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L’Orologiaio ROCCO LUIGI GLIRO NOEMI BITONTI auto da fé

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TI L’Orologiaio

ROCCO LUIGI GLIRO

NOEMI BITONTI

La morte non esiste, abbiamo pensato,

e anche se esistesse, ci hanno detto,

va nascosta con il silenzio.

ROCCO LUIGI GLIRO nasce in Lucania, si laurea in Psicologia e si specializza in Ipnosi e Psicoterapia. Ha realizzato la sua passione per la scrittura con i precedenti Il Domandaio, Viaggio verso l’Anima, Il Custode d’Anime.

NOEMI BITONTI, calabrese, si spe-cializza in Psicologia clinica e della salute all’Università di Chieti, attual-mente è specializzanda in Psicotera-pia umanistica bioenergetica.

ISBN 978-1537677705

9 781537 677705

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auto da fé

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TI L’Orologiaio

ROCCO LUIGI GLIRO

NOEMI BITONTI

La morte non esiste, abbiamo pensato,

e anche se esistesse, ci hanno detto,

va nascosta con il silenzio.

ROCCO LUIGI GLIRO nasce in Lucania, si laurea in Psicologia e si specializza in Ipnosi e Psicoterapia. Ha realizzato la sua passione per la scrittura con i precedenti Il Domandaio, Viaggio verso l’Anima, Il Custode d’Anime.

NOEMI BITONTI, calabrese, si spe-cializza in Psicologia clinica e della salute all’Università di Chieti, attual-mente è specializzanda in Psicotera-pia umanistica bioenergetica.

ISBN 978-1537677705

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auto da fé

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Auto da fé… Licenziando queste cronache

ho l’impressione di buttarle nel fuoco e di liberarmene per sempre (E. Montale)

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© Rocco Luigi Gliro e Noemi Bitonti, 2016

© FdBooks, 2016. Edizione 1.1

L’edizione digitale di questo libro è disponibile

su Amazon e altri store online.

L’edizione cartacea è disponibile

su Amazon e in tutte le librerie italiane e straniere.

In copertina:

Elaborazione grafica di due dipinti di Hugo Simberg

Sera di primavera quando il ghiaccio si scioglie, 1897

L'angelo ferito, 1903.

ISBN 978-1537677705

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.

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Rocco Luigi GliroNoemi Bitonti

L’Orologiaio

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CapItolo uNo

Un venerdì di una settimana qualunque

Sei giorni di incessante lavoro, di parole nascoste in abissi remoti e salite in superficie come punte di tanti iceberg.

È una chiara giornata di luglio. Il cielo azzurro vasto e limpido offre spazio a soffici nuvole che si muovono lente. Con un fagotto di carta sotto il braccio, un uomo in un accurato abito nero cammina per la strada che con-duce alla piazza del piccolo paese.

Il grosso campanile della chiesa rintocca per sei volte nell’aria mossa da una piacevole brezza e la luce del sole si rispecchia sul bianco tufo delle vecchie case, quando il passo lento dell’uomo viene interrotto dal colpo di un pallone che finisce tra i suoi piedi. Una figura minuta avvolta in una maglietta sudata e dai limpidi occhi colore del cielo gli piomba improvvisamente addosso.

È così che l’elegante uomo in abito nero sceglie il suo messaggero; sono necessarie poche parole: «Domani, a questa stessa ora, un uomo con una camicia bianca di cotone e un cappello grigio siederà sugli scalini della vec-chia casa, al numero civico 29 – l’uomo sorridendo indica al piccoletto la casa poco lontana dalla piazza – Dovrai consegnargli ciò che io ti darò. Ecco la ricompensa per

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il tuo lavoro». Così dicendo estrae una banconota dalla tasca, stringe il fagotto sotto il braccio e con un gesto delicato e lento strappa il biglietto in due parti offrendo al bambino una sola metà e rimettendo l’altra nella tasca sinistra del pantalone scuro.

«Troverai l’altra metà nella canaletta della casa, al numero civico 29».

Dopodiché l’uomo porge il fagotto al bambinetto, che lo osserva stupito, e senza dire altro sorride e se ne va. Un po’ confuso dalla gente e dalla luce, ora egli avverte una sensazione strana; forse la stessa incertezza, la formicolante trepidazione che provò il primo fra tutti gli uomini, il primo giorno del mondo.

Disposti a gruppetti lungo la piazza e il viale antico, uomini e donne sono intenti a chiacchierare mentre assorbono passivi gli ultimi raggi del sole. Per qualche madre è già ora di richiamare il figlio: «È ora di cena! È ora di tornare a casa!».

