L’italiano di Toto Cotugno 1983 - droit.parisdescartes.fritalien+2017.pdf · commisssione di...

42

Transcript of L’italiano di Toto Cotugno 1983 - droit.parisdescartes.fritalien+2017.pdf · commisssione di...

L’italiano di Toto Cotugno 1983

Lasciatemi cantare con la chitara in mano Lasciatemi cantare, sono L'italiano Buongiorno Italia gli spaghetti al dente e un partigiano come Presidente con l'autoradio sempre nella mano destra un canarino sopra la finestra Buongiorno Italia con i suoi artisti con troppa America sui manifesti con le canzoni, con amore, con il cuore con più donne sempre meno suore Buongiorno Italia buongiorno Maria con gli occhi pieni di malinconia buongiorno Dio lo sai che ci sono anch'io Lasciatemi cantare con la chitarra in mano lasciatemi cantare una canzone piano piano Lasciatemi cantare perché ne sono fiero sono l'italiano l'italiano vero Buongiorno Italia che non si spaventa con la crema da barba da menta con un vestito gessato sul blu e la moviola la domenica in TV Buongiorno Italia col caffè ristretto le calze nuove nel primo cassetto con la bandiera in tintoria e una 600 già di carrozzeria Buongiorno Italia buongiorno Maria con gli occhi pieni di malinconia buongiorno Dio lo sai che ci sono anch'io Lasciatemi cantare con la chitarra in mano lasciatemi cantare

una canzone piano piano Lasciatemi cantare perché ne sono fiero sono l'italiano l'italiano vero. Lasciatemi cantare con la chitarra in mano lasciatemi cantare una canzone piano piano Lasciatemi cantare perché ne sono fiero sono l'italiano l'italiano vero.

http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/11/01/news/addio-tina-anselmi-partigiana-e-riformista-

1.286995

Addio Tina Anselmi, partigiana e riformista Non fu solo la prima donna a diventare ministro, ma soprattutto una grande artefice

del welfare italiano. Cercò di fare luce sula P2 e anche per questo poi fu emarginata.

Aveva tutte le doti per diventare presidente, ma quando ci fu la possibilità il

centrosinistra non ebbe il coraggio di mandarla al Quirinale e le preferì Napolitano

DI ADRIANO BOTTA

01 novembre 2016

Ai più giovani il suo nome dice poco o nulla. Del resto aveva lasciato la politica di

palazzo - e la capitale, Roma - da più di vent'anni, e di sua volontà. "Rara avis", in un

panorama politico di ministri e parlamentari che spesso restano attaccati alla

poltrona finchè possono. Ma lei è sempre stata di pasta diversa: e così era tornata

nelle sue terre, il trevigiano, dove finché ne ha avuta la forza ha anche coltivato l'orto.

Peccato che i ragazzi la conoscano poco, Tina Anselmi, morta a quasi 90 anni a

Castelfranco Veneto, dov'era nata. Peccato perché è stata una delle figuri migliori

della Prima repubblica.

Ancora adolescente, nel 1944 partì con i partigiani (nome di battaglia "Gabriella"),

prima come staffetta poi al Comando regionale veneto del Corpo Volontari della

Libertà.

A Liberazione avvenuta divenne maestra elementare, entrando in politica - da

cattolica di sinistra - attraverso l'attivismo sindacale.

E nella Dc degli anni Cinquanta- Sessanta, contenitore di tante anime, si fece a poco a

poco strada, con la sua determinazione morale e accanto al suo mentore politico, Aldo

Moro.

A Chiara Valentini, che l'ha intervistata dieci anni fa per l'Espresso in occasione della

pubblicazione della sua autobiografia ("Storia di una passione politica", scritta con

Anna Vinci, Sperling & Kupfer), Anselmi spiegava che di Moro ricordava

soprattutto «la severità intellettuale».

Raccontava Anselmi: «Fra noi non c'era confidenza. L'avevo visto la sera prima che lo

rapissero e forse per la prima volta si era lasciato andare. "Pochi si rendono conto che

l'Italia è sull'orlo di un abisso", mi aveva detto guardandomi negli occhi. Non si può

dire che non avesse ragione. Non ho nessun dubbio che se non lo avessero ucciso la

storia d'Italia sarebbe stata diversa. Sono convinta oggi più di ieri che il suo è stato un

assassinio politico. Moro è stato ucciso perché non potesse più influire sul futuro del

nostro paese. In quegli anni le cose stavano cambiando. Si è voluto troncare il

cambiamento. Certo, non ho prove da esibire in tribunale, ma indizi e fatti che

riguardano la sua prigionia e anche quel che è successo dopo. Si è potuto capire da

parecchie cose che Moro doveva morire. In quei giorni è cambiata la storia d'Italia, è

cominciato un declino che ci ha portato alla situazione attuale».

All'ombra di Moro, Anslemi fu la prima donna a diventare ministro, nel governo di

unità nazionale sostenuto (con l'astensione) anche dal Pci, anno 1976. Andò al lavoro

e alla previdenza sociale, dove si impegnò per garantire la parità di genere e la

concertazione con i sindacati.

Più tardi avrebbe trasferito i suoi principi riformisti al ministero della sanità,

contribuendo in modo determinante a realizzare il Servizio sanitario nazionale -

pubblico e universale - del quale ancora oggi godiamo. Un pezzo di welfare che spesso

diamo per scontato, e che invece non esiste - con le garanzie italiane - nella maggior

parte dei Paesi del mondo.

Nel 1981 Nilde Iotti, allora presidente della Camera, le chiese di presiedere la

commisssione di inchiesta sulla P2.

Ancora dall'intervista all'Espresso: «Iotti mi chiamò e mi disse: "Tutti mi dicono che

sei l'unica su cui non ci sono ombre, non puoi dirmi di no". "Non sono un magistrato,

forse non ce la potrò fare", avevo obiettato. Ma la Iotti sapeva convincerti. Avevamo

molto in comune, venivamo dalla Resistenza, credevamo nelle istituzioni, avevamo la

stessa origine cattolica. In quella commissione abbiamo fatto tutto quel che

potevamo. Nell'elenco di Gelli c'era buona parte di quelli che contavano, uno spaccato

tremendo del paese. Ho avuto pressioni, minacce, denunce, sette chili di tritolo

davanti a casa, era una vita impossibile. Ma c'era anche chi ci aiutava ad andare

avanti, come il presidente Pertini, che ha giocato un ruolo molto maggiore di quel che

si crede. Anche Wojtyla mi aveva incoraggiato. Una volta che ero a San Pietro il papa

mi aveva mandato a chiamare. "Forza, forza", mi aveva detto battendomi con la mano

sulla spalla. Conservo la foto di quell'incontro. Quello che mi fa male è che molti

uomini della P2 siano passati indenni da quegli anni. Basti ricordare Berlusconi,

tessera numero 1.816».

Lasciata la politica attiva e ogni carica pubblica, Anselmi è stata considerata

nei decenni successivi una "riserva della Repubblica", tanto che il suo nome è

circolato a più riprese per il Quirinale. In realtà, al netto degli encomi pubblici, a

Roma aveva ancora troppi nemici per poter diventare davvero presidente. E i suoi

avversari non erano soltanto nella destra di Berlusconi, della quale è stata per un

ventennio acerrima avversaria.

Nonostante questo, ancora nel 2006 (scaduto Ciampi), diverse associazioni di base

proposero di candidarla al Quirinale.

Il centrosinistra, come noto, le preferì Napolitano.

Tina Anselmi e le pari opportunità di Maria Grazia Colombari

VIII congresso nazionale della DC-febbraio 1962 Napoli Tina Anselmi, incaricata nazionale

delle giovani donne della DC, chiede il microfono e prende la parola. Il suo intervento toccava

un tema importante: i diritti delle donne lavoratrici. Evidenziava, nel suo discorso, come la

manodopera femminile avesse giocato un ruolo decisamente importante per la trasformazione

socioeconomica dell’Italia e sottolineava come, per contro, la società invece tendesse a non

riconoscerle i diritti di lavoratrice. Con determinazione sottolineava come si rendesse

necessaria una modifica delle leggi a tutela della famiglia nell’ambito della società. La

legislazione dello Stato Italiano, al tempo ancorata ai principi del vecchio Stato Liberale post

unitario doveva essere riformata ed adeguata alle esigenze dei tempi nuovi in grado di

riconoscere i diritti delle lavoratrici coniugandole con le necessità famigliari.

Le pari opportunità

Il concetto di famiglia patriarcale per l’Anselmi non aveva più ragione d’essere e andava

sostituito con una visione paritaria tra moglie e marito. Tina Anselmi sebbene di formazione

cattolica era politicamente laica e riteneva ormai anacronistica la figura della donna quale

angelo del focolare. Per questo incitava le donne ad avere coraggio e a farsi riconoscere quei

diritti che la società tendeva a negare. A distanza di 15 anni dal congresso di Napoli, verrà

approvata nel 1977 la legge che prevedeva la parità di trattamento e di assunzione

uomo/donna in materia di lavoro: era ministro del Lavoro Tina Anselmi.

La presenza femminile in Parlamento

Nel 1981 si occupa della Loggia P2 e nel presiedere la commissione parlamentare dimostra

fermezza e disciplina tant’è che viene ricordata come una deputata dalle “mani pulite” Lei

stessa diceva che non aveva alcun problema a rapportarsi con i colleghi maschi caso mai

erano loro ad avere difficoltà a rivolgersi a lei. Tina Anselmi, oltre ad essere stata la prima

donna ministro, va ricordata anche per aver voluto che le aule della Camera vedessero una

maggior presenza di donne elette. Negli anni Settanta, le donne che sedevano in Parlamento

erano in effetti poche e rappresentavano circa l’8% dei Deputati. Le donne erano tenute

lontane dalla politica per via dei pregiudizi e degli stereotipi che giudicavano la politica un

mestiere maschile per i toni e per il linguaggio che poco si addiceva ad una donna per cui era

meglio che le donne si occupassero solo della famiglia.

