L’inizio di tutte le cose - Corriere della Sera

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© 2015 Indiana Editore srl via Argelati 33 20143 Milano Published by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria ISBN 978-88-97404-43-9 www.indianaeditore.com L’inizio di tutte le cose Alle mie amiche

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© 2015 Indiana Editore srlvia Argelati 3320143 Milano

Published by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria

ISBN 978-88-97404-43-9

www.indianaeditore.com

L’inizio di tutte le cose

Alle mie amiche

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Nella maternità la donna abbandona il proprio

corpo al bambino. E i bambini le stanno sopra

come su una collina, come in un giardino, la

mangiano, la picchiano, ci dormono sopra

e lei si lascia divorare e qualche volta dorme

mentre loro le stanno addosso.

marguerite duras, La vita materiale

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Il corso preparto

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Non mi andava di passare per una di quelle che durante la gra-vidanza iniziano a portare le scarpe basse e tengono sempre la coda. Così al primo giorno di corso mi sono messa gli stivali coi tacchi, una gonna a cerchio fino al ginocchio e il dolcevita aderente. Ho tenuto i capelli sciolti, li ho pettinati e mi sono data il mascara, cosa che tra l’altro da non incinta non faccio praticamente mai. Mio marito, come tutti i giorni da quando aspettavo il bambino, mi ha detto sei bellissima e quando ab-biamo preso la macchina fuori pioveva. Una volta arrivati al nu-mero civico 23 di quella via in super centro che quasi si passa-va sopra al Duomo per arrivarci, siamo saliti al terzo piano e io ho subito notato i colori accoglienti e i biscotti sul tavolo. Bi-scotti svedesi, di quelli che sanno di zenzero e cannella e pensi subito al Natale. E subito dopo io ho pensato anche non è per niente triste il Natale, perché se ne parla tanto male? Mio ma-rito ne ha presi due e ci siamo sporti per vedere la stanza dove si teneva il corso. Erano sedute una decina di donne e neanche un uomo. Mio marito è scoppiato a ridere.

«Scusami, avevano chiesto di portare i mariti» ho detto con voce supplichevole.

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«Non importa» ha risposto lui.«Vuoi andare via?»«Ah no. Adesso rimango.»«No, dai vai. Muoio dall’imbarazzo.»Abbiamo riso ancora e siamo entrati. Io ho detto ciao e an-

che lui ha detto ciao. Le panciute hanno aggiunto te lo invi-diamo e io ho stretto la sua mano. Avevano ragione. Mio ma-rito era l’unico che era venuto e stava anche ridendo. E non era venuto perché era scemo o preoccupato, era venuto perché era simpatico e perché in quelle settimane faceva tutto quello che chiedevo. Gli avevo per esempio chiesto di ridipingere una libreria e lui l’aveva subito fatto e da quando gli avevo detto che la sera volevo mangiare proteine lui si era sempre occupa-to di comperare la carne e il pesce. Mi accompagnava a tutte le visite e mi massaggiava la schiena quando ero stanca. Insom-ma, era un momento bello per noi due e forse era soprattut-to merito suo. Certo io gli dicevo sempre che stavo costruen-do delle mani e dei piedi ma a volte era chiaro che quello che faceva più fatica e si accollava più doveri era lui.

Durante la prima lezione ci hanno spiegato gli ospedali e ci hanno consigliato di andare più o meno in tutti tranne che alla Mangiagalli, che ci sono sei o settemila parti all’anno e certo sono bravi ma la cura e la poesia diciamo che un po’ se la di-menticano e poi hanno sempre fretta e i box parto sono tristi e dal travaglio in camera devi scendere nei sotterranei per ti-rare fuori il bambino e insomma è un po’ un peccato. «Quin-

di se la gravidanza è fisiologica, se tutto va bene e se voi state bene, la Mangiagalli no, ragazze.»

Abbiamo parlato di cosa ci aspettava al corso e mentre co-minciavamo a leggere la brochure con il nome di ogni lezione è arrivato un altro uomo di circa trent’anni, vestito elegante, tipo avvocato e con il casco in mano. Si è sporto, ha guardato tutte noi e si è reso conto che la sua donna incinta non c’era. Abbiamo riso intuendo il suo imbarazzo, mentre lui abboz-zava e si attaccava al cellulare. «Ma dove sei?» ha sussurrato e poi si è allontanato.

«Non sei più solo» ho detto a mio marito.«Questo mi batte. È venuto addirittura senza avere una

donna incinta.»Abbiamo riso ancora e continuato ad ascoltare le questioni

relative alle scelte del parto, a come si possa essere attivi o pas-sivi e che non si sbaglia comunque mai, non c’è da giudicare. Poi è arrivata la fidanzata dell’avvocato e tutti e due si sono seduti. Lei ha detto ciao e noi l’abbiamo salutata. Era giovane e pallida. Forse non le erano ancora passate le nausee o forse era un po’ di anemia. Erano carini insieme e lui, come del re-sto mio marito faceva con me, si occupava di accarezzarla di continuo e si poteva leggergli negli occhi che sapeva che sua moglie stava facendo una grande fatica e che insomma vedersi cambiare così non è facile, che ne sarà della mia vita, ci amere-mo ancora, ci ameremo nella stessa maniera, io ci sarò sempre per te. Io mi sono commossa, ho baciato mio marito e quan-do la lezione è finita ero di ottimo umore e sulle scale ho con-

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tinuato a dargli i pizzicotti e anche i baci e una volta in mac-china ci siamo abbracciati e gli ho detto ti amo.

