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Ringraziamo Silvana Bertoncini, insegnante presso la scuola Media “Dante Alighieri” diPiacenza, per la revisione attenta del testo e i suggerimenti puntuali su come adeguare meglioil nostro prodotto alle esigenze degli insegnanti (suggerimenti di cui cercheremo di tener contoper la stesura del prossimo volume, che speriamo più operativo). Siamo molto grate anche aRosanna Zanotti, laureata in psicologia che è stata disponibile, ben oltre il tempo previsto dalsuo tirocinio, ad aiutarci nella redazione del testo, fornendo prezioso supporto e consigli.Infine un ringraziamento particolare va al nostro Responsabile, Dr Giuliano Limonta, cheoltre a essere il nostro referente è stato in questi anni anche uno dei nostri più importantiformatori, riuscendo a far nascere in noi il desiderio di approfondire, grazie ai numerosi sti-moli che ci ha proposto, alcune tematiche del nostro lavoro.

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ARACNE

Siediti & stai attento! Il disturbo di attenzione con iperattività tra

i comportamenti–problema nella scuola

Come orientarsi tra i disturbi psicologicipiù diffusi nella popolazione

scolastica in età evolutiva

Carmen MolinariAntonella Leonetti

prefazione diGiorgio Vacca

Presidente del Club Lion “Il Farnese” di Piacenza Medico Specialista in Neurologia e Psicoterapia

Lions Club Piacenza “Il Farnese"The International Association of Lions Club Distretto

108 IB/3 Italy

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con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: marzo 2006

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Allegati 5

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Dedichiamo questo lavoro a tutti i bambini con problemi di comportamento, di attenzione e di concentrazione augurando loroche non perdano mai la fiducia in se stessi e che con il lavoro e l’applicazione, come è accaduto a tanti grandi personaggi del passato, riescano a trasformare un problema in una risorsa.

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Bibliografia 7

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Indice Prefazione 9 Premessa 12 1. Sindrome da ADHD: breve rassegna storica 15

1.1 Instabilità psicomotoria 15 1.2 Sindrome ipercinetica 16 1.3 Prime applicazioni farmacologiche 17 1.4 Posizioni attuali sul problema 18

2. Eziologia 21

2.1 ADHD: le difficoltà di una diagnosi 23 2.2 Relazione tra ADHD e quadri psicopatologici 23 2.3 Relazione tra ADHD e depressione 24 2.4 Sindrome da ADHD e i problemi della condotta 32 2.5 Note sul problema della diagnosi, della

gravità e della comorbidità 33 2.6 Comportamenti da ADHD e normale

vivacità del bambino 35 3. Comorbidità significative in ambito scolastico 41

3.1 Età prescolare 41 3.2 Età scolare 41

4. Prognosi 43 5. Trattamento clinico 45 6. Funzionamento cognitivo nel bambino con ADHD 59 7. Apprendimento scolastico 61

7.1 Strategie educative e approccio didattico 63 8. Bambino iperattivo tra scuola e famiglia 69

8.1 Atteggiamenti educativi: dalla posizione “ingenua” alle strategie condivise 69

8.2 Barriere emotive e cognitive nel rapporto educativo con il bambino con ADHD (ovvero mille motivi per non dire “Siediti e stai attento!”) 71

8.3 Interazioni tra motivazione e attenzione 74

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8 Indice

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8.4 Difficoltà motivazionali nel bambino con ADHD 76 8.5 Atteggiamenti educativi dei genitori: comportamenti

da adottare e comportamenti da evitare 78 8.6 Atteggiamenti educativi degli insegnanti:

comportamenti da adottare e comportamenti da evitare 79

9. Aspetti metacognitivi nella risoluzione

dei problemi: strategie di pianificazione da insegnare ai ragazzi 83

10. La relazione dell’insegnante con il bambino

con ADHD 85 10.1 Problemi istituzionali 85

11. Due casi clinici 87

11.1 Il caso di Giovanni 87 11.2 Il caso di Marco 99

Conclusioni 103 Bibliografia 105 Allegati 107

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Bibliografia 9

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Prefazione Nell’anno lionistico 2004-2005 la commissione distrettuale Lions for Children ha promosso e pianificato innumerevoli iniziative a favore dei bambini e giovani adolescenti ; in stretta adesione ad un nuovo programma internazionale ed in qualità di presidente del club Lions il Farnese di Piacenza, oltre che come neurologo e psicoterapeuta, ho ritenuto opportuno lasciare una significativa testimonianza di impegno e sensibilità a favore dei bambini attraverso la realizzazione del volume “Siediti & stai attento!”, curato dalle psicologhe del settore materno-infantile e psicoanaliste A. Leonetti e C. Molinari. Mi sembra doveroso ricordare che i Lions, stupenda organizzazione mondiale fondata sui servizi alle Comunità, si trovano in una posizione ideale per contribuire al miglioramento della qualità di vita di chi vive nel disagio e nella sofferenza, attraverso iniziative sia locali che sovralocali. Le opere realizzate attraverso le nostre attività di servizio, sostenute da spirito autenticamente umanitario e da elevato impegno morale, sono sicuramente l’espressione più vera del significato di essere Lion. Orgoglioso di osservare il motto lionistico “I serve” e nell’intento di lasciare una testimonianza pregna di valori, nell’ambito delle iniziative dedicate nell’anno 2004-2005, dalla nostra Associazione alle tematiche del disagio giovanile, come peraltro già accennato all’inizio della prefazione, di particolare interesse è stata la realizzazione di un’opera scientifica curata dalle dott.sse Antonella Leonetti e Carmen Molinari, psicologhe e psicoterapeute, specialiste del settore materno infantile. Il volume “Siediti & stai attento!”, frutto di intenso ed attento lavoro, offre al corpo docente dei primi livelli dell’istruzione scolastica, oltre che alla Comunità Scientifica, l’opportunità di decodificare ed inquadrare il disturbo dell’apprendimento con

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10 Prefazione

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iperattività nell’infanzia e nella prima adolescenza, fino ad oggi misconosciuto od erroneamente interpretato semplicemente come devianza della condotta. L’opportunità di decodifica e di lettura autentica di tale disturbo, da parte della frequenza scolastica, contribuisce alla realizzazione dei programmi internazionali LIONS FOR CHILDRENS promossi nell’anno ’04-’05 rappresentando un utile strumento di prevenzione e contenimento del disagio giovanile. Il lavoro delle due autrici è altresì un investimento sulle responsabilità educative degli insegnanti al fine di riconoscere ed attivare un ruolo protettivo per garantire un’evoluzione del bambino il più possibile adeguata sul piano cognitivo, emotivo e sociale. Tra le tante problematiche che compongono il disagio psicosociale, si è ritenuto opportuno concentrare l’attenzione sui disturbi del comportamento dei bambini e adolescenti, tenuto conto che sia in generale un disagio sottostimato e di cui nel complesso esiste una scarsa cultura: famiglia e scuola si trovano spesso a sperimentare impotenza di fronte a questo tipo di disturbi anche per la difficoltà primaria a distinguerli sia da altri tipi di “disagio” (ansia e depressione specialmente) sia da altri comportamenti di vivacità o di maleducazione. E’ palese che la posizione cambia o dovrebbe cambiare, quando la lettura del comportamento è data in termini di patologia o comunque di modalità poco controllabile dal bambino rispetto a quando la lettura è invece basata sull’attribuire un comportamento intenzionale, controllabile e spesso provocatorio. L’altra componente del disagio che si vuole prevenire è quella di ridurre o limitare la sensazione di isolamento, per rifiuto da parte dei coetanei, dei bambini con manifeste difficoltà comportamentali; secondariamente si pone il problema di come un disturbo di questo genere non riconosciuto e non trattato possa avere una grave ricaduta in termini di disagio o di sviluppo di ulteriori disturbi. Si pensi per esempio, ai vissuti in termini di disistima a cui i bambini e/o adolescenti sono sottoposti a causa dell’insuccesso scolastico e alle condotte comportamentali a rischio (esempio la tossicodipendenza) in cui più facilmente possono incorrere

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Prefazione 11

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adolescenti nei quali l’ADHD non è stata adeguatamente affrontata. La prima parte di questo lavoro riguarda un inquadramento generale della sindrome anche a livello storico, le difficoltà della diagnosi di ADHD dovuta alle frequenti associazioni con altri disturbi che possono simularla e l’importanza di coinvolgere soprattutto gli insegnanti fin dalle fasi dell’osservazione. Si richiede all’insegnante un impegno iniziale ad entrare nel linguaggio tecnico al fine di ritrovare codici comuni con gli operatori di settore; questa richiesta di spendersi sulla complessità della parte iniziale del testo è diretta a rendere più specifico e quindi più produttivo il contributo che il docente stesso può offrire nel discriminare precocemente una problematica che risulta così sfumata. La diagnosi di ADHD e, ancora di più, il trattamento non possono per loro natura scaturire dal solo livello ambulatoriale: occorre che tecnici e docenti avviino un confronto precoce e continuativo nel tempo. L’invito all’insegnante è quindi ad usare la lettura della prima parte del lavoro come pretesto per ampliare il bagaglio delle proprie conoscenze neuropsicologiche. Tali conoscenze infatti stanno alla base di una buona comprensione della maggior parte dei disturbi di apprendimento e di comportamento, disturbi le cui manifestazioni più eclatanti sono evidenti specialmente a scuola e che, in quanto tali, diventano uno strumento indispensabile per l’insegnante che intende trovare nuovi significati al proprio lavoro con i bambini problematici. Questo senza nulla togliere all’importanza delle valenze psicopedagogiche la cui centralità risiede però, più ancora che nell’ambito conoscitivo, nell’individuazione delle strategie operative: entriamo così nella seconda parte del lavoro che presenta una materia familiare agli insegnanti introducendo le strategie educative e tentando quindi di individuare modalità funzionali, nel rapporto con il bambino con ADHD, che superino quelle posizioni spontaneistiche ed “ingenue” che spesso conducono a posizioni di insoddisfazione, di stress ed infine di impotenza. L’introduzione dei due casi clinici alla fine del testo consente di mostrare le possibili traduzioni operative

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12 Prefazione

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e di ricollegarsi in modo concreto ai concetti esposti nella parte teorica. L’intero volume si presta, a mio parere, come base per un eventuale corso di formazione durante il quale concetti e modalità operative possano essere discussi e calati nelle esperienze svolte da insegnanti e operatori in un processo di reciproco arricchimento. Il tema dello scambio e della condivisione del resto è centrale in tutto il lavoro delle due autrici e l’auspicio è che questo volume costituisca la prima parte di un successivo lavoro più operativo, più esperienziale e quindi più mirato ai bisogni degli insegnanti.

Dr. Giorgio Vacca Il Presidente del Club Lion il Farnese di Piacenza

Medico Specialista in Neurologia e Psicoterapia

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Prefazione 13

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Premessa La sindrome da ADHD conosce oggi una nuova notorietà da collocarsi, a nostro avviso, all’interno di un panorama educativo di adulti che nella relazione con il bambino, si pongono in posizione di insicurezza, spesso in difficoltà a porre quei limiti che sono invece necessari per sviluppare con la giusta progressione, diversi livelli di autonomia. Parallelamente, l’opposizione culturale che in Italia ha bloccato più volte la liberalizzazione della terapia farmacologica ha richiamato ulteriore attenzione su questo disturbo. Ci è parso opportuno, in questo senso, a tutela della prudenza diagnostica che un disturbo così complesso richiede, collocare la trattazione di questo disturbo all’interno del più ampio spettro dei disturbi comportamentali in età evolutiva, perchè ci sembra corretto che abbiano rilievo differenze a volte difficili da percepire, a meno di attivare un’osservazione sistematica, attenta alle sfumature e, soprattutto, attuata anche al di fuori dell’ambulatorio con l’indispensabile collaborazione di insegnanti e genitori. La corretta lettura e quindi l’intervento sui disagi e i disturbi infantili, non è mai stata semplice, soprattutto per le sintomatologie che, se pur gravi, sono di carattere esclusivamente comportamentale. Il range della normalità infatti tiene al suo interno una vasta gamma di comportamenti, la cui accettabilità è, tra l’altro, fortemente condizionata da norme socioculturali. Nella misura in cui, poi, la scuola riflette il sociale, basti pensare a come il disturbo comportamentale può essere diversamente valutato, contenuto e compreso in base al livello di formalizzazione ed esplicitazione delle regole che può caratterizzare una singola istituzione. Nel problema di comportamento, la costruzione dei significati è affidata agli adulti educatori e, in particolare, ad adulti ed educatori impegnati e o coinvolti nella relazione col bambino. Ci si troverà dunque di fronte ad un significato di obiettiva gravità del disturbo e ad uno di soggettiva gravità. La gravità percepita dalla scuola, oltre a variare sulla base dalle risorse presenti per gestire il problema (competenze professionali, personale a disposizione) non necessariamente è

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14 Premessa

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la stessa percepita, per es. dai genitori e dal Servizio di Neuropsichiatria Infantile Età Evolutiva. Questo ripropone l’opportunità di un dialogo approfondito con la scuola, attraverso formazioni congiunte o discussione di casi, con l’obiettivo di condividere i criteri di segnalazione, le attuali prospettive teoriche e, quindi, le modalità di osservazione e l’impostazione del trattamento o di più interventi necessari. In particolare è importante condividere l’assunto che il problema di comportamento di un bambino non può essere affrontato solamente a livello farmacologico , o comunque ambulatoriale, ma che coinvolge in prima persona le agenzie educative (famiglia e scuola) che con quel bambino interagiscono.

gli autori

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Prefazione 15

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1. La Sindrome da ADHD: breve rassegna storica

1.1. L’instabilità psicomotoria La sindrome da ADHD venne descritta probabilmente per la prima volta nel 1902, allorché G.F. Still pubblicò le sue osservazioni su un gruppo di bambini che presentava un “deficit nel controllo morale (…) ed una eccessiva vivacità e distruttività”, anche se già da quella prima descrizione venne formulata l’ipotesi che l’ADHD fosse dovuta a fattori neurobiologici. Sono stati infatti notate da numerosi autori le somiglianze tra i sintomi dell’ADHD e i comportamenti di soggetti con lesioni o ipofunzionalità del lobo frontale della corteccia cerebrale. In entrambi i gruppi emergono deficit che investono l’attenzione sostenuta, l’inibizione, la regolazione delle emozioni e delle motivazioni e la capacità di organizzare schemi di comportamento. A favore dell’eziologia prevalentemente neurobiologica dell’ADHD ci sono: l’esordio precoce dei sintomi, la persistenza del disturbo e i miglioramenti consistenti in seguito a trattamenti farmacologici. H. Vallon 1925 e G. Abramson sono tuttavia i primi a fornire una descrizione accurata di questa sindrome dal punto di vista psicologico. Abramson, in particolare, dimostra che un instabile psicomotorio opera più che altro in maniera intuitiva e confusa, fa fatica ad utilizzare i concatenamenti e i confronti, dispone di una buona memoria immediata sui dati concreti ma ha difficoltà ad ordinare i dati nel tempo. Secondo tale descrizione l’instabile psicomotorio riesce spesso nei test che impegnano molta energia di breve durata, mentre cade in quelli che esigono coordinazione, precisione e organizzazione Negli anni ‘30 le ricerche conclusero che i sintomi dell’iperattività e della disattenzione erano legati tra loro in modo variabile a seconda dei casi. Negli anni ‘70 la scuola francese, rilevava l’esistenza di bambini che, benché portati all’osservazione per ritardo scolare,

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16 La Sindrome da ADHD: breve rassegna storica

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presentavano un livello mentale normale. In questi bambini si riscontravano soprattutto un’agitazione motoria, una dispettosità senza aggressività, l’incapacità di uno sforzo sostenuto e, quindi, un’efficienza insufficiente nel corso di un lavoro prolungato. Venivano isolate due forme estreme: una con prevalenza di turbe motorie e turbe dell’affettività meno importanti, l’altra più caratterizzata da turbe del carattere, da ritardo affettivo e modificazione della motricità espressiva. In questo senso la prima sarebbe un modo d’essere motorio di comparsa precoce che risponde ad un'assenza di inibizione e iperattività che di solito scompare con l’età. La forma affettivo caratteriale, al contrario, sarebbe più in relazione con l’ambiente nel quale vivono i bambini che risulterebbero più intenzionali nell’aggressività e impulsività. In questa ultima forma si trovano disordini di organizzazione della personalità precoce, i soggetti che ne soffrono non arriverebbero a stabilire relazioni oggettuali valide a causa dell’insufficienza o dell’eccesso pulsionale. Per quanto riguarda infine i disordini del linguaggio, della lettura, emotivi e caratteriali si possono riscontrare nelle due forme. E’ facilmente ipotizzabile un continuum tra la prima forma, aprevalenza di turbe motorie, e l’attuale sindrome da ADHD, anche se attualmente la prognosi si è rivelata più infausta e ormai i clinici sembrano aver individuato solo un 30% dei casi di ADHD che si risolvono con l’età, presumibilmente le forme meno gravi, a forma affettivo caratteriale, che presenterebbero una costellazione oggi attribuita ai disturbi della condotta.

1.2. La sindrome ipercinetica

Una caratteristica delle prime descrizioni degli autori di lingua inglese è l’accettazione dell’origine organica di questa sindrome. Nel 1947 A. Strass e L. Lehtinen descrivono una sindrome caratterizzata da sintomi che testimoniano unadisorganizzazione di tutte le sfere cognitive, percettivo-motorie e affettive, ma dove l’iperattività, l'instabilità e l'impulsività sono dominanti.

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La Sindrome da ADHD: breve rassegna storica 17

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Nel 1962 il gruppo di lavoro internazionale di Oxford rifiutò la nozione di lesioni cerebrali minime in favore di quella di disfunzione cerebrale minima. P.H. Wender (1971) definisce la sindrome di disfunzione cerebrale minima con le seguenti caratteristiche:

- Disordine di comportamento motorio, iperattività (egli rileva tuttavia un certo numero di bambini ipoattivi) ed alterazione del coordinamento;

- Turbe dell’attenzione e turbe percettive; - Difficoltà di apprendimento scolare; - Turbe del controllo degli impulsi; - Alterazione delle relazioni interpersonali; - Turbe affettive, labilità, disforia, aggressività, etc1.

Come vedremo successivamente, le posizioni più recenti ed ufficiali della psichiatria e neuropsicologia si sforzano di individuare forme distinte della sindrome in termini di gravità e incidenza dei sintomi qui elencati.

1.3. Prime applicazioni farmacologiche Dal 1937 C. Bradley ha dimostrato l’azione benefica dell’anfetamina sulle turbe del comportamento del bambino o di altri farmaci ad azione equivalente, in particolare del metilfenidato (Ritalin). Nel 1971 oltre all’efficacia sicura di questi farmaci sul livello di attività, attenzione, impulsività, comportamento sociale e apprendimento, sembrava altrettanto dimostrato che gli effetti secondari (insonnia, ecc..) tendevano a scomparire con il prolungarsi della cura. Anche alcuni antidepressivi hanno dato risultati positivi sebbene con minore efficacia. All’epoca dei primi studi si riteneva che, oltre all’aiuto psicoterapeutico ai genitori e ad un’organizzazione scolastica adeguata, uno dei trattamenti elettivi potesse essere costituito dalla terapia psicomotoria oggi, riorganizzata e reintegrata dai trattamenti basati su autoregolazione cognitiva e emozionale. E’

1 Cfr. J. De Ajuriaguerra, Manuale di psichiatria del bambino, Masson, Milano 1979

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18 La Sindrome da ADHD: breve rassegna storica

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comunque da sottolineare come già all’epoca delle prime individuazioni del disturbo fosse presente l’intuizione che un approccio a questa problematica, i cui sintomi sono esclusivamente comportamentali, dovesse includere, per risultare efficace, un trattamento combinato tra psicoterapia, approccio educativo specifico ed, eventualmente intervento farmacologico. L’intuizione di allora ha trovato attualmente una forte strutturazione negli ultimi studi della comunità scientifica ed è stata convalidata dai risultati delle esperienze che a questi hanno fatto seguito. Il patrimonio conoscitivo sul problema e le competenze psicopedagogiche più adatte per affrontarlo sono, tuttavia, ancora in larga misura sconosciuti o poco applicati nei contesti educativi e clinici, in prima linea nella gestione dei problemi comportamentali. Ancor meno diffusa appare la consapevolezza della necessità di un trattamento integrato e della conseguente limitatezza del trattamento ambulatoriale o farmacologico.

1.4. Posizioni attuali sul problema Nel 1994, il DSM IV2 ha cercato di identificare la sindrome con una certa precisione, ciò nonostante rimangono dubbi e perplessità sia rispetto alla gravità delle manifestazioni dell’attenzione, sia rispetto alla discriminazione tra problema di attenzione e problemi comportamentali, talora identificati con veri e propri problemi della condotta. Tipico del bambino con ADHD è come la motivazione riesca a protrarre il tempo di attenzione, d’altra parte è da sottolineare come i compiti giudicati motivanti3 sono quelli che meno impegnano cognitivamente e strategicamente”. Questa convinzione peraltro andrebbe meglio dimostrata. Se infatti appare chiara quando si confrontano un compito attivo ed uno passivo, come fare un compito di matematica o ascoltare la musica, la distinzione è più sfumata se si mettono a confronto la capacità di seguire una

2 Cfr. J.L. Rapaport, D.R. Ismond, DSM IV Guida alla diagnosi dei Disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza, Masson Milano 2000 3 Cfr. Cornoldi e coll. Impulsività e autocontrollo, Erickson Trento 1996

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lezione scolastica con la capacità di giocare in modo competente una partita di calcio o imparare a suonare uno strumento musicale4. Le diagnosi ADHD richiedono, per essere poste, che i sintomi si manifestino in almeno in due situazioni, per es. a casa e a scuola (o anche di più, per ridurre il numero di diagnosi falsamente positive, e quindi in attività sportive, ricreative, ecc.). Viene riproposta comunque una netta distinzione tra il disturbo ADHD e i disturbi della condotta. Nell’ambito dell’ADHD vengono distinte due sottocategorie sulla base dei sintomi prevalenti:

- Disattenzione; - Iperattività e impulsività.