La clausola “di genere”

Tina Anselmi che riteneva inaccettabile questa disparità fece inserire una clausola di genere

nella la nuova legge elettorale del 4 agosto 1993 n.277 per aumentare la presenza femminile

in Parlamento. Questa clausola imponeva ai partiti di elencare alternativamente nelle liste

elettorali i candidati e le candidate alla Camera dei Deputati. In questo modo alle elezione del

1994 vennero elette molte donne suscitando com’ era ovvio una serie di discussioni anche tra

le stesse donne contrarie a far stabilire per legge quale rapporto dovesse esserci tra politica e

donne. Tina Anselmi è stata una figura di riferimento per le donne ed è stata autrice di

importanti cambiamenti sociali. Lei come tante altre donne, alcune ingiustamente dimenticate

dalla storia, hanno combattuto a lungo per conquistare la parità tra i sessi. Molti ostacoli

giuridici e culturali al lavoro femminile sono stati abbattuti ed oggi la donna può almeno sulla

carta accedere a tutte le professioni.

2 novembre 2016 (modifica il 2 novembre 2016 | 02:52)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

1. Virginia Raggi e Chiara Appendino Ritratto delle golden ladies del M5S

Virginia Raggi e Chiara Appendino Ritratto delle golden ladies del M5S 21 giugno 2016

Una, sostanzialmente, era sindaco già da un paio di settimane, l’altra invece è stata la sorpresa più incredibile di questa tornata elettorale: Virginia Raggi e Chiara Appendino, nuovi primi cittadini di Roma e Torino, sono state le protagoniste assolute dei primi, veri successi del M5S dalle elezioni politiche del 2013 a questa parte. Giovani, donne, dal cursus honorum più o meno intonso: caratteristiche che sembrano piacere parecchio ai (pochissimi) italiani che in queste amministrative hanno voluto dire la loro di fronte alle urne. Eppure, due profili molto diversi, per estrazione sociale, formazione e rapporto con il Movimento, probabilmente perfettamente tarati alle esigenze degli elettorati di due città tanto diverse come Roma e Torino.

Virginia, l’intransigente un po’ radical che si è presa Roma dal basso. Già consigliere comunale durante il mandato di Ignazio Marino, Virginia Raggi è laureata in giurisprudenza, e fino a ieri lavorava nel reparto di diritto civile dello studio legale Sammarco di Roma, quello che ebbe diversi clienti illustri fra i quali Berlusconi, Previti e Dell’Utri, cosa che ad inizio campagna elettorale le creò qualche grattacapo, perlopiù mediatico. Classe 1978, sposata (ora separata) e con un figlio di 7 anni, la Raggi scoprì la galassia grillina grazie al marito, nel 2011. Fin dagli anni dell’università si è sempre impegnata in vari campi del sociale: volontariato nei canili municipali, distribuzione di prodotti equo-solidali, e via dicendo. Dal 2011, dunque, ha iniziato a far parte del M5S, prima come semplice attivista impegnata in banchetti in giro per le piazze romane, poi in collaborazione con i Comitati di quartiere, e infine in qualità di consigliere comunale, carica che ha ricoperto dal 2013 dopo aver ottenuto 1.525 preferenze alla penultima tornata amministrativa della Capitale.

Le radici elettorali della Raggi, dunque, affondano in particolare nel tessuto cittadino più vicino agli ambienti sociali e assistenziali: collaborazione con la Asl di Civitavecchia, canili ed equo-solidale di cui si è detto, rapporti con associazioni come l’Ex Lavanderia e supporto ad occupazioni solidali di luoghi come l’ex Manicomio Provinciale Santa Maria della Pietà. È da questi ambienti che la Raggi ha raccolto i voti, oltre a quelli del M5S, per prendersi il Campidoglio. Virginia è inoltre un profilo particolarmente apprezzato nel mondo grillino per la sua assoluta devozione all’ortodossia più intransigente del credo pentastellato: fiera sostenitrice delle proposte politiche più tipiche, come il reddito di cittadinanza, orgogliosa firmataria del decalogo stilato ad inizio campagna elettorale e proposto dai vertici a tutti i candidati, ha un nemico politico giurato, quel Pd che ha strapazzato ai ballottaggi con la perentorietà di una percentuale di consenso che punto più punto meno doppia quella del dem Giachetti. Ora a lei il compito in assoluto più complicato dell’intero panorama comunale italiano: rimettere in piedi Roma. Auguri.

Chiara, la ribelle da salotti buoni che si è presa Torino dall’alto. Tutt’altra vicenda invece quella di Chiara Appendino, che ad appena 31 anni è il nuovo sindaco di Torino. Laureata in Economia e Commercio alla Bocconi di Milano, prima di cominciare a far politica ha lavorato alla Juventus, nel ramo della pianificazione finanziaria. Nel 2011 è stata eletta in consiglio comunale, dove, si dice, si è fatta particolarmente apprezzare, anche dalle controparti politiche. La Appendino, al contrario della collega romana, è da sempre frequentatrice dei migliori salotti di Torino: il padre è in stretti rapporti professionali con il presidente di Confindustria Piemonte, e fin dall’inizio della propria carriera Chiara ha avuto modo di conoscere e di entrare in rapporto con il variegato e influente tessuto imprenditoriale della città della Mole.

È da questi ambienti che è arrivato il principale sostegno alla candidatura a sindaco, per quanto la Appendino sia vicina anche a realtà del tutto opposte, su tutte quella dei No Tav: rispetto al treno ad alta velocità, infatti, ha già fatto sapere di essere decisamente contraria. Proprio da una storica militante No Tav piemontese, Laura Castelli, Chiara ricevette il primo, mediatico endorsement al momento della candidatura ufficiale. Per quanto riguarda i rapporti con il M5S, la Appendino ha sempre preferito, tendenzialmente, farsi gli affari propri, da un certo punto di vista: non ha firmato il decalogo per i candidati alle amministrative, non si interessa minimamente delle questioni nazionali del suo partito, preferendo occuparsi esclusivamente della realtà torinese. Toni sempre pacati ma spiccata determinazione, nemmeno il compito della Appendino sarà semplice: dimostrare ai suoi concittadini che aver mandato a casa un sindaco comunque molto apprezzato in favore di una trentenne non è stata una pura follia. Auguri pure a lei.

QuandoUnitedColorsofBenettonincontròlotsunamipubblicitarioOlivieroToscani…Published27/04/2011ComunicazioneSociale15Comments

«Ilconformismoèilpeggiornemicodellacreatività.Chiunquesiaincapacediprendersideirischinonpuòesserecreativo»OlivieroToscani.

Oliviero Toscani, figlio del primo reporter del Corriere della Sera, è forse il più discusso

fotografo italiano contemporaneo, egli ha saputoconiugare l’arte fotograficaaquellacomunicativa, inmodooriginaleeanticonformistamasempre con una grande libertà di pensiero. Lavora con numerosi marchi come Prenatal,Fiorucci,ecc,diventandounodeifotografidimodapiùapprezzatialivellointernazionale,maadaprire lastradaallanuovaformulacommercialechesistaccadaltipodicomunicazionepubblicitariadelpassato,èlaBenetton,conlaqualeToscaniinstauraunconnubioapartiredal 1986. Per 18 anni il fotografo milanese si occupa della pubblicità dell’azienda,sviluppandoanche la suapresenzaonline, creandoPlaylife, ramo sportivodellaBenetton,fondando nel 1990 il giornale Colors e nel 1993 “Fabrica”, un innovativo centro studiinternazionaleper le arti visivee la ricerca sulla comunicazionemoderna.Ha insegnato indueuniversitàedhaprodottodiversiprogettieditoriali, facendosipromotoredinumeroseiniziativeacaratteresociale.

Isuoi lavoridestinatialmondodellapubblicità,possonoesserevisticomeunospartiacquetraunmodellocommercialedifotografiapubblicitariatradizionaleequellomoderno,incuinonèpiùl’oggettocommissionatoacolpirel’attenzionedell’osservatore,mailsoggettocheriflette il pensiero dell’autore. Toscani, infatti, realizza immagini che, al di là di precisiobbiettivi di mercato, affrontano problematiche sociali mai toccate prima di allora dal

mondodellapubblicità commerciale. I suoi scatti hanno fatto fronte ai temidel razzismo,dell’ecologia, del sesso, dell’Aids, ecc. Toscani perfeziona e usa deliberatamente unlinguaggioscioccanteesconvolgente,spessocrudoespietato,ilpiùdellevolteosteggiatoenon compreso, tanto da venir criticato ripetutamente per i metodi pubblicitari di shockadevrstinge citato in giudizio più volte. Il fotografo milanese, insomma,ha fatto dellaprovocazioneun’arte, attraverso lo scandaloe il disorientamentogeneratodai suoi lavori.Eglihavolutocolpireconforzailcastellodipregiudizi,d’ipocrisia,diperbenismo,malafedeideologica, convenzioni comportamentali evisuali dentro al quale è saldamente barricatagran parte dell’opinione pubblica sia italiana, sia mondiale. Che lo si accusi di ricaduted’immagine o di sfruttamento a scopi di notorietà dei sentimenti di sgomento ocosternazione provocati nell’osservatore, poco importa. Infatti, Toscani si può amare oodiare, ma è indubbio che sia sempre capace di produrre discussione su temi talvoltascottanti e difficili. Questa è la sua forza, unita a un grande talento tutto da vedere eammirare.

Iprimi reportagediToscanimettono in luce le caratteristichedei tempi checorrevanoe iritrattidellenuovemodeedeinuovicomportamenti.Isuoiprimiscattilofarannoconoscereagli addetti ai lavori,facendogli guadagnare contratti con le migliori riviste di moda.Soprattuttoduescattitraisuoiprimilavorihannofattoscalpore:sonoquelliconosciutissimiperiJesusJeans.Lapubblicità,uscitainItalianeglianni‘70,scandalizzònonsoloPierPaoloPasolini,ma l’intero paese.Già il nome “Jesus Jeans” era per Toscani vincente: il giovaneimprenditore Maurizio Vitale li produceva con i telai del Maglificio Calzificio di Torino ecercava un modo per sfondare nel mercato, ci ha pensato Toscani. Nella prima fotol’immagineraffiguranteunaragazzeapettonudoecon i jeanssbottonatial limitedeipelipubici;nell’altra,ancorpiùcelebre, lenatichedellamodellaDonnaJordan,semicopertedashortdecisamentesuccinti.Nel2008OlivieroToscanihadecisodiriproporrequestasecondaidea, lievemente modificata, per la campagna pubblicitaria del quotidiano l’Unità.Inquest’ultimocasoil“latoB”èquellodellafigliadiToscani.

