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L'IMPLEMENTAZIONE DELLE POLITICHE PUBBLICHE IN UN SISTEMA DI GOVERNO MULTILIVELLO di Liborio Furco Introduzione Se nella percezione socialmente diffusa governare significa prendere decisioni vin- colanti valide per tutti i membri della comunità politica (in inglese: polity) al fine di allo- care autoritativamente risorse materiali e simboliche, l'analisi delle politiche pubbliche tende a scomporre e rendere più complessa tale percezione per meglio descrivere e spie- gare l'attività di governo. Innanzitutto, questa metodologia di analisi del fenomeno poli- tico mette in evidenza il fatto che il risultato dell'attività di governo non è la decisione. La decisione non è altro che un momento (una fase) del processo politico-amministrati- vo, inserita in un flusso (ciclo) di attività, o inattività (astensioni dall'intervenire), che si svolgono prima e dopo, a monte e a valle, e che possono essere identificate tanto dalle scelte compiute in ognuna di queste fasi, quanto dalle modalità con cui si evitano certe scelte ritenute scomode o non opportune. Inoltre, analizzando il governo "in azione", è necessario prendere in considerazione le conseguenze delle decisioni o non-decisioni sul- l'ambiente sociale (il loro impatto), poiché queste retroagiscono (effetto feedback) sulle decisioni successive (conseguenti) degli attori politici. Il processo di cui parliamo non ha, dunque, la possibilità di essere concepito ed espresso in termini sintetici se non riman- dando all'idea di qualcosa che si svolge in tempi e luoghi diversi, coinvolgendo una plu- ralità imprevedibile di attori politici e sociali, i quali hanno proprie idee ed interessi e uti- lizzano il potere di cui dispongono al fine proteggere quegli interessi e affermare le pro- prie idee. Ci si riferisce al processo politico-amministrativo così concepito utilizzando il ter- mine inglese policy making process. L'inglese, com'è noto, dispone di più termini (ha un lessico più ricco) per indicare i fenomeni politici e ciò aiuta molto le possibilità di anali- si di concetti che sono interrelati, ma logicamente diversi: il termine polity che, come ab- biamo visto, esprime il concetto di comunità politica organizzata e rinvia ai relativi temi politici riguardanti l'identità, i confini, le strutture ed i processi di mantenimento e di cambiamento degli elementi che compongono tale comunità: il territorio e la popolazio- ne; il termine politics, che invece si riferisce alla sfera del potere: le dinamiche delle lot- te per l'acquisizione, il mantenimento e la gestione del potere; infine, quello che più rile- va per il nostro tema, il termine policy, che rimanda al concetto di programma d'azione promosso da autorità pubbliche attraverso il quale vengono perseguite soluzioni per pro- blemi socialmente percepiti come aventi rilevanza collettiva. Un altro concetto, collegato ai precedenti, risulta rilevante ai fini del nostro discor- so, quello di meta-policy: "la meta-policy prepara, vincola, formatta, configura il campo in cui si dispiegano le dinamiche di policy" [Capano e Giuliani, 1996]. Questo termine viene utilizzato, quindi, per identificare quelle scelte strategiche che contribuiscono a predisporre il disegno del policy making e che sono in grado d'influire sulle questioni so- stanziali di policy attraverso la pre-strutturazione del campo d'azione (o la predisposi- zione delle regole del gioco). Si tratta pur sempre della predisposizione e dell'attuazione di una policy (una politica costituente) e non di mera attività di politics. 207

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L'IMPLEMENTAZIONE DELLE POLITICHE PUBBLICHE IN UN SISTEMA DI GOVERNO MULTILIVELLO

di Liborio Furco

Introduzione

Se nella percezione socialmente diffusa governare significa prendere decisioni vin­colanti valide per tutti i membri della comunità politica (in inglese: polity) al fine di allo­care autoritativamente risorse materiali e simboliche, l'analisi delle politiche pubbliche tende a scomporre e rendere più complessa tale percezione per meglio descrivere e spie­gare l'attività di governo. Innanzitutto, questa metodologia di analisi del fenomeno poli­tico mette in evidenza il fatto che il risultato dell'attività di governo non è la decisione. La decisione non è altro che un momento (una fase) del processo politico-amministrati­vo, inserita in un flusso (ciclo) di attività, o inattività (astensioni dall'intervenire), che si svolgono prima e dopo, a monte e a valle, e che possono essere identificate tanto dalle scelte compiute in ognuna di queste fasi, quanto dalle modalità con cui si evitano certe scelte ritenute scomode o non opportune. Inoltre, analizzando il governo "in azione", è necessario prendere in considerazione le conseguenze delle decisioni o non-decisioni sul­l'ambiente sociale (il loro impatto), poiché queste retroagiscono (effetto feedback) sulle decisioni successive (conseguenti) degli attori politici. Il processo di cui parliamo non ha, dunque, la possibilità di essere concepito ed espresso in termini sintetici se non riman­dando all'idea di qualcosa che si svolge in tempi e luoghi diversi, coinvolgendo una plu­ralità imprevedibile di attori politici e sociali, i quali hanno proprie idee ed interessi e uti­lizzano il potere di cui dispongono al fine proteggere quegli interessi e affermare le pro­prie idee.

Ci si riferisce al processo politico-amministrativo così concepito utilizzando il ter­mine inglese policy making process. L'inglese, com'è noto, dispone di più termini (ha un lessico più ricco) per indicare i fenomeni politici e ciò aiuta molto le possibilità di anali­si di concetti che sono interrelati, ma logicamente diversi: il termine polity che, come ab­biamo visto, esprime il concetto di comunità politica organizzata e rinvia ai relativi temi politici riguardanti l'identità, i confini, le strutture ed i processi di mantenimento e di cambiamento degli elementi che compongono tale comunità: il territorio e la popolazio­ne; il termine politics, che invece si riferisce alla sfera del potere: le dinamiche delle lot­te per l'acquisizione, il mantenimento e la gestione del potere; infine, quello che più rile­va per il nostro tema, il termine policy, che rimanda al concetto di programma d'azione promosso da autorità pubbliche attraverso il quale vengono perseguite soluzioni per pro­blemi socialmente percepiti come aventi rilevanza collettiva.

Un altro concetto, collegato ai precedenti, risulta rilevante ai fini del nostro discor­so, quello di meta-policy: "la meta-policy prepara, vincola, formatta, configura il campo in cui si dispiegano le dinamiche di policy" [Capano e Giuliani, 1996]. Questo termine viene utilizzato, quindi, per identificare quelle scelte strategiche che contribuiscono a predisporre il disegno del policy making e che sono in grado d'influire sulle questioni so­stanziali di policy attraverso la pre-strutturazione del campo d'azione (o la predisposi­zione delle regole del gioco). Si tratta pur sempre della predisposizione e dell'attuazione di una policy (una politica costituente) e non di mera attività di politics.

