itinere fecit occidi. Haec inventa more militiae regi allata est et lecta principibus convocatis. Tunc Vlixes, cum se Palamedi adesse simularet, ait ‘si verum esse creditis, in tentorio eius aurum quaeratur’. Quo facto invento auro, quod ipse per noctem corruptis servis absconderat, Palamedes lapidibus interemptus est. Hunc autem constat fuisse prudentem[footnoteRef:14]. [14: E’ nei margini dell’Eneide che si deposita l’antica saggezza, Palamede tradito da una falsa lettera, o la disputa sul Palladio narrato in E, 7 189, cioè una statuetta di Atena rapita da Ulisse e Diomede ]
Intanto Ulisse continua la sua fuga finché giunge da Idomeneo re di Creta. Questi chiede ragione delle misere condizioni in cui versa Ulisse e questi allora « ... li a conté / Tot en ordre la vérité, / Com c'a esté ne ou ço fu / E com ço li est avenu » (28591-28594).
Ecco allora che, ancora una volta Ulisse, come già nell’Odissea, si fa cantore del suo viaggio, un viaggio le cui tappe sono rapidamente ricordate da Ditti
5
Percontantique Idomeneo, quibus ex causis in tantas miserias devenisset, erroris initium narrare occipit: quo pacto adpulsus Ismarum multa inde per bellum quaesita praeda navigaverit adpulsusque ad Lotophagos atque adversa usus fortuna devenerit in Siciliam, ubi per Cyclopa et Laestrygona fratres multa indigna expertus ad postremum ab eorum filiis Antiphate et Polyphemo plurimos sociorum amiserit. Dein per misericordiam Polyphemi in amicitiam receptus filiam regis Arenen, postquam Alphenoris socii eius amore deperibat, rapere conatus.
Approdò circa quel tempo stesso in Creta Ulisse con due navi fenicie prese da lui a nolo(…) E domandandogli Idomeneo per quali cagioni foss’egli venuto in anta miseria , incominciò a narrargli i suoi errori; come approdato ad Ismaro, molta preda guerreggiando avesse ivi fatta, e portata seco; e capitato poi nel paese de Lotofagi e per contraria fortuna di là balzato in Sicilia molti pericoli avesse incontrati per parte de’fratelli Ciclopo e Lestrigone e de loro figlioli Antifate e Polifemo, perdendovi la maggior parte de’ suoi compagni. Indi per commiserazione di Polifemo, prese da questi in amicizia, avea tentato di rapire Arene figliuola del re innamorata di Elpenore di lui compagno…
Riprendendo la scansione degli eventi Benoit li arricchisce di “movimenti del cuore” indugiando sull’amore fra Elpenore e il compagno di Ulisse e Arene sorella di Polifemo. Ma soprattutto, si veda come questo semplice accenno all’amore si faccia occasione per narrare la dinamica dell’innamoramento, per altro capovolto perché è l’amico ad amare, come in altri luoghi in Benoit che rapidamente vedremo da cui è impossibile separarsi:
Por Arenain le vit morir:
Ne s’en poüst ja mais partir
Que morz ne fust senz nul retor,
Tant par est espris de s’amor. (vv. 28655-58)
Ulisse vide che Elpenore stava morendo d’amore per Arene: non sarebbe mai stato capace di separarsi da lei, al punto che sarebbe senz’altro morto, tanto ardeva d’amore per lei(…)
Indugiare sulle emozioni e sull’amore è un tratto certo caratteristico del romanzo, ma anche in questo caso questi personaggi arrivano carichi delle lecturae che nel tempo li hanno trasformate in icone e tra queste un posto speciale spetta all’inquietante figlia del sole, Circe (Aen 7, 10-24)
Il viaggio, racconta Ulisse, continua con l’incontro con Circe e Calipso, regina delle isole abitanti di terre periferiche che nella mitologia rcaica le relega in quella zona di marginalità dove abita il caos, il disordine che è anche disordine dei sensi:
Vbi res cognita est, interventu parentis puella ablata per vim, exactus per Aeoli insulas devenerit ad Circen atque inde ad Calypso utramque reginam insularum, in quis morabantur, ex quibusdam inlecebris animos hospitum ad amorem sui inlicientes. Inde liberatus pervenerit ad eum locum, in quo exhibitis quibusdam sacris futura defunctorum animis dinoscerentur. Post quae adpulsus Sirenarum scopulis, ubi per industriam liberatus sit. Ad postremum inter Scyllam et Charybdim mare saevissimum et inlata sorbere solitum plurimas navium cum sociis amiserit. Ita se cum residuis in manus Phoenicum per maria praedantium incurrisse atque ab his per misericordiam reservatum. Igitur, uti voluerat, acceptis ab rege nostro duabus navibus donatusque multa praeda ad Alcinoum regem Phaeacum remittitur. (Ditti, VI, XV)
Di là spinto alle isole Eolie era capitato da Circe indi da Calipso, entrambe regine delle isole che abitavano e donne che con vezzi e carezze loro proprie potentemente innamoravano i loro ospiti.