L’esordio dei sintomi deve essere anteriore ai sette anni e questi devono presentarsi in almeno due contesti educativi. Una menomazione significativa in ambito sociale o scolastico deve essere evidente, anche se la segnalazione arriva nei primi anni di scuola i genitori riferiscono spesso un esordio intorno ai tre anni. I sintomi di iperattività e impulsività creano problemi soprattutto a scuola. I criteri sono indirizzati ai casi tipici tra gli otto e i dieci anni anche se con l’aumentare dell’età alcuni sintomi si modificano, per es. l’iperattività nella scuola media può trasformarsi in apatia. Sottotipi del Disturbo da Deficit dell’attenzione/iperattività:

- disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività, Tipo Combinato;

- disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività, Tipo con disattenzione prevalente;

4 D’altra parte nel corso delle osservazioni del Centro di secondo livello dell’ASL di Piacenza si è potuto osservare come anche in compiti ripetitivi e richiedenti competenze strategiche precise e cognitivamente impegnative, diversi bambini con sospetto di ADHD abbiano fornito risposte nella media. È da rilevare come bambini normodotati (secondo la scala WISC-R) sembrino risultare fortemente sollecitati dal contesto socioemotivo di attenzione che si crea nella situazione di osservazione al centro di secondo livello, nel quale operatori e genitori risultano fortemente centrati sul bambino e propongono un compito impegnativo cognitivamente e strategicamente, ma nuovo e stimolante. Naturalmente rimane da precisare quali di questi bambini in grado di attivare strategie impegnative in questi compiti risultino affetti da ADHD. Le osservazioni sono tuttora in corso).

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- disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività, Tipo con iperattività impulsività prevalenti;

- disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività, NAS (non altrimenti specificato).

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2. Eziologia Tra le numerose ipotesi eziologiche della sindrome dell’ADHD (neurologiche, neurochimiche, biologiche, genetiche) particolare attenzione, anche per i loro riflessi sull’attività scolastica, ci sembra meritino le alterazioni delle funzioni esecutive che includono carenze a livello di pianificazione, organizzazione, metacognizione, flessibilità cognitiva, automonitoraggio e autocorrezione, e in generale riguardano il deficit nel controllo volontario della mente richiesto nei processi mentali. Queste alterazioni peraltro non sono specifiche solamente dell’ADHD. Sintomi d’ansia quali: irrequietezza, affaticabilità, difficoltà di concentrazione, memoria e irritabilità, potranno essere attribuiti al disturbo d’ansia nella misura in cui si rileva che il bambino è consapevole delle proprie difficoltà, che si sente preoccupato per come si è comportato e per cosa gli riserva il futuro ed escludendo quindi la sindrome ADHD. I bambini con ADHD infatti solitamente non si accorgono di aver commesso delle azioni riprovevoli e tanto meno riescono a pensare che cosa riservi loro il futuro, questo richiederebbe infatti una capacità anticipatoria e strategica che in loro è spesso carente. Bisogna comunque tenere presente che anche i bambini con ADHD possono sviluppare sintomi di ansia generalizzata in relazione a fallimenti di tipo scolastico o interpersonali ma queste preoccupazioni sono proporzionate alla gravità delle situazioni mentre quelle di bambini con disturbo d’ansia sono eccessive e irrealistiche. Per quanto riguarda i sintomi comuni tra ADHD e sintomi depressivi, occorre sottolineare che nei casi in cui questi ultimi prevalgono i bambini presentano anche un calo di interesse e di piacere nello svolgimento delle loro attività preferite, possono manifestare alterazioni del ritmo sonno veglia o di alimentazione ed eccessive preoccupazioni.

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22 Eziologia

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Ricerche recenti5 riportano che questi soggetti non sono sufficientemente orientati al compito e faticano a pianificare l’esecuzione delle attività che vengono loro assegnate. Generalmente, se un bambino con ADHD presenta difficoltà di apprendimento difficilmente si tratterà di problematiche di ordine strumentale (velocità e correttezza in scrittura, lettura e calcolo) ma, piuttosto, di inadeguatezze di problem-solving matematico, di produzione e di comprensione di testi scritti e di studio di brani complessi. I ragazzini con ADHD cioè utilizzano strategie di studio meno efficaci e fanno fatica ad inibire le informazioni irrilevanti contenute all’interno di un brano.

Fig.1.1 “Difficoltà di autoregolazione a scuola” tratta da Iperattività e autoregolazione cognitiva, C. Cornoldi e altri,

pag.22, Erickson, Trento 2001

5 Cfr. C.Vio e altri, Il bambino con deficit di attenzione e iperattività, Erickson, Trento 1999

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2.1. ADHD: le difficoltà di una diagnosi Alcuni problemi, che possono interferire con la diagnosi di ADHD, sono costituiti dall’eventuale associazione o dalla comorbidità con un disturbo dell’umore (specie di tipo ansioso che depressivo). Data la forte sovrapposizione e concomitanza di sintomi simili, assumeranno spesso un significato decisivo l’osservazione longitudinale e l’ utilizzo dinamico della diagnosi, ovvero la possibilità di modificarla in itinere insieme all’evoluzione del bambino e delle esperienze da lui vissute. Altrettanto determinanti saranno le osservazioni offerte dagli adulti dei vari contesti di appartenenza che consentiranno di comporre un quadro unitario proprio perché provenienti dalla rete relazionale formata da adulti e pari, e da contesti diversificati in cui è indispensabile tener conto di regole, richieste e limiti. La classe esemplifica bene la complessità delle competenze richieste al bambino, rispetto alle variabili da gestire nel contesto ambulatoriale, dove il rapporto duale tra adulto-bambino risulta costituire un setting di per sé contenitivo o regolativo. In questo senso vorremmo selezionare alcuni criteri che possano servire ad insegnanti e genitori per svolgere osservazioni più accurate, con l’obiettivo di aumentare l’attenzione a quei segnali e a quei dettagli che possono orientare il clinico e gli educatori ad una miglior comprensione dei bisogni del bambino.

2.2. Relazione tra ADHD e quadri psicopatologici

Sintomi apparentemente simili a quelli dell’ADHD possono essere riscontrati in altri quadri psicopatologici quali i Disturbi della Condotta (Disturbo Oppositivo Provocatorio e altri) e i Disturbi della Sfera Emozionale (Sindromi di Ansia o Fobiche e Sindrome Depressiva) che possono essere conseguenza di situazioni familiari disfunzionali o appartenere ad un quadro

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medico (es. allergie e disfunzioni della tiroide). I bambini con ADHD risultano comunque a maggior rischio di sviluppare altri disturbi di tipo psichiatrico quali: il Disturbo d’Ansia, dell’Umore, Oppositivo - Provocatorio e della Condotta; è quindi chiaro che l’identificazione precoce e l’intervento possono minimizzare i rischi, presenti nel percorso di sviluppo, associati all’ADHD.

2.3. Relazione tra ADHD e DEPRESSIONE

È ormai accettato che la depressione è piuttosto diffusa nei bambini, anche se i pareri su questa psicopatologia infantile sono abbastanza discordanti. Fino agli anni ottanta si riteneva che molti disturbi dell’età evolutiva fossero una forma di depressione “mascherata” in quanto il bambino nel tentativo di liberarsi dai sintomi depressivi, cerca di mascherare la sua situazione mostrandosi spesso aggressivo. Adottando questa ipotesi diventava difficile differenziare la depressione da altri disturbi del comportamento; i comportamenti disturbati dei bambini infatti sono largamente riconducibili ad uno stato depressivo. Attualmente questa teoria è stata quasi completamente abbandonata a favore dell’ipotesi che due o più disturbi possono coesistere. Vari studi riferiti da Matson (1989) hanno dimostrato che bambini e adolescenti possono manifestare il sovrapporsi di ansia, depressione, disturbo della condotta e disturbo oppositivo provocatorio che, a loro volta, possono essere scambiati con la sindrome da ADHD. Un dato confermato è l’influenza dello sviluppo cognitivo sulle tipologie dei sintomi: durante l’infanzia prevalgono un aspetto malinconico, disturbi fisici, agitazione. Negli adolescenti si nota anedonia (perdita del piacere) senso di impotenza, ipersonnia, cambiamenti del peso, tentativi di suicidio. Attualmente i più importanti contributi alla comprensione dei meccanismi cognitivi legati alla depressione rimangono quelli di A. Beck6 e dei suoi collaboratori. Egli propone tre determinanti alla depressione note come la “triade cognitiva”:

6 Cfr A.T. Beck, Terapia cognitiva della depressione, Bollati Boringhieri, Torino 1987

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- una visione negativa di sé stesso (il depresso tende a

considerarsi come inadeguato ed incapace); - una visione negativa delle proprie esperienze attuali

(considera le richieste del mondo esagerate e gli ostacoli insormontabili);

- una visione negativa del futuro (il soggetto considera la sofferenza e le difficoltà attuali come immodificabili e crede che dureranno per sempre).

Il soggetto comincia ad impiegare schemi cognitivi disfunzionali contenenti varie forme di disfunzioni cognitive come reazione ad un evento particolarmente stressante o ad una serie di eventi minori implicanti una qualche forma di perdita, di fallimento o di rifiuto, come per esempio la svalutazione sistematica degli aspetti positivi di una situazione pensando che non contino, le previsioni negative del futuro, l'ingigantire la gravità dei propri difetti ed errori ed altri. K. Stark7 sottolinea come la rabbia sia un’emozione molto comune tra i bambini depressi e come questa emozione si sia dimostrata anche uno dei sintomi più resistenti al cambiamento terapeutico. La manifestazione della gravità del sentimento di rabbia va da una lieve irritabilità, agli scoppi di ira, ai pensieri omicidi fino all’insopportabilità dell’emozione; la gravità della rabbia e dei pensieri che la compongono può essere utile a discriminare tra la demoralizzazione conseguente all’ADHD e una sintomatologia depressiva prevalente. La maggior parte delle ricerche riguarda i bambini di età compresa tra i 9 e i 13 anni, ed è meno applicabile ai bambini sotto gli 8 anni. La ragione per cui risulta particolarmente interessante affrontare il tema dei rapporti tra i diversi disturbi del comportamento e la depressione ci viene sia dalla nostra pratica clinica sia dall’esame della letteratura specifica dei disturbi dell’umore. In particolare l’impostazione di K.Stark, basata su

7 Cfr. pag. 22 e seguenti in K. Stark,, La depressione infantile, Erickson, Trento 1995

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numerose e validate ricerche sulle componenti della depressione in generale, sul trattamento e sulle sue connessioni con altri tipi di disturbo, mette in rilievo l’importanza di quantificare il tempo dedicato dal bambino ai costrutti depressivi e ai comportamenti di ritiro, isolamento. In questo modo è possibile determinare con maggior precisione quanto incida sui diversi disturbi comportamentali (Disturbo Oppositivo – Provocatorio, Disturbo della Condotta, Sindrome ADHD) e sul problema cognitivo - emotivo presentato, la componente depressiva e quanto le componenti neuropsicologiche (Disturbo dell’Apprendimento e sintomi dell’ADHD). Come si vedrà meglio nel proseguimento di questo lavoro la presenza della sintomatologia depressiva (anche nella sua forma conseguente al disturbo come la demoralizzazione) è da definire più precisamente rispetto al criterio della gravità. È palese infatti come sviluppi depressivi futuri possano essere conseguenze di una cattiva gestione del disturbo da ADHD. D’altra parte, per poter rilevare sintomi depressivi e quindi giustificare una diagnosi prevalente di depressione, occorre un approccio diagnostico integrato (test proiettivi, questionari comportamentali, test neuropsicologici). Questo anche al fine di orientare correttamente il trattamento secondo i training più adeguati: assertività, autoregolazione, autostima, abilità sociali, gruppi di incontro, training al rilassamento e all’immaginazione positiva ed autoistruzione. La difficoltà a comprendere le differenze tra ADHD e depressione nasce dai sintomi decisamente aspecifici dell’ADHD tanto che il disturbo depressivo può facilmente simulare la sindrome. Depressione è un termine generico con il quale ci si riferisce sia ad un grave abbassamento dell’umore, sia a lievi alterazione dell’emotività. Sul piano clinico rappresenta una sindrome che coinvolge diversi sintomi concomitanti; tali sintomi riguardano categorie emotive, cognitive, motivazionali, fisiche e neurovegetative (vedere scheda di approfondimento).

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SCHEDA DI APPROFONDIMENTO

Sintomi emozionali

La tristezza Il sintomo principale della depressione è la tristezza (umore disforico). Ciò che permette di distinguere il sintomo in un bambino depresso, rispetto ad un bambino che soffre di altri disturbi, tra cui, l’ADHD, è la gravità e la durata della tristezza. Nel bambino con ADHD l’umore triste è fortemente reattivo all’ambiente ed è in associazione con gli eventi ambientali. (vedi tabella 1.1 pag. 19). Il bambino con ADHD può essere tirato su di morale da esperienze piacevoli ed il sentimento positivo rimane; il bambino più depresso (specie se grave) è più difficile da rincuorare e, se si rallegra, è per un tempo breve.

L’umore collerico o irritabile La rabbia è un’emozione molto comune tra i bambini depressi ed è anche uno dei sintomi più resistenti al cambiamento terapeutico; la gravità del sentimento di rabbia va da una lieve irritabilità agli scoppi d'ira, ai pensieri omicidi e al fatto di sentirsi così arrabbiati da non sopportarlo. Meno la rabbia è influenzata dall’ambiente, maggiore è la gravità del sintomo depressivo; più è influenzata dall’ambiente, meno grave è la sua depressione. Nel bambino con ADHD sarà facile riscontrare l’esperienza della rabbia in relazione a situazioni ambientali quali l’esperienza del rifiuto e del fallimento.

Anedonìa L’anedonìa è la perdita della risposta di piacere, molto frequente nei bambini con depressione grave (54%) mentre poco frequente nei disturbi depressivi più lievi. Dalle indagini effettuate sugli adulti con ADHD si riscontrano personalità e comportamenti di tipo anedonico che non sperimentano piacere nei confronti di eventi che procurano felicità alla maggior parte delle persone; diversamente dai soggetti depressi, l’individuo con ADHD può passare dall’eccitamento alla depressione in pochi minuti o poche ore.

Tendenza al pianto I bambini depressi tendono a piangere più degli altri e il loro pianto non è legato agli eventi ambientali rispetto ai quali hanno una soglia più bassa; nel bambino ADHD sarà più facile individuare uno o più

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eventi scatenanti nel provocare la reazione di pianto.

Il non sentirsi amati Il bambino depresso si sente così indipendentemente da una punizione subita e può essere difficile rassicurarlo sul fatto che qualcuno lo ami o si preoccupi per lui; nel bambino con ADHD questo tipo di convinzione può derivare dalle frequenti valutazioni negative ricevute da adulti e da compagni e il senso di sé come “cattivo” studente può comunque trasformarsi facilmente in un senso di inadeguatezza personale generale.

Sintomi cognitivi

Autovalutazioni cognitive I bambini depressi tendono a percepire se stessi come inadeguati e la loro performance come inaccettabile. Tale valutazione contribuisce ad un basso livello di autostima. Nel bambino con ADHD riscontriamo invece l’utilità dei rinforzi positivi e di quelle gratificazioni concrete e psicologiche che adottate sistematicamente possono contribuire ad un miglioramento dell’autostima.

Difficoltà di concentrazione Tipico del bambino depresso è perdersi nel mondo negativo di pensieri che ha creato nella sua mente. I pensieri depressivi interferiscono con la sua concentrazione; nei casi più gravi il bambino non si concentra anche se si sforza e le cose su cui vorrebbe concentrarsi sono interessanti. Nel bambino con ADHD la difficoltà a concentrarsi rimanda ai deficit cognitivi primari individuati dalla Douglas (Douglas e Perry, 1983) e già precedentemente evidenziati.

Ideazione morbosa La preoccupazione per la possibilità che qualcuno muoia diventa sintomatica se si prolunga per molto tempo anche in seguito ad un evento accaduto e se il bambino se ne preoccupa senza che sia legata ad una perdita personale, ma semplicemente leggendo libri o giornali. Tale sintomo non è generalmente riscontrabile nei bambini con ADHD, se non negli stessi termini che nei bambini normali, ovvero quando gli eventi reali giustificano tali pensieri.

Sintomi motivazionali

Chiusura sociale La chiusura sociale è relativa al numero di contatti e al

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coinvolgimento relazionale con bambini e adulti; la chiusura diviene sintomatica quando il bambino si accorge che sta respingendo i suoi amici e sta evitando compagni, genitori e altri adulti. Nel bambino con ADHD la chiusura può presentarsi o perché nel frattempo si è associato un disturbo depressivo (dovuto all’accumularsi degli insuccessi e dei rifiuti nel tempo) oppure come reazione passeggera a situazioni di esclusione e di giudizio negativo.

Peggioramento delle prestazioni scolastiche Questo sintomo appare nei bambini depressi come risultato di

sintomi molto simili presentati dal bambino con ADHD. Forse tra le differenze può esserci una maggiore disponibilità del bambino con ADHD a recepire l’aiuto individuale.

Sintomi fisici e neurovegetativi

Affaticamento Si riferisce alla stanchezza e alla mancanza di energia necessaria per agire, e quindi ad un aumento della necessità di riposare, anche soltanto stando seduto senza movimenti. Nell’ ADHD invece l’affaticamento è collegato con l’effettivo dispendio di energia messo in atto dal bambino, o potrebbe essere in relazione con i frequenti disturbi del sonno spesso associati.

Cambiamento nell’appetito e/o nel peso Tra i bambini depressi la perdita di peso è più comune dell’aumento dell’appetito. Può tuttavia accadere che il bambino mangi di più, con modalità che vanno da un aumento minimo ad un aumento sfrenato, non riuscendo a trattenersi dal mangiare. Atteggiamenti di scarsa regolazione nel cibo variabili dall’alimentazione restrittiva al discontrollo si possono verificare con una certa facilità anche nei bambini con ADHD.

Dolori e malesseri I disturbi somatici più comuni tra i bambini depressi sono cefalee, dolori allo stomaco, alla schiena, alle gambe e altri malesseri. I dolori sono gravi a sufficienza da considerarsi sintomatici quando interferiscono con la scuola e le attività ricreative.

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Un sintomo infantile-adolescenziale dell’episodio depressivo maggiore è rappresentato dall’incapacità di raggiungere il peso previsto (che tra l’altro differenzia i bambini rispetto agli adulti, per i quali invece è frequentemente una perdita). I sintomi centrali della depressione sono gli stessi per bambini, adolescenti e adulti fatto salvo per alcune variazioni con l’età. In particolare per bambini e adolescenti il sintomo dell’umore depresso può essere sostituito dall’irritabilità, dai disturbi fisici e dal ritiro sociale. Negli adolescenti gli episodi depressivi sono spesso associati con ADHD, disturbi d’ansia e di alimentazione. Alcune caratteristiche, quali bassa autostima, facilità al pianto, e diminuito piacere nello svolgere attività, si trovano associate regolarmente a disturbi quali ADHD, disturbo della condotta, ritardo mentale o gravi difficoltà di apprendimento. Per ovviare a questo problema l’indicazione è di formulare più spesso una diagnosi del disturbo dell’umore in associazione con questi disturbi. Si auspica in definitiva l’uso di diagnosi multiple sia per evitare l’out out, sia per evitare l’uso inappropriato del disturbo depressivo come unica diagnosi. Alcune recenti posizioni (cfr. gli interventi del convegno “Pediatria e l’ADHD”) sul rapporto tra ansia/depressione e ADHD ammettono sia la possibilità della diagnosi differenziale sia quella della comorbidità8. In particolare per quanto riguarda la comorbidità, viene rilevata una sovrapposizione tra i sintomi di scarsa concentrazione e irrequietezza motoria tipici dell’ADHD e quelli presenti nei disturbi d’ansia e depressivi; in questi ultimi, tuttavia, la difficoltà di concentrazione e l’irrequietezza risulterebbero meno pervasivi. 8 Per comorbidità si intende lo spettro dei disturbi mentali che può esistere insieme alla ADHD, di cui il più comune è appunto la depressione; per caratteristiche associate si intende l’insieme delle emozioni, dei comportamenti e dei pensieri che normalmente affiancano i sintomi e che vengono valutati quando si pone una diagnosi; con diagnosi differenziale si intende ciò che distingue la ADHD da altri disturbi che la simulano. Ricordiamo che tutti i sintomi della ADHD possono essere osservati anche in una popolazione di persone che non presentano la sindrome; sono la gravità, l’intensità e il grado di interferenza nella vita di un individuo che orientano alla diagnosi di ADHD.

