L'Italia liberale -...

29
L'ITALIA DAL 1870 AL 1914 L'Italia liberale Il periodo che va dal completamento dell'unità nel 1870, con la presa di Roma, al 1914, l'anno dello scoppio della prima guerra mondiale, viene convenzionalmente ricordato come quello dell'«Italia liberale». È una definizione che coglie innanzitutto l'ideologia prevalente della classe dirigente al potere, ma non registra tutte le diverse tendenze e pratiche di governo racchiuse in quel lungo arco di tempo. E soprattutto, nel limitarsi alla dimensione politica, coglie appena la varietà delle trasformazioni che l'Italia conobbe in quasi un cinquantennio. Sono almeno tre le fasi principali di questa evoluzione politica: la prima (1870-87) vede dapprima il declino della Destra storica, poi il passaggio del governo alla Sinistra, infine l'avvio della pratica del "trasformismo" che di fatto annulla i tradizionali confini fra maggioranza e opposizione: la seconda (1887-1901) è quella degli esperimenti autoritari, imposti prima dalla forte personalità di Francesco Crispi, poi tradotti in progetti volti ad accrescere i poteri dell'esecutivo e della Corona a scapito di quelli del Parlamento [0 21.6-8]; la terza (1901-14) è determinata dalla risposta del liberalismo riformatore di Giovanni Giolitti: una fase – l'età giolittiana – che si chiude, dopo un decennio di progressi economici e civili, con momenti di forte conflittualità sociale, premessa dei contrasti che precedono l'entrata in guerra del 1915. L'uscita di scena di molti protagonisti del periodo risorgimentale (Mazzini morì nel 1872, Pio 1X e Vittorio Emanuele II nel 1878, Garibaldi nel 1882) portò a un graduale rinnovamento della classe politica, anche se quasi tutti i presidenti del Consiglio dell'Italia liberale erano uomini anziani, talora molto anziani. Non si trattò dunque di un ringiovanimento anagrafico ma dell'apporto che venne dalla nascita di nuovi partiti e movimenti – socialisti, cattolici e nazionalisti – divenuti via via protagonisti tra la fine dell'800 e il primo decennio del '900. L'Italia si sviluppava lungo un percorso segnato dal progressivo allargamento del suffragio e da una graduale democratizzazione: ma non era un percorso lineare,

Transcript of L'Italia liberale -...

L'ITALIA DAL 1870 AL 1914

L'Italia liberale

Il periodo che va dal completamento dell'unità nel 1870, con la presa di Roma, al 1914, l'anno dello scoppio della prima guerra mondiale, viene convenzionalmente ricordato come quello dell'«Italia liberale». È una definizione che coglie innanzitutto l'ideologia prevalente della classe dirigente al potere, ma non registra tutte le diverse tendenze e pratiche di governo racchiuse in quel lungo arco di tempo. E soprattutto, nel limitarsi alla dimensione politica, coglie appena la varietà delle trasformazioni che l'Italia conobbe in quasi un cinquantennio. Sono almeno tre le fasi principali di questa evoluzione politica: la prima (1870-87) vede dapprima il declino della Destra storica, poi il passaggio del governo alla Sinistra, infine l'avvio della pratica del "trasformismo" che di fatto annulla i tradizionali confini fra maggioranza e

opposizione: la seconda (1887-1901) è quella degli esperimenti autoritari, imposti prima dalla forte personalità di Francesco Crispi, poi tradotti in progetti volti ad accrescere i poteri dell'esecutivo e della Corona a scapito di quelli del Parlamento [0 21.6-8]; la terza (1901-14) è determinata dalla risposta del liberalismo riformatore di Giovanni Giolitti: una fase – l'età giolittiana – che si chiude, dopo un decennio di progressi economici e civili, con momenti di forte conflittualità sociale, premessa dei contrasti che precedono l'entrata in guerra del 1915. L'uscita di scena di molti protagonisti del periodo risorgimentale (Mazzini morì nel 1872, Pio 1X e Vittorio Emanuele II nel 1878, Garibaldi nel 1882) portò a un graduale rinnovamento della classe politica, anche se quasi tutti i presidenti del Consiglio dell'Italia liberale erano uomini anziani, talora molto anziani. Non si trattò dunque di un ringiovanimento anagrafico ma dell'apporto che venne dalla nascita di nuovi partiti e movimenti – socialisti, cattolici e nazionalisti – divenuti via via protagonisti tra la fine dell'800 e il primo decennio del '900. L'Italia si sviluppava lungo un percorso segnato dal progressivo allargamento del suffragio e da una graduale democratizzazione: ma non era un percorso lineare,

quanto piuttosto un itinerario intervallato da momenti di crisi profonda tanto nella politica interna – lo scandalo della Banca Romana, i moti del '98 – che in quella internazionale. Le iniziali ambizioni coloniali vennero duramente sconfitte nel 1896 (nella guerra italo-abissina) salvo rivalersi con la conquista della Libia nel 1912. In questo campo l'Italia tentò a fatica di inserirsi nella dominante politica imperialista, riuscendo a garantirsi alcuni possessi coloniali in Eritrea, in Somalia e, appunto, in Libia. Anche la politica economica seguì l'esempio degli altri grandi paesi europei con l'adozione del protezionismo volto a tutelare le prime fasi di sviluppo industriale che sarebbe decollato tardivamente a partire dal 1896. Nel confronto col resto dell'Europa, nonostante i grandi progressi dell'età giolittiana, l'Italia scontava l'antica arretratezza e una permanente conflittualità sociale a cui si aggiungevano gli strascichi dei difficili rapporti con la Chiesa di Roma: contrasti solo parzialmente superati con l'ingresso in Parlamento, nel 1913, di cattolici alleati ai liberali per ostacolare la minaccia dell'ascesa socialista nella prima applicazione del suffragio universale maschile. Ma già allora il sistema liberale, e in particolare la politica dell'ultimo decennio guidata da Giolitti, vedeva, come in altri paesi europei, l'emergere di forze ostili a quel sistema rappresentativo parlamentare che fino allora, grazie anche al trasformismo, era riuscito a superare molte fasi difficili e a garantire la modernizzazione del paese.

Dalla Destra alla Sinistra

La fine del governo della Destra

Nel 1876 il governo passò dalla Destra alla Sinistra. L'anno precedente, grazie alla severa politica fiscale impostata dal ministro delle Finanze Quintino Sella, era stato raggiunto il pareggio nel bilancio statale. Ma ormai, in Parlamento e nel paese, erano molti a chiedere una politica meno rigida e restrittiva, che lasciasse più ampi margini alla formazione della ricchezza privata. La Destra appariva divisa mentre buona parte della Sinistra parlamentare si veniva spostando su posizioni più moderate: venne così emergendo una "Sinistra giovane", espressione di una borghesia (soprattutto meridionale) poco sensibile alla tradizione democratico-risorgimentale e attenta piuttosto alla tutela di interessi locali. Furono comunque le divisioni della Destra ad aprire alla Sinistra la via del governo. Nel marzo 1876 il governo Minghetti, messo in minoranza sul suo progetto di passaggio alla gestione statale delle ferrovie, fino allora affidate ai privati, presentò le dimissioni. Pochi giorni dopo, il re chiamò a formare il nuovo governo Agostino Depretis, che costituì un ministero interamente composto da uomini della Sinistra. Nelle elezioni politiche del novembre di quell'anno, il nettissimo successo della Sinistra fu anche dovuto alle pesanti ingerenze del

governo. D'altro canto, il risultato confermò il carattere irreversibile del declino della Destra.