Sette rintocchi. L’uomo in abito nero si dissolve, leg-gero, tra le strade.

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CapItolo due

Un sabato di sensazioni

È possibile non pensare a nulla? Voglio dire, è possibile recidere tutte quelle maledette sinapsi che associano un’idea a un’altra, che ti permettono di parlare, astrarre, creare… quelle stesse, spregevoli, che danno vita ai ricordi. Sono meschine traditrici, ti sforzi di non pen-sare, provi a distrarti; ma basta un odore, un movimento, una nuvola dalla forma strana, che tutto quello che hai dentro riaffiora. Altre volte invece non accade alcunché. Mi sento soffocare. Ho voglia di vomitare.

Seduto sugli scalini di una vecchia abitazione abban-donata, fisso il cielo che schiude la scena a un sole ormai pronto ad andare a dormire. Giorno e notte, mattina, pranzo, cena, lavoro e amici, famiglia, libri e racconti, tramonti e albe, immensi cieli stellati.

Tutto trascorreva allo stesso modo, i miei giorni erano scanditi solo dal tempo lento, lentissimo, che incurante andava avanti. Comunque e sempre.

Immagini e suoni sbiaditi. Tre donne, curve dagli anni, sono di ritorno dalla consueta messa vespertina. Sciamano voci e strilli di bambini che giocano a rincor-rersi per le strade, allegri e stanchi, prima di salutarsi e tornare a casa.

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Improvvisamente, ecco dei passi svelti. Un piccoletto mi viene incontro saltellando, in qua e

in là.Si ferma proprio davanti a me, i suoi grandi occhi blu

mi guardano in silenzio; mi sorride e allungando le brac-cia mi porge qualcosa di avvolto in una vecchia carta di giornale impolverata. Allungo incerto le mani e afferro il suo dono.

È reale? mi chiedo. Veloce e impaziente, come solo i bambini sanno essere, il piccoletto non mi offre il tempo di capire o fare domande, afferra veloce qualcosa nella canaletta affianco alla porta e vola leggero dietro il viale come una foglia mossa dal vento, lasciandomi attonito.

Abbasso lo sguardo, fisso la carta di giornale e in preda a una viva curiosità – che pensavo di aver definiti-vamente perduto – guardo cosa avvolge.

Ecco duecento fogli numerati in sequenza. Una grafia elegante, accurata come quella dei vecchi manoscritti pazientemente compilati da grandi uomini e pensatori di tempi illustri. Mi sento emozionato, sfoglio veloce-mente tutte le pagine e ritorno nuovamente alla prima. In alto, scritto in caratteri più grandi e marcati, leggo il titolo: Nel nostro cimitero i cassetti sono quasi tutti pieni. In basso a destra, una firma: Il CuStode.

Sfoglio di nuovo, ancora incredulo, le duecento pagine; leggo velocemente qualche riga, sposto rapido gli occhi da un foglio all’altro fino a che, giunto alla fine del manoscritto, il mio sguardo si inchioda: le prime due parole delle ultime frasi impongono alla mia curiosità di iniziare a leggere il fascicolo proprio dalla fine.

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Gentile signore,

immagino sia sorpreso da tutto questo. Se ha già letto l’intero manoscritto probabilmente si starà chiedendo chi io sia, perché le ho fatto avere queste pagine e soprattutto di cosa si tratti.

Se invece non lo ha ancora letto, la stessa curiosità che l’ha indotta ad approcciarsi questa storia partendo dalla fine la condurrà adesso, con maggiore intensità, a farsi delle domande e a formulare ipotesi.

Ecco, vede, io la conosco molto bene; molto più di quanto lei immagini. Conosco la sua essenza e il suo modo di sentire e sono certo che saprà comprendere il mio messaggio e sarà in grado di trasmetterlo proprio come se provenisse direttamente da me.

La mia è una vita di storie senza tempo, risvegli improvvisi, lunghe passeggiate tra la fioca luce dei lumi nei viali del cimitero del quale sono il custode.

Ho percepito un’esplosione di luce, un’illuminazione improvvisa. Di colpo, una tempesta di emozioni mi ha avvolto come un’onda impetuosa, mi ha stravolto e mi ha costretto, come fossi in delirio, a scrivere quanto si è apprestato o si appresterà a leggere.

Tutto è diventato chiaro e la mia esperienza si è tradotta in parole dotate di senso, almeno per me, che hanno iniziato ad andare per la loro strada staccandosi completamente dall’umile scrivano che sono. Le parole si sono mischiate insieme formando frasi che a loro volta hanno ricostruito storie, hanno riportato in vita narrazioni sepolte, strappate alla memoria, concesse miseramente alla colpa e all’oblio.