Ècomunquedal1986,quandoiniziaacurarelecampagnepubblicitarieperilgruppoBenettoncheiniziaaessereconosciutoalpubblicomondiale.Lasuamacchinafotografica,infatti,caratterizzeràfinoal2000ilmarchio,concampagnepubblicitariemoltopersonalieprovocatorie,alcunedellequalisonostateoggettodicensura,altreinveceglihanno

permessodiriceverealcunitrairiconoscimentipiùprestigiosidelsettore,comeil“GrandPrixdell’Unesco”eil“GrandPrixdell’Affichage”.

LeprimecampagneBenettonpuntanoalsovvertimentodeglistereotipi:le“coppie”ritrattedaToscanimettonoinscenaunanuovainterpretazionedella“differenza”.Iltermine,infatti,acquistaquiunsignificatopolemicoeoppositivodigrandeimpatto.Gliscattimostranodiversitipidi“opposizioni”:quellareligiosaepoliticatrailragazzopalestineseel’israeliano,quellareligiosaesessualenelpretecheabbraccialasuora,quellamoraleinsitaneglistereotipidelbeneedelmalesimboleggiatidall’angiolettoedaldiavoletto.Tuttequesteopposizionisifondanosuproibizioni,suun’impossibilitàdicoesistenza,suunadifferenzacheseparainvececheunire.ToscanieBenettonquindi,prendendoattodiquestediversitàedivieti,s’impegnanoperfarsìchelamarcaassumauntonopiùimpegnato,nonsilimitiafornireunasemplicerappresentazione“oggettiva”delmondo,masiimpegniadassicurarelacoabitazionediidentitàopposte,perabbatterelebarriereeassicurareildialogotraipopoli.Benettoninpraticametteinpiedil’ambiziosoprogettod’integraregliopposti,appianareledifferenzeecombatterelediversitàsottoun’unicabandiera,quelladellamarca.

[….]Lacampagna,apparsainaffissioneesullepaginedellepiùimportantitestategiornalisticheinEuropa,AmericaeAsia,dalgennaio2000,poneBenetton,ancoraunavolta,nellacondizionediguardareinfaccialarealtàediaffrontareunatematicasocialeforte.Propriocomenellesueprecedenticampagne,tracontrastiaccesiericonoscimentiinternazionali,ToscanieBenettonhannosaputosuperareilmurodell’indifferenza,contribuendoasensibilizzareicittadinidelmondosuproblemiuniversalie,nelfrattempo,

hannopropostostradeinnovativenellacomunicazioned’impresa.

Riguardoaquestacampagnaperòlecosenonandaronobene:ToscaniinfattivenneaccusatodalloStatodelMissouridifalsofraudolentoperaverritrattoconl’ingannodeicondannatiamorte.Secondol’accusa,chiedendoilpermessodiscattarelefotodeicandidatiallasediaelettrica,l’artistanonavrebbespecificatoairesponsabililoscopopercuivolevaritrarreicondannati,cioèquellodirealizzareunacampagnapubblicitaria.Lecritichealfotografoeall’aziendafuronomolte,tantocheunagrossacatenadigrandimagazzinidegliStatiUnitiboicottòicapiBenettonperprotestarecontroquellacheeraconsiderataun’ingerenzaingiustificatanegliaffariinterniUsa.Toscanisigiustificòdicendochelacampagnanonerarealepubblicitàcommerciale,maunaveraepropriacampagnasocialechetrattavalaproblematicadeidirittiumaniedellapenadimorte.Benettonintantodecisediscusarsiconiparentideicondannaticondellelettereformaliedidonare50miladollarial

FondoperilrisarcimentodellevittimedelcriminedelloStatodelMissouri,finendopertiraresudiséladisapprovazionediToscani,fattochesicuramentehaportatoallarotturapocotempodopo.Infatti,ilfotografomilanesesièdettodasubitocontrarioaquestopatteggiamento,ribadendochelasuaposizioneeisuoiscattisonocontrolapenadimorteenonasfavoredellefamigliedellevittimeeaccusòl’aziendaBenettondiaverfattoprevalereleragionidelprofitto.PocotempodopoLucianoBenettoneOlivieroToscanichiudonolalorocollaborazionedopo18annidibrillantesodalizio.

AliceSecchi

ARTE 29/082011

Intervista al maestro Oliviero Toscani

© Oliviero Toscani

INTERVISTA AD OLIVIERO TOSCANI

Luceonline: da un punto di vista etimologico, fotografare significa scrivere con la luce e in questo

senso una giusta illuminazione può evidenziare un dettaglio importante o mascherare un difetto,

può aggiungere o togliere enfasi

Oliviero Toscani: la definizione di fotografare è calzante perché la fotografia vuol dire selezionare

qualcosa tra tutto ciò che è possibile vedere, inoltre si usano tutte le varie opportunità che la luce

consente, la scrittura della luce permette di poter esprimere il proprio punto di vista, ciò che si

vuol far vedere. La fotografia è in realtà la memoria storica dell’umanità, da quando c’è la

fotografia esiste la storia, prima dell’invenzione della fotografia essa è tutta contestabile.

L: come l’utilizzo della scrittura ha segnato il passaggio dalla preistoria alla storia, in qualche modo

la fotografia ha rappresentato un altro passaggio importante

T: in un certo senso la fotografia è molto più importante della scrittura perché grazie ad essa

conosciamo realmente le grandi tragedie umane. Dal momento in cui è apparsa la fotografia

abbiamo iniziato a farci domande sui malfatti umani. Conosciamo la tragedia della Shoa grazie alla

fotografia ma ci son state altre sciagure, altre shoa prima dell’ultima guerra mondiale che saranno

state altrettanto tremende, pensiamo alle crociate o alla stessa riunificazione dell’Italia di 150 anni

fa, per fortuna non ci è giunta nessuna testimonianza fotografica perché altrimenti oggi saremmo

molto imbarazzati.

L: come nasce questa sua passione per la fotografia? Dall’esempio di suo padre o è qualcosa che ha

sviluppato autonomamente?

T: no no, è chiaro che ho preso esempio da mio padre, inoltre ho una sorella maggiore, molto più

grande di me, anche lei fotografa quindi è stato normale in famiglia. Trovo che fare il mestiere di

famiglia non sia un male, perché si ha già nel dna qualcosa, come un istinto.

L: qualcosa che si tramanda in realtà.

T: si penso di si, ho vissuto da bambino in mezzo alla fotografia ed è stata una cosa normale per

me fare questo mestiere. Non ho rimpianti, non penso a cos’altro avrei potuto fare e come sarebbe

cambiata la mia vita se avessi scelto di fare qualcosa di diverso. La realtà è che ancora non ho ben

scelto cosa farò da grande.

© Oliviero Toscani

L: basta scorrere velocemente il suo curriculum per rendersi conto di quante esperienze diverse

oltre alla fotografia lei ha fatto e continua a fare, a tal proposito ho letto che ha fondato Fabrica e

anche La Sterpaglia, che potremmo definire dei centri di ricerca della comunicazione, con la

volontà di orientare gli allievi nei vari settori dell’ambito artistico. Cosa spera per le nuove

generazioni?

T: spero che le nuove generazioni comincino a svegliarsi e a diventare un po’ più sovversive. Le

nuove generazioni sono molte sedute, sono molto miti, sono molto grasse, stanno molto

bene; speriamo che dal terzo mondo arrivi qualcuno

che le svegli un po’, perché i nostri figli e nipoti sono molto miti, gentili, educati, io non ero così

alla loro età.

L: una generazione che ha avuto più comodità

T: una generazione molto inerte, che si accontenta di registrarsi e navigare su fb e si accontenta

così di quelle sciocchezze di tecnologia. L’attuale generazione è stata soffocata dalle macchine,

quindi sto aspettando una generazione che non sarà più condizionata dalla tecnologia ma che

comincerà ad utilizzarla

L: nasce spontanea la domanda, cosa pensa delle nuove tecnologie, della domotica, dei vari canali

di comunicazione che in qualche modo da un lato frenano l’iniziativa, la creatività umana e

dall’altra però possono aiutarla a raggiungere un maggior benessere.

T: personalmente non ho nulla contro la tecnologia, è una cosa inerme, come le bombe, le bombe

stanno lì se non si toccano non scoppiano. Il problema è che in questo momento comanda la

tecnologia, siamo succubi di essa. Ripeto, non ho nessun problema con la tecnologia, perché già il

mio mestiere di fotografo dipende dalla tecnologia. La tecnologia non è un male quando non si è

schiavi, non si è condizionati. La creatività però non ha nulla a che fare con la tecnologia. Essa è un

mezzo per arrivare alla cosa più importante, come la luce. La tecnologia racchiude tutte le

possibilità, purtroppo però al giorno d’oggi se si spegne la tecnologia si spegne il cuore e il cervello

di tutti i giovani che invece vorrebbero essere creativi. Molti credono di esserlo ma quando poi c’è

da creare realmente vanno in crisi, guardiamo ad esempio alla musica contemporanea, non c’è

nessuno che spicchi e si continuano ad ascoltare i vecchi gruppi.

© Oliviero Toscani

L: a tal proposito in passato ha affermato in una delle sue interviste che nella realtà in cui viviamo

tutto spesso sembra essere falso, come se fosse tutto una rappresentazione, secondo lei la

fotografia può, con le immagini, contribuire a rendere più vera questa realtà, a comunicare un

messaggio culturale migliore?

T: Non ho detto che viviamo in una realtà falsa, viviamo in una realtà dove l’immagine è diventata

più importante della realtà stessa. Tutto ciò che conosciamo in grande percentuale lo conosciamo

perché abbiamo visto delle immagini, dunque una conoscenza per immagini. Pensiamo agli uomini

che vivevano ai tempi in cui non c’erano immagini, o meglio ai tempi in cui le uniche immagini che

si potevano vedere erano quelle degli affreschi nelle chiese; ai tempi di Michelangelo o di Leonardo

non c’erano immagini pubbliche, la gente vedeva solamente le iconografie del potere

religioso, solamente religioso, i grandi poteri dunque si sono imposti grazie alla comunicazione.

Oggi viviamo in un mondo dove la comunicazione soprattutto quella visiva è dittatoriale, noi

crediamo a ciò che vediamo in TV; ormai la verità è vera solamente se provata dal sistema

tecnologico cioè la tv, i giornali.