Per qualche lezione ci siamo incontrate solo fra donne. Faceva-mo un’ora di ginnastica e un’ora di corso teorico. Le cose che ci dicevano e che dicevamo noi erano banali, niente di stra-ordinario né di nuovo. Le smagliature. Il dolore. La pipì così spesso. La ginnastica del pavimento pelvico e quelle questioni lì. Non si scopriva mai niente insomma ma il fatto di essere in gruppo ci tranquillizzava e rendeva più normale questa condi-zione che sembrava, nelle nostre case e magari insonni la not-te, spaventosa e fragile. Ci ricordavamo che era una cosa che si era sempre fatta, la facevano tutte anzi e non era un’emergen-za o nulla di cui avere troppa paura o per cui fare chissà quali storie. Sarebbe successo, sarebbe passato e avrebbe portato tut-to quello che doveva portare. Io cercavo di chiacchierare tanto, di essere gentile ed ero diventata abbastanza amica della fidan-zata dell’avvocato che era la più giovane e forse la più simpati-ca. Aveva le idee confuse su dove avrebbe partorito e come me non era capace a contare le settimane e i mesi della gravidanza.

«Che ci sarà di così difficile non so» mi sussurrava «ma an-cora non riesco a decidere niente.»

«Io non so nemmeno con quale dei miei due ginecologi partorire!»

«Anche tu ne hai due? Io non l’avevo confessato a nessuno.»Alla decima lezione abbiamo di nuovo invitato gli uomini

e mio marito in macchina non la smetteva più con le battute.

Rideva delle ostetriche svedesi, sognava i biscotti da sboccon-cellare durante le simulazioni e diceva di sperare di essere di nuovo l’unico maschio. Io invece speravo che ci fossero anche tutti gli altri uomini perché ero curiosa di vedere i compagni di quelle donne che avevo imparato a conoscere e di cui sape-vo dettagli piuttosto intimi come la loro storia ginecologica o i problemi tipo vene varicose e pressione bassa, alta, mutevo-le. Per gli uomini mi ero quindi vestita ancora una volta me-glio del solito, fingendo che fosse un avvenimento mondano e non la solita solfa del corso preparto e avevo messo la gonna e una maglietta carina. Niente a che vedere con quando erava-mo solo fra noi femmine e ci toccava la tuta per muovere avan-ti e indietro il bacino e basculare con le gambe per non esse-re rigide la notte del travaglio. Avrei davvero voluto evitare di parlare di parto e dolore almeno per una sera e magari bere il vino invece dell’acqua e fumare sigarette al posto di respirare con il basso ventre. Ma a quanto pareva era impossibile. Era-vamo tutti impegnati a fare soltanto questo e intanto chissà dov’era finito il resto di noi che doveva per forza essere esisti-to prima della fecondazione e delle tette grosse. Io per esem-pio a che cosa pensavo prima? E di cosa avevo paura prima?

I maschi mi sono subito sembrati brutti. Più grassi, più vecchi e meno languidi delle loro donne. Uno aveva anche l’aria sporca e sua moglie aveva invece le trecce lucide e le gote rosa e credo l’avessi anche eletta a più carina del gruppo. Sembrava una fa-tina. Certo a rivederla in coppia c’era da farsi qualche doman-

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da. Forse lui è molto ricco, ho pensato. O forse lei è quel gene-re di fatina che si eccita a essere toccata dagli orchi. Gli unici belli erano mio marito e l’avvocato, con il suo casco e la cravat-ta sottile. Avevano anche qualcosa di simile, la barba non pro-prio rasata, una certa magrezza e quell’aria da cattivi della classe.

Quando abbiamo provato le posizioni del travaglio i mariti ci supportavano in delle posizioni da lottatori di sumo. Siamo quindi passati alle posizioni dei massaggi per rilassare, drenare e aiutare durante il dolore. Abbiamo anche respirato con loro che ci tenevano da dietro e io con la mia gonna non riuscivo a concentrarmi per niente e riuscivo solo a pensare che forse mi si vedevano le mutande. Intanto guardavo diritta davan-ti a me, l’avvocato che stringeva la sua donna e sorrideva. Si-mulavano tutti e due un movimento che li aiutasse a superare la dilatazione che anche virtualmente non arrivava e per finta annaspavano, sibilavano e mugugnavano. Lei aveva le guance rubizze e lui le strizzava le mani, la conteneva tra le sue cosce. Mio marito ogni tanto mi baciava e io ridevo e dicevo con-centrati cavoli, non essere l’ultimo della classe!

Non eravamo mai stati così vicini e la cosa mi turbava. Mi stavo abituando all’amore incondizionato e continuo, ai suoi occhi sulla mia pancia così tesa e sulle mie tette e non sape-vo se avrei più potuto farne a meno. Avrebbe amato anche la mia pancia molle? Le tette sgonfie? Gli ho stretto la coscia e ho cominciato a sibilare ah ah. Ah! Ah! E mi contorcevo come se stessi proprio male.

«Sei la più brava a soffrire.»