La Sinistra e i governi Depretis

Col 1876 si apriva una nuova fase nella storia politica dell'Italia unita. Giungeva al potere un ceto dirigente quasi del tutto nuovo a esperienze di governo, diverso per formazione e per estrazione sociale da quello che aveva retto il paese nel primo quindicennio di vita unitaria. La Sinistra parlamentare aveva in realtà fortemente attenuato la sua originaria connotazione radicai-democratica e aveva accolto nel suo seno componenti moderate o addirittura conservatrici. Ciononostante, la nuova classe dirigente riuscì a esprimere l'aspettativa di democratizzazione della vita politica diffusa in larga parte della società: tentò infatti, pur con molte incertezze e cautele, di ampliare le basi della politica e seppe venire incontro alle esigenze di una borghesia in crescita. Il protagonista indiscusso di questa fase, Agostino Depretis, già leader della Sinistra all'opposizione, fu capo del governo, salvo brevi interruzioni, per oltre dieci anni. Mazziniano in gioventù, approdato poi a posizioni più moderate, parlamentare espertissimo, Depretis riuscì a contemperare con molta abilità le spinte progressiste e le tendenze conservatrici presenti nella nuova maggioranza. Il programma della Sinistra era basato su pochi punti fondamentali: ampliamento del suffragio elettorale, maggiore sostegno all'istruzione elementare, sgravi fiscali

soprattutto nel settore delle imposte indirette, decentramento amministrativo. Quest'ultimo impegno fu accantonato mentre gli altri ebbero attuazione, anche se a volte tardiva. La prima riforma fu quella dell'istruzione elementare. Una legge del 1877 – nota come legge Coppino dal nome del ministro che la presentò – ribadiva l'obbligo della frequenza scolastica portandolo fino ai nove anni. Tuttavia, a causa delle ristrettezze in cui versava la maggioranza delle famiglie italiane e della scarsa capacità dei comuni di provvedere ai compiti loro spettanti, non ci fu una reale attuazione dell'obbligo scolastico: fino alla fine del secolo la percentuale di analfabeti si mantenne molto elevata, pur diminuendo costantemente.

La riforma elettorale del 1882

Legato al problema dell'istruzione era quello dell'ampliamento del suffragio. La nuova legge elettorale, approvata dalla Camera all'inizio del 1882, introduceva infatti come requisito fondamentale l'istruzione, concedendo il diritto di voto a tutti i cittadini che avessero compiuto il ventunesimo anno d'età – la legge precedente fissava l'età minima a 25 anni – e avessero superato l'esame finale del corso elementare obbligatorio, o dimostrassero comunque di saper leggere e scrivere. Il requisito del censo era mantenuto, in alternativa a quello dell'istruzione, e abbassato di circa la metà (da 40 a 20 lire di imposte annue pagate). A causa dell'alto tasso di

analfabetismo, la consistenza numerica dell'elettorato restava sempre piuttosto esigua: poco più di 2 milioni, pari al 7% della popolazione e a circa un quarto dei maschi maggiorenni. Il corpo elettorale risultava tuttavia più che triplicato rispetto alle ultime consultazioni e, quel che più conta, profondamente modificato nella composizione. Grazie alla nuova legge accedeva alle urne anche una frangia non trascurabile di artigiani e operai del Nord. Per questo, le prime elezioni a suffragio allargato (ottobre 1882) videro l'ingresso alla Camera del primo deputato socialista, il romagnolo Andrea Costa.

Il trasformismo

La riforma elettorale dell'82 segnò il coronamento, ma anche il punto terminale, della breve stagione di riforme della Sinistra. Furono proprio le preoccupazioni suscitate dall'ampliamento del suffragio e dal conseguente prevedibile rafforzamento dell'estrema sinistra a favorire quel processo di convergenza fra le forze moderate di entrambi gli schieramenti, che nacque da un accordo elettorale fra Depretis e il leader della Destra Minghetti e che prese il nome di trasformismo. La sostanza del trasformismo non stava – come sosteneva Depretis – nella "trasformazione" dei moderati in progressisti, ma piuttosto nel venir meno delle tradizionali distinzioni ideologiche fra Destra e Sinistra e nella rinuncia, da parte di quest'ultima, a una precisa caratterizzazione. La maggioranza non era più definita sulla base di

discriminanti programmatiche, ma veniva "costruita" giorno per giorno a forza di compromessi e patteggiamenti: una situazione che provocava un sostanziale rallentamento nell'azione di governo, oltre che un netto scadimento nella qualità della vita politica. La svolta moderata di Depretis ebbe come conseguenza il definitivo distacco dalla maggioranza dei gruppi democratici più avanzati che, pur avendo accantonato la pregiudiziale repubblicana, continuavano a battersi per il suffragio universale, per una politica estera antiaustriaca, per una politica ecclesiastica più decisamente anticlericale e per un più vasto impegno in favore delle classi disagiate. Sotto la guida di Agostino Bertani, e poi di Felice Cavallotti, questo gruppo – che, con termine mutuato dalla Francia della Terza Repubblica, fu chiamato radicale – svolse negli anni '80 un ruolo di combattiva opposizione contro le maggioranze trasformiste.

La politica economica

protezionista

La crisi agraria

La Sinistra allentò la dura politica fiscale fino allora praticata e la contestata tassa sul macinato fu considerevolmente ridotta nel 1880, per essere poi del tutto abolita nell'84. Venne contemporaneamente aumentata la spesa pubblica, sia per coprire le accresciute esigenze militari sia per accontentare le richieste dei vari gruppi di interesse su cui si reggeva la maggioranza. Questa politica provocò, fin dall'inizio degli anni '80, la ricomparsa di un crescente deficit nel bilancio statale, senza peraltro riuscire a superare le difficoltà economiche dovute in primo luogo all'arretratezza del settore agricolo. I pochi miglioramenti avevano riguardato soprattutto le zone e i settori già relativamente progrediti: le terre irrigue della pianura lombarda e le colture "specializzate" del Mezzogiorno (olivi, agrumi e soprattutto uva da vino). Altri mutamenti significativi si erano avuti, fin dall'inizio degli anni '70, in alcune zone della Bassa Padana, in particolare nel Ferrarese: qui grandi lavori di bonifica promossi da imprenditori capitalisti avevano sconvolto la fisionomia del paesaggio agrario e attirato vaste masse di braccianti. In tutto il resto d'Italia, però, la situazione

dell'agricoltura non era molto cambiata rispetto ai primi anni dell'unità né erano migliorate le condizioni dei lavoratori delle campagne, oppressi da contratti arcaici, sottopagati, malnutriti, analfabeti nella stragrande maggioranza. La situazione si aggravò quando, a partire dal 1881, l'Italia cominciò a risentire gli effetti della crisi che investi in quegli anni l'agricoltura europea: un brusco abbassamento dei prezzi colpi in primo luogo i cereali e poi tutto l'insieme dei prodotti agricoli, a eccezione delle colture da esportazione che non subivano la concorrenza d'oltreoceano. Al calo dei prezzi segui un calo della produzione, con conseguenze gravissime per tutte le categorie produttive legate all'agricoltura. Anche gli effetti sociali della crisi agraria furono analoghi a quelli già osservati per l'insieme dei paesi europei: aumento della conflittualità nelle campagne e rapido incremento dei flussi migratori verso i centri urbani e soprattutto verso l'estero. Fra il 1881 e il 1901 abbandonarono definitivamente l'Italia più di 2 milioni di persone. La crisi non solo distolse capitali dal settore agricolo, indirizzandoli verso altri impieghi, ma fece cadere le illusioni di chi ancora credeva che lo sviluppo economico italiano potesse fondarsi solo sull'agricoltura e sull'esportazione dei prodotti della terra.

Il protezionismo

Gli esponenti della Sinistra erano, come i loro

predecessori, avversi in linea di principio all'intervento dello Stato nell'economia. Queste convinzioni liberiste furono però scosse dall'andamento tutt'altro che brillante dell'economia nazionale e dall'esempio che veniva dagli altri Stati europei, soprattutto dalla Germania. Una decisa svolta in senso protezionistico era del resto invocata ormai da quasi tutti gli industriali e dagli stessi proprietari terrieri, un tempo incondizionatamente favorevoli al liberismo ma ora colpiti dalle conseguenze della crisi agraria. Si giunse così nel 1887 al varo di una nuova tariffa generale che metteva al riparo dalla concorrenza straniera importanti settori dell'industria nazionale (i più favoriti, oltre al siderurgico, furono il laniero, il cotoniero e lo zuccheriero), colpendo le merci di importazione con pesanti dazi di entrata. In campo agricolo, il nuovo regime doganale fu esteso ai cereali: il dazio sul grano fu quasi triplicato fra 1'87 e 1'89. La tariffa dell'87 segnava una rottura definitiva con la prassi liberoscambista seguita negli anni '60 e '70 e poneva le basi di un nuovo blocco di potere economico fondato sull'alleanza fra l'industria protetta e i grandi proprietari terrieri (settentrionali e meridionali) e sull'intreccio non sempre limpido fra i maggiori gruppi di interesse e i poteri statali.