Il potere ha bisogno della comunicazione e in questo caso delle immagini per potersi imporre e

l’artista ha bisogno del potere per distinguersi, questo è un rapporto che c’è sempre stato. Io non

credo nell’artista tutto solo nel suo studio, isolato mentre realizza le sue creazioni. Il grande artista

aveva a che fare col potere diretto cioè lavorava per il papa, il grande artista si è sempre confrontato col

grande potere religioso, politico o industriale.

fine prima parte

SPETTACOLI & CULTURA

Su giornali e cartelloni pubblicitari la foto di una ragazza anoressica È l'ultima provocazione del fotografo milanese. Apprezzamenti e critiche

Campagna choc contro l'anoressia Oliviero Toscani torna a far discutere Armani: "Scelta giusta, vorrei poter conoscere questa ragazza".

ROMA - L'anoressia ha gli occhi e il corpo nudo di Isabelle Caro: 31 chili di ossa, che da questa mattina campeggiano sui manifesti delle più grandi città italiane. Una sola foto, drammatica e controversa com'è nella storia dell'autore: Oliviero Toscani. E nella settimana della moda di Milano non poteva non far discutere "No anoressia", la nuova campagna Nolita realizzata dal fotografo milanese per il gruppo Flash&Partners. Una provocazione, ma soprattutto un allarme su una tragedia del nostro tempo. Ancora più sconvolgente perché a interrogarsi sul problema è il mondo delle passerelle, accusato da tempo di diffondere falsi miti di bellezza. La campagna. Non lascia spazio a interpretazioni la foto di Isabelle Caro. È lei la ragazza anoressica protagonista della campagna pubblicitaria di Nolita, il fashion brand del gruppo Flash&Partners. La modella francese ha accettato di esporsi nuda allo scatto di Oliviero Toscani per mostrare a tutti la realtà di una malattia che insieme alla bulimia, vede coinvolte oltre due milioni di persone in Italia. "Mi sono nascosta e coperta per troppo tempo - afferma Isabelle - adesso voglio mostrarmi senza paura, anche se so che il mio corpo ripugna". Una malattia lunga 15 anni, che l'ha ridotta a pesare 31 chili: "Le sofferenze fisiche e psicologiche che ho subito hanno un senso solo se possono essere d'aiuto - spiega la ragazza francese - a chi è caduto nella trappola da cui io sto cercando di uscire". Non è nuovo alle polemiche Oliviero Toscani, che spiega: "Io ho fatto come sempre un lavoro da reporter: ho testimoniato il mio tempo. Sono anni che mi interesso al problema dell'anoressia. Un tema tabù per la moda. Come l'Aids ai tempi . Adesso l'argomento tabù è l'anoressia". Quanto alle responsabilità, continua il fotografo milanese, il discorso è più complesso: "Io non credo che la moda abbia grandi responsabilità nel problema dell'anoressia, - conclude Toscani - è una cosa molto più ampia che riguarda tutti i media e in particolare la televisione, che propone alle ragazze modelli di successo assurdi ". Le reazioni. Apprezzamenti ma anche dissensi. La campagna di Nolita divide, com'è nello

stile di Toscani. Sostegno arriva dal ministro della Salute, Livia Turco. "Apprezzo sinceramente sia i contenuti che le modalità di realizzazione. Un'iniziativa come questa è uno strumento da prendere in assoluta considerazione". Reazioni anche dalle passerelle milanesi, dove è in corso la settimana della Moda. "Credo che queste campagne con immagini così dure e crude siano giuste, opportune". A pensarla così è Giorgio Armani che esprime anche un desiderio: "Vorrei poter conoscere questa persona per capire i motivi che l'hanno portata all'anoressia". Dello stesso avviso anche i due stilisti Dolce e Gabbana che dicono: "Finalmente qualcuno dice la verità sull'anoressia, cioè non è un problema della moda, ma un problema psichiatrico". Critiche arrivano dall'Aba, l'Associazione per lo studio e la ricerca sull'anoressia, la bulimia e l'obesità. Secondo Fabiola De Clerq, presidente dell'associazione: "L'utilizzo di questa immagine è suscettibile di indurre fenomeni di emulazione e non aiuta certo i diretti interessati né le loro famiglie". Insomma, si accendono riflettori, che si spegneranno: "Poi le ragazze e i genitori si vedono sbattere in faccia le porte degli ospedali". (24 settembre 2007)

L’Europa compie sessant’anni: facciamole la festa

Mentre si celebrano i sessant’anni del Trattato di Roma che avviò l’avventura europea occorre chiedersi se l’Europa, divenuta un Superstato di polizia economica, sia riformabile dall’interno, come sostiene ad esempio Varoufakis. Oppure se – in assenza di conflitto sociale e di un ceto politico disponibile alla disobbedienza istituzionale – sia necessario tornare alla dimensione nazionale per poter ripensare poi l’Unione come costruzione resistente al progetto neoliberale. di Alessandro Somma Ancora scioccati per l’esito del referendum sulla Brexit, lo scorso settembre i Capi di Stato e di governo dell’Unione europea si sono riuniti a Bratislava per discutere di come recuperare la fiducia dei cittadini scossi da “paure riguardo a migrazione, terrorismo e insicurezza economica e sociale”[1]. Le paure del primo tipo hanno ricevuto un’attenzione particolare, sfociata nell’impegno solenne a evitare “i flussi incontrollati dello scorso anno” e a “ridurre ulteriormente il numero dei migranti irregolari”. Si è subito istituita una guardia costiera europea per contrastare con la forza l’arrivo dei migranti, e deciso di collaborare con i governi più o meno autoritari dei Paesi di provenienza o di transito per impedire le partenze. Il tutto ripreso in occasione di altri vertici, convocati per rafforzare la volontà di rispettare gli accordi con il despota di Ankara e di intensificare i rapporti con Al-Sarraj, Presidente del traballante governo libico di unità nazionale[2]. Anche la volontà di rilanciare la costruzione europea come baluardo per la sicurezza interna ed esterna dei cittadini è stata declinata in modo concreto: si intensificheranno i controlli antiterrorismo e si amplierà la cooperazione in materia di difesa. Più fumose invece le ricette per fronteggiare l’insicurezza sociale ed economica: più fumose e soprattutto più ideologiche. Ci si affiderà ai mercati, che saranno la panacea di tutti i mali nel momento in cui potranno funzionare nel pieno rispetto delle ricette neoliberali: saranno il mercato unico digitale e un ulteriore sviluppo della libera circolazione dei capitali, a produrre sicurezza economica e sociale. Insomma, il rilancio della costruzione europea è una combinazione di chiusure e aperture: le prime dedicate alle persone, le seconde riservate alle merci e ai capitali. E che questa sia l’unica ricetta che i

leader europei sono capaci di partorire, lo testimoniano anche le iniziative intraprese in vista della riunione dei Capi di Stato e di governo, che il 25 marzo si ritroveranno a Roma per festeggiare i sessant’anni del Trattato che prende il nome dalla capitale italiana: il Trattato che avviò l’avventura europea. Una leader e tre sudditi a Versailles Il calendario dei festeggiamenti per il compleanno dell’Europa è stato deciso in un vertice tra i leader francese, italiano, spagnolo e tedesco, tenutosi a Versailles il 6 marzo scorso. Il luogo è stato scelto per richiamare il senso della costruzione europea: Versailles è un simbolo di pace perché lì si sono sottoscritti gli accordi che terminarono la prima guerra mondiale, e proprio la volontà di assicurare un futuro di pace ha ispirato la nascita della Comunità economica europea nel 1957. Si pensava allora che l’integrazione economica potesse produrre unità politica, e per questo l’Europa nacque come mercato comune. Ci si è insomma ispirati al modello dell’Unione doganale tedesca del 1834, una coalizione di oltre trenta Stati che precedette la fondazione dell’Impero tedesco, il Secondo Reich, sorto nel 1871. E del resto, dal punto di vista tedesco, la costruzione europea ha prodotto notevoli risultati: la prosperità della Germania si fonda proprio su quella visione economicista, alla base della moneta unica e del suo utilizzo come leva per costruire, attraverso l’austerità, i successi tedeschi a partire dalle miserie altrui. Che occorra cambiare passo è dunque evidente a tutti, ma non ai quattro leader incontratisi a Versailles, impegnati a consumare uno dei più patetici e fastidiosi riti della governance europea: il teatrino per cui un gruppo ristretto di Paesi si autorappresenta come avanguardia illuminata, per questo legittimata a indicare il futuro radioso verso cui tutti gli altri devono precipitarsi. Le cose stanno ovviamente in tutt’altro modo, e non solo perché i quattro leader non hanno nulla di illuminato, ma perché tre di loro sono tutt’altro che leader, bensì sudditi capaci al massimo di aspirare a un selfie con chi davvero comanda: Angela Merkel. François Hollande rappresenta un Paese che in passato ha composto con la Germania l’asse attorno a cui ruotavano le vicende europee. Quel passato, però, è oramai un ricordo sbiadito dal baratro verso cui i parametri di Maastricht stanno precipitando i francesi. Oggi l’asse si limita ad amplificare i desiderata di Berlino, che per Parigi sono ordini indiscutibili, presidiati dall’apparato sanzionatorio europeo sempre pronto a entrare in funzione. a Spagna di Mariano Rajoi è invece il Paese che simboleggia al meglio i disastri prodotti dall’imperialismo economico della Germania, dal suo atteggiarsi a Minotauro globale al contrario[3]: invece di generare domanda per assorbire le merci prodotte negli altri Paesi, presta soldi a questi ultimi affinché consumino le sue. Salvo poi chiudere i rubinetti in caso di bisogno, come è avvenuto dopo lo scoppio della crisi economica e finanziaria: è questa l’origine del disastro della Spagna, passata da un debito pari a poco più del 35% del pil nel 2007, a quasi il 100% del pil di adesso. E che dire di Paolo Gentiloni, la pallida e soporifera fotocopia di quel Matteo Renzi tanto bravo a insultare i tedeschi davanti alle telecamere, ma ancora più bravo a chinare il capo di fronte alle richieste più sconce in cambio di qualche offensivo zerovirgola di flessibilità in più. Dobbiamo a questo atteggiamento, se con l’ultimo Documento programmatico di bilancio l’Italia si è impegnata a risparmiare circa 35 miliardi di Euro tra il 2018 e il 2019, ovvero a realizzare tagli inimmaginabili per un Paese in ginocchio come il nostro[4]. Ebbene, al vertice di Versailles i quattro, al netto delle tante parole al vento, più o meno di circostanza, e degli slogan vuoti buoni solo a indorare pillole amare, hanno ribadito la volontà di intensificare gli