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Lo studio del policy making rappresenta il settore di ricerca specifico dell'analisi delle politiche pubbliche, anche se tale oggetto di analisi si sovrappone e si integra con gli interessi conoscitivi di altre discipline come la scienza della politica, la sociologia po­litica e la sociologia dell'organizzazione (dalle quali prende molti riferimenti teorici e metodologici e a cui offre un notevole contributo, specialmente in termini di impostazio­ne analitica della ricerca empirica).

Il processo (o ciclo) di policy viene analiticamente distinto in più fasi: l) identifica­zione di un problema (immissione del problema nell'agenda politica); 2) definizione dei termini del problema e formulazione di proposte alternative di soluzione; 3) adozione di una decisione circa la scelta del programma d'azione; 4) messa in opera (implementazio­ne) del programma d'azione; 5) valutazione dei risultati. In maniera più generale e sinte­tica (integrando fra loro alcuni passaggi), possiamo dire che lo schema che emerge è il se­guente: formulazione della policy- implementazione- impatto sociale- feedback (con­trollo dei risultati). Questo, ovviamente, rappresenta soltanto un modello analitico, nella realtà una fase influenza l'altra senza una direzione né una sequenza precise e facilmen­te identificabili. Il processo, insomma, non si svolge in maniera così razionale come vie­ne descritto.

Poiché la fase dell'implementazione è quella che produce i risultati del programma d'azione, ovvero l'impatto sociale, concentreremo la nostra attenzione proprio su questa fase, nell'ipotesi che il focus sulla messa in opera renda più facile fare emergere l'origi­nalità dell'approccio degli studi di policy rispetto agli approcci propri delle discipline più tradizionali. Verranno, quindi, presentate diverse prospettive analitiche per lo studio del­l' implementazione.

È proprio nella fase di implementazione che le possibilità di apprendimento istitu­zionale (policy learning), offerte dall'impatto del programma d'azione sugli interessi in senso lato e le rispettive posizioni degli attori coinvolti, si manifestano e, quindi, indiriz­zano l'eventuale avvio di processi di cambiamento (policy change). Tali processi di po­licy learning e policy change sono meglio descrivibili in un contesto di governo multili­vello come quello dell'Unione europea.

Inoltre, per descrivere l'impatto dei processi politici di questo tipo sull'ambiente so­ciale, si farà riferimento a casi di studio riguardanti le politiche comunitarie di coesione e sviluppo regionale (Furco, 2000).

Infine, per descrivere e spiegare le modalità con cui policy e politics interagiscono, creando forti interdipendenze tra i due piani del gioco politico, si farà riferimento al con­cetto di arena delpotere. Questo concetto è stato introdotto, molto proficuamente, nel di­battito sul processo politico dal politologo americano Theodore Lowi già nel 1964. Si tratta di uno schema interpretativo per la spiegazione delle relazioni che intercorrono tra la sfera politica e quella sociale, schema che relativizza le prospettive delle due scuole di pensiero dominanti nell'analisi del processo politico democratico liberale, quella plurali­sta e quella elitista (Lowi pp. 6-10 dell'ed. it., 1999). L'originale prospettiva da cui parte questo schema interpretativo è data dal fatto che la variabile indipendente che spiega i giochi di politics è individuata nelle caratteristiche della policy (piuttosto che viceversa): è la policy che determina la politics. La policy, in questa prospettiva, non è il mero pro­dotto dei giochi di politics, ma riuscendo a mobilitare disparati attori sociali (in base alle aspettative che si creano riguardo alle decisioni di governo o, meglio, in base al tipo di problema sociale su cui vertono le decisioni) fa si che tali attori nel loro agire politico al­terino la dinamica dei processi politici, determinandone gli esiti. Tali attori, inoltre, in­tervengono in maniera determinante anche nella strutturazione di quei sottosistemi di po­litics che sono le arene politiche: "queste aree di politiche e/o di attività governativa co­stituiscono vere e proprie arene del potere. Ogni arena tende a sviluppare la propria ca­ratteristica struttura politica, il suo processo politico, le sue élite e i suoi tipi di rapporti

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tra gruppi" (ibidem, p. 20). Vengono, così individuate da Lowi diverse arene, corrispon­denti a diversi tipi di politiche pubbliche: l'arena della politica distributiva, con i suoi ca­ratteristici rapporti di tipo clientelare, l'arena della politica regolativa, quella della politi­ca redistributiva e, solo in seguito, quella della politica costitutiva (ibidem p. 39). Questi diversi tipi di politiche presentano differenze importanti circa gli strumenti che utilizza­no per raggiungere i propri obiettivi, circa il loro modo di operare (di fare politica) e, quindi, circa il loro modo di strutturare i rapporti di potere.

La multilevel governance

Il concetto di governance si distingue da quello di governo poiché si riferisce al fat­to che, specie in un regime politico democratico, sul processo di policy non hanno in­fluenza solo le autorità pubbliche (il governo centrale rappresenta per di più solo una par­te del c.d. stato apparato), ma anche vari attori sociali (gruppi di pressione, organizzazio­ni di rappresentanza degli interessi, partiti, chiese etc. influenzano e codeterminano le scelte pubbliche). Il concetto di governance, quindi, tradisce anche l'ambizione di go­vernare i processi di strutturazione dei rapporti interno/esterno (sistema/ambiente) del si­stema politico.

A proposito delle origini della governance dell'Unione europea, è da dire che le po­sizioni di centro-sinistra dello schieramento politico europeo, nel tentativo di superare il concetto di "integrazione negativa" (abbattimento delle barriere che impediscono la crea­zione di un unico libero mercato europeo) proprio del pensiero liberale-liberista, si sono tradizionalmente attestate sulla difesa del principio di "integrazione positiva" (interven­to pubblico per la correzione dei fallimenti del mercato).

Questo principio non mette in dubbio l'allocazione delle risorse tramite il mercato, ma sottolinea la necessità che gli organi politici provvedano a fornire dei beni collettivi (infrastrutture di trasporto e comunicazione, formazione professionale, ricerca e svilup­po) che mettano in condizione di pari opportunità di sviluppo le varie aree dell'Unione Europea, aumentando così il livello di giustizia sociale al suo interno.

In tal modo, coloro che sostengono questa linea politica propongono una volontaria cooperazione tra i gruppi che sono interessati alle politiche europee, al fine di contribui­re alla loro formulazione ed implementazione. Nasce così il principio della Partnership sociale ed istituzionale che sta alla base della politica di coesione e della politica regio­nale comunitaria. La partnership istituzionale prevede una cooperazione tra i vari livelli di governo (sub-nazionale, nazionale e sovranazionale) gettando così le basi del model­lo di governance multilivello dell'Unione Europea. In esso lo stato, pur rimanendo un at­tore politico di primaria importanza, non monopolizza più i legami tra attori interni e so­vranazionali, ma rappresenta uno fra i tanti attori che interagiscono per influenzare le de­cisioni ai vari livelli di governo. Le competenze tra i vari livelli di governo nel policy-ma­king sono condivise, invece che separate, e le aree politiche sono interconnesse piuttosto che sovrapposte.