Gli effetti negativi È ormai opinione comune che la scelta protezionistica costituisse per l'Italia una sorta di passaggio obbligato

sulla strada di quel decollo industriale poi realizzatosi a partire dagli ultimi anni dell'800. È certo tuttavia che, almeno nell'immediato, la tariffa dell'87 produsse una serie di conseguenze negative e accentuò gli squilibri fra i vari settori dell'economia e fra le varie zone del paese. 1 dazi doganali non proteggevano in modo uniforme i diversi comparti produttivi. Al forte sostegno accordato alla siderurgia, anche per motivi strategici legati agli armamenti, faceva riscontro la scarsa protezione di cui godeva l'industria meccanica (danneggiata oltretutto dal rialzo dei prezzi dei prodotti siderurgici). Per quanto riguarda l'agricoltura, l'introduzione del dazio sul grano provocò un immediato rialzo del prezzo dei cereali che, se da un lato rappresentò una boccata d'ossigeno per le aziende in crisi, dall'altro danneggiò i consumatori e contribuì a tenere in vita, soprattutto nel Mezzogiorno, arretrate realtà produttive. Contemporaneamente l'agricoltura meridionale veniva colpita nel suo settore più moderno: quello delle colture specializzate, che si reggeva soprattutto sulle esportazioni e che vide bruscamente chiudersi il suo principale mercato di sbocco. La tariffa dell'87 ebbe infatti come conseguenza una rottura commerciale, poi degenerata in vera e propria guerra doganale con la Francia, che era stata fino allora il principale partner economico dell'Italia e il maggior acquirente dei prodotti agricoli italiani (soprattutto seta e vino), la cui esportazione diminuì di oltre il 50%.

La politica estera e il

colonialismo

La Triplice alleanza

Anche per la politica estera italiana gli anni della Sinistra segnarono una svolta decisiva: nel maggio 1882 il governo Depretis stipulò con la Germania e l'Austria-Ungheria il trattato della Triplice alleanza. Questa scelta rappresentava una netta rottura con la tradizione risorgimentale, col prudente equilibrio mantenuto dai governi della Destra e col rapporto preferenziale con la Francia. La motivazione principale di questa decisione fu il desiderio di uscire da una situazione di isolamento diplomatico che appariva insopportabile in un'epoca dominata dalla logica di potenza. Questo isolamento era apparso chiaramente nel 1881 quando la Francia, col consenso delle altre potenze, aveva occupato la Tunisia e l'Italia – che da tempo nutriva aspirazioni su quel territorio, anche per la presenza di una forte comunità di emigrati italiani – non aveva potuto far nulla per opporsi. Ne era seguito un grave deterioramento dei rapporti italo-francesi, destinato a far sentire i suoi effetti per oltre un quindicennio. Per uscire dall'isolamento, l'Italia non aveva dunque altra strada se non quella dell'accordo con Germania e Austria,

insistentemente sollecitato da Bismarck. La Triplice era un'alleanza di carattere difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione da parte di altre potenze. In concreto, l'Italia veniva coinvolta nel sistema di sicurezza bismarckiano senza ottenere dai nuovi alleati alcun vantaggio immediato, anzi rinunciando implicitamente alla rivendicazione storica delle terre irredente, cioè il Trentino e la Venezia Giulia, "non redente" ovvero non liberate dal dominio austriaco. Un problema questo che fu drammaticamente riproposto dal caso di Guglielmo Oberdan, un giovane triestino impiccato nel dicembre 1882 per aver progettato di attentare alla vita dell'imperatore austriaco Francesco Giuseppe. La Triplice fu rinnovata a più riprese, ma le garanzie ottenute sulla carta dall'Italia nel 1887 – in particolare la clausola secondo cui ogni eventuale espansione austriaca nei Balcani doveva essere bilanciata da adeguati "compensi" per l'Italia – non vennero praticamente mai applicate. Come si sarebbe visto nel 1908 con l'annessione austriaca della Bosnia e dell'Erzegovina.

L'espansione coloniale in Africa orientale

Contemporaneamente alla stipulazione della Triplice, il governo Depretis, spinto da considerazioni di prestigio e dalla pressione di ristretti gruppi di interesse, aveva ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in Africa orientale. Il punto di partenza fu

costituito dall'acquisto, nel 1882, della Baia di Assab, sulla costa occidenta le del Mar Rosso. Tre anni dopo fu inviato un corpo di spedizione che occupò una striscia di territorio tra la Baia di Assab e la città di Massaua. Questa zona, abitata da popolazioni nomadi, confinava con l'Impero etiopico, il più forte e il più vasto fra gli Stati africani indipendenti. L'Etiopia (o Abissinia, come veniva allora chiamata in Italia) era un paese economicamente molto arretrato, con una popolazione di fede cristiana e di confessione copta (secondo la tradizione dell'antica Chiesa cristiana d'Egitto); dedita in prevalenza alla pastorizia, essa aveva un'organizzazione di tipo feudale in cui l'autorità dell'imperatore, il negus, era fortemente limitata da quella dei signori locali, i ras, che disponevano di propri eserciti. In un primo tempo gli italiani cercarono di stabilire buoni rapporti con gli etiopi e di avviare una penetrazione commerciale. Ma, quando tentarono di ampliare il loro controllo territoriale verso l'interno, dovettero scontrarsi con la reazione del negus e dei ras locali. Nel gennaio 1887 una colonna di 500 militari italiani fu sorpresa dalle truppe abissine del ras Alula e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia della disfatta suscitò un'ondata di proteste in tutto il paese, in particolare tra i gruppi di estrema sinistra che si erano sempre opposti alla politica coloniale. Prevalse però l'esigenza di tutelare il prestigio nazionale: così la Camera accordò al governo i finanziamenti richiesti per l'invio di rinforzi e per il consolidamento della presenza italiana sulla fascia costiera.

Socialisti e cattolici

Le società di mutuo soccorso

Il ritardo nello sviluppo industriale e la conseguente assenza di un proletariato di fabbrica numericamente consistente rallentarono in Italia la crescita di un movimento operaio organizzato. Del resto gli oltre 3 milioni di addetti all'industria, censiti nel 1871, erano per gran parte lavoranti di botteghe artigiane. Anche nelle unità produttive di maggiori dimensioni (specie nel settore tessile, dove era molto numerosa la manodopera femminile e minorile) accadeva spesso che gli operai alternassero stagionalmente il lavoro in fabbrica con quello nei campi; e molto diffuso, sempre nel settore tessile, restava il lavoro a domicilio. Fino all'inizio degli anni '70, l'unica organizzazione operaia di una certa consistenza diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo soccorso, associazioni in parte controllate dai mazziniani e in parte organizzate da esponenti moderati. Concepite come strumenti di educazione del popolo più che come organismi di lotta, le società operaie avevano essenzialmente scopi di solidarietà, rifiutavano la lotta di classe e lo sciopero. Era dunque naturale che perdessero terreno quando cominciò a diffondersi nel paese l'internazionalismo socialista, che in Italia si ispirò, almeno in un primo tempo, più alle

teorie anarchiche di Bakunin che a quelle di Marx.

Anarchici e operaisti La crescita del movimento internazionalista si dovette soprattutto all'opera di alcuni instancabili agitatori, come Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta, che, fedeli a Bakunin, concentrarono i loro sforzi nell'organizzazione di moti insurrezionali, facendo leva soprattutto sul proletariato delle campagne. Il completo fallimento di questi tentativi convinse Andrea Costa che era necessario elaborare un programma concreto, impegnandosi nelle lotte di tutti i giorni e dando vita a un vero e proprio partito. La "svolta" di Costa trovò una prima attuazione con la nascita, nell'estate del 1881, del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che rese possibile l'elezione di Costa nell'82. In realtà il partito rimase sempre una formazione locale, priva di legami con i nuclei operai più maturi e avanzati che intanto si andavano costituendo soprattutto in Lombardia. Fin dall'inizio degli anni '70, circoli operai, leghe di resistenza (queste ultime esplicitamente finalizzate alla organizzazione degli scioperi) erano venuti sorgendo in numerosi centri industriali e avevano dato un forte impulso all'azione rivendicativa dei lavoratori. Nell'82 alcune associazioni operaie milanesi decisero di dar vita a una formazione politica autonoma che prese il nome di Partito operaio italiano e che si presentò come un organismo rigidamente classista. Fermissimi nel respingere ogni apporto borghese,

gli "operaisti" cercarono di stabilire un contatto con quel proletariato rurale della Bassa padana che fu protagonista dei primi grandi scioperi agricoli nella storia dell'Italia unita: particolarmente imponenti quelli che si svolsero nel Mantovano e nel Polesine nel 1884-85.