sforzi comuni in materia di migrazioni e lotta al terrorismo. Per bocca di Hollande hanno poi precisato che l’insicurezza dei cittadini di cui farsi carico non è tanto quella sociale, bensì quella che richiede politiche securitarie e la costruzione di “un’Europa della difesa”. Merkel si è invece incaricata di sottolineare che, in materia di economia, la strada intrapresa è quella giusta, e che anzi occorre accelerare, se del caso lasciando per strada chi non tiene il passo: “dobbiamo avere il coraggio di accettare che alcuni Paesi possano andare avanti più rapidamente di altri”[5]. Europa a due velocità Un vertice dei Capi di Stato e di governo di poco successivo all’incontro di Versailles, il 9 marzo, viene dedicato ai temi economici e sociali. È l’occasione per mostrare ottimismo, per celebrare una ripresa ancora impercettibile sul piano dell’occupazione, e soprattutto dell’equa distribuzione della ricchezza. Sufficiente però per affermare trionfalmente che “devono essere proseguite le riforme strutturali volte a modernizzare le nostre economie”: si deve cioè ridurre ancora la spesa sociale, privatizzare quel poco che è ancora pubblico, liberalizzare i pochi servizi ai cittadini rimasti, e soprattutto precarizzare ancora di più il lavoro. E si deve ribadire “l’importanza che riveste per l’occupazione, la crescita e la competitività, un mercato unico funzionante basato sulle quattro libertà”, ovvero, la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone (il riferimento è ovviamente ai soli lavoratori europei). E non importa se ci sono ostacoli all’estensione delle quattro libertà oltre il contesto europeo, ad esempio il recente affossamento del Trattato transatlantico di libero scambio (Ttip). Ci si può rifare con il Trattato tra Ue e Canada (Ceta), appena approvato dal Parlamento europeo, e con nuovi accordi con l’America meridionale, il Messico, il Giappone e la Cina[6]. Al vertice del 9 marzo non si poteva poi perdere l’occasione per rilanciare la linea appena dettata dalla Germania. Si ripete che occorre viaggiare a rotta di collo verso l’Europa dei mercati, tuttavia a due velocità: chi non vuole, o non è degno in base ai parametri di Maastricht, è tenuto a non intralciare la marcia trionfale di chi ha fatto i compiti a casa. A questi aspetti, il giorno dopo il vertice, viene dedicata una riunione informale dei Capi di Stato e di governo. Ne conosciamo il contenuto attraverso una relazione confezionata per il Parlamento europeo da Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo appena confermato nella carica. Lì si ribadisce che la proposta di un’Europa a due velocità farà da sfondo alle celebrazioni per i sessant’anni del Trattato di Roma[7]. Anche se in particolare i Paesi dell’est si sono mostrati tiepidi se non contrari, giacché ciò che Angela vuole, il Donald polacco non può certo ignorare. In fin dei conti l’Europa a due velocità formalizza una situazione di fatto: la distinzione tra i Paesi della Zona Euro e l’Europa a 28 (e in prospettiva a 27). I tedeschi hanno però ora interesse a individuare, all’interno della Zona Euro, una élite chiamata a rafforzare l’Unione economica e monetaria, a presidiarla come perno attorno a cui consolidare l’Europa neoliberale, da imporre come obiettivo indiscutibile verso cui tutti sono chiamati a convergere. Gli altri Paesi potranno decidere i tempi, ma non anche mettere in discussione l’esito finale, protetto dal moto di contestazione di ciò che è diventata la costruzione europea: un Superstato di polizia economica, che utilizza la concorrenza per dirigere i comportamenti individuali, sterilizzare il conflitto, e ridurre l’inclusione sociale a inclusione nel mercato. Insomma, l’Europa lenta dovrà prima o poi raggiungere l’Europa veloce, ma solo apparentemente potrà farlo con calma. I ritmi sono infatti quelli scanditi dallo schema per cui Bruxelles concede risorse solo in cambio di riforme strutturali di matrice neoliberale. Questo schema, utilizzato prima per l’allargamento a sud, poi per l’allargamento a est e da ultimo per affrontare la crisi dei debiti sovrani[8], verrà infatti generalizzato, sino a divenire il principale motore della costruzione europea. Bruxelles lo ha detto apertamente con riferimento all’utilizzo dei fondi strutturali, da vincolare con veri e propri contratti al rispetto delle “procedure di governance economica”. E lo ha ribadito con la

proposta di istituire “un apposito strumento finanziario” per incentivare “riforme difficili”, come quelle “miranti a rafforzare la flessibilità del mercato del lavoro”[9]. NOTE [1] Dichiarazione di Bratislava del 16 settembre 2016, www.consilium.europa.eu/press-releases-pdf/2016/9/47244647412_it.pdf. [2] Cfr. Consiglio europeo del 15 dicembre 2016 - Conclusioni della Presidenza, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2016/12/20161215-euco-conclusions-final_pdf e Dichiarazione di Malta dei membri del Consiglio europeo sugli aspetti esterni della migrazione del 3 febbraio 2017, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/02/03-malta-declaration-it_pdf. [3] Questa immagine efficace si deve a S. Cesaratto, Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 32 ss. [4] Piano programmatico di bilancio per il 2017, p. 6 ss. (www.mef.gov.it/inevidenza/documenti/DOCUMENTO_PROGRAMMATICO_DI_BILANCIO_2017-IT_-_new.pdf). [5] Merkel, Hollande, Gentiloni, vertice a Versailles: Serve Europa a velocità diverse (7 marzo 2017), www.ansa.it/sito/notizie/politica/2017/03/06/gentiloni-a-versailles-vertice-a-4-con-hollande-merkel-e-rajoy-_fe690f7b-5c2d-498a-a854-1f91796df1ea.html. [6] Consiglio europeo del 9 marzo 2017 - Conclusioni della Presidenza, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf. [7] Relazione del presidente Donald Tusk al Parlamento europeo sul Consiglio europeo del 9 marzo e sulla riunione informale dei 27 Capi di Stato o di governo del 10 marzo, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf. [8] Cfr. A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Roma, DeriveApprodi, 2014, spec. pp. 200 ss. e 239 ss. [9] Un piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita. Avvio del dibattito europeo, Com/2012/777 def. V. anche la Comunicazione della Commissione sulle tappe verso il completamento dell’Unione economica e monetaria, Com/2015/600 def. [10] Libro bianco sul futuro dell’Europa. Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025 (1. marzo 2017), https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/libro_bianco_sul_futuro_dell_europa_it.pdf. [11] Cfr. Überlegungen zur europäischen Politik (1. settembre 1994), documento predisposto da Wolfgang Schäuble e Karl Lamers (in quanto esponenti del Partito cristianodemocratico), www.cducsu.de/upload/schaeublelamers94.pdf. [12] L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Roma e Bari, Laterza, pp. ix ss. e 67 ss. [13] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale. Storia di una regressione politica, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, Roma, DeriveApprodi, 2016, p. 57 ss. [14] Ivi, pp. 71 ss. e 101 ss. V. anche Una disobbedienza costruttiva per rifondare l’Europa. Intervista a Yanis Varoufakis di Giacomo Russo Spena (17 marzo 2017), in questa Rivista, http://temi.repubblica.it/micromega-online/varoufakis-una-disobbedienza-costruttiva-per-rifondare-leuropa. [15] Per tutti A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 15 ss. e passim. [16] L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio, cit., p. 32 s.

[17] Cfr. M. Damiani, La sinistra radicale in Europa. Italia, Spagna, Francia, Germania, Roma, Donzelli, 2016, p. 189 ss. (25 marzo 2017)

L’Europa compie sessant’anni: facciamole la festa Cinque scenari per il futuro dell’Europa L’Europa a due velocità rappresenta uno dei cinque scenari prefigurati dalla Commissione in un contributo sul futuro dell’Unione. È quello per cui “chi vuole di più fa di più”, da ritenersi una variante rispetto ad un secondo scenario: la scelta di “fare molto di più insieme”. Seguono tre scenari che non comportano un’espansione del livello europeo: andare “avanti così”, favorendo il “miglioramento graduale del funzionamento della zona euro”, restringere il raggio di azione, decidendo di “fare meno in modo più efficiente”, o ancora alimentando “solo il mercato unico”, senza comunque mettere in discussione la moneta unica[10]. Ma torniamo allo scenario preferito dai tedeschi, che nelle parole della Commissione è la situazione in cui si favorisce la nascita di “una o più coalizioni di volenterosi che operano in ambiti specifici”. Forse a Bruxelles è sfuggito che “coalizione di volenterosi” è stato anche il nome scelto da George W. Bush per indicare i Paesi che lo appoggiarono nell’invasione dell’Iraq. Sicuramente, però, hanno presente che l’idea di un’Europa a due velocità non è nuova, così come l’attaccamento dei tedeschi a questa formula: risale agli anni dei negoziati per il Trattato di Amsterdam del 1997, che preparò l’allargamento a est. All’epoca il mitico Ministro delle finanze Wolfgang Schäuble teorizzò l’edificazione di un “nucleo europeo” (Kerneuropa), composto dai Paesi intenzionati a intensificare il livello di integrazione, dal quale erano ovviamente esclusi gli Stati meridionali, e in prospettiva quelli orientali. Questi ultimi dovevano essere ricondotti alla costruzione europea per prevenire una destabilizzazione dell’area, ma proprio per questo la costruzione non doveva più essere una comunità di pari. Si poteva procedere anche verso un’Europa federale, con istituzioni democratiche e politiche sociali condivise, ma questo schema era riservato a Belgio, Lussemburgo e Olanda in quanto Paesi associati all’asse franco-tedesco (i fondatori della Comunità economica europea senza l’Italia). Solo questi Paesi erano in regola con i parametri di Maastricht, e dunque con quanto costituisce il fondamento dell’Unione economica e monetaria: da ritenersi “il nucleo forte dell’unione politica” e non un semplice “elemento di integrazione aggiuntivo”. Solo questi Paesi avrebbero così rappresentato il centro produttore di disciplina capace di piegare le indisciplinate periferie meridionale e orientale[11]. Il sesto scenario Sono passati oltre vent’anni dalla riflessione di Schäuble sul nucleo europeo, ma nel frattempo poco o nulla è cambiato: l’ottuso teutonico è ancora al suo posto, e le sue parole dettano ancora la linea di Bruxelles. Tanto che il contributo della Commissione al dibattito sul rilancio della costruzione europea evita accuratamente di ricomprendere l’unico scenario cui guardano i popoli europei stremati dall’austerità. Manca insomma il sesto scenario, quello della rottura o quantomeno della discontinuità rispetto all’Europa di Maastricht, che distrugge lo Stato sociale, precarizza il lavoro, privatizza i beni comuni, e da ultimo erige muri contro le persone mentre promuove la libera circolazione delle merci. Di certo non rappresenta una rottura la prospettiva indicata dal nazionalismo economico, che usa i muri per bloccare la circolazione delle merci, oltre che delle persone. Esso alimenta la lotta planetaria tra Stati in competizione per la conquista dei mercati, ma non libera la politica dalla sua subordinazione all’economia. Questa ben può convivere con la riscoperta dei confini senza per ciò solo