«Lo so, amore.»«Mi sta venendo duro.» «Lo so.»Alla fine della lezione siamo andati a mangiare al cinese e io

mi sono sporcata con la soia del pesce. Abbiamo bevuto bir-ra ghiacciata e fatto finta di litigare per i nomi. I miei erano troppo strani. I suoi erano orribili. Abbiamo mangiato il gela-to fritto e bevuto il tè e anche un alcolico amarissimo. Siamo tornati a casa stanchi come avessimo camminato ore. Ci sia-mo lavati i denti e subito addormentati. Io avevo poi sogna-to una serie di pertugi e strettoie dove passare era impossibile e poi l’avvocato e sua moglie, grande come una mongolfiera. Nella realtà era invece rimasta piuttosto magra e anzi la invi-diavo perché aveva detto ho preso già cinque chili e io invece ne avevo presi otto. Al mattino ho svegliato mio marito con il caffè, lui mi ha chiesto se fuori nevicava e io ho risposto te lo faccio spessissimo il caffè, scemo. Lui ha detto non è vero e io ho detto sai cosa? non te lo faccio mai più e basta.

Il corso mi teneva lontana dall’ansia e mi dava una visione uni-versale delle cose che stavano succedendo. Approfondire mi sollevava dai pensieri e dalle paure che avevo di notte e anche se mi chiedevo se quel movimento del bacino e quella posizio-ne indiana della ghirlanda servissero davvero, ero sicura che andarci mi faceva comunque bene. Ingrassavo insieme alle al-tre, mi affaticavo come le altre e perdevo lucidità come loro. Mi si gonfiavano i piedi e in me non c’era niente di speciale.

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Mi sanguinavano le gengive e non c’era niente di speciale. Mi faceva male l’osso sacro e non c’era niente di speciale. Quasi speravo di partorire assieme a tutte le altre così che in qualche maniera le mie urla si sarebbero perse e la mia storia confusa alle loro. L’avevo anche detto alla moglie dell’avvocato men-tre ci strizzavamo nelle nostre magliette.

«Mi sa che hai ragione» ha risposto lei.«Senti, usciamo a berci qualcosa insieme? Avremo bisogno

di amici nei casini come noi, una volta che li avremo tirati fuori, no?» le ho detto.

«Facciamo dopo la prossima lezione?»La settimana era passata veloce e io ci avevo dato dentro con

il lavoro. Avevo anche finito con i ritocchi nella cameretta e preparato il fasciatoio, i pannolini e tutto quello che al cor-so avevano detto di comprare e organizzare io l’avevo com-prato e organizzato. «Una volta tornate non avrete la forza di farlo» ci avevano assicurato «quindi fatelo ora. Fate ora tutto quello che potete, se volete preparate anche delle belle scor-te di cibo in freezer.»

Scorte di cibo? In freezer? La cosa mi aveva spaventato più dell’idea del parto. Era come prepararsi a una guerra. Sarem-mo stati rinchiusi e sfiniti e così stanchi da non riuscire ne-anche a mettere sul fuoco una pasta? In ogni caso avevo cer-cato di essere pratica e non troppo emotiva, così avevo messo le suocere al lavoro e a ognuna avevo commissionato tre cene. Dopo sei giorni avremmo dovuto farcela per conto nostro.

Mio marito aveva fatto un po’ di storie per via della birra da bere al bar con i nuovi amici incinti. Io allora avevo provato con il muso e le moine che avevano subito funzionato. Alla fine era venuto a prendermi all’uscita e quando io e la mo-glie dell’avvocato siamo scese ha sorriso. Lei gli ha stretto la mano e gli detto che si chiamava Tamara. Lui ha risposto Car-lo. Dopo due minuti è arrivato l’avvocato e Tamara ha detto e lui è Simone.

«È un avvocato» ho detto io. «Non è vero» ha riso lui «insegno economia politica all’u-

niversità.»Simone ha legato la moto, ci ha salutate con un bacio e

quando si è avvicinato mi è sembrato imbarazzato. Non sa-peva il mio nome. Ho riso e detto sono Cecilia e lui ha detto Simone. Abbiamo camminato ognuna vicino al proprio ma-rito e li abbiamo fatti ridere raccontando la lezione sull’allat-tamento e gli esercizi per aprire la gola e quindi l’utero. Mio marito ha detto andiamo all’enoteca? e io ho pensato che uno dei motivi per cui lo amavo era che quasi tutti gli altri uomi-ni del mondo non sanno mai dove portarti e fanno scegliere a te. Lui invece aveva sempre voglia di vedere un sacco di po-sti, cercava i ristoranti e mi portava a visitare i quartieri della mia città che se anche ci abitavo da tutta la vita alcuni anco-ra non li avevo mai visti.

Abbiamo ordinato tartine, i quadretti di polenta al forno con il formaggio e il vino rosso. L’enoteca aveva le luci perfette e l’at-

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mosfera è stata subito rilassata. Simone e Carlo si sono messi anche a ridere come pazzi per certe battute di un vicino di ta-volo sull’arte contemporanea e io e Tamara sorridevamo felici.

«È stata una buona idea uscire» ho sussurrato. «Pensavo che da qui in poi si sarebbe solo trattato di imparare i program-mi di Sky a memoria.»