Filippo Turati Fra il 1887 e il 1893 sorsero le prime federazioni di mestiere a carattere nazionale, vennero fondate le prime Camere del lavoro (organizzazioni sindacali a base locale), si accelerò anche la penetrazione del socialismo fra i lavoratori della terra grazie al movimento associativo fra i braccianti e i contadini della Valle padana. Per tutto il movimento di classe si poneva a questo punto il problema di una organizzazione politica unitaria capace di guidare e coordinare le lotte a livello nazionale. Il problema non era di facile soluzione a causa della frammentazione organizzativa e ideologica del movimento operaio italiano. Le opere di Marx, infatti, erano poco conosciute e l'unico autentico e originale teorico marxista allora attivo in Italia era il filosofo napoletano Antonio Labriola, amico e corrispondente di Engels. Ma Labriola era una figura sostanzialmente isolata tra i leader socialisti. Fu invece un intellettuale milanese, Filippo Turati, il principale protagonista delle vicende che portarono alla fondazione del Partito socialista italiano. Nato nel 1857 da una famiglia dell'alta borghesia lombarda, Turati aveva militato da giovane nelle file della democrazia radicale.

Decisivo per la sua formazione politica era stato l'incontro con Anna Kuliscioff, una giovane esule russa che aveva già alle spalle una notevole esperienza politica e una larga conoscenza del mondo socialista europeo. Ma non meno decisivo fu il contatto con l'ambiente operaio di Milano, già allora indiscussa capitale economica d'Italia e sede degli esperimenti più avanzati di associazionismo fra i lavoratori. La posizione di Turati, meno rigorosa sul piano teorico di quella di Labriola, fu molto chiara nelle scelte politiche di fondo: l'affermazione dell'autonomia del movimento operaio dalla democrazia borghese; il rifiuto dell'insurrezionalismo anarchico; il riconoscimento del carattere prioritario delle lotte economiche; l'esigenza di collegare queste lotte con quelle politiche e di inquadrarle in un progetto generale che aveva come obiettivo finale la socializzazione dei mezzi di produzione.

La fondazione del Partito socialista italiano

Nell'agosto del 1892 si riunirono a Genova i delegati di circa 300 fra società operaie, leghe contadine, circoli politici e associazioni di varia natura. Subito si delineò la frattura tra una maggioranza favorevole all'immediata costituzione di un partito e una minoranza contraria, formata dagli anarchici e da una parte degli aderenti al Partito operaio. Vista l'impossibilità di trovare un accordo, i delegati della maggioranza, guidati da Turati, abbandonarono la sala del congresso e, riunitisi in altra sede, dichiararono costituito il Partito dei lavoratori

italiani, approvandone subito il programma e lo statuto. Il programma indicava come fine la «gestione sociale» dei mezzi di produzione e, come mezzo atto a raggiungerlo, «l'azione del proletariato organizzato in partito [ ... ] esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia [ ... ]; 2) di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici». Divenuto Partito socialista dei lavoratori italiani nel '93, due anni dopo il partito assunse il nome definitivo di Partito socialista italiano.

I cattolici Se per la classe dirigente liberal-moderata il movimento socialista rappresentava una presenza minacciosa, sull'opposto versante politico non meno preoccupante era l'atteggiamento della massa dei cattolici militanti, fermi nella fedeltà al papa e nel conseguente rifiuto dello Stato uscito dal Risorgimento. I cattolici costituivano dunque una forza eversiva nei confronti delle istituzioni unitarie di cui non riconoscevano la legittimità: una forza tanto più pericolosa in quanto profondamente radicata nel tessuto sociale, in particolare nel mondo delle campagne. Il divieto papale di partecipare alle elezioni, formulato col non expedit del 1874, non si applicava alle elezioni amministrative né significava per il movimento cattolico la rinuncia a una presenza autonoma nella vita del paese. Proprio nel 1874, in un convegno tenuto a Venezia, un gruppo di autorevoli esponenti del mondo cattolico

italiano (ecclesiastici e laici) decise di dar vita a un'organizzazione nazionale che fu chiamata Opera dei

congressi: saldamente controllata dal clero, ebbe il compito di convocare periodicamente congressi delle associazioni cattoliche operanti in Italia, assicurando loro un più stretto collegamento. Il suo programma si riduceva a una dichiarazione di ostilità nei confronti del liberalismo laico, della democrazia e del socialismo, a una professione di fedeltà al magistero del pontefice e alla dottrina cattolica. Qualche segno di apertura si ebbe dopo il 1878, in coincidenza con l'avvento al soglio pontificio di papa Leone XIII. Sotto il suo pontificato il movimento cattolico italiano accentuò il suo impegno sul terreno sociale, cui lo spingeva fatalmente la stessa tendenza a raccogliere una base di massa. Sorsero così, soprattutto in Lombardia e nel Veneto, società di mutuo soccorso, cooperative agricole e artigiane controllate dal clero e ispirate alla dottrina sociale cattolica.

Crispi: rafforzamento dello

Stato e tentazioni autoritarie

Il primo governo Crispi: riforme e

repressione

Alla morte di Depretis, nel 1887, fu nominato presidente del Consiglio Francesco Crispi, la personalità più rilevante della Sinistra. Siciliano, temperamento forte e autoritario, primo meridionale a salire alla presidenza del Consiglio, Crispi poteva contare, in virtù del suo passato mazziniano e garibaldino, su ampie simpatie a sinistra, ma anche sulla fiducia dei gruppi conservatori, attratti dalle sue promesse di uno stile di governo più deciso ed efficiente, di chiara impronta "bismarckiana". Accentrando nella sua persona per quasi quattro anni, oltre alla presidenza del Consiglio, i ministeri degli Interni e degli Esteri, Crispi impresse in effetti una svolta all'azione di governo: si fece promotore di un'opera di riorganizzazione e di razionalizzazione dell'apparato statale, ma accentuò anche le spinte autoritarie e repressive. Nel 1888 fu approvata una legge comunale e provinciale che ampliava il diritto di voto per le elezioni amministrative e rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più di 10 mila abitanti (fino allora di nomina regia). Nel 1889 fu varato un nuovo codice penale — noto come

Codice Zanardelli, dal nome dell'allora ministro della Giustizia — che aboliva la pena di morte, ancora in vigore in tutti i maggiori Stati europei, e non negava il diritto di sciopero, riconoscendone implicitamente la legittimità. Questo riconoscimento fu di fatto contraddetto dalla nuova legge di Pubblica sicurezza che poneva gravi limiti alla libertà sindacale e lasciava alla polizia ampi poteri discrezionali, come quello di inviare al domicilio coatto, senza l'autorizzazione della magistratura, gli elementi ritenuti pericolosi. Di questi poteri Crispi si avvalse con molta frequenza, intervenendo duramente contro il movimento operaio, ma anche contro le organizzazioni cattoliche e contro i circoli irredentisti di ispirazione repubblicana.

I progetti coloniali di Crispi Crispi fu anche sostenitore dell'ascesa dell'Italia a grande potenza coloniale. Per realizzare il suo programma, puntò sul rafforzamento della Triplice alleanza e, all'interno di essa, sul consolidamento dei legami con l'Impero tedesco. Nelle intenzioni di Crispi, la Triplice doveva non solo garantire l'Italia da nuove iniziative francesi nel Mediterraneo, ma anche servire da base per una più attiva presenza in Africa. Nel 1890 i possedimenti italiani furono ampliati e riorganizzati col nome di Colonia Eritrea, mentre venivano poste le basi per una nuova espansione sulle coste della vicina Somalia. La politica coloniale di Crispi suscitava, però, perplessità in seno alla

stessa maggioranza, in quanto risultava troppo costosa per il bilancio dello Stato. Messo in minoranza, Crispi si dimise all'inizio del 1891.

Il primo governo Giolitti Nel maggio 1892, la presidenza del Consiglio passò al piemontese Giovanni Giolitti. Figura centrale del successivo trentennio di storia italiana, Giolitti, allora cinquantenne, si presentava con un programma piuttosto avanzato. In politica finanziaria mirava a una più equa ripartizione del carico fiscale, che risparmiasse i ceti disagiati e colpisse con aliquote più alte i redditi maggiori secondo il principio della progressività delle imposte (oggi universalmente accettato). In politica interna aveva idee innovatrici, contrarie all'intervento repressivo contro il movimento operaio e le organizzazioni popolari. Si rifiutò infatti di ricorrere a misure eccezionali contro i Fasci dei lavoratori, associazioni popolari (il termine "fascio" stava per "unione") sviluppatesi in Sicilia, che protestavano contro le tasse troppo pesanti e il malgoverno locale e chiedevano per i contadini terre da coltivare e patti agrari più vantaggiosi. Non si trattava di un movimento rivoluzionario, anche se diede luogo ad alcune manifestazioni violente, né di un movimento socialista in senso stretto, ma suscitò tuttavia forti preoccupazioni fra i conservatori, ai quali non piacque l'atteggiamento, ritenuto debole, del presidente del Consiglio. L'ostilità dei conservatori – contrari anche ai

progetti giolittiani di riforma fiscale – contribuì a indebolire il governo e ad accelerarne la caduta, che fu dovuta tuttavia alle conseguenze del grave scandalo della Banca Romana, responsabile dell'emissione fraudolenta di carta moneta e di finanziamento occulto di uomini politici e giornalisti. Giolitti, implicato nello scandalo, cadde e fu sostituito da Crispi, anche lui coinvolto nelle vicende della Banca, ma ritenuto l'uomo forte, capace di rimettere ordine nel paese e di arrestare la crescita delle organizzazioni operaie.

