L'Italiano Contemporaneo F. Bruni Riassunto cap. 1-3-4-5-6-7-9

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L’italiano Contemporaneo PAOLO D’ACHILLE Riassunto da Cristina Costantino

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Riassunto dei capitoli 1-3-4-5-6-7-9 del libro di Paolo d’Achille “L’italiano Contemporaneo” Il libro intende presentare l'italiano di oggi ai vari livelli di analisi linguistica, dalla fonetica e fonologia alla morfologia flessiva e lessicale, dalla sintassi al lessico. Sono affrontati, fra l'altro, diversi aspetti di carattere variazionale particolarmente significativi, con capitoli dedicati al parlato, allo scritto, al trasmesso, e con approfondimenti sul linguaggio giovanile, sulle varietà regionali e sulla lingua dei semicolti. La nuova edizione, rivista e aggiornata, è integrata da una ricca serie di esercizi (con soluzione) per consentire al lettore di verificare le nozioni apprese.

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L’italiano Contemporaneo PAOLO D’ACHILLE

Riassunto da

Cristina Costantino

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La lingua italiana oggi

CAPITOLO PRIMO

L’ITALIANO CONTEMPORANEO, CHE PER DIVERSI ASPETTI SI È

ALLONTANATO DALLA LINGUA DELLA TRADIZIONE LETTERARIA, OGGI SI

PRESENTA COME UNA GAMMA DI VARIETÀ E ASSUME CARATTERISTICHE

DIVERSE IN RAPPORTO ALLE SITUAZIONI COMUNICATIVE E I TIPI DI TESTI

(SCRITTI, PARLATI E TRASMESSI).

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Molte sono le parole italiane che ormai appartengono al lessico internazionale grazie al contributo

che l’Italia ha dato alla formazione della cultura occidentale in campi come la letteratura, la musica, le

arti figurative (sonetto, pianoforte, affresco) e più recentemente nella gastronomia, nel cinema e nella

moda con il made in Italy (dolce vita e maccheroni).

All’estero sono l'inglese, il francese e lo spagnolo le lingue più diffuse, soprattutto in seguito al

colonialismo, e usate ufficialmente anche nelle comunicazioni internazionali. Non mancano però

nuclei di italofoni (in America Latina e in Australia) o nelle ex colonie africane (Eritrea e Somalia).

Negli ultimi decenni l'Italia è diventata meta di immigrati, provenienti da paesi dell'est Europa, dalle

Filippine, dai continenti sud equatoriali, che acquisiscono l’italiano per via diretta.

C'è anche qualche grande espansione dell'italiano al di fuori dei confini statali, come nel Canton Ticino

(Svizzera) e in Corsica (dove però la lingua della cultura e dell'amministrazione è straniera), qualche

località costiera dell'Istria e della Dalmazia, senza dimenticare Malta e l’Albania.

In Italia, l'italiano convive da secoli con la ricchezza e la varietà dei dialetti, caratteristica legata a

peculiarità geografiche e a particolari vicende storiche (frequenza delle invasioni). I dialetti italiani che,

come le altre lingue e dialetti romanzi, derivano dal latino volgare hanno la stessa dignità della lingua

dal punto di vista storico-linguistico. Oggi molti italiani alternano lingua dialetto in un rapporto di

diglossia, cioè scelgono l'uno all'altro codice a seconda della situazione comunicativa.

I dialetti settentrionali hanno

caratteristiche che li accomunano alle

lingue romanze occidentali (portoghese,

spagnolo, catalano, francese, provenzale)

quelli mediani e meridionali fanno parte,

insieme al rumeno, del mondo romanzo

orientale.

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Dialetti Caratteristiche Esempi Morfologia e sintassi

Dialetti

settentrionali

- Sonorizzazione delle

consonanti sorde inter

vocaliche latine

- Assenza di consonanti

doppie

- Tendenza alla caduta

delle vocali atone

Fradel

Obbligatorietà del pronome

personale soggetto davanti

al verbo

El dise, la viene

Dialetti gallo-

italici

- Vocali procheile

anteriori

Luna

Dialetti centro

meridionali

- Metafonesi: variazioni

nel timbro della vocale

tonica dovuta alla

presenza di -o/-u

- Assimilazioni

- Sonorizzazione delle

consonanti sorde dopo

nasale, r ed l

Uocchie, misi

(messi),

cappiello

Quanno,

gamma

Trenda, jango

Presenza del neutro di

materia distinto dal

maschile in articoli e

pronomi dimostrativi (lu

ferru) oggetto

preposizionale (sient’ a

mme)

Dialetti toscani Comuni con l'italiano

- Sistema vocalico

costituito da sette

vocali accentate

- Esito del suffisso latino

-arium/ -am in -aio/-a

Fenomeni non accolti

dall'italiano

- Gorgia: pronuncia

aspirata delle

consonanti occlusive

sorde intervocaliche c,

p, t, e

Capho,

pratho,

amiho

Dialetti mediani - Conservano la

distinzione latina tra -o

e -u finale

Omo, ferru

Dialetti

meridionali

- Tutte le vocali non

accentate, specie se

infine di parola si

indeboliscono fino a

una vocale centrale

Dialetti

meridionali e

estremi

- In posizione finale

ammettono solo a, i, u

Sistemi linguistici autonomi tutelati nel 1999 anche sul piano legislativo, dove sono descritti come

lingue minoritarie:

Ladino dolomitico (alcune vallate alpine del Trentino Alto Adige e del Veneto)

Friulano (Friuli)

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Sardo che comprende vari dialetti parlati in Sardegna come il gallurese e il sassarese, il

logodurese e il campidanese.

Altre minoranze alloglòtte: Franco-provenzale in Valle d'Aosta, provenzale (occitànico) in

Piemonte e Guardia Piemontese, tedesco in Alto Adige, sloveno a Venezia Giulia, croato in Molise,

albanese in vari centri del sud, grico (dialetto neogreco) nel Salento e nell'Aspromonte, catalano

in Sardegna.

L'italiano, come le altre lingue e dialetti romanzi, deriva dal latino volgare parlato nella tarda età

imperiale. Tra le lingue romanze è stata quella che ha avuto più continuo contatto con il latino classico

da cui ha ripreso:

Moltissime parole;

La formazione del superlativo di tipo sintetico col suffisso -issimo;

Latinismi con adattamenti fonetici e morfologici;

Aggettivi derivati dal latino classico e anche dal greco (equino e ippico rispetto a cavallo).

L'italiano è nato nell'elaborazione di una parlata locale, promossa a lingua dell'uso nazionale: il

dialetto fiorentino del trecento, nell'elaborazione letteraria che ne fecero le Tre Corone e poi i

grammatici del cinquecento (capeggiati da Pietro Bembo) che lo posero a modello dell'uso scritto.

In Italia, a causa dell'assenza in epoca moderna di una monarchia nazionale accentratrice, fu la

letteratura alla base dell'unificazione linguistica.

Il fiorentino potè imporsi sugli altri dialetti:

Tipo linguistico italiano

caratteristiche

Tendenza a concentrare l'informazione semantica nel

nome

Relativa libertà dell'ordine delle parole all'interno della

frase

Che consente di porre il soggetto prima o dopo il

verbo

Giovanni ha parlato, ha parlato Giovanni

Importanza delle vocali nella struttura sillabica

quasi generale terminazione delle parole in volgare

Formazione delle parole col meccanismo della

composizione

● nome + nome (cassapanca)● verbo + nome (cavatappi)

● nome più aggettivo (cassaforte)

Libertà di posizione dell'accento tonico

frequenza delle parole accentate sulla penultima

sillaba

Non obbligatoria espressione del pronome personale che fa

da soggetto al verbo

Preferenza per la sequenza determinato più

determinanteIl libro di Paolo

Possibilità di esprimere i concetti di grandezza,

piccolezza con l'alterazione

aggiungendo ai nuovi suffissi diminutivi, vezzeggiativi,

accrescitivi

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Grazie all'alto valore letterario degli scrittori del Trecento;

Alle caratteristiche strutturali che lo rendevano meno del lontano dal latino,

Alla sua posizione di media tra gli altri dialetti della penisola;

Al prestigio di Firenze in altri campi socioculturali che favorì l'espansione della sua parlata,

chiamata anche toscana favella.

L'uso di questa lingua rimase per secoli legato allo scritto e per questo non conobbe un'evoluzione

strutturale tale da staccarsi totalmente dalla fase medievale, com'era accaduto per altre lingue di

cultura. Fino all'unificazione nazionale nel 1861 erano ben poche le persone capaci di servirsene nello

scritto o nel parlato, anche se la capacità di capire discorsi in italiano era più estesa. La stragrande

maggioranza della popolazione parlava dialetto ma questo ridotto uso parlato dell'italiano di favorire

la stabilità della conservabilità delle strutture anche se lo rese poco adatto a rispondere alle esigenze

delle moderne forme di scrittura.

La progressiva alfabetizzazione, l'emigrazione esterna ed interna, l'urbanizzazione, le mutate

condizioni sociali, i più forti contatti dei cittadini con gli apparati amministrativi statali e lo sviluppo

dei mezzi di comunicazione di massa hanno permesso all'italiano di ampliare i propri ambiti d'uso e

di togliere spazio ai dialetti, diventando finalmente una lingua madre.

Dagli anni 50 in poi, il crescente uso anche orale dell'italiano ha determinato una pressione del parlato

sulla struttura dello scritto che ha provocato varie ristrutturazioni sul sistema linguistico. Anche il

rapporto tra italiano e toscano è mutato: quest'ultimo ha perso la sua posizione di centralità a

vantaggio di Roma capitale e dei centri industriali del Nord, più capaci di imporre innovazioni

linguistiche e più in sintonia con l'evoluzione del sistema. Ad esempio il suffisso -aio usato per secoli

per indicare mestieri e attività per le nuove professioni ha ceduto il passo al suffisso di matrice greca

-ista.

La lingua letteraria prevedeva una netta distinzione tra il registro linguistico usato per la poesia e

quello usato per la prosa; l'uso scritto consentiva inoltre un'abbondante polimorfia, una coesistenza

di più forme tra loro equivalenti (malinconia, melanconia o melancolia).

L'italiano di oggi ha rinunciato agli arcaismi del linguaggio poetico e ha fortemente ridotto la

polimorfia.