Lei ha detto «Mi sa che io li so già» e mi ha versato altro vino. Ho notato che aveva le mani sgonfie anche se ormai era-vamo alla fine dei mesi e l’ho presa come una rivelazione sul-la sua delicatezza. Mi piaceva proprio Tamara.

«Con tutto questo vino non mi sento più le gambe» ha aggiunto.

«Potrebbe essere una buona cosa per il parto, no?»Tamara ha annuito, si è girata verso Simone e lo ha baciato

di un bacio vero, come fossero soli. Io ho abbassato lo sguar-do anche se avrei voluto fissarli. Gli estrogeni e il progestero-ne mi avevano già fatto immaginare almeno dieci situazioni porno. Li avevo immaginati nudi e cattivi, violenti, poi lascivi e liquidi. Simone ha detto amore, datti un contegno e ha riso. Mi sentivo in colpa perché sapevo che altre donne durante la gravidanza facevano molto l’amore. Io invece il più delle vol-te non avevo nessuna voglia di essere toccata. Avevo le tette immense e mi facevano male. Mi sembrava di avere le gambe di un elefante e ogni volta che mi dovevo muovere ansimavo e mugugnavo di fatica. Quella sera però ero eccitata e mi sen-tivo carina, forse era il vino, forse vedere loro due che erano belli e complici, forse Carlo che mi guardava e che aveva scelto

un posto perfetto e diceva a Simone «Anche per te è irresisti-bile tua moglie in questo periodo? Non l’ho mai vista così bel-la. Anzi non ho mai visto niente di così bello in tutta la vita».

«È bellissima, sì» ha risposto Simone.«Anche se sembro una palla» ha riso Tamara «anzi, nei gior-

ni in cui mi sento più palla lui mi ripete ancora di più sei bel-lissima, sei bellissima, sei bellissima.»

«Secondo me c’entra Darwin» ho detto io «non siamo bel-lissime ma qualcosa che c’entra con la sopravvivenza della spe-cie vi fa credere che lo siamo.»

«Eh no» ha detto Simone «perché allora dovrei trovare bel-lissima solo Tamara e invece lo penso anche di te.»

«Urca, anche io di Tamara allora» si è affrettato ad aggiun-gere Carlo.

«Be’, meglio così» ha detto Tamara «si vede che allora c’en-trano in generale gli ormoni di tutte quelle incinta che vi si in-filano nel naso e dalle altre parti.»

Ho pensato che stavamo tutti correndo e tutti stavamo esa-gerando perché ci mancava il tempo. E forse volevamo anche sperare che le cose non stessero cambiando troppo. Avremmo ancora flirtato. Saremmo ancora stati donne e uomini e non solo mamme e papà. Avremmo scopato, avremmo goduto, ci saremmo traditi e avremmo sperato nei baci e nelle mani di moltissime persone. Noi femmine avremmo riavuto la pan-cia piatta, le tette non si sarebbero rovinate troppo e qualcu-no avrebbe ancora voluto succhiarle e leccarle senza pensare queste sono tette vecchie, tette usate. Queste sono tette di una

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mamma. Forse eravamo così per farci coraggio e per ricordarci che il sesso era stato un gran divertimento e non c’entrava sol-tanto con quelle parole che invece ascoltavamo e pronuncia-vamo da mesi, tipo utero, ovaie, fecondare, sperma e che ave-vano preso il posto dei soliti fica, cazzo, eccetera.

Le cose avevano cambiato nome e funzione, funzione e quin-di nome ma noi eravamo ancora affezionati ai significati e alle funzioni che tanto ci avevano intrattenuto, legato e motivato prima. Prima di tutto questo e di quello che ancora ci aspet-tava. E sapevamo bene che ci aspettava il peggio e con peg-gio non pensavo solo ai punti dell’episiotomia o al prolasso vaginale, alla prolattina che inibiva la libido e all’aumento di peso che spaccava la pelle, pensavo anche allo scarso erotismo di certe notti passate in piedi a addormentare qualcuno, alle stanze disordinate con gli oggetti di plastica da quattro soldi a forma di papera, al contatto quotidiano con la cacca di qual-cuno e tutti i suoi bisogni da soddisfare. Erano bisogni poco interessanti, poco creativi e così semplici. Avrei avuto spesso i capelli sporchi e fra noi ci saremmo rinfacciati le ore passate in piedi. Mi sarei sentita pronunciare rivendicazioni già ascol-tate e già dette da altre, mille altre volte e a lui sarebbe venu-ta la claustrofobia, si sarebbe sentito incapace e inutile per-ché io lo avrei fatto sentire incapace e inutile e gli avrei detto «Se poi devo chiedere per ogni cosa, allora faccio meno fati-ca a farmelo da me. Possibile che io faccia tutto senza che tu me lo chieda e invece a te va richiesta ogni singola prestazio-ne? Possibile che cazzo non alzi mai il culo per pulire di tua

spontanea volontà? Perché cazzo hai rotto le palle per secoli per fare questo bambino, eh? Sei il solito maschilista. Sei una delusione. Ti odio. Vattene fuori da questa casa dalla mia vita dalla nostra vita».