II ritorno di Crispi e le leggi antisocialiste

Tornato al governo nel dicembre del 1893, Crispi affrontò con risolutezza una situazione che vedeva l'opinione pubblica allarmata dalla crisi economica, sconcertata dagli scandali bancari, spaventata dall'intensificarsi delle agitazioni in Sicilia. In campo economico il nuovo governo avviò una politica di risanamento del bilancio basata su pesanti inasprimenti fiscali e completò la riorganizzazione del dissestato sistema bancario, già iniziata da Giolitti, con una legge che istituiva la Banca d'Italia. Questa, nel 1926, avrebbe ottenuto il monopolio della emissione di carta moneta (e, a partire dal 1947, avrebbe svolto compiti di controllo sull'intero sistema bancario). In materia di ordine pubblico Crispi non esitò a ricorrere a misure eccezionali, convinto com'era che le agitazioni sociali costituissero un pericolo non solo per l'ordine costituito, ma per la stessa sicurezza dello Stato

uscito dal Risorgimento. Ai primi di gennaio del 1894 lo stato d'assedio fu proclamato in Sicilia e successivamente esteso alla Lunigiana, tra Toscana e Liguria, dove si era verificato, senza alcun nesso con gli avvenimenti siciliani, un tentativo di insurrezione anarchica. La repressione militare fu dura e sanguinosa e venne accompagnata da una più generale repressione poliziesca estesa a tutto il paese e rivolta soprattutto contro circoli, leghe e giornali facenti capo al Partito socialista, che pure non aveva responsabilità dirette nel moto siciliano. Nel luglio 1894 il governo volle dare alla sua azione repressiva un carattere organico, facendo approvare dal Parlamento un complesso di leggi limitative della libertà di stampa, di riunione e di associazione. Queste leggi, definite "antianarchiche", avevano in realtà come obiettivo principale il Partito socialista, che nell'ottobre fu dichiarato fuori legge: un provvedimento simile a quello varato da Bismarck nel 1878. Gli effetti non furono però quelli sperati da Crispi. Le persecuzioni, infatti, non riuscirono a distruggere la già solida rete organizzativa del partito e accrebbero i favori di cui i socialisti godevano nella sinistra democratica e soprattutto negli ambienti intellettuali.

Adua e la caduta di Crispi Ma il colpo definitivo per Crispi venne dal fallimento della sua politica coloniale. Già durante il suo primo governo, Crispi aveva cercato di stabilire una qualche

forma di protettorato sull'Etiopia, intavolando col nuovo negus Menelik trattative che portarono, nel 1889, alla firma del trattato di Uccialli. Ma questo trattato, considerato dagli italiani come un implicito riconoscimento del loro protettorato, fu interpretato diversamente dagli etiopi, che reagirono energicamente ai tentativi italiani di penetrazione ripresi dopo il ritorno al potere di Crispi. Fra Italia ed Etiopia si giunse così allo scontro armato, culminato nel disastro di Adua del 1° marzo 1896, quando un contingente italiano di 20 mila uomini (comprese le truppe coloniali) venne praticamente annientato dalle forze etiopiche. La sconfitta ebbe immediate ripercussioni in Italia: violente manifestazioni contro la guerra d'Africa scoppiarono a Roma, a Milano e in molte altre città, mentre Crispi fu costretto a dimettersi e uscì dalla scena politica.

L'episodio di Adua e le reazioni che ne erano seguite avevano dimostrato quanto la guerra coloniale fosse poco sentita dalle masse popolari e da larghi strati della stessa classe dirigente e quanto illusorio fosse stato il tentativo di Crispi di cogliere successi di prestigio, per sé e per il paese, in un'avventura imperialistica a cui mancavano le indispensabili premesse ideologiche, politiche ed economiche.

La crisi di fine secolo e la nuova

politica liberale

I Moti dei '98

La caduta di Crispi non pose fine ai tentativi di risolvere le tensioni politiche e sociali con una restrizione delle libertà. Al contrario, negli anni che seguirono le dimissioni di Crispi si delineò tra le forze conservatrici – già divise sulla politica estera e sulle questioni coloniali – la tendenza a ricomporre un fronte comune contro le vere o supposte minacce portate all'ordine costituito dai «nemici delle istituzioni», socialisti, repubblicani o clericali che fossero. Questa tendenza si esprimeva anche nel tentativo di tornare a una interpretazione restrittiva dello Statuto che, rovesciando la prassi "parlamentare" affermatasi con Cavour, rendesse il governo responsabile di fronte al sovrano, lasciando alle Camere i soli compiti legislativi. La tensione esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane – provocato da un cattivo raccolto e dal contemporaneo blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti – fece scoppiare in tutto il paese una serie di manifestazioni popolari. La risposta del governo guidato dal conservatore Antonio Starabba di Rudinì fu durissima, come se si dovesse

fronteggiare un complotto rivoluzionario: prima massicci interventi delle forze di polizia, quindi proclamazione dello stato d'assedio, con conseguente passaggio dei poteri alle autorità militari, a Milano, a Napoli e nell'intera Toscana. La repressione fu particolarmente violenta a Milano dove le truppe, guidate dal generale Bava Beccaris, spararono sulla folla inerme anche con colpi a mitraglia dell'artiglieria provocando un centinaio di morti. Capi socialisti, radicali, repubblicani e anche esponenti del movimento cattolico intransigente furono incarcerati.

L'ostruzionismo dell'estrema sinistra

Dimessosi il presidente del Consiglio, Rudinì (giugno '98), il suo successore, il generale piemontese Luigi Pelloux, presentò alla Camera nel '99 un pacchetto di provvedimenti che limitavano gravemente il diritto di sciopero e la libertà di associazione. I gruppi di estrema sinistra risposero con l'ostruzionismo, consistente nel prolungare all'infinito la discussione parlamentare. Allora Pelloux sciolse la Camera ma, dopo il risultato sfavorevole delle elezioni del giugno 1900, decise di dimettersi. Accettando le sue dimissioni e affidando la successione al senatore Giuseppe Saracco, un moderato ritenuto al di sopra delle parti, Umberto I mostrava di prendere atto del fallimento della politica repressiva che lo aveva visto fra i suoi più attivi sostenitori. Un mese dopo, il 29 luglio 1900, il re cadeva vittima di un attentato per mano di un anarchico, Gaetano Bresci, venuto

appositamente dagli Stati Uniti per vendicare le vittime del '98.

Il governo Zanardelli-Giolitti Rinunciando a ripresentare i provvedimenti repressivi proposti da Pelloux, il governo Saracco inaugurò una fase di distensione nella vita politica italiana. Una distensione che fu indubbiamente favorita dal buon andamento dell'economia e dal conseguente allentamento delle tensioni sociali oltre che dall'atteggiamento del nuovo re, Vittorio Emanuele III, assai più aperto del padre nei confronti delle forze progressiste. Quando il governo Saracco fu costretto a dimettersi per il comportamento incerto e contraddittorio tenuto in occasione di un grande sciopero indetto dai lavoratori genovesi, il re seppe interpretare il nuovo clima politico chiamando alla guida del governo, nel febbraio 1901, il leader della sinistra liberale Giuseppe Zanardelli, che affidò il ministero degli Interni a Giolitti. Proprio quest'ultimo, nel dibattito parlamentare sullo sciopero di Genova, aveva formulato con molta chiarezza la teoria secondo cui lo Stato liberale non aveva nulla da temere dallo sviluppo delle organizzazioni operaie e nulla da guadagnare da una repressione indiscriminata delle loro attività, ma al contrario aveva tutto l'interesse a consentirne il libero svolgimento. Nei suoi quasi tre anni di vita il ministero Zanardelli-Giolitti condusse in porto alcune importanti riforme.