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Il ragazzo con ADHD ha generalmente un atteggiamento meno preoccupato, rispetto al ragazzo con problemi emotivi, per eventi che lo hanno coinvolto negativamente nel passato e che potrebbero minacciarlo nel futuro. La velocità e la superficialità nell’analisi delle situazioni rendono il ragazzo con ADHD più ansioso nel constatare l’evento negativo in cui si trova piuttosto che nell’anticipazione e previsione dello stesso. Il ragazzo ansioso invece è sempre concentrato sull’aspettativa di un evento che immagina pericoloso per la sua integrità fisica e psicologica, quindi la difficoltà di concentrazione e l’agitazione motoria si configurano come una conseguenza del disagio provocato dall’ansia. Secondo alcune recenti posizioni9 esisterebbe tra ansia/depressione e ADHD una sovrapposizione dei sintomi di scarsa concentrazione e irrequietezza motoria rispetto sia ai disturbi d’Ansia (ansia generalizzata) che depressione (depressione grave/distimia); tuttavia questi sintomi sarebbero meno pervasivi rispetto a quanto lo sono nell’ADHD. Inoltre dalla documentazione del convegno, per ciò che concerne la questione della comorbidità e della diagnosi differenziale, possiamo evidenziare i seguenti dati:

- fino al 40% dei bambini con ADHD possono soffrire di ansia/depressione in comorbidità….e fino al 40% dei bambini con disturbi di ansia/depressione possono presentare un ADHD in comorbidità;

- non sono ancora chiari gli effetti di età, sesso o sottotipo di ADHD sulla comorbidità con ansia e depressione. Tali aspetti sono spesso sovrastimati nella pratica clinica.

Nel caso clinico che riporteremo sarà possibile osservare come nella pratica clinica queste distinzioni possano essere sfumate, come i test stessi sull’attenzione risultino talora scarsamente

9 Riferimento al Convegno del 29/01/2005 “Il Pediatra e l’ADHD” svoltosi a Piacenza con la partecipazione del gruppo IRCCS Stella Maris dell’Università degli Studi di Roma e dell’Università degli Studi di Cagliari, organizzato dal Dott. Giuseppe Gregori referente Pediatria di base di Piacenza.

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discriminanti e come, talvolta, la vera natura del disturbo principale si chiarisca strada facendo osservando con quali modalità di funzionamento cognitivo ed emotivo il bambino affronta e gestisce esperienze di vita, educative e di apprendimento.

2.4. La Sindrome da ADHD e i problemi della Condotta

Cornoldi e altri10 riportano come anche i ragazzi con ADHD possono avere problemi di aggressività e violare le norme sociali. Nella pratica educativa tuttavia risulta difficoltoso discriminare in quali casi il problema della condotta sia primario e quando secondario a quello dell’attenzione. Solitamente, nei ragazzi nei quali il problema della condotta è primario si riscontra una significativa incidenza di problematiche familiari e più variabili psicopatologiche nella famiglia, al contrario, risultano meno influenti le variabili cognitive. Analogamente anche il Disturbo oppositivo – provocatorio presenta sintomi che si possono ritrovare anche nel bambino con ADHD; la modalità comportamentale tipica di questo disturbo è negativistica, ostile e provocatoria, ovvero i bambini tendono a sfidare frequentemente le richieste degli adulti e ad infastidire insegnanti e compagni, si irritano con facilità ed hanno una bassa soglia di tolleranza alla frustrazione. Per contro manca, a differenza di altri disturbi della condotta, un comportamento contro le leggi e i diritti fondamentali degli altri, come il furto, la crudeltà, la prepotenza, l’aggressione e la distruttività. L’esordio si verifica caratteristicamente in bambini di età inferiore a 9-10 anni. Per meglio specificare la diagnosi di ADHD è importante verificare con precisione quali problemi comportamentali si evidenzino e in quale misura siano da attribuire a fattori cognitivi, come l’incapacità di usare il pensiero sequenziale. Un altro fattore, che può produrre

10 Cfr . C. Cornoldi, M.Gardinale, A. Masi, L. Pettinò, Impulsività e autocontrollo, Erickson, Trento 1996

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problemi comportamentali nel ragazzo con ADHD è la probabilità che egli ha di trovarsi in circuiti relazionali viziati, ovvero di trovarsi nel ruolo di colui che dà fastidio a compagni e insegnanti per la sua difficoltà a porre attenzione alle regole, ai limiti e ai vincoli del contesto in cui si trova. Sempre Cornoldi, Vio e altri11 riprendendo il modello classico della Douglas (Douglas e Perry, 1983) hanno messo in luce l’importanza dell’aspetto cognitivo del disturbo ADHD, delineando la presenza di quattro deficit primari:

- debole investimento in termini di mantenimento dello

sforzo; - deficit di modulazione dell’arousal psicofisiologico

(attivazione) che rende il soggetto incapace di raggiungere le richieste dei compiti;

- forte ricerca di stimolazioni e gratificazioni intense e immediate;

- difficoltà di controllo degli impulsi.

2.5. Note sul problema della diagnosi, della gravità e della comorbidità

L’esperienza clinica tenderebbe a confermare non solamente la varietà dell’intensità dei sintomi da bambino a bambino ma anche una certa variabilità a seconda di importanti cambiamenti che possono avvenire nei contesti frequentati dal bambino (famiglia, scuola), di mutate situazioni socio educative o di eventi stressanti accaduti in uno dei due contesti (abbandono o cambiamento di importanti figure di attaccamento nel contesto familiare, variazioni nella complessità delle richieste e capacità di programmazione dovute a cambi di figure nella scuola o, semplicemente, all’aumento delle richieste inerenti il programma scolastico).

11 Cfr C.Cornoldi, T. De Meo, F. Offredi, C. Vio, Iperattività e autoregolazione cognitiva, Erickson, Trento 2001

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Anche nella nostra esperienza clinica abbiamo avuto modo di riscontrare come bambini, che inizialmente presentavano più sintomi ADHD, specie sul versante della iperattività, a distanza di un anno sviluppassero comportamenti chiaramente connotati in senso ansioso/depressivo (cfr. il caso clinico riportato a pag. 70). Le differenze di intensità possono essere tali che mentre in alcuni casi i sintomi sono irrilevanti in altri possono paralizzare la vita. In questo senso, è utile ricordare la flessibilità dei protocolli statunitensi che utilizzano il farmaco con pazienti adulti in base alle diverse necessità che le circostanze di vita propongono. In accordo con il medico curante il farmaco viene ripreso, abbandonato o modificato nel dosaggio, anche in relazione a cambiamenti nella vita del paziente che possono richiedere maggiori capacità di affrontare lo stress e maggiori capacità organizzative quali: divorzio, cambio di lavoro, aumento di responsabilità nell’ambito dello stesso,scatti di carriera ecc…12. Munir ed al. (1987) esaminando un campione di bambini con ADHD hanno riscontrato le seguenti percentuali di comorbidità: Disturbi della Condotta 36% Disturbo Oppositivo Provocatorio 59% Disturbo dell’Umore 32% Tic (esclusa la Sindrome di Tourette) 32% Disturbi della Comunicazione 23% Encopresi 18%

12 Cfr. R.J. Resnick, Impulsività, disattenzione e iperattività nell’adulto, Mc-Graw-Hill, Milano 2000

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Inoltre tra il 50 e l’80% dei ragazzi con ADHD presentano difficoltà di apprendimento scolastico che diventano invalidanti con l’avanzare della carriera scolastica. Secondo C. Vio e altri (1999, Erickson) la maggior parte dei bambini con ADHD non presenterebbe tanto problematiche di ordine strumentale (lettura, scrittura e calcolo) ma piuttosto inadeguate abilità di problem solving matematico, di produzione e comprensione di testi scritti e di studio di brani complessi. Questi soggetti, cioè, utilizzerebbero strategie di studio meno efficaci e sarebbero in difficoltà ad inibire le informazioni irrilevanti contenute all’interno di un brano. A nostro parere la difficoltà di problem solving e di inibizione l’informazione irrilevante, è specifica dell’ADHD in quanto rientra nel deficit di pianificazione e organizzazione delle competenze esecutive; al contrario il Disturbo specifico di apprendimento rientra nelle frequenti comorbidità rilevate. Per quanto riguarda invece i disturbi da ansia/depressione rispetto all’ADHD, si rileva che i primi hanno una prognosi più favorevole e rispondono meglio ad interventi psicoterapeutici più che a quelli farmacologici, mentre i disturbi da ADHD e della condotta risultano nettamente più sensibili all’uso di farmaci. Nel caso del bambino con ADHD ulteriore attenzione va posta nel non confondere depressione con demoralizzazione; quest’ultima produce sensi di colpa e autodefinizioni di se stesso in termini di cattiveria o di stupidità riguardo il proprio disturbo. Questo aspetto della demoralizzazione, conseguenza del problema comportamentale, ha un’incidenza stimata pari all’80% mentre la concomitanza con la depressione verrebbe stimata al 20%.

2.6. Comportamenti da ADHD e normale vivacità del bambino

I bambini con comportamenti negativi, caratterizzati da aggressività o violenza, si distinguono da quelli con disturbi

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della condotta perché presentano, di solito, manifestazioni limitate e non sono associati con le carenze scolastiche e sociali di questi ultimi; per poter invece distinguere tra bambini vivaci, ma nella norma, e bambini con ADHD, sarà importante osservare la qualità dell’attività stessa: quella naturale dovrebbe essere finalizzata e organizzata, mentre nei bambini iperattivi l’attività è spesso incontrollata e priva di scopo o con scopo incongruo al momento e al contesto. Dobbiamo ricordare tuttavia che spesso la tendenza all’ attività disorganizzata può derivare da un ambiente educativo caotico dove mancano ritmi e organizzazione. Questo tipo di contesto infatti, causa ansia al bambino che può reagire con il comportamento iperattivo. Anche la gamma dei comportamenti normali, d’altra parte, è molto vasta; così è facile che sull’onda delle mode del momento genitori ed educatori ansiosi o, al contrario, poco attenti scambino un comportamento molto vivace, che magari è il frutto di uno stile educativo troppo permissivo, con un disturbo tipo ADHD. Questa confusione del resto può avere aspetti emotivi funzionali perché può essere paradossalmente più semplice pensare ad un disturbo del bambino piuttosto che mettere in crisi un sistema relazionale ed educativo. A proposito della distinzione spesso difficile da parte delle agenzie educative tra l’ADHD e altre forme di più o meno esasperata vivacità o altre forme di disagio, anche a Piacenza, come in altre realtà italiane, il servizio di neuropsichiatria infantile pare registrare un incremento esponenziale di richieste di aiuto per diversi disturbi tra cui la Sindrome dell’Iperattività. Negli ultimi numeri di un organismo di categoria degli psicologi13 sono comparsi due articoli entrambi tendenti a confermare che la Sindrome dell’Iperattività avrebbe avuto un balzo di diffusione nella popolazione infantile da 0,5% all’8% (per una stima considerata media del 4%).

13 Babele, Periodico quadrimestrale dell’associazione Sammarinese degli psicologi, gennaio – aprile 2005 numeri 23 e 29

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Questo incremento, oltre a far riflettere sulle componenti socio educative del problema, deve anche indurre ad una valutazione estremamente accurata del disturbo o del malessere attraverso un’osservazione del soggetto che vada oltre i confini dell’ambulatorio per cogliere le caratteristiche del bambino come sono espresse nei diversi contesti di appartenenza. Da quanto abbiamo visto dalla storia e dalle recenti ipotesi cliniche su questa sindrome, è risultato palese come ogni sintomo possa legarsi a una gamma di diversi disturbi; questo risulta sicuramente un problema per i clinici tanto d’aver portato alcuni di loro a considerare disturbi che prima si escludevano come compresenti, ampliando le comorbidità possibili. Ancora più complessa diventa la distinzione tra comportamenti normali e comportamenti che potrebbero o meno essere patologici per chi ha a che fare con i bambini nella quotidianità. Come conferma Federico Bianchi di Castelbianco, “abbiamo potuto riscontrare come i disturbi sopracitati sono, per la maggior parte dei casi, risposte a dinamiche educative poco funzionali e/o inadeguate”. L’autore rileva come, per quanto riguarda i disturbi del sonno, dell’alimentazione, dell’attenzione e dei livelli di attività, questi risultino spesso sintomi di disagi più ampi e profondi che non vengono presi in considerazione, con pesanti ricadute sui pazienti. Comportamenti problema e sistema educativo Un rischio, dell’attribuire i problemi comportamentali dei bambini ad una sindrome clinica da parte del sistema educativo, è di individuare in questo modo una scappatoia e una delega al sistema di cura, evitando la riflessione sui propri modelli e valori e su come questi ultimi siano più o meno adeguati a rispondere sia ai bisogni dei bambini normali sia a quelli dei bambini problematici; in questo senso numerose sono le indicazioni psicopedagogiche che si propongono di integrare il modello educativo attuale ricco di affettività ma povero di norme. Anche i cambiamenti macrosociali di questi ultimi anni hanno portato alla perdita di punti di riferimento valoriali sicuri ingenerando incertezze sociali, esistenziali e di ruolo.

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Genitori ed insegnanti si trovano confrontati con un nuovo modello educativo facile da comprendere sul piano razionale ma molto difficile da assumere nel proprio comportamento e in modo sistematico. A fronte della perdita nel sistema educativo attuale di punti di riferimento sicuri, di regole e di limiti, i nuovi modelli rimandano non più a ruoli rigidi e precostituiti (in gran parte caduti anche tra gli adulti) ma piuttosto ad una revisione critica individuale che comporta un lavoro di analisi delle convinzioni, credenze, aspetti emozionali e comportamenti solitamente ben radicati nella strutturazione personale degli educatori14. La psicologia cognitiva offre riflessioni teoriche e modalità operative da utilizzare con i bambini e suggerisce modalità ben strutturate che genitori ed insegnanti possono utilizzare per gestire le problematiche comportamentali dovute al disturbo. L’efficacia di tali strategie tuttavia è condizionata da come l’adulto ha affrontato primariamente il lavoro di revisione cognitiva-emotiva personale e, in secondo luogo, dalla sistematicità con cui vengono applicate. Come si vedrà dall’esposizione del caso, per essere efficaci è indispensabile mettersi in gioco sul piano personale ed affettivo; questo non può prescindere dall’avere chiarezza degli obiettivi cognitivi /didattici (e del modo di affrontare la realtà) che di volta in volta ci si prefigge e da una programmazione giornaliera. In questo senso, per quanto concerne le problematiche comportamentali, ci sembra di aver osservato, in questi anni di lavoro nel servizio di neuropsichiatria infantile, come, a fronte della demotivazione degli insegnanti, il sistema formativo non sembri ancora avere individuato un progetto ed una formazione educativa realistica e rispondente alla gestione pedagogica e didattica del disturbo comportamentale.

14 Si possono consultare per suggerimenti operativi adatti ad affrontare le problematiche educative degli adulti, i testi: T. Gordon, Né con le buone né con le cattive, La Meridiana Molfetta 2001; T. Gordon, Insegnanti efficaci, Giunti Lisciani, Teramo 1992; T. Gordon, Genitori efficaci, la Meridiana, Molfetta 1994; D. Novara (a cura di), La scuola dei genitori, Berti, Piacenza 2004

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Una formazione specifica in questo senso risulterebbe efficace nell’affrontare non solo il disturbo ma anche le forme di disagio comportamentale sempre più numerose nella popolazione infantile, permettendo così alle agenzie educative l’attuazione di una pedagogia mirata alla ricerca di modalità più efficaci per proporre norme e limiti, ma anche opportunità di apprendimento in grado di coinvolgere il maggior numero possibile di studenti. Castelbianco15, sempre a proposito dell’ADHD, sostiene come il problema non sia tanto mettere in dubbio l’esistenza di questo disturbo, quanto piuttosto risolvere i punti interrogativi sulle percentuali dichiarate. L’autore mette in guardia dall’attribuire la definizione di Iperattivi a bambini agitati ed irrequieti, incapaci di aderire a semplici regole sociali, che, nella maggior parte dei casi, sostiene, sono semplicemente maleducati. Sottolinea inoltre una scarsa coscienza dei cambiamenti nei comportamenti sociali e di come questi abbiano influito sui bambini. E’ frequente, ad esempio, l’affermazione che i bambini non hanno più regole e che gli adulti non sono capaci di educarli ecc…,salvo meravigliarsi se i bambini nelle scuole presentano comportamenti difficili e complessi che possono essere scambiati per disturbi. Si pensi, ad esempio, come qualche anno fa l’insegnante poteva rappresentare un argine educativo sicuro, mentre oggi ci si trova di fronte a bambini difficilmente contenibili. L’autore sottolinea che, secondo alcuni dati ufficiali, sarebbe presente un bambino con ADHD ogni 25 (quindi uno per ogni classe scolastica), rilevando come nella loro pratica clinica tale percentuale non sia mai stata riscontrata anche nei bambini che già arrivano con questa diagnosi; riporta, inoltre, come un processo analogo sia accaduto con la diagnosi di Dislessia che aveva raggiunto stime ufficiali del 14% e 18% ora ridimensionate in modo clamoroso. 15 Cfr “Babele” Periodico quadrimestrale dell’associazione Sammarinese degli psicologi, numero 29 aprile 2005

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A prescindere dalla correttezza o dall'accordo sui dati riportati, la pratica clinica ci ha effettivamente confrontati con la necessità di distinguere questo disturbo da un comportamento di disagio e con la necessità di creare una cultura e una chiarificazione del problema all’interno dell’istituzione scolastica.

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3. Le comorbidità significative in ambito scolastico

3.1. Età prescolare

Anche nei bambini più piccoli (3-6 anni) possiamo trovare in comorbidità il disturbo oppositivo provocatorio, i disturbi dello sviluppo linguistico e motorio e il disturbo dell’attaccamento, che possono interferire con la difficoltà a formulare diagnosi precise. Alcuni sintomi aspecifici possono comunque risultare correlati ad una futura diagnosi di ADHD quali:

- crisi di collera; - rapporto disturbato genitore bambino; - genitori esausti; - ritardata acquisizione dei prerequisiti scolastici.

È comunque da sottolineare che, poiché alcuni criteri diagnostici sono meno chiari e c’è, in età prescolare, una minore richiesta di compiti attentivi, la diagnosi risulta più complessa e dovrà tenere conto maggiormente dell’osservazione comportamentale.

3.2. Età scolare La valutazione delle abilità scolastiche è fondamentale, occorre infatti ricordare che molti adulti sono guariti dalla sindrome, ma non dai suoi effetti infatti si sono portati appresso le conseguenze dei loro insuccessi scolastici. La disabilità stessa nell’apprendimento, d’altra parte, può produrre irrequietezza in classe e le difficoltà possono essere dovute sia a ritardo mentale (lieve o moderato) sia a richieste scolastiche non adeguate alle capacità. Il DSM IV conclude tuttavia che un’altra possibile comorbidità è quella tra ADHD e ritardo lieve o moderato16. Questo confermerebbe i presupposti di quella tendenza di pensiero che vede la mancanza di attenzione e l’iperattività

16 Cfr. J.L. Rapaport, D.R. Ismond, DSM IV Guida alla diagnosi dei Disturbi dell’infanzia e dell’adolescenza, Masson, Milano 2000

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come sintomi riscontrabili in una vasta e variegata gamma di disturbi. In particolare:

- Disturbi del sonno: presentano una sovrapposizione in circa il 50% dei casi e possono presentarsi come problemi di addormentamento, risvegli notturni, movimenti involontari durante il sonno, risvegli precoci, parasonnie, sonnolenza diurna. Gli stimolanti possono accrescere i problemi di sonno, anche se, solitamente, il disturbo rientra dopo qualche tempo;

- Disturbo della lettura: la comorbidità può apparire con le diverse tipologie ma si può anche avere una ADHD che simula il disturbo di apprendimento, oppure il disturbo di apprendimento può simulare l’ADHD;

- Discalculia: l’incidenza di questa patologia con l’ADHD va dal 20 al 26%;

- Disturbo evolutivo della coordinazione motoria: si sovrappone all’ADHD in circa il 50% dei casi insieme ad altri problemi di sviluppo, le difficoltà nel disegno e nella scrittura, che si possono migliorare con gli stimolanti e che sono sensibili sia alla diagnosi precoce che al trattamento;

- Ritardo mentale: esiste una sindrome iperattiva, associata a ritardo mentale e movimenti stereotipati, basata sull’evidenza che i bambini con grave ritardo mentale (QI al di sotto di 50) presentano gravi problemi di iperattività e deficit attentivo, frequentemente presentano comportamenti stereotipati. Questa sindrome appare ben distinta e fortemente caratterizzata rispetto al quadro presentato dall’ADHD come l’abbiamo descritto fino ad ora; sottolineiamo anzi che un criterio per l’inclusione nel protocollo di osservazione, adottato dal Centro di II livello di Piacenza, comporta un QI superiore a 70.

La sindrome da ADHD può avere un’evoluzione specifica sia in fase adolescenziale sia in età adulta, con riduzione di alcuni sintomi e amplificazione di altri, in particolare tenderà a spostarsi sul disturbo attentivo e sulla difficoltà di pianificare e organizzare le attività (funzioni esecutive). In conseguenza, tuttavia, della diversa direzione che la sindrome assume e delle sue commistioni con problemi di tipo emozionale o di tipo comportamentale, riteniamo opportuno rimandare l’esame della tipologia dell’ADHD in adolescenza ad un successivo lavoro.