Di conseguenza, più che una organizzazione internazionale l'Unione Europea costi­tuirebbe una comunità politica a sé stante, dotata di un proprio potere di indirizzo del po­licy-making e di propri canali di aggregazione e mobilitazione degli interessi. Caratteri­stiche che favorirebbero uno stile politico partecipativo a scapito di uno stile autoritativo.

Questo modello è particolarmente indicato per rendere conto delle possibilità di mo­bilitazione degli attori politici subnazionali e per spiegare le variazioni d'impatto delle politiche comunitarie (in particolare della politica regionale) nelle diverse aree geografi­che dell'Unione.

Il concetto di base cui tale modello fa riferimento è quello di policy network che for-

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nisce una prospettiva originale ai problemi di governance dell'Unione Europea. Esso consente, da una parte, di elaborare una teoria che traduce in termini strutturali ed opera­tivi il principio delle partnership, d'altra parte, rappresenta un utile strumento euristico per lo studio dell'applicazione di questo principio nel policy-making comunitario.

Il concetto di policy network

La nozione di multilevel governance sembra essere quella che meglio esprime e per­mette di indagare il cambiamento verificatosi nel policy-making degli stati dell'Unione Europea in seguito al processo di integrazione. Essa permette di cogliere sia le tentazio­ni subite dal modello stato centrico, sia la trasformazione del concetto di government in quello di governance. Tale trasformazione sottolinea come il processo politico-ammini­strativo sia codeterminato dalla interazione tra settori sociali e istituzioni politiche. Que­sto concetto trova una sua naturale collocazione all'interno dell'approccio adottato dai policy studies, poiché vede la policy come appunto il prodotto dell'interazione di diversi attori, che agiscono nei diversi livelli territoriali di governo e che si possono classificare come politici in quanto prendono parte al processo di allocazione autoritativa dei valori, e non solo in quanto ricoprenti ruoli istituzionalmente politici. Il problema di governan­ce in un sistema multilivello, formato dai livelli nazionale, sovranazionale e subnaziona­le (a sua volta diviso in regionale e locale), è essenzialmente quello del coordinamento dell'azione politica. Per gli scopi della nostra argomentazione, inoltre, è importante do­mandarsi come i tentativi di giungere ad un tale coordinamento possano influire sulle tra­sformazioni delle strutture istituzionali coinvolte nel policy-making.

È utile, a questo punto, introdurre il concetto di policy network in quanto meccani­smo di governance che tiene conto del fatto che nelle attuali società fortemente differen­ziate dal punto di vista funzionale esistono modalità di coordinamento dell'azione collet­tiva che costituiscono un ibrido, diverso sia della gerarchia (burocrazia) che dal mercato. Quest'ibrido prende proprio la forma di un network tra differenti e relativamente autono­mi attori pubblici e privati.

I mezzi con cui il policy network giunge a produrre un coordinamento dell'azione politica sono il negoziato e lo scambio. Questi mezzi si caratterizzano per il fatto che ri­conoscono l'orientamento degli attori coinvolti verso un controllo intenzionale delle se­quenze di azioni, al fine di condizionarne gli esiti del processo politico, invece di lasciar­ne il coordinamento alla mano invisibile del mercato o ai soli meccanismi autoritativi (sia intesi come formale decision-making maggioritario, sia intesi come procedura di con­trollo gerarchico- amministrativa).

Nel caso della politica di coesione e della politica regionale comunitaria il concetto di policy network ci aiuta ad analizzare le interazioni formali ed informali, verticali (tra livelli di governo) e orizzontali (tra attori pubblici e privati). Questo ci permette di indi­viduare le possibilità di successo o di fallimento della policy nelle peculiari caratteristi­che strutturali (i networks sono strutturati da particolari insiemi d'interessi ai vari livelli) del sistema di network che si costituisce per implementarla, poiché il processo di policy comunitario emerge da eterogenee e complesse costellazioni di attori e da varie interdi­pendenze di risorse.

Ciò che importa sottolineare è che il policy network non riflette solo le costellazioni d'interessi precostituite, ma è anche un sistema sociale che evidenzia i processi attraver­so cui vengono definiti i problemi di policy, selezionate le opinioni, trovate le soluzioni e create le affinità tra gli attori (Heinelt e Smith, 1996: p.3).

Infine il concetto di policy network ci permette di distinguere tra le possibilità di im­plementazione di diversi tipi di policies comunitarie. In particolare ci permette di coglie-

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re le differenze tra politiche regolative e politiche distributive o redistributive. Ciò può aiutare a comprendere se l'organizzazione politica europea e la sua governance stanno evolvendo verso il modello dello stato regolatore o verso il modello socialdemocratico, nonchè di avanzare alcune congetture su quale di due modelli si presta ad essere mag­giormente efficace in una regione in ritardo di sviluppo.

Si può notare come il concetto di policy network si presenti sia come uno strumento analitico, sia come un approccio teoretico allo studio della governance europea. Que­st'ultima può essere vista come la variabile indipendente (ilpolicy-making europeo ha un impatto sulle strutture interne degli stati membri) o come una variabile dipendente (lo stato che si trasforma in un'arena politica per l'intermediazione degli interessi influenza la strutturazione del policy-making europeo) [Borzel, 1997: p.26].

Il punto di vista assunto nel corso della nostra argomentazione è quello top-down (governance europea come variabile indipendente), poiché, parte dal presupposto che siano le modalità di funzionamento della governance europea a stimolare l'insorgere di policy networks (che non sempre però riescono ad implementare le politiche in maniera efficiente, a causa della resistenza delle strutture nazionali e sub - nazionali al cambia­mento e, quindi all'europeizzazione).

A nostro avviso impasse decisionali e problemi insolubili (deadlocks) di imple­mentazione di certe misure della politica comunitaria di coesione e di sviluppo regiona­le dipendono dalla difficoltà di superare costellazioni di interessi poco propense al cam­biamento ed alla redistribuzione delle posizioni di potere, in cui lo spazio per l'argo­mentazione e la persuasione, seppure formalmente presente, gioca un ruolo del tutto marginale.

Data la struttura multilivello della governance europea, i giochi più che intercon­nessi, (in cui le strategie degli attori dipendono dal risultato degli altri giochi), sono in­corporati (embedded): il policy-making di un'arena organizza il contesto per la negozia­zione delle altre arene.