Furono estese le norme che limitavano il lavoro minorile e femminile nell'industria. Venne migliorata la legislazione sulle assicurazioni per la vecchiaia e per gli infortuni sul lavoro. Venne approvata una legge per la municipalizzazione dei servizi pubblici. Ma, più importante delle singole riforme, fu il nuovo atteggiamento del governo in materia di conflitti di lavoro. Tenendo fede al suo programma, Giolitti mantenne una linea di rigorosa neutralità nelle vertenze sindacali, purché non degenerassero in manifestazioni violente.

Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali Le conseguenze del nuovo corso furono subito evidenti. Le organizzazioni sindacali, operaie e contadine, cancellate o ridotte alla clandestinità dalle repressioni del '98, si svilupparono rapidamente. In quasi tutte le principali città del Centro-nord si costituirono, o si ricostituirono, le Camere del lavoro, mentre crescevano anche le organizzazioni di categoria. Un fenomeno a parte era poi lo sviluppo delle organizzazioni dei lavoratori agricoli. Formate in prevalenza da braccianti – ma anche da mezzadri e piccoli affittuari – e concentrate in prevalenza nelle province padane, le leghe rosse si riunirono, nel novembre 1901, nella Federazione italiana dei lavoratori della terra (Federterra) che contava oltre 200 mila iscritti. Obiettivo finale e dichiarato delle leghe era la «socializzazione della terra». Obiettivi immediati erano l'aumento dei salari, la riduzione degli orari di

lavoro, l'istituzione di uffici di collocamento controllati dai lavoratori stessi. Lo sviluppo delle organizzazioni sindacali fu accompagnato da una brusca impennata degli scioperi. Ne derivò una spinta al rialzo dei salari destinata a protrarsi, con poche interruzioni, per tutto il primo quindicennio del secolo. Questi progressi non si possono spiegare, ovviamente, solo con la nuova politica liberale, ma vanno inquadrati nella fase di generale sviluppo economico attraversata dal paese in questo periodo.

Lo sviluppo economico e i

problemi del Meridione

Le premesse del decollo industriale A partire dagli ultimi anni dell'800, l'Italia conobbe il suo primo decollo industriale autentico decollo industriale. Se l'economia italiana poté inserirsi nella congiuntura internazionale favorevole cominciata nel 1896, ciò fu dovuto anche ai progressi che il paese era venuto realizzando nei primi trenta-quarant'anni di vita unitaria sul piano delle infrastrutture e dei settori produttivi. La costruzione di una rete ferroviaria, avviata negli anni della Destra, aveva favorito i processi di commercializzazione dell'economia. La scelta protezionistica del 1887 aveva reso possibile la creazione, sia pure a costi molti alti, di una moderna industria siderurgica. Infine, il riordinamento del sistema bancario attuato dopo la crisi della Banca Romana aveva creato un'organizzazione finanziaria abbastanza efficiente. Particolare importanza ebbe la costituzione, avvenuta nel 1894 con l'incoraggiamento dello Stato e con l'apporto di capitali tedeschi, di due nuovi istituti di credito, la Banca commerciale e il Credito italiano, che svolsero una funzione decisiva nel facilitare l'afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali, soprattutto nei

settori più moderni.

La crescita industriale

Furono appunto questi settori che fecero registrare i maggiori progressi. La siderurgia, la più favorita dalle tariffe dell'87, vide la creazione, accanto alle Acciaierie di Terni (fondate, col concorso dello Stato, nel 1884), di numerosi nuovi impianti per la produzione della ghisa e dell'acciaio (a Savona, Piombino, Bagnoli). Nel settore tessile, i maggiori progressi si ebbero nell'industria cotoniera, anch'essa altamente meccanizzata e favorita dal protezionismo. Nel settore agro-alimentare si assisté alla crescita rapidissima di un'altra industria protetta, quella dello zucchero, legata alla diffusione della coltura della barbabietola nella Pianura padana. Sviluppi interessanti si ebbero anche in settori che non erano favoriti dalle tariffe doganali, come quello chimico –soprattutto nell'industria della gomma, con gli stabilimenti Pirelli di Milano –, o che addirittura ne erano svantaggiati, come quello meccanico. In questo campo la principale novità fu costituita dall'affermazione dell'industria automobilistica dove, nonostante la ristrettezza del mercato interno (le automobili erano allora riservate a pochissimi privilegiati), riuscirono a svilupparsi numerose aziende: alcune – come la Fiat di Torino, fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli – avrebbero poi acquistato una posizione di preminenza nel mondo industriale italiano. Un discorso a parte va fatto, infine, per l'industria elettrica, che in Italia aveva mosso i

primi passi già negli anni '80 dell'800 e che conobbe un autentico boom all'inizio del '900. Fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita annua dell'industria fu del 6,7%, superiore a quello di qualsiasi altro paese europeo nello stesso periodo. Fra il 1896 e il 1914 il volume della produzione industriale risultò quasi raddoppiato, mentre la quota dell'industria nella formazione del prodotto interno lordo, che fra il 1880 e il 1900 era rimasta pressoché stazionaria attorno al 20%, passò nel 1914 al 25% circa, contro il 43% dell'agricoltura.

Le condizioni di vita degli italiani Il decollo industriale dell'inizio del '900 fece sentire i suoi effetti anche sul tenore di vita della popolazione. Nel primo quindicennio del secolo il reddito pro capite degli italiani aumentò del 25%, mentre era rimasto pressoché invariato nei precedenti quarant'anni. Questo aumento consentì a vasti strati della popolazione di destinare una quota dei bilanci familiari – fin allora assorbiti soprattutto dalle spese per l'alimentazione – alla casa, ai trasporti, all'istruzione, alle attività ricreative e soprattutto all'acquisto di beni di consumo durevoli: in primo luogo utensili domestici, ma anche biciclette, macchine per cucire e altri prodotti della moderna tecnologia che fecero allora la prima comparsa sul mercato nazionale. La qualità della vita degli italiani cominciava a mutare, sia pur lentamente e parzialmente, di pari passo con lo sviluppo economico. I segni di questo mutamento erano

visibili soprattutto nelle città, ancora piccole rispetto alle maggiori metropoli europee — Roma, per esempio, contava nel 1911 poco più di 500 mila abitanti contro i quasi 3 milioni di Parigi —, ma a esse più simili che in passato, grazie soprattutto allo sviluppo dei servizi pubblici (illuminazione, trasporti urbani, gas domestico, acqua corrente) gestiti non di rado dagli stessi comuni tramite apposite aziende municipalizzate. Le condizioni abitative dei lavoratori urbani restavano ancora precarie. Gli appartamenti dotati di servizi igienici autonomi restavano un'eccezione. Ma la diffusione dell'acqua corrente e il miglioramento delle reti fognarie costituirono un progresso di non poco conto, contribuendo alla forte diminuzione della mortalità da malattie infettive (colera, tifo e, in genere, affezioni intestinali) che si verificò nel primo quindicennio del secolo. Anche la mortalità infantile — indicatore fra i più importanti dell'arretratezza economica e civile — fece registrare un notevole calo. Questi progressi tuttavia non furono sufficienti a colmare il divario che ancora separava l'Italia dagli Stati più ricchi e più industrializzati. Alla vigilia della prima guerra mondiale il reddito pro capite era circa la metà di quello tedesco. L'analfabetismo era ancora molto elevato (37% nel 1911), mentre si avviava a scomparire in tutta l'Europa del Nord. La quota della popolazione attiva impiegata nelle campagne era ancora intorno al 55% (mentre non superava il 40% in Francia, il 35% in Germania e addirittura l'8% in Inghilterra): una quota troppo alta per le capacità produttive dell'agricoltura italiana, com'era

dimostrato dall'incremento dell'emigrazione verso l'estero.

L'emigrazione

Nel solo 1913 si contarono 870 mila partenze, per un totale di circa 8 milioni di emigrati (di cui almeno 2 milioni a carattere permanente) fra il 1900 e il 1914. Tutte le regioni italiane parteciparono al fenomeno migratorio. Ma il contributo più rilevante, in rapporto alla popolazione, venne dal Mezzogiorno. Inoltre, mentre l'emigrazione dalle regioni centro-settentrionali era soprattutto temporanea e diretta verso i paesi europei, quella meridionale si indirizzava in prevalenza verso le Americhe e aveva per lo più carattere permanente. Dal punto di vista economico, il fenomeno migratorio ebbe alcuni effetti positivi: non solo perché allentò la pressione demografica, creando un rapporto più favorevole fra popolazione e risorse e attenuando le tensioni sociali, ma anche perché le rimesse, ovvero il denaro inviato dagli emigrati alle famiglie, ridussero il disagio delle zone più depresse e giovarono all'economia dell'intero paese. Tuttavia, un'emigrazione così massiccia rappresentò un impoverimento, in termini di forza-lavoro e di energie intellettuali, per la comunità nazionale e soprattutto per il Mezzogiorno.