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4. Prognosi Diversi studi longitudinali che hanno verificato gli esiti dell’ADHD evidenziano che solo il 20% dei soggetti, ai quali era stato diagnosticato l’ADHD non manifesta più i sintomi quando raggiunge l’età adolescenziale. Le ricerche non forniscono dati chiari sul rapporto tra utilizzo tempestivo del farmaco e una prognosi favorevole. Chi ha analizzato in modo distinto il decorso di bambini con ADHD ha riscontrato che il 51% dei soggetti continua a presentare i sintomi anche in età adolescenziale e, se si pensa a come la sindrome fosse maggiormente misconosciuta fino a 20-30 anni , le percentuali sono sensibili di aumento. Resta da tener conto però che il diverso sistema educativo di allora probabilmente indirizzava più precocemente questa tipologia di ragazzi al di fuori del circuito scolastico (in alcuni casi forse anche con esiti positivi per i ragazzi stessi che trovavano maggiori gratificazioni in un ambito lavorativo pratico). Per quanto riguarda i bambini con solo Disturbo della Condotta in età infantile, questi ultimi manterrebbero invece tali comportamenti durante l’adolescenza nel 28% dei casi. La prognosi sarebbe nettamente più infausta per quei soggetti che presentano entrambe le problematiche: per questi ultimi la probabilità di ricevere la stessa diagnosi anche durante l’adolescenza salirebbe all’81%. Secondo R.J. Resnick17 i disturbi ritrovati più frequentemente in comorbidità nell’adulto con ADHD sono ansia e depressione, in particolare la depressione è, in assoluto, il più frequente. Secondo l’autore è d’altra parte difficile, spesso impossibile, discriminare un adulto con ADHD da una persona che presenti depressione. La depressione nei disturbi ADHD dell’adulto ha cicli brevi e il soggetto ADHD può passare dall’eccitamento alla depressione in pochi minuti o ore. L’autore conclude che non esiste una terapia risolutiva per l’ADHD nell’adulto. Il trattamento clinico ha l’obiettivo di aiutare la persona a capire l’ADHD, a gestirla, a modificare l’ambiente per diminuire i problemi di comportamento. Le fasi del trattamento sono costituite

17 Cfr R.J. Resnick, Impulsività, disattenzione e iperattività nell’adulto, McGraw – Hill, Milano 2002

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dall’apprendimento, dai farmaci, dalla psicoterapia e dalla modificazione dell’ambiente. Fondamentale è intervenire nel momento e nel luogo in cui i sintomi interferiscono con un aspetto della vita del paziente; nei casi più gravi, con il passare degli anni, l’adulto con ADHD può richiedere più interventi. Anche questo autore conferma che non c’è un esordio dell’ADHD nell’età adulta, si tratta di un disturbo cronico, che dura tutta la vita che è stato riconosciuto soltanto negli ultimi anni. Come clinici vorremmo aggiungere che, in fondo, in tutti i disturbi psicologico – psichiatrici, l’obiettivo dei diversi trattamenti non può, per definizione, essere la risoluzione di tutti i problemi (la vita stessa pone continuamente di fronte a situazioni nuove e/o stressanti che nessuno di noi è preparato a risolvere!); piuttosto si tratta di individuare e perseguire, per i nostri pazienti, quei livelli di competenza e benessere necessari a garantire una migliore qualità della vita.

Tab.1 Riepilogo

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5. Trattamento clinico Sono state individuati fino ad oggi tre approcci al disturbo: la terapia farmacologica, il training di autoregolazione cognitiva e l’educazione emozionale. Terapie farmacologiche Aspetti culturali sulla tematica “ farmaci e bambini” in Italia Il blocco relativo alla “liberalizzazione” del Ritalin e la lunga discussione che ha diviso la comunità scientifica italiana in merito alla vendita del farmaco stesso in Italia, ci portano a compiere alcune specificazioni (derivanti dall’esperienza di psicologi clinici che si occupano di disturbi neuropsicologici) necessarie per affrontare questa tematica in una prospettiva completa. Il problema non è tanto l’ammissione o meno del farmaco in Italia (che clandestinamente ha comunque un giro pur difficile da quantificare) quanto la definizione dei criteri di somministrazione. Un primo criterio coinvolge senz’altro il fattore età. Sull’età migliore per la somministrazione, a fronte di una diffusa tendenza americana che tende a inserire il farmaco nei protocolli per bambini di tre anni, pensiamo si possa e si debba contrapporre un lavoro educativo che coinvolga i genitori, che li sostenga e che cerchi di trasmettere loro quegli atteggiamenti di tolleranza e, insieme, di contenimento educativo che ha, a nostro parere, maggiori possibilità di successo all’interno dell’esperienza prescolastica. Il contesto familiare, infatti, e almeno i primi due anni di scuola materna sono facilitati da un setting che tende a privilegiare il gioco piuttosto che l’impegno su attività che richiedono un’attenzione sostenuta, di conseguenza risulta più agevole per il bambino con ADHD adeguarsi ad attività di basso impegno cognitivo. Il lavoro educativo, in questo senso altamente preventivo, è quindi più libero di concentrarsi sul rispetto delle regole del gioco; il contesto della scuola materna, tuttavia, può senz’altro, se vi è un ‘attenzione tempestiva alle problematiche comportamentali, porre le basi per un più

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funzionale impatto con il gruppo dei coetanei ed evitare così al bambino inutili frustrazioni. Anche il genitore, inoltre, tanto più bassa è l’età del bambino tanto più è portato ad accettare quella che può essere definita una “vivacità eccessiva”, specie se supportato in questo da un progetto educativo. Questo significa che in questa fase più che mai vale la pena di mettere le basi per lo sviluppo di un atteggiamento positivo del bambino nei confronti delle regole, dell’organizzazione e dell’apprendimento, utilizzando, per il raggiungimento di questi obiettivi, quelle modalità ludiche e quei rinforzi affettivi che possono essere più difficili da proporre con il passaggio alla scuola elementare. Tale passaggio pone il bambino in un contesto dove invece le richieste, le regole e, in generale, la capacità di adeguarsi ad un contesto strutturato aumentano repentinamente, mettendolo a confronto con quelli che sono i suoi punti deboli, ovvero la capacità di stare seduti e di lavorare su un compito cognitivo che facilmente rischia di essere considerato da lui noioso, ripetitivo e faticoso. La competenza richiesta aumenta ulteriormente nel caso in cui si presenti un Disturbo di apprendimento in comorbidità. Un primo criterio di cui tener conto nella somministrazione del farmaco, potrebbe essere quindi il tasso di richieste che il contesto pone al bambino che, nel suo caso, coincide con il passaggio alla scuola elementare (e quindi con i 6 anni di età). In questo senso consideriamo la scuola, per un bambino con ADHD, come uno di quegli “eventi stressanti” che richiedono, magari temporaneamente, il supporto di un farmaco per essere affrontati in modo da non dover successivamente subire conseguenze che, in un rapporto benefici-effetti collaterali, si concluda in perdita. Si pensi, ad esempio, ad un bambino con ADHD che, incapace di adeguarsi al compito e alle modalità dei compagni, sviluppi quel disagio, quel senso di ansia e di demoralizzazione che abbiamo visto accompagnarsi con alte percentuali a tale sindrome. Il criterio “età” andrebbe poi integrato con il criterio di gravità della sintomatologia. Su questo punto il DSM IV specifica che, per quanto riguarda l’inquadramento dell’estensione e della gravità dei comportamenti inappropriati, questo può essere reso più preciso dall’uso della Scala di Inquadramento Globale (SIG). Un’ultima variabile di cui tener conto è la presenza di disturbo

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specifico dell’Apprendimento facilmente in comorbidità con l’ADHD. Per quanto riguarda la scala SIG occorre tener conto che tale strumento è ancora poco in uso nei nostri Servizi e, quindi, sarebbe utile sperimentare e verificare in che misura possa valutare i livelli di gravità dell’ADHD, tuttora non definiti dal DSM che, invece, specifica (come segue) con precisione la gravità nel disturbo della condotta:

- Lieve: pochi o nessun problema di condotta al di là di quelli richiesti per fare la diagnosi e i problemi di condotta causano solo lievi danni agli altri (per es. mentire, marinare la scuola, stare fuori la sera senza permesso);

- Moderato: numero di problemi di condotta ed effetti sugli altrui intermedi fra lieve e grave (per es. rubare senza affrontare la vittima, vandalismo);

- Grave: molti problemi di condotta in aggiunta a quelli richiesti per fare la diagnosi oppure i problemi di condotta causano notevoli danni agli altri (per es. rapporti sessuali forzati, crudeltà fisica, uso di armi, furto con aggressione alla vittima, violazione di proprietà, scasso).

Riassumendo sulla questione ADHD e farmaco, dunque riteniamo che la questione si ponga quando si combinano il criterio della gravità con l’inizio della frequenza scolastica e l’eventuale associazione con un DSA:

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SCHEDA DI APPROFONDIMENTO

Gravità scolastica e farmaci In diversi settori della Neuropsichiatria Infantile, da un punto di vista semantico, gravità scolastica e clinica non coincidono: quello che per gli operatori è un disturbo lieve, per es. un quadro mentale borderline (capacità intellettive ai limiti inferiori della media), per la scuola si trasforma facilmente in una situazione di grave problematica scolastica. La relatività della gravità, in questo caso, è chiaramente marcata dall’ambiente, al di fuori del contesto scolastico: il bambino, infatti, potrebbe manifestare buone capacità pratiche e, al di fuori del contesto clinico, potrebbe rivelare altre forme di intelligenza le cui variabili non sono prese in considerazione dai test utilizzati ,come nel caso dell’intelligenza musicale o motoria. Per i ragazzi con ADHD, i cui sintomi sono prevalentemente comportamentali, questa distinzione è ancora più importante in quanto il concetto di “gravità” può variare a seconda delle variabili di personalità e del credo pedagogico degli adulti in gioco. La tabella che segue (pensata per bambini a partire dai sei anni) non vuole essere una classificazione tecnica quanto piuttosto una semplice base di partenza sulla quale scuola, famiglia e clinico possono confrontarsi per accordarsi sul livello di gravità individuato e condividere, dunque, sia le strategie educative che la decisione farmacologica in una prospettiva di mediazione.

Sul criterio della gravità clinica potrebbe essere utile un’ulteriore riflessione sui risultati alle Scale SDAI, valorizzando, in questo senso l’osservazione degli insegnanti nell’idea (che vale anche per il Disturbo della Condotta) che la gravità dell’ADHD possa essere valutata in base agli effetti che i comportamenti – problema provocano al bambino relativamente al concetto di Sé e agli altri in termini di difficoltà gestionale.

Disturbo D.S.A. Livello di gravità scolastica

Livello di gravità clinica

Attenzione e Iperattività combinato

Presente Grave Moderata

Tipo Disattenzione predominante

Presente Grave Lieve

Tipo Iperattvità – Impulsività

predominanti

Presente Grave Moderata

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Il processo di liberalizzazione nella somministrazione degli psicostimolanti ai bambini con ADHD sembra giustificato dai risultati evidenziati dalla letteratura secondo la quale il 70 – 80% dei bambini con ADHD di scuola elementare, trattati con il metilfenidato (commercializzato con il nome di Ritalin), mostrano una riduzione dei sintomi uguale o superiore al 50%. Va tenuto presente che, una volta sospesa la terapia, si ripresentano tutti i sintomi caratteristici del Disturbo. Riguardo a quel 20 – 30% di soggetti che non rispondono positivamente al trattamento farmacologico si pone l’opportunità di verificare l’esistenza di una componente depressiva, ansiogena o aggressiva che può risultare la sintomalogia prevalente e, quindi, di valutare l’utilizzo di altri farmaci. Gli effetti collaterali (calo dell’appetito e del sonno e quindi riduzione della crescita) si attenuano riducendo il dosaggio e calibrando i momenti in cui somministrare i farmaci. Nessun dato supporta l’opinione che gli psicostimolanti diano dipendenza o necessitino di incrementare il dosaggio per mantenere l’efficacia. Altri dati tenderebbero anzi a confermare come il rischio di “tossicodipendenza” diminuisca nei soggetti che hanno assunto metilfenidato rispetto a chi non l’ha assunto. Di comune rilevazione e particolarmente interessante è l’effetto che il farmaco produce nella relazione genitore – figlio: dal momento in cui i bambini migliorano il proprio comportamento anche i genitori riducono l’eccessivo controllo, il numero dei rimproveri e dei richiami e, parallelamente, aumentano le espressioni affettive nei confronti del figlio, diminuiscono le critiche e aumentano gli atteggiamenti concilianti durante le liti con i fratelli. La questione farmacologica è culturalmente molto delicata. Riviste a larga diffusione, come “Riza psicosomatica”, riportano posizioni quantomeno discutibili, in un articolo recente18 si parla di bambini molto vivaci, di crisi soprattutto della mamma e si conclude che il farmaco viene dato per i problemi dei genitori e non dei bambini. Oltre ad essere questa eventualità scarsamente probabile in Italia, dove la vendita del farmaco

18 Cfr Riza psicosomatica, “Le mamme in tilt col bimbo iperattivo” n. 293 luglio 2005

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ancora non è stata liberalizzata, ci sembra che l’articolo contenga una ambiguità di fondo. Il titolo “Le mamme in tilt col bimbo iperattivo” sembrerebbe alludere ad un problema clinico accertato (l’iperattività) ma, proseguendo nella lettura, l’impressione è che si parli di normali bambini vivaci e delle diffuse difficoltà degli educatori di oggi a proporre regole e limiti. L’articolo prosegue offrendo una descrizione che si adatta a molti bambini semplicemente "capricciosi" e conclude mettendo in dubbio l’esistenza stessa della sindrome. Secondo molti psicologi esiste una vera e propria Sindrome da Deficit di Attenzione con Iperattività che colpisce alcuni bambini. In USA spesso si ritiene giustificato in questi casi l’uso di psicofarmaci. Inutile dire che si tratta di un vero e proprio abuso, motivato più dai disturbi dei genitori (o dei medici) che da quelli presunti dei bimbi”19. Si ha la netta impressione che articoli come questo, se letti da madri che hanno un figlio che presenta il vero e proprio disturbo, ottengano come effetto proprio quello contrario all’assunto di base, cioè di far nascere sensi di colpa e di inadeguatezza laddove invece il genitore deve essere aiutato seriamente e concretamente ad affrontare quello che è considerato da molti il disturbo più grave in età evolutiva, se necessario, anche con il farmaco che comunque ha comprovata efficacia nella maggioranza dei casi. Certe posizioni, colpevolizzanti nei confronti dei genitori ed in particolare delle madri, non è nuova né in psichiatria né nel senso comune, basti pensare alle vicende sociali della schizofrenia che, dopo un esordio di patogenesi del tutto organicistica, vedeva, negli anni ’70, nella propria eziolologia la madre schizofrenogenica, poi la famiglia schizofrenogenica e, infine, la società schizofrenogenica. Un analogo destino è stato quello seguito dalle vicende dell’autismo e dell’anoressia. Per quanto riguarda quest’ultima abbiamo già affrontato la storia della “colpa” materna. Molte scuole di psichiatria, tuttavia, e la stessa Associazione degli psichiatri americani unitamente a una vasta parte della psichiatria e della neuropsichiatria infantile italiana, riconoscono ormai che esiste un’interazione di fattori che vede intervenire, nella costruzione del disturbo, fattori biologici, sociologici e psicologici con

19 pag. 31 dell’articolo citato in Riza psicosomatica

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incidenza che può variare ma che spesso arriva ad una incidenza del 50% della variabile biologica. Questo depone a favore di un approccio multidisciplinare ai disturbi mentali e, almeno in Italia, ad un atteggiamento ideologicamente meno condizionato riguardo l’approccio farmacologico, poiché rimane chiaro che, trattandosi di bambini, la componente educativa non può che rivestire un carattere assolutamente prioritario. Training cognitivo - comportamentale o di autoregolazione cognitiva Questi trattamenti uniscono all’utilizzo dei rinforzi positivi e negativi, caratteristici dei primi training comportamentali, l’insegnamento di alcune tecniche, che poi vedremo nel dettaglio, quali autoistruzioni verbali, problem solving e stress inoculation training (consapevolezza e controllo delle emozioni in situazioni stressanti). Sono previsti anche colloqui e riflessioni con cui l’operatore cerca di aiutare il bambino ad apprendere uno stile di attribuzione interno, cioè imparare a percepire i propri risultati come il frutto dell’impegno e delle strategie adottate. Per quanto riguarda il trattamento clinico dei disturbi da ADHD, i percorsi più sperimentati riguardano i training di autoregolazione, basati fondamentalmente sulle tecniche che consentono di arrivare ad un miglioramento nell’autocontrollo emozionale attraverso una riflessione metacognitiva. In tale processo si fa riflettere il bambino su come il pensiero influenzi le emozioni e su come, quindi, cercare di modificare i pensieri attorno ad un evento può aiutarlo a gestire meglio le emozioni negative: rabbia, tristezza, demoralizzazione (tutte, peraltro, spesso collegate a questo disturbo). Secondo alcune posizioni il percorso normale attraverso cui il bambino arriva all’autoregolazione dei propri comportamenti sarebbe una conseguenza diretta del dialogo interno in cui il soggetto riesce ad imporsi una sequenza di ordini capaci di regolare l’azione, competenza che in questo tipo di sindrome è tendenzialmente assente. L’insegnamento dell’autoregolazione basato su autoistruzioni verbali è stato largamente applicato nei bambini con ADHD; il presupposto di questo approccio è che il

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bambino riesca a supplire ad un carente sviluppo dell’autoregolazione attraverso l’interiorizzazione di consegne. Si è notato che in generale il trattamento metacognitivo riesce facilmente a sviluppare consapevolezze e abilità nelle situazioni di training, le difficoltà intervengono nella loro automatizzazione. Uno dei problemi con cui si scontra la realizzazione completa del training è che, per automatizzare un’abilità, è necessario ripetere molte volte le operazioni nei più svariati contesti; la difficoltà è quindi di portare tale trattamento al di fuori dell’ambulatorio applicando le competenze apprese nella scuola, in famiglia e nei contesti di socializzazione ludico-sportiva del bambino. Il programma di autoistruzione viene utilmente integrato da altre strategie di tipo cognitivo-comportamentale, quali le tecniche di problem solving, che costituiscono comunque una tipologia di autoistruzioni. Tecniche di soluzione dei problemi Diversi autori (Vio e coll. 1999)20 suggeriscono di imparare a riconoscere quelle situazioni particolari che portano il bambino a comportarsi in modo inadeguato; questo consente agli educatori di evitare atteggiamenti punitivi perché li aiuta sia a prevenire la comparsa dei comportamenti indesiderati sia ad aumentare la capacità di valutare preventivamente come agire in una situazione predefinita “a rischio”. In questo modo il comportamento non risulterà influenzato dalle emozioni negative che si scatenano quando il comportamento inadeguato è già stato messo in atto. Avere in mente un piano d’azione significa porsi in modo attivo nei confronti del bambino cercando di offrirgli un modello per pensare e pianificare le sue azioni evitando, in questo senso, di reagire ad azioni che partono dal bambino stesso. Si pensi, ad esempio, ad una situazione notoriamente a rischio come il momento della mensa in cui il bambino, in un contesto poco strutturato, tende ad avere comportamenti inadeguati come infastidire i compagni o non rispettare le regole del pasto.

20 Cfr C. Vio e altri, Il bambino con deficit di attenzione/iperattività, op. cit.

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In questo caso l’adulto, che può già prevedere un comportamento disturbato, può decidere come suo piano d’azione di modificare il contesto tenendo il bambino seduto accanto a sé, formulando con lui un contratto chiaro che preveda una “conseguenza” nel caso in cui il bambino non rispetti la regola. Il costo non dovrà essere però la mancata ricreazione o il mancato gioco dopo il pasto, perché risulterebbe inutilmente penalizzante per questo tipo di bambino. Potrebbe invece trattarsi di una punizione “costruttiva”, un’azione che lo impegni in un’attività, per esempio riordinare lo zaino o il suo banco, aiutare la bidella a pulire il corridoio, aiutare l’insegnante a preparare i materiali. E’ palese che alcune di queste mansioni prevedono una totale collaborazione e condivisione tra tutti gli adulti che si occupano del bambino, in particolare i genitori. In alternativa, nell’ambito di un contratto che può regolare più di un’attività del bambino, si può utilizzare il “costo della risposta” (per la spiegazione di questa tecnica si rimanda a pag. 55). In generale la pianificazione che l’adulto trasmette al bambino deve prevedere un modello di soluzione formato da cinque passaggi che costituiscono il modo migliore di procedere in qualunque situazione. Tale piano corrisponde, a grandi linee ad una delle procedure del problem solving scientifico e comporta:

- comprendere la natura del problema e determinare l’obiettivo;

- immaginare tutte le possibili soluzioni per affrontare il problema senza valutarle rispetto alla loro realizzabilità;

- individuare tra le soluzioni immaginate quelle che meglio si prestano nella specifica situazione;

- formulare un piano specifico per risolvere il problema; - verificare se il piano è stato eseguito ed è stata raggiunta

la soluzione del problema. Immaginiamo, ad esempio, un’attività in classe di piccolo gruppo per realizzare un cartellone di geografia in cui l’insegnante vuole trasmettere al bambino con ADHD il modo per riuscire a

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tenere l’attenzione sulla consegna rispettando nello stesso tempo, le regole del gruppo. Il bambino in quel momento preciso si sente stanco e avrebbe voglia di giocare con il compagno che gli è vicino nel gruppo il quale, invece, vuole stare attento, l’insegnante pensa per lui ad alta voce:

- comprendere la natura del problema e determinare l’obiettivo. “Il mio problema è che in questo momento ho voglia di andare a giocare come posso affrontare questa situazione senza mettermi nei guai? Rifletto: se infastidisco Luca lui non riuscirà a finire il suo lavoro e si arrabbierà con me, non ho molta voglia di ascoltare quello che dice la maestra, però questo disegno non è una cosa difficile, se ascolto riuscirò a fare quello che fanno i miei compagni insieme a loro” ;

- immaginare tutte le possibili soluzioni per affrontare il

problema senza valutarle rispetto alla loro realizzabilità. “Penso alle soluzioni: devo ascoltare l’insegnante almeno per sapere qual è il mio compito; poi so che l’insegnante mi chiede di ripeterle quello che lei ha detto; oppure posso chiedere a Luca di ripetermi quello che l’insegnante ha detto o copiare quello che fanno gli altri” ; ;;

- individuare tra le soluzioni immaginate quelle che

meglio si prestano nella specifica situazione. “Se voglio fare bene questo lavoro devo essere io a concentrarmi su quello che sta dicendo l’insegnante, non posso né copiare né chiedere a Luca” ;

- formulare un piano specifico per risolvere il problema.