Poiché la strutturazione del contesto (metapolicy) d'attuazione della policy si realiz­za utilizzando soprattutto una logica basata sullo scambio di informazioni circa i proble­mi di policy, quei giochi che si basano esclusivamente sulla logica del potere e degli in­teressi (giochi di politics) trovano difficoltà di comunicazione e di giustificazione, dun­que anche di ricezione nell'arena di metapolicy, per cui manifestano le loro capacità d'in­fluenza soltanto nella fase dell'implementazione.

Europeizzazione e policy change

È necessario evidenziare come nel discorso precedente si adotti il punto di vista top­down secondo il quale la variabile indipendente del cambiamento del policy-making in molte arene politiche nazionali è da ricercarsi nel processo d'integrazione europea che ha dato vita ad una nuova forma di governance. Ci si chiede allora fino a che punto la poli­tics e le policies nazionali e sub-nazionali vengono trasformate da questo processo di eu­ropeizzazione.

Se veramente la governance ovvero il policy-making di livello comunitario, come sostengono numerosi studiosi del processo d'integrazione europea, sta cambiando le mo­dalità di funzionamento delle istituzioni politiche nazionali e sub-nazionali, inducendo, cioè, un mutamento in termini di polity e di politics, allora il suo impatto sulla trasfor­mazione delle policies nazionali (policy change), nel caso della politica regionale qui preso in considerazione dovrebbe essere ancor più macroscopico.

È, tuttavia, condivisibile, cambiando punto di vista, l'affermazione di Lowi, che ab­biamo prima esaminato, secondo cui la è la policy che determina la politics, anche se oc-

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corre precisare che è piuttosto la struttura dell'arena di policy che determina il processo di policy, almeno nel breve periodo.

Tutta la questione sulla governance europea, con la querelle sulla legittimazione e sul deficit di democrazia delle istituzioni europee, si basa su un ragionamento che vede nel cambiamento del policy-making indotto dal processo di integrazione europea a "geo­metria variabile" (cioè diverso da settori a settori: integrazione molto avanzata in econo­mia e poco in politica) la causa dell'alterazione dello stile di governance tradizionale, quello tipico degli stati-nazione.

Seguendo l'impostazione di Lowi, quindi, sarebbe il settore di policy (relativo a1 mercato con politiche di tipo regolativo, o agli interventi per la coesione e lo sviluppo re­gionale con politiche di tipo distributivo e redistribuivo) a determinare le modalità del policy-making e, quindi, la forma e le caratteristiche della governance.

Ora, se consideriamo che la governance comunitaria, specie per quanto riguarda la policy relativa alla coesione ed allo sviluppo, si caratterizza per essere multilivello, allo­ra vediamo come ai diversi livelli di governo la stessa policy viene "interpretata" in mo­di diversi: a livello comunitario (Consiglio dei ministri e Commissione europea) viene vista come una politica di tipo prevalentemente redistributivo, mentre a livello nazionale e regionale viene vista come politica meramente distributiva. Il risultato è che le arene di policy ai vari livelli di governo vengono strutturate in maniera diversa, con diverse con­seguenze in termini di politics e di efficacia della policy (misurata sulla base degli obiet­tivi che formalmente o solo simbolicamente si prefigge). Oltre alla tipologia delle policy quindi, è l'insieme di regole, cioè le istituzioni che strutturano il campo d'azione politi­ca, a determinare nel breve periodo (a causa del fenomeno della policy legacy) l'impatto sociale e l'efficacia della policy.

La domanda da porsi allora è la seguente: a quali condizioni un cambiamento nel processo di formulazione della policy ha effetti reali sulle modalità della sua implemen­tazione? Come è possibile che l'europeizzazione di una policy provochi un cambiamen­to istituzionale tale da avviare un processo di policy change (ed es. da politica distributi­va a politica regolativa)?

Nella sua essenza il processo d'integrazione europea avrebbe come suo scopo prin­cipale quello di organizzare e coordinare le politiche pubbliche degli stati membri. La fa­se di formulazione delle policies in molti settori viene trasferita a livello sovranazionale, allargando le arene politiche nazionali con l'immissione del livello comunitario. Ora, questo trasferimento di poteri decisionali ad organismi sovranazionali rende attuabili con maggiore immediatezza le policies di tipo regolativo, tanto che si può parlare dell'emer­genza di uno stato regolatore in Europa (Majone, 1994). Per quanto invece riguarda le policies di tipo distributivo e redistributivo, alla fase della formulazione segue un più complesso ed articolato processo di implementazione, nel caso del quale la previsione del perseguimento di certi obiettivi e la predisposizione di alcune metodologie decisorie ed operative per il loro conseguimento non bastano ad assicurare il risultato desiderato. Gli studi sulla fase dell'implementazione (implementation research), che tratteremo nel prossimo paragrafo, spiegano l'origine di questa difficoltà. Inoltre, nel caso della politi­ca di coesione e della politica regionale comunitaria la Commissione europea non si può sostituire, ma deve integrare (per il principio dell'addizionalità) le politiche nazionali. Quindi, essa ha una minore capacità di armonizzare la policies tra gli stati membri, con la conseguenza che l'impatto della della politica comunitaria di coesione e di sviluppo re­gionale nelle varie regioni in ritardo di sviluppo presenta delle notevoli differenze.

La della politica comunitaria di coesione e di sviluppo regionale non può essere vi­sta, dunque, come una costrizione esterna agli stati membri, ma come parte integrante del policy-making nazionale, che ha un grosso impatto sulle modalità della sua formulazio­ne, ma non sulle capacità d'implementazione delle singole istituzioni politiche. Quindi

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difficilmente essa è in grado di determinare un radicale cambiamento nel processo di po­licy tradizionale. Il policy change dipende molto dalla strutturazione dell'arena politica e dalla sensibilità delle forze in campo verso le argomentazioni introdotte nel policy-ma­king dalle istanze sovranazionali.

Il modello della multilivel govemance, quindi, se da una parte ci aiuta a descrivere le interazioni tra i vari livelli di governo nel policy-making, non ci spiega esattamente quali siano le condizioni alle quali l'influenza dei fattori sovranazionali possa indirizza­re l'evoluzione della policy e determinare un suo eventuale cambiamento. A colmare questa lacuna possono provvedere gli approcci basati sul policy leaming e sul ruolo del­le idee e della conoscenza nel processo di policy, che si oppongono ad una visione del po­licy change basata esclusivamente sul conflitto (Heclo 1974, Hall 1989, Radaelli 1995). Mentre quest'ultimo approccio considera come variabili cruciali il potere e le preferenze, l'approccio del policy leaming individua le cause del cambiamento della policy in fatto­ri quali le conoscenze e le informazioni.

A questo punto è utile introdurre una definizione del termine policy che ci consenta d'interpretarla come "politica delle idee", da contrapporre alla politics intesa come "po­litica degli interessi".