Ancora una volta il rapido cenno di Ditti alle due regine seduttrici si sviluppa e distende in un’occasione di riflessione intorno alla potenza di amore e la magia simbolo della potenza distruttrice di eros capace di condurre gli uomini alla follia:
Après redit com faitement
Que nus si beles ne saveit.
Dames esteient del pais,
Ço ert Circès e Calipsa.
Ja mais nus hom parler n'orra
De dous femmes de lor porchaz;
Nule mençonge nos en faz.
Ço dit e conte li Autors,
Qu'eles n'aveient pas seignors,
Jo di reis, princes e demeines —
Erent por eles en teus peines
Que mieuz vousissent estre morz.
*Des arz saveient e des sorz:
Al herbergier les convioënt,
Après si les enebareoënt
E si de lor amor espris espris de s’amor
Qu'en eus n'aveit reison ne sen. (vv. -28701-28725)
Nessuno sentirà mai parlare di due donne altrettanto abili nella seduzione; non sto inventando nessuna bugia a riguardo. L’autore afferma e narra che non avevano dei mariti e dei signori, ma a causa loro la sosta dei naviganti di passaggio-parlo di re, comandanti e vassalli-era talmente pericolosa che questi ultimi avrebbero preferito essere morti. Le due donne conoscevano bene le arti magiche e le divinazioni: invitavano i naviganti a fermarsi, poi li ammaliavano prendendoli alla sprovvista e facendoli ardere d’amore al punto che questi uomini non avevano più un briciolo di senno o di razionalità.
Se li trésors Oteviën
De partir d'eles ert neienz.
Trop par ert griés li lor tormenz.
Cil qui entre lor mains chaeit
Estoit sovent a mort destreit,
Quar tant ert d'eles embeüz
E tant par esteit deceûz
Qu'il ne pensast ja mais aillors.
Griefment vendeient lor amors.
Tot devoroënt, tot preneient;
Que maint riche home e maint manant
Faiseient povre e pain querant. (vv. 28726-42)
Era impossibile separarsi da loro. Chi cadeva nelle loro mani si trovava spesso stretto in una morsa mortale, perché era talmente infatuato di loro e talmente abbindolato da non pensare più a nient’altro.
Gli ingredienti dell’amore passione ci sono tutti: un amore pericoloso perché come mettono in guardia i Padri della chiesa l’amore travolge e sconvolge la ragione e incatena l’uomo in una morsa mortale. Ed ecco allora Benoit segnare il confine fra questo vendere il proprio corpo e la fin amor:
O eles cochoënt plusor,
Que traïson e decevance :
Iço retrait danz Ulixès,
Mais ne li pot pas eschaper. (vv. 28743-49)
Molti andarono a letto con loro, ma la loro non era fin amor, era solo inganno e tradimento, era molto difficile separarsi da loro. Ser Ulisse raccontò di essere caduto nelle mani di Circe, ma di essere stato incapace di sfuggirle.
Ancora una volta Servio, commentatore di Virgilio, approfondisce e sottolinea la potenza della libido esercitata da questa donna che non esita a definire meretrix:
Servius, Aen 7, 10.24 DEA SAEVA aut per se, aut herbis potentibus saeva. Circe autem ideo Solis fingitur filia, quia clarissima meretrix fuit et nihil est sole clarius. Haec libidine sua et blandimentis homines in ferinam vitam ab humana deducebat ut libidini et voluptatibus operam darent, unde datus est locus fabulae. Aperte Horatius «sub domina meretrice fuisset turpis et excors».
Ma, l’amore, la letteratura ce lo insegna, spesso distribuisce male i suoi pesi, così se grazie alle sue magie Circe può ottenere dall’eroe i piaceri della carne, tuttavia s’innamora e non vorrebbe separarsi mai da lui, si noti come sempre Benoit insista su questa impossibilità di separarsi:
Bien en aveit oï parler,
E el de lui, maint jor aveit:
Quant de si grant beauté le veit,
Pense qu'o sei le retendra,
Ja mais de li ne partira.
Ses sorceries, ses essaies
Fort sont li art a li conjure,
Auques le torne a sa mesure.
O sei le couche: mout li plaist
Qu'illa joïsse e qu'il la baist;
E si fait il, c'est la verté. (vv. 28750-59)
Aveva già sentito molte volte parlare di lei e lei di lui, quando Circe vide che Ulisse era così bello, decise di tenerlo lì con sé, non si sarebbe mai separato da lei. Gli fece le sue stregonerie i suoi incantesimi e le sue fatture; le arti magiche dei sortilegi furono efficaci; per qualche tempo gli fece fare quello che voleva. Se lo portò a letto le piaceva molto quando lui la carezzava e la baciava e lui dunque lo faceva, è la verità.