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Attenzione! Ciò che leggerà potrà più volte inquietarla, bloccarle il respiro nel petto, la testa sovente potrà costringerla a sfogliare velocemente le pagine, accelerare il passo e andare oltre. Io le suggerisco il contrario: si lasci andare, si lasci trasportare da ciò che sente e resti lì, anche se le sembra tutto troppo profondo e scuro… resti lì. Provi a pensare che tutto ciò che legge e sente è già accaduto o sta accadendo realmente, anche se potrà sembrarle assurdo o inverosimile, triste o glorioso… provi a sentirsi.

Le giuro che ciò che ha letto, o leggerà, è il fedele resoconto di tutto quello che ho visto con gli occhi e sentito nel profondo della mia anima; tutto ciò che è successo e succede nel cimitero del quale io sono il custode.

Ho deciso di donare a lei quanto scritto. Ho scelto lei perché penso possa essere in grado di comprendere prima e trasmettere poi il contenuto pieno del manoscritto, rimanendo fedele alla sua coscienza di cercatore della verità.

Non mi dilungo oltre su questo argomento, spero possa realizzare se non in pieno almeno in parte il desiderio di un vecchio Custode di Anime.

Le affido perciò quello che considero il mio testamento sulla vita e sulla morte.

La morte e la vita non sono ciò che noi crediamo.Eternamente grato,

Il CuStode.

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Sollevo gli occhi dal manoscritto. Il sole è quasi sceso all’orizzonte. Sono sconvolto, confuso, una maratona di idee sfila nella mia testa. Guardo l’orologio, le lancette segnano le sette.

Mi sollevo dagli scalini, pulisco con la mano il tessuto impolverato della mia camicia bianca, sistemo meglio il cappello grigio in testa e, frettoloso, mi avvio verso casa.

Cammino veloce guardandomi in giro senza in realtà osservare niente: le macchine e le persone che mi passano accanto; le vetrine dei negozi; quattro anziani che chiac-chierano seduti all’ombra di una panchina… scendo e salgo dai marciapiedi, cammino sovrappensiero in mezzo alla strada. Penso al Custode. Chi sarà? Mi conosce meglio di quanto io conosca me stesso! Figurati, che assurdità! Eppure la sua scrittura ha un tratto familiare, mi ricorda qualcosa, ma un vuoto irrisolvibile si impossessa della mia mente e mi impedisce di riflettere lucidamente.

Un custode del cimitero… il custode del cimitero non so neanche chi sia! Non so nemmeno se il cimitero ha un custode! Improvvisamente un caotico fluire di imma-gini, rapide come lampi, cominciano a correre: alti e verdi cipressi; pietre bianche senza parole; lumini rossi e rossi ciottoli di sangue; scarpe nere; una data e un nome senza volto. Il senso di vertigine adesso è dirompente. Fermo il passo, tutto intorno gira veloce, il cuore inizia a battere forte e più lo sento e più lui corre, sembra voglia scoppiare. Resto immobile. Provo a respirare.

Il clacson della macchina alle mie spalle mi sbatte a terra. Mi sposto con un salto dal centro della strada, chiedo scusa alzando la mano e poi la poggio aperta sopra al petto.

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«Calmati!».Faccio un altro respiro e piano e timoroso come un

soldato di ritorno dalla guerra mi dissolvo nuovamente nei miei pensieri.

Finalmente arrivo davanti casa, cerco le chiavi nella tasca dei pantaloni tentando di non far cadere il mano-scritto che tengo stretto sotto il braccio. Apro la porta e in un attimo sono dentro. Respiro. Poso le chiavi sul mobile all’ingresso, chiudo la porta alle mie spalle e finalmente mi lascio cadere sul divano.

Continuo a pensare incessantemente. Rifletto sul titolo del manoscritto, il cimitero, il Custode, su quelle immagini che ho visto. Sulla morte.

Le mie braccia vengono svegliate da un brivido: non sono in grado di pensare alla morte! Non ne accetto l’e-sistenza, ha per me la consistenza del sogno e mi limito a lasciarle questo vago senso offuscato. Non mi trovo a mio agio al suo cospetto. Puoi tentare di affrontare la morte come meglio credi: puoi fronteggiarla con disperazione e strazio, trasformarti e diventare altro, sfuggirle, rincorrerla e sfidarla in una lotta al più forte, puoi sbeffeggiarla, implorarla sofferente, puoi maledirla o bestemmiarla… a ogni modo, vincerà sempre lei.