Il policy change tra idee ed interessi

I principali modelli (pluralisti, elitisti e neocorporativi) di analisi delle dinamiche del potere in regime dcemocratico individuano nella conciliazione degli interessi e delle preferenze di attori politici razionali l'elemento essenziale del processo dipolicy. Questo processo viene dunque visto come un meccanismo di aggregazione di preferenze indivi­duali che vengono tradotte in azioni collettive attraverso processi di contrattazione, ne­goziazione, formazione di coalizioni e scambio di risorse. Agli attori politici (individua­li o collettivi) vengono attribuite preferenze o interessi coerenti, stabili ed esogeni rispet­to al sistema politico. Si presuppone che questi attori valutino le probabili conseguenze di un corso d'azione politico sulla base della propria funzione di preferenza, trovandosi d'accordo solo su quelle proposte che fanno intravedere un possibile miglioramento del­la propria posizione relativa allo status qua. Il cambiamento del modo di fare politica av­viene soltanto se un numero sufficientemente elevato di attori politici nutrono l'aspetta­tiva di benefici condivisi apportati dal cambiamento (Marche Olsen, 1995). Da questo punto di vista il risultato del policy-making dipende dal potere e dalla capacità d'influen­za che ciascuna coalizione di attori è in grado di esercitare, nonché dalle risorse che ri­esce a mobilitare e porre sul tavolo dello scambio politico.

Il Policy change è allora spiegato come mutamento delle preferenze dei singoli atto­ri (individuali e collettivi) e/o dall'emergere di nuove coalizioni che alterano la distribu­zione del potere all'interno di una certa arena politica.

Nel caso della politica di coesione e della politica regionale comunitaria la Com­missione europea ha svolto il ruolo di imprenditore di policy, cercando di mobilitare nuo­vi attori politici (come ad es. il livello locale di governo) attorno ad una riorganizzazione degli interessi che mutasse la costellazione degli attori rilevanti e formasse nuove coali­zioni vincenti. La Commissione ha avuto a disposizione per realizzare questo intento le risorse finanziarie dei Fondi strutturali, in modo da attrarre a se attori politici preceden­temente marginalizzati ed accrescere la salienza della propria e della loro presenza nel­l'arena della politica regionale. Evidentemente non sempre essa è riuscita in questo in­tento a causa della strutturazione del sistema locale degli interessi e dei problemi ricon­ducibili al fenomeno della policy legaci (eredità tramandata dal precedente modo di im­plementare la politica). Certamente, però, l'entrata in campo di questo nuovo attore poli-

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tico sovranazionale ha fatto diminuire notevolmente le possibilità di controllo unilatera­le della politica regionale da parte degli attori nazionali.

D'altra parte, gli approcci allo studio del policy-making che danno maggiormente ri­lievo alla dimensione cognitiva e, quindi, alle conoscenze, informazioni ed idee, pur non negando il ruolo svolto dalle preferenze degli attori che perseguono il proprio interesse e dalle risorse di potere che possono utilizzare per sostenerle nel processo di policy, consi­derano questi fattori non esaustivi ai fini della spiegazione dell'azione politica. Essi si domandano prima di tutto come vengono formate le preferenze e negano che possano es­sere soltanto di provenienza esterna rispetto al sistema politico. Quello che si mette in questione è la dimensione autoevidente del concetto d'interesse, dato che ogni attore vi attribuisce significato a partire dalla visione del mondo che si è costruito, in base alla per­cezione della propria identità e del proprio ruolo, e dalle opportunità e vincoli alla pro­pria azione che questa stessa visione gli suggerisce.

Gli attori, quindi, elaborano le proprie strategie d'azione in base alle informazioni di cui sono in possesso ed ai valori del sistema di credenze che li contraddistingue. Ciò si­gnifica che preferenze ed interessi non sono dati e nemmeno possono essere assunti co­me esogeni, ma possono cambiare diacronicamente a seconda delle modificazioni con­tingenti all'interno del sistema di credenze degli attori. "In sostanza, quindi, porsi il pro­blema del rapporto tra idee ed interessi, significa porsi il problema di come gli attori po­litici, supposti agire in modo razionale per perseguire il proprio interesse, riescano a ri­conoscerlo" (Capano, 1995, p 144).

Definite le idee come le credenze proprie degli individui e dei gruppi che organiz­zano gli elementi cognitivi e valutativi che ne strutturano la relazione con la realtà, Ca­pano individua tre livelli di influenza delle credenze sulle strategie di azione politica: • Il livello macro, quello delle credenze sui fondamenti normativi ed antologici, della

weltanschaaung , delle ideologie; • Il livello meso, che concerne le credenze che attengono alla strutturazione di teorie

causali correntemente correlate con le credenze di fondo; • Il livello micro, che è quello delle credenze sugli aspetti strettamente strumentali e

routinari della azione politica.

È quest'ultimo livello (micro) quello in cui si collocano le idee circa gli elementi strumentali dei processi di produzione ed attuazione delle politiche pubbliche.

È proprio a questo livello di credenze sulle strategie e sugli strumenti di policy che si può riflettere sulla possibilità che la politica non sia soltanto potere, ma anche attività per la soluzione di problemi collettivi, una forma di puzzlement collettivo per decifrare la realtà (Heclo, 1974: p. 305). All'interno di questo puzzlement collettivo è possibile che si verifichino processi di apprendimento che portino ad un mutamento delle strategie d'a­zione. Attraverso l'apprendimento si possono modificare anche le caratteristiche genera­li della politica pubblica.

Il policy change, quindi, può essere il risultato non solo di un cambiamento di pre­ferenze degli attori e delle dinamiche dei processi di strutturazione delle relazioni politi­che, ma anche di un cambiamento della percezione dei problemi di policy e delle solu­zioni considerate più appropriate.

Nel caso della politica di coesione e della politica regionale comunitaria, la capacità del contesto sovranazionale di indurre processi di policy leaming (Sabatier e Jenkins Smith, 1993) sembra molto limitata, anche se la necessità di negoziare e redigere pro­grammi di intervento pluriennali induce ad una continua discussione (quindi ad un pro­cesso di argomentazione) sugli obiettivi, i criteri e le modalità di attuazione della policy. Il sistema di Govemance multilivello crea una diretta competizione tra approcci nazio­nali e sovranazionali per la soluzione dei problemi dello sviluppo regionale. Inoltre la

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pluralità dei meetings tra policy-makers ed esperti offre la possibilità di apprendere com­parativamente dall'esperienza dei vari contesti nazionali, per cui l'arena della politica di coesione e della politica regionale comunitaria può divenire fonte d'ispirazione per atto­ri politici nazionali attenti a nuove soluzioni ed idee.