Ainz que li meis fust trespassé,
Fu ele de lui grosse e preinz:
Fors sol adonc, ne puis ne ainz,
N'ot ele de nului enfant,
Que l’om sache ne truist lisant.
Cist fu en fiere hore engendrez
E en plus fiere refu nez :
Bien dirons al definement
Mais ici vos dirons après. (vv. 28760- 70)
Nel giro di un mese Circe rimase incinta , aspettava un figlio da Ulisse: stando a ciò che si sa o che si legge nei libri, tranne quell’unica volta non ebbe figli da nessun altro, né prima, né poi. Il bimbo fu concepito sotto una cattiva stella e poi nacque sotto una stella ancora peggiore: alla fine diremo bene in che senso e come ciò fosse vero. Ma questo lo diremo dopo.
Ancora una volta la secca affermazione di Ditti “« per Aeoli Ínsulas devenerit ad Circem atque inde ad Calypso utramque reginam insularum, in quis morabantur, ex quibusdam inlecebris ánimos hospitum ad amorem sui inficientes” [footnoteRef:15] [15: Hatzantonis Emmanuel. Circe, redenta d'amore, nel Roman de Troie, in Romania, t. 94 n°373, 1973. pp. 91-102.]
diventa semplice traccia a partire dalla quale raccontare lo strazio e paura della separazione che patisce Circe, per altro in attesa di un figlio, Circe che come Medea, ma come Merlino è là a raccontare che nulla può la magia contro la forza d’amore. E per raccontare il dolore di Circe soccorrono ancora altri libri, depositati sul tavolo del nostro Benoit, una storia di libri sedimentati intorno a lei, personaggio complesso che occupa un’estesa sezione dei racconti di Ulisse alla reggia dei Feaci e tre interi canti dell’Odissea, fino alla profezia della dea nel libro 12 (vv. 33-141)[footnoteRef:16] [16: Ambiguità e mistero velano l’affascinante statura di questa donna, multiforme come gli antidoti (φρμακα72) che prepara con perizia; impossibile è descrivere con esattezza la natura della sua indole. Si tratta, infatti, di). Paradigmatico il suo modus operandi per trasformare in maiali i compagni di Ulisse (10, 233-236): Nel contesto del primo sbarco di Ulisse sull’isola, Circe è descritta come una perfida dea, a cui sono associati però gli epiteti αδεσσα, che delinea la capacità canora umana come strumento di seduzione ed υπλκαμος, «dai riccioli belli»; dotata di un’aura potente, ella comunica coi mortali senza il bisogno di intermediari. La sua fisionomia la fa assomigliare ad un’altra eroina abbandonata, cioè la ninfa di Ogigia (cfr M. Bettini- C. Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino, 2010; p ]
Così Circe riaffiora in tanti autori latini come l’archetipo stereotipo della maga di nobile lignaggio, in quanto figlia del dio Helios e di Perse (o Persa), figlia di Oceano: Virgilio sceglierà di imitare il carmen nell’ottava egloga (vv.68-71)
e nell’Ars Amatoria (2, 99-104) Circe sarà menzionata insieme ad un’altra celebre strega Medea, simbolo, sin dalla tradizione tragica greca, di femminilità ferita e frustrata.
Ma ancora più interessante il caso dei Remedia amoris (vv.261-288) dove il monologo di Circe, dominato dal pathos, si muove sulla scorta dei monologhi dell’Arianna catulliana e della Didone virgiliana
E’ da Circe , lo ricorda Babbi, che si genera la causa della sua fine, lei infatti attende un figlio da Ulisse, e con dolore vede partire l’amato
Donc conut bien e vit Circès
Que poi sot envers Ulixès,
Maistre a trové a sa mesure
Tel qui ne crient sort ne conjure (vv. 28789-93)
Così Circe vide e capì chiaramente di saperne poco di magia rispetto a Ulisse, aveva trovato qualcuno alla sua altezza, che non temeva incantesimi o sortilegi.
Al departir fust li dueus grant
Que fist Circès, nel pot müer,
Quant Ulixès en vit aler.
Al momento di separarsi Circe fece una scenata disperata, quando vide che Ulisse se ne andava, non poté farci nulla.
E se Ulisse presto dimentica la seducente maga , Ulisse invece attraversa altre esperienze erotiche con Calipso dove la battaglia investe amore e sapienza:
Cele li fist maint jeu parti
Dont n'erent pas suen li choisi;
28805 Celé en fist auques son voleir,
Quar trop esteit de grant saveir;
O sei le tint e demora
Grant pièce, tant com li sembla;
Cele le fist creire en ses sorz,
28810 Si que mieuz vousist estre morz.
Mais ne por quant de ç'alot bien,
Que bêle esteit sor tote rien:
Trop fust sis solaz delitables
Lei giocò con lui una partita a scacchi in cui non era lui a condurre il gioco; con lui fece quello che voleva perché era di grande sapienza (…) ma a lui le cose andavano bene perché Calipso era più bella di qualsiasi altra donna : la sua compagnia sarebbe stata davvero gradevole ei l suo corpo davvero dilettevole se non li avesse venduti a così caro prezzo. Non avrebbe potuto fare nient’altro perché quella era la sua natura.