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Per fortuna Tamara mi ha riportato a noi mentre si è passata il lucido sulla bocca e mi ha fatto l’occhiolino. Ha ordinato an-cora vino e ha detto chemmifrega se influisce sul sistema ner-voso. Vorrà dire che sarà un bambino più tranquillo, no? Io l’ho imitata e mi sono prodotta in quello che forse non sem-brava proprio un occhiolino ma un tic nervoso e ho ordinato lo stesso che ha ordinato lei. I maschi hanno iniziato a parla-re di Francia e America, qualcosa di politica e poi forse eco-nomia e noi abbiamo provato a inserirci nella conversazione. Però ci hanno interrotte e Tamara non è sembrata molto più preparata di me, così ci siamo confrontate sui passeggini scelti, gli ovetti per il trasporto in macchina e le tutine da comprare mai del mese zero che tanto durano pochissimo e quindi tan-to vale passare subito a quelle da tre mesi che all’inizio saran-no larghe ma che ci vuoi fare. Mi ha spiegato che hanno cam-biato la cabina armadio e l’hanno fatta diventare la stanza del pupo. «Era una stanza prima di diventare una cabina armadio, non è che lo abbiamo messo in uno sgabuzzino.» Io le ho rac-contato degli animali che ho appeso alle pareti, della lampa-

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da-coniglio e della culla che era mia e delle mie sorelle quan-do eravamo piccole. A ogni nascita la si dipingeva di nuovo e io avevo scelto il giallo.

«Da fuori dobbiamo sembrare noiosissime» le ho detto poi.«Ero sicura che non ci sarei cascata.»«Com’è che mi appassiono al tiralatte elettrico adesso? Mi

interessa davvero, non è che faccio finta.»«E io so tutto sulle ragadi alle tette e anche sugli omega tre.

È davvero un miracolo la maternità. Tipo che ti cambia i neu-roni e la maniera di pensare.»

«Perché tu credi di stare pensando?»

Ci siamo messe a ridere e mi sono accorta che dovevo fare im-mediatamente la pipì. Così sono andata in bagno e ho con-tato dodici secondi di pipì. È una cosa che devo fare sempre, contare quanto mi dura la pipì. Mi sono pulita, sono usci-ta dalla toilette e mi sono guardata allo specchio. Mi sono ti-rata su meglio le mutande da mamma con il rinforzo e alte fin sotto le tette e mi sono fatta pena in questo movimento spastico che mi dava i crampi alle mani. Mi sono avvicina-ta e guardandomi ero meno bella di quanto non mi sentissi e anche il colore della pelle non era poi così grandioso. Ave-vo voglia di essere magra. E di vedere cosa si sente davvero quando si partorisce e di sapere già se me la sarei cavata an-che dopo, con l’organizzazione e tutto quello che ancora ne-anche mi immaginavo. E in quel momento avevo anche tan-tissima voglia di scopare.

Sono tornata dal bagno e da lontano li ho visti ridere e Ta-mara mi è sembrata languida ed ero sicura che le stessero fa-cendo la corte e le dicessero frasi che la facevano sentire bella. Mi sono seduta e lei ha detto tocca a me. Così si è alzata ed è andata verso il bagno. Avrebbe fatto le stesse cose che avevo fatto io? Avrebbe pensato gli stessi pensieri? Carlo e Simone hanno riso di tutte le soste al bagno che gli avevamo imposto, dei tragitti in autostrada sincopati, dei film visti a singhioz-zo e di tutte le volte che si svegliavano a sentirci di notte an-dare al bagno. «Fidatevi che è più comodo quello che tocca a voi» ho squittito io. «Adorerei svegliarmi perché qualcun altro deve alzarsi. E alzarsi con sedici chili in più, vi assicuro non è scontato.»

Verso l’una hanno chiuso l’enoteca. Ci siamo infilati i cap-potti e i mariti ci hanno sorretto come potevano. Abbiamo detto le ultime battute con un ritmo frenetico, forse per la-sciare una grande impressione gli uni sugli altri. Ci siamo baciati sotto il portone del corso preparto dove le cose erano cominciate e dove naturalmente ci era venuto di finirle e ci siamo avviati ognuno verso la sua macchina. Carlo ha detto sono simpatici. Io ho detto è vero, meno male. Però non so se possiamo frequentarli, lei è un po’ troppo carina ed è an-che ingrassata meno di me. E l’ho baciato con la lingua. Ci siamo infilati nell’abitacolo e ho continuato ad accarezzarlo, lui ha messo la radio e abbiamo ascoltato qualcosa di lirica che non conoscevo.

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La città era vuota, i lampioni sembravano stelle ordinate e i semafori hanno iniziato a lampeggiare mentre eravamo sul-la circonvallazione. Io ero fiera di me e di noi: anche da in-cinti eravamo sexy. Lui ha guidato senza distrarsi e a me ecci-tava pensare che sapeva fare finta di niente, che era un uomo e che stava anche guardando la notte lì fuori. Abbiamo salito le scale e ci siamo spogliati subito dietro la porta. Io ho rin-graziato il buio che mi faceva dimenticare le mutande grandi e anche i rami degli alberi davanti a casa che si vedevano sui muri nel chiarore della notte. Abbiamo subito scopato e lui mi ha succhiato le tette.

«Sei meravigliosa» ha sussurrato.«Sei tu che mi rendi meravigliosa» ho detto io.Io mi sono girata da dietro e ho pensato a Simone e Tama-

ra. Li ho immaginati baciarsi romantici e sono venuta veden-do lei che sorrideva. Sorrideva da nuda e anche lei aveva i ca-pezzoli scuri e anche lei aveva il sedere sodo di ciccia e anche lei era contenta di pensare a me.

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Il corso prosegue e si vede che siamo proprio alla fine. Anche solo arrivarci mi richiede uno sforzo disumano e ogni volta pen-so di saltare. Ma ho paura di non essere abbastanza preparata e quindi cedo sempre. Però mi manca il respiro, ho le gambe gonfie e non ne posso più di essere grande così. Le lezioni ormai

sono sull’allattamento e il puerperio. Incontriamo uno psicolo-go e anche una massaggiatrice esperta in craniosacrale sui nuo-vi nati. Facciamo le prove con i bambolotti e avvolgiamo i cor-picini di plastica nelle copertine e nei lenzuolini consumati del consultorio. Stiamo con le gambe all’insù e non parliamo più di parto. È tutto troppo vicino per affrontare davvero la paura. Così pensiamo a come sarà una volta finito tutto o cominciato tutto e saltiamo il problema della dilatazione e del bacino che deve aprirsi. Ormai non possiamo più farci niente e tanto vale abituarsi all’idea e bon. Un paio di ragazze partoriscono in an-ticipo e il racconto delle loro esperienze è traumatico e liberato-rio. Godiamo dei dettagli più truci e però ci sembra che se già è successo a loro, la statistica delle fatiche e delle complicazioni inizia a stare dalla nostra parte. E comunque sono ancora vive, no? Ci arrivano da loro vari sms di novità e aggiornamenti e ar-rivano a tutte come fossero notizie Ansa a cui siamo abbona-te. Quelle che invece hanno sentito le primipare per viva voce diventano molto popolari e tengono banco. Pare che entram-be abbiano problemi con l’allattamento. Noi annuiamo severe, ci tocchiamo le tette mentre ascoltiamo e ripassiamo i compiti per una brava mammella da latte. Intanto organizziamo la fe-sta di fine corso e ognuna si segna per portare qualcosa. Io scel-go di portare la pasta fredda. Invitate anche i mariti ci dicono e io sbuffo come per tutte le cose di questo mese.

La sera della festa mi vesto come meglio riesco. Metto una ca-micia di lino di Carlo aperta e una maglietta nera. Infilo una

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gonna bianca e i sandali. I miei piedi sembrano guance e co-sce. Sono pieni di ciccia e io me li guardo come si guarda la grassa della classe. Penso ma non può mangiare di meno? Ma che schifo! Mi metto il kajal azzurro, gli orecchini e faccio la treccia. Ho caldo e i capelli sul collo mi danno fastidio anche così. Ci ripenso e mi faccio lo chignon. Carlo arriva tardi e io lo aspetto sul divano e il Tg3 che sta per cominciare.

«Mi faccio una doccia di trenta secondi e ci sono.»«Ok» dico io «però è tardi.»«Dammi solo due minuti.»«Ho solo detto che è tardi. Non che è un problema il fat-

to che lo sia.»«Amore. Dammi un secondo di tregua, puoi?»«Cosa dovrei darti, scusa?»

Guardo i titoli e i primi servizi. Mi alzo, bevo la limonata con la menta e mi sdraio di nuovo. Quando Carlo compare applau-do. È bellissimo e le camicie chiare gli stanno molto bene. Lui mi aiuta ad alzarmi e mi soffia sul collo per rinfrescarmi. Io gli do un bacio e dico scusa se sono faticosa. È che sono stanca e non ne posso più. Lui prende la pasta dal frigo e ce ne andia-mo veloci, sulle scale, in macchina, per strada e al terzo piano del palazzo del consultorio. Andiamo veloci come se dovesse partire un treno o se qualcuno stesse aspettando proprio noi. Apriamo la porta e la musica è come sempre quella degli anni Settanta. Le luci sono più basse del solito e si sentono un sac-co di parole mischiate a risate, sorsi bevuti e posate sbattute.

Quando entriamo sorridiamo e appoggiamo la pasta sul gran-de tavolo. Subito mi chiedo chi sia stata così brava da fare le torte salate. E davvero qualcuna si è dedicata a una parmigia-na di melanzane? Certa gente sa cucinare davvero. Sarò una pessima madre. Sarà un disastro. Mi volto e cerco Simone e Tamara con lo sguardo. Non li vedo.

«Tamara non c’è?» chiedo all’ostetrica.«Forse sta partorendo!» mi dice lei. «Non mi ero resa con-

to che non ci fosse. Ragazze, manca Tamara!»Le ragazze si producono in vari versi e commenti. Io pro-

vo una fitta di angoscia. E forse di gelosia. Non è giusto che loro non siano qui! E non è giusto che Tamara partorisca pri-ma di me! Sento il panico salirmi per le gambe e non so nean-che che panico sia, da dove arrivi e perché. Intanto vado ver-so Carlo che sta parlando con una delle psicologhe e un altro padre e gli stringo la mano. La tengo stretta come se dovessi dirgli qualcosa. Lui infatti mi chiede che c’è e io vorrei dirgli andiamocene via ma non ne ho il coraggio.

Cerco di distrarmi e guardo le pance delle altre ragazze, le loro braccia grosse, le tette immense e provo a pensarle tut-te in travaglio, a urlare, a pecorina, in piedi, sdraiate. Le im-magino con le gambe aperte. Le vedo con le bocche strizza-te, spalancate, storte. Le vedo animaletti. Sudare e piangere. Finalmente la porta si apre ed entra Tamara. Ha un bellissi-mo vestito di lino bianco, lungo fino ai piedi e Simone die-tro di lei ha in mano una grande teglia d’acciaio. Anche a lui stanno bene le camicie chiare e quando mi vede strizza l’oc-

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chio e io penso deve essere una cosa di questa coppia, striz-zare l’occhio.

«Le patate non si cuocevano mai.»«Ti sei cambiata sette volte» dice Simone «le patate non

c’entrano.»«Odio i mariti. Mai che ti reggano il gioco, cazzo» ride lei.

Entriamo nella grande stanza, Simone appoggia le patate al ro-smarino e tutti urlano Tamara! E varie ragazze le si avvicinano, dicono pensavamo stessi partorendo, pensavamo che fossi già in ospedale, pensavamo che ti avremmo rivista senza pancia. Simo-ne mi posa una mano sulla spalla e io divento rossa. Improvvisa-mente mi sento come quando all’ultimo giorno di scuola pensavi di poter finalmente provare a farti baciare da quello che ti pia-ceva perché tanto non l’avresti più visto. Nel caso fosse andata male la brutta figura si sarebbe persa con l’estate e tutti gli altri baci di luglio e agosto. Carlo nel frattempo si avvicina e stringe la mano a Simone. Anche Carlo mi piace tanto. Anzi, forse mi piacciono tutti. Forse è solo tutta questa pressione che sento sul basso ventre: sono compressa, umida. Mi batte forte il cuore e ogni tanto sollevo lo sguardo e guardo Tamara, lontana, che mi guarda anche lei e ci raggiunge. Saluta Carlo e ci dice l’altra vol-ta sono tornata a casa completamente ubriaca. «Siete due tra-viatori.» Noi ridiamo e diciamo anche noi eravamo ubriachi e ci eravamo dati la spiegazione che la colpa fosse vostra.

Ogni volta che posso incrocio lo sguardo di Simone e for-se dopo dieci sguardi anche lui capisce che c’è qualcosa che

in questo momento ci rende diversi da tutti gli altri in questa stanza. Forse sono io che lo convinco con un sorriso e poi con un altro. O quando mi passo la lingua sulle labbra per via del-le goccioline di acqua che mi sono rimaste attorno alla bocca o forse gli piacevo già prima. O anzi è solo uno stronzo tra-ditore a prescindere e tutte le prede gli vanno sempre bene. Così lo guardo mangiare la mia pasta fredda e me lo ricordo quando simulava la respirazione con Tamara, ah ah ah e mi immagino di poterli avere tutti e due. Li vedo respirare forte, ah ah ah incastrati uno nell’altra ed è come vedere il miglio-re dei film del pianeta.

Perdo completamente la concentrazione e non riesco più ad ascoltare Carlo, Simone e Tamara. Così dico scusate, lancio un’ultima occhiata a Simone e vado in bagno. Mi guardo allo specchio e cerco di tornare in me e di aspettare che passi il desiderio come mi sono abituata a far passare il nervoso. Però dopo qualche minuto, forse di meno, forse sono solo secondi, entra Simone. Io non gli sorrido più. Lui anche è molto serio e mi tocca subito la bocca, poi le tette, la pancia grossissima. Ha le mani da femmina, molto curate e mi solleva la gonna e mi infila le dita dentro. Non so se ci sia ancora spazio lì, per-ché a me sembra tutto molto pieno.

Io lo bacio e gli succhio la bocca, le orecchie, gli infilo la lingua da tutte le parti, gli lecco il collo. Non sono mai stata così eccitata in vita mia. Mi viene da sorridere e quasi mi ver-gogno, poi sento che mi pulsano anche le unghie e mi dico

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che ne vale la pena. Che questa cosa è davvero speciale e tut-to il resto non importa. Voglio dire, le unghie mi pulsano! Lui mi gira da dietro e sono contenta che sappia già come muo-versi su un corpo di donna gravida, mi apre le natiche, le stu-dia, mi lecca, iniziamo a scopare e io ogni tanto storco il col-lo e lo bacio. Fa forte. Fa molto forte e a me piace, vengo e lui continua e io penso che sono fatta di acqua, sono così ba-gnata che sono un liquido, mi scioglierò per terra e non mi troveranno mai più. Lui dice quanto sei fica e lo dice di nuo-vo, ripete quanto sei fica, eh? Ma non credo che voglia una risposta mentre continua a scoparmi e mi graffia la schiena con le mani, mi tira i capelli e mi entra così dentro che qua-si lo sento sulle costole, sul petto, lo sento in faccia, dietro i denti. Mi tiri pazzo, sussurra. E quando anche lui viene sen-to addirittura lo schizzo, così netto e potente che sembrano dita e io vengo di nuovo, non mi trattengo e lui mi tappa la bocca e dice shh. «Taci. Shh.» E penso che forse ci scopriran-no e che questa cosa è così sbagliata che quasi fa ridere. È co-mica, forse goffa.