Il problema, allora diviene quello di individuare quali siano le condizioni che per­mettono ai processi di apprendimento di influire sul contenuto della policy. Qui dobbia­mo dire che l'apprendimento non può verificarsi che all'interno deipolicy networks. Una motivazione di fondo che spinge i policy makers ad apprendere (ferma restando l'aspira­zione al conseguimento e\o al mantenimento del potere) è costituita dalla loro esigenza di approntare teorie causali capaci di affrontare in modo soddisfacente i problemi percepiti come politicamente salienti (Capano, 1995, p.151). Attraverso dinamiche di apprendi­mento, quindi, gli attori coinvolti nel policy network possono giungere a modificare ra­dicalmente le caratteristiche costitutive di un settore di policy, modificando le loro cre­denze sui rapporti di causa effetto e la loro interpretazione del self interest (Haas, 1992).

Le caratteristiche dei policy networks ed il contesto istituzionale nel quale essi si or­ganizzano contribuiscono, dunque, a spiegare la variabilità del contenuto e dei risultati della politica comunitaria di sviluppo regionale nell'ambito delle diverse regioni in ritar­do di sviluppo dell'Unione europea. La strutturazione dell'arena politica e le modalità di funzionamento dei networks rendono più o meno probabile l'influenza delle credenze sulle teorie causali e sugli strumenti di policy e, quindi, l'insorgenza di processi appren­dimento come codeterminanti del processo di policy.

Le varie sfide lanciate dal processo di integrazione europea vengono recepite in ma­niera diversa a seconda del contesto istituzionale dei livelli nazionale e sub-nazionale.

Il contesto istituzionale può spiegare, quindi, quali obiettivi vengono perseguiti da­gli attori politici e quali coalizioni è probabile che vengano create. Inoltre, esso può fa­vorire o sfavorire l'emergere di nuove idee e il verificarsi dei processi di apprendimento.

Le istituzioni che più favoriscono i processi di apprendimento sembrano essere quel­le che si collegano a policy communities con una forte presenza di professionisti. Questi elaborano strategie d'azione basate non tanto sulla protezione di qualche interesse costi­tuito, ma soprattutto su considerazioni che attengono ai riflessi delle loro decisioni sulla reputazione di cui godono e sulle rispettabilità dell'organizzazione cui appartengono (Majone, 1995).

Il policy change è probabile che si verifichi laddove il contesto istituzionale permet­ta di rivolgere una reale attenzione alla definizione dei problemi di policy ed alle idee cir­ca le soluzioni più adeguate, altrimenti l'incontro tra problemi e soluzioni sarà del tutto casuale (come nel modello di razionalità decisoria del garbage can), o determinato esclu­sivamente da ragioni che attengono alle logiche del potere.

Occorre, tuttavia, sottolineare il fatto che è altamente improbabile che vengano adot­tate decisioni politiche esclusivamente sulla base della consapevolezza della maggiore efficacia di un'alternativa di policy per la soluzione di un problema sociale. In un conte­sto che coinvolge una molteplicità di attori e di interessi è molto più probabile che ab­biano la prevalenza considerazioni attinenti alle ..conseguenze distributive sulle posizioni di potere.

Policy change come adattamento amministrativo

Al fine di analizzare le possibilità di cambiamento del processo e del contenuto di una policy bisogna tener conto anche della possibilità di evoluzione delle strutture buro­cratiche all'interno di ciascuno stato membro della U.E., poiché sono queste strutture che rendono idee e programmi più o meno salienti per il policy-making.

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Nella logica della multilivel governance la competizione tra le diverse unità ed i di­versi livelli di governo rappresenta senz'altro una potenziale fonte di innovazione. Nel caso della politica comunitaria di sviluppo regionale la Commissione può fornire note­voli stimoli all'innovazione, come pure i livelli di governo regionale e locale (qualora in­teressati alla soluzione dei problemi di policy) possono apportare al dibattito nazionale ed europeo idee e proposte d'intervento innovative.

L'approccio neo-istituzionale allo studio del processo politico amministrativo con­sente, molto più delle teorie dello scambio razionale, di spiegare i meccanismi del policy learning in ambiente burocratico. Le teorie neo-istituzionali concedono molto più spazio al ruolo degli elementi valoriali (normativi e morali) e quindi al sistema delle credenze nel determinare le scelte collettive. La differenza con l'approccio di politica delle idee (che si contrappone alla politica degli interessi) di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo, è che mentre questa fa riferimento al sostegno di credenze soggettivamente percepite, l'approccio neo-istituzionale si riferisce al sistema di valori e di norme sedi­mentate nelle istituzioni politiche. Le istituzioni sono concepite come lo strumento attra­verso il quale i sistemi di credenze si strutturano all'interno di un sistema politico, orga­nizzando il campo d'azione all'interno del quale si muovono gli attori politici. Esse for­malizzano le idee dominanti, quindi anche le teorie causali e le conseguenti strategie di politica pubblica, nonché gli strumenti di policy ritenuti adeguati ed ammissibili.

"Se l'apprendimento è una creazione individuale che si sviluppa a livello di policy, mediante l'interazione tra i membri di uno specifico network, allora la cogenza del siste­ma di credenze istituzionalizzato può essere superato attraverso un processo in cui la po­sta in gioco è proprio l'istituzionalizzazione di nuovi sistemi di credenze( ... )" [Capano, 1995: p. 156]. Un sistema di credenze istituzionalizzato rappresenta, quindi, certamente un vincolo allo sviluppo di processi di apprendimento, ma non un vincolo assoluto. Nuo­ve teorie causali prodotte ai margini delle istituzioni (nelle interazioni all'interno dei net­works, di cui le istituzioni formali costituiscono solo una parte) possono progressiva­mente coinvolgerle fino ad indurle ad un processo di cambiamento.

Le teorie neo-istituzionali, dunque, sottolineano il fatto che la percezione soggettiva delle alternative di policy, delle loro conseguenze e del loro valore, non avviene nel vuo­to, ma all'interno di un più vasto contesto di regole, ruoli ed identità.

In quest'ambito l'azione umana non sarebbe tanto motivata dalla anticipazione del­le sue incerte conseguenze, quanto piuttosto, da una logica di comportamento ispirata a criteri di appropriatezza. Ogni mutamento istituzionale sarebbe il risultato della comple­mentarietà tra determinate regole e concezioni di identità ed i comportamenti individua­li. Esso rappresenterebbe il risultato di molteplici e progressivi livelli di equilibrio path dependent (cioè determinati dall'esistenza di equilibri precedenti). (Marche Olsen 1995: p. 42 ed. ital.).

Nella governance multilivello della politica di coesione e della politica regionale co­munitaria, ad esempio, la capacità di un livello di governo di modificare la struttura dei condizionamenti istituzionali di un altro livello è molto bassa. Fattori legati al fenomeno della path dependency fanno si che coesista in questa arena di policy un mix di stili di go­verno (dalle gerarchie al negoziato) che possono, da una parte evitare impasse decisiona­li e, dall'altra, far si che un livello possa apprendere dall'altro a seconda della struttura dei condizionamenti istituzionali di livello nazionale e sub-nazionale.