essere messa in discussione: il nazionalismo economico e il neoliberalismo sono variazioni su un medesimo tema. Occorre allora chiedersi se il sesto scenario sia compatibile con questa Europa, ovvero se essa è riformabile dall’interno. Oppure se per realizzarlo occorra smontare l’Europa, tornare alla dimensione nazionale per poi rimontare l’Europa come costruzione resistente al progetto neoliberale. Occorre in altre parole verificare dove si colloca lo spazio tra Maastricht e il nazionalismo economico, il “terzo spazio” utilizzabile per ripensare la costruzione europea attorno ai valori della “democrazia, solidarietà, eguaglianza e dignità”. Sono, queste, espressioni utilizzate da chi pensa che simili valori possano ancora emergere dall’Europa di Maastricht, innanzi tutto promuovendo un ritorno agli anni precedenti l’affermazione del pensiero neoliberale, gli anni del compromesso keynesiano: sarebbe cioè possibile riattivare forme di incisiva redistribuzione della ricchezza e piani di investimento a sostegno della domanda. E si potrebbe persino andare oltre, prevedendo per un verso un reddito di esistenza, e per un altro forme di democrazia economica ricalcate sulla pratica dei beni comuni, da valorizzare per consentire persino un controllo parlamentare sull’operato delle banche centrali[12]. Ci troviamo di fronte a uno scenario che dire idilliaco è poco: siamo entrati nella dimensione onirica. Il terzo spazio presuppone trasformazioni troppo ambiziose perché possano scaturire da questa Europa. Per realizzarlo, i Paesi europei dovrebbero prima elaborare una politica economica, fiscale di bilancio volta a favorire la piena occupazione, piuttosto che la stabilità dei prezzi[13]. Dovrebbero poi mettere in comune i loro sistemi di sicurezza sociale, il loro mercato del lavoro, e soprattutto i loro debiti. Infine dovrebbero delineare una politica monetaria ricavata da questi propositi, quindi ripensare radicalmente la moneta unica. Ma non possono farlo, perché le leve del potere necessario a produrre queste trasformazioni sono a Bruxelles. Per i teorici del terzo spazio, tutto ciò può invece accadere se solo si attiva una “democrazia reale e costante”, che riviva nel conflitto. Non solo il conflitto sociale, a partire da quello prodotto nelle città per il riconoscimento dei diritti sociali, ma anche quello istituzionale. Anche le istituzioni, dalle amministrazioni comunali ai governi, possono disobbedire all’Europa dell’austerità, promuovendo così un circuito di “élite insubordinate” capace realizzare il sesto scenario senza mettere in discussione la costruzione europea in quanto tale[14]. Per quanto lo si possa ardentemente sperare, è lecito dubitare che tutto ciò possa davvero accadere. Non si vede un ceto politico disponibile a impugnare le armi della disobbedienza istituzionale, e i pochi eventualmente pronti a farlo sono troppo impegnati a complicare la geografia dei partitini, o peggio dei gruppi parlamentari della sinistra. E neppure si vede la tensione sociale che dovrebbe attivare il conflitto nelle città: vi sono qua e là movimenti capaci anche di ottenere qualche successo, ma si tratta di iniziative effimere e sporadiche, instabili e prive di un coordinamento a livello europeo, in ogni caso scollegate da un luogo nel quale operare una sintesi tra rappresentanza e mediazione. Nazione, lavoro e conflitto sociale Su una cosa i teorici del terzo spazio hanno ragione da vendere: le possibilità di un cambiamento sono direttamente proporzionali al livello di conflitto sociale che si riuscirà a produrre attorno all’idea di un’Europa democratica e solidale, in quanto tale radicalmente ostile al progetto neoliberale e al nazionalismo economico. Solo che il conflitto non può essere unicamente quello acceso dalle élites insubordinate, neppure se affiancato a quello dei movimenti per la rivendicazione dei diritti sociali. Occorre il contributo dei lavoratori, di chi è più direttamente colpito dalla rottura del patto fondativo del costituzionalismo antifascista: quello per cui il lavoro, in quanto concorso al benessere collettivo,

assicura mezzi sufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa. Se i lavoratori sono indispensabili a contrastare l’Europa dei mercati, allora diviene altrettanto indispensabile un ritorno alla dimensione nazionale. È questa la sede in cui i lavoratori hanno ottenuto un’accettabile mediazione tra capitalismo e democrazia: quella, alla base del compromesso keynesiano, per cui non si mettevano in discussione proprietà privata e principio di concorrenza, ma lo Stato operava in cambio una redistribuzione della ricchezza attraverso politiche fiscali e di bilancio di sostegno alla domanda[15]. Di qui l’aperto contrasto con la costruzione europea così come si è consolidata a partire dal Trattato di Maastricht, che ha imposto politiche economiche incentrate sul solo controllo dei prezzi, fondamento per il varo della moneta unica. E che a monte ha liberalizzato la circolazione dei capitali, imponendo così agli Stati di comprimere i salari e ridurre la pressione fiscale per attirarli: con ciò rendendo irreversibile il rovesciamento del compromesso tra capitalismo e democrazia ottenuto dai lavoratori. Il tutto senza considerare che il capitale non conosce, diversamente dal lavoro, il radicamento territoriale: se il primo è oramai ridotto a un fascio di flussi finanziari, il secondo è inchiodato alla dimensione spaziale. Ha dunque bisogno di rappresentanza politica, ancora una volta quella assicurata, alle condizioni attuali, dal solo livello nazionale. Del resto l’Europa è per un verso un’entità tecnocratica, messa al riparo dalla politica prima ancora che dalla democrazia, funzionante secondo schemi numerici in quanto tali indiscutibili. Ma per un altro verso è pur sempre una costruzione governata dai Capi di Stato e di governo dei Paesi membri, che non a caso compongono il Consiglio europeo: l’organo che “dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici e le priorità politiche generali” (art. 15 Trattato Ue). E i Capi di Stato e di governo possono divenire cinghia di trasmissione delle istanze del lavoro solo se i parlamenti nazionale si svincolano dai condizionamenti derivanti dalle cessioni di sovranità finora utilizzate per alimentare l’Europa neoliberale. Ovviamente tutto ciò non cancella la necessità di momenti forti di coordinamento sovranazionale, all’altezza della dimensione alla quale opera il capitale. E neppure esclude che il ripiegamento sulla dimensione nazionale debba poi cedere il passo a una riespansione del livello sovranazionale, da riattivare se e nella misura in cui la costruzione europea si trasforma in un motore di democrazia e solidarietà. Tanto meno impedisce di vedere che i richiami al Novecento non si possono intendere come il tentativo di recuperare un passato che per molti aspetti non può tornare, se non altro per i limiti insormontabili del modello di sviluppo a cui ha dato vita. Si commette dunque un errore grave a ritenere, come fanno i teorici del terzo spazio, che il livello nazionale non debba tornare protagonista: che questo significhi automaticamente “rifugiarsi in un’immaginaria autarchia nazionale”, o gettare “benzina sulla xenofobia già dilagante”[16]. Certo, la dimensione nazionale non implica di per sé un potenziamento della sovranità popolare, e dunque dei processi di democratizzazione. E ciò nonostante occorre liberarsi dalla convinzione, ricorrente nella sinistra radicale europea, che la dimensione sovranazionale è in quanto tale da preferire alla dimensione nazionale[17]. L’omaggio a schemi preconfezionati impedisce sempre di vedere i motivi di forza e i motivi di debolezza delle opzioni in campo, e a monte la loro pluralità: porta a riprodurre a sinistra la logica del Tina (There is no alternative), che invece a parole si dice di voler combattere. Riflettiamo allora senza pregiudizi, dal momento che non ci muoviamo qui nel campo delle certezze assolute, e che dunque abbiamo bisogno di approfondire e confrontarci. Senza imporci limiti diversi da quelli che riguardano l’individuazione dell’obiettivo: combattere il neoliberalismo, incluso quello che si esprime attraverso il nazionalismo economico. Valorizzando la circostanza che il lavoro è il motore di questa lotta, e che questa si fonda su conflitti tradizionalmente efficaci nella misura in cui possono condizionare il modo di essere della statualità.