“Mi isolo per 10 minuti dai compagni, mi concentro su quello che dice l’insegnante ripetendole quello che ho capito e chiedendole se è giusto” ;

- verificare se il piano è stato eseguito ed è stata raggiunta

la soluzione del problema. “Ora so esattamente qual è la mia parte e l’ho eseguita insieme agli altri, l’insegnante non ha dovuto richiamarmi e adesso possiamo andare giocare tutti insieme”.

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I passaggi che riguardano le autoistruzioni, inizialmente sono proposti come pensieri che l’adulto rivolge a se stesso che servono a guidare il ragionamento verso la soluzione. La necessità di proporre tali istruzioni attraverso il pensiero ad alta voce dell’adulto può risultare una modalità piuttosto faticosa per chi la sta proponendo, anche perché si tratta di proporre quello che è solitamente un dialogo interno e silenzioso come tappe di un dialogo esplicitato punto per punto. Inoltre, chi è abituato a padroneggiare strategie di soluzione dei problemi potrebbe preferire procedere in modo intuitivo o saltando alcuni passaggi; occorre ricordare tuttavia che la necessità di proporre modalità così strutturate nasce da un’obiettiva carenza del bambino a strutturare il proprio dialogo interno. Di conseguenza l’adulto, compiendo questa operazione sostituisce la propria mente competente e capace di procedere per punti ai processi di pensiero ancora immaturi del bambino al quale manca quel dialogo interno che sta alla base di tutte le strategie di pianificazione. Tecniche di rinforzo e di costo della risposta Una delle tecniche utilizzate per far apprendere ai bambini con ADHD le strategie adeguate alle diverse situazioni utilizza sistemi a gettoni o a punti. Questo è possibile, in particolare, all’interno di contesti controllati come la classe o l’ambulatorio del terapeuta. Il costo della risposta costituisce una forma di punizione in base alla quale il bambino perde dei punti se non rispetta alcune regole concordate. I comportamenti che vengono rinforzati riguardano:

- l’orientamento al compito; - l’esecuzione delle attività assegnate; - l’utilizzo di strategie cognitive competenti; - il controllo degli impulsi.

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I comportamenti che comportano la “perdita di punti” riguardano gli atteggiamenti di oppositività, di distruttività o di impulsività. Se la persona che effettua il training vuole ottenere miglioramenti nel comportamento del bambino deve sempre dispensare più premi che punizioni. Problemi legati a questo tipo di approccio sono costituiti dalla difficoltà del bambino di mantenere nel tempo i risultati ottenuti e, soprattutto, di generalizzarli ai diversi momenti e contesti di appartenenza; in questo senso spesso i bambini migliorano durante l’orario delle attività all’interno della classe o con l’eventuale insegnante di sostegno ma, per esempio, non si controllano a casa o nei momenti meno strutturati della scuola (ricreazione, gioco libero, mensa). I miglioramenti inoltre sono spesso elevati subito dopo la conclusione del trattamento ma, a detta dei genitori, nel giro di breve tempo la situazione tende a riproporsi tale e quale. Tecnica del modellamento (presentare modelli che illustrano i comportamenti richiesti) La tecnica di modellamento prevede che l’adulto – educatore riesca a proporsi, rispetto ad una situazione problematica, come modello di una procedura corretta e meditata, finalizzato al mantenimento di una condotta competente da parte del bambino. In questo senso l’adulto non deve solamente padroneggiare una tecnica di soluzione dei problemi ma anche essere in grado di proporre agevolmente e sistematicamente un nuovo stile di pensiero e di azione che fornisca al bambino un modello positivo di comportamento. Chi lavora con il bambino dovrà quindi aver ben sperimentato su se stesso le diverse tecniche di autoregolazione in modo da esemplificarle con chiarezza in situazioni operative. Educazione emozionale L’obiettivo dell’educazione affettiva è il riconoscimento delle emozioni e l’apprendimento della gestione delle emozioni negative.

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I presupposti della psicologia cognitiva indicano che è possibile imparare a riconoscere le proprie emozioni e a valutarne l’intensità attraverso processi metacognitivi di auto – osservazione. Pensieri, emozioni e comportamenti sono collegati da un processo dinamico ed interattivo: il pensiero influenza l’emozione la quale, a sua volta, determina il comportamento (oppure il processo prende l’avvio direttamente dall’emozione). L’emozione, tuttavia, risente di un insieme di credenze, pensieri e opinioni che tutti noi elaboriamo su noi stessi, sugli altri e sul mondo e che si trasformano in pensieri automatici che ci condizionano negativamente nei comportamenti proprio nella misura in cui sfuggono al nostro controllo consapevole. I training emozionali si propongono di aumentare nei soggetti la competenza a riconoscere le proprie emozioni, a riconoscere i pensieri automatici che possono esserne alla base e a modificarne i contenuti che possono essere eccessivi sia in senso negativo che in senso positivo, orientandoli verso modalità più realistiche. Per quanto riguarda i bambini sono stati predisposti training emozionali in grado di aiutarli a gestire la rabbia, la tristezza, l’ansia tutte emozioni che possono pesantemente interferire con il loro modo di proporsi ad adulti e compagni e con la stessa motivazione scolastica. È palese come le caratteristiche del bambino con ADHD lo espongano più di altri a situazioni conflittuali, frustranti e a difficili rapporti in tutti i contesti di appartenenza a causa della pervasività del disturbo. Di conseguenza l’aumento delle competenze emozionali può diventare uno strumento importante per migliorare le abilità relazionali del bambino. Anche per questo tipo di training è indispensabile un lavoro multimodale che preveda un’attività con l’intero gruppo classe, un intervento individuale con il bambino e il coinvolgimento dei genitori. La famiglia sarà essenziale sia per ottenere informazioni preziose sulla storia del bambino, sui suoi comportamenti e su ciò che lo motiva e gli interessa, sia per applicare anche in questo contesto strategie educative mirate alla gestione del disturbo.

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Nei Servizi di Neuropsichiatria Infantile è facile incontrare casi multiproblematici rispetto ai quali, piuttosto che non svolgere alcun tipo di intervento, si può rischiare di fare un intervento (per esempio il training autoregolativo) col solo bambino, in questo caso, a nostro parere, è preferibile optare per altre tipologie di lavoro (centro educativo, supporto psicoeducazionale ai genitori, inserimento in attività di interesse sportivo del bambino) piuttosto che cedere al fascino dell’intervento molto tecnico e mirato ma inutile, se non attivato in rete e stretta collaborazione tra scuola famiglia e Servizi.

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6. Il funzionamento cognitivo nel bambino con ADHD

E.A. Kirby e K. Grimley21 individuano l’importanza della capacità di usare il pensiero per regolare la concentrazione e mantenere l’attenzione e l’impegno durante la soluzione dei problemi. Poiché, come abbiamo visto, gli eventi cognitivi sono pensieri “automatici”, essi influenzano il comportamento con modalità spesso non consapevoli: il bambino non li controlla e non si rende conto di sperimentarli. Il pensiero automatico trasmette immagini che influenzano in modo importante la regolazione autonoma delle emozioni e dei comportamenti. Poiché le difficoltà dei bambini con ADHD comportano carenza nella regolazione dell’attenzione, delle emozioni e del comportamento, risulta fondamentale analizzare il contributo dei pensieri automatici nel determinare i sintomi di questo disturbo. La psicologia cognitiva parla, a questo proposito, di “difficoltà nel dialogo interno” ovvero di quella funzione del pensiero che permette al bambino attento di guidare se stesso nella definizione e nella comprensione del compito, nella elaborazione delle soluzioni, nel controllo del e degli errori e nella previsione dell’esito finale. Il bambino con ADHD fa fatica a sfruttare il dialogo interno, perciò incontra difficoltà in quei compiti e in quelle situazioni che richiedono impegno continuato, autoregolazione e autocontrollo. Obiettivo dei training cognitivi di autoregolazione è che il bambino apprenda ad autosomministrarsi delle istruzioni, ad automonitorarsi e valutarsi in situazioni scolastiche e sociali di soluzione dei problemi. L’osservazione ed il confronto con bambini ADHD, circa le loro difficoltà, mettono in luce la mancanza di strategie cognitive. La possibilità che tali strategie possano essere apprese ed applicate è spesso sconosciuta sia dagli insegnanti sia dalle famiglie e

21 Cfr E. A. Kirby, L. K. Grimley, Disturbi dell’attenzione e iperattività, Erickson, Trento 1989

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costituisce l’oggetto dei diversi training di autoregolazione proposti dalla scuola cognitiva.

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7. L’apprendimento scolastico Sul piano degli apprendimenti e delle tecniche di insegnamento dobbiamo rilevare come, sia nel caso del soggetto con ADHD sia nel caso del bambino ansioso o depresso o comunque con disturbo dell’umore, risultino funzionali strategie cognitive adeguate a rendere l’apprendimento il più possibile meccanico e schematico anche se le ragioni, per cui questo si rivela funzionale, sono molto diverse. Nei disturbi dell’umore e d’ansia in particolare, se il compito è reso più accessibile e schematico, si riduce l’ansia che la complessità tende naturalmente a suscitare in quanto maggiori sono le componenti cognitive di un compito da tenere sotto controllo. Anche per il bambino con ADHD la schematizzazione del compito risulta funzionale e aderente al problema della caduta nell’attenzione sostenuta (come ad es. lo studio di concetti complessi) e in quella gratuita, ovvero dove non c’è motivazione (come ad es. lo studio di una materia considerata noiosa); in questo senso la complessità e la lunghezza del compito comporta due diversi ordini di competenze:

- il problema di escludere gli elementi irrilevanti; - la capacità di differire la gratificazione legata

all’assolvimento del compito (che pare invece influenzare positivamente l’atteggiamento del bambino con ADHD).

Un altro aspetto di cui l’insegnante potrà tener conto, nei bambini in cui è presente, sarà la valorizzazione delle componenti intuitive dell’intelligenza. E’ comune esperienza incontrare nella scuola bambini che, pur non avendo ricevuto una diagnosi di ADHD (anche per le minori conoscenze diffuse nei servizi nello scorso decennio), presentano tuttavia alcune delle loro caratteristiche come, per esempio, l’intelligenza intuitiva e il bisogno di essere gratificati, accompagnati da scarsa capacità attentiva. E’ spesso accaduto che l’insegnante, più o meno consapevolmente, tendesse ad ignorare il bisogno di intervenire (anche in modo pertinente) di questi bambini in parte a causa della loro propensione alla disattenzione (un po’ come se quest’ultima venisse considerata intenzionale, ma non è possibile dirlo con certezza a distanza di

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tempo) e in parte per l’aspettativa negativa ingenerata dai numerosi interventi di disturbo attivati da questi soggetti. Intenzionale o meno, questo atteggiamento tendenzialmente sanzionatorio risulta in generale scarsamente funzionale e, in particolare, decisamente negativo con i bambini con ADHD. Va ribadito infatti che, mancando a loro l’attenzione con tutte le componenti che ne abbiamo elencato, si ritrovino privi di uno strumento fondamentale per il successo scolastico, in questo senso richiedono quindi maggiori rinforzi rispetto a chi non presenta questo disturbo. Il ruolo dell’insegnante è quindi veramente cruciale rispetto alla propria disponibilità ad accogliere e rinforzare ogni segnale di interesse dell’allievo verso l’attività didattica, nonostante che in molte situazioni il bambino possa metterne a dura prova la pazienza con la sua difficoltà nell’adeguarsi alle richieste e o con comportamenti provocatori. Occorre infatti tenere presente che l’attenzione stessa dell’insegnante è forse il più potente dei rinforzi 22. A questo proposito, nel manuale dell’AIDAI23 (Associazione Italiana Disturbi da Deficit di Attenzione e Iperattività) nel capitolo riguardante le linee guida per l’insegnante, vengono specificati tre modalità di intervento: intervenire su di sé, intervenire sul bambino ed intervenire sulla classe. Viene sottolineato come la presenza di un bambino ADHD nella classe può costituire un’occasione importante per valorizzare le diversità di ciascuno e riflettere sulla capacità di accettare l’altro con le proprie caratteristiche specifiche e uniche. La scommessa educativa rispetto al gruppo classe è di costruire un clima dove ognuno possa esprimere le proprie caratteristiche e mettere in campo un apprendimento coinvolto. Nel caso del bambino con ADHD risulterebbe fondamentale partire dal principio secondo cui l’attenzione si può e si deve insegnare. Secondo l’autore “nel caso specifico del bambino con disturbo

22 Si pensi al famoso effetto Pigmalione messo in luce da una delle prime ricerche di psicologia sociale nella quale due gruppi identici di ragazzi avevano avuto esiti scolastici molto diversi a seconda di come erano stati presentati agli insegnanti: il gruppo presentato come particolarmente dotato era risultato alla fine dell’anno con risultati nettamente superiori, questo perché gli insegnanti li sollecitavano di più, rivolgevano a loro più attenzioni, più spiegazioni ed interventi. 23 Cfr G. Perticone (a cura di), Deficit dell’attenzione iperattività e impulsività, Armando, Roma 2005. L’AIDAI è un’organizzazione senza scopi di lucro costituita da operatori clinici (medici e psicologi) e addetti al mondo della scuola (insegnanti e pedagogisti) che si occupano di formazione, ricerca, convegni e pubblicazioni sulla tematica. I clinici forniscono consulenza, diagnosi e terapie alle famiglie coinvolte.

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di attenzione si rende assolutamente necessaria l’assunzione di un principio ormai pienamente sostenuto dalla pedagogia scolastica, quello secondo cui l’attenzione si può e quindi si deve insegnare. In altre parole, si deve superare l’equivoco secondo cui questa abilità debba essere esclusivamente ricondotta:

- ad un repertorio di capacità innate immodificabili; - ad un atto di volontà, da parte del bambino, che non

occorre insegnare così come si insegnano altre abilità”.

Sulla base della nostra esperienza di psicologi che collaborano con la scuola, queste convinzioni peraltro, risultano ancora largamente diffuse e rischiano di ingenerare sfiducia e scarsa motivazione ad intervenire con i bambini che presentano disturbi comportamentale e attentivi. I costrutti cognitivi legati alla volontà ci sembrano molto radicati nella cultura pedagogica corrente e questo appare testimoniato anche dalla persistenza nel linguaggio di espressioni legate all’indolenza del bambino, alla pigrizia, alla scarsità di rispetto da lui mostrata piuttosto che a questioni motivazionali24. Le linee guida contenute nel manuale dell’AIDAI offrono schede di lavoro operative e suggerimenti concreti e utili sia per individuare precocemente il problema sia per intervenire correttamente in classe. Insieme alle altre attività dell’associazione, possono costituire un punto di riferimento comune per insegnanti genitori e operatori.

7.1. Strategie educative e approccio didattico Il bambino con ADHD sul piano normativo necessita di poche regole comportamentali chiare, ripetute, espresse linguisticamente in forma positiva e semplice; sarà quindi funzionale impiegare strategie che abbiano l’obiettivo di costituire norme che in principio sono vissute come esterne. La proposta prevede che l’adulto si costituisca inizialmente come

24 Anche quando sul piano degli obiettivi e dei progetti si invoca la necessità di una prospettiva formativa e individualizzata per il bambino e l’opportunità di far leva sulle motivazioni e sull’autonomia, nei fatti risulta ancora preponderante la tendenza a far riferimento a modelli cognitivi ed educativi che riconducono in modo inconsapevole e automatico, per l’appunto, agli schemi delle competenze innate e della cattiva volontà.

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modello di autocontrollo, il passo successivo consisterà nell’insegnare al bambino ad appropriarsi della norma attraverso quell’autoregolazione cognitiva ed emotiva interna che gli consente di modulare progressivamente le proprie risposte e reazioni in modo congruo alle azioni e/o “provocazioni” dei compagni (e cioè autocontrollato). Sul piano del funzionamento didattico, la letteratura sulle strategie di attenzione richiama spesso alla necessità di rendere l’ambiente scolastico, anche sul piano fisico, adatto a prevenire la distraibilità, per es, collocando il banco abbastanza vicino all’insegnante che possa monitorare il bambino ma anche di non lasciarlo troppo isolato e privo di stimoli: i rischi sarebbero infatti o la caduta nell’apatia (specie per i più grandicelli) o la tendenza del bambino ad autostimolarsi ricadendo così nel comportamento problema. Sul piano invece della relazione interpersonale e all’interno di una concezione dinamica dell’apprendimento esistono modalità di interazione didattico-educativa che si prestano particolarmente a valorizzare gli aspetti intuitivi, creativi e di curiosità tipici dei bambini con ADHD. La tendenza a porre domande, per esempio è abbastanza tipica del bambino con ADHD, in parte come strategia di evitamento del compito ma spesso anche per reale curiosità verso ambiti del sapere non precostituiti . In questo senso sarà utile all’insegnante disporre di strategie in grado di neutralizzare le domande non pertinenti o fuorvianti rispetto ai contenuti proposti ma nello stesso tempo essere capace di valorizzare quelle domande che sembrano risvegliare l’interesse del bambino verso l’apprendimento. Dobbiamo ricordare che quello che è un tratto distintivo e specifico dell’approccio del bambino con ADHD, ovvero l’essere attratto da tutto ciò che è nuovo mentre lo annoia e non regge la ripetitività, può essere nel contempo un limite o una risorsa. Come spesso accade, un tratto cognitivo e temperamentale può contenere al suo interno sia la parte costruttiva che distruttiva, la parte distruttiva dell’essere attirati dal nuovo è il rischio della dispersività, la parte costruttiva è l’interesse alla scoperta. Il quesito è, allora, come valorizzare la propensione alla scoperta del bambino con ADHD . Una proposta interessante ci sembra quella contenuta nella “didattica delle domande legittime” introdotta da Von Foerster, cibernetico austriaco, che definisce

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con questo termine domande di cui non si conosce anticipatamente la risposta, l’autore sostiene che un sistema educativo, che non tiene conto e non valorizza gli aspetti di imprevedibilità e novità della didattica, rischia di “controllare il sapere”. A questo proposito D. Novara25 evidenzia l’importanza di promuovere una dimensione creativa del sapere ampliando il concetto di domanda legittima come “domande che non presuppongono una risposta preconfezionata (o “esatta”) ma che lasciano aperte varie ipotesi di risposta”. Successivamente prende in esame le difficoltà e le barriere degli insegnanti (ansia del nuovo, timori relativi al rapporto con gli alunni ecc...) di fronte ad un metodo caratterizzato dall’imprevedibilità contrapposto ad una didattica articolata con indicazioni precise e rassicuranti che consente di lavorare su contenuti strettamente controllati. D’altra parte, prosegue Novara: “Il cuore del processo didattico si situa nella caratteristica della domanda che necessita di un lavoro di ricerca squisitamente peculiare; ogni domanda ha un suo proprio sviluppo di ricerca. Al proposito vanno fatte alcune osservazione. Il ruolo dell’educatore (insegnante o meno) è fondamentale sia per selezionare la domanda più pertinente onde avviare una ricerca che porti effettivamente a qualcosa, sia per aiutare il gruppo ad organizzare il lavoro, nell’individuare bene i compiti e i luoghi dove avviare l’esplorazione. È quindi un ruolo di regia, che sta a significare la capacità di facilitare l’apprendimento più che distribuire informazioni e contenuti. A livello scolastico, un metodo del genere non significa affatto l’abolizione degli obiettivi ossia delle concrete capacità a cui il ragazzo o la ragazza devono pervenire. Essi però non vengono presupposti anticipatamente in modo da organizzare per ogni obiettivo delle attività corrispondenti, ma restano sullo sfondo dell’attività didattica. Gli apprendimenti infatti avvengono sul concreto percorso didattico e si attivano sulla base delle esigenze della ricerca stessa”26. Si rimanda chi fosse interessato ad una traduzione operativa alla scheda di approfondimento che segue.

25 Cfr D. Novara, L’ascolto si impara, Gruppo Abele, Torino 1997 26

Cfr. D. Novara, L’ascolto si impara, cit. pag. 80

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SCHEDA DI APPROFONDIMENTO

Didattica delle domande legittime

- le domande legittime sono quelle che non presuppongono una risposta preconfezionata (o “esatta”) ma che lasciano aperte varie ipotesi di risposta;

- le domnande legittime sono quelle che si pongono per sapere e non per “controllare il sapere”.

- sono domande di cui non si conosce anticipatamente la risposta.

Didattica delle domande legittime: le possibili applicazioni

tratta da D. Novara, L’ascolto si impara, cit. pag. 81

Domande legittime di opinione personale

Che sensazioni provi leggendo questa lettera? Cosa ne pensi di…?

Domande legittime di ricognizione

Quanti fiori gialli ci sono in questo prato?

Domande legittime di ricerca vera e propria su problemi

In che modo i ragazzi/e possono contribuire alla vita democratica? Perché gli zingari vivono così ai margini della società?

Domande legittime su questioni controverse

È bene cambiare la Costituzione italiana? Come è nato l’universo?