La logica dell'appropriatezza, cui abbiamo detto rispondono le istituzioni, ci induce a pensare che il mutamento istituzionale indotto dall'europeizzazione della policy si può verificare soltanto se questo non implica un mutamento del "nocciolo duro" delle tradi­zioni amministrative nazionali, ma richiede soltanto dei cambiamenti marginali. Passare, ad esempio, da un'amministrazione di tipo gerarchico, sovraordinato rispetto agli inte­ressi privati, ad un'organizzazione aperta che interagisce sulla base di criteri negoziali

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ché alterano il gioco politico e minano le basi di potere (redistribuendo le posizioni al­l'interno delle coalizioni e dei networks) dei burocrati.

In alcune nazioni la forte politicizzazione e la mancanza di autonomia della buro­crazia fa si che il principale problema che ostacola l'implementazione efficiente delle po­litiche pubbliche non sia la carenza di una cultura amministrativa capace di rispondere al­le domande sociali, quanto piuttosto quello di un sufficiente isolamento dalle pressioni sociali disarticolate ed individuali.

L'innovazione in questo caso andrebbe nel senso d'aumentare l'autonomia e la re­sponsabilità (accountability) dei burocrati capaci di trovare nella deontologia professio­nale le ragioni di giustizia e di reputazione tali da soddisfare necessità, se non domande, collettive, non individuali e clientelari.

Qui le istituzioni, con la loro logica dell'appropriatezza, che si fonda sulla nozione di identità e su valutazioni morali del comportamento umano, giocano un ruolo determi­nante sia nel favorire sia nell'ostacolare l'innovazione.

I networks coinvolti nel policy-making delle politiche di coesione e sviluppo regio­nale, attraverso meccanismi di scambio che tengono conto della politicizzazione delle strutture amministrative, possono favorire l'innovazione, puntando da una parte alla pro­fessionalizzazione dei burocrati e, dall'altra, alla aggregazione delle domande sociali.

L 'implementazione nel policy-making comunitario

Abbiamo visto nel paragrafo precedente come il concetto di policy network ci possa aiutare a descrivere e spiegare come, nell'ambito della teoria della multilevel goveman­ce si sviluppi il processo di policy-making. Ora, al fine evidenziarne bene l'utilità de­scrittivo-esplicativa per quanto attiene alla fase di implementazione della policy è neces­sario esplicitare quali siano gli assunti fondamentali su cui tale concetto si fonda. (Rho­dese Marsh, 1992: pag. 251).

Il primo dei presupposti di base del concetto di policy network, particolarmente uti­le a dare spiegazione del processo di implementazione, è quello dello scambio: cioè una concettualizzazione del potere basato sullo scambio.

Lo scambio, sociale, politico o economico, implica un trasferimento volontario di ri­sorse tra attori individuali o collettivi sulla base di qualche tipo di reciprocità. Come ta­le, lo scambio rappresenta un modo per risolvere un problema comune ad ogni attore che necessita di cooperare con altri al fine di realizzare i suoi obiettivi ed interessi. Un policy network è, dunque, dato da un insieme di organizzazioni dipendenti dalle reciproche ri­sorse. (Rhodes, Bache e George, 1996: p. 368). Nel quadro di questi rapporti di interdi­pendenza i legami tra le organizzazioni dipendono dai seguenti fattori:

l. Ogni organizzazione ha bisogno delle (dipende dalle) risorse delle altre organizzazioni; 2. Al fine di raggiungere i loro obiettivi le organizzazioni debbono scambiare risorse;

3. La coalizione dominante all'interno delle organizzazioni si avvale di una certa dis­crezionalità nel definire quali relazioni sono ritenute cruciali e quali risorse debbano essere ricercate;

4. La coalizione dominante impiega strategie, all'interno delle regole del gioco presta­bilito, al fine di regolare il processo di scambio;

5. La variazione nell'ambito del grado di discrezionalità dipende dai reali obiettivi e dal potere relativo delle organizzazioni che interagiscono;

6. Il potenziale di potere relativo (le risorse di potere) è il prodotto delle risorse disponi­bili a ciascuna organizzazione, jelle regole del gioco e del processo di scambio tra or­ganizzazioni.

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Il legame tra istituzioni europee, governi centrali e sub-nazionali, gruppi di interes­se ed agenzie indipendenti struttura un gioco in cui tutti i partecipanti manovrano per ot­tenere vantaggi.

Ognuno usa le proprie risorse per aumentare la sua capacità di influenza sui risulta­ti della policy, mentre tenta di evitare di divenire dipendente da altri giocatori.

Entrare a far parte del policy network significa prendere parte ali' allocazione autori­tativa delle risorse e dei valori, quindi esercitare potere politico. La struttura dei legami tra le organizzazioni all'interno del policy network può variare da strettamente integrata (tightly integrated), è il caso della policy community, a blandamente connessa (loosely coupled) nel caso degli issue networks. Differenze nella distribuzione delle risorse all'in­terno del network spiegano perché alcuni membri sono più potenti di altri. Differenze nel­la distribuzione di risorse tra i networks spiegano perché alcuni networks sono più effi­cienti ed efficaci di altri.

Le policy communities sono costituite da networks di pochi membri, in cui domina­no interessi economici o professionali e le risorse sono concentrate. Gli issue networks hanno molti membri e le risorse sono largamente distribuite.

Di conseguenza le policy community hanno più probabilità di essere efficaci nel per­seguimento dei propri obiettivi, essendo basate su uno scambio continuativo di risorse che rafforza la condivisione di valori di fondo sulla policy.

Gli issue networks hanno relazioni più blande, di solito di tipo consultativo per lo scambio di informazioni (ibidem: p. 370).

Come vediamo il concetto di policy network fornisce spiegazioni a medio raggio sul processo di policy e sulla struttura d'intermediazione degli interessi, quindi sul processo di interazione tra gruppi d'interesse. Questo concetto che fa parte della strumentazione delle teorie dello scambio, ha la necessità, tuttavia, di essere inserito in una più ampia ed astratta teoria istituzionale, che spieghi il processo di policy-making come risultato oltre che di fattori interni (la struttura della dipendenza dalle risorse delle organizzazioni), an­che da fattori esterni, quale il contesto istituzionale economico e politiconi cui abbiamo parlato.

L'europeizzazione delle policies può alterare la struttura di networks nazionali in­fluendo sulla distribuzione interna delle risorse e, quindi, sul loro grado di interdipen­denza.

La Commissione europea cercando di legare a sé i governi sub-nazionali, laddove vi riesce, li inserisce nel proprio "spazio di policy" (Majone, 1989), col risultato di aumen­tare la propria influenza e per diminuire quelle degli stati-nazione.