È evidente che così non si risolveranno tutti i problemi. Ma se non altro si eviterà di lasciare il campo a chi cavalca il moto verso la riscoperta della dimensione nazionale per tornare all’imperialismo economico. Giacché la dimensione statuale può invece combattere i mercati, o almeno ricondurli entro un ordine politico motore di emancipazione individuale e sociale, e non anche garante intransigente del principio di concorrenza. NOTE [1] Dichiarazione di Bratislava del 16 settembre 2016, www.consilium.europa.eu/press-releases-pdf/2016/9/47244647412_it.pdf. [2] Cfr. Consiglio europeo del 15 dicembre 2016 - Conclusioni della Presidenza, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2016/12/20161215-euco-conclusions-final_pdf e Dichiarazione di Malta dei membri del Consiglio europeo sugli aspetti esterni della migrazione del 3 febbraio 2017, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/02/03-malta-declaration-it_pdf. [3] Questa immagine efficace si deve a S. Cesaratto, Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 32 ss. [4] Piano programmatico di bilancio per il 2017, p. 6 ss. (www.mef.gov.it/inevidenza/documenti/DOCUMENTO_PROGRAMMATICO_DI_BILANCIO_2017-IT_-_new.pdf). [5] Merkel, Hollande, Gentiloni, vertice a Versailles: Serve Europa a velocità diverse (7 marzo 2017), www.ansa.it/sito/notizie/politica/2017/03/06/gentiloni-a-versailles-vertice-a-4-con-hollande-merkel-e-rajoy-_fe690f7b-5c2d-498a-a854-1f91796df1ea.html. [6] Consiglio europeo del 9 marzo 2017 - Conclusioni della Presidenza, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf. [7] Relazione del presidente Donald Tusk al Parlamento europeo sul Consiglio europeo del 9 marzo e sulla riunione informale dei 27 Capi di Stato o di governo del 10 marzo, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf. [8] Cfr. A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Roma, DeriveApprodi, 2014, spec. pp. 200 ss. e 239 ss. [9] Un piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita. Avvio del dibattito europeo, Com/2012/777 def. V. anche la Comunicazione della Commissione sulle tappe verso il completamento dell’Unione economica e monetaria, Com/2015/600 def. [10] Libro bianco sul futuro dell’Europa. Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025 (1. marzo 2017), https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/libro_bianco_sul_futuro_dell_europa_it.pdf. [11] Cfr. Überlegungen zur europäischen Politik (1. settembre 1994), documento predisposto da Wolfgang Schäuble e Karl Lamers (in quanto esponenti del Partito cristianodemocratico), www.cducsu.de/upload/schaeublelamers94.pdf. [12] L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Roma e Bari, Laterza, pp. ix ss. e 67 ss. [13] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale. Storia di una regressione politica, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, Roma, DeriveApprodi, 2016, p. 57 ss. [14] Ivi, pp. 71 ss. e 101 ss. V. anche Una disobbedienza costruttiva per rifondare l’Europa. Intervista a Yanis Varoufakis di Giacomo Russo Spena (17 marzo 2017), in questa Rivista, http://temi.repubblica.it/micromega-online/varoufakis-una-disobbedienza-costruttiva-per-rifondare-leuropa. [15] Per tutti A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 15 ss. e passim. [16] L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio, cit., p. 32 s.

[17] Cfr. M. Damiani, La sinistra radicale in Europa. Italia, Spagna, Francia, Germania, Roma, Donzelli, 2016, p. 189 ss.

Come i governi manipolano Facebook: il primo report del social network sulla disinformazione Il social network pubblica uno studio su come governi e altri attori usino profili finti e attività coordinate per condizionare l’opinione pubblica. Ecco cosa emerge

REUTERS

1K

27 PUBBLICATO IL 28/04/2017

ULTIMA MODIFICA IL 30/04/2017 ALLE ORE 12:58 CAROLA FREDIANI

Dopo mesi di polemiche su fake news, propaganda, attacchi informatici condotti da Stati e relative diffusioni di dati, Facebook esce allo scoperto e prende posizione sul tema. Il social network ha infatti pubblicato il suo primo rapporto sulle “operazioni di informazione”, guerre informative tra Stati condotte in modo sotterraneo anche attraverso la piattaforma. Le information operations e Facebook Cosa siano le “information operations” lo spiega lo stesso report. Si tratterebbe di “azioni intraprese da attori organizzati (governi o soggetti non-statali) per distorcere il sentimento politico interno [a una nazione, ndr] o esterno [in una nazione straniera, ndr], soprattutto per raggiungere un obiettivo strategico e/o geopolitico”. Tali operazioni “includono una combinazione di metodi, quali notizie false, disinformazione, reti di profili finti diretti a manipolare l’opinione pubblica”. Metodi definiti dal report come “amplificatori falsi”, ma ci torniamo.

Si capisce quindi che siamo ben oltre il territorio già insidioso delle cosiddette fake news, bensì addentro le paludi della propaganda fatta per procura, della manipolazione della pubblica opinione e delle operazioni di intelligence. Una bella gatta da pelare, che però Facebook ha deciso di affrontare perché decisa, come spiega all’inizio del report, ad assicurare un “ambiente sicuro per un coinvolgimento civico autentico”. Il concetto di autenticità è ricorrente nel report (28 volte, tra autentico e inautentico) perché il problema per Facebook non è prendere posizione su specifici contenuti ma sui metodi usati per diffonderli. Nel mirino è dunque l’uso di reti di profili finti e notizie finte o manipolate per condizionare quello che per la piattaforma dovrebbe essere il dibattito naturale, scaturito naturalmente dai suoi utenti, ammesso e non concesso che tale concetto esista, su Facebook e in qualunque altro contesto mediatico. Una questione di sicurezza Ad ogni modo, per Facebook si tratta di una questione in primo luogo di “sicurezza”. “Non mi sorprende” nota a La Stampa Thomas Rid, professore di Security Studies al King’s College, “le operazioni di intelligence ricadono in questo campo, anche nell’accademia”. E infatti il report associa le “information operations” a una serie di altri fenomeni trattati dall’unità dedicata alla security: “abbiamo dovuto espandere la nostra attenzione da comportamenti abusivi tradizionali, come l’hacking di profili, malware, spam e truffe finanziarie, per includere forme più sottili e insidiose di abuso, tra cui tentativi di manipolare il discorso civico e di ingannare le persone”. La piattaforma di Zuckerberg riconosce dunque per la prima volta di poter essere usata da soggetti politici organizzati per condizionare un risultato, un contesto. E questo perché ogni utente è “potenzialmente un amplificatore”, rilanciando con forza una causa in cui crede. Col risultato che - e qua il report pesta un vespaio - azioni coordinate che usino profili e notizie false possono poi diffondersi attraverso canali e utenti autentici (e inconsapevoli). Distinguere tra diversi tipi di disinformazione Che fare dunque? Per prima cosa Facebook prova a fare ordine nella definizione di fake news, avvicinandosi al dibattito già avviato da alcuni giornalisti internazionali. Per cui bisogna smettere di usare questa espressione per indicare qualsiasi cosa: bufale costruite ad arte, errori fattuali, parodie, sarcasmo, ecc. “È positivo che abbiano iniziato a riconoscere la complessità di tutto ciò”, commenta a La Stampa Claire Wardle, direttrice della ricerca a First Draft News, che mesi fa aveva elaborato uno schema per distinguere i diversi tipi di disinformazione. Il report distingue dunque tra: • Notizie False: articoli che contengono intenzionalmente fatti falsi con lo scopo di ingannare, agitare, attrarre visualizzazioni • Amplificatori Falsi: attività coordinate di profili inautentici con l‘obiettivo di manipolare la discussione pubblica (o attaccare una parte) • Disinformazione: Contenuti inaccurati o manipolati diffusi intenzionalmente Tre azioni delle information operation Tutti metodi che possono essere usati e mischiati ad altri nelle information operations. Sulle notizie false, Facebook spiega di starsi già muovendo con iniziative precedenti. Ma aggiunge anche di aver assistito a tre attività di information operations sulla propria piattaforma. Sono le seguenti: - Raccolta di dati mirata su specifici soggetti, con lo scopo di sottrarre ed esporre informazioni non pubbliche

- Creazione di contenuti, falsi o reali, anche attraverso media e altre parti, e attraverso profili online finti - Falsa amplificazione, ovvero l’attività coordinata di account inautentici per manipolare la discussione politica

Il caso degli Usa e dei Democratici Sembrano i tre passaggi che hanno scandito la campagna presidenziale americana e l’attacco ai Democratici (hacking, diffusione di informazioni, loro amplificazione o distorsione a fini propagandistici). E infatti il report la cita come esempio, spiegando come siano stati creati profili falsi su Facebook per diffondere sia i documenti hackerati dei Democratici sia narrative che ne rafforzavano il messaggio. E che però a un certo punto la diffusione è stata anche naturale, propagandosi per normali utenti. L’amplificazione falsa c’è stata dunque, riconosce il report. E tuttavia ha avuto - e questo è importante da sottolineare - un impatto marginale. Come dire: questa volta non c’è stato un condizionamento effettivo, solo un tentativo; ma il problema esisterebbe, specie in prospettiva. Da notare che i dati al riguardo sulla vicenda, dice lo studio, non contraddicono l’attribuzione dell’attacco ai Democratici fatta dall’intelligence americana. Non si nomina la Russia ma di quella si parla. Le contromisure In conclusione, per dirla con le parole di Rid, Facebook “riconosce di poter essere sfruttata da attori governativi e non statali, e cerca di concettualizzare pubblicamente il problema per affrontarlo”. Ma forse anche per dimostrare quello che può e non può fare. Il social network afferma di stare prendendo una serie di contromisure per i vari fenomeni elencati. Che si tratti di avvisare gli utenti che sembrano essere presi di mira da attacchi mirati. O smantellare reti di account falsi. E qui cita i 30mila account chiusi in Francia. La piattaforma starebbe usando varie tecniche, incluso il machine learning, per individuare i fake a partire non dai contenuti

postati ma dal comportamento (quando postano sempre lo stesso contenuto, o se ci sono picchi anomali nel volume di attività). No scorciatoie E tuttavia è evidente - e alla fine il rapporto lo dice esplicitamente - che non esistono scorciatoie legali o tecniche per questo genere di problemi. Che hanno a che fare con questioni come l’educazione e l’alfabetizzazione mediatica. O con la crisi del giornalismo (Facebook non la chiama così, perché sa di avere con i media una «relazione complicata» e non priva di tensioni). E forse è questo il messaggio reale del report.

Paroles de Io Non Mi Sento Italiano

Di Giorgio Gaber ( 2003)

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

IlFattoQuotidiano.it / Cervelli in fuga

‘Lascio la cattedra in Francia e torno in Italia. Anche qui posso fare buona ricerca’

CERVELLI IN FUGA Giuseppe Querques, 39 anni, è oculista esperto in malattie della retina. A fronte di un'offerta dell'ospedale San Raffaele, ha deciso di abbandonare il suo incarico da professore associato a Parigi. "So di essere un caso raro - dice- ma noi italiani pensiamo spesso che gli stranieri siano sempre meglio di noi" di Chiara Daina | 21 aprile 2015

“Mi hanno chiesto di tornare in Italia e ho accettato”. Giuseppe Querques, 40 anni a giugno, oculista esperto in malattie della retina, professore all’Università di Parigi Est Creteil (Upec) dal 2009, si sente fortunato. “Tanti colleghi in gamba che sono scappati all’estero per fare carriera mi dicono che vorrebbero rientrare ma non trovano un posto. Io sono un caso raro, lo so. Il nostro Paese investe sulla formazione dei cervelli che poi sono costretti a emigrare, questo è un peccato”. Nel 2013 riceve una telefonata da un primario dell’Ospedale San Raffaele di Milano che aveva conosciuto nei convegni in giro per il mondo. “’Perché stai in Francia?’, mi chiese stupito. ‘Sei forte, vieni da noi’, mi disse. Aveva sentito parlare bene di me da altri, si era informato sui miei lavori, e mi voleva a Milano. Io al San Raffaele già dal 2011 facevo consulenze due volte al mese, ma niente di più”.