Il divario tra Nord e Sud

Ancora una volta gli effetti del progresso economico si fecero sentire soprattutto nelle regioni più sviluppate, in particolare nel cosiddetto triangolo industriale che aveva come vertici Milano, Torino e Genova. E il divario fra Nord e Sud si venne perciò accentuando, sia pure nel quadro di una crescita generalizzata. Secondo i dati di un'inchiesta del 1903, sul totale dei lavoratori dell'industria il 57% era concentrato nelle regioni settentrionali mentre solo il 25% viveva nel Mezzogiorno, che aveva una popolazione pari al 37% di quella nazionale. Questo divario era accentuato da alcuni mali storici della società meridionale: l'analfabetismo diffuso, la disgregazione sociale, l'assenza di una classe dirigente moderna, la subordinazione della piccola e media borghesia agli interessi della grande proprietà terriera, il carattere clientelare e personalistico della lotta politica. Tale carattere era accentuato dal fatto che, per molti giovani, la conquista di un impiego pubblico – raggiungibile grazie ai favori del notabile o del deputato locale – costituiva l'unica alternativa alla disoccupazione o all'emigrazione: fu in questo periodo che la pubblica amministrazione italiana, nata piemontese e "nordista", cominciò a meridionalizzarsi. Tutti questi erano mali antichi, ma risaltavano maggiormente nel momento in cui contrastavano col generale sviluppo del paese.

L'età giolittiana

Giovanni Giolitti fu la più notevole figura di statista apparsa in Italia dopo la morte di Cavour. Chiamato per la seconda volta alla guida del governo nel novembre 1903, dopo le dimissioni di Zanardelli, restò al potere per oltre un decennio, con brevi interruzioni nel 1905-6 e nel 1909-11.

Il controllo del Parlamento e il

trasformismo giolittiano

Se è ormai consuetudine parlare di "età giolittiana" per indicare il periodo che va dal superamento della crisi di fine secolo alla vigilia della prima guerra mondiale, ciò è dovuto al fatto che in questo periodo lo statista piemontese esercitò sulla vita del paese un'influenza ancora maggiore di quanto non dica la sua pur lunga permanenza alla guida del governo. Quella esercitata da Giolitti fu una dittatura parlamentare molto simile a quella realizzata da Depretis fra il 1876 e il 1887, anche se diversa, e decisamente più aperta, nei contenuti. Tratti caratteristici dell'azione di Giolitti furono infatti: il costante sostegno alle forze più moderne della società italiana (la borghesia industriale e il proletariato organizzato), il tentativo di condurre nell'orbita del sistema liberale gruppi e movimenti considerati nemici

delle istituzioni, la tendenza ad ampliare l'intervento dello Stato per correggere gli squilibri sociali. Il controllo delle Camere (unito a una perfetta conoscenza dell'amministrazione statale) costituì l'elemento fondamentale del "sistema" di Giolitti. Questo controllo era però ottenuto a prezzo della perpetuazione dei sistemi trasformistici, che furono affinati ed estesi, e di un costante e spregiudicato intervento del governo nelle lotte elettorali, soprattutto nel Mezzogiorno, dove le ingerenze del potere esecutivo tramite i prefetti, trovavano terreno favorevole in un ambiente dominato dai conflitti tra i notabili e caratterizzato dall'assenza quasi totale di organizzazioni politiche moderne.

Gli avversari di Giolitti Su questi aspetti deteriori si appuntarono ben presto le critiche dei numerosi avversari dello statista piemontese. Per i socialisti rivoluzionari e per i cattolici democratici Giolitti era colpevole di far opera di corruzione all'interno dei rispettivi movimenti, dividendoli e attirandone le componenti moderate entro il suo sistema di potere trasformista (Giolitti tentò in più occasioni di inserire dirigenti socialisti nel governo). Per converso i liberali-conservatori, come Sidney Sonnino – che fu capo del governo per brevi periodi, nel 1906 e nel 1909 – o Luigi Albertina, direttore del «Corriere della Sera» di Milano, il più importante quotidiano italiano, accusavano Giolitti di attentare alle tradizioni risorgimentali, venendo a patti con

i nemici delle istituzioni e mettendo così in pericolo l'autorità dello Stato. Diversamente motivate erano le accuse lanciate a Giolitti dai meridionalisti come Gaetano Salvemini. Per loro la denuncia del malcostume politico imperante nelle regioni del Sud – fu Salvemini a bollare Giolitti con l'epiteto ingiurioso di «ministro della malavita» – si legava alla critica severa della politica economica del governo. Questa politica avrebbe favorito infatti l'industria protetta e le «oligarchie operaie» del Nord, ma anche la grande proprietà terriera meridionale, tutelata dal dazio sul grano, ostacolando lo sviluppo delle forze produttive nel Mezzogiorno. Infine, molti intellettuali univano la critica del trasformismo e della corruzione parlamentare con l'avversione all'«appiattimento» democratico di cui la politica giolittiana sarebbe stata responsabile.

Le leggi per il Mezzogiorno e il -suffragio

universale

Ciononostante, durante l'età giolittiana furono varate – anche se con effetti tutt'altro che decisivi – alcune importanti iniziative in favore del Mezzogiorno: in particolare le leggi speciali del 1904, volte a incoraggiare lo sviluppo industriale e la modernizzazione dell'agricoltura mediante stanziamenti statali. Altri provvedimenti di rilievo furono la statalizzazione delle ferrovie, nel 1905, e l'istituzione, nel 1912, di un

monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, i cui proventi dovevano servire a finanziare il fondo per le pensioni di invalidità e vecchiaia dei lavoratori. Sempre nel 1912 fu varata la più importante tra le riforme giolittiana: l'estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto trent'anni e a tutti i maggiorenni che sapessero leggere e scrivere o avessero prestato il servizio militare, in pratica il suffragio universale maschile.

I socialisti e lo sciopero generale del 1904

La svolta liberale dell'inizio del '900 aveva avuto nei socialisti dei protagonisti attivi, poiché Turati e i dirigenti a lui più vicini pensavano che la via delle riforme e della collaborazione con la borghesia progressista fosse per il movimento operaio l'unica capace di assicurare il consolidamento dei risultati appena conseguiti. Mentre si venivano delineando i limiti del liberalismo giolittiano, però, nel 1904 le correnti rivoluzionarie conquistarono la guida del partito e, a settembre, in seguito a un «eccidio proletario» verificatosi in Sardegna nel corso di una manifestazione di minatori, indissero il primo sciopero generale nazionale della storia d'Italia. Ci furono forti pressioni sul governo perché intervenisse militarmente, ma Giolitti lasciò che la manifestazione si esaurisse da sola, salvo poi sfruttare le paure dell'opinione pubblica moderata per convocare, a novembre, nuove elezioni in cui le sinistre segnarono una battuta d'arresto.

La nascita della Cgl e le scissioni socialiste Per il movimento operaio lo sciopero costituì una prova di forza ma rivelò anche gravi limiti organizzativi: si era infatti sentita l'esigenza, soprattutto da parte dei riformisti, di un più stretto coordinamento nazionale. Proprio dalle federazioni di categoria controllate dai riformisti partì l'iniziativa che portò, nel 1906, alla fondazione della Confederazione generale del lavoro (Cgl), che raccolse oltre 200 mila iscritti. La corrente più estremista, che si ispirava al sindacalismo rivoluzionario, fu progressivamente emarginata dalla Cgl e infine allontanata anche dal partito socialista, il Psi, dove ripresero il sopravvento le correnti riformiste. Ma, nel congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, la guida del partito tornò nelle mani degli intransigenti, fra i quali venne emergendo la figura di un giovane agitatore romagnolo, Benito Mussolini. Il congresso decise l'espulsione della corrente dei riformisti di destra guidata da Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, che prospettavano una collaborazione al governo, e non solo in Parlamento, con le forze democratico-liberali.

I democratici cristiani Durante l'età giolittiana anche il movimento cattolico si trasformò e riuscì ad avere un peso maggiore nella vita

politica. La novità più importante fu l'affermazione del movimento democratico cristiano, guidato da Romolo Murri, un giovane sacerdote marchigiano dalle posizioni audacemente riformatrici, in cui la polemica contro il capitalismo e lo Stato borghese si riempiva di contenuti democratici (suffragio universale, decentramento amministrativo, legislazione sociale). Nei primi anni del '900 i democratici cristiani fondarono circoli, riviste e le prime unioni sindacali cattoliche "di classe", ovvero costituite dai soli lavoratori. Nel 1904, però, papa Pio X, per timore che conquistassero il controllo dell'Opera dei

congressi, decise di scioglierla. Successivamente Murri venne sospeso dal sacerdozio (1909). Il movimento sindacale cattolico, comunque, continuò a svilupparsi.