L'italiano ha conosciuto anche un processo di normativizzazione: la tradizione grammaticale e la prassi

scolastica nell’italiano basato sull'uso fiorentino e toscano hanno progressivamente imposto una serie

di regole, come la limitazione dell'accento sui monosillabi solo dove il segno ha una funzione

disambiguante (lì e là per distinguerli dal pronome li).

Questi processi, assieme all'azione degli importanti canali di diffusione, hanno contribuito a un

secondo processo di standardizzazione della nostra lingua. Per lingua standard si intende quella che

l'intera comunità dei parlanti riconosce come corretta: il modello proposto nelle grammatiche.

Una lingua italiana standard parlata è però assente soprattutto sul piano fonetico. L'unico modello di

standard parlato riconosciuto è quello basato sulla pronuncia colta di Firenze, da cui vengono eliminati

alcuni tratti locali e che viene insegnato in apposite scuole di dizione. La stragrande maggioranza

degli italiani nel parlato lascia percepire in varia misura la sua origine regionale.

Anche l’italiano letterario contemporaneo presenta una notevole varietà di realizzazioni sul piano

linguistico spesso in esplicita violazione dello standard tradizionale e non può costituire un punto di

riferimento.

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Ogni lingua presenta una serie di differenze dovute a variabili dette assi di variazione:

Variabile Legata a Caratteristiche

Mezzo principale in cui avviene

la comunicazione

Distingue la lingua dei testi

parlati (dialogici) da quella dei

testi scritti (monologici). A

queste categorie è stata

aggiunta quella del parlato

trasmesso (telefono, televisione)

e dello scritto trasmesso

(Internet, messaggi telefonici).

Tempo che determina un

mutamento dell'uso linguistico

Può avvenire per fattori interni,

che determinano lo sviluppo dei

processi di

grammaticalizzazione

(acquisizione di funzioni

grammaticali) e lessicalizzazione

(elementi grammaticali danno

origine a parole nuove) e per

fattori esterni come il contatto

con altre lingue che determina

l'introduzione di parole e la

diffusione di peculiarità

sintattiche o fraseologiche.

Spazio

Una stessa lingua assume

caratteristiche diverse a

seconda delle singole zone in

cui è usata. In Italia è espressa

dalla ricchezza di dialetti

Posizione sociale

Dipende da fattori come: il

genere, l'età, la classe sociale, le

condizioni economiche, il grado

di istruzione

Situazione comunicativa,

all'argomento trattato

Ne deriva la scelta di un registro

linguistico formale o informale

o di linguaggi settoriali.

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Gli studi svoltisi nel corso degli ultimi anni hanno segnalato una nuova varietà di italiano definita

"italiano dell'uso medio" e “neostandard”, caratterizzata da fatti morfosintattici e lessicali già

documentati in testi del passato, ma censurati o ignorati dalle grammatiche che si sono comunque

diffusi. Costituiscono un esempio il che in funzione di suo subordinatore generico (vieni che ti pettino)

e le frasi scisse (è lui che me l'ha detto).

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Il lessico

CAPITOLO TERZO

COSTITUISCE L'INSIEME DELLE PAROLE, È CARATTERIZZATO DA UNA

COMPLESSA ARTICOLAZIONE E DA VARIE COMPONENTI, TRA CUI

SPICCANO LE VOCI DERIVATE DAL LATINO. IN QUELLO CONTEMPORANEO

SI SEGNALA LA PRESENZA DI ANGLICISMI E ALTRI FORESTIERISMI NON

INTEGRATI.

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L’unità fondamentale del lessico è il lessema, che non sempre corrisponde a una parola ma è al tempo

stesso più ristretto, quando parole diverse costituiscono un unico lessema (come gli verbi, il cui

lessema di base è l'infinito) o più ampio per la presenza di polirematiche (sala da pranzo).

Per individuare i rapporti tra i vari lessemi la lessicologia si lega a un'altra branca della linguistica: la

semantica che studia specificatamente i significati.

Polisemia: in ogni lingua molti lessemi non hanno un solo significato ma diversi a seconda dei contesti

in cui vengono impiegati (ad esempio il riferimento a nomi di animali per indicare qualità o difetti

degli uomini).

Omonimia: lessemi indipendenti sul piano del significato che coincidono su quello del significante,

come in pésca/pèsca.

Antonimia: lessemi che hanno un significato opposto, bipolari (maschio/femmina) o derivanti l'uno

dall'altro (felice/infelice).

Iperonimia: lessemi che hanno un significato generale (animali) comprendente quello più ristretto di

altri lessemi detti ipònimi (mammiferi o quadrupedi).

Distinte cose sono il lessico che comprende la totalità dei lessemi di una lingua e il vocabolario, che

costituisce solo una parte delimitata del lessico.

Tra i lessemi possiamo distinguere le parole semanticamente piene (nomi, verbi, aggettivi, alcuni

avverbi) e le parole grammaticali o funzionali detti anche parole vuote (articoli, pronomi, preposizioni,

congiunzioni, molti avverbi) che servono a legare tra loro le altre parole.

Il lessico si arricchisce continuamente di nuove entrate: le parole nuove o neologismi mentre altre

cadono in disuso e diventano arcaismi. I contatti con le altre lingue determinano l'introduzione di

prestiti considerando quello che è il prestigio: la superiorità di un popolo in un determinato campo

che determinerà l'accoglimento di parole della lingua di quel popolo in altre lingue.

Una lingua con una lunga e ricca storia culturale come l'Italiano dispone di un lessico molto ampio

che in passato risultava ulteriormente arricchito dalla polimorfia, che nel corso del Novecento italiano

è stata progressivamente ridotta.

All'interno del lessico italiano è stato individuato un settore particolare: quello del vocabolario di base,

formato dai 7000 lessemi che costituiscono la base di tutti i testi, sia scritti sia parlati, nella nostra

lingua.

È suddiviso in tre fasce:

Il lessico fondamentale che comprende le parole funzionali, i verbi, i sostantivi, gli aggettivi e

gli avverbi più frequenti;

Il lessico di alto uso che comprende i lessemi impiegati da coloro che hanno almeno un livello

di istruzione medio (pregiudizio, privilegio);

Il lessico di alta disponibilità, costituito dai lessemi legati ai fatti, agli oggetti e agli eventi della

vita quotidiana.

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Altri 45.000 lessemi appartengono al vocabolario comune e compaiono in testi più complessi,

comprensibili a chi è fornito di un'istruzione medio alta; il vocabolario di base e il vocabolario comune

costituiscono assieme il vocabolario corrente, al di fuori del quale si situano i lessemi propri o della

sola lingua letteraria o dei vari linguaggi settoriali.

Le voci gergali sono invece voci della lingua comune o di base dialettale modificate nel significato o

nel significante e utilizzate da gruppi ben definiti.

I regionalismi poi sono quelle varietà di italiano parlato in alcune regioni o subregioni, voci proprie

dei dialetti locali più o meno italianizzate.

I geosinonimi sono voci del dialetto che indicano concetti con termini che variano da zona a zona (il

veneziano giocattolo che ha "vinto" sul toscano balocco).

I geoomonimi sono termini formalmente identici che hanno significati diversi (lea “viale” in Piemonte

dal francese allée e lea “fango” a Venezia dal latino laetamen).

Se si analizza il lessico italiano dal punto di vista etimologico, facendo riferimento all'origine dei

lessemi che lo costituiscono, si individuano le diverse componenti:

Le parole di origine latina, distinte tra quelle di tradizione popolare e le voci dotte;

I prestiti o forestierismi, le parole attinte ad altre lingue con cui l'italiano è entrato in contatto;

Le neo formazioni, le parole formatesi all'interno del sistema italiano attraverso meccanismi

come la derivazione e la composizione.

All’interno della componente latina vanno individuate le parole popolari, che si sono ben integrate

nella nostra lingua e appartengono tuttora al vocabolario di base, e i latinismi, le parole dotte che

sono state recuperate nel lessico italiano; quasi lo stesso si può dire per quelle greche, di cui molte

sono diventate proprie del linguaggio scientifico internazionale, fatta eccezione per i grecismi di vasta

diffusione (protagonista, aerobica, agonia).

Spesso dalla stessa base latina sono derivate due o più parole italiane, una popolare e una dotta,

chiamate allòtropi (discum ‘desco’ e ‘disco’) o voci pervenute per trafila popolare che si legano sul

piano semantico a voci dotte e che hanno un'altra matrice, latina o greca (come l'aggettivo

corrispondente di bocca, derivata dal latino bucca, che è orale, dal latino os, oris ‘bocca’.

I prestiti o forestierismi, parole tratte da lingue straniere con cui la nostra è venuta in contatto per

vicende politiche, economiche e commerciali hanno contribuito ad arricchire il lessico italiano.

Ci sono stati anche dei cavalli di ritorno come il disegno tornato dall'inglese come design ‘disegno

industriale’.

Non tutti i prestiti rivelano la loro origine straniera, molti, nel caso dei verbi obbligatoriamente, sono

stati adattati e integrati nell'italiano (come train da cui treno).

Quando il prestito consiste semplicemente in un nuovo significato aggiunto a voci già esistenti si parla

di prestiti semantici, tra cui si distinguono:

Quelli omonimici basati sulla somiglianza del significante che comprendono i calchi come

processore, modellato su processor;

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Quelli sinonimici la cui somiglianza sia nel significato, (come stella del cinema basato

sull'inglese star) che comprendono i calchi come fuorilegge e fine settimana.

Altre volte parole policentriche nella lingua di partenza mantengono solo uno di loro significati in

quella d'arrivo o acquisiscono un significato diverso da quello originario. Ci sono anche parole

apparentemente straniere ma che sono invenzioni italiane come lo smoking.

Tra le varie categorie di forestierismi ritroviamo in ordine cronologico:

Periodo storico Prestiti Voci integrate legate a

Dopo il crollo dell'impero

romano

Germanismi

- nomi di parti del corpo

umano ‘guancia’

- oggetti d'ambito domestico

‘balcone’

- concetti ‘guerra’

- verbi ‘guardare’

Medioevo

Arabismi

- commercio ‘magazzino’

- prodotti orientali ‘albicocca’

- astronomia ‘zenit’

Ebraismi - parole di uso liturgico ‘amen’

Prestigio delle letterature d’oc

e d’oil

Gallicismi

- parole comuni ‘viaggio’

- neologismi semantici e calchi

‘burocrazia’

Cinquecento e Seicento

Ispanismi

- parole comuni ‘flotta’ ‘regalo’

- esotiche ‘cacao’

- relative alla politica

- alla musica ‘tango’

- allo sport ‘goleador’

- al costume ‘movida’

Nipponismi

- nomi di sport ‘karate’

- di attività artistiche

- voci ‘kamikaze’ ‘karaoke’

‘tsunami’

Inizio Novecento

Anglicismi

Sono i forestierismi più

numerosi e frequenti, per

opporsi alla loro invadenza

Francia e Spagna hanno

attuato strumenti di politica

linguistica, mentre in Italia i

palazzi stessi della politica si

sono aperti all'anglicismo, con

parole come welfare o exit

poll.