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Nell’ambito delle strategie che coinvolgono l’apprendimento del bambino con ADHD ci si trova dunque a proporre da un lato compiti strutturati, schemi di lavoro, prevedibilità e organizzazione e, dall’altro, a ricercare strumenti che attingono alla creatività e all’intuito come la tecnica delle domande legittime. Questi approcci, lontano dall’essere in contraddizione tra loro, risultano invece funzionalmente complementari e rispondenti a bisogni diversi del funzionamento del bambino. Il piano della strutturazione e dell’autoregolazione risponde al deficit e va quindi costruito per schemi e modelli; il piano della motivazione e dell’investimento sull’apprendimento va invece costruito a partire dalle risorse, da funzioni preservate che vengono valorizzate dalla componente intuitiva e creativa dell’attenzione.

Tab.2 Motivazione e autoregolazione

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La tabella cerca di portare ulteriori elementi di chiarezza ai problemi che ci siamo posti in precedenza su come sia possibile coniugare motivazione e attenzione nel bambino con ADHD. Utilizzare la domanda nel senso sopra esposto è un'importante forma di incoraggiamento ai comportamenti positivi e di partecipazione del bambino che valorizza, anche all’interno del gruppo, i suoi tratti personali più positivi quali l’intuitività e la creatività. L’incoraggiamento dato al bambino con ADHD assume anche la forma della gratificazione e quindi il valore aggiunto in termini di rinforzo per qualcosa che il bambino ha fatto, ha compiuto, ha svolto.

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8. Il bambino iperattivo tra scuola e famiglia

8.1. Atteggiamenti educativi: dalla posizione “ingenua” alle strategie condivise

I sintomi connessi all’ADHD uniti talvolta ad altra sintomatologia in comorbidità (Disturbo Oppositivo Provocatorio, Disturbo Specifico dell’Apprendimento, Disturbo della Condotta) rendono particolarmente difficoltoso per adulti e coetanei trovare un modo funzionale di relazionarsi con il bambino a causa della specifica natura comportamentale di questo disturbo. La gestione di questi disturbi nella scuola risulta, in questo senso, tradizionalmente basata su una posizione “ingenua” che fa riferimento ad aspettative del tipo che il bambino potrebbe migliorare “se solo lo volesse” che non cambia perché “non vuole, o non capisce o vuole contrapporsi premeditatamente alle richieste dell’adulto” In questa posizione sono frequenti i confronti con gli altri bambini e il riferimento alla buona volontà di questi ultimi nell’accettarlo nonostante i suoi comportamenti impulsivi. È frequente anche il ribadire come si sia tentato di tutto, dall’incoraggiamento al rimprovero, alla punizione, di solito senza risultati; spesso nei casi più gravi l’unica soluzione per lavorare con il resto della classe è l’allontanamento del bambino con l’insegnante di sostegno, se questa è a disposizione, o affidandolo a personale ausiliario se manca. Queste modalità di solito non sono programmate, sono piuttosto basate sull’emergenza e sulle risorse a disposizione in quel momento e sono individuate come momento di “sfogo”, utile per il bambino che “non regge il ritmo dell’attività”, ma anche come momento necessario all’insegnante per poter recuperare lei stessa un po’ di energia. Questa posizione, affidata alla spontaneità e quindi alle valutazioni del momento, risulta sovente connotata da sentimenti di impotenza, disperazione, difficoltà nel contenere la propria reattività e quindi problemi nel proporre

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comportamenti basati sulla ragione piuttosto che determinati dalla rabbia e dalla reattività. Nella nostra esperienza di lavoro solo quegli insegnanti – educatori dotati per loro natura di capacità di autocontrollo e di autorevolezza riescono (sia pure pagandolo in termini di stress nel lungo periodo) a gestire l’impulsività e/o l’oppositività tipica dei disturbi comportamentali infantili. Ricordiamo, a questo proposito, che l’educatore educa innanzitutto con il proprio atteggiamento e le proprie convinzioni profonde delle quali a volte nemmeno lui è consapevole; quando queste convinzioni fanno riferimento ad una profonda fiducia nelle capacità di cambiamento del bambino sono certamente un punto di forza; a volte però succede che a fronte di una convinzione esplicita che riguarda per es. la propria capacità di accettare una situazione si accompagni un implicita difficoltà nell’accettarla che agirà negativamente e imprevedibilmente sul comportamento del bambino27. A parziale giustificazione delle difficoltà incontrate dagli adulti nella gestione del problema si è posto in passato e in parte, si pone tuttora il problema di addivenire ad una diagnosi non solo corretta, ma anche precoce e tempestiva. Gli studi più sistematici compiuti dalla comunità scientifica hanno ampliato le conoscenze sulla tematica ma hanno anche reso più complesso definire come orientarsi nell’intreccio tra fattori neurobiologici, familiari, educativi, sociali e scolastici. È proprio per questa aumentata complessità che diventa più che mai indispensabile la collaborazione tra tutti gli adulti che si interfacciano con il bambino, in modo da arrivare insieme al superamento delle posizioni ingenue e avviarsi verso un progetto condiviso e sistematico. Il passo successivo è il mantenimento del progetto: il trattamento dei disturbi inerenti l’autoregolazione implica infatti la costanza nell’intervento congiunto tra famiglia, scuola e clinico; diversamente ci si scontra con la difficoltà dei bambini ad andare oltre la autoconsapevolezza e le competenze ottenute nel contesto clinico estendendo invece il controllo dei meccanismi imparati

27 Cfr. M. Esposito, C. Molinari, L’educazione inconsapevole, La Meridiana, Molfetta 1994

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negli ambienti di vita. Diventa quindi fondamentale evitare una negativa specularità di atteggiamenti nei quali, alla discontinuità del bambino nel mantenere quanto acquisito, faccia seguito una discontinuità educativa da parte dell’adulto. Analogamente, in termini emotivi, allo sconforto del bambino per le eventuali “ricadute” nei comportamenti – problema, sarebbe auspicabile il mantenimento da parte dell’adulto della fiducia e del sostegno.

8.2. Barriere emotive e cognitive nel rapporto educativo con il bambino con ADHD (ovvero mille motivi per non dire “Siediti e stai attento!”)

Qualsiasi tipo di disagio o disturbo nel bambino tende, per definizione, a creare nell’adulto una reazione emotiva vuoi di tipo difensivo (negazione che il problema lo riguardi) vuoi di altro tipo: intolleranza, rabbia, depressione e demoralizzazione, delega fino al rifiuto. Queste emozioni, secondo un approccio psicodinamico, tendono a coincidere con quelle provate dal bambino nei confronti delle proprie difficoltà e quindi il bambino stesso, non tollerando il dolore che gli provocano, tende inconsapevolmente a proiettarle dentro l’insegnante28. Le emozioni negative dell’insegnante, in questo senso, sono un interessante indicatore rispetto a quelle vissute dal bambino e in questo senso l’auto – osservazione dei propri sentimenti può costituire un canale privilegiato per favorire l’empatia verso quelli del bambino: se l’insegnante sperimenta impotenza, è possibile che anche il bambino la sperimenti, se è arrabbiato, triste, stanco o deluso, gli, sarà utile prendere in considerazione l’ipotesi che anche il bambino possa sperimentare un disagio speculare al suo. Le emozioni negative precedentemente evidenziate nascono spesso da convinzioni (eredità educative del passato) tuttora

28 Cfr. Salzberger – Wittemberg, L’esperienza emotiva nei processi di insegnamento e apprendimento, Liguori, Firenze 1987

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molto diffuse anche se oggetto di fondati dubbi. Infatti è molto difficile, se non si è aiutati, maturare una posizione di accettazione che nasce, in gran parte, dalla sensazione che si sta facendo il possibile all’interno di un progetto condiviso. Per arrivare a questa posizione è necessario (anche se non sufficiente) un percorso emozionale e di autoconsapevolezza dell’educatore29. La formazione è una via indispensabile da percorrere per tutti coloro che si vogliono trovare alternative funzionali ai vincoli dell’educazione formale e tentare la strada della comprensione dei bambini, ma diventa vitale per la sopravvivenza stessa dell’educatore quando si trova ad interagire con bambini che presentino disturbi del comportamento. Sul piano educativo, in realtà, discipline diverse, come la pedagogia, la psicoanalisi e le scienze cognitive spesso propongono modalità che si adattano ai bisogni di tutti i bambini a prescindere che trovino le loro radici nell’approccio alla normalità o al disturbo. I training di autoregolazione emozionale ( riconoscimento e gestione delle emozioni negative), proposti dall’approccio cognitivo, per non essere applicati come un ricettario e in seguito rapidamente abbandonati, dovrebbero essere sperimentati in prima persona dagli educatori . Il bambino con disturbo comportamentale si trova, per definizione al centro di situazioni conflittuali e, in questo senso, facilmente prova la reattività dell’insegnante. A questo proposito D.Novara scrive: “Di fronte ad un bambino che fa i capricci ognuno di noi attiva delle risposte che hanno ben poco di intenzionale, in genere mutuate da propri personali apprendimenti, da copioni infantili acquisiti senza una sufficiente rielaborazione , per cui vi sarà chi molla al bambino un ceffone, chi gli urla, chi lo lascia al suo destino, chi lo affronta sul piano del dialogo. Fino a che punto le buone idee pedagogiche agiscono nei momenti di

29 Cfr. D. Novara e M.B. Gnani Montelatici, “Le radici biografiche: educazione ricevuta e gestione dei conflitti” in So – Stare nel conflitto, Edit Faenza, Ravenna 2002; D. Novara, “La necessità di autoconoscenza in chi esercita compiti educativi” in L’ascolto si impara, Gruppo Abele, Torino 1997

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tensione educativa – relazionale?” e aggiunge più avanti “Il prendersi cura, l’educarsi per raggiungere una maggiore consapevolezza di sé come educatori non significa vincolarsi ad un discorso puramente psicologico quanto ricostruire in funzione dell’operare educativo i blocchi ed i nodi biografici che possono impedire lo scorrere dell’intenzionalità e della capacità di gestire correttamente il proprio potere educativo. Formarsi, in uno sforzo di introspezione è il compito principale di chi vuol essere a sua volta educatore” 30. La formazione stessa ( specifica per i diversi ruoli e/o con momenti comuni) diventa in questo senso, il terreno per favorire l’incontro e il dialogo tra le parti. La formazione del singolo insegnante, come si vedrà anche dalla gestione del caso clinico riportata più avant, è risultata incisiva nella costruzione di una relazione efficace anche per l’apprendimento, ma non è sufficiente per incidere sui diversi contesti di vita del bambino. Scuola e famiglia infatti sono sistemi troppo complessi perché un disturbo comportamentale possa essere affrontato da un singolo (anche se dotato di propensione a questo tipo di lavoro); è quindi indispensabile il ricorso ad un confronto tecnico e sistematico a cui contribuiscono gli operatori di settore, gli insegnanti e i genitori, ed è da questa posizione culturale che occorre partire per riuscire ad incidere sulle numerose variabili del problema. D’altra parte la carenza di informazioni obiettive e chiare sulla diagnosi e l’intervento lascia spazio ad atteggiamenti che riprendono i presupposti educativi basati sulla colpevolizzazione del soggetto “inadeguato”. Questi approcci tradizionali e poco efficaci stimolano nell’adulto una risposta punitiva o, al contrario, totalmente permissiva, entrambe derivate da una posizione emotiva di sostanziale impotenza; in alternativa scattano quei richiami che rispondono spesso a degli automatismi educativi del tipo “siediti e stai attento!” “sei sempre il solito!” “torna immediatamente al tuo

30 Cfr D. Novara, L’ascolto si impara, op. cit. pag. 88

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posto!” “adesso vai fuori!” “smetti di dare fastidio ai tuoi compagni!”. Tipicamente poi, l’educatore entra nel circuito dell’impotenza effettiva; il ripetersi di questo tipo di reazione infatti, di solito, peggiora i comportamenti del bambino, finendo per aumentare il senso di fallimento dell'insegnante. Un altro aspetto scarsamente valorizzato da parte degli adulti – educatori è l’interazione tra motivazione/gratificazione e volontà/capacità di impegno. Il concetto d’altra parte è complesso ed i meccanismi non ancora chiariti a causa del modo in cui interagiscono le variabili personali, sociali ed educative e sul disturbo in esame. Pur tenendo conto dei diversi livelli di gravità della sindrome da ADHD e quindi degli interventi modulari che vanno da funzionali modalità educative ai training di autoregolazione fino all’intervento farmacologico, occorre tenere presente che un atteggiamento educativo appropriato svolge sempre una funzione “terapeutica” o quantomeno di importante fattore di protezione contrapposto al fattore di rischio, in qualunque tipo di disagio o disturbo infantile. In particolare per il bambino con ADHD la motivazione gioca un ruolo centrale in quanto le sue difficoltà riguardano l’attenzione sostenuta o più specificamente gratuita.

8.3. Interazioni tra motivazione e attenzione

Per poter comprendere verso quali attività il bambino si mostra più motivato, è necessario stabilire con precisione i compiti che è in grado di svolgere; partendo da questi, si potrà condurre l’osservazione in diversi contesti al fine di rilevare i tempi minimi e massimi di attenzione.

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È molto difficile stabilire dei punti di forza generici per i bambini con ADHD, ogni soggetto infatti, oltre ad essere dotato di una sua unicità personale, presenta anche un diverso intreccio di “sintomi” (compresi la presenza o l’assenza di altri disturbi in comorbidità). La letteratura riporta comunque, come caratteristiche cognitive tipiche, la capacità intuitiva, la creatività, la molteplicità degli interessi; a livello emozionale, la generosità, la spensieratezza, l’allegria. Una delle attività regolative più importanti si attua proprio insegnando al bambino a prendere coscienza delle proprie emozioni, comprese quelle positive, a contestualizzarle e a mirarle. Il bambino potrà per esempio comprendere, prima sul piano concettuale e poi su quello emotivo, le differenze tra un’emozione positiva generica (la serenità con cui incomincia la giornata) e diversi sentimenti specifici (la gioia per la vittoria conquistata in un gioco, la soddisfazione per un compito ben riuscito o, ancora, la gratificazione affettiva per le attenzioni ricevute da un compagno). Il passaggio successivo sarà quello, ancora più importante, di insegnare il più precocemente possibile al bambino (già dalle prime classi di scuola elementare) non solo a conoscere, ma soprattutto a modulare le proprie reazioni emotive: imparare la differenza tra un comportamento di esultanza e una manifestazione di eccitamento priva di controllo, apprendere come non abbattersi troppo e/o come non reagire provocatoriamente e aggressivamente nel caso di una sconfitta. Comportamenti congrui andranno “insegnati” al bambino in tutti i contesti di appartenenza con strumenti metacognitivi e di modellamento. Occorre distinguere questa modulazione attenta dalla repressione. Non si tratta infatti di sgridare il bambino con le inevitabili connotazioni moralistiche che questo atteggiamento assume, soprattutto quando si tratta di comportamenti che noi

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riteniamo per definizione non controllabili dal soggetto e quindi parzialmente indipendenti dalla sua volontà, si tratta piuttosto di accettare inizialmente le sue manifestazioni per quello che hanno di positivo in termini di entusiasmo o passione per qualche attività, offrendogli però, nel contempo, gli strumenti per comunicare agli altri, in modo adeguato, tale entusiasmo. Un’osservazione spesso riportata dai genitori riguardo alle vacanze e al tempo libero, momenti che consentono a tutta la famiglia una gestione più rilassata dei tempi e delle attività rispetto al tempo della scuola, mette ulteriormente in evidenza come i ragazzi con ADHD risultino in questa situazione più facilmente gestibili grazie ad una serie di fattori protettivi che si attivano in tale contesto quali:

- maggiore disponibilità dei genitori a tollerare eventuali comportamenti dovuti all’impulsività e alla disattenzione;

- presenza di richieste legate ad aspetti motivanti quali attività sportive e ludiche;

- tempi più rilassati per l’assolvimento di incombenze pratiche che i genitori possono richiedere al bambino;

- maggior rilassamento nel bambino dovuto alla caduta delle richieste scolastiche.

8.4. Difficoltà motivazionali nel bambino con ADHD

Le teorie cognitive sulla motivazione31 sottolineano come le convinzioni, le credenze, le opinioni di sé e delle proprie abilità determinano il tipo e la durata dell’impegno dei soggetti e, quindi, il risultato delle loro azioni. Numerose ricerche ed osservazioni provano come la curiosità spinge non solo gli adulti ma anche i bambini alla ricerca di ulteriori informazioni qualora una situazione di esplorazione preveda risposte

31 Cfr. C. Pontecorvo (a cura di), Manuale di psicologia dell’educazione, Il Mulino, Bologna 1999

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conflittuali. Un altro costrutto importante delle teorie sulla motivazione è la motivazione alla competenza (White, 1959) in base al quale il bisogno degli esseri umani di controllare il proprio ambiente è fondamentale per la sopravvivenza della specie. La motivazione alla competenza in questo senso è legata alla pianificazione necessaria per il raggiungimento di un fine. White sottolinea che questo tipo di motivazione che va oltre gli impulsi (che ad esempio spingono l’essere umano alla ricerca di cibo e di un riparo), è un desiderio che permette ai soggetti di impegnarsi anche in attività faticose al solo fine di sentirsi padroni del proprio destino. Sviluppando questo concetto in altri studi (Harter, 1981) è stato evidenziato come le esperienze di successo seguite da rinforzi producono l’interiorizzazione di un sistema di ricompense. Tale interiorizzazione aumenta la percezione di competenza nel soggetto e di controllo sull’esito delle proprie azioni, producendo soddisfazione e accrescendo così la motivazione alla competenza. È palese come il bambino con disturbo di attenzione risulti fortemente penalizzato in questa tipologia di funzioni essendo per lui molto difficile sviluppare l’attività di pianificazione necessaria al raggiungimento di un fine. È difficoltoso infatti per lui isolare dall’ambiente tutti quegli elementi che non hanno attinenza con lo scopo dell’attività. In riferimento poi alla funzione svolta dalle esperienze di successo diventa ancora più chiaro come attorno al bambino con ADHD, che sperimenta frequenti insuccessi scolastici e relazionali, si sviluppi un contesto in cui si tende a diminuire piuttosto che confermare la motivazione di competenza. In questo senso nell’apprendimento risulterà particolarmente funzionale partire da situazioni e da modalità stimolanti (ludiche), capaci di portare il bambino al livello di arousal (attivazione) necessario per portare a termine il compito.

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8.5. Atteggiamenti educativi dei genitori: comportamenti da adottare e comportamenti da evitare

Comportamenti da evitare:

- reagire con prediche e stigmatizzazioni rispetto a quei comportamenti di impulsività che il bambino non riesce a controllare;

- pretendere dal bambino tutti quei comportamenti

organizzativi e di pianificazione che sono invece normalmente il frutto di un lavoro sistematico: preparare lo zaino, scrivere i compiti sul diario, gestire l’occorrente per la scuola, pianificare il tempo necessario per i compiti e lo studio con pause calibrate alla fatica che il compito richiede;

- fare confronti con fratelli o con compagni di scuola più

“studiosi” o più “adeguati” del soggetto. Comportamenti da adottare: Dato che il bambino con ADHD può avere bisogno di rinforzi più frequenti, i genitori possono imparare a costruire occasioni in cui avrà alte probabilità di successo. Un momento particolarmente delicato risulta essere quello della gestione dei compiti scolastici a casa, rispetto ai quali sarà importante adottare alcune specifiche strategie:

- aiutare il bambino a suddividere il compito da svolgere in piccole parti ricompensandolo per ogni parte completata;

- allenare il bambino alla lettura della consegna e

verificarne la comprensione;

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- verificare che il bambino abbia a disposizione tutto l’occorrente per svolgere i compiti;

- valutare l’impegno richiesto da un compito specifico sia

riguardo i tempi di esecuzione sia al grado di fatica che questo comporta al bambino;

- dopo aver osservato i tempi di attenzione del bambino,

concordare con lui momenti di pausa con l’obiettivo di allungare progressivamente i tempi di lavoro (partendo magari da pochi minuti in più ogni giorno);

- ritualizzare il più possibile i momenti e le incombenze

che regolano la giornata al fine di aiutare il bambino ad interiorizzare quelle regole e quella pianificazione delle attività che in modo spontaneo non è in grado di darsi: orari precisi riguardanti i tempi da dedicare allo studio, al gioco, alla tv, al sonno;

- rinforzare positivamente, prima con ricompense

materiali e poi emotive, tutti i comportamenti che si desidera promuovere nel bambino;

- se esiste un concomitante problema di apprendimento

(es. una dislessia), ricordarsi che tale problema deve essere tenuto distinto dalla sindrome dell’ADHD e fatto oggetto di un intervento specifico.

8.6. Atteggiamenti educativi degli insegnanti: comportamenti da adottare e comportamenti da evitare

Comportamenti da adottare: Poiché la capacità di prevedere le conseguenze del proprio agire rappresenta una grossa difficoltà per il bambino con ADHD, sarà importante fare in modo che la sua giornata sia il più possibile

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strutturata e regolata; ovvero tanto maggiore è l’instabilità del bambino e più numerose sono le sue confusioni organizzative, tanto più importante diventa la stabilità e la prevedibilità del contesto e delle richieste che quest’ultimo pone. In questo senso l’insegnante avrà a disposizione alcuni strumenti quali:

- Offrire frequenti informazioni di ritorno; il bambino con ADHD infatti, così come non cerca di prevedere altrettanto, è poco capace di riflettere sulle conseguenze dei suoi atti. È dunque importante spiegargli quanto il suo comportamento sia corretto o scorretto e assicurarsi (verificare) se il bambino ha capito veramente i motivi per cui è stato penalizzzato o premiato.