Ricordo bene l’unica volta che sono riuscito ad ascol-tarla. Ora che ci penso ha qualcosa di similare con quello che oggi mi è accaduto. Un amico, in un tempo talmente lontano che ora nemmeno più mi appartiene, durante una delle nostre cene mi offrì da leggere una poesia di Wystan Hugh Auden il cui titolo è Funeral Blues. La declamo, piano, sprofondando sul divano.

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Fermate tutti gli orologi, tagliate i fili del telefono e regalate un osso succulento al cane affinché non abbai. Faccia silenzio il pianoforte e tacciano i risonanti tamburi. Che avanzi la bara, che vengano gli amici dolenti. Lasciate che gli aerei volteggino nel cielo e scrivano l’odioso messaggio: lui è morto. Guarnite di crespo il collo bianco dei piccioni, fate che il vigile urbano indossi lunghi guanti neri.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, era l’Oriente e l’Occidente, la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica, era il mezzodì, la mia mezzanotte, la mia musica, le mie parole; credevo che l’amore potesse durare per sempre: avevo torto.

Offuscate tutte le stelle perché non le vuole più nessuno, buttate via la luna e tirate giù il sole, svuotate gli oceani e abbattete gli alberi, perché da questo momento niente servirà più a niente.

Niente accade per puro caso.Cerco di afferrare qualcosa che sento di avere cat-

turato, delle sensazioni strane che ho avvertito prima che il clacson della macchina mi riportasse al reale, ma niente.

Sono sparite.In un attimo tutto è già perso.

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Apro il manoscritto alla prima pagina e inizio a leggere.

La prima volta che sono stato in un cimitero.

Si dice che il trascorrere del tempo renda l’uomo più capace di destreggiasi nei suoi ricordi, di rincorrerli, raccontarli come se si accarezzassero dei bambinetti da proteggere e accudire. Sono voli del tempo che non aspetta, che ti ricorda che c’è un mondo intero che hai vissuto e non tornerà più. Devi saper reagire al tempo, essere suo complice, non cercare di sfidarlo perché vincerà sempre lui.

Era un bel pomeriggio di un agosto cocente. Le lancette del mio orologio preferito erano fisse sulle quattro. Il cielo era azzurro con poche nuvole e il sole picchiava forte sulle teste ricoperte da veli neri ricamati. A passi lenti e sordi, in una macabra marcia, le persone seguivano la bara come spettri nel loro sacro lutto. Ricordo mia nonna, e noi, io che avevo otto anni, mio padre e mia madre. Non ero triste, non piangevo, non sono riuscito a commuovermi neanche quando lo hanno chiuso lì dentro, in uno di quei cassetti così piccoli.

Sentivo solo il forte odore dei fiori e dell’acqua ormai ristagnante. Guardavo gli altri piangere e chiamare il nome del defunto. Volevo dir loro di non farlo, di non lacrimare. Una farfalla sulla spalla di mia madre aveva catturato la mia attenzione. E se fosse stato lui? Se una volta che si muore si rinasce in qualcos’altro? Se questo cassettino fosse solo un posto dove tornare dopo tanti

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giri in lungo e in largo? È tutto finito, guardo la sua foto. Il suo volto distinto e generoso mi sorride.

Dopo di allora ho visto morire tante altre persone ma, diversamente da quel giorno, ho imparato – forse sbagliando – a piangere dinnanzi al dolore.

Ho compreso, con il tempo, che piangere non è un errore. Non esiste attimo che non abbia un gran valore e non vi è nulla da aspettare o da vivere con terrore.

Non riesco a leggere. Mi fermo, sento lo stomaco bruciare. Abbandono il manoscritto sul tavolino in legno del

soggiorno e, con il passo frettoloso di chi è inseguito, cambio stanza. Entro in cucina, metto dell’acqua nella teiera, scelgo il tè e accendo il gas. Prendo la borsa di lavoro, che è al solito posto, la apro sul tavolo e prendo i due orologi che lunedì dovrò consegnare. Quanta fretta nell’avere in tempo un orologio, mi chiedo.

L’acqua nella teiera inizia a bollire. Lascio gli orologi, mi alzo dalla sedia, spengo il gas e verso il tè caldo nella prima tazza che ho sottomano.

Ritorno al lavoro. Pazientemente ripeto azioni, svito e avvito ingra-

naggi, monto lancette, cambio pezzi. Tic-tac tic-tac: funzionano! Sistemo ordinatamente tutti i miei attrezzi e passo

uno straccio umido sul tavolo. Un’ombra, veloce come un lampo, mi passa dietro.