Immagino la porta spalancata e tutte quelle pance davanti a me, gli occhi sbarrati a vedere di che cosa siamo capaci noi es-seri umani e quanto siamo malvagi. Quanto siamo comunque malvagi. Saprebbero anche quanto è poetica e romantica una donna alla scadenza della quarantesima settimana. E quanto siano false tutte le cose dell’universo davanti ai primi due or-gasmi consecutivi della mia vita. Restiamo immobili, lui den-

tro di me e lo sento respirare sopra la mia schiena. Si alza e si abbassa e inizio a pensare dovremmo sbrigarci. Sbrighiamoci Simone. Poi prima che io possa aprire bocca, lo sento dire ma che cazzo. E allora so che qualcosa non va. Ci hanno scoper-to davvero? Le nostre vite stanno per cambiare? Perché non ti ho detto sbrighiamoci?

Lui si sfila da me e io guardo la porta ancora chiusa e non capisco.

«Che c’è?» mormoro.«Ti si sono rotte le acque.»«Sono venuta. Non sono le acque.»«Fidati.»Allora mi guardo e vedo la pozzanghera. Continua a in-

grandirsi e l’acqua è limpida e tantissima. Possibile che non abbia sentito niente? Possibile che esca così tanta roba? Non può che essere vero. Mi si sono rotte le acque. Simone mi ha rotto le acque? Mi sciacquo veloce e anche lui si sciacqua ve-loce e si sistema i capelli, fa tre respiri profondi e spalanca la porta ancora prima di dirmi il suo piano.

«Ehi! Qui sta succedendo qualcosa!» dice.«Che cazzo fai?» digrigno io.

Le persone arrivano in pochi secondi. Neanche il tempo di riprendermi e legarmi di nuovo i capelli. Simone intanto si sta arrotolando le maniche e io vedo Carlo e Tamara arriva-re. Simone racconta che era entrato per fare pipì e mi ha tro-vata così con le acque che mi uscivano e che mi guardavo allo

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specchio. «Non si era resa conto, capite?» Mi sta dipingendo come un’ebete? Carlo mi si avvicina e anche se la faccia tradi-sce qualche dubbio, qualche domanda su me e Simone in ba-gno e una gelosia che però neanche riesce a permettersi, mi dice amore mio, come stai? Eh? Come ti senti?

«Bene, mi sento bene» sorrido «non sento niente per ora.»«Le acque sono limpide» dice l’ostetrica «va benissimo.»«Dobbiamo andare?» le chiede Carlo.«Se volete mettetevi un po’ nella stanza di là, così ci calmia-

mo tutti e voi vi prendete il vostro tempo. Non c’è nessuna fretta. Come ti senti, piccola?»

«Sto bene. Grazie» dico io e la odio per come dice piccola.«Grazie» ripete Carlo.

Mi rifaccio la coda e usciamo dal bagno. Prendo un bicchiere d’acqua dal distributore e lo bevo tutto. Mi piace fare la cal-ma. E mi piace fare vedere che sono calma. Mi sento bene per davvero e Simone ha fatto proprio quello che doveva. Le altre ragazze sono incredule, lo vedo nelle loro mascelle spalancate. Nelle palpebre che smettono di battere e che guardano la mia faccia, in bagno l’acqua per terra, la mia gonna fradicia e di nuovo la mia faccia. Stanno vedendo dal vero quello che fino a ora si sono solo potute immaginare. E anch’io come loro mi guardo da fuori e mi vedo con la gonna stropicciata, i capelli caduti e le gambe bagnate. Non si chiedono come mai ho l’a-ria così trafelata? Si capisce che ho appena fatto sesso? Visto che nei film le partorienti sono sempre disordinate pensano

sia quello che mi sconvolge già l’aspetto? Guardo Tamara ed è pallida ma mi sorride. Forse si è spaventata o forse ha capito. Le sorrido anch’io e allargo le mani, come a dire che vuoi far-ci, che come frase varrebbe in ognuno dei casi. Tamara annu-isce e io non so a che pensiero stia annuendo. In questo mo-mento neanche mi importa. Sto per partorire. Sto per provare tutte le posizioni che ho imparato in questi mesi, devo con-centrarmi, devo tornare in me. Non posso guardarmi da fuo-ri come fanno le altre. Che mi prende?

Simone che spinge così forte è già roba di secoli fa. Neanche quella ero io. Anche lì stavo solo guardando. Ora devo dav-vero impegnarmi, ora devo essere io il centro di tutto e devo sentire e devo stare attenta e fare le cose per bene. Devo ricor-darmi le lezioni e godermi il momento che finalmente è ar-rivato. Non potrà essere troppo difficile, giusto? Sarà in ogni caso un’esperienza incredibile. Annuisco a Tamara per rispon-dere in qualche maniera al suo capo che scende e sale mentre Simone, di fianco a lei, la prende sotto braccio e lei gli allon-tana la mano. La riprende e si stringe a lui. Si stringe davve-ro molto forte, come avesse freddo o paura. Io e Carlo invece ci dirigiamo verso la stanza che ci stanno preparando e quan-do finalmente sono lì dentro e quando tutte le persone dietro di me stanno per sparire, faccio per chiudere la porta. Poi mi volto verso la platea, spingo piano la maniglia, quasi mi sentis-si in colpa verso quelli che lascio fuori e saluto un’ultima vol-ta il gruppo, con la mano e con un sorriso, prima di sentire il clack della serratura e prima di cominciare a respirare profondo.