Nato a Foggia, dove si è specializzato nel 2005 e ha conseguito un dottorato di ricerca nel 2008. Durante l’università è research fellow al Retina Associates nel New Jersey (uno degli studi più prestigiosi dedicato alla

diagnosi e al trattamento di malattie vitreoretinali), alla clinica oculistica dell’università Creteil di Parigi Est (centro di riferimento mondiale per la maculopatia) e in quella dell’Università di Berna, in Svizzera.

Querques è esperto in malattie della retina non trattate chirurgicamente, come la degenerazione maculare legata all’età, le patologie vascolari retiniche, le distrofie ereditarie maculari e retiniche. Il suo merito è quello di aver individuato i segni di alcune forme di maculopatia prima della comparsa dei sintomi veri e propri nei pazienti. Oltre 200 pubblicazioni scientifiche uscite sulle migliori riviste di oftalmologia a livello internazionale (Ophthalmology, The American journal of ophthalmology, The British journal of ophthalmology, Retina). Nel 2009 vince il concorso per professore associato all’università parigina, cinque anni dopo ottiene una cattedra da professore ordinario. “In Italia te la sogni alla mia età, devi essere un primario e avere almeno 50 anni. In Francia è diverso, i professori vanno in pensione a 65 anni e c’è spazio per quelli più giovani”.

Adesso che è di nuovo in patria quella carica non gli vale più. “Ho ripetuto il concorso per professore associato, l’ho passato, sto aspettando il nulla osta dal ministero dell’Istruzione”. Tornare per accontentarsi di meno? “Non direi. La mia idea quando sono partito, e non lo dico tanto per dire, era assimilare il più possibile per poi metterlo in pratica qui. Nel mio piccolo voglio dare un contributo all’Italia. A me cambia poco se non ho più una cattedra. L’importante è fare quello che mi piace. Al San Raffaele posso fare ricerca clinica allo stesso livello di Parigi”.

Sposato con un’italiana, oculista anche lei, che lo ha seguito a Milano, mette le mani avanti: “Se qualcosa andrà male, molleremo ancora l’Italia. Per quanto mi riguarda finora non ho visto clientelismi, solo meritocrazia”. Querques sa che nel suo Paese ha la possibilità “di fare cose grandi, e di non essere obbligato a cambiare nazione per avere successo. Il punto – si toglie il sasso dalla scarpa – è che gli italiani finché non toccano il fondo non tirano fuori tutta la forza che hanno. La nostra marcia in più è il dinamismo, la creatività e la passione che mettiamo in tutto, ma spesso ce lo scordiamo e pensiamo che gli stranieri siano sempre meglio di noi”.

di Chiara Daina | 21 aprile 2015

lFattoQuotidiano.it / Cervelli in fuga

“In Italia lavoravo gratis, in Francia sono come un prof associato. E non voglio tornare indietro”

CERVELLI IN FUGA

Roberta Zarcone ha 31 anni ed è laureata in Ingegneria edile-architettura. In Italia le avevano offerto soltanto impieghi sottopagati e tirocini senza futuro. Così ha deciso di partire. Ha vinto un concorso pubblico e oggi insegna all’Ecole nationale superieure d'architecture et de paysage di Lille. "In Francia si chiedono perché così tanti italiani qualificati non sono in grado di trovare spazio nel loro Paese” di Ludovica Liuni | 6 novembre 2016

Roberta Zarcone è un fiume in piena. La sua è una storia di coraggio e di tentativi, alcuni falliti, altri andati a buon fine. Laureata a Palermo in Ingegneria edile-architettura, a 31 anni può vantare un curriculum che tanti colleghi ben più grandi di lei potrebbero invidiare. In questo percorso, però, di porte chiuse ne ha trovate tante. Al punto da volersene andare in Francia. “Dopo la laurea ho cominciato a seguire alcuni progetti nello studio di un mio professore, senza essere retribuita – racconta a ilfattoquotidiano.it -, dopo qualche mese mi convoca nel suo ufficio e io tra me e me penso: ‘Forse mi vuole parlare del bando per il dottorato appena uscito’”. E invece no: “Voleva propormi l’ennesimo lavoro gratis – ricorda – e inoltre mi sconsigliò vivamente di partecipare al concorso”.

Roberta resiste un’altra settimana, poi fa le valigie per trasferirsi a Roma: “Avevo vinto una borsa di studio di tre mesi presso il ministero

degli Esteri – racconta -, dove mi dedicai a uno studio sui costi delle case del personale consolare e alla fine tutti mi fecero i complimenti, ma poi mi dissero che non c’era posto per me”. Roberta è costretta a tornare a Palermo, dove si iscrive a un master: “E intanto per mantenermi lavoravo tutte le mattine in un call center – ricorda -, dove se riuscivi a fissare almeno 30 appuntamenti venivi pagato 250 euro al mese”.

“Un giorno il prof mi chiama in ufficio, pensavo fosse per parlarmi di un bando. E invece mi ha proposto l’ennesimo lavoro gratis”

Quando attraverso il master le viene offerta la possibilità di fare un tirocinio a Milano, non ci pensa su due volte: “Anche quella, però, fu una grossa delusione. Mi misero a pulire e ricontrollare i file da mandare ai clienti, con un rimborso spese di 200 euro al mese”. Finita quest’esperienza Roberta fa ritorno in Sicilia e dopo un periodo di stallo trova un impiego per una ditta che si occupa di fotovoltaico: “Dopo 10 giorni mi hanno spedito in Brasile per tre mesi, dove giravo alla ricerca di terreni adatti per gli impianti – ricorda -, mi piaceva il fatto che fosse un lavoro che mi permetteva di viaggiare, ma non era quello per cui avevo studiato”.

Di lì a poco, però, qualche raggio di sole inizia a fare capolino: “Avevo vinto una borsa di studio di sei mesi con l’università di Palermo per fare ricerca all’estero – ricorda –, così ho dato le dimissioni e ho mandato la mia candidatura presso una scuola di architettura parigina, la Paris Malaquais”. Nel novembre 2012 comincia la sua avventura francese e a parte qualche piccolo inconveniente (che risponde al nome di un appartamento di 9 metri quadri, al sesto piano senza ascensore) il vento inizia a girare per il verso giusto: “Finalmente mi sono sentita parte di un vero progetto e dopo due mesi dall’inizio del mio lavoro di ricerca il mio professore mi ha chiesto: ‘Vuoi fare lezione?’ – ricorda -. Io accettai, ovviamente, pensando che intendesse farmi fare da assistente, invece mi trovai a insegnare tutta la parte di esercitazioni del suo corso, senza sapere ancora bene la lingua”. Quello con l’insegnamento è stato un colpo di fulmine: “Ho capito che era quello che volevo fare nella vita”. Così continua a darsi da fare: “Ho vinto il dottorato, ma i primi due anni non ho ricevuto fondi, quindi per mantenermi mi dividevo tra le lezioni e qualche lavoretto negli studi di ingegneria. Appena c’erano finanziamenti, però, l’università mi faceva qualche contratto extra per seguire dei progetti”.

“A due mesi dall’inizio del mio lavoro di ricerca il mio professore mi ha chiesto: ‘Vuoi fare le lezioni?’”

In primavera Roberta discuterà la sua tesi, ma nel frattempo il suo sogno è diventato realtà: “L’anno scorso il mio professore mi disse che c’era il concorso pubblico per insegnare nelle scuole di architettura e mi suggerì di provare comunque, anche se ero poco conosciuta. Io decisi di fare

domanda a Lille, perché c’erano più chance rispetto a Parigi”. La strada sembrava tutta in salita: “Per la mia classe di insegnamento ci presentammo in 60, ma arrivammo solo in due all’orale – racconta -. Non pensavo di avere possibilità, perché lui era francofono e laureato nella migliore scuola di ingegneria della Francia e invece hanno preso me”. Ora Roberta è maître-assistant – ruolo paragonabile a quello del professore associato in Italia – presso l’Ecole nationale superieure d’architecture et de paysage di Lille e non potrebbe essere più felice.

Ma non è l’unica connazionale ad aver fatto questa scelta: “Nel 2009 il ministero francese pubblicò un rapporto sullo stesso concorso a cui ho partecipato io, in cui la giuria s’interrogava sulla presenza massiccia di italiani, chiedendosi perché pur essendo così qualificati non fossero in grado di trovare spazio nel nostro Paese”, racconta.

“Nel 2009 il ministero francese ha pubblicato un rapporto: si chiedeva perché così tanti italiani avessero partecipato al mio stesso concorso”

Quando viveva ancora in Italia, Roberta si era anche iscritta nelle liste per gli insegnanti di terza fascia: “Passai giornate intere a capire per quali discipline potevo propormi con i miei crediti, ma non mi hanno mai chiamato fino a quando non è uscito il piano della ‘Buona Scuola’ – racconta -, ora invece ricevo spesso mail per insegnare sostegno, io che non ho alcuna competenza in questa materia e ogni volta che leggo quelle comunicazioni mi chiedo quanti accettano questo ruolo pur essendo privi di qualsiasi nozione di pedagogia o psicologia”, aggiunge.

Quando le chiedi di Palermo, risponde così: “È una città difficile, ma quando sono partita non escludevo di tornare un giorno”, ammette. L’esperienza francese, però, ha cambiato le carte in tavola: “Ora che ho conosciuto un nuovo modo di vivere non potrei mai tornare a quello vecchio”. E la sua voce è quella di un’intera generazione: “Non siamo cervelli in fuga, siamo semplicemente persone che in Italia sono impossibilitate a trovare il loro posto”.

di Ludovica Liuni | 6 novembre 2016