Le alleanze clerico-moderate

Nel frattempo il papa e i vescovi, preoccupati dai progressi delle forze laiche e socialiste, favorirono le tendenze clerico-moderate che miravano a far fronte comune con i «partiti d'ordine» (moderati e conservatori) per bloccare l'avanzata delle sinistre. Alleanze politiche di questo genere furono esplicitamente autorizzate dalle autorità ecclesiastiche e vennero d'altra parte incoraggiate dallo stesso Giolitti. Quest'ultimo, infatti, pur ispirandosi in materia di rapporti fra Stato e Chiesa a una linea rigorosamente laica, vide nel nuovo atteggiamento dei cattolici la possibilità di ampliare i suoi spazi di manovra, utilizzando nuove forze a sostegno delle sue maggioranze.

Il non expedit fu sospeso in alcuni collegi del Nord nelle elezioni del 1904 e, in misura molto più ampia, nelle successive consultazioni del 1909, dove fu autorizzata anche la presentazione di candidature dichiaratamente cattoliche, anche se solo a titolo personale.

Il nazionalismo, la guerra di

Libia e la fine del giolittismo

Il riavvicinamento alla Francia

A partire dal 1896, anno della caduta di Crispi, la politica estera italiana subì una netta correzione di rotta. Fu attenuata, pur senza rinnegare il vincolo della Triplice alleanza, la linea rigidamente filotedesca seguita nel precedente decennio. Il conseguente miglioramento dei rapporti con la Francia portò alla fine della guerra doganale e, nel 1902, a un accordo per la divisione delle sfere di influenza in Africa settentrionale: l'Italia otteneva il riconoscimento dei suoi diritti di priorità sulla Libia, lasciando in cambio mano libera alla Francia sul Marocco.

I nazionalisti e i progetti imperialisti in

Nord Africa

In questi anni si affermò un movimento nazionalista che, alla fine del 1910, si organizzò nella Associazione nazionalista italiana. Molti uomini politici e intellettuali avevano cominciato a chiedersi perché l'Italia dovesse rassegnarsi a un destino di potenza di secondo rango, perché tanti lavoratori italiani fossero costretti a emigrare in cerca di lavoro nei paesi più ricchi anziché impegnare

le loro energie al servizio della grandezza nazionale. Ebbe allora notevole fortuna la teoria formulata dallo scrittore Enrico Corradini, secondo cui il contrasto fondamentale non era più quello fra le diverse classi all'interno di un singolo paese, ma quello fra paesi ricchi e paesi poveri, fra «nazioni capitalistiche» e «nazioni proletarie» (ossia dotate di una popolazione in eccedenza rispetto alle risorse economiche). Tra i nazionalisti emerse un gruppo imperialista e conservatore che avviò una martellante campagna per la conquista della Libia. Questa iniziativa trovò potenti alleati nei gruppi cattolico-moderati legati alla finanza vaticana e in particolare al Banco di Roma, da anni impegnato in un'opera di penetrazione economica in terra libica. La campagna contribuì senza dubbio a spingere il paese sulla via dell'intervento, ma l'impulso decisivo venne dalle vicende della politica internazionale: quando apparve chiaro che la Francia si apprestava a imporre il suo protettorato sul Marocco, il governo italiano ritenne giunto il momento di far valere gli accordi del 1902.

La guerra di Libia

La guerra contro l'Impero turco, che esercitava la sovranità sulla Libia, scoppiò nel settembre del 1911. Il conflitto fu più lungo e difficile del previsto anche perché i turchi, anziché accettare uno scontro campale, preferirono fomentare la guerriglia condotta con decisione dalle popolazioni arabe. Per venire a capo della resistenza,

l'Italia dovette non solo rinforzare il corpo di spedizione, ma anche estendere il teatro di guerra ai possedimenti turchi del Mare Egeo, occupando l'isola di Rodi e l'arcipelago del Dodecaneso. La guerra terminò nell'ottobre del 1912 con la pace di Losanna che sanciva la conquista italiana della Libia. La pace non valse tuttavia a far cessare la resistenza araba; e da ciò gli italiani trassero pretesto per mantenere l'occupazione di Rodi e del Dodecaneso. Durante la guerra la maggioranza dell'opinione pubblica borghese si schierò a favore dell'impresa coloniale e la appoggiò con grandi manifestazioni patriottiche. Ma dal punto di vista economico la conquista della Libia si rivelò un pessimo affare. 1 costi della guerra furono molto pesanti; le ricchezze naturali favoleggiate dai nazionalisti si scoprirono scarse o inesistenti (nessuno sospettava allora la presenza di petrolio sotto lo «scatolone di sabbia» del deserto libico); la colonizzazione delle zone costiere non bastò ad assorbire quote consistenti di lavoratori.

L'indebolimento del governo

Il successo politico e propagandistico dell'impresa non si risolse però in un durevole consolidamento del governo. Al contrario, la guerra di Libia, introducendo elementi di radicalizzazione nel dibattito politico, scosse pericolosamente gli equilibri su cui si reggeva il sistema giolittiano e favori il rafforzamento delle ali estreme. La

destra liberale, i clericoconservatori e soprattutto i nazionalisti trassero nuovo slancio dal buon esito di un'impresa che avevano fermamente e rumorosamente sostenuto. Sull'opposto versante, quello socialista, l'opposizione alla guerra fece emergere le tendenze più radicali e indebolì quelle correnti riformiste e collaborazioniste che avevano costituito fino allora un elemento non secondario degli equilibri politici giolittiani: uno dei motivi della scissione di Reggio Emilia fu l'atteggiamento non pregiudizialmente contrario all'impresa libica assunto da Bissolati e Bonomi.

Il "patto Gentiloni"

Altri elementi di novità nel sistema politico furono apportati dalle elezioni del novembre 1913, le prime a suffragio universale maschile. Nell'imminenza delle elezioni, il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell'Unione elettorale cattolica, invitò i militanti ad appoggiare quei candidati liberali che si impegnassero, una volta eletti, a rispettare un programma in cui erano previsti fra l'altro la tutela dell'insegnamento privato, l'opposizione al divorzio, il riconoscimento delle organizzazioni sindacali cattoliche. Moltissimi candidati liberali accettarono segretamente di sottoscrivere questi impegni, spinti dall'esigenza di assicurarsi i suffragi di un elettorato di massa. Anche grazie a questi accordi, le elezioni del 1913 non ebbero effetti sconvolgenti sugli equilibri parlamentari. Ma si configurò una maggioranza

più eterogenea e divisa che in passato, rendendo la mediazione giolittiana sempre più problematica.

La fine del giolittismo

Nel maggio 1914 Giolitti rassegnò le dimissioni, indicando al re come suo successore Antonio Salandra, leader della destra liberale. Come aveva già fatto in passato, Giolitti incoraggiò dunque un'esperienza di governo conservatore con la prospettiva di lasciarla logorare rapidamente e di tornare poi al potere a capo di un ministero orientato a sinistra. Ma la situazione era molto cambiata dopo la guerra di Libia. Un sintomo evidente del nuovo clima fu la cosiddetta "settimana rossa" del giugno 1914. L'uccisione di tre dimostranti durante una manifestazione antimilitarista ad Ancona provocò un'ondata di scioperi in tutto il paese. Nelle Marche e in Romagna la protesta assunse un carattere apertamente insurrezionale: vi furono assalti a edifici pubblici e atti di sabotaggio contro le linee telegrafiche e ferroviarie. Priva di qualsiasi sbocco concreto, non appoggiata dalla Cgl e fronteggiata con decisione dal governo, l'agitazione si esaurì in pochi giorni. L'unico risultato fu quello di rafforzare le tendenze conservatrici in seno alla classe dirigente, di dare spazio ai nazionalisti e di accentuare le fratture all'interno del movimento operaio. Di li a poco la Grande Guerra avrebbe reso irreversibile la crisi del giolittismo e messo in luce la debolezza di una linea politica che aveva avuto

il merito innegabile di favorire la democratizzazione della società, incoraggiando al tempo stesso lo sviluppo economico: questa linea politica, tutta fondata sulla mediazione parlamentare, si rivelava inadeguata a fronteggiare le tensioni sprigionate dalla nascente società di massa.