- informatica ‘browser’

- economia e finanza ‘bond’

- organizzazione aziendale e

amministrativa ‘budget’

- medicina ‘by-pass’

Parole non adattate in ambiti

come:

- sport ‘goal’

- musica leggera ‘rock’

- televisione e mass-media

‘talk show’

- costume ‘piercing’

- alimentazione ‘cracker’

- lingua comune ‘week-end’

- sigle ‘aids’

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Sono voci tratte dai vari dialetti parlati nella nostra penisola e riguardano vari campi: cucina ‘tortellini’,

paesaggio ‘faraglioni’, concetti propri di una determinata area che giungeranno ad assumere un

significato più ampio, come la parola ‘mafia’ del dialetto siciliano, espressioni fraseologiche ‘ finire a

tarallucci e vino’ dal dialetto napoletano.

Parole nuove entrate da poco nel lessico di una lingua per indicare nuovi concetti. I neologismi

combinatori utilizzano i meccanismi di formazione delle parole mentre con i neologismi semantici

nuovi significati si aggiungono a voci già esistenti. Gli occasionalismi, dalla vita effimera, sono spesso

propri esclusivamente della lingua dei giornali.

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Fonetica e fonologia CAPITOLO QUARTO

LA LINGUA PARLATA SI FONDA SULLA PRODUZIONE DI SUONI (O FONI) CHE NELLA LINGUA

SCRITTA SONO RESI CON LE LETTERE DELL'ALFABETO. IL SISTEMA FONOLOGICO DELL'ITALIANO È

BASTATO SOSTANZIALMENTE SUL FIORENTINO TRECENTESCO E OGGI DIMOSTRA UNA SERIE DI

TENDENZE INNOVATIVE.

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Il ramo della linguistica che studia i foni dal punto di vista del parlante a quello dell'ascoltatore è la

fonetica.

Nel suo percorso verso l'uscita l’aria incontra una serie di organi che le si frappongono, determinando

variazioni nell'apertura della cavità orale e producendo così foni diversi che:

• se le corde elastiche restano inerti durante l’espirazione i foni prodotti sono sordi; se sono tese e

vibrano i foni saranno sonori;

• se il velo palatino (la parte posteriore, molle del palato) è staccato dal fondo della faringe, l’aria

uscendo anche dal naso, produrrà foni nasali; se esso è sollevato contro la volta superiore della faringe,

avremo suoni orali;

All'interno dei foni orali si ha la distinzione tra:

Vocali, che si producono quando l'aria della cavità orale non incontra particolari ostacoli, sono

gli unici foni su cui può cadere l'accento;

Consonanti se l'aria incontra resistenze.

A seconda della loro posizione nella catena fonica esistono anche semiconsonanti o semivocali.

La fonologia studi i foni in astratto, nel loro configurarsi all'interno delle lingue come sistema per

individuare i fonemi, le piccole unità distintive di una lingua.

Distinzione fonologica: I fonemi sono individuabili con la “prova di commutazione”, in parole che

differiscono per un singolo fono, dette coppie minime.

Nello studio scientifico dei foni dei fonemi si utilizzano sistemi di trascrizione come quello dell’IPA

(International Phonetic Association) che completano le lettere dell'alfabeto latino tradizionale con altri

simboli.

Lo studio delle lettere dell'alfabeto (grafemi) e delle altre notazioni dello scritto (segni

paragrafematici) è la grafematica. In italiano non esiste una corrispondenza biunivoca tra grafemi e

fonemi che rappresentano.

Il sistema fonologico dell'italiano è costituito da 7 vocali, 2 semiconsonanti, 21 consonanti.

Sono a - ε - e - i - כ - o - u.

In posizione tonica sono 7:

• 1 vocale centrale, la /a/

• 3 vocali anteriori o palatali (lingua verso il palato duro), la /ε/ aperta, la /e/ chiusa e la /i/

• 3 vocali posteriori o velari (lingua verso il velo palatino, dette anche labiali perché richiedono la

protrusione delle labbra), la /כ/ o aperta, la /o/ chiusa e la /u/.

Se si considera l'altezza della lingua, le vocali si distinguono in alte (/i/ /u/) medio alte (/e//o/), medio

basse (/ε//כ/), bassa (/a/).

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In posizione atona le vocali sono 5, costantemente chiuse.

La u atona in finale di parola si trova sono nei toponimi e cognomi sardi. Due vocali in sillabe diverse

formano uno iato (pa-e-se,).

Sono la j (si pronuncia come i) e la w (si pronuncia come u) hanno una durata più breve e non possono

essere mai accentate.

Possono comparire solo prima o dopo la vocale appartenente alla stessa sillaba con cui costituiscono

un dittongo (piano, baita), che diventa trittongo se costituito da due semiconsonanti e una vocale

(aiuole) o da una semiconsonante, una vocale e una semivocale (miei).

Sono 21: p - b- t - d - k (si pronuncia c) - g - m - n - л (si pronuncia gn) - ts (si pronuncia z dura) - dz

(si pronuncia z morbida) - tf (si pronuncia c) - dз (si pronuncia g) - f - v - s - z (resa nella scrittura con

s) - ƒ (si pronuncia sc) - l - λ (si pronuncia gl) - r.

Vengono classificate secondo il modo (occlusive, costrittive, affricate) e il luogo di articolazione (labiali,

labiodentali, dentali, alveolari, prepalatali, palatali, velari) e la caratteristica del fono di essere sordo,

sonoro, orale o nasale.

Con una chiusura completa del canale si parla di consonanti occlusive (p - b - t - d - chi - ghi - k - g)

mentre si avvia solo restringimento si parla di costrittive (f - v - s - z - ƒ- l - λ - r).

15 consonanti possono essere tenui o intense.

Si presenta in 3 casi fondamentali:

• dopo un monosillabo forte;

• dopo un polisillabo ossitono (accento sull’ultima sillaba);

• dopo parole baritone (non accentate sull’ultima sillaba).

I foni vengono pronunciati in gruppi, detti sillabe. L’elemento fondamentale della sillaba è il nucleo,

che può essere preceduto da un attacco e seguito da una coda, quest’ultima insieme al nucleo forma

la rima.

Se la sillaba è priva di coda (finisce con vocale) sarà aperta (o libera), al contrario si definisce chiusa (o

implicata).

Il nucleo può essere costituito da una sola vocale, fanno eccezione le interiezioni e le onomatopee

(pss).

L’attacco, che può mancare (a-mo), è di norma formato da una consonante qualunque (mo-do) o, più

di rado, da una semiconsonante (uo-vo); può essere anche ramificato, cioè costituito da due o tre

consonanti (pre-mio).

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La coda di solito è costituita da una sola consonante (for-no) o da una semivocale (cau-sa); non tutte

le consonanti possono trovarsi nella coda.

L’accento è un tratto soprasegmentale, che consiste nel far emergere dalla catena fonica una sillaba

(o meglio il suo nucleo) per durata, intensità e altezza melodica.

Caratteristiche dell’accento italiano:

È prevalentemente di natura intensiva, e si realizza con l’aumento della forza espiratoria

durante la pronuncia del nucleo vocalico della sillaba.

Può essere mobile: la sua posizione può variare nelle parole composte da più di una sillaba.

Ha valore fonologico, in quanto la sua differente posizione serve a distinguere parole e forme

altrimenti identiche.

Se cade sull’ultima sillaba la parola si dice ossitona, sulla penultime si dice parossitona, sulla

terzultima proparossitona.

Le parole composte da più di tre sillabe spesso recano un accento secondario, sulla prima o sulla

seconda sillaba. Le parole solitamente prive di accento, sono i monosillabi deboli, come preposizioni,

articoli, alcune congiunzioni, forme pronominali, strettamente legate alle forme verbali precedenti

(proclisi) o seguenti (enclisi).

Il ritmo è la ricorrenza nella lingua parlata di segmenti forti (accentati) e deboli (non accentati).

In coerenza con la libera posizione dell’accento, l’italiano ha diverse possibilità di avere sequenze,

denominate piedi: il trocheo (sillaba lunga + sillaba breve), il dattilo (sillaba lunga + 2 sillabe brevi), il

giambo (sillaba breve + sillaba lunga), l’anapesto (2 sillabe brevi + sillaba lunga).

L’intonazione ha un ruolo importantissimo dal punto di vista sintattico, per esempio grazie ad essa, è

palese la differenza, nel parlato, tra un’interrogativa e un’affermativa.

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Morfologia flessiva

CAPITOLO QUINTO

LA MORFOLOGIA ANALIZZA LE FORME DELLE PAROLE E LE

MODIFICAZIONI CHE POSSONO PRESENTARE PER ASSUMERE VALORI

DIVERSI.

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La morfologia flessiva studia come si esprimono, nei nomi, negli articoli e negli aggettivi, i concetti di

genere (maschile/femminile) e di numero (singolare/plurale); nei pronomi esprime anche quelli di persona

e di caso; nei verbi anche quelli di tempo, modo, aspetto (perfetto, imperfetto) e diatesi. Lo studio delle

forme individuate, dette flesse, costituisce la morfologia flessiva.

L’elemento minimo dell’analisi morfologica è il morfema, definito come la più piccola unità linguistica

dotata di significato.

Sulla base dell’analisi morfologica è possibile suddividere le lingue del mondo in due grandi categorie:

• lingue analitiche (o isolanti), in cui ogni significato è rappresentato da un elemento unico, che costituisce

da solo una parola autonoma, non cambia forma e non può essere legato a un altro elemento (morfemi

liberi).

• lingue sintetiche, che tendono ad unire in una sola parola più morfemi non autonomi, ma legati tra loro

(morfemi legati) e portatori di significati diversi; possiamo distinguere tra il morfema lessicale (radice),

che dà il significato alla parola e i morfemi grammaticali, che danno l’informazione morfologica. Le lingue

flessive appartengono a quelle sintetiche, in cui una parola è costituita dalla radice e dalla desinenza.