E poi con le sirene:
28840 Ço sont les sereines de mer.
Soz ciel n'a rien, dès qu'il les veit,
Ço set om bien, que morz ne seit.
Des periz de mer c'est li maire:
Mout sont maies e de put aire;
28845 Voiz ont cleres, angelieaus;
Sor trestoz chanz est li lor beaus.
Quis ot a el ne puet entendre
Ne ne se set d'eles défendre.
Iluec ou om les ot chanter,
2885o Sont tuit li encombrier de mer.
Tra i pericoli del mare , le sirene sono il peggiore: sono molto malvagie e infide: hanno voci limpide e angeliche il loro canto è più bello di qualsiasi altro. Chi le ode non riesce a fare più nient’altro e non è in grado di difendersi da loro. Nel punto dove le si sente cantare sono presenti tutti i pericoli del mare. Non si prova alcuna paura e non si desidera udire nient’altro che la loro voce….
Il potere seduttivo delle sirene era divenuto proverbiale. Così Cicerone, in un passo del De finibus bonorum et malorum (V, 18):
Non vediamo forse che chi si diletta degli studi e delle arti non tiene conto né della salute né degli interessi familiari e tutto sopporta, preso dalla conoscenza e dal sapere, e trova un compenso delle grandissime fatiche nel piacere che prova nell’imparare? Tanto che a me sembra che Omero abbia concepito qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. Non mi sembra infatti che fossero solite attirare coloro che passavano con la dolcezza della voce o con la novità e la bellezza del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, così che gli uomini andavano a sbattere contro i loro scogli per bramosia di sapere. Così infatti attirano Ulisse (…) Omero capì che la storia non poteva essere creduta se un uomo tanto grande fosse stato attirato con delle canzoni; è la conoscenza che (le Sirene) promettono, e non è incredibile che questa fosse più cara della patria per un uomo bramoso di sapienza (cupido sapientiae).
Ma proprio Cicerone ci serve ancora per raccontare l’ultimo capitolo di questa storia. In Oratore 5 Cicerone esalta tra i tragediografi latini Pacuvio il cui merito sarebbe quello di fare propria la lezione di Sofocle il più grande tragediografo greco. Non è facile comprendere l’equità del giudizio su Pacuvio dai pochi frammenti rimasti e dagli scarsi frammenti trasmessici dai grammatici. Qui ci interessa solo che ciò che Cicerone esalta nella tragedia Niptra di Pacuvio è proprio la capacità di mostrare rispetto al modello di Sofocle un Ulisse che, colpito a morte da Telegono, il figlio avuto da Circe, non lamenta il suo destino, ma uomo dignitoso nel dolore.
Ecco allora che il riferimento Ciceroniano ci conduce a quella morte di Ulisse che i nostri testi raccontano, caricandoli di quel pathos volto ad attivare la memoria. In tutta l’ultima parte della storia la morte allunga le sue ombre, una morte preparata da una catena di morti tutte familliari: Clitennestra uccide Agamennone, Oreste la madre Clitennestra gettandola in pasto ai lupi. Ma qui Benoit sembra voler riscattare lo scaltro Ulisse raccontando un altro personaggio, un uomo che, pur ormai tornato a casa, è chiamato ancora a fare i conti con il suo destino
Per preparare la chiusa prende la parola, denuncia la fatica del narratore
D'eus vos porrions mout retraire,
Mais dès or voudrai a chief traire
De ceste uevre: nos merveilliez,
Qu'auques sui las e travailliez.