- Instaurare delle routine; le routine, come tutte le

abitudini, aiutano il bambino a tenere presenti i suoi impegni e a pianificare i suoi tempi e gli consentono di evitare quello stress in più che si crea dovendosi adeguare ad una situazione nuova, si tratta cioè di utilizzare il risparmio energetico consentito da tutte le abitudini.

- Adottare alcuni accorgimenti specifici per far

rispettare le regole della classe anche ai bambini con ADHD quali:

utilizzare proposizioni positive e non divieti (es. “essere rispettosi”, “non essere maleducati”);

proporre regole semplici e chiare; descrivere le azioni da svolgere in modo concreto

evitando formulazioni generiche (es. “lascia che Luca finisca di parlare senza interromperlo” e non “non disturbare in tuoi compagni”);

quando possibile affiancare immagini di richiamo al concetto espresso dalla regola.

- Stabilire tempi di lavoro; il bambino con ADHD ha

particolarmente bisogno di essere abituato a lavorare con tempi preordinati in quanto questo lo aiuta ad

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imparare, a pianificare e organizzare meglio le proprie attività. Inizialmente l’insegnante potrà cercare di fornire lei stessa alcune indicazioni sul tempo necessario per lo svolgimento dei compiti, in seguito potrà invece invitare il bambino (anche sotto forma di gioco) ad indicare autonomamente il tempo necessario per svolgere i compiti.

- Appendere in aula un cartellone dei materiali necessari

per affrontare le varie competenze scolastiche ; la pianificazione necessaria per questo tipo di organizzazione, infatti, risulta particolarmente difficoltosa al bambino con ADHD sia perché spesso non ricorda le attività sia perché, quando dovrebbe riporre in ordine il materiale, può essere facilmente distratto da stimoli per lui più interessanti. Per aiutarlo, anche in questo caso, l’insegnante può appendere in aula un cartellone dei materiali necessari e uno stesso cartellone può essere appeso nella camera del bambino. I genitori potrebbero utilizzare un tabellone analogo che preveda i giorni della settimana, le materie di studio ed i materiali relativi alle materie stesse32.

L’obiettivo della tipologia di questi interventi è che il bambino impari a ricordare quello che gli serve, a tenerlo in ordine e a portata di mano nella propria postazione di lavoro sia a casa che a scuola. Comportamenti da evitare: Ci sembra di poter sintetizzare gli atteggiamenti da evitare con quel complesso di modalità procedurali lasciate all’iniziativa del momento da parte dell’insegnante e che fanno affidamento sulle capacità organizzative dei bambini. Tali modalità talvolta presuppongono tassi di autonomia di cui spesso non dispongono neanche i bambini senza ADHD. Ci rendiamo conto

32 Cfr. C. Cornoldi, Iperattività e autoregolazione cognitiva, op. cit. pag. 49

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che queste indicazioni rischiano di essere sentite come dei limiti rispetto alla gestione organizzativa dell’insegnante, in quanto le procedure ne risultano effettivamente condizionate. Ciò non va tuttavia ad influire su quelle iniziative che l’insegnante avverte la necessità di adottare e che possono consistere appunto nella variazione imprevista di un’attività. Un esempio tipico può essere la proposta di un’attività lieve o di una breve pausa per interrompere un’ora di matematica densa di concetti particolarmente pesanti. Strategie abituali queste, e ben conosciute dalle insegnanti, che risultano funzionali al mantenimento dell’attenzione di tutta la classe.

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9. Aspetti metacognitivi nella risoluzione dei problemi: strategie di pianificazione da insegnare ai ragazzi

Ogni apprendimento o compito o ostacolo da affrontare deve essere preceduto da un’attività di pianificazione metacognitiva che comporta la capacità di parlare a se stessi in modo produttivo. Il training di autoregolazione riportato in “Impulsività e autocontrollo. Interventi e tecniche metacognitive”33, illustra le autoistruzioni e la loro applicazione:

- la prima cosa da dire è: “Cosa devo fare?” Ci chiediamo ciò per essere sicuri di sapere esattamente quello che dobbiamo fare

- la seconda cosa da dire:

“Considero tutte le possibilità” Dobbiamo prendere in considerazione tutte le differenti soluzioni in modo da individuare quella migliore per dare poi la risposta più adeguata

- la terza cosa da dire è:

“Fisso l’attenzione” Dicendo ciò, ricordiamo a noi stessi: mi concentro, faccio attenzione a pensare attentamente solo al compito. Non devo guardare in giro o pensare ad altre cose

- la quarta cosa da dire è:

“Scelgo una risposta” 33 Cfr. C. Cornoldi e coll., Impulsività e autocontrollo, op. cit.

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- la quinta cosa da dire è: “Controllo la mia risposta” Se la risposta è giusta, ci dobbiamo complimentare con noi stessi affermando che abbiamo fatto proprio un buon lavoro. Se invece abbiamo sbagliato, è una buona idea ricordare a noi stessi di andare più lentamente e di fare maggiore attenzione la prossima volta.

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10. La relazione dell’insegnante con il bambino con ADHD

10.1. Problemi istituzionali I percorsi fin qui suggeriti trovano spazio con difficoltà nell’attuale setting scolastico che preveda una divisione prefissata e vincolante del tempo e dello spazio. Questa strutturazione si adatta scarsamente alle esigenze degli alunni e contrasta l’eventuale motivazione dell’insegnante a cambiare le sue prospettive. Un cambiamento di prospettiva, d’altra parte, è indispensabile per affrontare la panoramica sempre più complessa che la società riflette oggi nella scuola: il problema della multiculturalità che già da solo, richiederebbe un grosso rinnovamento strutturale e pedagogico, a questo si aggiunge una miglior precisazione e gli studi sempre più specifici inerenti i disturbi dell’apprendimento e del comportamento nell’età evolutiva. Come in parte abbiamo visto nel corso di questo lavoro, la problematica psicologica più grave in età evolutiva, ovvero la sindrome da ADHD, riflette una complessità di posizioni. Da un lato si evidenzia il tentativo di uscire dall’impotenza clinico-terapeutica (pur con tutti i limiti connessi a una comprensione ancora parziale della sindrome e delle sue comorbidità) attraverso percorsi integrati casa-scuola-ambulatorio, dall’altro le difficoltà inerenti ad ogni singolo percorso rischiano di far percepire ai diversi soggetti un senso di impotenza. Nel contempo si ripropongono difficoltà storiche di collaborazione che solamente in poche privilegiate realtà ( o in situazioni sperimentali) sembrano aver trovato ricomposizioni e mediazioni produttive. L’analisi di queste realtà spesso mette in luce come il buon esito di un progetto integrato tra scuola e famiglia, pur comprendendo pari responsabilità educative dei due soggetti per quanto riguarda i processi di apprendimento, pone indubbiamente la scuola in primo piano. Apprendimento

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e comportamento sono strettamente interdipendenti nei bambini con ADHD, tuttavia, a seconda del contesto in cui questi ultimi si trovano, cambierà l’accento su cui è posta l’attenzione educativa. Se la relazione diventa, all’interno della scuola, uno strumento anche motivazionale al servizio dell’apprendimento, in una qualche misura, nel contesto familiare, l’apprendimento scolastico, con tutte le competenze di autoregolazione che comporta, diviene l’occasione per una maturazione comportamentale e relazionale. Pur in un’interazione costante e flessibile occorre che le diverse figure educative non perdano di vista il ruolo e il fine principale, alla scuola viene quindi rimandata la necessità di una revisione e riorganizzazione degli aspetti procedurali e tecnici della lezione, e ai genitori spetta il ruolo di utilizzare lo svolgimento dei compiti come pretesto per imparare a contenere con fermezza le reazioni del bambino innanzitutto con il controllo della propria emotività e reattività. Si tratta, cioè, di sapersi proporre come modelli di autoregolazione cognitiva ed emozionale. D’altra parte ogni tecnica suggerita risulterebbe poco efficace se non accompagnata da quello stile educativo e relazionale definibile come autorevole. L’autorevolezza, con l’assetto emotivo che comporta, ha a che fare più con il modo di essere dell’insegnante stesso piuttosto che con una buona acquisizione delle tecniche di autoregolazione, ma è formata da tratti ( come la chiarezza relazionale, l’assertività comunicativa, la fiducia in sè stessi, la chiarezza dei propri obiettivi educativi, la capacità di osservare gli alunni) che si possono sviluppare e rafforzare con una formazione costante e continuativa e il confronto nel gruppo di lavoro.

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11. Due casi clinici Come abbiamo visto, i sintomi dell’ADHD sono aspecifici e possono ritrovarsi in associazione con altri sintomi che qualificano il Disturbo prevalente oppure l’ADHD è la diagnosi principale e si presenta in comorbidità con altri disturbi. Per chiarificare concretamente come tale aspecificità renda la diagnosi più complessa presentiamo due casi clinici l’uno esemplificativo delle dificoltà della diagnosi differenziale e presentante comorbidità con un Disturbo dell’Umore, l’altro rappresentativo di una ADHD in comorbidità con D.S.A. e, in gran parte, risoltosi con la somministrazione di metilfenidato.

11.1. Il caso di Giovanni Ripercorrendo la storia di questo soggetto e l’evoluzione del disturbo, ci proponiamo di evidenziare le potenzialità (risorse disponibili) e le criticità rispetto alla nostra capacità di intervenire attivamente sulla situazione. Al momento della segnalazione al servizio di neuropsichiatria infantile Giovanni ha 5 anni e 8 mesi ma frequenta già la prima elementare quando viene segnalato al Servizio di Neuropsichiatria in quanto la madre, avendo il bambino difficoltà di inserimento alla scuola materna a causa del suo comportamento “agitato”, ha preferito toglierlo da quell’ambiente e mandarlo a scuola un anno prima. Il bambino viene segnalato, dopo circa un mese e mezzo di frequenza scolastica, con la seguente motivazione: “Secondo gli insegnanti presenta una situazione di disagio che manifesta con comportamenti inadeguati alla vita scolastica. In classe il suo lavoro è fortemente condizionato da momenti in cui si estranea concentrandosi compulsivamente su attività inappropriate (disegni, posture a terra, rotolamenti…). Non partecipa ai giochi collettivi, non si relaziona con i compagni,

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necessita di una costante attenzione verso se stesso e i propri bisogni. Spesso manifesta il bisogno di uscire dalla classe.” Al primo colloquio la madre riferisce che il bambino è molto contento e frequenta volentieri la scuola, ma conferma, nel contempo, che Giovanni si relaziona con difficoltà: non sta seduto, si butta a terra, sbatte la porta, non riesce a stare fermo. Allo stesso tempo “è orgoglioso di andare a scuola e riporta tutto quello che fa”. La mamma è convinta che il rendimento risulti compromesso dal suo comportamento non per mancanza di interesse verso le proposte della scuola ma proprio per la sua incapacità di prestare attenzione; ritiene però che le manifestazioni di iperattività si siano lievemente ridotte a casa, quando sono presenti solo lei e la sorellina; basterebbe tuttavia la presenza di un estraneo perché Giovanni riproponga i comportamenti di iperattività (ad esempio buttare i giochi). Secondo la madre “E’ sempre di buon umore, fa tante cose contemporaneamente”. Dall’anamnesi personale del bambino emerge un ricovero verso i due anni con la diagnosi della sindrome di Sky a causa della quale ha trascorso due settimane in ospedale. Dall’anamnesi patologica della famiglia paterna : i nonni paterni hanno sofferto entrambi di forme depressive, la zia di Giovanni ha sofferto di anoressia mentre il padre soffre di una forma depressiva che tuttavia, ad un’indagine più approfondita svolta con la madre, sembra configurarsi più come un Disturbo Bipolare. In seguito alla separazione dei genitori il padre è diventato molto assente, i bambini non lo vedono e non lo sentono da circa cinque mesi. La gravidanza è stata regolare, il parto a termine e il decorso neonatale nella norma; con l’introduzione delle pappe sono iniziate le prime intolleranze alimentari, la mamma riferisce uno sviluppo psicomotorio e linguistico nella norma.

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Indagine testistica L’esame cognitivo colloca il livello intellettivo (rilevato attraverso la Scala W.P.P.S.I.34) nella fascia medio – alta con un punteggio verbale di 110 e performance di 120, pari ad un punteggio totale di 116. Vengono somministrate le prove CP1, CP2, CP3 e due scale di descrizione comportamentale (SDAI e SDAG35, rispettivamente compilate dagli insegnanti e dalla madre) che mettono in luce valori fortemente positivi soprattutto sulla componente di Iperattività. Il Test delle Campanelle36 fornisce un risultato nella media anche se al di sotto di una deviazione standard. Alla Torre di Londra ottiene un punteggio totale di 24, rispetto ad un range di 24.1. significativo per la patologia ipotizzata. Tali risultati, che collocano le competenze del bambino relativamente all’attenzione in un range così al limite, ci inducono ad attribuire maggior peso alle osservazione comportamentali degli insegnanti e della madre. Il comportamento iperattivo si manifesta anche nel contesto ambulatoriale, anche se Giovanni si mostra disponibile e desideroso di collaborare. In relazione all’anamnesi familiare (separazione dei genitori, Depressione dei nonni, Disturbo dell’Umore del padre, anoressia della zia paterna) si ipotizza una probabile associazione di ADHD con un Disturbo Distimico caratterizzato dalla presenza dei sintomi: iperfagia, insonnia, bassa autostima e difficoltà di concentrazione. Nel corso del primo anno scolastico, tuttavia, la dimensione assunta dall’Iperattività e la sottolineatura da parte della madre del buon tono dell’umore del bambino fanno propendere per una prevalenza della sintomatologia ADHD in comorbidità con il Disturbo dell’Umore.

34 La scala W.P.P.S.I. è il test d’intelligenza maggiormente utilizzato con i bambini al di sotto dei 6 anni di età. 35 Vedi Allegati A, B e C tratti da C. Cornoldi et al., Eickson, Trento 1996. 36 Il Test delle Campanelle e la Torre di Londra sono tra le prove maggiormente in uso per una prima valutazione neuropsicologica delle capacità attentive dei bambine.

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Data la rilevanza della problematica comportamentale e le gravi difficoltà da parte della scuola a gestire autonomamente la situazione, si decide che nel prossimo anno scolastico il bambino verrà affiancato da un insegnante di sostegno, sia con funzioni di mediazione relazionale rispetto ai momenti in cui Giovanni, lasciato a se stesso, non è in grado di tenere un comportamento adeguato sia per recuperare il ritardo che si è nel frattempo accumulato anche rispetto all’apprendimento. Viene quindi formulata una diagnosi di ADHD ipotizzando una comorbidità con un disturbo ansioso – depressivo. La pervasività del comportamento iperattivo, specialmente a scuola, ci spinge tuttavia a porre l’accento sull’ADHD e quindi vengono forniti agli insegnanti alcuni materiali (riportati anche in questo studio) contenti indicazioni comportamentali, pedagogiche e didattiche utili nell’intervento sull’ADHD. Si ritiene invece, data la situazione di obiettiva difficoltà della madre (recente separazione dal marito, difficoltà a gestire da sola due figli di cui uno particolarmente impegnativo) e l’ansia da lei verbalizzata sulla sua situazione di oggettiva solitudine, che il sostegno psicologico e sociale a lei assicurato possa avere una ricaduta positiva sia sulla gestione educativa dei bambini che sul Disturbo Distimico presentato da Giovanni. Evoluzione del Disturbo All’inizio del secondo anno scolastico interviene una variabile emozionale significativa: il padre incomincia a riallacciare i rapporti con i bambini; tuttavia la frequentazione è scarsa e disorganizzata: il padre, anche a causa del proprio trasferimento in altra città, incontra i bambini all’incirca una volta al mese. La relazione con quest’ultimo, a detta della madre, sembra incidere su un progressivo precipitare della sintomatologia depressiva, rilevata anche dagli insegnanti che notano un aumento dell’attenzione durante le lezioni, ma alternati a momenti di isolamento da tutta l’attività. Le insegnanti rilevano anche cambi d’umore, frequenti pianti di rabbia dovuti ad insuccessi scolastici a volte preceduti da più tentativi fallimentari per raggiungere il risultato desiderato; sottolineano inoltre che l’inserimento dell’insegnante di sostegno ha mutato radicalmente i rapporti di Giovanni all’interno della classe, gli

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ha consentito infatti di essere più contenuto e più finalizzato nei momenti di apprendimento e di avere una figura che funziona da punto di riferimento relazionale nei momenti di difficoltà. Non essendo, all’interno del Servizio, possibile attuare in questo periodo un intervento psicoterapico la mamma si rivolge ad uno psicologo privato. Nel mese di dicembre muore il nonno paterno e la madre nota un ulteriore cambiamento nell’umore e negli atteggiamenti del bambino che le sembra più triste, più riflessivo e più incline alla comunicazione. Sempre nello stesso periodo si intensificano una serie di problemi e di situazioni conflittuali, dovute all’organizzazione degli incontri con il padre che fanno pensare alla madre di ricorrere alla autorità giudiziaria, data la difficoltà a gestire tempi e modi delle visite paterne. Verso febbraio le insegnanti rilevano un rapporto con il cibo caratterizzato da una costante voracità che si traduce, oltre che in frequenti eccessi alimentari durante la mensa e la ricreazione, anche in reazioni di rabbia se il bambino non ottiene quello che chiede; notano, inoltre una regressione comportamentale rispetto all’inizio dell’anno scolastico: vedono il bambino più distratto, più disattento e molto geloso dell’insegnante di sostegno; rilevano, tuttavia, in lui una maggiore consapevolezza di se stesso e capacità di essere “presente” nell’ambiente che si accompagna ad aumento nella capacità di relazionarsi con i compagni. In questo periodo quindi il Disturbo dell’Umore sembra precipitare verso una Sindrome Ansioso – Depressiva, sindrome che viene verbalizzata e comunicata agli insegnanti durante l’incontro di verifica e che viene confermata da un ulteriore controllo specialistico attuato dalla madre in accordo con il Servizio. Molte delle indicazioni valevoli per la prevalente sintomatologia di iperattività valgono a nostro parere anche rispetto alla diagnosi attuale, in particolare, il fatto che l’apprendimento debba essere reso più semplice, meccanico e accattivante sia per un bambino depresso sia per un bambino con ADHD. Cambia invece l’atteggiamento richiesto agli insegnanti a cui si chiede di porre l’accento su una disponibilità maggiore alla relazione, e allo spazio concesso all’espressione da

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parte del bambino delle proprie emozioni. Inoltre diventa importante lavorare sul ridimensionamento realistico delle difficoltà che Giovanni si prefigura con dimensioni catastrofiche e se si rendesse necessario, adottare un atteggiamento di incoraggiamento ad affrontare gradualmente le situazioni interpersonali che possono indurre ansia (es. l’ area della competitività nel gioco). L’intervento a scuola A nostro parere l’intervento svolto a scuola, a partire dal secondo anno di frequenza alla scuola elementare, si è rivelato efficace sul comportamento del bambino specialmente per quanto concerne l’intervento individualizzato con l’insegnante di sostegno. Abbiamo già avuto modo di segnalare come costituisca un limite di tutti gli interventi comportamentali e quindi educativi la difficoltà di trasferire acquisizioni di competenze da un contesto ad un altro e anche in questo caso ci troviamo di fronte allo stesso limite. D’altra parte il contenimento possibile in un contesto individuale è spesso molto difficoltoso rispetto a quello proponibile nel gruppo. Altre difficoltà riguardano l’inevitabile diversità degli stili educativi che coinvolgono le differenze personali tra chi si occupa del bambino e che hanno una ricaduta spesso determinante sul suo comportamento. Il resoconto che segue è il frutto di un confronto diretto svolto con l’insegnante di sostegno di Giovanni al termine dell’anno scolastico. L’insegnante ha messo a disposizione i verbali degli incontri e le programmazioni individuali di tutto l’anno. Quindi la sintomatologia prevalentemente presentata dal bambino, come abbiamo anticipato, ha riguardato molto di più l’aspetto ansioso depressivo piuttosto che quello iperattivo – aggressivo. Impostazione dell’attività di sostegno L’insegnante di sostegno è diplomata al Conservatorio dove insegna musica. Ha svolto attività, per molti anni, con non vedenti utilizzando spesso nel suo lavoro la terapia musicale, valorizzando quelle componenti dell’apprendimento della musica che possono servire a sviluppare competenze

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neuropsicomotorie: il lavoro sulla voce, per conoscere la respirazione, i tasti del pianoforte per migliorare la psicomotricità fine. Al fine di poter affrontare meglio sia lo studio dello strumento sia l’attività pedagogica e terapeutica con i bambini, l’insegnante ha svolto training formativi di sviluppo personale e conoscenza di sé. Il primo quesito su cui ci si è confrontati riguarda i presupposti necessari per attivare una relazione costruttiva con i bambini in generale e, in particolare, con bambini con disturbi. L’insegnante sottolinea l’ opportunità di essere disponibile ad accogliere il modo in cui il bambino si propone, nel caso di Giovanni ha ritenuto importante il riconoscimento dei suoi timori dell’esterno e dell’estraneo percepiti come minacciosi e che determinavano una situazione di tensione da gestire con empatia. L'insegnante riporta che all’inizio (primi 15 giorni di scuola) il bambino, quando la vedeva, tendeva a rifugiarsi dentro l’armadio o sotto la cattedra e, a suo parere, si aspettava che qualcuno lo andasse a prendere, lo sgridasse e lo tirasse fuori. Lei aveva deciso di seguirlo e, senza sgridarlo, di mettersi a lavorare sotto la cattedra con lui. Dopo un certo periodo di tempo di lezioni in questo modo in cui il bambino sembrava sentirsi protetto, Giovanni accettava di seguirla e di continuare la lezione in un luogo più congruo, a meno che non intervenissero fattori esterni come una sgridata dell’insegnante di classe. Per quanto riguarda l’instaurarsi e il consolidarsi di una buona relazione con il bambino, l’insegnante ritiene che sia stata fondamentale l’attenzione ai messaggi e alle emozioni che ci si trasmette a vicenda, quindi non solo ai messaggi del bambino ma anche ai propri. Altro aspetto sottolineato è la necessità di identificarsi con il bambino, provando ad immaginare come si può sentire e quindi come si reagirebbe al suo posto. Un ulteriore aspetto riguardava la capacità di prevenire le reazioni negative utilizzando la conoscenza delle reazioni del bambino e una certa prevedibilità dei suoi meccanismi di reazione (es. alla frustrazione). Un ultimo elemento riguarda l’utilizzo

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dell’atteggiamento protettivo che Giovanni aveva nei suoi confronti: ha scelto, in alcuni momenti, di lasciar agire il bambino per consentirgli di svolgere un ruolo importante – gratificante ed evitare di porsi sempre nella posizione dell’adulto in grado di controllare tutto e che non sbaglia mai. Ha preferito, invece, assumere una posizione di insegnante più “umano” che accetta di avere delle debolezze. Tra gli elementi positivi del lavoro svolto con Giovanni l’insegnante sottolinea che le conquiste didattiche sono state significative in quanto il bambino si trovava nella situazione di dover recuperare buona parte del lavoro dell’anno precedente: assistere allo “sblocco” dell’energia necessaria e vedere i risultati che questo ha prodotto è stato perciò molto gratificante. Sul piano emozionale l’elemento che ha favorito un’adeguata gestione del bambino è stato lo sforzo di “staccare” completamente dalla situazione quando terminava l’attività lavorativa e, in parallelo, “l’esserci intensamente” in presenza del bambino. Tra le criticità emozionali l’insegnante sottolinea lo sforzo psichico per mantenersi concentrata sul bambino, per pensare sempre alla modalità migliore per proporre le cose e “non scomporsi mai”. Ancora tra le criticità sono da citare i momenti di sconforto quando le colleghe raccontavano gli episodi successi in sua assenza e la difficoltà di rielaborare con lui le motivazioni dei comportamenti più problematici come, ad esempio, nella situazione in cui Giovanni aveva cercato di buttarsi giù da una ringhiera e in risposta alla richiesta di fornire una motivazione le rispondeva: “Eh, non c’eri”, mettendo in evidenza in questo senso sia l’obiettiva difficoltà a trovare una ragione dei suoi atteggiamenti impulsivo – distruttivi, sia l’eccessiva dipendenza dalla sua figura. Queste modalità generavano nell’insegnante dubbi sulla efficacia del proprio lavoro (“Mi sembrava di non avergli insegnato niente”) e preoccupazione per questa mancanza di autonomia; la sensazione era che nel passaggio dal contesto individuale a quello di gruppo non venissero trattenute né le competenze comportamentali né le competenze didattiche acquisite (questo a riprova dell’importanza di adottare strategie condivise in ogni contesto).