Nella parola italiana case, distinguiamo i due morfemi casa- (la radice, che dà significato alla parola) ed

-e (la desinenza, che in questo caso indica un femminile plurale).

Ogni lingua presenta elementi analitici ed altri sintetici; in tutte le lingue inoltre possiamo individuare le

“parti invariabili” del discorso (in italiano sono avverbi, congiunzioni, proposizioni, interiezioni, che per

definizione non possono flettersi.

Il latino classico è la lingua flessiva per eccellenza; l’italiano presenta molti aspetti flessivi, ma anche varie

caratteristiche isolanti.

In italiano la flessione, nei nomi, marca il numero (singolare/plurale). Il genere (maschile/ femminile) è

inerente al nome ed è immotivato, tranne nei nomi che si riferiscono a persone o animali, dove è collegato

al sesso (toro/mucca, in cui le radici sono totalmente irrelate) o a maestro/maestra; nei nomi riferiti a cose

inanimate la distinzione di genere è indipendente dal significato (il porto/la porta).

Sulla base della terminazione del singolare e del plurale considerati congiuntamente, si possono

individuare, in italiano, sei classi di nomi con terminazione:

1. -o/-i, genere maschile (campo/campi);

2. -a/-e, genere femminile (casa/case);

3. -e/-i, genere sia maschile che femminile (fiore/fiori, notte/notti);

4. -a/-i, genere maschile (papa/papi);

5. -o/-a, genere maschile al sing. femminile a plur. (dito/dita);

6. Varie, genere sia maschile che femminile (re, città, virtù, biro).

Gli aggettivi di prima classe sono flessi secondo le categorie di genere e numero, espresse

contemporaneamente da un unico morfema vocalico; quelli di seconda classe hanno invece solo due

forme flesse, singolare e plurale (grande/grandi).

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La classe degli aggettivi invariabili, in passato rappresentata solo da pari e composti (pari/dispari) si è

arricchita con gli aggettivi indicanti colori o altri sostantivi, specie di origine straniera, elementi di altre

categorie grammaticali e sigle in funzione aggettivale (cantanti rock). Gli aggettivi in -a sono perlopiù

formati da nomi per conversione.

Sugli aggettivi è marcato anche il grado: Il grado comparativo (di maggioranza) si realizza con l'avverbio

più premesso all'aggettivo; il superlativo assoluto con l'aggiunta di avverbi come tanto, molto etc. ma

anche con il suffisso -issimo, con vari prefissi (mega-, iper-) o in altri modi.

Una particolarità dell’italiano, consiste nella tecnica sintetica per la formazione di alterati, sia nomi che

aggettivi, con l’aggiunta di vari suffissi come -ino, -etto, -uccio ecc.

Tra le funzioni degli articoli determinativi e indeterminativi, ricordiamo quella di individuare se il nome

seguente è noto o ignoto (appartenente o meno alle conoscenze condivise o presente/assente nel

contesto precedente o immediatamente successivo ‘il mare è salato’ ‘ieri c’era un mare bellissimo’).

L’articolo determinativo ha spesso una funzione anaforica di ripresa (un cane insegue un gatto; il cane è

nero, il gatto bianco) o cataforica di anticipazione (la signora che parla è la madre di Giulio).

Gli articoli italiani, ben distinti tra maschili e femminili, tra singolari e plurali svolgono inoltre la funzione

di determinare genere e numero del nome che segue (la lama del coltello/il lama delle Ande).

Esiste solo il singolare degli articoli indeterminativi.

L’italiano contemporaneo mostra qualche irregolarità nella scelta dell'articolo davanti a parole inizianti

per la semi consonante /w/ o per gruppi consonantici e grafemi estranei all'italiano (il whisky o lo whisky).

Il sistema dei pronomi italiano è complesso e in continua innovazione.

L’italiano è una lingua “PRO-drop”, che consente la caduta del pronome; infatti non richiede

necessariamente l’espressione del pronome soggetto, in quanto la desinenza del resto fornisce

l’indicazione della persona (il pronome è necessario solo alla seconda persona del presente e imperfetto

congiuntivo, è frequente nel parlato e nello scritto quando c'è la necessità di stabilire un'opposizione con

altre persone ‘io vado a casa, tu resta pure’).

Nell’italiano standard tradizionale è mantenuta, come in latino, la differenza tra pronomi soggetto (io, tu,

egli) ed oggetto (me, te, lui/lei); al plurale questa differenza si annulla nella 1 e 2 pers. (Noi, voi), per

quanto riguarda la 3, essi/esse sono soggetto ma anche complemento (non diretto) se preceduti da una

preposizione; loro invece svolge la funzione di oggetto diretto; il riflessivo di 3 pers. sia singolare che

plurale è sé.

Oggi i pronomi essi/esse ed egli/ella sono scarsamente usati, si preferisce spesso omettere i pronomi,

sostituirli con un nome o con lui/lei.

I pronomi personali tu, lei, ella, voi e loro svolgono anche la funzione di allocutivi, che si utilizzano quando

ci si deve rivolgere a qualcuno: di norma si usano tu e voi nei rapporti confidenziali e paritari; nei rapporti

gerarchici o con persone con cui non si è in confidenza si usano le forme di cortesia lei, ella, voi (al

singolare) e loro. Quando vengono riferiti a un uomo, Ella richiede sempre l'accordo al femminile,

ammettendo l'accordo al maschile solo per gli aggettivi e per i participi passati.

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In funzione di complemento oggetto e di termine, oltre alle forme toniche (me, te, lui, sé rifl, noi, voi,

loro), esistono delle forme atone (clitici): per le prime due persone abbiamo mi, ti, (che hanno anche

funzione riflessiva) ne, ci e vi (svolgono anche funzione locativa di complemento di luogo figurato); per

la terza lo, la, li e le (complemento oggetto) e gli, le e lo pseudoclitico loro (complemento di termine); il

riflessivo atono è si.

I clitici si pongono prima dei verbi, tranne che con l'imperativo e i modi non finiti (comprali); la loro

posizione è libera all'imperativo negativo (non farlo) e in presenza di una perifrasi verbale, specie con

verbi modali (lo posso dire, se posso dirlo).

Un caso particolare è costituito dalla posizione del si in affittasi, vendesi che non ammetteva i clitici

all'inizio di frase.

Nel sistema dei clitici si segnala la sovrabbondanza e la coincidenza di molte forme, tra cui ci 1 persona

plurale e locativo; più frequenti nel parlato che nello scritto, anche in conseguenza della crescita dell’uso

pronominale dei verbi transitivi (ci guardiamo la partita); ci sono poi fenomeni specifici come gli che

compare invece di ci con riferimento a cose o in espressioni come ‘che gli fa?’ ; si registra anche una certa

distinzione di ci in forme come ‘parlarci’.

Il pronome ci, ormai, sostituisce quasi sempre il locativo vi, ma svolge anche una funzione attualizzante

con vari verbi, anzitutto essere e avere con significato pieno (c’è Marco). Il “ci attualizzante” è frequente

anche con i verbi vedere e sentire e con altri verbi procomplementari a cui conferisce significati particolari:

entrarci ‘essere pertinente’ (cosa c'entra?), farcela ‘riuscire’, starci ‘essere d'accordo’; l’uso di ci col verbo

avere, diffusissimo nel parlato (c’ho sonno), stenta ad essere accettato nello scritto.

Nell’ambito dei numerali, l’italiano tende a usare i numeri cardinali piuttosto che quelli ordinali, con

conseguente perdita dell’accordo tra genere e numero (“Lo squalo 2”, “Canale 5”, “Roma Tre”).

I dimostrativi (aggettivi e pronomi) sono questo/a/i/e (vicino a chi parla), codesto/i/a/e (vicino a chi

ascolta) e quello/a/i/e (lontano da entrambi). Sia nel parlato che nello scritto, i dimostrativi tendono a

ridursi quasi alla funzione di articoli: nel parlato dunque, il loro valore è spesso ribadito da un avverbio

(questo qui).

Per quanto riguarda i pronomi relativi, si usa che sia in funzione di soggetto, sia complemento oggetto,

cui per gli altri complementi; sono entrambi sostituibili con il quale/la quale/i quali/le quali.

Il verbo è la parte del discorso che fornisce più informazioni morfologiche: nei tempi principali della forma

attiva, queste indicazioni vengono date con i suffissi legati al tema verbale, nei tempi composti della forma

attiva e nell’intera forma passiva, vengono date con gli ausiliari (avere all’attivo ed essere al passivo)

premessi al participio passato.

Nelle forme flesse dei paradigmi verbali, i morfemi grammaticali (o desinenze), si aggiungono a volte alla

radice, a volte al tema (radice + vocale tematica, che varia a seconda della coniugazione). Nelle forme

finite, il morfema, che indica contemporaneamente tempo, modo e aspetto, precede quello che indica

persona e numero: per es. in ascoltavate abbiamo la radice ascolt-, la vocale tematica -a-, il morfema

dell’imperfetto indicativo -va-, quello della 2 pers. plur. -te. Ci sono casi in cui un unico morfema dà tutte

queste informazioni, è il caso di chiamò.

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I tempi deittici (nella categoria del tempo) fanno riferimento al momento dell’enunciazione che può

essere contemporaneo, successivo o precedente all’azione descritta dal verbo; sono il presente, il passato

ed il futuro:

Il presente indica che l’azione è contemporanea all’enunciazione (mangio il gelato) o che l’azione

è abituale (la trasmissione tale va in onda il lunedì) o atemporale (il fumo fa male); spesso nel

parlato si usa il presente anche con riferimento al passato, come presente storico (ieri vado al

mercato e indovina che vedo?);

Il futuro si riferisce a un’azione posteriore al momento dell’enunciazione (lo farò domani);

Il passato si riferisce a eventi anteriori rispetto all’enunciazione; il passato, si differenzia in 3 forme:

imperfetto, passato prossimo e passato remoto;

L’imperfetto indica eventi passati durativi (negli anni ’60 si ballava il twist) o abituali (di solito

andavamo al mare) e fa spesso da sfondo agli eventi narrati dagli altri due passati;

Il passato remoto indica un evento trascorso definitivamente concluso (Dante nacque nel 1265);

Il passato prossimo, composto con l’ausiliare, guarda al risultato dell’azione, che può avere effetti

sul presente (fin da bambino ho sempre abitato a Roma).

Gli altri tempi, composti tutti con l’ausiliare, futuro anteriore e trapassato prossimo e trapassato remoto,

sono i tempi anaforici, essi infatti esprimono anteriorità o posteriorità rispetto a un altro tempo espresso

nel testo o ricavabile dal contesto (quando avrai finito i compiti potrai uscire).

La categoria del modo esprime certezza o incertezza sulla realizzazione dell’evento, spesso codifica anche

la dipendenza sintattica:

L’indicativo è il modo della realtà e delle frasi principali;

Il congiuntivo, che compare nelle frasi principali solo come sostituto dell’imperativo per la 1 pers.

plur. e per la 3 sing. e plur. (andiamo, venga) o con valore dubitativo (non sia mai! lo volesse il

cielo), esprime dubbio o incertezza ed è il modo tipico delle frasi dipendenti, completive (voglio

che tu ci venga, vorrei che tu venissi); consente l’ellissi della congiunzione (credo sia vero), le

interrogative indirette (gli chiese se avesse freddo), relative limitative (cerco qualcuno che mi

capisca) o introdotte da congiunzioni.

Il condizionale, sia nelle principali che nelle dipendenti esprime una modalità controfattuale, per

es. nell’apodosi (nel periodo ipotetico, frase principale che esprime la conseguenza dell'ipotesi

esposta nella protasi: apodosi ‘verrei volentieri’, protasi ‘se potessi’) del periodo ipotetico

dell’irrealtà, nelle richieste, dove ha valore attenuativo e di cortesia (vorrei chiedere una cosa,

potrebbe abbassare il volume?); può esprimere dubbio (direi di no); il condizionale passato, nelle

dipendenti, può avere la funzione di futuro del passato (speravo che sarebbe venuto);

L’imperativo esprime ordini, esortazioni, preghiere; ha forma propria solo per la 2 pers. sing. e

plur., ricorrendo per la 1 plur. e per la 3 sing. e plur. al congiuntivo.

Tra i modi non finiti (che non presentano distinzioni di modo e di persona):

L’infinito e il gerundio, sia al presente che al passato, si usano nelle dipendenti implicite (spero di

venire), e al presente, molto spesso, in perifrasi verbali; il gerundio presente può essere in stretta

dipendenza da un verbo finito per esprimere contemporaneità (arriva correndo); l’infinito

presente può comparire nelle interrogative o esclamative (che dire?); spesso l’infinito ha uno

statuto nominale anziché verbale, ed è preceduto dall’articolo (nel porgervi i miei saluti);

Il participio presente ha ormai valore pienamente aggettivale o nominale;

Il participio passato, l’unica forma verbale che marca il genere, si usa in frasi dipendenti implicite

e nei tempi composti della forma attiva e nell’intera diatesi passiva (resa con una perifrasi formata

da ausiliare essere + participio passato).

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Il sistema verbale dell’italiano sta subendo delle trasformazioni riguardo all’uso di tempi e modi; ecco le

tendenze principali, che prevedono l’estensione di certe forme a spese di altre:

L’indicativo presente compare anche con valore futuro se accompagnato da un elemento

temporale (torno subito, l’anno prossimo mi trasferisco); allo stesso modo il passato prossimo

può sostituire il futuro anteriore (quando ho finito gli esami mi dedico alla tesi);

Il futuro acquista spesso valori modali: abbiamo il “futuro epistematico”, che esprime ipotesi e

previsioni, dubbi e incertezze (a quest’ora sarà arrivato); il “futuro deontico” che esprime il senso

di dovere (le domande andranno presentate entro la tale data); il futuro in dipendenza di un verbo

di opinione al posto del congiuntivo (credo che verrà);

L’imperfetto anche acquista valori modali: tende a sostituire il congiuntivo e il condizionale

nel valore fattuale o controfattuale, nel periodo ipotetico dell’irrealtà (se venivi ti divertivi),

nell’imperfetto di cortesia (volevo un caffè) o nel discorso indiretto con valore di citazione (Maria

ha detto che andava a casa);

Rapporto tra passato remoto e passato prossimo: il passato remoto è in regressione, a favore del

passato prossimo anche in riferimento ad azioni non solo concluse, ma anche lontane nel tempo

(dieci anni fa sono stato a Parigi)

Non si può parlare di morte del congiuntivo anche se il suo uso è fortemente ridotto in

dipendenza dai verbi di opinione, nelle relative restrittive, nelle interrogative indirette cede spesso

il posto all’indicativo;

Il condizionale spesso viene sostituito dall’indicativo imperfetto, d’altra parte il suo uso tuttavia

legato a un valore di citazione, si è intensificato (l’imputato sarebbe stato visto da alcuni testimoni)

Il valore dell’imperativo è spesso espresso col presente (ti siedi e mangi!)

Per quanto riguarda i modi non finiti, l’uso dell’infinito si sta estendendo come imperativo

generico in avvisi e istruzioni (in caso di incendio rompere il vetro). Per la forma passiva frequente

è la sostituzione di essere con venire. Importante è la diffusione di perifrasi verbali, tra le quali la

più frequente è quella formata da stare + gerundio per esprimere la dura dell’azione (sto

lavorando); altra perifrasi diffusa da secoli è quella stare per + infinito, per indicare futuro

imminente; stare a + infinito è usata con i verbi di percezione (staremo a vedere) e con gli

imperativi in frasi negative (non ti stare a preoccupare). Notevoli anche le perifrasi che esprimono

la modalità deontica in alternativa al verbo dovere + infinito: andare + participio passato (va

detto), avere da + infinito (ho da fare i compiti), pronome dativo + toccare + infinito (mi tocca

andare a casa).

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Morfologia lessicale

CAPITOLO SESTO

STUDIA I MECCANISMI ATTRAVERSO I QUALI DA PAROLE ESISTENTI SI

FORMANO PAROLE NUOVE.

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Si possono formare parole nuove derivate da altre già esistenti, dette basi, tramite l’aggiunta di prefissi,

suffissi, oppure formare nuove parole composte con altre già in uso o con confissi (data una parola

composta, è un morfo con valore semantico pieno).

Il significato dei derivati e dei composti è di solito trasparente dal punto di vista formale, per questo è di

facile comprensione per i parlanti. Poiché sia l’aggiunta di suffissi e prefissi, sia la composizione possono

avere conseguenze sul piano fonetico, anche nella morfologia lessicale, come nella flessiva, sono notevoli

i casi di allomorfia (gli allomorfi sono le diverse forme che un morfema assume e che non determinano

cambiamenti nel suo significato):

Cancellazione di una vocale o di una consonante: difficile + mente > difficilmente;

Palatalizzazione della consonante finale del tema prima dei suffissi -ìa, -ità, -izia, ista, -istico, -

ismo, izzare: mago > magia;

Assimilazioni consonantiche di prefissi come in-, che diventa im- davanti a m, p e b (possibile>

impossibile), ir- davanti a r (responsabile > irresponsabile), il- davanti a l (logico > illogico), e ad-

che raddoppia la consonante iniziale di alcuni verbi come arricchire, affondare altri fenomeni di

riduzione come israeliano + palestinese > israelo-palestinese.

Il meccanismo più usato per formare parole nuove in italiano è la derivazione che può essere a ventaglio

(lavorante, lavorazione tutti derivati con vari suffissi da lavorare) o a cumulo, formata con progressive

aggiunte come nel caso di permeare > permeabile > impermeabile…) lo studio della derivazione è detto

morfologia derivativa; il meccanismo di derivazione può realizzarsi in vari modi:

Conversione: con l’assegnazione di una categoria grammaticale diversa da quella di base a una

parola, senza modificarla: sapere (verbo) > il sapere (nome);

Suffissazione: con l’aggiunta di un suffisso dopo il tema della base: lavora-re > lavora- tore (sono

suffissati anche gli alterati tipo cas-a > cas-etta);

Prefissazione: con l’aggiunta di un prefisso prima della base: capace > in-capace;

Prefissi e suffissi insieme vengono chiamati affissi, e affissazione è il nome generale dei procedimenti di

suffissazione e prefissazione. La suffissazione consente di formare lessemi anche di una categoria

morfologica diversa rispetto alle basi, cosa che nella prefissazione (maniglioni anti-panico, legare s-

legare) è molto marginale.

La conversione è il meccanismo di derivazione più comune nelle lingue isolanti, come l’inglese, mentre

in italiano è poco frequente e soggetta a restrizioni: un nome per diventare verbo deve terminare in -(a)re

dell’infinito; qualunque verbo può assumere valore nominale (infinito sostantivato), tuttavia si può parlare

di conversione solo quando l’infinito è pluralizzabile (saperi, poteri) e ha reggenza nominale (i piaceri

della tavola); tra le conversioni verbali abbiamo la nominalizzazione del participio presente (che assume

spesso anche valore aggettivale: i fari abbaglianti, i cantanti) e del participio passato maschile e femminile

(l’udito, l’abitato) e la rarissima nominalizzazione del gerundio (il crescendo rossiniano).

Frequente è il passaggio da nome ad aggettivo (per es. in alcuni insulti) e il passaggio da aggettivo a

nome (pieno > il pieno).

Altri tipi di conversione consistono nell’uso avverbiale di alcuni aggettivi (“forte” in andare forte) e di nomi

(‘via’ in andare via) e nella possibilità di lessemi appartenenti a qualunque classe del discorso di

trasformarsi in interiezioni (basta! ora!).

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Attraverso la suffissazione è possibile trarre derivati appartenenti a categorie grammaticali diverse da

quelle delle basi: le voci derivate da nomi si chiamano denominali, quelle derivate da verbi deverbali, dagli

aggettivi deaggettivali, le poche ricavate da avverbi deavverbiali.

I diversi suffissi possono essere classificati in base alle diverse categorie grammaticali che producono: i

suffissi che formano nomi (-aio, -ista), i suffissi che formano verbi (-ificare, -izzare), quelli che formano

aggettivi (-oso,-ico), l’unico suffisso che forma avverbio è -mente.

I suffissi italiani sono moltissimi ed esprimono varie categorie di parole.

I nomi d’agente, che indicano chi svolge una particolare attività, i più frequenti sono quelli con:

Base verbale: -tore (assicuratore), -trice (presentatrice), -ante (insegnante), -ente (concorrente)

(interpretabile anche come participio presente), -one/a (mangione con connotazione

dispregiativa), -ino/a (imbianchino);

Base nominale: -ista (giornalista), -aio/a (benzinaio), -aiolo (pizzaiolo), -aro (paninaro, cravattaro)

(variante romana di -aio oggi molto produttiva in ambito neologico), iere/a (guardarobiere) (al

femminile indicano anche contenitori, teiera), -ario/a (segretario).

I Nomi d’azione, che partono da basi verbali ed esprimono il significato del verbo in forma nominale; i

suffissi più importanti per la loro formazione sono -zione (privatizzazione), - mento (favoreggiamento), -

aggio (lavaggio), -tura (spazzatura), -ata (chiaccherata).

Nomi di qualità, luogo e tendenze/movimenti:

Di qualità con base aggettivale: -ezza (bianchezza), i(e)tà (italianità, ovvietà);

Di luogo con base nominale: -erìa (birreria);

Di tendenze/movimenti con il suffisso -ismo derivati da nomi propri (evoluzionismo, futurismo).

Aggettivi

Con base verbale: -bile (lavabile, richiudibile)

Con base nominale: -ale, -are, -ile, ico/a che esprimono una relazione col nome (aziendale, polare,

maschile, termico).

Tra i suffissati rientrano anche gli alterati: l'alterazione costituisce un caso particolare di suffissazione e ha

importanza anche per la formazione delle parole.

I suffissi in -uccio, -ino, -one esprimono particolari concetti di grandezza, piccolezza e altre sfumature;

alcuni hanno provocato la lesse calibrazione della parola che diventa poi un lessema autonomo (rosa,

rosone; fiore, “fioretto” nello sport, perciò viene utilizzato fiorellino per il diminutivo).

Un caso particolare di suffissazione è la cosiddetta “suffissazione zero”, ovvero nomi tratti da verbi senza

l’aggiunta di suffisso (spacco da spaccare) e dai verbi tratti da nomi con la sola aggiunta di -are (droga >

drogare); alcuni studiosi considerano anche alcuni femminili in -a come stipula, classifica modifica

(caratteristiche del linguaggio burocratico) che altri interpretano come sempre di sottrazione di suffisso.

Anche la prefissazione (come la suffissazione), può essere utilizzata per formare parole nuove.

I prefissi non possono apportare un cambiamento di categoria alla base (l'unica eccezione è quella

costituita da anti- ‘contro’ che premessa a nomi può formare aggettivi come squadra antidroga) ma si

possono anteporre a categorie diverse con l’eccezione del prefisso negativo s- che si aggiunge solo ad

aggettivi e verbi inizianti per consonante (s e z escluse), mentre in- viene premesso a nomi e aggettivi.

Molti prefissi derivano dal latino (ante-, super-, ex-, post-) o dal greco (iper-, ipo-, micro-, mega-).

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I prefissi esprimono concetti diversi, prevalentemente hanno valore spaziale e temporale (anticucina,

preistoria, transalpino), possono indicare anche unione (co-produzione), opposizione (anti-rughe),

ripetizione (ri-vedere), valutazioni quantitative (mono-locale), valore privativo o negativo (dis-abile, s-

contento), esprimono significati accrescitivi e diminutivi, apprezzativi o dispregiativi (mini-, maxi-).

I verbi parasintetici sono quelli ottenuti, rispetto alla base nominale o aggettivale, con l’aggiunta

contemporanea di un prefisso e di un “suffisso zero” (imbruttire, abbellire, impratichirsi, sdoganare).

Si realizza accostando due lessemi, trattati come una sola parola (anche graficamente). I casi più frequenti

sono:

Nome + nome: i due elementi possono essere coordinati (cassapanca, caffellatte), oppure il

secondo può determinare il significato del primo, o svolgere una funzione quasi aggettivale (cane

poliziotto, bambino prodigio, scena chiave), o fare da complemento (capofila, sala macchine,

pausa caffè); in alcuni composti recenti la testa è composta dal secondo elemento (ferrovia,

bagnoschiuma)

Aggettivo + nome: indica che un nome ha la caratteristica espressa dall’aggettivo (malasanità,

mezzobusto);

Nome + aggettivo: usato prevalentemente per composti esocentrici, che indicano animali e

persone con le caratteristiche indicate dal composto (pettirosso, pellerossa, caschi blu);

Aggettivo + aggettivo: pone gli aggettivi in rapporto di coordinazione; tra questi spiccano quelli

che indicano i colori delle magliette da calcio (giallorosso, bianconero); spesso il primo termine

può venire accorciato (democristiano);

Verbo + nome: il nome costituisce il complemento oggetto del verbo (con l’eccezione di

marciapiede per es.); spesso usato per indicare macchinari, attrezzi, elettrodomestici (lavapiatti,

accendisigari, scolapasta);

Verbo + verbo: si formano per lo più con la ripetizione dello stesso verbo (fuggifuggi) o con

l’accostamento di verbi di significato contrario (saliscendi) a volte con tanto di congiunzione

(tiremmolla, gratta e vinci);

Verbo + avverbio: (tiratardi, buttafuori, cacasotto);

Avverbio + verbo: (malmenare);

Avverbio + aggettivo: (sempreverde, benpensante);

Avverbio + nome: (non violenza);

Preposizione + nome: sono per lo più esocentrici, indicando persone o cose descritte nel

composto (senzatetto, dopocena, sottobicchiere).

Molto diffusa in italiano la composizione detta neoclassica, perché utilizza elementi del latino e del greco,

detti confissi, combinati tra loro (glottologia > studio della lingua) o uniti a parole moderne alle quali i

confissi si possono posporre (paninoteca) o anteporre (multiuso).

I confissi non sono di norma elementi liberi e compaiono solo all’interno di parole complesse, pur avendo

un significato pieno (nelle lingue classiche costituivano vere e proprie parole).

Nella composizione neoclassica, la testa è a destra in quanto si segue la sequenza determinante +

determinato, propria del latino e del greco. Inoltre nei composti neoclassici possono entrare anche più

di due elementi (oto-rino-laringo-iatra). Oltre al loro significato originale i confissi hanno sviluppato un

significato aggiuntivo, per es. auto-, come riferimento a sé stessi in autoritratto, autoscatto, autocontrollo,

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è diventato anche auto- da automobile in autostrada, autoaccessori ecc., o tele- inteso come “a distanza”

(telegramma, telecomandare) oggi si può riferire alla televisione (telegiornale).

I composti neoclassici sono prevalentemente novecenteschi e costituiscono la maggior parte del lessico

contemporaneo.

Le polirematiche, o unità lessicali superiori, sono combinazioni di più parole, separate nella grafia, ma che

costituiscono un unico lessema; esse sono neologismi combinatori, formate con parole già esistenti, che

una volta fissate non possono essere sostituite. Le polirematiche si classificano in base al tipo di

formazione:

Nome + nome: conferenza stampa

Nome + aggettivo: musica leggera

Aggettivo + nome: terza età

Nome + preposizione + nome: il tipo più comune e produttivo (borsa di studio, camera da letto,

stile di vita, vigile del fuoco)

Nome + preposizione + verbo: vuoto a rendere

Verbo + nome: prendere tempo, fare appello, aver luogo, in cui il verbo ha una semplice funzione

di supporto.

Le polirematiche possono essere classificate anche in base alla loro funzione grammaticale:

Valore di sostantivo: carta di credito

Valore di aggettivo: acqua e sapone

Valore di verbo: mettere in moto

Valore di avverbio: a gambe levate

Valore di esclamazione: porca miseria!

Valore di preposizione: ad eccezione di

Valore di congiunzione frasale: dal momento che

Valore di congiunzione testuale: se non altro

Inoltre vanno incluse tra le polirematiche le locuzioni preposizionali, congiuntive e avverbiali (al di là di,

per via di, in quanto).

Una volta integrate nel lessico, le polirematiche possono univerbarsi (nondimeno!) o ridursi al primo

elemento (ferro da stiro > ferro, gomma da masticare > gomma) o al secondo (sedia a sdraio > sdraio).

L’italiano contemporaneo ha sviluppato dei meccanismi atti alla riduzione di parole già esistenti:

L’abbreviazione: quasi esclusivamente nello scritto (s. > santo);

Le sigle: riducono i sintagmi formati da più parole alle sole lettere iniziali delle parole; inizialmente

riservate a enti, partiti, imprese commerciali, le sigle si sono estese ai nomi comuni: gip (giudice

per le indagini preliminari), tac (tomografia assiale computerizzata); nell’uso attuale si conferma

l’influsso dell’inglese in sigle come okay (ok), radar (radio detection and ranging);

Gli acronimi: sigle formate non solo con le lettere iniziali, ma anche con pezzi delle parole del

sintagma (Istat > istituto centrale di statistica); siamo vicini alle cosiddette “parole macedonia”,

formate da pezzi di varie parole (cantautore);

Gli accorciamenti: parole complesse di una certa lunghezza vengono troncate nella loro parte

finale (bicicletta > bici); gli accorciamenti possono riguardare il confisso (auto > automobile), il

prefisso (ex > ex marito) e per le parole di derivazione inglese anche il suffisso (bus > autobus);

Le retroformazioni: formazione di un nuovo lessema, ricostruito e considerato fonte di un lessema

già esistente, mediante l’applicazione al contrario di un processo di formazione delle parole

(benza > benzina).

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La sintassi

CAPITOLO SETTIMO

LA SINTASSI STUDIA LA FRASE E LE DIVERSE UNITÀ PIÙ PICCOLE DA CUI

QUESTA È COSTITUITA, DEFINISCE FUNZIONI COME QUELLE DI SOGGETTO,

DI PREDICATO, DI COMPLEMENTO E ANALIZZA LE CONGIUNZIONI CHE

SERVONO PER LEGARLE TRA LORO DEFINENDONE IL VALORE.

Page 30: L'Italiano Contemporaneo F. Bruni Riassunto cap. 1-3-4-5-6-7-9

La frase è un’espressione linguistica di significato compiuto, che contiene una predicazione e tutti gli

elementi necessari alla sua completezza. Il nucleo della frase è composto dal verbo e dagli elementi ad

esso legati per completarne il significato.

La frase semplice è costituita da un solo nucleo e dunque da un solo verbo (Marco in questo periodo è

molto occupato).

Gli elementi legati al verbo sono gli attanti (o argomenti, sono il soggetto e l’oggetto diretto e indiretto)

e i verbi sono classificabili in base alla valenza, ossia al numero massimo di attanti che possono fare parte

del nucleo:

Verbi zerovalenti, che non richiedono nemmeno l’espressione del soggetto; sono i verbi

“atmosferici” come piovere e nevicare;

Verbi monovalenti che richiedono solo un attante, cioè il soggetto; si tratta degli intransitivi

assoluti come dormire e tossire);

Verbi bivalenti, a cui si lega anche un secondo argomento, o l’oggetto diretto, collegato

direttamente al verbo (verbi transitivi come vedere e amare) o indiretto, collegato al verbo con

una preposizione (verbi intransitivi come credere); i verbi copulativi sono bivalenti perché mettono

in rapporto il soggetto con un altro elemento, nominale o aggettivale, che costituisce col verbo il

predicato nominale (essere, sembrare, costituire);

Verbi trivalenti, che richiedono tre attanti; sono transitivi come dare e dire o intransitivi come

andare;

Verbi tetravalenti che ne ammettono quattro; sono tutti transitivi come trasferire e tradurre.

A un diverso numero di argomenti possono corrispondere significati diversi che lo stesso verbo assume,

ad esempio passare, monovalente in una frase come Il tempo passa (trascorre), bivalente transitivo in La

mia macchina non ha passato (superato) la revisione, trivalente in transitivo in Il regista è passato a un

filone più commerciale. Sono possibili anche gli usi metaforici dove i verbi zerovalenti sono completati

da un soggetto posposto (come in piovono fischi, cioè vengono dall'alto) e diventano monovalenti.

Nella frase oltre a verbo e agli attanti (soggetto e complementi diretti e indiretti) sono presenti altri

elementi:

I circostanti, legati a un singolo elemento del nucleo; per es. gli avverbi modali, che modificano il

verbo (piove forte); gli aggettivi o complementi di specificazione legati a uno degli argomenti (il

professore di Francesco dà compiti difficili);

Le espansioni, collocate al di fuori del nucleo, in posizione libera; per es. il complemento di tempo,

gli avverbi frasali ecc. (tutte le mattine mi alzo alle 7).

La frase si può guardare anche in un’altra ottica, che parte dal sintagma (l’unità più piccola dal punto

di vista sintattico), a metà tra parola e frase, può essere costituito da una o più parole, o da sintagmi

semplici; in base alla testa (elemento caratterizzante dal punto di vista sintattico) si distinguono il

sintagma verbale, quello nominale, il preposizionale e il sintagma aggettivale: per es. nella frase La zia di

Luciana ha regalato a Marcello una cravatta verde oliva, abbiamo i sintagmi nominali la zia e una cravatta,

il sintagma verbale ha regalato, i sintagmi preposizionali di Luciana e a Marcello e quello aggettivale verde

oliva.

L’italiano è una lingua pro-drop, cioè non richiede necessariamente l’espressione del soggetto in quanto

la desinenza del verbo fornisce quasi sempre l’indicazione della persona.

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Di norma in italiano il soggetto (S) precede il verbo (V), tuttavia l’ordine SV non è obbligatorio e possiamo

avere anche VS; la libertà nell’ordine delle parole è possibile grazie alla funzione informativa (e non solo

sintattica) che i diversi costituenti svolgono all’interno del discorso: l’italiano tende a costruire “da

sinistra”, ponendo all’inizio della frase un elemento, tema o dato, già citato nel testo o fornito dal contesto

che costituisce il punto di partenza del discorso; a seguire il rema o nuovo, costituito dagli elementi che

aggiungono informazioni al tema; alla domanda “chi canta?” posso rispondere “Luigi canta”, se

conosciamo Luigi ed egli costituisce il tema del discorso, ma anche “canta Luigi” se il punto di partenza

del discorso è qualcuno che canta. Nei verbi “inaccusativi” (intransitivi che richiedono l’ausiliare essere),

la sequenza VS è la più frequente (è arrivata Maria).

Indipendentemente dalla posizione, in italiano soggetto e verbo devono accordarsi per ciò che riguarda

il numero e, nelle forme composte, il genere; sono rari i casi di disaccordo tra soggetto e verbo:

Nella “concordanza a senso”: verbo plurale se il soggetto è espresso da un nome collettivo, in

particolare in presenza di un partitivo (la maggior parte hanno deciso, un milione di romani hanno

votato);

Quando nell’ordine VS si hanno più soggetti o un soggetto plurale “nuovi” (non già presenti nel

contesto), il verbo resta spesso al singolare (alla cerimonia era presente il Capo dello Stato, il

ministro degli Interni e il presidente della Regione).

Nel caso di verbi da bivalenti a tetravalenti, l’italiano presenta di norma altri attanti oltre al soggetto.

Il latino volgare, dopo la perdita dei casi del latino classico, stabilì un ordine delle parole che indicasse il

legami tra i vari elementi della frase, per distinguere il soggetto dal complemento oggetto, non introdotto

da nessuna preposizione (oggetto diretto): il soggetto andò dunque ad occupare la posizione precedente

al verbo, mentre l’oggetto quella successiva, secondo il modello SVO, tutt’ora il più frequente; dopo il

verbo, oltre all’oggetto diretto, si collocano anche gli altri argomenti del nucleo.

Le frasi che presentano una sequenza diversa da quella SVO, sono dette “frasi marcate”: in certi casi per

mettere in risalto un complemento (con valore rematico) esso può essere posto prima del verbo, ma

sempre dopo il soggetto (io una sola cosa so!);

Soprattutto nel parlato si tende a staccare il tema dal resto e a riprenderlo mediante un pronome clitico

con funzione anaforica (di questo argomento, ne abbiamo già parlato a lungo), questo fenomeno viene

detto dislocazione a sinistra; fenomeno speculare è la dislocazione a destra, (ne abbiamo già discusso a

lungo, di questo).

Le frasi con dislocazione a destra o sinistra sono dette anche “segmentate”, perché appaiono divise in

due segmenti: tema e rema nelle dislocazioni a sinistra, rema e tema in quelle a destra.

Nelle frasi che non seguono il normale ordine SVO, importante è il caso della dislocazione dell’oggetto

diretto, dove l’anteposizione, la presenza o l’assenza del pronome, unita all’intonazione, può conferire

alla frase, costituita dagli stessi elementi, valori diversi: prendiamo per esempio. la frase, con normale

sequenza SVO, “ho comprato il pane”, possiamo avere diverse alternative:

Il pane l’ho comprato: dislocazione a sinistra in cui il complemento oggetto, che assume valore

tematico, è anteposto al verbo e richiede la ripresa del pronome;

L’ho comprato il pane: dislocazione a destra in cui il complemento oggetto resta dopo il verbo

ma assume valore tematico grazie al pronome che lo anticipa;

Il pane ho comprato: questa anticipazione è possibile solo nel parlato con una particolare

intonazione data al complemento oggetto che assume un valore rematico, in contrapposizione

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ad altri possibili argomenti: “il pane ho comprato (e non la pasta)”; la collocazione del rema al

posto del tema viene definita focalizzazione o topicalizzazione.

La ripresa pronominale dell'oggetto anticipato è attestata fin dai primi documenti in volgare (placito

capuano 960) le grammatiche italiane, dal cinquecento in poi, hanno censurato il costrutto.

Oltre alla dislocazione a sinistra, nell'italiano parlato esiste anche una struttura definita anacoluto della

grammatica tradizionale e oggi tema sospeso, in cui l'elemento anticipato non viene legato

sintatticamente al verbo (a Giorgio non gli ho detto niente).

Un altro tipo di frasi di marcate è costituito dalle frasi scisse: in esse la frase normale viene spezzata in

due segmenti:

1. Il primo composto dal verbo essere seguito dall’elemento che fa da rema;

2. L’altro dal resto della frase che ne costituisce il tema.

I due segmenti sono uniti da un che detto “pseudorelativo” (è Luigi che studia il russo, in questo caso il

che si può considerare pronome relativo).

L’elemento rematico messo in rilievo non deve essere per forza il soggetto, ma può essere anche un altro

complemento, non solo l’oggetto diretto (è il russo che studia Luigi), ma anche quello indiretto (è al prof.

Rossi che ho consegnato il compito), complementi di luogo e di tempo (è a Vienna che vorrei andare; è

tra qualche mese che la cosa avverrà).

Sembrerebbe analoga alla frase scissa la frase presentative (utilizzate spesso nel parlato), in cui il verbo

essere è preceduto dal ci attualizzante; anche in questa struttura il soggetto è rematico, ma anche la frase

dopo il che è nuova dal punto di vista informativo (c’è un signore che chiede dell’avvocato).

Dal punto di vista sintattico le interrogative si distinguono in:

Interrogative totali (o polari): ammettono un tipo di risposta sì/no (hai mangiato?)

Interrogative disgiuntive: che offrono un’alternativa (ti piace più il mare o la montagna?)

Interrogative parziali: introdotte dagli aggettivi che, quale e quanto, dai pronomi chi, che, cosa e

quanto e dagli avverbi quando, dove, come, perché (eventualmente introdotti a loro volta da

preposizioni).

Anche nelle interrogative valgono le proprietà di non esprimere il soggetto o di collocarlo sia prima sia

dopo il verbo a seconda dei valori tematici o rematici. Nelle interrogative introdotte da un operatore,

questo prende il posto dell'argomento: che cosa hai fatto? VS hai fatto qualcosa.

Tra i fatti principali della frase interrogativa nell’italiano contemporaneo i più importanti sono:

L’uso di cosa o che al posto di che cosa;

La crescita di frasi scisse (dov’è che vai?) e di dislocazioni a destra (l’hai visto l’ultimo film di

Verdone?);

Sviluppo di come mai e com’è al posto di perché;

Diffusione del costrutto che + verbo + a fare? nel senso di perché?.

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Quando all’interno della frase troviamo più nuclei, si parla di frase multipla (o periodo); se il rapporto tra

le frasi è di coordinazione si parla di frase composta (è venuta zia Roberta e mamma è uscita con lei), se

sono legate da subordinazione si parla di frase complessa (Francesco, che in questo periodo mi sembra

un po’ distratto, non ha capito il problema);

Si possono avere anche delle frasi che dipendono non dalla principale, ma da una secondaria

(subordinazione di secondo, terzo grado eccetera).

In italiano la subordinazione, detta ipotassi è diffusa soprattutto nello scritto, dove si può arrivare fino al

quinto livello di subordinazione; il parlato favorisce invece la coordinazione, detta anche paratassi.

Nelle frasi principali il modo favorito è l’indicativo, mentre per le subordinate è frequente, oltre

all’indicativo, il congiuntivo; nelle subordinate si hanno anche i modi indefiniti: l’infinito preceduto dalle

preposizioni a, di, da, per, il gerundio e il participio passato, che introducono subordinate temporali e

causali; questo tipo di subordinate, con i modi indefiniti, sono dette implicite, in contrapposizione a quelle

che presentano i modi finiti che sono dette esplicite.

La più frequente delle subordinate è quella relativa, legata ad un singolo componente della principale,

detto antecedente o testa, a cui è riferito il pronome relativo che introduce la dipendente.

Dal punto di vista sintattico le relative si distinguono in:

Relative limitative (o restrittive), indispensabili per indicare l’antecedente (la squadra che ha vinto

è la Juventus);

Relative esplicative (o appositive), che possono essere omesse rappresentando solo un’aggiunta

all’informazione (la Juventus, che era reduce da una sconfitta, ha vinto); dal punto di vista grafico

le esplicite sono scritte tra due virgole.

Le relative sono introdotte dai pronomi relativi che in italiano sono che, cui, quale/i (che può fungere

anche da aggettivo); esistono relative senza antecedente, introdotte da chi.

Il sistema italiano prevede l’alternanza di che e cui:

• che è usato come soggetto (quelle chiavi le ha dimenticate il cliente che è appena uscito) e oggetto

diretto (è questa la maglietta che hai comprato ieri?), ma anche come complemento di tempo (maledetto

il giorno che ti ho incontrato);

• cui, preceduto da preposizione, si usa per tutti gli altri complementi.

Oltre al modello sintetico standard, esistono vari modelli di relativizzazione come quello che adotta

un’unica forma, detto polivalente, che esprime esclusivamente la subordinazione e che quindi tende a

perdere la funzione di pronome (sono andata a trovare Maria, che il figlio si è laureato da un mese).

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Le varietà scritte

CAPITOLO NONO

L'ITALIANO SCRITTO, CHE DOVREBBE CORRISPONDERE ALLO STANDARD

TRADIZIONALE PROPOSTO DALLE GRAMMATICHE, IN REALTÀ APPARE POCO

LEGATO AI MODELLI OFFERTI DALLA LINGUA LETTERARIA TRADIZIONALE E

PRESENTA DIFFERENZE SIGNIFICATIVE A SECONDA DELLE TIPOLOGIE

TESTUALI, DOVE SI POSSONO RILEVARE UNA SERIE DI FENOMENI

INNOVATIVI.

Page 35: L'Italiano Contemporaneo F. Bruni Riassunto cap. 1-3-4-5-6-7-9

Il modello formalizzante dello scritto è stata la letteratura, almeno fino al ‘900 quando la letteratura ha

cominciato a perdere il suo ruolo guida, anche a causa della larga diffusione della videoscrittura.

Tra gli aspetti più notevoli dell’italiano contemporaneo segnaliamo:

La tendenza a scrivere le voci composte che si sono lessicalizzate come univerbate (soprattutto,

nonostante).

Per quanto riguarda l’accento grafico, il numero dei monosillabi che lo richiedono per

differenziarsi dagli omofoni è stata stabilito a 10 (dà, ché, dì, è, là, lì, né, sé, sì, tè).

La riduzione di elisioni e apocopi (ci interessa prevale ora su c’interessa; viene fatto su vien fatto).

La riduzione della d eufonica per evitare lo iato (ad, ed).

Per quel che riguarda l’insieme dei grafemi, si riscontra il recupero di k, l’uso di simboli matematici

(questo è x te, non ho + sonno, 6 bello).

L’uso delle maiuscole sta diminuendo, anche nelle sigle (C.G.I.L. > Cgil).

È in aumento l’uso delle virgolette, non solo per le citazioni, ma anche per conferire a una parola

un significato con valore attenuativo.

Sembrano in declino il punto esclamativo e il punto e virgola.

La morfologia dell’italiano scritto è essenzialmente conforme alla grammatica; i pronomi personali di 3

pers. egli, ella, essi, esso, essa sono ancora in uso; anche ella resta vivo come allocutivo di cortesia; risulta

rigorosa la distinzione tra gli, le e loro (come compl. di termine). Anche il vi locativo resiste, accanto al ci

attualizzante.

Nello scritto si rileva inoltre la posizione enclitica dei pronomi atoni con verbi all’indicativo (affittasi,

vendesi).

Lo scritto utilizza tutte le forme verbali disponibili.

La struttura non marcata SVO tende a essere rispettata maggiormente nello scritto rispetto al parlato;

tuttavia sono frequenti le dislocazioni a sinistra mentre praticamente inesistenti sono quelle a destra e i

temi sospesi; più frequente è la frase scissa, che marca un cambiamento di tema.

Per quanto riguarda il rapporto tra nomi e verbi, in alcuni tipi di testo il verbo svolge solo una funzione

di coesione, mentre il carico informativo si concentra sul nome; al contrario in altri tipi di testo, per lo più

testi giornalistici, il nome costituisce il tema e l’inizio dell’enunciato, in alcuni casi il verbo può essere

assente (Elezioni, dubbi sulle date). Tradizionalmente lo scritto favorisce la subordinazione alla

coordinazione, inoltre lo scritto usa una varietà enorme di congiunzioni temporali, causali, finali ecc. Nelle

subordinate relative, molto diffuse nello scritto si utilizza per lo più il quale/la quale.

La lingua delle opere letterarie è fortemente legata a scelte individuali.

I testi letterari sono testi “poco vincolanti”, aperti a diverse interpretazione, spicca un uso particolare dei

segni di punteggiatura, che possono interrompere la frase con effetto di ellissi e messa in rilievo; in altri

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casi la punteggiatura tende a imitare la prosodia del parlato; inoltre la narrativa recente fa largo uso del

discorso indiretto e diretto libero.

Sul piano morfosintattico manca spesso l’articolo e l’aggettivo può trovarsi in una posizione precedente

al nome. Dal punto di vista lessicale l’italiano letterario è molto ampio; spesso troviamo metafore,

metonimie ecc.

I trattati scientifici sono testi “molto vincolanti”, i saggi “mediamente vincolanti”. L’italiano della prosa

tecnico-scientifica adotta una struttura testuale di tipo argomentativo, con l’ipotesi al congiuntivo (sia

dato... allora...). Tra i tecnicismi abbondano parole formate con confissi latini e greci. La sinonimia è

praticamente inesistente. La lingua saggistica tende alla dialogicità e alla subordinazione.

I testi normativi fanno parte dei testi “molto vincolanti”. Il linguaggio è caratterizzato dall’ampio ricorso

al passivo, dal rifiuto della sinonimia, dalla presenza di tecnicismi, aulicismi e latinismi.

Il linguaggio burocratico si caratterizza per una sintassi molto elaborata, con notevole uso dei participi

presenti; alcune congiunzioni sono tipiche di questo tipo di linguaggio (onde, ove). Frequenti anche le

perifrasi (porre in essere), le nominalizzazioni (dare lettura), le locuzioni preposizionali (ai sensi di). Per

quanto riguarda il lessico, notevole è la presenza di parole astratte e tecnicismi.

La lingua dei giornali varia a seconda del tipo di giornale sia a seconda del tipo di argomento trattato. Sul

piano lessicale si rileva l’uso di formule stereotipate e neologismi; frequente anche il ricorso a metafore e

metonimie, a derivati e composti. Il linguaggio giornalistico fa inoltre largo uso di anglicismi. I giornali

rappresentano uno dei maggiori canali di diffusione di linguaggi tecnici e specifici

Le scritture esposte sono quelle murali, le insegne.

Le iscrizioni hanno per lo più carattere commemorativo, la loro lingua aderisce allo standard con qualche

tratto arcaicizzante (anteposizione dell’aggettivo rispetto al sostantivo, e dell’avverbio rispetto al

participio, predilezione per il passato remoto, la collocazione del verbo a fine frase.

Carattere diverso hanno le scritture murali spontanee; esse sono spesso di carattere privato e

autoreferenziale, spesso però sono anche slogan politici e calcistici.

L’italiano popolare è chiamato sempre più spesso “italiano dei semicolti”, usato per lo più da dialettofoni

(madrelingua è dialetto ma sanno usare l’italiano appreso a scuola) per parlare con persone che non

condividono lo stesso dialetto, per rivolgersi all’autorità pubblica, per tenere diari o memorie.

Nel parlato le maggiori caratteristiche di quest’italiano, oltre all’emersione della varie caratteristiche

regionali, rileviamo frequenti errori nell’accentazione.

Nello scritto, oltre alle interferenze dialettali segnaliamo:

Mancata percezione dei confini delle parole con frequenti univerbazioni di articoli, clitici e

preposizioni (oltre ad alcuni casi di segmentazione impropria);

Difficoltà nella resa delle doppie, spesso scempiate (tuttavia a volte vengono indebitamente

raddoppiate);

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Difficoltà nella resa dei nessi consonantici e frequente omissione della nasale;

Presenza di errori di ortografia, in particolare sui punti critici della lingua come h, spesso omessa

o aggiunta indebitamente; l’esteso uso della q; difficoltà per i fenomeni normalmente

rappresentati con digrammi o trigrammi;

Scarsa o impropria utilizzazione dei segni paragrafematici; uso reverenziale improprio della

maiuscola;

Sul piano morfologico i fenomeni più rilevanti sono:

Tendenza a regolarizzare i paradigmi nominali e aggettivali per lo più con l’adozione di o/i nei

maschili e a/e nei femminili;

Scambi tra aggettivi e avverbi;

Rafforzamento analitico di comparativi e superlativi sintetici;

Sovraestensione nell’uso del ci dativale, che assume anche il valore di a lui/lei/loro; nel centro è

generalizzato l’uso di gli;

Uso del possessivo suo anche per la 3 pers. plur. A livello sintattico tra i fatti peculiari segnaliamo:

estensioni di concordanza a senso (la gente applaudivano);

Nelle frasi relative l’adozione del che polivalente e la sovraestensione di dove;

Doppia presenza del clitico in perifrasi con i verbi modali (ti devo dirti);

Periodo ipotetico costruito col doppio condizionale o col doppio imperfetto congiuntivo.

Nel lessico e nella formazione di parole nuove i fenomeni più rilevanti sono:

Malapropismi, cioè parole storpiate sul piano del significante per accostamento ad altre parole

più note;

L’uso di popolarismi espressivi;

Preferenza per strutture lessicali di tipo analitico.