Sobbalzo e poi mi riprendo. Mi volto piano, mi guardo intorno: non c’è nulla e, se prima c’era qualcosa, ora è già sparita. Metto la borsa al suo posto.

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Almeno per oggi è finita, finalmente è ora di chiu-dere gli occhi. Per me la notte non arriva mai troppo tardi.

Nel suo abito scuro va tra alti cipressi e fiochi lumi, non vi è in lui traccia di timore, sorride alla morte e, attento, ascolta storie.

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CapItolo tre

La domenica prigioniera

Le finestre aperte fanno entrare le chiassose voci delle persone che per le strade si apprestano a vivere. Sono le nove e fa già molto caldo.

La sveglia inizia a suonare, allungo la mano verso il comodino, tastando come un cieco per poterla spegnere: la spengo, cade. Non mi interessa, continuo a girarmi e rigirarmi nel letto. Decido di alzarmi, ho la testa che scoppia e sento le gambe indolenzite.

Lei è già uscita, corsa via. La penso ormai con la stessa pietà con la quale ci si figura un bambino che muore di fame e di sete. È solo l’ombra stanca di se stessa.

Così diversa da un tempo. Diversi i suoi occhi curiosi, il viso armonioso, le mani non più calde e pronte ad avvolgermi. «Non sei più tu», mi dice. Non mente, non credo ne sia capace, ma non capisco. Io, in lotta con vuoti e sensazioni che mi divorano l’anima; lei, vittima sacrificale dei suoi silenzi e i suoi se.

Squilla il telefono. Rispondo. È lei: «Ci sono dei tramezzini con la marmellata, li ho messi in frigo. Ho pensato volessi fare colazione».

Ok le dico, e metto giù il telefono.

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Capita spesso di svegliarmi la domenica mattina e avvertire la stessa tristezza che segue al sabato di quel famoso villaggio leopardiano. Ma questa domenica mat-tina è diversa.

Mi sento un carico di sensazioni che non so decifrare.L’immagine di un viale di cipressi, veloce come un

attimo, mi sfiora la mente.Chiudo rapido gli occhi, scuoto un poco la testa

e prendo la maglietta verde poggiata sulla poltrona vicino al letto; mi infilo i pantaloni e le scarpe e vado in soggiorno.

Eccolo lì!Afferro il manoscritto, prendo le chiavi, indosso il

cappello grigio ed esco.Guardo l’orologio al mio polso: sono le undici. Un

buon odore di pane mi invade le narici. Faccio circa cento metri, cammino sempre sul mar-

ciapiede a destra della strada e ricambio al saluto degli altri cercando di non incontrare il loro sguardo; a passi lunghi, e spesso con gli occhi bassi, arrivo alla piazza vicino al grande campanile.

Mi siedo su una panchina all’ombra di un albero pro-fumato e osservo il manoscritto tra le mie mani. Lo vorrei lasciare su questa panchina e andare via. Lo poggio invece sul posto vuoto alla mia destra. Qualcosa mi dice di continuare, nonostante questa strana sensazione che mi turba e mi frena.

Lo riprendo veloce, tiro un saporito sospiro e apro il manoscritto ricominciando la lettura da dove l’avevo lasciata.

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Tutto ebbe inizio una notte di non molto tempo fa. Mi svegliai di soprassalto, mi alzai veloce dal letto come se un ago lungo e spesso mi avesse punto la schiena. Guardai se Clara dormiva ancora. Piano, per non fare rumore e interrompere il suo sonno, sgattaiolai dalla camera da letto e in punta di piedi come un equilibrista mi chiusi veloce dentro il bagno. Non era un incubo, eppure mi spaventò: non era mai capitato prima di allora che il nonno mi venisse in sogno.

I fiori, ormai morti nei vasi al lato della foto, coprivano il suo gentile e distinto viso. Mi sentii sprofondare. Quando ero stato l’ultima volta da lui? Non lo ricordavo più. Non capivo, ma dove ero stato?

Feci il prima possibile e uscii di casa.Dodici rintocchi. Il rumoroso cancello arrugginito apriva la strada al

doppio e lungo viale di alti e folti alberi; il verso cupo degli uccelli notturni spezzava il silenzio irreale.

Nel buio della notte i lumi disposti sulle lapidi delle tante tombe creavano ombre nere sull’erba poco curata del cimitero. Quando misi il primo piede oltre l’arrugginito varco l’irrequietezza che avvolgeva il mio animo scomparve improvvisamente, come il coniglio nel cappello del bravo mago. Camminai tranquillo tra quei tanti lumi, mi guardai intorno, osservai i volti di quella gente, sfiorai le loro tombe, tutti quei cassetti che come case accoglienti offrono riparo alle anime dormienti.

Non c’è da farsi ingannare dall’umana ragione che impone giudizi umani a ciò che umano più non è. Il minuto spazio diventa cielo aperto per un’anima che non ha leggi

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di spazio e tempo, che è libera di vagare, alzarsi dal corpo che dorme per disperdersi come aria tra le piccole fessure, raggiungere ogni cosa perché può arrivare ovunque.

Non è facile però per le anime intrappolate abbandonare l’offuscante ragione per diventare come bimbi incoscienti e primitivi, porte aperte a qualsiasi visione. Potremmo scoprire che ogni anima è lì presente: in una stanza; quando leggiamo il giornale o cuciniamo la cena; quando corriamo al lavoro o passeggiamo lentamente. Dovremmo saperle ascoltare, imparare prima o poi…

Senza che me ne accorgessi mi ritrovai alla fine di un viale. Tre scalini e poi tre file di cassetti gli uni accanto agli altri. Continuai per il viale centrale. La mia figura scura si muoveva a passi certi e lenti, mentre gli occhi si spostavano con paziente attenzione su nomi, date e volti. Quasi alla fine di questa stretta via mi fermai sicuro e guardai verso il cassettino centrale alla mia destra: la riconobbi subito; una lapide in marmo nero arricchita da due lumi color argento e da una foto dalla bella cornice tutta affusolata. Allungai la mano e sfiorai la foto, tolsi i fiori ormai secchi, mormorai qualcosa e decisi che sarei tornato. Poi sfiorai nuovamente la foto e mi incamminai verso l’uscita. Ero concentrato ad ascoltare il ticchettio del mio orologio quando, di colpo, un soffio forte alle mie spalle mi fece raggelare.

Mi voltai lentamente, la figura di un uomo ancora giovane, in un bel gessato grigio, mi si presentò dinnanzi. Improvvisamente il cuore iniziò a cavalcare e il respiro si bloccò in gola, lo spavento mi fece indietreggiare.

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L’uomo non si mosse, rimase immobile, con le braccia a penzoloni e il capo chino. Quando alzò lo sguardo il mio timore svanì e senza riflettere mi avvicinai.

Inizia così la prima storia che ascoltai in quel cimitero, popolato da cassetti quasi tutti pieni.

Non poteva aspettare il giorno seguente per rivederla. L’immagine di lei che piangeva non lasciava a lui alcuna possibilità di riposo, nessuna requie. E allora decise di infrangere l’unica regola, uscire dal cimitero dopo il tramonto e raggiungerla nel loro letto, dove era un piacere vivo stringerla, accarezzarla ancora una volta.

Avrebbe voluto che lo vedesse ancora lì, nella loro casa costruita con tanti sacrifici.

Avrebbe voluto che capisse perché aveva dovuto lasciarla così improvvisamente e senza una ragionevole spiegazione.

Così si sdraiò vicino a lei e le sfiorò i lunghi capelli bruni; osservò, sotto le palpebre chiuse, gli occhi grandi e neri muoversi veloci. Erano quasi due corpi, vicini, quasi si toccavano. Lento portò la bocca all’orecchio di lei e la chiamò. «Sono qui», le disse dolcemente.

Ma quello che gli fu offerto fu amaro e doloroso, solo il tempo di un battito di ciglia, il tempo di uno sguardo ancora assonnato e incredulo. Poi di nuovo gli occhi chiusi e infine un’anima sola.

Rimasi in silenzio ad ascoltare come fosse la cosa più naturale da fare in quel momento, ascoltai

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quell’anima con trasporto vero e resto ferito, senza difese, dalle sue tristi parole.

Cessata la tremante voce, scomparve d’improvviso così com’era arrivato, in una folata di vento gelido.

Chiudo il manoscritto lasciando il dito tra le pagine come un segnalibro temporaneo, che presto si dissolverà tra l’inchiostro senza lasciare traccia alcuna.

Alzando gli occhi mi soffermo sulla fontana in ferro al centro della piazza. Guardo l’acqua scorrere incessante-mente, un movimento circolare senza fine. Ancora una volta mi sento invadere da una tempesta di sensazioni che non riesco ad afferrare, controllare, comprendere; ho un nodo allo stomaco, la testa si è fatta leggera mentre nella pancia sembra che io abbia un grosso sacco pieno, duro e gelido come il marmo.

Ho bisogno di andare via, di abbandonare tutto, adesso! La stanchezza che avverto nelle gambe mi impone

di camminare lentamente, passare tra la gente perce-pendo il tempo in modo pigro; mi induce a procedere senza alcuna fretta, mi costringe allo scoperto, agli occhi curiosi della gente che ti osserva sentenziante come un oracolo sapiente.