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Per quanto riguarda la collaborazione con il team delle docenti di classe, l’insegnante sottolinea che solo una collega era di ruolo e quindi la collaborazione maggiore si è svolta con lei: all’inizio di ogni lezione ci si confrontava su come procedere sia a livello di modalità che di contenuti. Con questa collega c’è stata condivisione di ruolo anche per quanto riguardava l’impostazione di alcuni lavori con il resto della classe. Il vissuto dell’insegnante rispetto a questa collaborazione è stato quindi del tutto positivo. Sono state invece sottolineate difficoltà di collegamento con l’assistente comunale che non aveva alcuna preparazione nell’ambito delle discipline educative e per la quale talvolta era difficile attenersi al rigore e ai limiti della programmazione necessaria con Giovanni e all’utilizzo dei materiali predisposti. Si è poi chiesto all’insegnante di tentar di definire da quali aspetti o da quali specifici atteggiamenti – strategie derivava la sua autorevolezza su Giovanni: nei primi mesi della relazione sono stati utilizzati il rinforzo degli aspetti positivi, le conferme sistematiche relative ai compiti svolti, l’assegnare un ruolo attivo e responsabile nei confronti dell’insegnante rendendosi a lei utile. Altri aspetti segnalati come centrali, soprattutto nella seconda parte dell’anno scolastico (dopo la morte del nonno), riguardano il dialogo tra insegnante e bambino, l’ascolto costante, la rassicurazione rispetto alle paure e ai timori di essere abbandonato. L’insegnante inoltre ritiene che anche l’averlo responsabilizzato facendolo muovere autonomamente negli spazi scolastici, dando a Giovanni piccoli compiti, sia servito a testimoniare al bambino un sentimento di fiducia nei suoi confronti e che questo abbia attivato e rinforzato una fiducia reciproca. Anche per quanto riguarda le modalità di richiamo sulle difficoltà organizzative o di mantenere l’ordine da parte di Giovanni (peraltro specifiche del suo Disturbo) è stata utilizzata una modalità rassicurativa rispetto al fatto che erano inconvenienti che potevano capitare a tutti e, d’altra parte, motivazioni molto concrete e pratiche inerenti le conseguenze negative del disordine (es. “Raccogli le matite altrimenti non sai dove metti le cose e quando ti servono non ce le hai”). Un’altra

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modalità utilizzata è stata di rinforzare le abilità specifiche (per esempio Giovanni ha rivelato un’ottima predisposizione naturale verso il canto e la musica) e, allo stesso tempo, di offrire conferme realistiche su tutti i suoi progressi individuali; Giovanni infatti si mostrava molto consapevole di non essere al livello della classe e questo gli scatenava spesso sentimenti di disistima e frustrazione che talvolta si manifestavano con il rifiuto a lavorare esprimendo sentimenti di incapacità. Di fronte a tali atteggiamenti l’insegnante utilizzava la modalità di evidenziargli il percorso svolto e tutto quello che aveva imparato, mostrando, a conferma, i vecchi quaderni37. L’ultimo aspetto analizzato riguarda la gestione degli atteggiamenti di fuga e di rabbia messi in atto da Giovanni. Quando il bambino mostrava atteggiamenti di rabbia determinati dalla frustrazione rispetto agli inevitabili confronti inerenti le situazioni sociali (rapporto con l’insegnante di classe e con i coetanei) l’insegnante cercava di trattenerlo fisicamente ma nello stesso tempo di trasmettergli un messaggio affettivo. Di fronte alla sua richiesta al bambino di motivare le proprie reazioni Giovanni rispondeva “Perché io sono un bambino cattivo”. In seguito alle rassicurazioni dell’insegnante il bambino passava ad una reazione di pianto e spiegava “Mi viene la rabbia, ammazzerei tutti, spaccherei tutto”. Da queste descrizioni è possibile mettere in luce come nel bambino il passaggio dalla rabbia alla depressione faccia parte di un unico circuito nel quale la rabbia, da emozione rivolta verso l’esterno, si trasforma in emozione interna, rispetto alla quale è possibile tentare una prima elaborazione. Secondo l’insegnante si è verificata una situazione differenziata del bambino rispetto alla relazione individuale con lei e al comportamento in classe; nel rapporto con lei è prevalsa l’espressione degli aspetti depressivi, mentre nel rapporto 37 Le modalità che ci sono state riferite ci ricordano molto i concetti espressi da T. Gordon sulla tematica del potere e dell’influenza in base ai quali esisterebbero due tipi di potere, uno basato sull’autorità e sulla differenza di potere tra adulto e bambino e l’altra basata sull’autenticità della relazione e sulla rinuncia al potere, concezione in base alla quale Gordon conclude che se si vuole avere una reale influenza sulla relazione occorre rinunciare al potere.

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all’interno della classe hanno avuto la prevalenza l’espressioni di aggressività e di rabbia. A suo parere il rapporto individuale, rispetto a queste differenze emozionali, ha un’incidenza molto elevata stimabile attorno all’80%. Considerazioni sugli aspetti funzionali dell’intervento di sostegno I due diversi contesti (individuale con il sostegno, di gruppo con la classe) hanno un’incidenza minore rispetto ad altre variabili che riguardano gli aspetti emotivi dell’apprendimento messi in gioco nelle due situazioni. All’interno del rapporto individuale è stato utilizzato un approccio educativo che, pur mantenendo modalità specifiche della didattica e della pedagogia, ha avuto una valenza terapeutica per il bambino. Non rileviamo infatti atteggiamenti “maternalistici” fondati su modalità relazionali emotive e poco consapevoli, ovvero quegli atteggiamenti “istintivi”, che spesso comportano che le emozioni vengano espresse senza filtri sia in positivo sia in negativo. Solitamente queste posizioni si esprimono con rimproveri – prediche, ricatti – minacce, alternati a modalità affettivo – protettive. Nell’ambito della classe, invece, le difficoltà gestionali hanno determinato il ricorso a modalità protettive e comunque istintive. Gli atteggiamenti protettivi, notoriamente, non promuovono l’autonomia del bambino ma svolgono, piuttosto, il compito di recuperare in qualche modo una relazione con lui e di gestire i sensi di colpa dovuti al dispiacere che comunque l’insegnante prova nel rimproverare e punire il bambino. Talvolta si è reso necessario per poter proseguire l’attività di far uscire il bambino dalla classe; purtroppo questa modalità, essendo attuata come reazione ad una situazione vissuta come ingestibile, era fortemente a rischio di essere vissuta dal bambino come una posizione di rifiuto.

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Gli aspetti che ci sembrano aver funzionato nel caso di Giovanni riguardano:

- la programmazione sistematica della didattica e l’utilizzo della relazione in funzione del compito;

- la capacità di osservare e di concentrarsi sui messaggi verbali e non verbali del bambino;

- la possibilità offerta al bambino di esprimere e di rielaborare insieme quelle emozioni che diversamente lo avrebbero bloccato rispetto all’esecuzione del compito;

- l’ascolto delle paure e delle ansie del bambino finalizzato alla rassicurazione necessaria a ripristinare un livello di equilibrio emotivo che consentisse di affrontare l’apprendimento;

- modalità didattiche centrate sulla schematicità, sulla ripetitività, sulla prevedibilità e soprattutto su richieste adeguate alle competenze in possesso del bambino;

- il confronto e la programmazione congiunta con almeno una delle insegnanti di classe.

Ci sembra opportuno sottolineare come in questi atteggiamenti ci sia un’attenzione a restare entro i limiti dell’intervento pedagogico. Può essere difficile infatti lavorare sulle emozioni e, a livello individuale, concentrarsi sulla semplice espressione e legittimazione dei sentimenti evitando di lasciarsi coinvolgere emotivamente. Il coinvolgimento emotivo eccessivo può portare infatti o a inconsapevoli modalità di sostituzione dei reali riferimenti affettivi o a meccanismi di rifiuto. I limiti rilevabili in questa esperienza riguardano invece la difficoltà di trasferire analoghi criteri pedagogici all’interno del gruppo classe; a tale proposito rimandiamo alla trattazione svolta nel capitolo 8 in cui vengono dati suggerimenti molto articolati che prevedono, però, la necessità di programmare attentamente e con approccio tecnico la giornata scolastica sia nei suoi momenti didattici che ludici e, nei limiti del possibile, di prevenire i comportamenti più problematici di rabbia – opposizione e aggressività.

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11.2. Il caso di Marco Maschio, nato a Piacenza nel Novembre 1995.Padre in buone condizioni cliniche, proveniente dalla Calabria. Madre in buone condizioni cliniche, originaria della Sicilia. Fratello di 6 anni in buone condizioni cliniche. Nato da parto eutocico, pretermine alla 35 esima settimana, kg 2,850, nessuna complicanza neonatale. Allattato al seno fino ai 18 mesi per la difficoltà del bambino ad adattarsi all’alimentazione solida. Ritmo sonno-veglia regolare. Controllo sfinterico precoce, intorno ai 18 mesi. C.e.i., tonsillectomia a 4 aa. Alimentazione poco regolare e varia, rifiuto assoluto per carne e verdure. Viene descritto dalla madre come bambino molto vivace, sebbene tale vivacità venga riferita dalla stessa come elemento di vitalità caratteristico della propria famiglia e non come clinicamente rilevante. Anche la madre all’osservazione appare piuttosto compressa, ha un eloquio velocissimo, è ipermimica, ha una gestualità molto rappresentata. Marco giunge alla nostra osservazione nell’ottobre 2002, all’inizio della II° elementare, inviato dalla scuola, per la difficoltà persistente di portare a termine i compiti assegnati, sebbene le capacità cognitive appaiano decisamente buone, anche il comportamento appare disturbato e disturbante. Altri elementi significativi emergono dalla valutazione, durante l’osservazione, della capacità di lettura e scrittura che appare piuttosto compromessa. La somma dei dati rilevati dall’anamnesi, dalla famiglia e dalla scuola, sembrano indirizzarci verso un quadro di ADHD sebbene si ritenga necessario sottoporre il bambino ad una valutazione logopedica per accertare una eventuale problematica a tipo D.S.A.

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Indagine testistica W.I.S.C.-R Q.I. tot 142

Non verbale 146 Verbale 130

Protocollo D.S.A. Lettura da -2 a –3,5 d.s. sia per velocità e

correttezza Scrittura evidenti tratti disgrafici

ortografia da –2 a –3,5 d.s. Calcolo tutte le prove inferiori alla media, positive

per un quadro di Discalculia di media gravità

Comprensione prove non suff. La diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento posta, rende necessario un piano di trattamento logopedico, naturalmente con la finalità di recupero ma anche per la possibilità che questo influisca su un riequilibrio dei comportamenti e delle capacità attentive. Durante il trattamento il bambino appare più adeguato nell’esecuzione del compito, ma sembrano permanere le difficoltà di attenzione, concentrazione e l’iperattività. Si spiega alla famiglia, che manifesta qualche resistenza (ritenendo che il problema principale sia la scarsa tolleranza delle insegnanti alla vivacità del bambino) la necessità di proseguire gli accertamenti atti ad individuare un eventuale disturbo a tipo ADHD. Approfondimento testistico Colloquio clinico Test del disegno Scale SDAI – SDAG – SDAB positive e correlate TEST DELLE CAMPANELLE - 3 ds

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Le risultanze psicodiagnostiche fanno propendere per la conferma dell’ipotesi posta, sebbene la famiglia abbia difficoltà ad accettarla. Si propone un consulto presso la N.P.I. di S.Donà di Piave dal dr. Maschietto. I genitori accettano e il mese successivo tornano dopo la visita con la conferma della diagnosi di invio e la prescrizione di metilfenidato che, non accettato in quel momento dalla famiglia, viene sostituito in prova con Catapresan. Il follow up della terapia non appare soddisfacente, il bambino solo parzialmente sembra aver modificato gli elementi disfunzionali del comportamento. La famiglia appare in grave crisi nella necessità di dover ridecidere sulla terapia farmacologica e sulla proposta di certificazione secondo i criteri della legge 104, legata alla necessità di far recuperare al bambino, con l’aiuto di un insegnante di sostegno, il disavanzo scolastico ormai pesante. Solo nel Febbraio 2005 Marco passa all’assunzione di Ritalin con effetti positivi immediati, nel Maggio 2005 viene emessa certificazione L.104. All’incontro di fine anno scolastico il quadro appare decisamente migliorato; Marco partecipa con buoni risultati a tutte le attività scolastiche, i suoi rapporti con i compagni, in precedenza condizionati dai suoi comportamenti, sono decisamente più funzionali, le ottime capacità cognitive del bambino gli permettono un veloce recupero. Nel corso dell’incontro a scuola si puntualizzano i comportamenti strategici da effettuare da parte delle insegnanti per contenere e strutturare i comportamenti in classe di Marco, in parte già attuati in precedenza.

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Note sulla gestione del caso L’analisi del caso descritto mette in evidenza quanto sia possibile che più fatti diagnostici si rappresentino durante l’iter di valutazione, con peso clinico proprio ma correlabile. La diagnosi di D.S.A., qui presente, abbiamo visto risultare in alta comorbidità con la diagnosi di ADHD. Va sottolineata anche un’altra variabile interveniente, data dalla capacità della madre di “tenere” nei confronti dei comportamenti iperattivi di Marco, e di non rappresentarli come patologici, possibilità che va sempre ben indagata anche dopo il percorso anamnestico. Proprio alla luce di questo si evidenzia come le indicazioni emerse dall’osservazione e dalla valutazione delle insegnanti siano state preziose nell’organizzazione diagnostica, considerando che Marco, durante i colloqui in studio, è sempre apparso motivato e collaborante, con pochi elementi di iperattività manifesta. In ultimo va evidenziato quanto l’assunzione del metilfenidato abbia impresso una modificazione sostanziale al quadro clinico, permettendo al bambino di aderire alle richieste dettate dai normali standard di apprendimento scolastico, e gli abbia permesso anche di migliorare la propria vita di relazione. Il caso qui esposto consente solo una breve analisi in quanto rappresenta le fasi iniziali ( diagnosi e impostazione del trattamento farmacologico) di un percorso che deve ancora svilupparsi soprattutto nei suoi aspetti psicopedagogici e relazionali; sarà importante, in questo senso, poter valutare gli sviluppi consentiti dall’introduzione dell’insegnante di sostegno e l’evoluzione delle dinamiche della classe rispetto alle relazioni che il bambino instaurerà con i compagni e gli insegnanti.

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Conclusioni Trattando dell’ADHD, che oggi presenta il problema di essere una diagnosi un po’ abusata, ci è parso utile collocarla nel panorama più ampio dei Disturbi Comportamentali in età evolutiva che presentano sintomi somiglianti. Ci interessava, infatti, offrire un contributo a chiarire (per quanto lo consente la letteratura disponibile sul problema) gli indicatori che più caratterizzano la sindrome; lo scopo era di consentire ai docenti, ai quali il testo è rivolto, di rendere più precise le loro osservazioni e offrire, in questo modo, un contributo alla diagnosi e alle strategie di intervento. La rassegna delle tecniche di intervento che abbiamo presentato (certamente non esaustiva) fa capo in prevalenza alle teorie della psicologia cognitiva. Ci siamo anche proposte di offrire un’immagine realistica (né demonizzata né idealizzata) sull’uso del farmaco di elezione per questa problematica comportamentale; l’intento è di presentarlo come uno degli strumenti possibili da valutare in base alla gravità dei sintomi e alla specificità di ogni situazione, nella convinzione che l’intervento farmacologico raggiunge la massima efficacia in associazione (e non certo in alternativa) ad un adeguato approccio educativo. Restiamo comunque del parere che la “formula” più potente per affrontare più efficacemente il Disturbo Comportamentale consista in un’alleanza e confronto sistematici tra scuola, famiglia e clinici: solo la mediazione tra i diversi saperi e modi di operare può facilitare la comprensione dell’unicità del bambino che vogliamo aiutare. L’approccio psicopedagogico e le tecniche che abbiamo riportato potrebbero essere utilmente applicate, non solo ai bambini con ADHD ma all’intera popolazione scolastica. Se non viene però raggiunto l’obiettivo di una solida condivisione di obiettivi e modalità operative tra gli adulti che educano le tecniche più innovative e le teorie pedagogiche più efficaci, corrono il rischio di essere “bruciate” prima ancora di essere seriamente sperimentate.

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104 Conclusioni

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Il bambino con Disturbo comportamentale (ADHD o altro) diventa dunque il pretesto e l’occasione affinché gli adulti educatori colgano l’ennesima opportunità per sperimentare l’efficacia della collaborazione. Questo significa, in termini cognitivi, che gli adulti educatori per primi comincino ad abbandonare costrutti mentali poco funzionali sul problema della collaborazione stessa (come ad esempio il pensare che questa non sia possibile solo perché è complessa) e comincino invece a costruire insieme nuovi e positivi costrutti su una collaborazione possibile.

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iperattività, Erickson, Trento 1999 Letture consigliate - Di Pietro M., Bassi E., Filoramo G., L’alunno iperattivo in

classe, Erickson Trento 2004 - Di Pietro M., L’educazione razionale – emotiva, Erickson,

Trento 1992 - Gardner H., Aprire le menti, Feltrinelli, Milano 1991 - McGinnis E., Goldstein A.P., Sprafkin R.P., Gershaw N.J.,

Manuale di insegnamento delle abilità sociali, Erickson, Trento 1986

- Molinari C., Gestire i conflitti senza farsi male, pubblicazione a cura del Comune di Piacenza nel giugno 2003

- Nussbaum M., L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004

Software - Di Nuovo S., Attenzione e concentrazione, Erickson, Trento

2000

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Due casi clinici 107

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Allegati Allegato A_ SCALA SDAI

Scala per l’individuazione di comportamenti di disattenzione e iperattività (1994)

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108 Allegati

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Allegato B_ SCALA SDAG Scala diretta ai genitori per l’individuazione di

comportamenti di disattenzione e iperattività del bambino (1995)

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Allegati 109

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Allegato C_ SCALA SDAB “Come sono?”

Intervista rivolta al bambino(1994)

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche

Area 02 – Scienze fisiche

Area 03 – Scienze chimiche

Area 04 – Scienze della terra

Area 05 – Scienze biologiche

Area 06 – Scienze mediche

Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie

Area 08 – Ingegneria civile e Architettura

Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione

Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche

Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche

Area 12 – Scienze giuridiche

Area 13 – Scienze economiche e statistiche

Area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su

www.aracneeditrice.it

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Finito di stampare nel mese di marzo del 2006dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)

per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma