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L’INSURREZIONE CHE VIENE Comitato invisibile

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L’INSURREZIONE

CHE VIENE

Comitato invisibile

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L’insurrezione che viene

Prima edizione francese:

Comité invisible, L’insurrection qui vient, La fabrique, Paris 2007

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DA OGNI PUNTO DI VISTA, il presente è senza via d’uscita.Virtù di non poco conto. Chi si ostina a sperare non trovaalcun appiglio, mentre chi propone soluzioni si ritrova pun-tualmente smentito. Si dà ormai per scontato che le cosepossano solo peggiorare. Sotto le apparenze di un’ostentatanormalità, la nostra epoca ha raggiunto il livello di consape-volezza dei primi punk: «Il futuro non ha più avvenire».

La sfera della rappresentazione politica è implosa. De-stra e sinistra esprimono lo stesso nulla, messo in scenacon aria da squalo o verginella, mentre le loro primedonneconfezionano discorsi in base alle ultime trovate di marke-ting. Chi va ancora a votare sembra voler far saltare le urnea forza di voto di protesta. È lecito sospettare che in realtàsi continui a votare contro il voto stesso. Ciò che si presentanon è nemmeno lontanamente all’altezza della situazione.Nel suo stesso silenzio, la popolazione sembra infinitamentepiù adulta di tutte le marionette che si accapigliano per go-vernarla. C’è più saggezza nelle parole di un qualunque vec-

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chio maghrebino di Belleville, che non in tutte le dichiara-zioni dei nostri cosiddetti dirigenti. Il coperchio delpentolone sociale viene sigillato, mentre all’interno la pres-sione cresce incessantemente. Partito dall’Argentina, lo spet-tro del Que se vayan todos! comincia ad assillare seriamente ipolitici.

L’incendio del novembre 2005 continua a proiettare lasua ombra su tutte le coscienze. Quei primi fuochi di gioiasono il battesimo di un decennio colmo di promesse. Ilracconto mediatico delle banlieue-contro-la-Repubblica, perquanto efficace, manca di verità. È passato sotto silenzio ilfatto che le fiamme hanno raggiunto anche i centri cittadi-ni. Intere strade di Barcellona sono state incendiate in soli-darietà senza che nessuno ne abbia avuto notizia, ad ecce-zione dei loro abitanti. E non è vero nemmeno che da allo-ra il Paese abbia cessato di bruciare. Fra gli accusati si tro-vano profili di ogni genere, accomunati solo dall’odio perla società esistente, non certo dall’appartenenza di classe,razza o quartiere. Il fatto inedito non è la «rivolta dellebanlieue», fenomeno noto sin dagli anni Ottanta, ma la rot-tura con le sue forme consolidate. Gli insorti non ascolta-no più nessuno, né i fratelli maggiori né le associazioni lo-cali deputate a gestire il ritorno alla normalità. Le ONG, deltipo SOS Racisme, non riusciranno a incistarsi in quell’even-to, la cui fine apparente è dovuta solo alla stanchezza, allafalsificazione e all’omertà mediatica. Il grande merito di quella

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serie d’azioni notturne, attacchi anonimi e devastazioni senzamezzi termini, è di avere elevato al massimo grado la sepa-razione tra la politica e il politico. Onestamente nessunopuò negare il peso evidente di un simile assalto senza riven-dicazioni e senza messaggi che non fossero di minaccia; unassalto che nulla aveva a che fare con la politica. Per nonvedere quanto vi sia di puramente politico in una negazio-ne così risoluta della politica bisogna essere ciechi o ignora-re totalmente i movimenti autonomi giovanili degli ultimitrent’anni. Sono stati bruciati, da alcuni ragazzi allo sbara-glio, i primi ninnoli di una società che, al pari dei monu-menti parigini dopo la «Settimana di sangue», non meritarispetto alcuno. E lo sa.

Non ci può essere soluzione sociale per uscire dalla si-tuazione presente. Anzitutto perché quel vago aggregatodi milieu, istituzioni e bolle individuali chiamato per antifrasi«società» è privo di consistenza, poi perché non c’è più unlinguaggio per l’esperienza comune. Non si possono con-dividere delle ricchezze, se non si condivide un linguaggio.È stato necessario mezzo secolo di lotte intorno ai Lumiper forgiare la possibilità della Rivoluzione francese, e unsecolo di lotte intorno al lavoro per partorire il temibile«Stato provvidenza». Le lotte creano il linguaggio in cui sidice il nuovo ordine. Niente di simile al giorno d’oggi. L’Eu-ropa è un continente squattrinato: si fa la spesa di nascostoda LIDL e ci si può permettere di viaggiare solo in low cost.

Da ogni punto di vista…

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Non c’è soluzione per i «problemi» formulati nel linguag-gio sociale. Tutto resta in sospeso: «pensioni», «precarietà»,i «giovani» e la loro «violenza», mentre si demanda alla po-lizia la gestione di passaggi all’atto sempre più imponenti,malcelati da tali «questioni». Difficile riuscire a edulcorareil fatto di dover pulire il culo per due lire a degli anzianiabbandonati dai propri cari e che non hanno più nulla dadire. Coloro che hanno trovato nelle vie criminali menoumiliazione e più benefici che nel lucidare pavimenti nongetteranno le armi e la prigione non inculcherà loro l’amo-re per la società. La smania di godere delle orde di pensio-nati non sopporterà in silenzio i cupi tagli delle loro rendi-te mensili e non potrà che eccitarsi ancora di più di fronteal rifiuto del lavoro di una larga parte della gioventù. Perfinire, nessun reddito garantito accordato all’indomani diuna quasi-rivolta potrà porre le basi di un nuovo New Deal,di un nuovo patto, di una nuova pace. Il sentimento socialeè ormai troppo estenuato perché possa verificarsi qualco-sa del genere.

In fatto di soluzioni, la pressione affinché nulla accada ela suddivisione poliziesca del territorio non faranno che in-tensificarsi. Il drone che, come rivelato dalla stessa polizia,ha sorvolato l’ultimo 14 luglio la Seine-Saint-Denis, dise-gna il futuro con colori più vivi di qualsivoglia brumaumanistica. L’aver precisato diligentemente che non era ar-mato, rende bene l’idea della situazione in cui ci troviamo.Il territorio verrà ripartito in zone sempre più impermeabili

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tra loro. Le autostrade poste ai bordi di un «quartiere sensi-bile» costituiscono un muro invisibile atto a separarlo dallezone residenziali. Checché ne pensino le anime belle re-pubblicane, la gestione dei quartieri «per comunità» è noto-riamente quella che funziona meglio. Le porzioni metropo-litane del territorio, i principali centri città, condurranno laloro vita lussuosa in una decostruzione sempre più contor-ta, sempre più sofisticata, sempre più splendente. Rischia-reranno tutto il pianeta con le loro luci da bordello, mentrepattuglie della BAC [Brigade Anticriminalité] e compagnieprivate di sicurezza, in breve le milizie, si moltiplicherannoall’infinito, beneficiando di una copertura giudiziaria sem-pre più sfacciata.

L’impasse del presente, percepibile ovunque, è ovunquenegata. Mai tanti psicologi, sociologi e letterati si sono ado-perati a descriverla nei rispettivi gerghi, guardandosi beneperò dal trarne le conclusioni. È sufficiente confrontare lecanzonette della «nouvelle chanson française», in cui la pic-cola borghesia anatomizza i propri stati d’animo, con le di-chiarazioni di guerra dei Mafia K’1Fry per sapere che lacoesistenza finirà presto, che una decisione è imminente.

Questo libro è firmato col nome di un collettivo imma-ginario. I suoi redattori non ne sono gli autori. Si sono ac-contentati di mettere un po’ d’ordine nei luoghi comunidell’epoca, in quanto si mormora nei bar o dietro le porte

Da ogni punto di vista…

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chiuse delle camere da letto. Non hanno fatto altro che fis-sare quelle verità necessarie la cui universale rimozione af-folla gli ospedali psichiatrici e gli sguardi di sofferenza. Sisono fatti scribi della situazione. Privilegio delle circostan-ze radicali è che il rigore conduca logicamente alla rivolu-zione. Basta descrivere quel che abbiamo sotto gli occhi etrarne le conclusioni.

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«I am what I am»

«I AM WHAT I AM». L’ultima offerta del marketing,l’ultimo stadio dell’evoluzione pubblicitaria, va ben al di làdelle esortazioni a essere differenti, a essere se stessi e abere Pepsi. Decenni di elaborazioni concettuali per arrivarealla pura tautologia. IO = IO. Lui, in palestra, corre sultapis roulant davanti allo specchio. Lei, al volante della suaSmart, torna dal lavoro. Si incontreranno?

«IO SONO CIÒ CHE SONO». Il mio corpo mi ap-partiene. Io sono Io, tu sei tu, e non va affatto bene. Persona-lizzazione di massa. Individualizzazione di tutte le condi-zioni: di vita, di lavoro, di disagio. Schizofrenia diffusa.Depressione rampante. Atomizzazione in fini particelleparanoiche. Isterizzazione del contatto. Più io voglio es-sere un Io, più provo una sensazione di vuoto. Più misforzo di esprimermi, più mi esaurisco. Più mi rincorro,più sono stanca. Io detengo, tu detieni, noi deteniamo ilnostro Io come uno sportello molesto. Siamo diventati irappresentanti di noi stessi, i garanti di una personalizza-zione che somiglia in tutto a un’amputazione. Ci affannia-

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mo ad assicurarci persino contro lo sfacelo con malcelatagoffaggine.

Nel frattempo, io gestisco: la ricerca di sé, il mio blog, il mioappartamento, le ultime minchiate alla moda, le storie dicoppia, di sesso… quante protesi per tenere insieme un Io!Se «la società» non fosse diventata una mera astrazione, de-signerebbe l’insieme delle stampelle esistenziali offertemi percontinuare a trascinarmi e delle dipendenze contratte perfarmi un’identità. L’handicappato è il modello della cittadinanza

che viene. Non senza lungimiranza le associazioni che lo sfrut-tano rivendicano il «reddito d’esistenza».

L’ingiunzione a «essere qualcuno», ribadita per ognidove, perpetua lo stato patologico che rende questa socie-tà necessaria. Essa si mantiene in piedi grazie alla debolez-za prodotta dall’ingiunzione a essere forti, al punto chetutto sembra assumere un aspetto terapeutico, perfino lavorare oamare. Gli innumerevoli «come va?» scambiati in una gior-nata fanno pensare a una società di pazienti intenti a misu-rarsi la febbre a vicenda. La socialità è fatta oggi di millepiccole nicchie, di mille piccoli rifugi nei quali tenersi alcaldo. In cui si sta comunque meglio che nel grande fred-do là fuori. In cui tutto è falso, perché è solo un pretestoper riscaldarsi. In cui nulla può accadere, perché si è taci-tamente occupati a rabbrividire insieme. Ben presto que-sta società potrà restare in piedi soltanto in virtù della ten-sione di tutti gli atomi sociali verso una guarigione illusoria.

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Come una centrale che succhia energia da un gigantescoserbatoio di lacrime sempre sul punto di tracimare.

«I AM WHAT I AM». Mai il dominio escogitò parolad’ordine più insospettabile. Il mantenimento dell’Io in unostato di semi-sfacelo permanente, in un quasi-cedimentocronico, è il segreto meglio serbato dell’ordine attuale dellecose.

L’Io debole, depresso, autocritico, virtuale è per essenzail soggetto infinitamente adattabile, necessario a una pro-duzione fondata su innovazione e obsolescenza acceleratedelle tecnologie, costante sconvolgimento delle norme so-ciali e flessibilità generalizzata. È al contempo il consuma-tore più vorace e, paradossalmente, l’Io più produttivo che sigetterà con tanta più energia e avidità sul minimo progetto,prima di tornare al suo originario stato larvale.

Che cosa sono, allora, «CIÒ CHE IO SONO»? Attra-versato fin dall’infanzia da flussi di latte, odori, storie, suo-ni, affetti, filastrocche, sostanze, gesti, idee, impressioni,sguardi, canti e belle mangiate: che cosa sono io? Legato daogni parte a luoghi, sofferenze, avi, amici, amori, eventi,lingue, ricordi, a cose di ogni genere che, in tutta evidenza,non sono io. Tutto ciò che mi lega al mondo, i rapporti che micostituiscono e le forze che mi popolano, non s’intreccianonell’identità che vorrebbero farmi brandire, ma in un’esi-stenza, singolare, comune, vivente, dalla quale in determi-nate circostanze e momenti emerge un essere che dice «io».

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Il nostro sentimento d’inconsistenza non è che l’effetto dellastupida credenza nella permanenza dell’Io, e della scarsacura accordata a ciò che ci costituisce. Si è presi da unasorta di vertigine nel veder troneggiare su un grattacielo diShanghai lo slogan Reebok «I AM WHAT I AM». L’Occi-dente fa avanzare ovunque, quale suo cavallo di Troia pre-diletto, l’antinomia letale tra Io e mondo, individuo e grup-po, attaccamento e libertà. La libertà non consiste nel di-sfarsi dei propri legami, bensì nella capacità pratica di opera-re su di essi, smuoverli, stabilirli o reciderli. La famiglia esi-ste in quanto famiglia, cioè in quanto inferno, solo per chiha rinunciato ad alterarne i meccanismi debilitanti o non sacome farlo. La libertà di separarsi è sempre stata il fantasmadella libertà. Sbarazzarsi degli ostacoli significa, al contempo,perdere ciò su cui esercitare le proprie forze.

«I AM WHAT I AM» non è quindi una semplice men-zogna, né una banale campagna pubblicitaria; è piuttostouna campagna militare, un grido di guerra diretto controtutto ciò che esiste tra gli esseri, che circola indistintamen-te, li lega invisibilmente, si frappone alla perfetta desolazio-ne; contro tutto ciò che ci fa esistere e grazie a cui il mondonon si riduce alle sembianze di un’autostrada, di un luna-park o di una serie di villette a schiera: pura noia, senzapassione e ben ordinata, spazio vuoto, gelido, in cui transi-tano solo corpi immatricolati, molecole automobilizzate emerci ideali.

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La Francia, patria degli ansiolitici, paradiso degli anti-depressivi, Mecca della nevrosi, detiene al tempo stesso ilprimato europeo di produttività oraria. La malattia, la stan-chezza e la depressione possono essere considerate i sin-tomi individuali di ciò da cui bisogna guarire. Essi contri-buiscono al mantenimento dell’esistente, al mio docileadeguamento a norme demenziali, alla modernizzazionedelle mie stampelle. Attuano in me la selezione tra le incli-nazioni opportune, conformi e produttive, e quelle di cuioccorre educatamente elaborare il lutto. «Bisogna sapercambiare, sai com’è…». Ma, se prese come fatti, le mie de-bolezze possono anche condurre allo smantellamento del-l’ipotesi dell’Io. In tal modo, diventano atti di resistenzanella guerra in corso, si convertono in momenti di ribel-lione e centri di energia contro ciò che congiura per nor-malizzarci e mutilarci. L’Io non è ciò che in noi è in crisi, ma la

forma che si vorrebbe imprimerci. Vogliono fare di noi degli Ioben delimitati, separati, classificabili e censibili per quali-tà, in una parola: controllabili. In realtà siamo creature trale creature, singolarità fra i nostri simili, carne viva chetesse la carne del mondo. Contrariamente a quanto ci ri-petono fin da piccoli, l’intelligenza non consiste nel sa-persi adattare; tutt’al più, questa è l’intelligenza degli schiavi.Il nostro essere disadattati, la nostra stanchezza, costitui-scono un problema solo dal punto di vista di chi vuole sot-tometterci. Essi indicano piuttosto un punto di partenza,un punto di congiunzione per inedite complicità. Evoca-

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no paesaggi molto più instabili, ma infinitamente piùcondivisibili di tutte le fantasmagorie alimentate da que-sta società.

Non siamo depressi, siamo in sciopero. Per chi rifiutadi gestirsi, la «depressione» non è uno stato, ma un passag-gio, un arrivederci, un passo a lato verso una disaffiliazionepolitica rispetto alla quale l’unica conciliazione possibile èquella medicale e poliziesca. Perciò questa società non esi-ta a imporre il Ritalin a bambini troppo vivaci, a moltipli-care le forme di dipendenza farmacologica e a diagnostica-re «disturbi comportamentali» sin dai tre anni. È l’ipotesidell’Io che va incrinandosi per ogni dove.

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«Divertirsi è un bisogno vitale»

Il governo proclama lo stato d’emergenza contro ragazzinidi quindici anni. Il Paese affida la propria salvezza a unasquadra di calcio. Un poliziotto in un letto d’ospedale si la-menta di avere subìto «violenze». Un prefetto chiede l’arre-sto di chi costruisce capanne sugli alberi. Due bambini didieci anni, a Chelles, accusati per l’incendio di una ludoteca.La nostra epoca non lesina situazioni grottesche che ognivolta sembrano sfuggirle di mano. E i media fanno di tuttoper soffocare, nei registri della lamentela e dell’indignazio-ne, le risate con cui simili notizie andrebbero accolte.

Una fragorosa risata sarebbe la risposta adeguata a tutti igravi «problemi» che vengono sollevati quotidianamente.Prendiamone uno fra i più gettonati: non esiste alcun «pro-blema immigrati». Quanti ancora crescono dove sono nati,abitano nei luoghi in cui sono cresciuti e vivono dove han-no vissuto i propri antenati? E i figli di quest’epoca appar-tengono più ai loro genitori o alla televisione? In verità, sia-mo stati sradicati in massa da ogni appartenenza, non siamopiù da nessuna parte. Donde un’innegabile sofferenza, oltre

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a un’inedita propensione al turismo. La nostra è una storiadi colonizzazioni, migrazioni, guerre, esili: la storia della di-struzione di ogni radicamento. Di tutto quanto ci ha resistranieri in questo mondo, ospiti nelle nostre famiglie. L’edu-cazione ci ha alienati dalla nostra lingua, il varietà dalle no-stre canzoni, la pornografia di massa dalle nostre carni, lapolizia dalle nostre città, il lavoro salariato dai nostri amici.A tutto ciò, in Francia, si aggiunge un lavorio feroce e seco-lare di individualizzazione: il potere statale annota, compa-ra, disciplina e separa i propri sudditi fin dalla loro infanzia,schiacciando istintivamente ogni solidarietà, affinché nonresti che la mera cittadinanza, la pura appartenenzafantasmatica alla Repubblica. Più di ogni altro, il francese èlo spossessato, il miserabile. Il suo odio per lo straniero siconfonde con l’odio di sé come straniero. La sua invidia per le«cités», frammista al terrore, esprime solo il suo risentimen-to per tutto ciò che ha perduto. Non può non invidiare icosiddetti «quartieri-ghetto», dove ancora sopravvive qual-che margine di vita in comune, di relazione tra gli esseri, disolidarietà non statale, di economia informale, di organizza-zione non separata da chi si organizza. Insomma, siamo giun-ti a un tale livello di privazione che l’unico modo di sentirsifrancesi consiste nell’imprecare contro gli immigrati, con-tro chi è più visibilmente straniero come me. In questo Paese,gli immigrati detengono una curiosa posizione di sovranità:se non ci fossero, forse i francesi non esisterebbero più.

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La Francia è un prodotto della scuola, e non l’inverso.Viviamo in un Paese eccessivamente scolarizzato, in cui cisi ricorda dell’esame di maturità come di un momento cheha segnato la propria esistenza. In cui persino dopo qua-rant’anni qualche pensionato vi racconta della bocciatura aun esame e di come ciò abbia pesato sulla sua carriera esulla sua vita. Nell’ultimo secolo e mezzo, la scuola dellaRepubblica ha formato un tipo inconfondibile di sogget-tività statalizzata: pronta ad accettare selezione e competi-zione purché siano garantite pari opportunità; ad attende-re per tutta la vita una giusta ricompensa meritocratica,come in un concorso; pronta a domandare sempre il per-messo prima di prendere e a rispettare in silenzio la cultu-ra, i regolamenti e i primi della classe. Anche il suo attac-camento ai grandi intellettuali critici e il suo rifiuto delcapitalismo sono improntati a questo amore per la scuola.È questa soggettività fabbricata dallo Stato che sta affon-dando, giorno dopo giorno, con la decadenza dell’istitu-zione scolastica. La riapparizione, dopo vent’anni, di cul-ture e scuole di strada in opposizione alla scuola della Re-pubblica e alla sua cultura di cartapesta, costituisce il mag-giore e più profondo trauma per l’universalismo francese.Su questo punto, la destra più estrema si riconcilia con lasinistra più virulenta. Basterebbe il nome di Jules Ferry,ministro di Thiers durante la repressione della Comune eteorico della colonizzazione, a rendere quanto meno so-spetta quest’istituzione.

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Da parte nostra, quando vediamo dei professori, uscitida non si sa quale «comitato di vigilanza cittadino», frignaredavanti alle telecamere perché è stata bruciata la loro scuola,ci ricordiamo di quante volte, da bambini, abbiamo sognatodi appiccare il fuoco. Quando sentiamo un intellettuale disinistra berciare sulla barbarie delle bande giovanili che mo-lestano i passanti, taccheggiano, incendiano automobili e gio-cano a rimpiattino con la polizia antisommossa, ci rammen-tiamo di quanto si diceva sui blouson noir negli anni Sessantao, ancora meglio, sugli apache nella Belle Époque: «Col nomegenerico di apache – scriveva un giudice del tribunale dellaSenna nel 1907 – si designano da qualche anno tutti gli indi-vidui pericolosi, l’accozzaglia di recidivi, nemici della società,senza patria né famiglia, disertori di tutti i doveri, pronti aipiù audaci colpi di mano e a ogni genere di attentato controbeni e persone». Queste bande che rifiutano il lavoro, pren-dono il nome dal proprio quartiere e si scontrano abitual-mente con la polizia, rappresentano l’incubo del buon citta-dino individualizzato alla francese: incarnano tutto ciò a cuiegli ha rinunciato, tutta la gioia possibile alla quale non avràmai accesso. C’è una buona dose di impertinenza nell’esisterein un Paese in cui si rimbrottano bimbi che canticchiano conespressioni del tipo «Piantala, ché se continui viene a piove-re!», in cui la castrazione scolastica smercia a ciclo continuogenerazioni di impiegati addomesticati. L’aura persistente diMesrine non deriva dalla sua rettitudine o dalla sua audacia,quanto dall’aver iniziato a vendicarsi di ciò contro cui noi

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stessi dovremmo vendicarci. O meglio, di cui dovremmo ven-dicarci direttamente, invece di continuare a tergiversare e ri-mandare. Perché senza dubbio il cittadino francese, attraver-so mille impercettibili bassezze e calunnie d’ogni sorta, tantepiccole cattiverie e velenosi atti di cortesia, si vendica inces-santemente, in permanenza e contro tutto, dell’annichilimentoa cui si è rassegnato. Era ora che un bel «Nique la police!»sostituisse il «Sì, signor agente!». In questo senso, l’ostilità sen-za mezzi termini di alcune bande non fa che esprimere, inmaniera un po’ meno paludata, la cattiva atmosfera, il mala-nimo di fondo, la voglia di distruzione redentrice in cui si vaconsumando questo Paese.

Chiamare «società» il popolo di estranei in cui viviamo èun’usurpazione tale che perfino i sociologi, da sempre abilinel trarre da quel concetto i propri mezzi di sostentamento,pensano ormai di rinunciarvi. Oggi preferiscono la metafo-ra della rete per descrivere le modalità di connessione di so-litudini cibernetiche, le fiacche interazioni note con i termi-ni «collega», «contatto», «amico», «relazione» o «avventura».Accade puntualmente che queste reti si condensino in milieu,in cui ci si limita però a condividere dei codici e a giocareall’incessante ricomposizione di un’identità.

Sarebbe tempo perso stare a fornire dettagli sull’agoniadei rapporti sociali vigenti. Si parla del ritorno della famigliae della coppia. Ma il ritorno della famiglia non ripristina quella

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che se ne è andata: è solo l’approfondimento della separazio-ne regnante, che essa vorrebbe occultare, diventando a suavolta dissimulazione. Chiunque potrà confermare quanta tri-stezza si condensi, anno dopo anno, nelle feste di famiglia: isorrisi tirati, l’imbarazzo nel vedere tutti recitare invano, lasensazione di avere un cadavere lì sulla tavola, mentre si vor-rebbe far finta di niente. Nonostante la nitida percezionedell’inanità del triste legame familiare, tra corna e divorzi,separazioni e riconciliazioni, per molti è ancor più triste ilrinunciarvi. La famiglia non consiste più nella oppressiva pre-senza materna o nel patriarcato degli schiaffoni, bensì nel-l’abbandono infantile a una dipendenza ovattata in cui tuttoè ben noto, a un momento di spensieratezza di fronte a unmondo in decomposizione, nel quale la formula «divenireautonomo» è un eufemismo per «aver trovato un padrone».La familiarità biologica agisce quale scusa per corrodere innoi ogni determinazione in qualche modo dirompente e far-ci rinunciare, sotto il pretesto che ci hanno visto crescere, aogni divenire adulto così come alla serietà dell’infanzia. Biso-gna preservarsi da questa corrosione.

La coppia è in certo modo l’ultimo gradino del grandesfacelo sociale. L’oasi nel bel mezzo del deserto umano. Sot-to gli auspici «dell’intimità», si cerca tutto ciò che ha disertatoi rapporti sociali contemporanei: calore, simpatia, verità, unavita senza teatro né spettatori. Ma passato lo stordimentoamoroso, «l’intimità» getta la maschera: anch’essa è un’in-venzione sociale, parla il linguaggio delle riviste femminili e

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della psicologia, schermata fino alla nausea da innumerevolistrategie. Non vi si trova più verità che altrove: anche lì do-minano la menzogna e le leggi dell’estraneità. E allorché, perbuona sorte, vi si trova una verità, quest’ultima ci invita a unacondivisione che sbugiarda la forma stessa della coppia. Ciòin virtù di cui degli esseri si amano è quel che li rende amabili,e che manda in rovina l’utopia dell’autismo a due.

In realtà, la decomposizione di tutte le forme sociali rap-presenta un’ottima occasione. Per noi è la condizione propi-zia a una sperimentazione di massa, selvaggia, di nuoviconcatenamenti e nuove fedeltà. Il confronto col mondo,impostoci dalla famosa «abdicazione genitoriale», ci ha co-stretti a una precoce lucidità e promette bei momenti di rivol-ta. Dalla morte della coppia, sorgono inquietanti forme diaffettività collettiva, ora che il sesso è logoro, che virilità efemminilità sono abiti usurati, che tre decenni di innovazionipornografiche hanno esaurito ogni attrattiva per la trasgres-sione e la liberazione. Quanto di incondizionato attiene ai le-gami di parentela può infine costituire l’armatura di solidarie-tà politiche impenetrabili all’ingerenza statale come un accam-pamento di zingari. Anche le interminabili sovvenzioni chemolti genitori sono costretti a versare a rampolli proletarizzatipossono trasformarsi in una forma di mecenatismo a favoredella sovversione sociale. In ultima analisi, «divenire autono-mi» potrebbe significare anche imparare a battersi nelle stra-de, a occupare case vuote, a non lavorare, ad amarsi follemen-te e a rubare nei grandi magazzini.

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Terzo cerchio:

«Vita, salute e amore sono precari.

Perché il lavoro dovrebbe sfuggire a questa legge?»

In Francia, la questione più intricata è quella del lavoro edel modo di concepirlo. In Andalusia, in Algeria, a Napoli,tutto sommato lo si detesta. In Germania, negli Stati Unitie in Giappone, al contrario, lo si venera. È vero, le cosepossono cambiare, come mostrano gli otaku in Giappone, ifrohe Arbeitslose in Germania e i work-aholics in Andalusia, maper il momento si tratta di mere curiosità. In Francia, inve-ce, ci si vanta in pubblico di fregarsene del lavoro, mentrein realtà si è disposti a tutto pur di fare carriera. Si è capacidi restare al lavoro fino alle dieci di sera, ma non si ha laminima esitazione a rubare del materiale in ufficio o a sot-trarre dai magazzini merci da rivendere alla prima occasione.Si detestano i padroni, ma si vorrebbe ad ogni costo essereassunti. Avere un lavoro è un onore, lavorare un marchio diservilismo. In breve: il perfetto quadro clinico dell’isteria.Si ama odiando, si odia amando. E notoriamente, quandol’isterico perde la sua vittima, cioè il suo padrone, precipitain uno stato di stupore e disorientamento. E il più dellevolte non riesce più a riprendersi.

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In Francia, Paese fondamentalmente politico, il potere in-dustriale è sempre stato sottomesso a quello statale e l’atti-vità economica surrettiziamente inquadrata in un’ammini-strazione meticolosa. I grandi imprenditori che non pro-vengano dalla nobiltà di Stato, cioè dagli istituti di forma-zione dei suoi quadri (Politechnique-ENA), sono i paria delmondo degli affari, oggetto di commiserazione dietro lequinte. Bernard Tapie è il loro eroe tragico: prima adulato,poi incarcerato, sempre intoccabile. Non c’è da stupirsi se oggi ètornato sulla scena. Contemplandolo come una sorta di mo-stro, il pubblico francese lo tiene a distanza: lo spettacolo diun’infamia così seducente preserva dal contatto. Nonostanteil grande bluff degli anni Ottanta, il culto dell’impresa non ha

mai attecchito in Francia. Qualunque libro ne parli male, è desti-nato a diventare un best-seller. I manager hanno un bel pa-voneggiarsi in pubblico, coi loro modi di fare e le loro pub-blicazioni: restano pur sempre circondati da un cordonesanitario di sogghigni, da un oceano di disprezzo e da unmare di sarcasmo. L’imprenditore non è uno di famiglia.Tutto sommato, nella gerarchia del detestabile, gli si preferi-sce il poliziotto. Nonostante tutto, nonostante golden boys eprivatizzazioni, il buon lavoro per definizione resta quellodel funzionario. Di quegli altri si può al massimo invidiare laricchezza, non il posto.

Sullo sfondo di questa nevrosi i vari governi possonoancora dichiarare guerra alla disoccupazione e annunciarel’ennesima «battaglia per l’occupazione». Nel frattempo, però,

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ex-dirigenti vanno a vivere, coi loro telefonini, sotto le ten-de di Médicins du monde lungo la Senna. Malgrado ogni sortadi trucco statistico, l’Agenzia nazionale per l’impiego stentaa ridurre il numero dei disoccupati sotto i due milioni. Infi-ne, a detta degli stessi questurini, solo il sussidio di disoccu-pazione e lo spaccio scongiurano un’esplosione sociale chepotrebbe avvenire da un momento all’altro. Nel manteni-mento della finzione lavorista, ne va tanto dell’economiapsichica dei francesi quanto della stabilità politica del Paese.

Noi – ci si consenta – ce ne fottiamo.La nostra generazione vive molto bene facendo a meno di

questa finzione. Non ha mai contato sulla pensione, né suldiritto del lavoro; tanto meno sul diritto al lavoro. Non sia-mo nemmeno «precari», come dicono compiaciuti i mili-tanti della sinistra più avanzata, perché essere precari signi-fica ancora definirsi in rapporto alla sfera del lavoro,segnatamente alla sua decomposizione. Riconosciamo il fattoche è necessario procurarsi denaro, non importa con qualimezzi, perché oggi non si può farne a meno. Ma non am-mettiamo la necessità di lavorare. Del resto, noi non lavo-riamo più: ci arrangiamo. L’azienda non è un luogo in cuiesistiamo; è piuttosto uno spazio che attraversiamo. Nonsiamo cinici, rifiutiamo solo che si abusi di noi. I discorsisulle motivazioni, le qualità, l’investimento personale, ci la-sciano del tutto indifferenti, per il gran disappunto dei ge-stori delle risorse umane. Si dice che siamo delusi dalle azien-de che, con il loro zelo nei licenziamenti, avrebbero tradito

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la lealtà dei nostri genitori. È falso. Per sentirsi delusi, biso-gna pur aver sperato, mentre noi nell’azienda non abbiamoriposto speranza alcuna. La consideriamo per ciò che è sem-pre stata: uno specchio per le allodole più o meno confor-tevole. Ci dispiace solo per chi, tra i nostri genitori, è cadu-to in trappola.

I sentimenti confusi relativi alla questione del lavoro sipossono spiegare in questo modo. Essa ha sempre riguar-dato due dimensioni contraddittorie: lo sfruttamento e la par-

tecipazione. Sfruttamento della forza-lavoro individuale e col-lettiva tramite l’espropriazione, privata o sociale, del plusva-lore; partecipazione a un’opera comune attraverso i legamitra coloro che cooperano nella produzione. Queste due di-mensioni vengono surrettiziamente confuse nella nozionedi lavoro, il che spiega la sostanziale indifferenza dei lavora-tori tanto alla retorica marxista, che nega la dimensione par-tecipativa, quanto alla retorica padronale, che nega quelladello sfruttamento. Di qui, inoltre, l’ambivalenza del rap-porto con il lavoro: disprezzato, in quanto ci rende estraneia ciò che facciamo, e amato, perché in esso è in gioco unaparte di noi. Ma su questo piano il disastro si è già consuma-to: nella distruzione e nello sradicamento necessari affinchéil lavoro diventasse l’unica maniera di esistere. Il disgusto neisuoi confronti non riguarda il lavoro in quanto tale, ma so-prattutto la metodica devastazione, cominciata secoli addie-tro, di quanto non rientra nella sua sfera: ovvero le varie

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forme di familiarità (di quartiere, di mestiere, di villaggio, dilotta, di parentela) e di attaccamento (a luoghi, esseri, sta-gioni, modalità del fare e del parlare).

Da ciò deriva l’attuale paradosso: il trionfo del lavoro sututte le altre maniere di esistere avviene esattamente nelmomento in cui i lavoratori sono diventati superflui. Incre-mento di produttività, delocalizzazione, meccanizzazione,automazione e digitalizzazione della produzione sono giuntia un livello tale da ridurre al minimo la quantità di lavorovivo necessario per confezionare una qualsiasi merce. Vi-viamo il paradosso di una società di lavoratori senza lavo-ro, in cui anche le forme della distrazione, come il consu-mo e i divertimenti, accusano la mancanza di ciò da cuidovrebbero distrarci. La miniera di Carmaux, celebre per iviolenti scioperi del secolo scorso, è stata riconvertita inCap Découverte: un «polo multi-divertimento» dove anda-re in skate o in bicicletta, con tanto di «museo della Minie-ra» e finti grisù per i turisti.

Nelle aziende la divisione del lavoro diventa sempre piùvisibile: tra impieghi altamente qualificati da un lato (ricer-ca, progettazione, controllo, coordinamento e comunica-zione, con tutti i saperi necessari al nuovo processo di pro-duzione cibernetizzata), e impieghi dequalificati di manu-tenzione e sorveglianza dall’altro. I primi sono pochi, benremunerati e perciò molto ambìti: chi se li accaparra fareb-be di tutto per non farseli sfuggire. Essi impongono che cisi identifichi col proprio lavoro in una morsa angosciante.

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Manager, scienziati, lobbisti, ricercatori, programmatori,sviluppatori, consulenti, ingegneri, non finiscono letteral-mente mai di lavorare. Anche i loro programmi sessuali neaumentano la produttività. «Le aziende più creative sonoquelle in cui si ha il maggior numero di relazioni intime»,teorizza un filosofo della Direzione Risorse Umane. «I col-laboratori d’azienda – conferma quello della Daimler-Benz– fanno parte del capitale aziendale. […] La loro motiva-zione, il loro savoir-faire, la loro capacità d’innovazione e laloro cura per i desideri della clientela costituiscono la mate-ria prima dei servizi innovativi. […] Il loro comportamen-to, la loro competenza sociale ed emozionale hanno un pesocrescente nella valutazione del loro lavoro. […] Questo saràvalutato sulla base non del numero di ore effettuate, madegli obiettivi raggiunti e della qualità dei risultati. Sono deiveri imprenditori».

L’insieme di compiti non relegabili all’automazione for-ma una nebulosa d’impieghi (manutentore, magazziniere,lavoratori stagionali o alla catena di montaggio etc.) che,non potendo essere svolti dalle macchine, sono appannaggiodi qualunque essere umano. Questa manodopera flessibile,indifferenziata, dalle mansioni variabili e a tempo determi-nato, non può più aggregarsi in una forza poiché, non es-sendo mai al centro del processo produttivo, risulta comepolverizzata in una moltitudine d’interstizi, impiegata pertappare i buchi di quanto non è ancora meccanizzato. Il la-voratore interinale rappresenta la figura di questo operaio

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che non è più tale, dotato non più di un mestiere, ma solo dicompetenze messe periodicamente in vendita e la cui di-sponibilità è, essa stessa, un lavoro.

Al margine di questi lavoratori reali, indispensabili per ilbuon funzionamento della macchina, c’è una grande mag-gioranza in eccedenza, solo parzialmente utile al ciclo pro-duttivo e la cui inoperosità rischia di sabotare la macchinanel suo complesso. La minaccia di smobilitazione generaleè lo spettro che ossessiona l’attuale sistema produttivo. Alladomanda «Perché lavorare, allora?» non tutti rispondonocome quell’ex-disoccupato a Libération: «Per il mio benesse-re. Bisognava che trovassi un’occupazione». Il vero rischio è

che infine si trovi un impiego alla nostra inoperosità. Questa popo-lazione fluttuante deve essere perciò occupata o gestita e,allo stato attuale, il miglior metodo disciplinare resta il lavo-ro salariato. Bisognerà dunque proseguire lo smantellamen-to delle «conquiste sociali» per riportare nel girone dei sala-riati i più restii, quelli che cedono solo di fronte al rischio dicrepare di fame o marcire in cella. L’esplosione del settoreschiavistico dei «servizi alla persona» deve continuare: don-ne delle pulizie, ristorazione, massaggi, assistenza a domici-lio, prostituzione, cure, corsi particolari, svaghi terapeutici,sostegni psicologici etc. Servizi resi ancor più necessari daun continuo incremento di norme di sicurezza, igiene, con-dotta e cultura, nonché dalla sempre maggiore rapidità concui le mode si danno il cambio. A Rouen i parchimetri tradi-

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zionali sono stati sostituiti da «parchimetri umani»: un tizioper la strada rilascia il biglietto e in caso di maltempo viaffitta pure l’ombrello.

L’ordine del lavoro fu l’ordine di un mondo. Il solo pen-siero delle conseguenze della sua rovina getta nello smarri-mento. Oggi il lavoro non dipende tanto dalla necessitàeconomica di produrre merci, quanto dalla necessità politica diprodurre produttori e consumatori, per salvare con ogni mez-zo l’ordine del lavoro. In una società in cui la produzione èdivenuta senza oggetto, produrre se stessi sta diventando l’oc-cupazione dominante: come un falegname che, privato del-la sua bottega, ricorresse alla extrema ratio di piallare se stes-so. Basti pensare a tutti quei giovani che si esercitano a sor-ridere per i colloqui d’assunzione, si fanno sbiancare i dentiper ottenere una promozione, vanno in discoteca per sti-molare lo spirito d’equipe, imparano l’inglese per accelerarela propria carriera, divorziano o si sposano per riuscire me-glio, frequentano stage di teatro per diventare leader o corsidi «crescita personale» per meglio «gestire i conflitti». «Lapiù intima crescita personale – sostiene uno dei tanti gurusulla piazza – porterà a un miglior equilibrio emozionale, auna più facile apertura relazionale, a un’acutezza intellettua-le più mirata e quindi a migliori performance economiche».Nel brulichio di questo piccolo mondo, che agogna di esse-re selezionato sforzandosi di essere naturale, si intuisce iltentativo di salvare l’ordine del lavoro tramite un’etica della

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mobilitazione. Essere mobilitati vuol dire relazionarsi al lavo-ro non più come attività, ma come possibilità. Togliendosi ipiercing, andando dal parrucchiere e facendo «progetti», ildisoccupato lavora apertamente alla sua «impiegabilità», dan-do prova così della sua mobilitazione. Quest’ultima consi-ste in un leggero scollamento da se stessi, in un minimostrappo da ciò che ci costituisce, in una condizione diestraneità. È la condizione per cui diviene possibile trattarel’Io come oggetto di lavoro, vendere se stessi e non la propriaforza-lavoro, farsi retribuire non per quello che si fa ma perquello che si è, per la squisita padronanza dei codici sociali,le capacità relazionali, il sorriso o la maniera di presentarsi.È la nuova norma di socializzazione. La mobilitazione ope-ra la fusione dei due poli contraddittori del lavoro: si parte-cipa al proprio sfruttamento e si sfrutta ogni partecipazio-ne. Ciascuno, idealmente, è una piccola impresa, il propriopadrone e il proprio prodotto. Che si lavori o meno, si trattadi accumulare contatti, competenze, «reti», in breve: «capi-tale umano». L’ingiunzione planetaria a mobilitarsi al mini-mo pretesto – il cancro, il «terrorismo», un terremoto, isenzatetto – sintetizza la determinazione delle potenze do-minanti a preservare il regno del lavoro al di là della suascomparsa fisica.

L’odierno apparato di produzione consiste quindi, da unlato, in una gigantesca macchina di mobilitazione psico-fisi-ca e di pompaggio energetico degli umani divenuti ecceden-ti; dall’altro, nella macchina selettiva che concede la sopravvi-

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venza alle soggettività conformi e abbandona gli «individuia rischio», ovvero tutti coloro che incarnano un altro impie-go della vita e, in tal modo, resistono all’apparato. Da unaparte si fanno vivere gli spettri, dall’altra si lasciano morire iviventi. È questa la funzione propriamente politica dell’at-tuale apparato produttivo.

Organizzarsi al di là del lavoro e contro di esso, disertarecollettivamente il regime della mobilitazione, manifestarel’esistenza di una vitalità e di una disciplina nella smobilitazione

stessa è un crimine che una civiltà senza scampo non puòperdonarci. In verità, è l’unico modo per sopravviverle.

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«Più semplice, più fun, più mobile, più sicuro!»

Non venite a parlarci di «città» e «campagna», né della loroormai antiquata opposizione. Quel che ci circonda non viassomiglia affatto: è una coltre urbana unica, senza formané ordine, una zona desolata, indefinita e illimitata, un con-tinuum mondiale di centri storici museificati e parchi natu-rali, di grandi conglomerati e immense aziende agricole, dizone industriali e lotti abitativi, di agriturismi e bar fighetti:la metropoli. È esistita la città antica, quella medievale e quellamoderna. Non esiste una città metropolitana. La metropoliesige la sintesi del territorio nel suo complesso. Tutto vi co-abita, non tanto in senso geografico quanto attraverso lemaglie delle sue reti.

Proprio perché prossima alla sparizione, la città si ritrovaoggi ad essere feticizzata come Storia. Le manifatture di Lillevengono convertite in sale di spettacolo, il centro cementificatodi Le Havre in patrimonio dell’Unesco. A Pechino vengonodistrutti gli hutongs che circondano la Città proibita, salvo ri-costruirli un po’ più in là per accontentare i turisti. A Troyessi incollano facciate di legno su edifici in pietra: un’arte del

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pastiche che ricorda le botteghe in stile vittoriano di DisneylandParigi. I centri storici, per secoli culla della sedizione, trova-no urbanamente il loro posto nell’organigramma della me-tropoli, destinati al turismo e all’ostentazione consumistica.Sono le isole della fantasmagoria della merce, mantenute invita con le fiere e l’estetica, nonché con la forza. Il prezzo perl’asfissiante melensaggine dei mercatini di Natale è il prolife-rare di vigilantes e pattuglie della polizia municipale. Il con-trollo si integra a meraviglia nel paesaggio della merce, mo-strando la sua faccia autoritaria a chi vuol vederla. È l’epocadel mélange, un mix di musichette, manganelli telescopici ezucchero filato. Perché non c’è fantasmagoria senza sbirri!

Il gusto dell’autentico-fra-virgolette, e del controllo chene è inseparabile, accompagna la piccola borghesia, cacciatadai centri storici, nella sua colonizzazione dei quartieri po-polari, alla ricerca di quella «vita di quartiere» che latita tra levillette a schiera. Ma facendo piazza pulita di poveri, auto-mobili e immigrati, nonché dei loro germi, essa finisce conl’annientare proprio quel che vi cercava. Su un manifestomunicipale, un operatore ecologico stringe la mano a unaguardia giurata; lo slogan: «Montauban, città pulita».

Il senso della decenza che obbliga gli urbanisti a non par-lare più della «città», dopo averla distrutta, ma dell’«urbano»,dovrebbe indurli a non evocare nemmeno la «campagna»,che ormai non esiste più. Al suo posto, ecco un paesaggioda offrire a masse stressate e sradicate, nonché un passato damettere in scena senza ritegno, ora che i contadini sono stati

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decimati. Si tratta di un’operazione di marketing dispiegatasu un «territorio» in cui tutto deve essere valorizzato o costi-tuito in patrimonio. Così, il medesimo vuoto agghiacciantesi propaga tra i borghi più sperduti.

La metropoli è la morte simultanea della città e della cam-pagna, al cui crocevia convergono tutte le classi medie, inquel milieu della medietà sociale che, di esodo rurale in«periurbanizzazione», si dilata indefinitamente. Il cinismodell’architettura contemporanea si addice alla vetrificazionedel territorio mondiale. Licei, ospedali e mediateche sonovariazioni sullo stesso tema: trasparenza, neutralità, unifor-mità. Edifici massicci e fluidi, progettati senza chiedersi chimai li abiterà, e che potrebbero essere qui come altrove. Chefare delle torri di uffici della Défense, di Lyon-Part Dieu odi Euralille? Nell’espressione «nuovo fiammante» è racchiu-so il loro destino. Nel maggio 1871 gli insorti appiccarono ilfuoco all’Hôtel de Ville di Parigi. Un viaggiatore scozzesedescrisse con queste parole il singolare splendore del poterein fiamme: «[…] mai avevo immaginato cotanta bellezza: èsuperbo. I comunardi sono una massa di ignobili furfanti,ne convengo. Ma che artisti! E per giunta senza avere co-scienza della loro opera! […] Ho visto le rovine di Amalfibagnate dai flutti azzurri del Mediterraneo, le rovine deitempli di Tung-hoor nel Punjab; ho visto Roma e moltoaltro ancora: ma nulla è paragonabile a quello che ho avutodavanti agli occhi questa sera».

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In effetti, impigliati tra le maglie metropolitane, restanoframmenti di città e residuati di campagna. Ma ciò che èvitale, da parte sua, si è acquartierato nei luoghi della segre-gazione. Paradosso vuole che i posti apparentemente piùinabitabili siano i soli a essere in qualche modo abitati. Unavecchia stamberga occupata risulterà sempre più popolata diun appartamento di lusso, dove non resta che perfezionarel’arredo in attesa del prossimo trasloco. In svariate megalo-poli, le bidonville sono gli ultimi luoghi vitali: al tempo stes-so i più vivibili e i più mortali. Non c’è da stupirsene: rap-presentano infatti il rovescio dell’arredo elettronico della me-tropoli mondiale. Ormai i quartieri dormitorio della banlieuenord di Parigi, riportati in vita dalla disoccupazione di massadopo l’esodo della piccola borghesia affamata di villette, ri-splendono più intensamente del Quartiere Latino. Sia con leparole che con il fuoco.

L’incendio del novembre 2005 non è nato dall’estremospossessamento, come hanno detto in tanti, ma dal pienopossesso di un territorio. Le automobili si possono bruciareanche per noia, ma un mese intero di sommosse capaci dimettere in scacco la polizia è ben altro: presuppone abilitànell’organizzarsi, complicità, perfetta conoscenza del terri-torio, un linguaggio condiviso e un nemico comune. Chilo-metri e settimane non hanno impedito la propagazione delfuoco. I primi roghi ne hanno chiamati altri, là dove meno lisi attendeva. Il passaparola non si lascia intercettare.

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La metropoli è il terreno di un incessante conflitto a bas-sa intensità, di cui la presa di Bassora, Mogadiscio o Nablussono i punti culminanti. La città, per i militari, è stata a lun-go un luogo da evitare, o da assediare. La metropoli, invece,è pienamente compatibile con la guerra. Il conflitto armatonon è che un momento della sua costante riconfigurazione.Le battaglie condotte dalle grandi potenze assomigliano allavoro di polizia, mai concluso, nei buchi neri della metro-poli – «che si tratti del Burkina Faso, del Bronx meridionale,di Kamagasaki, del Chiapas o della Courneuve». Gli «inter-venti» non mirano tanto alla vittoria, né a riportare l’ordinee la pace, quanto piuttosto alla prosecuzione di una messa insicurezza già da sempre all’opera. La guerra non è più isolabilenel tempo, ma si articola in una serie di micro-operazioni,militari e poliziesche, per garantire la sicurezza.

La polizia e l’esercito si adattano in parallelo e passo passo.Un criminologo richiede ai CRS [i reparti antisommossa, NdT]di organizzarsi in piccole unità mobili e professionalizzate.L’istituzione militare, culla dei metodi disciplinari, rimettein discussione la sua organizzazione gerarchica. Un ufficialedella NATO applica, nel suo battaglione di granatieri, un «me-todo partecipativo che coinvolge ognuno nell’analisi, pre-parazione, esecuzione e valutazione di un’azione. Nel corsodell’addestramento e secondo le ultime informazioni ricevu-te, il piano viene discusso e ridiscusso per giorni […] Nienteè meglio di un piano elaborato in comune per favorire ade-sione e motivazione».

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Le forze armate non solo si adattano alla metropoli, mala plasmano. Così i soldati israeliani, dopo la battaglia diNablus, si sono trasformati in architetti d’interni. Costrettidalla guerriglia palestinese ad abbandonare le strade, trop-po pericolose, imparano ad avanzare verticalmente e oriz-zontalmente all’interno degli edifici, sfondando muri e sof-fitti per potersi muovere. Un ufficiale delle forze di difesaisraeliane, laureato in filosofia, spiega: «Il nemico interpretalo spazio in maniera classica, tradizionale e io mi rifiuto diseguire la sua interpretazione cadendo così nelle sue trap-pole. […] Voglio sorprenderlo! Questa è l’essenza della guer-ra. Bisogna vincere. […] Ecco: ho scelto una metodologiache mi permette di attraversare i muri… come un vermeche avanza mangiando ciò che trova sul suo cammino». Ilcontesto urbano non si riduce al teatro dello scontro: ne è ilmezzo. Tornano in mente altri consigli, questa volta ad usodel partito dell’insurrezione: Blanqui raccomandava ai fu-turi insorti parigini di utilizzare le case affacciate sulle bar-ricate per proteggere le loro posizioni, sfondare i muri perfarle comunicare, abbattere le scale al pianterreno e bucarei soffitti per difendersi da eventuali assalitori, sradicare leporte per barricare le finestre e fare di ogni piano una po-stazione di tiro.

Oltre ad essere un ammasso urbanizzato – collisione de-finitiva fra città e campagna –, la metropoli è anche un flus-so di esseri e cose. Una corrente che attraversa reti di fibre

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ottiche, linee TAV, satelliti, circuiti di videosorveglianza, af-finché il mondo continui a correre verso la sua rovina. Unacorrente che vorrebbe trascinare tutto nella sua mobilitàsenza speranza, che mobilita tutti. Dove le informazioni ciassalgono come forze ostili. Dove non resta che correre ediventa difficile aspettare, foss’anche il prossimo metrò.

La moltiplicazione dei mezzi di trasporto e comunica-zione, esponendoci alla tentazione di essere sempre altrove,ci strappa senza soluzione di continuità al qui e all’ora. Treniad alta velocità, passanti ferroviari, telefonini: per essere su-

bito lì. Tutta una mobilità che porta con sé solamentesradicamento, isolamento, esilio. Essa sarebbe insopporta-bile per chiunque, se non fosse già da sempre mobilità dellospazio privato, dell’interiorità portatile. La bolla privata nonesplode, si mette a fluttuare. Non è la fine del cocooning, solola sua messa in movimento. Da una stazione a un centrocommerciale, da una banca d’affari a un hotel, ovunque lastessa estraneità, ormai così banale da passare per l’ultimaforma di familiarità. L’esuberanza della metropoli consistein questa mescolanza aleatoria di atmosfere preconfezionate,passibili di molteplici combinazioni. Non più luoghi dotatidi un’identità, i centri città si presentano come un’offerta diatmosfere originali: in una sorta di shopping esistenziale,siamo invitati a scegliere tra gli stili dei bar, delle persone edel design come tra le playlist di un iPod. «Con il mio lettoreMP3 sono padrone del mio mondo». Per sopravvivere al-l’uniformità circostante, l’unica opzione è quella di ricosti-

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tuire incessantemente il proprio mondo interiore, come unbambino che costruisse ovunque la stessa capanna; cometanti Robinson intenti a riprodurre il proprio habitat sul-l’isola deserta, salvo che quest’ultima è per noi la civiltà stes-sa, in cui quotidianamente sbarcano frotte di naufraghi.

Proprio perché è un’architettura di flussi, la metropoli èuna delle più vulnerabili formazioni umane mai esistite. Fles-sibile, sottile, ma vulnerabile. Basta una chiusura brutale dellefrontiere dovuta a una terribile epidemia, una carenza negliapprovvigionamenti vitali o un blocco organizzato delle ar-terie di comunicazione, perché crolli l’intera facciata necessa-ria a mascherare le carneficine che la assediano da ogni dove.Questo mondo non andrebbe così veloce se non fosse co-stantemente perseguitato dall’imminenza della sua rovina.

Strutture a rete, infrastrutture tecnologiche di nodi e con-nessioni e un’architettura decentralizzata pretendono di pro-teggere la metropoli da inevitabili disfunzioni. Internet do-vrebbe resistere a un attacco nucleare. Il controllo perma-nente dei flussi di informazioni, uomini e merci dovrebbeassicurare la mobilità metropolitana; la tracciabilità dovreb-be garantire che non manchi mai una merce dagli scaffali,che non si trovi mai una banconota rubata in commercio oun terrorista su un aereo: grazie a microchip RFID, passa-porti biometrici, schedature del DNA.

Ma la metropoli produce anche i mezzi della propria di-struzione. Secondo un esperto di sicurezza americano, se lasconfitta in Iraq è stata possibile, è perché la guerriglia è

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riuscita a sfruttare a proprio vantaggio i nuovi modi di co-municazione. Più che la democrazia, con le loro invasionigli Stati Uniti hanno esportato le reti cibernetiche. Hannoportato con sé una delle armi della loro disfatta. La moltipli-cazione dei telefoni cellulari e dei punti d’accesso a Internetha fornito alla guerriglia mezzi inediti per organizzarsi e ren-dersi meno attaccabile.

Ogni rete ha i suoi punti deboli, i nodi che bisogna disfareperché la circolazione si arresti e la rete imploda. L’ultimogrande blackout europeo ne è prova eloquente: è bastato unincidente su una linea dell’alta tensione per far piombare nelbuio buona parte del continente. Il primo gesto perché qual-cosa possa emergere nel bel mezzo della metropoli, perché siaprano degli altri possibili, consiste nell’arrestare il suoperpetuum mobile. Lo hanno capito i ribelli thailandesi che fan-no saltare i relè elettrici. Lo hanno capito gli anti-CPE chehanno bloccato le università per poi tentare di bloccare l’eco-nomia. Lo hanno capito anche i portuali americani in scio-pero nell’ottobre 2002: per difendere trecento posti di lavo-ro, hanno bloccato i principali porti della costa occidentaleper dieci giorni, causando perdite pari a un miliardo di euroal giorno, tanto l’economia americana dipende dai prodottiasiatici just in time. In diecimila si può far vacillare la più gran-de potenza economica mondiale. Secondo alcuni «esperti»,se il movimento fosse durato un altro mese, avremmo assi-stito a un «ritorno della recessione negli Stati Uniti e a unincubo economico per il Sud-est asiatico».

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Quinto cerchio:

«Meno beni, più legami!»

Trent’anni di disoccupazione di massa, di «crisi», di crescitaal rallentatore, e vorrebbero farci credere ancora nell’eco-nomia. Trent’anni punteggiati, è vero, da qualche intermezzodi illusioni: l’intermezzo 1981-83, con la speranza che un go-verno di sinistra potesse fare il bene del popolo; l’intermezzodegli anni dei soldi facili (1986-89), in cui saremmo dovutidiventare tutti ricchi, uomini d’affari e piccoli speculatori;l’intermezzo Internet (1998-2001), in cui avremmo tutti do-vuto trovare un lavoro virtuale a furia di restare connessi,mentre la Francia, multicolore ma unita, multiculturale ecolta, avrebbe dovuto vincere tutte le coppe del mondo.Ma ecco che, per quanto ci riguarda, le illusioni sono ormaiesaurite: abbiamo toccato il fondo, siamo a secco.

L’abbiamo capito una volta per tutte: l’economia non è incrisi, l’economia è la crisi; il lavoro non manca, il lavoro è di

troppo. In fin dei conti, non è la crisi, ma la crescita, che cideprime. Diciamolo chiaramente: la litania sulle quotazioni inBorsa ci tocca quanto una messa in latino. Per nostra fortuna,non siamo gli unici a essere giunti a questa conclusione. Non

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parliamo di chi vive di truffe, di traffici vari o campa da annigrazie al sussidio di disoccupazione. Di chi non riesce più aidentificarsi con il proprio lavoro e risparmia energie per iltempo libero. Di tutti gli imboscati e i fannulloni, che fanno ilminimo e sono la stragrande maggioranza. Di chi è affetto daquesto strano distacco di massa, ulteriormente rafforzato dal-l’esempio dei pensionati e dal supersfruttamento cinico diuna manodopera flessibilizzata. Non parliamo di costoro, checomunque dovrebbero arrivare ad analoga conclusione.

Parliamo piuttosto di tutti quei Paesi e continenti chehanno smarrito la fede nell’economia dopo aver visto pas-sare, tra perdite e fragore, il Boeing del FMI e aver tastato unpo’ di Banca mondiale. Da quelle parti non c’è traccia diquella crisi delle vocazioni che l’economia occidentale subi-sce fiaccamente. In posti come la Guinea, la Russia, l’Ar-gentina o la Bolivia, si registra piuttosto il discredito violen-to e duraturo di questa religione e del suo clero. «Che cos’èun migliaio di economisti del FMI in fondo al mare? – Unbuon inizio», motteggiano alla Banca mondiale. Una barzel-letta russa: «Due economisti si incontrano. Uno fa all’altro:ma tu capisci quel che sta succedendo? E l’altro: aspetta,adesso te lo spiego. No, no – risponde il primo – spiegarenon è difficile, anch’io sono un economista. No, quel che tichiedo è: tu ci capisci qualcosa?». Stuoli di sacerdoti fingo-no di entrare in dissidenza e criticare il dogma. L’ultima cor-rente un po’ vitale della sedicente «scienza economica» –corrente che si definisce senza umorismo «economia non

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autistica» – è dedita essenzialmente a mostrare le usurpazioni,i giochi di prestigio, gli indici manipolati di una scienza il cuiunico ruolo consiste nel benedire le elucubrazioni dei po-tenti e i loro appelli alla sottomissione, nonché, come han-no sempre fatto le religioni, nel fornire spiegazioni. Perché ilmalessere generale cessa di essere sopportabile nel momen-to in cui appare per quello che è: senza causa né ragione.

Nessuno ha più rispetto per il denaro, né quelli che cel’hanno, né quelli che ne sono privi. Il venti per cento deigiovani tedeschi, alla domanda: «Cosa vuoi fare da grande?»,risponde: «L’artista». Il lavoro non viene più sopportato comefosse un dato costitutivo della condizione umana. La conta-bilità aziendale confessa di non sapere più da dove nasca ilvalore. La cattiva reputazione del mercato gli avrebbe asse-stato il colpo di grazia da almeno dieci anni, se non fosse perla veemenza e i potenti mezzi dei suoi apologeti. Ovunque ilprogresso è diventato, nel senso comune, sinonimo di disa-stro. Nel mondo dell’economia si assiste a un fuggi-fuggi,come nell’URSS all’epoca di Andropov. Chi ha una conoscen-za anche vaga degli ultimi anni dell’URSS, non avrà difficoltà apercepire in tutti gli appelli al volontarismo dei nostri diri-genti, in tutti gli slanci verso un avvenire di cui si è perdutaogni traccia, in tutte le professioni di fede nella «riforma» ditutto e di nulla, i primi scricchiolii nella struttura del Muro.Il crollo del blocco socialista non ha consacrato il trionfo delcapitalismo, ma ha solo attestato il fallimento di una delle sue

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forme. D’altronde, la messa a morte dell’URSS non è stata ilrisultato di una rivolta popolare, ma della riconversione diuna nomenclatura. Proclamando la fine del socialismo, unafrazione della classe dirigente dapprima si è affrancata da ognidovere anacronistico che la legava al popolo. Ha preso così ilcontrollo privato di quello che già controllava, ma in nome ditutti. «Siccome fanno finta di pagarci, facciamo finta di lavo-rare», si diceva nelle fabbriche. «Poco male, noi la smettere-mo di fare finta!», ha risposto l’oligarchia. Agli uni, le materieprime, le infrastrutture industriali, il complesso militar-indu-striale, le banche, agli altri i locali notturni, la miseria o l’emi-grazione. Come non vi si credeva più in Unione sovieticasotto Andropov, così oggi non vi si crede in Francia nelle saleriunioni, nelle officine, negli uffici. «Che importa!», rispon-dono padroni e governanti, che non si preoccupano nemme-no più di addolcire «le dure leggi dell’economia», trasferendouna fabbrica nottetempo, per poi annunciare all’alba la chiu-sura al personale, e non esitano più a inviare il GIGN [Grouped’intervention de la Gendarmerie nationale] per porre fine auno sciopero – come è successo nel caso della SNCM [Sociéténationale maritime corse méditerranée, ci si riferisce allo scio-pero dei marinai nel 2005 contro la privatizzazione dell’azien-da, NdT] o in quello dell’occupazione, nel 2006, di un centrodi smistamento rifiuti a Rennes. L’attività mortifera del pote-re attuale consiste da un lato nel gestire questa rovina, dall’al-tro nel porre le basi di una «nuova economia».

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Eppure, all’economia eravamo stati più che abituati. Èda generazioni che ci si disciplina, ci si pacifica, che si è fattodi noi dei soggetti, naturalmente produttivi, contenti di con-sumare. Ma ecco che improvvisamente ritorna a galla quan-to ci eravamo sforzati di dimenticare: che l’economia è una

politica. E che oggi questa politica è una politica di selezionein seno a un’umanità diventata, nella sua massa, superflua.Da Colbert a De Gaulle passando per Napoleone III, loStato ha sempre concepito l’economia come politica, nonmeno della borghesia, che ne trae profitto, e dei proletari,che devono affrontarla. Solo quel curioso strato intermediodella popolazione, quello strano aggregato senza forza diquelli che non prendono partito, la piccola borghesia, ha semprefatto finta di credere all’economia come a una realtà – per-ché in questo modo la sua neutralità poteva essere preserva-ta. Piccoli commercianti, piccoli padroni, piccoli funziona-ri, quadri, professori, giornalisti, intermediari di ogni speciecostituiscono in Francia questa non-classe, questa gelatinasociale composta dalla massa di coloro che vorrebbero sem-plicemente passare la loro piccola vita privata lontani dallaStoria e dai suoi tumulti. Questa palude è per predisposizioneil campione della falsa coscienza, pronta a tutto pur di tene-re, nel suo dormiveglia, gli occhi chiusi sulla guerra che im-perversa tutto intorno. Ogni schiarita del fronte, in Francia,è stata segnata dall’invenzione di una nuova fissazione. Du-rante gli ultimi dieci anni, c’è stato ATTAC con la sua impro-babile Tobin Tax – la cui instaurazione avrebbe richiesto

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niente meno di un governo mondiale –, con la sua apologiadell’«economia reale» contro i mercati finanziari e la sua toc-cante nostalgia dello Stato. La commedia durò poco, risol-vendosi in farsa. Ma una fissazione rimpiazza l’altra, ed eccola decrescita. Se ATTAC con i suoi corsi di educazione popola-re ha cercato di salvare l’economia come scienza, la decrescitapretende di salvarla come morale. Una sola alternativa all’avan-zata dell’apocalisse: decrescere. Consumare e produrre meno.Diventare gioiosamente frugali. Mangiare biologico, anda-re in bicicletta, smettere di fumare e vigilare severamentesui prodotti da acquistare. Accontentarsi dello stretto ne-cessario. Sobrietà volontaria. «Riscoprire la vera ricchezzanel fiorire di relazioni sociali conviviali in un mondo sano».«Non attingere al nostro capitale naturale». Andare versoun’«economia sana». «Evitare la regolamentazione attraver-so il caos». «Non provocare crisi sociali che rimettano inquestione la democrazia e l’umanesimo». In breve: divenire

economi. Tornare all’economia di papà, all’età dell’oro dellapiccola borghesia: gli anni Cinquanta. «Quando l’individuodiventa un buon economo, la sua proprietà soddisfa per-fettamente la sua funzione, che è quella di permettergli digodere della propria vita al riparo dell’esistenza pubblica onell’intimità della sua vita privata».

Un grafico con addosso un pullover fatto a maglia beveun cocktail alla frutta tra amici in un caffè etnico. Si chiac-chiera amabilmente, si scherza senza esagerare, non si fa né

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troppo rumore né troppo silenzio, si scambiano sguardi esorrisi, beatamente: si è così straordinariamente civilizzati!Più tardi qualcuno di loro andrà a zappettare un orto diquartiere, qualcun altro si dedicherà alla ceramica, allo zen oa realizzare un film d’animazione. Si sentono accomunati dalpreciso sentimento di formare una nuova umanità, la piùsaggia, la più raffinata, l’ultima. E hanno ragione. Apple e ladecrescita vanno curiosamente d’accordo a proposito dellaciviltà futura. L’idea di un ritorno all’economia che fu por-tata avanti dagli uni è la nebbia propiziatoria dietro cui vaimponendosi l’idea del grande balzo tecnologico in avantipropagandata dagli altri. Nella Storia, infatti, i ritorni nonesistono. L’esortazione a tornare al passato esprime solo unadelle forme di coscienza del proprio tempo, di solito la piùmoderna. Non a caso la decrescita è la bandiera dei pubbli-citari dissidenti raccolti intorno alla rivista Casseurs de pub

[Distruttori di pubblicità]. Del resto, gli inventori della crescitazero – il Club di Roma nel 1970 – erano un gruppo di indu-striali e funzionari che si rifacevano a un rapporto stilato dacibernetici del MIT.

Tale convergenza non è affatto casuale: essa si iscrivenella marcia forzata per trovare un cambio all’economia. Ilcapitalismo ha disintegrato a suo profitto tutto quel chesussisteva in fatto di legami sociali; ora si lancia nella rico-struzione di nuovi legami sulle sue proprie basi. L’attualesocialità metropolitana ne è l’incubatrice. Analogamente,dopo aver devastato i mondi naturali, si lancia nella folle

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idea di ricostituirli sotto forma di ambienti controllati, do-tati di adeguati sensori. A questa nuova umanità corrispon-de una nuova economia, che pretende di essere non piùuna sfera separata dell’esistenza, ma il suo tessuto, che vor-rebbe essere la materia stessa dei rapporti umani; una nuo-va definizione del lavoro come lavoro su di sé e del Capitalecome capitale umano; una nuova idea della produzione comeproduzione di beni relazionali e del consumo come consumodi situazioni; e soprattutto una nuova idea del valore, cheverrebbe a includere tutte le qualità degli esseri. Questa«bioeconomia» in gestazione concepisce il pianeta come unsistema chiuso da gestire, e pretende di porre le basi di unascienza capace di integrare tutti i parametri della vita. Unascienza siffatta potrebbe un giorno farci rimpiangere i beitempi degli indici ingannevoli sulla crescita del PIL con cuisi pretendeva di misurare il benessere del popolo: almenonon ci credeva nessuno.

«Rivalorizzare gli aspetti non economici della vita» è unaparola d’ordine della decrescita e al contempo il program-ma di riforma del Capitale. Eco-villaggi, video-sorveglian-za, spiritualità, biotecnologie e convivialità rientrano nelmedesimo «paradigma di civiltà» in formazione: quello del-l’economia totale generata a partire dalla base. La sua ma-trice intellettuale non è altro che la cibernetica, la scienzadei sistemi, ovvero del loro controllo. Allo scopo di imporredefinitivamente l’economia, la sua etica del lavoro e del-l’avidità, nel corso del XVII secolo fu necessario internare

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ed eliminare la fauna degli oziosi, dei mendicanti, delle stre-ghe, dei folli, dei debosciati e di altri poveri sbandati, tuttaquell’umanità che per il mero fatto di esistere sconfessaval’ordine dell’interesse e della continenza. La nuova econo-mia non potrà imporsi se non al prezzo di un’analoga sele-zione dei soggetti e delle zone adatti alla mutazione. Il caostanto annunciato sarà l’occasione per tale cernita; o la no-stra vittoria su questo progetto odioso.

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«L’ambiente è una sfida industriale»

L’ecologia è la scoperta dell’anno. Per trent’anni la si eralasciata ai Verdi: se ne rideva grassamente la domenica pertornare ad assumere un’aria preoccupata il lunedì. Ma eccoche ci agguanta, che invade le onde radio come untormentone estivo, perché ci sono venti gradi in pieno di-cembre.

Un quarto delle specie di pesci è scomparso dagli oceani.Il resto non ne ha per molto.

Allarme per l’influenza aviaria: si promette di abbatterein volo gli uccelli migratori, a centinaia di migliaia.

Il tasso di mercurio nel latte materno è dieci volte supe-riore a quello autorizzato nel latte di mucca. E queste labbrache mi si gonfiano dopo aver morso una mela – eppurel’avevo presa al mercato. I gesti più semplici sono diventatitossici. Capita di morire a trentacinque anni «dopo una lun-ga malattia» che si è gestita come si è gestito tutto il resto.Sarebbe stato meglio trarre le conclusioni prima che la ma-lattia ci portasse diritti nel padiglione B del centro per lecure palliative.

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Ammettiamolo: non ci tocca affatto tutta questa «cata-strofe» dal cui clamore veniamo intrattenuti. Almeno nonprima che ci colpisca con una delle sue prevedibili conse-guenze. Ci riguarda, forse, ma non ci tocca. Ed è questa lavera catastrofe.

Non esiste una «catastrofe ambientale». Esiste quella ca-tastrofe che è l’ambiente [environnement]. L’ambiente è quel cheresta all’uomo dopo aver perduto tutto il resto. Coloro cheabitano un quartiere, una strada, una valle, una guerra, un’of-ficina, non hanno un «ambiente», ma evolvono in un mondo

popolato di presenze, pericoli, amici, nemici, punti di vita epunti di morte, di ogni sorta di esseri. Questo mondo ha lasua consistenza, che varia con l’intensità e la qualità dei le-gami che ci uniscono a tutti questi esseri e a tutti questiluoghi. Solo di noi, figli dello spossessamento definitivo, esi-liati dell’ultima ora – che veniamo al mondo in cubi di ce-mento, cogliamo la frutta al supermercato e carpiamo l’ecodel mondo dalla televisione –, solo di noi si può dire cheabbiamo un ambiente. Solo noi potevamo assistere al nostroannientamento come se si trattasse di un banale mutamentoatmosferico. Solo noi potevamo indignarci delle ultime of-fensive del disastro per poi metterci a compilarne meticolo-samente l’enciclopedia.

Quel che si è cristallizzato in «ambiente naturale» è unrapporto al mondo fondato sulla gestione, cioè sull’estraneità.Un rapporto al mondo in base al quale non siamo fatti anche

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del fruscio degli alberi, dell’odore di frittura in cortile, del-lo scorrere dell’acqua, del vocìo a scuola o dell’umidità diuna serata estiva; un rapporto al mondo in cui ci siamosolo io e il mio ambiente, che mi circonda senza mai costi-tuirmi. Siamo diventati come dei vicini in una riunione dicondominio planetaria. Non si può immaginare inferno piùcompiuto.

Nessun luogo [milieu] materiale ha mai meritato il nomedi «ambiente», fatta eccezione forse per la metropoli. An-nunci vocali computerizzati, tram dal sibilo avveniristico,luci azzurrognole di lampioni a forma di fiammiferi giganti,passanti truccati da mannequin mancate, rotazioni silenzio-se di una videocamera, l’algido tintinnare degli ingressi inmetropolitana, delle casse al supermercato, dei cartellini datimbrare in ufficio, cybercafè dall’arredo elettronico, un’or-gia di schermi al plasma, linee rapide e latex. Mai paesaggiopoté fare tanto a meno delle anime che lo attraversano. Mailuogo fu più automatico. Mai contesto fu più indifferente erichiese, in cambio della sopravvivenza, maggiore indiffe-renza. In fin dei conti, l’ambiente non è che questo: il rappor-to al mondo proprio della metropoli che si proietta su tuttociò che le sfugge.

La situazione è la seguente: si sono impiegati i nostri pa-dri a distruggere questo mondo, adesso vorrebbero far la-vorare noi alla sua ricostruzione, per giunta guadagnandocisopra. L’eccitazione morbosa che puntualmente assale gior-

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nalisti e pubblicitari a ogni nuova prova del surriscaldamentoclimatico, cela il ghigno d’acciaio del nuovo capitalismo ver-de, quello che si annunciava già negli anni Settanta, che siattendeva dietro l’angolo ma non arrivava mai. Eccolo final-mente! L’ecologia è proprio lui! Le soluzioni alternative sonoancora lui! La salvezza del pianeta è sempre lui! Non ci sonopiù dubbi: l’aria che tira è verde; l’ambiente sarà il pernodell’economia politica del XXI secolo. A ogni spinta dicatastrofismo corrisponde ormai una raffica di «soluzioniindustriali».

L’inventore della bomba H, Edward Teller, suggerisce dinebulizzare milioni di tonnellate di polvere metallica nellastratosfera per fermare il surriscaldamento. La NASA, fru-strata per aver dovuto riporre la brillante trovata dello scudospaziale nel museo delle fantasmagorie della guerra fredda,annuncia la costruzione di un gigantesco specchio al di làdell’orbita lunare per proteggerci dalle ormai funeste radia-zioni solari. Altra visione del futuro: un’umanità motorizzatache viaggia con il bioetanolo da San Paolo a Stoccolma; unsogno da cerealicoltore della Beauce, che dopo tutto impli-cherebbe solo la riconversione di tutte le terre arabili del pia-neta in campi di soia e barbabietole da zucchero. Automobiliecologiche, energie pulite e consulting ambientale coesistonosenza problemi con l’ultima pubblicità Chanel sulle paginepatinate dei settimanali d’opinione.

Il fatto è che l’ambiente ha il merito incomparabile diessere – ci si dice – il primo problema globale che si sia posto

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all’umanità. Un problema globale, cioè un problema del qualesolo coloro che sono organizzati a livello globale possonoavere la soluzione. Sappiamo bene di chi si tratta: i gruppiche da un secolo sono all’avanguardia del disastro e conta-no di rimanervi, al prezzo irrisorio di un cambio di logo.Che EDF abbia la faccia tosta di tornare a propinarci il suoprogramma nucleare come nuova soluzione alla crisi energeticamondiale, è prova eloquente di quanto le nuove soluzioniassomiglino ai vecchi problemi.

Dai ministeri alle sale interne dei caffè alternativi, ormaile preoccupazioni si esprimono con le stesse parole, per al-tro quelle di sempre. Si tratta di mobilitarsi. Non per la rico-struzione, come nel dopoguerra, non per l’Etiopia, comenegli anni Ottanta, non per il lavoro, come negli anni No-vanta. No, questa volta è per l’ambiente. Il quale non mancadi ringraziarvi. Al Gore, l’ecologia alla Nicolas Hulot* e ladecrescita si schierano ai lati delle eterne grandi anime dellaRepubblica per recitare la loro parte nella rianimazione delpiccolo popolo di sinistra e del ben noto idealismo dellagioventù. Brandendo l’austerità volontaria come una ban-diera, costoro lavorano bonariamente a renderci conformi

* Giornalista francese che, dopo aver riscosso successo televisivo

con una trasmissione ambientalista, ha creato una fondazione ecologista

finanziata da EDF, L’Oreal, Ibis Hotel e TF1 (i rispettivi logo fanno

bella mostra di sé sul sito www.fondation-nicolas-hulot.org), suscitan-

do non poche polemiche (vedi www.pacte-contre-hulot.org) [NdT].

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allo «stato d’emergenza ecologico che viene». La massa ro-tonda e appiccicosa della loro colpevolezza si abbatte sullenostre spalle stanche e vorrebbe spingerci a coltivare il no-stro orticello, a fare la raccolta differenziata e a biocompostarei resti del macabro festino nel quale e per il quale siamo staticoccolati.

Gestire l’uscita dal nucleare, le eccedenze di CO2 nell’at-

mosfera, lo scioglimento dei ghiacciai, gli uragani, le epide-mie, la sovrappopolazione mondiale, l’erosione dei suoli, lascomparsa massiccia delle specie viventi… ecco quale do-vrebbe essere il nostro fardello. Bisogna consumare poco per

poter ancora consumare. Produrre bio per poter ancora produrre.Bisogna autocostringersi per poter ancora costringere. Ecco comela logica di un mondo vorrebbe sopravvivere a se stessa dan-dosi le arie di una rottura epocale. Ecco come si vorrebbeconvincerci a partecipare alle grandi sfide industriali del se-colo in marcia. Inebetiti come siamo, saremmo capaci disaltare nelle braccia di quegli stessi figuri che hanno presie-duto alla devastazione, purché riescano a tirarcene fuori.

L’ecologia non è solo la logica dell’economia totale, maanche la nuova morale del Capitale. Lo stato di crisi internadel sistema e il rigore della selezione in corso sono tali chevi è necessità di un nuovo criterio in nome del quale operareuna cernita simile. L’idea di virtù non è mai stata, in ogniepoca, che un’invenzione del vizio. Senza l’ecologia non sipotrebbe giustificare l’esistenza fin da oggi di due filiere di

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alimentazione: una «sana e biologica» per i ricchi e i loropiccoli, l’altra notoriamente tossica per la plebe e i suoirampolli destinati all’obesità. L’iper-borghesia planetaria nonpotrebbe far passare per rispettabile il suo tenore di vita se isuoi ultimi capricci non fossero scrupolosamente «rispetto-si dell’ambiente». Senza l’ecologia nulla conserverebbe an-cora abbastanza autorità per far tacere ogni obiezione aimirabolanti progressi del controllo.

Tracciabilità, trasparenza, certificazione, eco-tasse, eccel-lenza ambientale, polizia delle acque fanno presagire lo sta-to d’eccezione ecologica che si annuncia. Tutto è permessoa un potere che trae la propria legittimazione dalla Natura,dalla salute e dal benessere.

«Una volta che le abitudini si saranno conformate alla nuovacultura economica e comportamentale, le misure coercitivecon ogni probabilità cadranno da sé». Ci vuole tutto il ridicoloaplomb di un avventuriero da talk-show per sostenere unaprospettiva così agghiacciante: costui ci chiama ad aver suffi-ciente «mal di pianeta» per mobilitarci e contemporaneamen-te a restare abbastanza anestetizzati per assistere a tutto ciòcon un contegno civile. Il nuovo ascetismo bio è il controllo di

sé richiesto a tutti per negoziare l’operazione di salvataggio acui si è costretto il sistema stesso. È in nome dell’ecologia chebisognerà d’ora in poi tirare la cinghia, come si faceva fino aieri in nome dell’economia. La strada potrà ben trasformarsiin pista ciclabile, potremmo anche, almeno alle nostre latitu-dini, essere gratificati un giorno con il reddito garantito, ma

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solo al prezzo di un’esistenza integralmente terapeutica. Mentechi pretende che l’autocontrollo generalizzato ci risparmieràuna dittatura in nome dell’ambiente: l’uno preparerà il lettoall’altra, e ci toccherà subirle entrambe.

Finché ci saranno l’Uomo e l’Ambiente, tra i due ci saràla polizia.

Tutto è da rovesciare nei discorsi ecologisti. Laddove par-lano di «catastrofe» per indicare gli sbandamenti dell’attualeregime di gestione degli esseri e delle cose, noi non vediamoaltro che la catastrofe del suo perfetto funzionamento. Lapiù grande ondata di carestia mai avvenuta nella zona tropi-cale (1876-1879) coincise con un periodo di siccità a livellomondiale, ma soprattutto con l’apogeo della colonizzazione.La distruzione dei mondi contadini e delle loro pratiche ali-mentari aveva fatto scomparire i mezzi per far fronte allapenuria. Più che la mancanza d’acqua, sono gli effetti del-l’economia coloniale in piena espansione che hanno coper-to di milioni di cadaveri scarnificati tutta la fascia tropicale.Ciò che viene presentato ovunque come catastrofe ecologi-ca è sempre stato, in primo luogo, la manifestazione di unrapporto al mondo disastroso. Non abitare nulla ci rendevulnerabili al minimo scossone del sistema, al minimo im-previsto climatico. All’approssimarsi dell’ultimo tsunami,mentre i turisti continuavano a trastullarsi nel bagnasciuga, icacciatori-raccoglitori delle isole si affrettavano a fuggire dallecoste seguendo gli uccelli. L’attuale paradosso dell’ecologia

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è che, con il pretesto di salvare la Terra, essa salva solo ilfondamento di ciò che ne ha fatto un astro desolato.

La regolarità del funzionamento mondiale ricopre nellanormalità il nostro stato di spossessamento propriamentecatastrofico. Ciò che si chiama «catastrofe» non è che la so-spensione forzata di questo stato: uno di quei rari momentiin cui riconquistiamo una qualche presenza al mondo. Eb-bene, che si esauriscano prima del previsto le riserve petro-lifere! Che si interrompano i flussi internazionali da cui èalimentato il ritmo della metropoli! Che si vada incontro agrandi turbolenze sociali, che si realizzino l’«imbarbarimentodelle popolazioni», la «minaccia planetaria» e la «fine dellaciviltà»! Qualsiasi perdita di controllo è di gran lungapreferibile ad ogni possibile gestione della crisi. Di conse-guenza, i migliori consigli non si troveranno certo presso glispecialisti dello sviluppo sostenibile. È nelle disfunzioni, neicortocircuiti del sistema che si palesano gli elementi per unarisposta logica a quel che potrebbe cessare di essere un pro-blema. Tra i firmatari del protocollo di Kyoto, gli unici Paesiche ad oggi rispettino gli impegni presi sono, ovviamenteloro malgrado, Ucraina e Romania. Provate a indovinareperché. Le sperimentazioni più avanzate su scala mondialenell’ambito dell’agricoltura «biologica» hanno preso piededal 1989 a Cuba. Provate a indovinare perché. È lungo lepiste africane, e non altrove, che la meccanica automobili-stica si è elevata al rango di arte popolare. Provate a indovi-nare come.

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Ciò che rende desiderabile la crisi è il fatto che in essal’ambiente cessa di essere l’ambiente. Ci ritroviamo costretti ariannodare un contatto, fosse pure fatale, con quel che c’è e aritrovare i ritmi della realtà. Quel che ci circonda non è piùpaesaggio, panorama, teatro, ma qualcosa da abitare, con cuidobbiamo trovare modi di composizione, e da cui possiamoimparare. Non ci lasceremo rubare i possibili contenuti della«catastrofe» da chi l’ha provocata. Mentre i gestori si interro-gano platonicamente su come cambiare radicalmente «senzasfasciare tutto», noi non vediamo altra opzione realista se nonquella di «sfasciare tutto» al più presto e di approfittare fin daora di ogni cedimento del sistema per potenziarci.

New Orleans, pochi giorni dopo il passaggio del cicloneKatrina. In un’atmosfera apocalittica, qua e là una vita tentadi riorganizzarsi. Davanti all’inerzia dei poteri pubblici, oc-cupati più a ripulire i quartieri turistici del «Quadrato france-se» e a proteggerne i negozi che ad aiutare gli abitanti poveridella città, rinascono pratiche che erano state dimenticate.Malgrado gli energici tentativi di evacuare la zona, malgradole partite di «caccia al negro» aperte per l’occasione da mili-zie di suprematisti bianchi, in molti non hanno voluto ab-bandonare il campo. Per costoro, che hanno rifiutato di es-sere deportati come «profughi ambientali» nei quattro an-goli del Paese, e per quelli che hanno deciso di raggiungerlida vari altri luoghi in solidarietà all’appello lanciato da unex-Black Panther, riemerge l’evidenza dell’autorganizzazione.

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Nel giro di qualche settimana viene messa in piedi laCommon Ground Clinic. Questo vero e proprio ospedaleda campo dispensa fin dai primi giorni cure gratuite e sem-pre più efficienti grazie al costante afflusso di volontari. Daallora la clinica è alla base di una resistenza quotidiana con-tro la volontà di radere tutto al suolo portata avanti daibulldozer governativi allo scopo di trasformare questa par-te della città in pascolo per speculatori edilizi. Cucine po-polari, approvvigionamento, medicina di strada, espropriproletari, costruzione di alloggi d’emergenza: tutto un sa-pere pratico accumulato dagli uni e dagli altri nel corso del-la vita ha trovato lì lo spazio per dispiegarsi. Lontano dasirene e uniformi.

Chi ha conosciuto la gioia spiantata di questi quartieri diNew Orleans prima della catastrofe, con la diffidenza neiconfronti dello Stato e la pratica di massa dell’arrangiarsiche già vi regnavano, non si stupirà che tutto ciò sia statopossibile. Chi invece si trova invischiato nel quotidiano ane-mico e atomizzato dei nostri deserti residenziali, potrebbedubitare di una tale determinazione. Tuttavia riappropriarsidi questi gesti sepolti sotto anni di vita normalizzata è lasola via praticabile per non sprofondare con questo mondo.E perché possa finalmente cominciare un’epoca di cui ap-passionarsi!

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Settimo cerchio:

«Qui stiamo costruendo uno spazio civilizzato»

La prima carneficina mondiale – quella che, tra il 1914 e il1918, permise di sbarazzarsi in un colpo solo di larga partedel proletariato contadino e urbano – venne condotta innome della libertà, della democrazia e della civiltà. Gli stes-si valori, a quanto pare, in nome dei quali imperversa daanni la famigerata «guerra contro il terrorismo», fra assassi-nii mirati e operazioni speciali. L’analogia si ferma qui: alleapparenze. La civiltà non è più un valore da portare agliindigeni senza tanti complimenti. La libertà, su cui la «sicu-rezza» proietta inesorabilmente la sua ombra, non è piùuna parola da scrivere sui muri. E per finire, non è un mi-stero per nessuno che la democrazia oggi si risolve in legi-slazioni rigorosamente d’eccezione: si pensi al ristabilimentoufficiale della tortura negli Stati Uniti o alla legge Perben IIin Francia.

Nell’arco di un secolo libertà, democrazia e civiltà sonostate ridotte a mere ipotesi. D’ora in poi il lavoro dei diri-genti consisterà nel predisporre le condizioni materiali emorali, simboliche e sociali, in cui tali ipotesi potranno tro-

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vare o meno conferma, e nell’allestire spazi in cui dianol’impressione di funzionare. A tale scopo ogni mezzo è le-cito, compresi quelli meno democratici, meno civili e piùsicuritari. Il punto è che nel corso del Novecento la demo-crazia ha regolarmente presieduto all’instaurazione di regi-mi fascisti, «civiltà» ha sempre fatto rima, sulle arie di Wagnero degli Iron Maiden, con «sterminio», mentre un bel giornodel 1929 la libertà ha assunto il duplice volto di un banchie-re che si butta dalla finestra e di una famiglia di operai co-stretti alla fame. Da allora – diciamo dal 1945 – la manipo-lazione delle masse, l’attività dei servizi segreti, la restrizio-ne delle libertà pubbliche e la piena sovranità della poliziasono considerati i giusti mezzi per assicurare democrazia,libertà e civiltà. Ultimo stadio di questa evoluzione, il pri-mo sindaco socialista di Parigi perfeziona la pacificazioneurbana mandando la polizia a ripulire un quartiere popola-re. Subito dopo, illustra il proprio operato con parole inec-cepibili: «Qui stiamo costruendo uno spazio civilizzato».Nulla da ridire. Tutto da distruggere.

Nonostante la sua aura di universalità, la questione dellaciviltà non ha nulla di filosofico. La civiltà non è un’astra-zione che sovrasta la vita: è anche e soprattutto ciò che go-verna, investe e colonizza l’esistenza nella sua dimensionepiù quotidiana e personale. È ciò che tiene insieme la sferapiù intima e la più generale. In Francia la civiltà è insepara-bile dallo Stato. Quanto più uno Stato è forte e antico, non

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riducendosi a sovrastruttura o esoscheletro di una società,tanto più è in realtà la forma delle soggettività che lo popo-lano. Lo Stato francese è la trama stessa delle soggettivitàfrancesi, l’aspetto che ha assunto la plurisecolare castrazionedei suoi sudditi. Ecco perché negli ospedali psichiatrici leforme di delirio più diffuse sono quelle legate a personaggipolitici. Non c’è da sorprendersi se c’è unanimità nel ritene-re la classe dirigente l’origine di tutti i mali, se ci si compiacetanto a mugugnare contro i politici… in fin dei conti, ilmugugno compiaciuto non è altro che un modo per accla-marli e intronizzarli, sottomettendovisi. In tutta evidenza,non ci si cura della politica come di una realtà estranea, macome di una parte di se stessi. La vita di cui investiamo talifiguri è quella che ci è stata strappata.

Se esiste un’eccezione francese, è questa. Persino la diffu-sione mondiale della letteratura francese non è che il fruttodi questa amputazione. In Francia la letteratura è lo spazioconcesso dal sovrano al divertimento dei castrati. È la libertàformale elargita a chi, privato della libertà reale, non se nepreoccupa. Di qui gli ammiccamenti osceni che da secoli inquesto Paese amano scambiarsi uomini di Stato e uomini dilettere, gli uni vestendo volentieri gli abiti degli altri. Noto-riamente gli intellettuali sono pronti ad alzare la voce, salvotirarsi indietro nei momenti decisivi pur di non essereestromessi dalla loro corporazione, perdendo così l’occasio-ne di dare finalmente un senso alla propria esistenza. È statosostenuto – ed è in effetti sostenibile – che la letteratura

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moderna sia nata con Baudelaire, Heine e Flaubert comecontraccolpo al massacro di Stato del giugno 1848. Le for-me letterarie moderne (lo spleen, l’ambivalenza, il feticismodella forma e il distacco morboso) nascono dal sangue degliinsorti parigini e contro il silenzio che avvolge la strage. L’at-taccamento nevrotico dei francesi per la loro Repubblica –quella Repubblica nel cui nome ogni bavure viene giustificatae ogni bassezza nobilitata – non fa che prorogare incessante-mente la rimozione dei sacrifici fondatori. Le giornate delgiugno 1848 (millecinquecento morti in combattimento emigliaia di esecuzioni sommarie tra i prigionieri, con l’As-semblea che accoglie la resa dell’ultima barricata al grido «Vivala Repubblica!») e la Settimana di sangue sono macchie origi-narie che nessun intervento chirurgico potrà mondare.

Nel 1945 Kojève scriveva: «L’ideale politico “ufficiale”della Francia e dei francesi resta quello dello Stato-nazione,della “Repubblica una e indivisibile”. D’altro canto, nel pro-prio intimo il Paese si rende conto dell’insufficienza di que-sto ideale, di quanto sia politicamente anacronistica l’ideastrettamente “nazionale”. Questo sentimento non ha anco-ra attinto il livello di idea chiara e distinta: il Paese non puòe non vuole esprimerlo apertamente. Proprio in virtù dellosplendore senza pari del suo passato nazionale, è particolar-mente difficile per la Francia riconoscere esplicitamente eaccettare sinceramente la fine del periodo “nazionale” dellaStoria e trarne tutte le conseguenze. È duro per un Paese

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che ha creato dal nulla l’armatura ideologica del nazionali-smo e che l’ha esportata in tutto il mondo, riconoscere cheesso ormai è un reperto storico da archiviare».

La questione dello Stato-nazione e delle sue esequie è ilnocciolo di ciò che, da almeno mezzo secolo, va indicatosenza esitazioni come il malessere francese. Dietro l’eufemi-smo «alternanza» si cela una sorta di dilazione sterilizzata:l’oscillazione da sinistra a destra, da destra a sinistra, comepure l’avvicendarsi di euforia e depressione, nonché lacoabitazione tra la critica verbosa dell’individualismo e l’in-dividualismo più feroce, tra la più grande generosità e il ter-rore delle masse. Dal 1945 questo malessere – placatosi soloin occasione del maggio ’68 con il suo fervore insurreziona-le – è andato costantemente peggiorando. L’epoca degli Stati,delle nazioni e delle repubbliche volge al termine, lasciandoinebetito il Paese che sul loro altare ha sacrificato tutto ciòche conteneva di vitale. La deflagrazione provocata dal ba-nale enunciato di Jospin «Lo Stato non può tutto» lasciaprevedere quella che accompagnerà la rivelazione del fattoche lo Stato non può più nulla. La sensazione di essere statiabbindolati si sta intensificando al punto di incancrenirsi.La si scorge dietro la collera latente che esplode a ogni occa-sione. Il lutto non rielaborato dell’epoca delle nazioni è lachiave dell’anacronismo francese e delle potenzialità rivolu-zionarie che esso tiene in serbo.

A prescindere dal risultato, le elezioni presidenziali 2007avranno segnato la fine delle illusioni francesi, facendo scop-

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piare la bolla storica nella quale abbiamo vissuto e che hareso possibili eventi come il movimento contro il CPE, vistodall’estero come un brutto sogno sfuggito agli anni Settanta.Perciò nessuno, in fondo, voleva quelle elezioni. La Francia èdavvero la lanterna rossa della zona occidentale.

L’Occidente oggi è un soldato americano che sfondaFalluja a bordo di un carro Abraham M1, sparandosi del-l’heavy metal in cuffia. È un turista perso nelle pianure dellaMongolia, schernito da tutti e aggrappato alla sua carta dicredito come unica zattera di salvezza. È un manager la cuiunica passione è il gioco del Go. È una tipa che cerca la suafelicità tra vestiti, fighetti e creme idratanti. È un militantesvizzero per i diritti dell’uomo che viaggia a destra e a mancaper solidarizzare con tutte le rivolte purché siano state re-presse. È uno spagnolo che se ne frega della libertà politicavisto che gli è garantita quella sessuale. È un appassionatod’arte che spaccia a un pubblico in estasi un secolo di artistiche, dal surrealismo all’Aktionismus viennese, hanno fattoa gara a ricoprire di sputi la civiltà. È un informatico chetrova nel buddismo una teoria realista della coscienza e unfisico delle particelle che dalla metafisica induista trae ispi-razione per le sue ultime scoperte. L’Occidente è una civiltàsopravvissuta a tutte le profezie sul suo crollo grazie a unostratagemma singolare. Come la borghesia ha dovuto ne-gare se stessa in quanto classe, in modo da rendere possibilel’imborghesimento dalla società, dall’operaio al barone; come

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il Capitale ha dovuto sacrificarsi in quanto rapporto salariato

per imporsi come rapporto sociale, diventando così capitaleculturale e capitale-salute oltre che capitale finanziario; comeil cristianesimo ha dovuto sacrificarsi in quanto religioneper sopravvivere a se stesso come struttura affettiva, ingiun-zione diffusa all’umanità, alla compassione e all’impotenza,così l’Occidente si è sacrificato in quanto civiltà particolare per impor-

si come cultura universale. Operazione che si può riassumerecosì: un’entità agonizzante si sacrifica come contenuto persopravvivere in quanto forma.

L’individuo in briciole si salva in quanto forma grazie alletecnologie «spirituali» del coaching; il patriarcato, scaricandosulle donne tutti i penosi attributi del maschio: volontà, con-trollo di sé, insensibilità; la società disintegrata, propagandoun’epidemia di socievolezza e divertimento. In tal modo, tuttele grandi finzioni consunte dell’Occidente si mantengono invita mediante artifici che le sbugiardano puntualmente.

Non vi è alcuno «scontro di civiltà». C’è solo una civiltàin coma, sulla quale si accaniscono macchine per la soprav-vivenza artificiale, e che diffonde nell’atmosfera planetariauna pestilenza caratteristica. A questo punto essa non riescepiù a prendere per buono alcuno dei suoi «valori» e ogniaffermazione le fa l’effetto di un’insolenza, di una provoca-zione da decostruire e smembrare per ricondurla allo stato didubbio. L’imperialismo occidentale oggi è quello del relati-vismo, dei «punti di vista» e delle opinioni; è lo sguardo

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meschino con la coda dell’occhio o la protesta risentita con-tro tutto ciò che è tanto stupido, tanto primitivo o arrogan-te da credere ancora in qualcosa, da affermare alcunché.Questo dogmatismo della messa in questione ammicca com-piaciuto dall’intero establishment universitario e letterario.Per le intelligenze postmoderniste non c’è critica tropporadicale purché non celi una minima certezza. Un secolo falo scandalo stava in ogni negazione rumorosa, oggi inqualsivoglia affermazione che non vacilli.

Non vi è ordine sociale che possa reggersi durevolmentesul principio secondo cui nulla è vero. Perciò è necessariotenerlo in piedi. L’attuale tendenza ad appiccicare ovunque ilconcetto di «sicurezza» è espressione del progetto di integrareagli esseri stessi, ai comportamenti e ai luoghi l’ordine ideale acui non sono più disposti a sottomettersi. «Nulla è vero» nondice nulla del mondo, ma tutto del concetto occidentale diverità. La verità, qui, non è concepita come un attributo de-gli esseri o delle cose, ma della loro rappresentazione. È con-siderata vera una rappresentazione conforme all’esperienza.La scienza in ultima istanza è l’impero della verifica univer-sale. Ma tutti i comportamenti umani, dai più ordinari ai piùraffinati, si basano su uno zoccolo di evidenze più o menoesplicite, tutte le pratiche muovono da un punto in cui cose erappresentazioni sono legate inscindibilmente tra loro. In ognivita rientra una dose di verità che la concezione occidentaleignora. Anche quando si parla di un «vero uomo» è per farsi

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beffe dei poveri di spirito. Per questa ragione gli occidentalivengono universalmente considerati da coloro che hannocolonizzato come mentitori e ipocriti. Essi vengono invidiatiper ciò che hanno (la loro potenza tecnologica), mai per ciòche sono; anzi, perciò vengono giustamente disprezzati. Nonsi potrebbero insegnare Sade, Nietzsche e Artaud nei licei senon si fosse preliminarmente squalificata quella nozione diverità. Il lungo lavoro dell’intellighenzia occidentale è consi-stito essenzialmente nel porre limiti sempre più angusti aogni affermazione, nello smontare una alla volta tutte le cer-tezze che inevitabilmente tendono a manifestarsi. Polizia efilosofia, benché formalmente distinte, costituiscono le istanzeconvergenti di questa operazione.

Sia chiaro, l’imperialismo del relativo trova un degno av-versario nel dogmatismo in tutte le sue forme: in qualunquemarxismo-leninismo, in qualunque salafismo, in qualunqueneonazismo. Anche qui, secondo l’usanza degli Occidentali,si confondono affermazione e provocazione.

A questo stadio, una contestazione strettamente sociale,non disposta a riconoscere che stiamo assistendo non allacrisi di una società, ma all’estinzione di una civiltà, si rendecomplice della sua perpetuazione. È anzi una strategia cor-rente criticare questa società nella vana speranza di salvarequesta civiltà.

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Ecco qua: abbiamo un cadavere sulle spalle, ma non èsemplice riuscire a sbarazzarsene. Non bisogna aspettarsinulla dalla fine della civiltà, dalla sua morte clinica. Consi-derata come tale, essa interessa solo gli storici. È un fatto.Bisogna trasformarlo in una decisione. I fatti si possono ri-baltare, la decisione è politica. Decidere la morte della civil-tà, stabilire come debba avvenire: solo la decisione ci libereràdel cadavere.

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IN CAMMINO!

UN’INSURREZIONE: non sappiamo nemmeno come potrebbecominciare. Sessant’anni di pacificazione, di sospensione deglisconvolgimenti storici, sessant’anni di anestesia democraticae di gestione degli eventi hanno indebolito in noi la percezio-ne schietta del reale e il senso partigiano della guerra in corso.Per cominciare, bisogna riconquistare questa percezione.

Non c’è da indignarsi per il fatto che da cinque anni vieneapplicata una legge notoriamente anticostituzionale sulla Si-curezza quotidiana. È inutile protestare legalmente contro lacompiuta implosione del quadro legale. Bisogna organizzarsicoerentemente.

Non c’è da impegnarsi in questo o quel collettivo cittadino,in questo o quel vicolo cieco di estrema sinistra, nell’enne-sima impostura associativa. Tutte le organizzazioni che pre-tendono di contestare l’ordine presente assumono a lorovolta, come fantocci, la forma, le abitudini e il linguaggio diStati in miniatura. Tutte le velleità di «fare politica diversa-

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mente» hanno contribuito esclusivamente all’estensione in-definita dei tentacoli statali.

Non c’è da reagire alle notizie del giorno, ma comprendereche ogni informazione è un’operazione in un campo ostile distrategie da decifrare: un’operazione che mira appunto a su-scitare questa o quella reazione. E ritenere tale operazionecome il vero contenuto dell’informazione.

Non c’è più da aspettare – un miglioramento, la rivoluzione,l’apocalisse nucleare o un movimento sociale. Aspettare an-cora è una follia. La catastrofe non è qualcosa di imminente,è il presente. Già adesso ci situiamo all’interno del crollo diuna civiltà. È qui che bisogna prendere partito.

Smettere di aspettare significa entrare in qualche modonella logica insurrezionale. Significa tornare a percepire, nellavoce dei nostri governanti, quel leggero tremolio di terroreche mai li abbandona. Governare non è mai stato altro cherinviare attraverso mille stratagemmi il momento in cui lafolla vi impiccherà. Ogni atto di governo non è che un modoper non perdere il controllo della popolazione.

Partiamo da un punto di estremo isolamento, di estremaimpotenza. In un processo insurrezionale tutto è da costruire.Nulla sembra meno probabile di un’insurrezione. Nulla è piùnecessario.

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TROVARSI

Assumere ciò che si prova come vero. Partire da lì

Un incontro, una scoperta, un grande sciopero, un terre-moto: ogni evento produce della verità, alterando il nostromodo di essere al mondo. Al contrario, una constatazioneche ci è indifferente, che non ci trasforma, che non impe-gna in alcun modo, non merita il nome di verità. C’è unaverità sottesa a ogni gesto, a ogni pratica, relazione e situa-zione. Normalmente la si elude, la si gestisce, il che di questitempi produce lo smarrimento tipico dei più. In realtà, tuttoimpegna a tutto. La sensazione di vivere nella menzogna èpur sempre una verità. Una verità non è una visione delmondo, ma quel che ci tiene irriducibilmente legati ad esso.Una verità non è qualcosa che si possiede, ma qualcosa checi porta. Che mi fa e mi disfa, mi costituisce e mi destituiscecome individuo, mi allontana da molti e mi accomuna a co-loro che la condividono.

L’essere isolato che la assume, è destinato a incontrarealcuni dei suoi simili. Di fatto ogni dinamica insurreziona-

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le prende le mosse da una verità sulla quale non si è dispo-sti a cedere. Lo si è visto ad Amburgo nel corso degli anniOttanta: un pugno di abitanti di una casa occupata decideche per sgomberarli bisognerà passare sui loro corpi. Unintero quartiere viene assediato da mezzi blindati ed eli-cotteri: furono giorni di battaglia per le strade, di manife-stazioni imponenti. Alla fine il sindaco dovette capitolare.Nel 1940 Georges Guingouin, il «primo partigiano di Fran-cia», prese le mosse da un’unica certezza: il suo rifiuto del-l’occupazione. Per il Partito comunista era solo un «pazzoche vive nei boschi». Fino a quando i pazzi a vivere neiboschi non furono ventimila, e liberarono Limoges.

Non indietreggiare davanti a ciò che vi è di politico in ogni amicizia

Ci hanno inculcato un’idea neutrale di amicizia, comemero affetto privo di conseguenze. Ma ogni affinità è affi-nità in una verità comune. Ogni incontro è incontro in un’af-fermazione comune, foss’anche quella della distruzione.Non ci si lega innocentemente in un’epoca in cui tenere aqualcosa e non demordere conduce regolarmente a perde-re il lavoro, in cui bisogna essere disposti a mentire perlavorare, e poi lavorare per conservare i mezzi della men-zogna. L’unione di individui che, partendo dalla fisicaquantistica, si impegnassero a trarne in ogni ambito tutte leconseguenze, sarebbe tanto politica quanto quella di com-pagni in lotta contro una multinazionale agroalimentare.

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Prima o poi, si troverebbero a fare i conti con la diserzionee con lo scontro.

I pionieri del movimento operaio avevano l’officina epoi la fabbrica come luogo di ritrovo. Disponevano dellosciopero per contarsi e smascherare i crumiri. Avevano ilrapporto salariato, che oppone il partito del Lavoro a quellodel Capitale, per intrecciare solidarietà e costituire fronti suscala mondiale. Noi abbiamo la totalità dello spazio socialeper trovarci. Disponiamo degli atti quotidiani di insubordi-nazione per contarci e smascherare i crumiri. E possiamocontare sull’ostilità contro questa civiltà per intrecciare soli-darietà e costituire fronti su scala mondiale.

Non aspettarsi nulla dalle organizzazioni.Diffidare di tutti i milieu esistenti e guardarsi bene dal diventarne uno

Nel nobile intento di affrancarsi da ogni appartenenza,capita non di rado di imbattersi nelle organizzazioni: politi-che, sindacali, umanitarie, associative etc. Vi si trova a voltequalche individuo sincero ancorché disperato, oppure entu-siasta ma astuto. Il fascino delle organizzazioni sta nella loroapparente consistenza: hanno una storia, una sede, un nome,dei mezzi, un capo, una strategia e un discorso. Tuttavia, sitratta di architetture vuote, che il rispetto dovuto alle loroorigini eroiche fatica a popolare. In ogni ambito e a tutti ilivelli, esse si occupano anzitutto della propria sopravviven-za in quanto organizzazioni, e di null’altro. I ripetuti tradi-

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menti hanno finito per alienar loro l’attaccamento della base.Solo per questo può accadere di incontrarvi persone degnedi stima. La promessa contenuta in quell’incontro, però, potràrealizzarsi solamente al di fuori dell’organizzazione e neces-sariamente contro di essa.

Ben più temibili sono gli ambienti [milieu], con la loro strut-tura morbida, i loro pettegolezzi e le loro gerarchie informali.Tutti i milieu vanno accuratamente evitati, perché tutti in certomodo preposti alla neutralizzazione di una verità. I milieuletterari hanno la funzione di soffocare la forza degli scritti;i milieu libertari l’urgenza dell’azione diretta. I milieu scien-tifici servono a escludere i più dalla ricerca. I milieu sportiviimbrigliano nelle loro palestre le diverse forme di vita chedovrebbero generare diverse forme di sport. Vanno evitatiin particolare i milieu culturali e quelli militanti: i due mor-tori in cui tradizionalmente vanno ad arenarsi i desideri ri-voluzionari. Il compito dei milieu culturali è di raccoglierele intensità nascenti per annullare, a forza di spiegazioni, ilsenso di ciò che si fa. Il compito dei milieu militanti è ditogliere l’energia per farlo. I milieu militanti estendono laloro rete sulla totalità del territorio francese, intralciando ilcammino di ogni divenire rivoluzionario. Sono portatorisolo del fardello dei loro fallimenti e dell’amarezza che neconsegue. Il loro logorio e l’eccesso della loro impotenza lihanno resi incapaci di cogliere le possibilità del presente.Per il resto vi si parla troppo, allo scopo di arredare unapassività infelice, cosa che li rende poco sicuri dal punto di

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vista poliziesco. È tanto vano riporvi delle speranze, quan-to stupido sentirsi delusi per la loro sclerosi. Basterà lasciar-li in balia del loro esaurimento.

Tutti i milieu sono controrivoluzionari, perché indaffa-rati unicamente a preservare il loro squallido comfort.

Costituirsi in comuni

La comune è ciò che accade quando degli esseri si trova-no, si intendono e decidono di camminare insieme. La co-mune è forse ciò che si decide nel momento in cui sarebbeusanza separarsi. È la gioia dell’incontro che sopravvive alsuo soffocamento prestabilito. È quell’evento per cui si dice«noi». Non è strano che degli individui che si accordanoformino una comune, è strano che restino separati. Perchéle comuni non si moltiplicano all’infinito? In ogni fabbrica,in ogni strada, in ogni paese, in ogni scuola… Finalmente ilregno dei comitati di base! Beninteso delle comuni che ac-cettino di essere ciò che sono là dove sono. Possibilmenteuna molteplicità di comuni capaci di sostituirsi alle istitu-zioni sociali: la famiglia, la scuola, il sindacato, l’associazio-ne sportiva etc. Delle comuni che non esitino ad andareoltre le attività strettamente politiche, che siano pronte aorganizzarsi per la sopravvivenza materiale di ciascun mem-bro e di tutti gli spiantati che le circondano. Delle comuniche si definiscano non, come fanno di solito i collettivi,attraverso un dentro e un fuori, ma sulla base della densità

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dei legami al loro interno. Non a partire dalle persone chele compongono, ma sulla base dello spirito che le anima.

Una comune si forma ogni volta che delle singolarità,liberatesi dalla camicia di forza individuale, decidono di con-tare solo su se stesse e di misurare le proprie forze con larealtà. Ogni sciopero spontaneo è una comune, ogni casaoccupata collettivamente su basi chiare è una comune, i co-mitati d’azione del ’68 erano delle comuni, come pure i vil-laggi di schiavi fuggiaschi negli Stati Uniti, o ancora RadioAlice a Bologna nel ’77. Ogni comune vuole trovare in sestessa la propria base. Vuole dissolvere il problema dei biso-gni. Vuole spezzare contemporaneamente ogni forma di di-pendenza economica e di assoggettamento politico. Ognicomune degenera in milieu non appena perde il contattocon le verità che la fondano. C’è un’ampia varietà di comuniche non aspettano né il numero, né i mezzi e ancor meno il«momento giusto» – che non arriva mai – per organizzarsi.

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Organizzarsi per non dover più lavorare

Ahinoi, le opportunità per i «fannulloni» si fanno semprepiù rare. In verità quegli impieghi, benché poco stressanti,restano una fastidiosa perdita di tempo. Manco si riesce aschiacciare un pisolino o a leggere in santa pace!

È noto che l’individuo esiste per quel tanto che deveguadagnarsi da vivere, costretto com’è a scambiare il suo tem-po per una miseria di esistenza sociale. Tempo personale incambio di esistenza sociale: ecco cos’è il mercato del lavoro.Il tempo della comune sfugge da subito al lavoro, non vivedi espedienti, o meglio, ne preferisce ben altri. Gruppi dipiqueteros argentini riescono a strappare collettivamente unasorta di reddito minimo garantito a condizione di lavorarepoche ore; poi non lavorano, mettono in comune i loro gua-dagni, acquistano l’essenziale per un’officina e per un pani-ficio, e predispongono gli orti di cui hanno bisogno.

È necessario procurarsi denaro per la comune, ma senzadover lavorare. Ogni comune ha la sua cassa nera. Si può far

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ricorso a diversi espedienti: oltre al sussidio di disoccupa-zione ci sono borse di studio, assegni da carpire con fintiparti, traffici di vario genere e i tanti altri mezzi che possonoproliferare tra un controllo e l’altro. Non spetta a noi difen-derli, né accomodarci in questi rifugi di fortuna per conser-varli come fossero un privilegio per iniziati. Occorre invececoltivare e diffondere questo indispensabile atteggiamentofraudolento, nonché condividerne gli aggiornamenti. Per lecomuni la questione del lavoro si pone solo in funzione deglialtri introiti disponibili. Non vanno trascurate tutte le cono-scenze utili che si possono rubare a certi mestieri, corsi diformazione o impieghi di alto rango.

Liberare per tutti la maggior quantità di tempo possibile èun’esigenza della comune non riconducibile al mero calcolo

delle ore non soggette allo sfruttamento salariato. Il tempo li-berato non ci mette in vacanza. Il tempo vacante, il tempomorto, il tempo del vuoto e dell’horror vacui è tempo di lavo-ro. Ormai non c’è più un tempo da riempire, ma solo una libe-razione di energia che nessun «tempo» può contenere; lineeche si disegnano e acquistano spessore, linee che possiamoseguire a piacere, fino in fondo, fino a incrociarne altre.

Saccheggiare, coltivare, fabbricare

Alcuni vecchi salariati di Metaleurop si improvvisano rapi-natori, invece di fare i secondini. Impiegati dell’EDF passano

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a dei conoscenti gli strumenti con cui truccare i contatori.Il materiale «caduto da un camion» va a ruba. Un mondoche si proclama apertamente cinico non può aspettarsi daiproletari una lealtà irreprensibile.

Da un lato, una comune non può fare affidamento sul-l’eternità dello «Stato provvidenza», dall’altro non può spera-re di vivere durevolmente grazie al taccheggio, a quel che sirecupera nottetempo nei cassonetti dei supermercati o neidepositi delle zone industriali, al dirottamento delle sovven-zioni, alle truffe contro le assicurazioni, in una parola: al sac-cheggio. Una comune deve preoccuparsi di accrescere co-stantemente il livello e l’estensione della sua autorganizzazione.I torni, le fresatrici o le fotocopiatrici vendute sottocosto allachiusura di una fabbrica, è logico che serviranno a supportarele cospirazioni contro la società mercantile.

La sensazione dell’imminenza del crollo è dappertuttotalmente viva da rendere impossibile un’elencazione com-pleta degli esperimenti in corso in fatto di costruzione, ener-gia, materiali, illegalismo o agricoltura. Si tratta di un insie-me di saperi e tecniche che aspetta solo di essere saccheg-giato e strappato al suo imballaggio moralistico, poco im-porta se confezionato da teppisti o ecologisti. Tuttavia que-sto insieme è, a sua volta, solo una parte di tutte le intuizio-ni, i saper-fare e l’ingegnosità tipici delle bidonville: biso-gnerà dispiegarli e renderli disponibili se vogliamo ripopolareil deserto metropolitano, assicurando la praticabilità a me-dio termine di un’insurrezione.

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In che modo comunicare e muoversi nel contesto di unainterruzione totale dei flussi? In che modo ripristinare lecoltivazioni alimentari delle zone rurali perché possano tor-nare a sostentare la densità abitativa di sessant’anni fa? In chemodo degli spazi asfaltati si possono trasformare in ortiurbani (come si fece a Cuba per sopravvivere all’embargostatunitense e al crollo dell’Unione Sovietica)?

Formare e formarsi

Che cosa è rimasto degli svaghi autorizzati dalla democra-zia mercantile, a noi che ne abbiamo tanto goduto? Che cosaci ha indotto a fare jogging la domenica mattina? Che cosaappassiona i fanatici di karate, bricolage, pesca o micologia?Che cosa, se non la necessità di riempire l’inoperosità com-pleta, di ricostituire la propria forza lavoro o il proprio«capitale-salute»? La maggior parte degli svaghi potrebbe-ro agevolmente spogliarsi della loro insensatezza e trasfor-marsi in qualcosa d’altro. La boxe, ad esempio, non è sempreservita a richiamare le folle per i grandi match o a promuo-vere le donazioni a Telethon. Nella Cina del primo Nove-cento, smembrata da orde di colonizzatori e messa alla fameda lunghi periodi di siccità, centinaia di migliaia di contadinipoveri si organizzarono in vari club di boxe a cielo apertoper riprendere ai ricchi e ai colonizzatori ciò di cui eranostati spogliati. Fu la rivolta dei boxer. Non sarà mai troppopresto per imparare e praticare quel che tempi meno pacifi-

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cati e meno prevedibili esigeranno da noi. La nostra dipen-denza dalla metropoli – dai suoi medici, dalla sua agricoltura,dalla sua polizia – è arrivata a un punto tale che non possiamoattaccarla senza mettere in pericolo noi stessi. La tacita con-sapevolezza di questa estrema vulnerabilità è la radice dellaspontanea autolimitazione tipica degli attuali movimentisociali, con il loro timore delle crisi e il loro desiderio di«sicurezza». Tale consapevolezza ha fatto sì che gli sciope-ranti barattassero l’orizzonte della rivoluzione per il ritornoalla normalità. Non ci si scrolla di dosso questa fatalità sen-za un lungo percorso di apprendimento e sperimentazionimolteplici. È necessario imparare a battersi, a scassinare ser-rature, a curare fratture e malattie, a costruire trasmettitoriradio, a predisporre cucine popolari, a prendere bene la mira,ma anche a riunire i saperi necessari per elaborare un’agro-nomia di guerra, capire la biologia del plancton, la composi-zione dei terreni, e poi studiare le piante e gli innesti: ritro-veremo così le intuizioni perdute, le usanze e tutti i legamipossibili con il nostro ambiente immediato, nonché i suoilimiti. Tutto ciò fin da oggi: per i giorni in cui da quella terradovremo trarre più che una parte simbolica del nostro nu-trimento e delle nostre cure.

Creare dei territori. Moltiplicare le zone di opacità

Legioni di riformisti convengono oggi sul fatto che, «conl’impennata del prezzo del petrolio» e «per ridurre le emis-

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sioni di gas serra», bisognerà «rilocalizzare l’economia», fa-vorire l’approvvigionamento regionale e la filiera corta, ri-nunciare alle importazioni da luoghi remoti etc. Costorodimenticano però che la peculiarità di tutto ciò che si falocalmente a livello economico è di essere fatto in nero, inmodo «informale». Il banale provvedimento ecologico dellarilocalizzazione dell’economia implica niente meno che l’af-francamento dal controllo statale. O l’assoggettamento to-tale ad esso.

Il territorio così com’è oggi è il prodotto di secolari ope-razioni di polizia. Il popolo è stato cacciato via dalle suecampagne, poi dalle sue strade, dai suoi quartieri e persinodagli atri dei condomini, nella speranza dissennata di rin-chiudere la vita intera all’interno delle quattro mura stantiedel privato. Il problema del territorio non si pone per noicome per lo Stato. Per noi non si tratta di mantenerlo, ma direndere localmente più dense le comuni, la circolazione e lasolidarietà, in modo che il territorio diventi indecifrabile eopaco agli occhi dell’autorità. Non è questione di occupare,ma di essere il territorio.

Ogni pratica fa esistere un territorio – territorio di spac-cio o di caccia, dei giochi per bambini, degli innamorati odella sommossa; territorio del contadino, dell’ornitologo odel flâneur. La regola è elementare: più sono i territori che sisovrappongono in una zona data, maggiore è la circolazio-ne tra gli stessi, minore è la possibilità che il potere abbiapresa su di essi. Osterie, stamperie, palestre, aree abbando-

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nate, bancarelle di libri, tetti dei palazzi, mercati improvvi-sati, kebab e garage possono facilmente sfuggire alla lorofunzione ufficiale, purché vi si trovi un minimo di complicità.L’autorganizzazione locale, sovrapponendo la propria geo-grafia alla cartografia statale, la scompagina e l’annienta: pro-duce così la propria secessione.

Viaggiare. Tracciare le nostre vie di comunicazione

Le comuni non mirano a contrapporre alla metropoli conla sua mobilità il radicamento locale e la lentezza. Il movi-mento espansivo in cui si costituiscono delle comuni devedoppiare sotterraneamente quello della metropoli. Non dob-biamo rigettare le possibilità di spostamento e di comunica-zione offerte dalle infrastrutture mercantili, ma solo cono-scerne i limiti. Basta essere sufficientemente cauti e non darenell’occhio. Far visita ai compagni di persona è molto piùsicuro della comunicazione via mail: non lascia traccia epermette di tessere legami ben più solidi. Il privilegio con-cesso a molti di noi di poter «circolare liberamente» da uncapo all’altro del continente, e senza eccessivi probleminel mondo intero, è una risorsa non trascurabile per met-tere in comunicazione i focolai di cospirazione. Uno deipochi pregi della metropoli è di permettere a degli ameri-cani, a dei greci, a dei messicani o a dei tedeschi di ritro-varsi furtivamente a Parigi giusto il tempo per una discus-sione strategica.

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Il movimento permanente tra le comuni affini è una diquelle cose che le preservano tanto dall’inaridimento quan-to dalla fatalità della rinuncia. Accogliere dei compagni,farsi raccontare le loro iniziative, meditare sulle loro espe-rienze, imparare le loro tecniche: tutto ciò contribuisce dipiù alla vita di una comune che gli sterili esami di coscienzaa porte chiuse. Sarebbe stupido sottovalutare l’apporto de-cisivo delle serate passate a confrontare i punti di vista sullaguerra in corso.

Ribaltare, uno dopo l’altro, tutti gli ostacoli

Si sa che nelle strade imperversa l’inciviltà. Tra ciò cheesse realmente sono e ciò che dovrebbero essere si interponela forza centripeta della polizia, che si sforza di ristabilire l’or-dine. Di contro ci siamo noi, cioè il movimento inverso, cen-trifugo. Non possiamo che rallegrarci degli sconvolgimenti edel disordine, da ovunque essi irrompano. Non c’è da sor-prendersi se ormai le feste nazionali – che non celebrano piùnulla – prendano sistematicamente una brutta piega. Polito eben campito o fatiscente che sia, l’arredo urbano – ma dovecomincia? dove finisce? – è la materializzazione del nostrocomune spossessamento. Perseverando nel suo nulla, essoimplora solo di potervi ritornare definitivamente. Contem-pliamo quel che ci attornia: tutto attende la sua ora, mentre lametropoli d’un tratto assume un’espressione nostalgica, comefosse un campo di rovine.

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Che diventino finalmente metodici e sistematici: gli atti diinciviltà confluiranno allora in una guerriglia diffusa, efficace,capace di restituirci alla nostra ingovernabilità e alla nostraindisciplina primordiali. Può destare sconcerto il fatto che,tra le virtù militari riconosciute al partigiano, figuri propriol’indisciplina. In verità non si sarebbe mai dovuto sciogliereil nodo che legava collera e politica. Senza la prima, la secon-da si perde in meri discorsi; senza la seconda, la prima siesaurisce in mere urla. Espressioni come «arrabbiati» [enragés]o «esaltati» risuonano periodicamente nel discorso politicocome degli spari intimidatori.

Per quanto riguarda il metodo, del sabotaggio facciamonostro il seguente principio: ridurre al minimo rischi e du-rata dell’azione, massimizzare i danni. Per quanto riguardala strategia, si tenga presente che un ostacolo ribaltato manon sommerso – uno spazio liberato ma non abitato – vie-ne rimpiazzato senza difficoltà da un nuovo ostacolo, piùresistente e meno attaccabile.

Inutile dilungarsi sui tre tipi di sabotaggio operaio: rallen-tare il lavoro (dal vado-e-vengo allo sciopero bianco); rompe-re i macchinari o incepparli; rivelare segreti aziendali. Allarga-ti alle dimensioni della fabbrica sociale, i princìpi del sabotag-gio si generalizzano dalla produzione alla circolazione. Le in-frastrutture tecnologiche della metropoli sono vulnerabili: isuoi flussi non sono solo trasporti di persone e merci; infor-mazioni ed energia circolano attraverso reti di cavi, fibre,

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cablaggi che è possibile attaccare. Sabotare efficacemente lamacchina sociale implica oggi la riappropriazione e lareinvenzione dei metodi per interromperne le reti. Come ren-dere inutilizzabile una linea TAV o una rete elettrica? Cometrovare i punti deboli delle reti informatiche? Come disturba-re le trasmissioni radio e oscurare il piccolo schermo?

Quanto agli ostacoli più seri, è sbagliato considerarneimpossibile la distruzione. Le implicazioni prometeiche diquesto discorso si riassumono in una certa appropriazionedel fuoco, al di fuori di ogni volontarismo cieco. Nel 356 a.C.Erostrato diede alle fiamme il tempio di Artemide, una dellesette meraviglie del mondo. In quest’epoca di compiuta de-cadenza vale la constatazione funebre per cui i templi sono

già delle rovine.L’annientamento di questo nulla non rappresenta una fa-

tica ingrata: compierlo significa sperimentare una nuova gio-vinezza. Tutto acquista senso, tutto viene a coordinarsi spon-taneamente: spazi, tempi, amicizie. Il legno si trasforma infrecce pronte all’uso – siamo noi stessi frecce. In un’epocamiserrima «spaccare tutto» appare forse – per dei buoni mo-tivi, bisogna ammetterlo – come l’ultima seduzione collettiva.

Sottrarsi alla visibilità. Fare dell’anonimato una posizione offensiva

Durante una manifestazione una sindacalista strappa lamaschera a un anonimo che ha appena spaccato una vetri-na: «Prenditi la responsabilità di quel che fai, invece di na-

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sconderti!». Essere visibili, significa essere scoperti, dun-que vulnerabili. Quando la sinistra si sforza ovunque di«dare visibilità» alla propria causa – sia quella dei barboni,delle donne o dei migranti – nella speranza che sia messaall’ordine del giorno, fa l’esatto contrario di ciò che biso-gnerebbe fare. Non già rendersi visibili, ma volgere a no-stro favore l’anonimato a cui siamo stati relegati e, attra-verso la cospirazione e l’azione notturna o mascherata, tra-sformarlo in una inattaccabile posizione d’attacco. I fuo-chi del novembre 2005 siano d’esempio: nessun leader,niente rivendicazioni, assenza di organizzazione; in com-penso parole chiare, gesti eloquenti, complicità fulminee.Non avere alcuno statuto sociale non è una condizioneumiliante, né fonte di un penoso bisogno di riconoscimento(essere riconosciuti… da chi?). Al contrario, è condizionedella massima libertà d’azione. Non firmare le propriemalefatte o inventarsi delle sigle fantasma – si pensi all’ef-fimera BAFT [Brigade Anti-Flic des Tarterêts, banlieuedell’Essonne, NdT] – sono modi di preservare questa li-bertà. Non è difficile smascherare il tentativo di fare della«banlieue» il soggetto responsabile delle «sommosse di no-vembre 2005» come una delle prime manovre difensivedel regime. Basta guardare le facce di quelli che sono qual-

cuno nella nostra società per godere del fatto di non esserenessuno.

La visibilità va evitata. Tuttavia, una forza che tende adaggregarsi nell’ombra non potrà schivarla indefinitamente.

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Si tratta di dilazionare il nostro emergere in quanto forzafino al momento opportuno. Perché più tardi entreremonella visibilità, più forti saremo. E una volta diventati visibili,il tempo stringe. O saremo in grado di abbattere la sua tiran-nia, oppure sarà lui a schiacciarci prontamente.

Organizzare l’autodifesa

Viviamo sotto assedio: assediati dalla polizia. Le retatecontro i sans-papiers in pieno giorno, gli sbirri in borgheseche scorrazzano per le strade, la pacificazione coatta deiquartieri metropolitani grazie alle tecniche affinate nellecolonie, i proclami contro le «bande» da parte del Ministrodegli interni, degni della guerra d’Algeria, ce lo rammentanoogni giorno. Sono ragioni più che sufficienti per smettere disubire e cominciare a organizzare l’autodifesa.

Mano a mano che cresce e si estende, una comune vedràil potere prendere sempre più di mira ciò che la costituisce.Tali contrattacchi assumeranno la forma della seduzione,del recupero e in ultima istanza della forza bruta. L’autodifesadeve essere per le comuni un’evidenza collettiva, tanto pra-tica quanto teorica. Far fronte a un arresto, riunirsi veloce-mente in buon numero contro un tentativo di sgombero,dare rifugio a uno dei nostri non saranno riflessi superfluinegli anni a venire. Non possiamo passare il tempo a rico-struire le nostre basi. Smettiamola di denunciare la repres-sione e prepariamoci a fronteggiarla.

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La faccenda non è semplice: richiedendo alla popolazioneun surplus di lavoro poliziesco – dalla delazione alla collabo-razione occasionale a milizie cittadine o ronde –, le forze dipolizia tendono a confondersi con la gente. Ormai il modellopasse-partout dell’intervento poliziesco, anche in occasionedi sommosse, è lo sbirro in borghese. L’efficacia della polizianelle ultime manifestazioni contro il CPE era garantita daglisbirri in borghese che, mescolatisi alla folla, aspettavano unincidente per venire allo scoperto: lacrimogeni, manganello,flashball, arresto; il tutto in collaborazione con i servizi d’or-dine dei sindacati. Basta la mera eventualità di una loro pre-senza a seminare il sospetto tra i manifestanti (chi è chi?) e aparalizzare l’azione. Posto che una manifestazione non è unmezzo per contarsi, bensì per agire, dobbiamo trovare i modiper smascherare gli sbirri in borghese, cacciarli e, nella peg-giore delle ipotesi, liberare chi tentano di arrestare.

La polizia nelle strade non è affatto invincibile, disponesolo di mezzi efficaci per organizzarsi, esercitarsi e testarearmi sempre più avanzate. In confronto, le nostre armi sa-ranno sempre rudimentali, fatte in casa e molto spesso rac-cattate e improvvisate sul posto: non possono avere la pre-tesa di competere in potenza di fuoco, ma dovranno servir-ci a tenere a distanza, a distogliere l’attenzione, a esercitarepressione psicologica o ad aprirci un varco e guadagnareterreno puntando sul fattore sorpresa. Non c’è innovazionepoliziesca, approntata nei centri di preparazione alla guerri-glia urbana, in grado di tenere a bada una molteplicità mo-

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bile pronta a colpire in più punti contemporaneamente esoprattutto a prendere l’iniziativa.

Le comuni evidentemente sono vulnerabili alla sorve-glianza, alle indagini e ai controlli della polizia politica escientifica. Le ondate di arresti di anarchici in Italia e diecowarriors negli USA sono state possibili grazie a delle inter-cettazioni. Ogni arresto oggi dà luogo a un prelievo di DNA,alimentando una banca dati sempre più ricca. Uno squatterdi Barcellona è stato individuato perché aveva lasciato im-pronte sui volantini che aveva distribuito. I metodi dischedatura vengono affinati giorno dopo giorno, soprat-tutto grazie alla biometria. E la carta d’identità elettronicain preparazione verrà a complicarci ulteriormente la vita.La Comune di Parigi riuscì in parte a risolvere il problemadella schedatura: dando alle fiamme il municipio, gli incen-diari distrussero i registri dello stato civile. È nostro compi-to individuare i mezzi per distruggere in modo definitivogli archivi informatici.

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La comune è l’unità elementare della realtà partigiana. For-se, un’avanzata insurrezionale non è altro che una moltipli-cazione di comuni, il loro rapportarsi e articolarsi. A secon-da degli eventi, le comuni si fondono in entità di maggioreportata o si frammentano. C’è solo una differenza di gradotra una banda di fratelli e sorelle legati «per la vita o per lamorte» e l’unione di più gruppi, comitati o bande, per orga-nizzare l’approvvigionamento e l’autodifesa di un quartiereo di una regione in rivolta: sono tutte indistintamente dellecomuni.

Ogni comune non può che tendere all’autosufficienza econsiderare il denaro, al proprio interno, come qualcosa dirisibile e di fuori luogo. La potenza del denaro consiste nelformare un legame tra coloro che di legami sono privi, nelcollegare fra loro degli estranei in quanto estranei, quindi nelmettere tutto in circolazione rendendo ogni cosa equivalente.Il prezzo di questo legame è la sua superficialità, in cui lamenzogna è la regola. La diffidenza sta alla base della relazio-ne di credito. Perciò il regno del denaro deve essere sempre il

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regno del controllo. L’abolizione pratica del denaro può es-sere raggiunta solo con l’estensione delle comuni. Nel corsodi tale estensione ogni comune deve badare a non superareuna certa dimensione, al di là della quale perderebbe il con-tatto con se stessa e quasi immancabilmente darebbe luogo auna casta dominante. La comune farà bene a scindersi: in talmodo potrà ampliarsi evitando esiti infelici.

La sollevazione dei giovani algerini, che nella primavera2001 ha infiammato la Cabilia, è riuscita a riprendersi la quasitotalità del territorio, attaccando caserme, tribunali e ognisimbolo dello Stato, generalizzando la sommossa fino allaritirata unilaterale della forze dell’ordine e fino a impedirefisicamente che si tenessero elezioni. La forza del movimentosi è espressa nella complementarità diffusa tra molteplicicomponenti – rappresentate solo in maniera molto parzialenelle interminabili assemblee, per altro esasperatamente ma-schili, dei villaggi e di altri comitati popolari. Le «comuni»della sempre vibrante insurrezione algerina talora hanno ilvolto dei giovani «bruciati» col cappellino intenti a lanciarebombole di gas sui CNS (CRS) dal tetto di un edificio di TiziOuzou, talora il sorriso sornione di un vecchio partigianoavvolto nel suo burnus, altre volte ancora l’energia delle don-ne di un villaggio di montagna che, in barba a ogni avversi-tà, si occupano di mandare avanti le colture e l’allevamentotradizionali, necessari affinché i blocchi dell’economia re-gionale potessero essere tanto frequenti e sistematici.

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Fare di ogni crisi un incendio

«Va detto inoltre che non si potrà curare tutta la popola-zione francese. Bisognerà fare delle scelte»: così, il 7 settem-bre 2005, un esperto di virologia riassume a Le Monde ciòche accadrebbe in caso di pandemia di influenza aviaria. «Mi-nacce terroristiche», «catastrofi naturali», «allarmi virali», «mo-vimenti sociali» e «violenze urbane» sono, per i gestori dellasocietà, altrettanti momenti d’instabilità con cui consolidareil proprio potere, selezionando quel che torna comodo eannientando quanto dà fastidio. Evidentemente, tali momentioffrono al tempo stesso l’occasione per ogni altra forza diaggregarsi e rafforzarsi, prendendo il partito opposto. L’in-terruzione dei flussi di merci, la sospensione del controllopoliziesco e della normalità – si consideri il rinascere dellavita sociale in un condominio rimasto senza elettricità perimmaginare che cosa potrebbe accadere in una città privatadi tutto – liberano potenzialità di auto-organizzazioneimpensabili in altre circostanze. L’aveva ben compreso ilmovimento operaio rivoluzionario, pronto a trasformare lecrisi dell’economia borghese in occasioni di potenziamento.Oggi, i partiti islamici raggiungono il massimo di forzaladdove hanno saputo intelligentemente sopperire alla de-bolezza dello Stato; ad esempio nell’allestimento dei soc-corsi dopo il terremoto di Boumerdès in Algeria, o nell’assi-stenza quotidiana alla popolazione del Libano meridionaledistrutto dall’esercito israeliano.

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Come abbiamo visto, la devastazione di New Orleans daparte di Katrina ha fornito l’occasione a tutta una frangia delmovimento anarchico nordamericano per acquisire un’ine-dita consistenza unendosi a tutti coloro che, sul posto, resi-stevano al trasferimento forzato. Non si fanno le cucine po-polari senza aver pensato a tempo debito all’approvvigiona-mento; il pronto soccorso, così come l’installazione di radiolibere, presuppongono che siano stati acquisiti il sapere e ilmateriale necessari. La fecondità politica di simili esperienzeè garantita da ciò che esse contengono in termini di gioia, disuperamento dell’orizzonte individualistico e di tangibile in-subordinazione alla quotidianità di ordine e lavoro.

In un Paese come la Francia, in cui le nubi radioattive sifermano alla frontiera e non si teme di costruire una cance-ropoli sul vecchio sito classificato “Seveso” dell’azienda AZF,più che sulle crisi «naturali» bisogna contare sulle crisi sociali.Qui sono più spesso i movimenti sociali a interrompere ilnormale corso del disastro. Certo, negli ultimi anni i variscioperi sono stati sfruttati dal potere e dai dirigenti d’azien-da per testare la propria capacità di mantenere un «serviziominimo» sempre più ampio, fino a ridurre l’astensione dallavoro alla sua dimensione puramente simbolica – dannosapoco più di una nevicata o di un suicidio sui binari. Ma scom-pigliando le consuete pratiche militanti con l’occupazionesistematica degli stabili e con blocchi ostinati, le lotte licealidel 2005 e quelle contro il CPE hanno ricordato come i grandimovimenti possano nuocere e attaccare diffusamente. La

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serie di bande apparse sulla loro scia lascia intravedere aquali condizioni i movimenti possano diventare luogod’emergenza di nuove comuni.

Sabotare ogni istanza di rappresentanza.

Generalizzare le discussioni informali.

Abolire le assemblee generali

Ben prima della polizia propriamente detta, il primo osta-colo con cui ogni movimento sociale deve fare i conti, ècostituito dalle forze sindacali e da tutta quella micro-buro-crazia la cui vocazione è di inquadrare le lotte. Le comuni, igruppi di base, le bande ne diffidano spontaneamente. Per-ciò da più di vent’anni i paraburocrati hanno provveduto ainventare i coordinamenti, i quali, non avendo etichette,appaiono più innocenti, restando nondimeno terreno idea-le per le loro manovre. Appena un collettivo traviato osacimentarsi nell’autonomia, costoro si mettono subito all’ope-ra per svuotarlo di ogni contenuto, cominciando col toglie-re di mezzo le domande buone. Si accalorano e si accani-scono, non già perché si appassionano al dibattito, ma per-ché mirano a scongiurarlo. E quando la loro alacre difesadell’apatia ha la meglio sul collettivo, sono pronti a spiegar-ne il fallimento con la mancanza di coscienza politica. Biso-gna riconoscere che ai giovani militanti in Francia, soprat-tutto grazie all’attività forsennata delle varie parrocchietrotzkiste, non fa certo difetto l’arte della manipolazione

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politica. Costoro non avranno saputo trarre dall’incendiodel novembre 2005 la seguente lezione: ogni coordinamen-to è superfluo laddove c’è del coordinamento; le organizza-zioni sono sempre di troppo laddove ci si organizza.

Un altro riflesso, al minimo movimento, consiste nel fareun’assemblea generale e votare. È un errore. Già la posta ingioco del voto e della decisione da conseguire basta a tra-sformare l’assemblea in un incubo e nel teatro in cui si scon-trano tutte le pretese al potere. In tale situazione si subiscepassivamente il cattivo esempio dei parlamenti borghesi.L’assemblea non è fatta per la decisione, ma per la liberaparola esercitata nella discussione senza scopo.

Tra gli umani è costante il bisogno di assembrarsi, rara lanecessità di decidere. Se riunirsi significa provare la gioia diuna potenza comune, decidere risulta vitale solo nelle situa-zioni d’urgenza in cui l’esercizio della democrazia è in ognimodo compromesso. Per il resto del tempo, solo i fanaticidella procedura si pongono il problema del «carattere de-mocratico del processo decisionale». Non si tratta di criticareo disertare le assemblee, ma di liberarvi la parola, i gesti e igiochi tra gli esseri. Basti considerare come ciascuno vi sirechi non solo con un punto di vista o una mozione, macon desideri, attaccamenti, capacità, forze, tristezze e unacerta disponibilità. Esorcizzare il fantasma dell’AssembleaGenerale in favore di un’assemblea delle presenze, eludere lasempre rinascente tentazione dell’egemonia, smetterla diporre la decisione come finalità, tutto ciò dischiude qualche

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possibilità per una sorta di solidificazione, uno di quei feno-meni di cristallizzazione collettiva in cui una decisione prendegli esseri, nella loro totalità o almeno in parte.

Lo stesso vale per le decisioni pratiche. Partire dal prin-cipio «l’azione deve ordinare lo svolgimento dell’assemblea»significa rendere impossibile tanto il fermento del dibattitoquanto l’efficacia dell’azione. Un’assemblea affollata da per-sone estranee tra loro è condannata a produrre degli specia-listi dell’azione e a trascurare quest’ultima in nome del suocontrollo. Da un lato, i delegati sono per definizione impe-diti nella loro azione; dall’altro, nulla impedisce loro di farsibeffe di tutti.

Non si tratta di dare una forma ideale all’azione. L’es-senziale è che sia l’azione stessa a darsi una forma, suscitan-dola invece di subirla. Ciò presuppone la condivisione nonsolo di una medesima posizione politica e geografica – comele sezioni della Comune di Parigi durante la Rivoluzione fran-cese –, ma anche di uno stesso sapere capace di circolare.Quanto a decidere delle azioni, il principio potrebbe essereil seguente: che ognuno vada in ricognizione, che si verifi-chino le informazioni e la decisione verrà da sé. Non sare-mo noi a prenderla, sarà piuttosto lei a prenderci. La circo-lazione del sapere annulla la gerarchia, rendendo uguali dal-l’alto. In quanto comunicazione orizzontale e proliferante,costituisce anche la miglior forma per coordinare le diversecomuni e farla finita con l’egemonia.

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Bloccare l’economia, ma misurare la nostra potenza di blocco

sul nostro livello di auto-organizzazione

Fine giugno 2006, in tutto lo Stato di Oaxaca si moltipli-cano le occupazioni di municipi; gli insorti occupano edificipubblici. In centinaia di località si cacciano i sindaci e sisequestrano le automobili delle autorità. Un mese più tardi,vengono bloccati gli accessi ad alcuni hotel e complessi tu-ristici. Il Ministro del turismo parla di una catastrofe «para-gonabile all’uragano Wilma». Alcuni anni prima, il bloccoera diventato una delle principali forme di azione del movi-mento di rivolta argentino: i diversi gruppi locali si aiutava-no vicendevolmente bloccando le varie arterie, minaccian-do costantemente, con la loro azione congiunta, di paraliz-zare tutto il Paese se le loro rivendicazioni non fossero statesoddisfatte. Una simile minaccia fu a lungo una leva poten-te in mano ai ferrovieri, ai lavoratori delle centrali elettriche,agli autotrasportatori. Il movimento contro il CPE non haesitato a bloccare stazioni, circonvallazioni, fabbriche, auto-strade, supermercati e anche aeroporti. A Rennes bastava-no trecento persone per provocare quaranta chilometri d’in-gorgo in tangenziale.

Bloccare tutto: è questo il primo riflesso di tutto ciò chesi erge contro l’ordine presente. In un’economia delocaliz-zata, in cui le aziende funzionano «just in time», in cui ilvalore deriva dalla connessione alla rete, in cui le autostradesono anelli della catena produttiva dematerializzata che di

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subappalto in subappalto arriva fino alla fabbrica di mon-taggio, bloccare la produzione significa anche bloccare lacircolazione.

Ma si può bloccare solo fintanto che lo permetta la ca-pacità di rifornimento e comunicazione degli insorti, ov-vero l’auto-organizzazione effettiva delle diverse comuni.Come nutrirsi una volta che tutto è stato paralizzato? Sac-cheggiare i negozi, come avvenuto in Argentina, ha i suoilimiti: per quanto immensi siano i templi del consumo, nonoffrono dispense infinite. Acquisire nella durata la capaci-tà di garantirsi la sussistenza implica quindi l’appropriazionedei mezzi per produrre il necessario. Su questo punto èinutile stare ad aspettare. Lasciare, come oggi, al due percento della popolazione il compito di produrre l’alimenta-zione per tutti gli altri è una stupidaggine sia storica chestrategica.

Liberare il territorio dall’occupazione poliziesca.

Evitare il più possibile lo scontro diretto

«Questa vicenda mette in luce che non abbiamo a chefare con giovani che reclamano migliori condizioni sociali,ma con individui che dichiarano guerra alla Repubblica»,notava non senza lucidità uno sbirro a proposito di alcuneimboscate recenti. L’offensiva volta a liberare il territoriodalla sua occupazione poliziesca è già iniziata e può contaresulle inesauribili riserve di risentimento che queste forze

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hanno suscitato contro di sé. Da parte loro, anche i «movi-menti sociali» sono stati a poco a poco conquistati dallasommossa, non meno dei debosciati che a Rennes nel 2005hanno affrontato i CRS tutti i giovedì sera o a Barcellona,durante un botellion, hanno devastato un’arteria commer-ciale della città. Il movimento contro il CPE ha assistito alritorno regolare delle Molotov. Ma da questo punto di vi-sta, alcune banlieue restano insuperate. Soprattutto in unatecnica che già da molto tempo si ripete: l’imboscata. Comeil 13 ottobre 2006 a Épinay: intorno alle 23, in seguito allasegnalazione di un furto di roulotte, alcune squadre dellaBAC vanno in pattugliamento; al loro arrivo, una «si trovabloccata da due automobili disposte di traverso sulla stra-da e da più di una trentina di individui, armati con spran-ghe di ferro e pistole, che gettano pietre sull’auto e utiliz-zano gas lacrimogeni contro i poliziotti». Su scala minore,si pensi ai diversi commissariati di quartiere attaccati du-rante le ore di chiusura: vetri infranti e automobili incen-diate.

Acquisizione recente dei movimenti è che, d’ora in poi,una vera manifestazione deve essere «selvaggia», non con-cordata con la questura. Avendo la scelta del terreno, si avràcura, come il Black Bloc a Genova nel 2001, di eludere lezone rosse, evitare lo scontro diretto e, decidendo il per-corso, precedere gli sbirri invece di essere preceduti dallapolizia, soprattutto da quella sindacale e pacifista. In quel-l’occasione, abbiamo visto le camionette dei carabinieri re-

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trocedere davanti a un migliaio di persone determinate,per poi essere date alle fiamme. Non si tratta tanto di esse-re meglio armati, quanto di avere l’iniziativa. Il coraggio èniente, la fiducia nel proprio coraggio è tutto. Avere l’ini-ziativa vi contribuisce.

Tutto incita a considerare gli scontri diretti come puntidi fissazione tra forze avverse, utili per temporeggiare e at-taccare altrove – anche lì vicino. Non si può evitare che unoscontro abbia luogo, ma ciò non impedisce di farne un sem-plice diversivo. Bisogna concentrarsi non tanto sulle azioni,quanto sul loro coordinamento. Tormentare la polizia si-gnifica essere ovunque e, in tal modo, far sì che essa nonrisulti efficace da nessuna parte.

Ogni atto di accanimento riporta in auge questa verità,enunciata nel 1842: «La vita dell’agente di polizia è peno-sa; la sua posizione nella società è tanto umiliante e di-sprezzata quanto il crimine stesso […] La vergogna e l’in-famia lo circondano da tutte la parti, la società lo cacciadal suo seno, lo isola come un paria, gli sputa il suo di-sprezzo con la sua paga, senza rimorsi, senza rimpianti,senza pietà […] il tesserino di polizia che porta in tasca èun brevetto d’ignominia». Il 21 novembre 2006, i pompie-ri che manifestavano a Parigi hanno attaccato i CRS a colpidi martello, ferendone quindici. Giusto per ricordarci che«avere la vocazione ad aiutare» non sarà mai un buon pre-testo per entrare in polizia.

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Essere in armi. Fare di tutto per renderne superfluo l’utilizzo.

Di fronte all’esercito, la vittoria è politica

Non esistono insurrezioni pacifiche. Le armi sono ne-cessarie: l’importante è fare in modo di renderne l’utilizzosuperfluo. Un’insurrezione non è tanto il passaggio allalotta armata, quanto una presa d’armi, una «permanenzaarmata». Si ha tutto l’interesse a distinguere l’armarsi dal-l’uso delle armi. Le armi sono una costante rivoluzionaria,benché il loro utilizzo sia poco frequente, o poco decisi-vo, nei momenti di grande rivolgimento: 10 agosto 1792,18 marzo 1871, ottobre 1917. Quando il potere è al tappeto,basta calpestarlo.

Nella distanza che ci separa da esse, la armi hanno finitoper assumere un duplice carattere di fascinazione e disgu-sto, che può essere superato solo maneggiandole. Un au-tentico pacifismo non può essere rifiuto delle armi, ma solodel loro uso. Essere pacifisti senza poter fare fuoco è solo lateorizzazione di un’impotenza. Questo pacifismo a priori

corrisponde a una specie di disarmo preventivo, è un’opera-zione poliziesca. In verità, la questione pacifista si pone se-riamente solo per chi può fare fuoco. E in questo caso, ilpacifismo sarà al contrario un segno di potenza, poiché soloda un’estrema posizione di forza si è esentati dalla necessitàdi fare fuoco.

Da un punto di vista strategico, l’azione indiretta, asim-metrica, sembra quella che paga di più, la più adatta all’epoca:

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non si attacca frontalmente un esercito di occupazione. Tut-tavia, la prospettiva di una guerriglia urbana in stile iracheno,che ristagna senza possibilità d’offensiva, è più da temereche da desiderare. La militarizzazione della guerra civile è ilfallimento dell’insurrezione. I Rossi avranno pure trionfatonel 1921, ma la Rivoluzione russa era già sconfitta.

Bisogna considerare due forme di reazione statale: l’osti-lità aperta o la reazione democratica, più subdola. Mentrela prima ricorre alla distruzione senza tanti complimenti,la seconda utilizza un’ostilità sottile, ma implacabile: aspettasolo di arruolarci. Si può essere sconfitti dalla dittatura,ma anche dal fatto di essere ridotti a opporsi solo alla ditta-tura. Non si viene sconfitti solo perdendo una guerra, maanche perdendo la scelta della guerra da condurre. O en-trambe, come dimostra la Spagna del 1936, quando i rivo-luzionari furono doppiamente sconfitti: dal fascismo e dallarepubblica.

Quando le cose si fanno serie, l’esercito occupa il cam-po. La sua entrata in azione sembra meno semplice. Ci vor-rebbe uno Stato deciso a fare una carneficina, il che oggivale solo come minaccia, un po’ come per l’uso dell’armanucleare nell’ultimo mezzo secolo. Ciò non toglie che, feritada molto, la bestia statale è pericolosa. Ciò non toglie che difronte all’esercito ci vuole una folla numerosa che invada iranghi e fraternizzi. Ci vuole il 18 marzo 1871. L’esercitonelle strade è segno di una situazione insurrezionale. L’eser-cito entrato in azione, è il precipitare della situazione. Ognuno

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L’insurrezione che viene

si trova costretto a prendere posizione, a scegliere tra l’anar-chia e la paura dell’anarchia. È come forza politica che un’in-surrezione trionfa. Politicamente, non è impossibile averragione di un esercito.

Deporre localmente le autorità

La questione, per un’insurrezione, è divenire irreversibile.L’irreversibilità si raggiunge sconfiggendo non solo le auto-rità ma anche il bisogno di autorità, non solo la proprietàma anche il gusto per l’appropriazione, non solo ogni ege-monia ma anche il desiderio d’egemonia. Perciò il processoinsurrezionale contiene in se stesso la forma della sua vittoriao quella del suo fallimento. In fatto d’irreversibilità, la distru-zione non è mai stata sufficiente. Tutto sta nei modi. Cisono maniere di distruggere che provocano immancabil-mente il ritorno di ciò che è stato annientato. Accanirsi sulcadavere di un ordine significa assicurarsi la sua vocazionealla vendetta. Similmente, ovunque l’economia fosse bloc-cata e la polizia neutralizzata, conviene mettere il minor pa-thos possibile nel rovesciare le autorità. Sono da destituirecon scrupolosa disinvoltura e derisione.

Alla decentralizzazione del potere corrisponde, in que-st’epoca, la fine delle centralità rivoluzionarie. Ci sono an-cora dei Palazzi d’Inverno, ma destinati più all’assalto deituristi che a quello degli insorti. Ai nostri giorni si può pren-

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dere Parigi, Roma o Buenos Aires, senza avere la meglio. Lapresa di Rungis avrebbe certamente più effetti di quelladell’Eliseo. Il potere non si concentra più in un punto delmondo, è questo stesso mondo, i suoi flussi e i suoi viali, isuoi uomini e le sue norme, i suoi codici e le sue tecnologie.Il potere è l’organizzazione stessa della metropoli. È la tota-lità ineccepibile del mondo mercantile in ciascuno dei suoipunti. Perciò chi lo sconfigge localmente produce attraver-so delle reti un’onda di choc planetario. Gli assalitori diClichy-sous-Bois hanno rallegrato più di una casa in Ameri-ca, mentre gli insorti di Oaxaca hanno trovato complici nelpieno cuore di Parigi. Per la Francia, la perdita della centralitàdel potere significa la fine della centralità rivoluzionaria pa-rigina. Ne dà conferma ogni nuovo movimento almeno da-gli scioperi del 1995. Non è più lì che sorgono i percorsi dimaggiore audacia e consistenza. Per finire, Parigi si distingueancora come semplice bersaglio di razzia, come puro terrenodi saccheggio e devastazione. Brevi e brutali incursioni ve-nute da altrove che attaccano il punto di massima densitàdei flussi metropolitani. Scie di rabbia che solcano il desertodi questa abbondanza fittizia, per poi svanire. Verrà un gior-no in cui la capitale – orribile concrezione del potere – saràridotta in rovine, ma solo al termine di un processo già moltopiù avanzato altrove.

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Tutto il potere alle comuni!

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In metrò non c’è più traccia dello schermo di imbarazzo

in cui di solito inciampano i gesti dei passeggeri. Tra estranei

si parla, invece di urtarsi. All’angolo della via una banda è

intenta a confabulare. Lungo i boulevard si formano

capannelli in cui ferve la discussione. Gli assalti si fanno eco

da una città all’altra, da un giorno all’altro. L’ennesima

caserma è stata saccheggiata e data alle fiamme. Gli abitanti

di un immobile sgomberato hanno smesso di trattare con il

comune: hanno deciso di occuparlo. In un accesso di inopinata

lucidità, un manager ha freddato in piena riunione una man-

ciata di colleghi. I file con gli indirizzi privati di poliziotti,

gendarmi e secondini sono stati trafugati e subito resi pubbli-

ci, provocando un’ondata senza precedenti di traslochi preci-

pitosi. Nel vecchio bar-drogheria del paese si portano i pro-

dotti in surplus e ci si procura quel che serve. Sempre lì, ci si

riunisce anche per discutere della situazione generale e del

materiale necessario per l’officina. La radio tiene aggiornati

gli insorti sull’arretramento delle forze governative. Un raz-

zo ha appena sventrato il muro di cinta del carcere di Clair-

vaux. Impossibile dire se siano passati mesi o anni dal mo-

mento in cui hanno avuto inizio gli «eventi». Il primo mini-

stro ha ormai un’aria sola, con i suoi appelli alla calma.

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SOMMARIO

Da ogni punto di vista... ............Primo cerchio .........................Secondo cerchio .....................Terzo cerchio ..........................Quarto cerchio .......................Quinto cerchio .......................Sesto cerchio ...........................Settimo cerchio ......................IN CAMMINO! ....................TROVARSI .............................ORGANIZZARSI ................INSURREZIONE ................

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L’insurrezione che viene

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Finito di stampare nel giugno del 2010

Tipografia La Racaille, Clichy-sous-Bois, Paris