Ore entendez ici après
Com faitement danz Ulixès
Tel merveille n’iert mais oie. (vv. 29811 -18)
Potremmo riferirvi molte altre cose su di loro, ma ora desidererei portare a termine ques’opera: non stupitevi se sono un po’ stanco e affaticato.Ora state per ascoltare in che modo venne ucciso e perse la vita ser Ulisse: nessuno udirà mai una storia altrettanto straordinaria
Ditti in poche e scarne parole ci racconta un Ulisse, che ormai tornato a Itaca, viene spaventato da una voce che tormenta il suo sonno, voce che a un tempo spaventa e seduce crea orrore e respinge:
Per idem tempus Ulixes territus crebris auguriis somniisque adversis omnes undique regionis eius interpretandi somnia peritissimos conducit. Hisque refert inter cetera visum sibi saepius simulacrum quoddam inter humanum divinumque vultum formae perlaudabilis ex eodem loco repente edi. Quod complecti summo desiderio cupienti sibi porrigentique manus responsum ab eo humana voce sceleratum huiusmodi coniunctionem quippe eiusdem sanguinis atque originis , namque ex eo alterum alterius opera interiturum. VI. XIV
Nel medesimo tempo Ulisse atterrito dai frequenti pronostici e sogni sinistri che lo tormentavano, da ogni parte chiamò a sé chi sapesse interpretarli; ed a codesti indovini si mise a riferire come fra le altre cose più volte gli era parso di vedere un simulacro di volto fra l’umano e il divino, stupendamente bello venirgli innanzi da uno stesso luogo, il quale avendo egli sommo desiderio di abbracciarlo e porgendogli le braccia gli aveva risposto con voce umana, essere sacrilego tale abbraccio poiché erano wbtrambi dello stesso sangue e della stessa origine e che uno dei due doveva morire per opera dell’altro. E pensando egli sempre più vivamente e desiderando di sapere la cagione di tale cosa …
Ma si osservi come l’“Ulixes territus crebris auguriis” si distenda in un nuovo testo che da un lato amplifica e enfatizza la paura che coglie Ulisse che diviene in un crescendo: angosciato pauroso sospettoso
Entrepris fu e angoisssos,
Paoros, pensis e dotos
De songes e d'auguremenz.
E les devins de totes parz,
E ceus qui saveient les arz;
29825 Dist lor qu'en un lit ert couchiez
Trestoz joios e toz haitiez :
A vis li ert qu'une semblance
De tel beauté, de tel poissance
Que forme, ymage ne peinture
Ne chose d'umaine nature (vv. 29819-31)
Era preoccupato e angosciato, impaurito pensieroso e dubbioso a causa di sogni e presagi. Fece radunare da ogni dove saggi e indovini e esperti di arti magiche. Disse loro che un giorno se ne stava a letto tutto felice e contento: gli era apparsa una figura così bella, così magnifica che mai nessuna opera di fattura umana poteva essere così bella;
E dall’altro si osservi l’immagine umana e divina che come un demone incubo rompe il suo sonno si presenti nuovamente come seducente sirena che alletta i sensi e sembra invitare a un abbraccio
Ne pot estre de sa beauté, —
Bien poeit estre entre home e dé;
Nature humaine trespassot
Meins beaus esteit, mais, ço sai bien,
Forme d'ome n'i montot rien;
Entre la nature devine
Resplendissant plus a merveilles
«Itel esteit, itel la vi :
Merveillai m'en e esfreï
En une hore e en un moment.
«A une part de la maison
Estot, Ço m’ert en avison ;
Ne s'aproismot pas près de mei :
Por tant en ere en tel esfrei
Que co m’en a vis maintenant,
De desirer e de talant
De lui embracier e tenir,
Que me deust li cuers partir. ( 29831-52)
La sua natura pura si collocava tra quella divina e quella umana, era straordinariamente più lucente del sole e delle stelle. “Era fatta così, io proprio così l’ho vista: mi sono spaventata e mi sono chiesto con stupore da dove fosse giunta così all’improvviso, tutto ad un tratto e in un attimo. Avevo l’impressione che si trovasse in un angolo della casa, non mi si è affatto avvicinata: per quanto fossi sbigottito a causa sua , ho avvertito subito il desiderio e la voglia di abbracciarla e di stringerla, tanto che per poco non mi si è scoppiato il cuore
Lo slancio sessuale, sottolineato dalla potenza del desiderio, si tinge di ombre a un tempo perverse e luttuose dove aleggia il tabù dell’incesto:
Mout doucement li depreioë
Qu'il m'embraçast: ço desiroë.
Saches ceste conjoncion,
Ço sont duel mortel, plor e ires. 29865
C'est chose de bien esloigniee,
Maudite e escomenüee.
Des paroles ere destreiz;
L’ho pregata molto dolcemente di abbracciarmi era questo ciò che desideravo. Mi è venuta un po’ più vicino e mi ha detto: “Ulisse, sappi che questo incontro, questo desiderio, questa unione che desideri tra me e te significa dolore mortale, pianto e rabbia. E’ una cosa lontana dal bene, maledetta e scomunicata. Non è mai stato raccontato , né descritto un legame più doloroso”
«Preioë li par maintes feiz
Que ço m'enseignast a saveir
E m'en feïst aparceveïr:
Puis me mostrot une manière
D'un signe itel com vos dirai:
Bien m'en membre, bien l'avisai.
Dedesus le fer d'une lance —
Bien l'ai ancore en remembrance —
Portot une torete ovree
Ne autrement ne l'enquerreie,
O duel, o lermes, o sospir,
Que c'ert d'empire conoissance
E si aperte demostrance
Que l’uns par l'autre perireit
E l'uns par l’autre fenireit.
Tant me diseit, ne plus ne meins.
Angoissos fui e d'ire pleins,
Que jo ne soi que ço voust dire. (vv. 29870-95)
Poi andandosene mi ha detto in maniera sofferta con lacrime e sospiri che quello era il simbolo del potere e mi ha spiegato chiaramente che per colpa di quel simbolo sulla lancia saremmo diventati mortali nemici tanto che uno sarebbe perito a causa dell’altro e uno sarebbe stato ridotto in fin di vita a causa dell’altro. Così mi ha detto, né più né meno. Sono rimansto angosciato e pieno di rabbia perché non sapevo che cosa volesse dire.
Ulisse riunisce gli indovini per scoprire l’arcana profezia, e comprende come molti eroi che il suo destino è morire per mano del figlio, si osservi l’affiorare dell’ombra di Edipo, e dunque chiude il figlio amatissimo in una prigione inaccessibile:
29897 Cil sera mis druz e mis sire,
Qu’il me savra entrepreter
Senz deceveir e senz fauser.»
A ço n'ot nul delaiement :
29900 Tuit li distrent comunaument
Que ço senefiot dolor,
Eissil, damage e deshonor.
Ensorquetot, sor tote rien,
29905 Des aguaiz son fil, çoli diënt;
Moût l'en manacent e desfiënt.
Ulixès fu sospeçonos,
Teleniacus, sil fist mener
En Cephalania sor mer.
E en si forz buies rivez,
29915 E si guardez par tel maistric
De cens en cui il plus se fie,
Si faitement, ja mais n'en isse
Ne a lui adeser ne puisse
En nés un sen ne en nul art.
29920 Rien ne crient mais de celé part :
En si granz buies fu roilliez
E a teus guardes fu bailliez
Que ja mar en criembra nul Jor.
Si ne fu onques graindre amor
29925 De père a fil, ne n'iert ja mais,
Que aveit o lui Ulixès,
Mais guarder vueut que ço n'avienge,
Que i'om li dit qu'il guart e crienge .
“Chi saprà sarmi una spiegazione senza ingannarmi e senza imbrogliarmi, diverrà mio amico e mio signore”. Al che non vi fu alcun indugio: tutti quanti gli indovini gli dissero che ciò significava dolore, esilio, danno e disonore. Soprattutto, più di qualunque altra cosa, doveva temere per la propria vita e stare molto in guardia dagli agguati di suo figlio; rimarcarono la minaccia e gli dissero di non fidarsi. Ulisse divenne guardingo, diffidente, inquieto e sospettoso per come avevano interpretato le sue visioni: stando a ciò che leggiamo, catturò suo figlio Telemaco, lo fece dunque portare via mare a Cefalonia; lì venne rinchiuso in una prigione inaccessibile, legato con pesanti catene e messo sotto stretta sorveglianza da parte degli uomini di cui suo padre si fidava di più, in modo tale che non uscisse mai da lì e che non potesse mai incontrare suo padre in nessun modo e in nessuna maniera. Ulisse non aveva più nulla da temere da parte di Telemaco: era bloccato da catene così grosse ed era sorvegliato da così tante guardie che il padre non si sarebbe mai dovuto preoccupare di nulla. Tra padre e figlio non ci sarà mai stato né ci sarà mai un affetto più grande di quello nutrito da Ulisse per Telemaco, ma Ulisse voleva evitare che gli accadesse ciò da cui gli era stato detto di guardarsi e di proteggersi-
Ecco ancora una volta che il romanzo è chiamato ad amplificare l’assertivo Ditti e dare voce al dolore, allo strazio del figlio di cui nulla ci dice Ditti
Duel fait Telemacus li beaus,
Quant en buies e en aneaus
Veit qu'ensi est mis e fermez.
De son père se plaint assez;
Dit que trop grant honte li fait,
Senz ço qu'il ait vers lui mesfait
Ne en penser ne en voleir :
Mal li mostre qu'il seit son heir. (vv. 29929-36)
Il bel Telemaco si disperò quando vide che veniva imprigionato e messo ai ferri e catene. Si lamentò molto di suo padre , disse che gli stava infliggendo un disonore enorme senza che lui gli avesse mai fatto nulla di male, né col pensieri né con l’intenzione: non era quello il modo di mostrargli che era lui il suo erede.
Rinnegando il suo essere un figlio si prepara lui il saggio ad essere ingannato da un altro figlio avuto da una donna che solo in lui ha riconosciuto il suo dru, il suo amato. Ulisse è ormai assediato inseguito dagli incubi di quella visione,
E se Ditti ci dice solo
”Ulisse medesimo per evitare il pronostico di sì cattivi sogniandò a rimpiattarsi in luoghi solinghi e assai remoti”
ecco invece la prigionia in cui si relega il nostro Ulisse, murato vivo separato dai suoi affetti più cari, lui l’eroe non può proteggersi dal destino che lo attende. Nulla sa del giovane Telegono avuto da Circe, quella strega seduttiva trasformata in una donna fedele e innamorata e in madre amorevole:
Eschiver voust cez visions
Ou rien n'aveit conversement,
O mout escharie compaigne :
El plus fort lieu qu'il pot choisir,
29950 N'ou faiseit plus mal a venir,
Fist ses maisons faire e fermer
E de bons murs avironer
Sor granz fossez, sor granz terriers,
Gloses de murs e de viviers,
29955 O heriçons, o plaisseïz
E o riches ponz torneïz,
O bretesches, o chaafauz
En tôt le mont, mien escient,
29960 N'ot tel repaire ne si gent.
Les portes a si comandees,
Les eissues e les entrées,
Que closes seient nuit e jor :
Por parenté ne por amor
29965 Qu'il ait o rien de char vivant,
Ne l'en laissent venir avant.
Voleva sfuggire alle visioni che aveva avuto e al modo in cui erano state interpretate, per farlo si ritirò con pochissimi compagni in un luogo solitario, scarsamente popolato, dove non c’era nessuna abitazione: non erano presenti uomini di altri paesi con l’unica eccezione dei suoi fedelissimi. Fece costruire la sua dimora nel luogo più sicuro che riuscì a trovare e dove era più difficile arrivare, e la fece racchiudere e circondare da solide mura che davano su profondi fossati, su alti terrapieni con una seconda cerchia di muri e fossati con acqua corrente, pali e staccionate e splendidi ponti levatoi, parapetti di legno, camminamenti merlati, crenellsti e alti. A mio parere in tutto il mondo non esisteva un rifugio come quello e altretanto bello. Ordinò dunque di tenere chiuse notte e giorno le uscite e le entrate: non dovevano assolutamente lasciare passare nessuno in carne e ossa, né i parenti né gli amici.
La scarna narrazione di Ditti racconta del figlio Telegono che cerca di penetrare in casa:
Per idem tempus Telegonus, quem Circe editum ex Vlixe apud Aeaeam insulam educaverat, ubi adolevit, ad inquisitionem patris profectus Ithacam venit gerens manibus quoddam hastile, cui summitas marinae turturis osse armabatur, scilicet insigne insulae eius in qua genitus erat. Dein edoctus, ubi Vlixes ageret, ad eum venit. Ibi per custodes agri patrio aditu prohibitus, ubi vehementius perstat et e diverso repellitur, clamare occipit indignum facinus prohiberi se a parentis complexu. Ita credito Telemachum ad inferendam vim regi adventare acrius resistitur, nulli quippe compertum esse alterum etiam Vlixi filium. Dein iuvenis ubi se vehementius et per vim repelli videt, dolore elatus multos custodum interficit aut graviter vulneratos debilitat. Quae postquam Vlixi cognita sunt, existimans iuvenem a Telemacho inmissum egressus lanceam, quam ob tutelam sui gerere consueverat, adversum Telegonum iaculatur. Sed postquam huiusmodi ictum iuvenis casu quodam intercipit, ipse in parentem insigne iaculum emittit infelicissimum casum vulneri contemplatus. At ubi ictu eo Vlixes concidit, gratulari cum fortuna confiterique optime secum actum, quod per vim externi hominis interemptus parricidii scelere Telemachum carissimum sibi liberavisset. Dein reliquum adhuc retentans spiritum iuvenem percontari quisnam et ex quo ortus loco se domi belloque inclitum Vlixem Laertae filium interficere ausus esset. Tunc Telegonus cognito parentem esse utraque manu dilanians caput fletum edit quam miserabilem maxime discruciatus ob inlatam per se patri necem. Itaque Vlixi, uti voluerat, nomen suum atque matris, insulam, in qua ortus erat et ad postremum insigne iaculi ostendit. Ita Vlixes ubi vim ingruentium somniorum praedictumque ab interpretibus vitae exitum animo recordatus est, vulneratus ab eo, quem minime crediderat, triduo post mortem obiit senior iam provectae aetatis neque tamen invalidus virium.
Telegono riesce però a penetrare:
30135 Veit ses homes qu'il li a morz,
De que li est granz desconforz;
Quide qu'il ait cuer e talant
De faire de lui autretant;
— D'ansdous les mains li a lanciee
30140 La lance reide e aguisiee
De tel aïr que les costez
Ot sempres toz ensanglentez.
En petit d'ore fust feniz.
E’ l’incontro non di un padre de figlio ma di due uomini spaventati che si sentono minacciati e aggrediti:
Telegonus ot grant esfrei,
Toz forsenez e d'ire pleins,
Son père fiert par mi le cors,
Qui de maint péril ert estors
E de mainte bataille dure;
Mais itel esteit s'aventure.
.
Ulisse ingannatore e fraudolento sembra così gioire per avere ancora una volta di avere vinto l’oracolo, l’uomo che lo ha ucciso non è l’amato figlio. Ma non è così. Prima di spirare chiede chi sia colui che ha ucciso Ulisse:
Veit qu'il est morz: mout est haitiez
E mout se fait joios e liez
De ço que les devinemenz,
Les songes, les auguremenz
A engeigniez e sormontez
Sor son chier fil Telemacus
Nule rien ne quereit il plus,
Ne mais que en lui n'enchaïst
Ne parrecide n'i feïst.