Arrivato a casa chiamo più volte il suo nome ma non ricevo risposta, si sente solo l’eco della mia voce implo-rante. Frugo velocemente nel cassetto del mobile in cucina – quello bianco in arte povera – cerco un foglio, lo trovo, prendo la penna legata al calendario impolve-rato del 2000 staccandola con uno strappo secco, e inizio a scrivere.

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Voglio permettermi del tempo, del tempo per riflettere e forse capire. Per fare questo devo andare via da tutto, anche da te. So che comprenderai, come sempre.

Piego il foglio in due e lo lascio sul suo comodino di fianco al letto, prendo una piccola valigia in pelle mar-rone dall’armadio, ci metto dentro – veloce – qualche indumento, afferro la mia borsa da lavoro, poso al suo interno il manoscritto e alle due in punto – grondo di sudore – sono davanti alla mia bottega.

Questo è lo spazio che più sento mio. È il recipiente delle azioni che si ripetono e riempiono spazi. È il porto a cui faccio ogni volta ritorno quando mi perdo. È il palcoscenico delle mie sensazioni. È prigione e spazio immenso e incontenibile al tempo stesso.

Sono indeciso se chiudere la porta di legno interna o se lasciare entrare dalla vetrata la luce del sole. Lascio aperto, entrerà un po’ di sole, mi farà compagnia. Mi siedo al tavolo di legno, poggio la borsa e trascorro diverse ore tra lancette che non vanno avanti e batterie da caricare; tra lo sbiadito indaco delle pareti e il ticchet-tio dei tanti orologi sugli scaffali. Solo adesso mi rendo conto della montagna di lavoro che ho accumulato e che dovrò scalare. Pazienza!

Quando termino appena una piccola parte della cata-sta il sole è quasi del tutto andato via; dunque conservo nel cassetto il lavoro fatto e chiudo il portone interno. Una piacevole e tenue luce entra dalla finestra sul lato sinistro della stanza. Amo particolarmente quella fine-stra, la sua visuale è il marciapiede e mi permette di

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osservare le tante scarpe diverse che passano, mezze gambe che si muovono a passi lenti, piedi che procedono stanchi e altri che si inseguono contenti. Si può capire molto dal modo di incedere delle persone, eppure non si guarda mai in basso per osservare.

Amo quel punto d’osservazione perché mi rende invi-sibile; una finestra su un mondo diverso, ignaro del suo osservatore circoscritto ma imparziale.

Prendo il manoscritto all’interno della borsa, mi stendo sul divano e riprendo ancora una volta da dove avevo lasciato.

Ricordo che quella notte camminai ancora un poco tra i tanti cassetti cercando di trovare un senso a ciò che avevo visto e ascoltato.

Immagino che questo possa sembrare l’atto di un uomo che ha perso il lume della ragione.

Lei, per esempio, pensa che avrei dovuto spaventarmi alla vista di un’anima? Perché di quello si è trattato. Ciò che rimane di noi, senza il corpo, si chiama anima o sbaglio?

Ma cosa può fare di male un’anima e perché dovrebbe? No, non può fare alcun male un’anima; può osservare, in alcuni casi può riuscire a sfiorarti, può essere presente e farsi ascoltare. Ma nulla di male, non ne ha motivo; nessuno, te lo assicuro. Del Regno dei Vivi, tutto ciò che rimane dopo la morte è solo ciò che l’anima può sentire. Solo l’anima, non il corpo: in questo luogo senza tempo anche lo spazio diviene superfluo.

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Avrei forse dovuto soffermarmi a pensare a quei cassetti, stretti e piccoli, che contengono corpi uno accanto all’altro, uno sopra l’altro; sarebbe stato normale provare un senso di sconforto per ogni mio caro chiuso lì dentro, per ogni volta in cui ho pensato che, senza rimedio, ci sarà un tempo anche per me. A mio avviso far di queste congetture è concedersi senza salvezza all’avido boia.

Mi dia retta, mio caro: accettare, ascoltare e accogliere ciò che è inevitabile, ciò che è nella natura semplice delle cose, è la scelta migliore.

Ritornando a noi, le stavo raccontando che quella notte mi aggirai ancora tra i cassetti del cimitero e ascoltai, nuovamente, altre voci. Mi venne spiegato che le anime non possono trascorrere la notte fuori dal cimitero: il tramonto è il segnale del rientro. Ogni anima ha un suo cassetto e abbraccia con calore avvolgente chi, in quel luogo, si ritrova non-vivo per la prima volta. Non si faccia ingannare dallo spazio angusto, ogni cassetto è pronto ad accogliere una moltitudine di anime e più.

Una fra tutte le anime incontrate quella stessa notte mi colpì particolarmente. Un giovanotto dai capelli neri scompigliati se ne stava seduto ai piedi di una vecchia statua in pietra della Vergine Maria che, dolente e affranta, reggeva tra le braccia il corpo di un morente Cristo.

Quando incontri un’anima che ha combattuto e perso una lacerante guerra la riconosci subito. Se ne stava lì, con la testa china e gli occhi sulle scarpe, si reggeva sulle sottili braccia segnate da impazienti vene e si strofinava le

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mani l’una con l’altra come se volesse riscaldarle. Avvertì la mia presenza e sollevò lento il volto scavato e pallido: due occhi grandi e spenti incorniciati da profondi solchi scuri mi fissarono, mentre il corpo – esile come un tronco ormai secco – continuò a cercare riparo e calore ripiegandosi su se stesso.

Quando fui abbastanza vicino, senza pronunciare parola, mi sedetti al suo fianco e lo ascoltai. Mi raccontò della speranza che ogni mattina lo accompagna nel tragitto fino a quella che era stata la sua casa; della certezza che quello sarebbe stato il tempo, il giorno e l’attimo giusto per farle capire che quella sofferenza non era necessaria perché non era colpevole di alcun peccato, non era la causa di alcun male.

Chiudo gli occhi un poco stanchi e mi abbandono. Sento scorrere il sangue dalla testa, giù fino ai piedi, mi lascio andare e mi riscaldo. Una canzonetta lontana, leggera come un soffio, risuona nella stanza.

Della gelida e sola morte una ragione lei mai si fece. All’anima dormiente resta ancora solo il freddo, prigioniera in catene alle altrui colpe e alle altrui pene.

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CapItolo quattro

Notte senza sonno

L’orologio del campanile rintocca per una sola volta nell’assonnato silenzio, tra le vie del piccolo paese. Da una piccola finestra un individuo in abito scuro osserva un uomo nel proprio sonno.

Lentamente poi s’incammina verso il cimitero, anche quella notte. come succedeva ormai da diverso tempo.

Come ogni notte, appena giunto dinnanzi all’ingresso a due fornici chiuse da cancelli in ferro decorati, l’uomo vestito di nero si riempie le narici di un profondo respiro prima di inoltrarsi tra il lungo e imponente viale di alti e verdi cipressi.

Durante il giorno rimane chiuso chissà dove e quando la notte arriva eccolo spuntare di nuovo, leggero e sereno nel suo passo lento.

È la minaccia più facile e frequente rivolta alle pic-cole creature: «Fa il bravo – si dice loro – altrimenti verrà l’uomo nero per portarti via!». Ma di malva-gio quest’uomo non ha niente, è piuttosto un attento osservatore e un buon ascoltatore. Non teme la morte, normale stadio di un processo più elevato di cui poco possiamo sapere.

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Quale intensa dolcezza ha per lui la nera notte: cam-minare lungo le tante tombe, soffermarsi a ogni cassetto e ascoltare sempre – come fosse la prima volta – le tante storie senza tempo di quella miriade di anime.

Non è facile incontrare un’anima durante la notte. Aldilà di ciò che il senso comune crede o vuole imma-ginare, i nostri morti non vagano nelle tenebre e non vogliono recare terrore a coloro che sono ancora in vita. Queste belle anime la notte riposano e, salvo casi parti-colari, rimangono placide nei loro cassetti. Se incontri un’anima notturna. è di certo un’anima triste.

Così, anche quella notte, lo trovò là, ancora ai piedi della dolorosa statua. Ancora una volta l’uomo in abito scuro ascoltò la sua voce.

Un ragazzo muore nell’età che più di tutte è segnata dal forte senso di poter essere immortali. Un ragazzo muore di un male che solo i viventi sanno creare.

Ogni mattina, leggero come l’anima sa essere, egli esce dal suo cassetto e dal cimitero per farvi poi rientro la sera, pesante e sconfitto ogni volta: ha una madre da ritrovare e rendere libera dal tempo che non ritorna, dal passato che non può cambiare.

Quella notte però lo sguardo del ragazzo è diverso: l’anima, finalmente leggera, narra all’uomo vestito di nero di come quella stessa sera abbia aspettato che la madre rientrasse in casa.

«Mi sono fatto trovare nel punto esatto in cui la morte si presentò – fiera e senza errore – a prendere il mio corpo esile e consumato che, sentendola arrivare, ha ricercato