Dès qu'ensi ert a avenir.
El n'i aveit mais del morir,
Quant il retint son esperit;
A grant peine parole e dit:
«Qui iés,» fait il, «e dont es nez
N'en quel terre est tis parentez
Ne quel non as ne dont venis,
Qu'ensi as Ulixès ocis,
Celui qui tanz biens a eu,
Tantes honors e tantes gloires, (vv. 30157-79)
Capì che stava morendo ne fu fu risollevato e si mostrò assai felice e contento per aver eluso e smentito le premonizioni, i sogni e gli oracoli dato che non si erano avverati quelli riguardanti il suo amato figlio Telemaco. Non c’era cosa che desiderasse di più del fatto di non esserrsi imbattuto in Telemaco e che questi non avrebbe commesso un parricidio.
Disperata è la scoperta del figlio quando comprende che invece di riunirsi a suo padre è lui involtario assassino:
Così Ditti:
Tunc Telegonus cognito parentem esse utraque manu dilanians caput fletum edit quam miserabilem maxime discruciatus ob inlatam per se patri necem. Itaque Vlixi, uti voluerat, nomen suum atque matris, insulam, in qua ortus erat et ad postremum insigne iaculi ostendit.
Telegonus veit e entent
Qu'il a espleitié malement,
Plore des ieuz e brait e crie,
Requiert e vueut que l'om l'ocie.
Ses cheveus blonz ront e detrait,
Tote la chiere se desfait;
En mi la place chiet pasmez:
Onques nus hom de mère nez
Si doloros duel mais ne fist. (30189-99)
30200 A Ulixès parla e dist :
«Sire dous, sire chiers, aaiis,
En si male hore vos ai quis
E en si estrange vos vei!
Por quel ne part li cuers de mei,
Quant morir vos vei par mon fait?
Trop par a ci doloros plait.
« Père, » fait il a Ulixès,
Vos m'engendrastes en Circès,
Vostre fîz sui Telegonus,
Quar ja mais joie nen avrai,
Dès que ensi ocis vos ai.
De l'isle dont il esteit nez
Li a les entreseinz mostrez,
Puis se repasme e chiet a denz,
Si que n'en ist espiremenz.
Ulixès sot qu'ensi esteit
30220 E que veir ert ço qu'il diseit. (vv. 30200-20)
Telegono udì e comprese di avere fatto un errore aveva ucciso suo padre per sbaglio: capì di essersi totalmente ingannato, pianse calde lacrime e e gemette e gridò chiedeva e voleva che lo uccidessero. Si strappò e si tirò i capelli biondi, si sfigurò tutto il viso, cadde a terra svenuto (...)
Si rivolse a Ulisse e disse: “Mio amato signore, mio caro signore, amico mio, vi ho cercato proprio in un momento sfavorevole, vi vedo in circostanze terribili! Perché non si spezza il cuore vedendovi morire a causa mia? Questa è una situazione davvero tragica. Padre- disse ad Ulisse- Voi mi avete generato con la valorosa regina Circe, colei che vi ha tanto amato. Sono vostro figlio Telegono, ma ora non voglio più vivere, perché dopo avervi ucciso in questo modo non proverò più alcuna gioia.”
L’Ulisse crudele artefice d’inganni sembra ora cedere il posto ad un uomo diverso pronto ad accogliere il destino e pur sofferente ad abbracciare e perdonare il figlio nato da Circe:
Ainz que l’ame s’en fust alee,
ot mout joï Telegonus;
e acolé cent feiz e plus
e conforté mout bonement. (vv. 30230-33)
Prima che l’anima di Ulisse volasse via, questi salutò con gioia Telegono; e lo abbracciò più di cento volte e lo consolò con grande affetto
Ne puet l’om dire ne retraire
L'estrange duel desmesuré
E sis chiers fiz Telegonus.
3o25o Treis jorz vesqui e neient plus:
Ensi morut com vos oëz.
Mout par esteit granz sis aez,
Maint jor e maint an ot vescu:
Por quant si ert de grant vertu
E de grant force ancore al jor.
Seveliz fu a grant honor.
En Achaie l'en ont porté:
La fu enoint e embasmé,
La li firent un tel tombel
Qu'en tot le siegle n'ot si bel.
A merveilles jut hautement ;
Plainz e plorez fu longement. (30246-62)
Al parricidio il Roman de Troie oppone e amplifica la pace fraterna fra i figli di Ulisse come già fra i figli di Ettore, e Telemaco e telegono sembrano ereditare la saggezza ma non l’arte dell’inganno:
Telemacus reçut l'empire,
Coronez fu a grant hautece.
Grant valor ot e grant proëce ;
Sages fu mout e dreituriers ;
Quatre vinz anz régna entiers.
Son f