Le varie riforme dei fondi strutturali non hanno rafforzato uniformemente il potere delle regioni a spese dei governi centrali, perché i networks nazionali hanno diverse strut­ture di interdipendenza dalle risorse. I risultati della policy, quindi, variano tra stati mem­bri e tra regioni.

Ecco che occorre prestare molta attenzione al processo d'implementazione per spie­gare il diverso impatto regionale di una stessa policy comunitaria.

Qui bisogna analizzare la natura del processo di scambio che sta alla base delle iute­razioni all'interno dei networks, in particolare tra la Commissione europea, i governi cen­trali degli stati membri e gli attori politici sub - nazionali. La relazione di scambio, nel caso della politica comunitaria di sviluppo regionale, emerge come risultato del fatto che la Commissione non può implementare direttamente la policy. Essa cofinanzia i progetti portati avanti dagli attori sub-nazionali. Questi scambiano la fornitura di un parco pro­getti e di informazioni e conoscenze sulle situazioni socioeconomiche locali con un flus­so di risorse atte a finanziare questi progetti. A tal fine, essi accettano una strutturazione dell'arena di policy (la metapolicy) e la preponderanza nella formulazione della policy, e nell'allocazione originaria delle risorse, da parte della Commissione. Questa rappresenta

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un alleato che può consentire ai governi sub-nazionali di aumentare il proprio peso poli­tico a scapito dei governi centrali.

Gli altri presupposti su cui si basa I' implementation research, che utilizza lo stru­mento analitico del policy network e che getta le basi per una teoria dell'implementazio­ne come contratto incompleto (McAleavy, 1995, p.22), sono: quello dell'opportunismo, secondo cui gli attori e probabile che adottino strategie volte a perseguire, anche in ma­niera che contraddice gli impegni formalmente assunti, i propri interessi, in particolare si suppone che faranno un uso strategico delle informazioni in loro possesso per utilizzarle come risorsa a proprio vantaggio. Perché si verifichino comportamenti opportunistici e semplicemente necessario che gli obiettivi reali delle varie organizzazioni di un network, in una determinata arena policy, siano divergenti. Se ci atterremo al concetto di policy in senso stretto, quale programma di azione finalizzato al raggiungimento di certi obiettivi, allora dobbiamo ammettere che spesso, e senz'altro nel caso della politica comunitaria di sviluppo regionale, tali obiettivi sono spesso vaghi e imprecisi è (La Spina, 2003). Gli obiettivi formalmente espressi e quelli realmente perseguiti dai vari attori politici non co­incidono quasi mai. Tuttavia un'azione politica senza alcuna giustificazione ed alcun fi­ne dichiarato apparirebbe assurda o difficile da comprendere (Hogwood 1987: p.4).

La caratteristica dominante di ogni arena di policy è rappresentata dal fatto che in es­sa coesistono varie organizzazioni con interessi differenziati e separati e con propri obiet­tivi e strategie. Il problema di motivare gli attori pubblici ad assumere comportamenti in linea con gli obiettivi statuiti formalmente nella fase di formulazione della policy è il pro­blema di allineare i differenti interessi.

La funzione simbolica di alcune politiche consiste proprio nel fatto che gli obiettivi originali statuiti formalmente non hanno alcun peso per il decorso effettivo della policy. Nel caso della politica comunitaria di coesione e sviluppo regionale, anche se gli obietti­vi programmati riguardo alla lotta alla disoccupazione ed allo sviluppo economico rive­stono una certa importanza per tutti i partecipanti al policy network, la nostra esperienza ci dice che almeno alcuni attori (soprattutto sub-nazionali) agiscono opportunisticamen­te per il perseguimento di obiettivi diversi. Nel caso del Mezzogiorno italiano la reale po­litica di sviluppo, nonostante le procedure di programmazione di obiettivi e strategie d'intervento sembra essere rimasta molto simile alla politica nazionale d'intervento pree­sistente a quella comunitaria. Ciò a causa dell'esistenza di policy networks a carattere prevalentemente clientelare (incapaci di prendere in considerazione i veri problemi di sviluppo di regioni che soffreno di un alto livello di disoccupazione o "maloccupazione") e poco propense all'innovazione di policy.

L'opportunismo degli attori sul campo fa si che i programmi allestiti per intervenire in una determinata regione non possano essere considerati come vincolanti, come un con­tratto completo (che specifichi anticipatamente ed in maniera esaustiva le azioni da in­traprendere da parte di ogni partecipante in ogni possibile evenienza). L'incompletezza degli accordi raggiunti, d'altra parte, è obbligata dalla razionalità limitata degli attori che partecipano al processo di policy.

L'ultimo presupposto utilizzato nello studio dell'implementazione è proprio quello della razionalità limitata. Esso fa riferimento alla famosa teoria elaborata da Herbert Si­mon negli anni '50. Partendo dalla definizione di decisione come scelta fra varie alterna­tive e rilevando come una scelta razionale implicherebbe la soluzione di alternative su­scettibili di realizzare gli obiettivi precedentemente fissati, Simon fa notare che I' esisten­za di scopi o di obiettivi all'interno delle organizzazioni è di fondamentale importanza, poiché attribuisce significati al comportamento amministrativo (Simon, 1967). Quindi, il comportamento amministrativo è intenzionale se è guidato da obiettivi. Tuttavia, Simon evidenzia come può non aver senso parlare di obiettivi di un'organizzazione (così come di una policy). Se una policy è ridefinita e riformulata nel momento in cui viene messa in

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opera, allora è più utile far riferimento agli obiettivi degli attori che la attuano, più che a quelli formalmente espressi. Inoltre, è impossibile considerare tutte le linee d'azione al­ternative durante il processo decisionale. Così il decisore che sceglie una determinata al­ternativa non intende massimizzare i propri valori, ma semplicemente essere soddisfatto.

La riflessione e la ricerca empirica sui meccanismi cognitivi e sociali delle scelte umane ha permesso cosi lo sviluppo di un nuovo modello di razionalità: una razionalità limitata e relativa, più modesta e realista che consente di rinunciare alle illusioni del mo­dello classico di razionalità onnisciente. Questo modello di razionalità sottolinea il fatto che il comportamento umano è intenzionalmente razionale, ma può esserlo solo limitata­mente. Gli attori politici possono solo parzialmente perseguire linee d'azione designate a conseguire i propri obiettivi. Non si può pensare che una politica pubblica venga dise­gnata da un decisore onnisciente, per cui la discrezionalità degli attori coinvolti nella fa­se dell'implementazione non solo è inevitabile, ma addirittura necessaria (Majone e Wil­davsky, 1979: p.189).

I due presupposti dell'opportunismo e della razionalità limitata producono il terzo presupposto nell'analisi del processo di implementazione: quello dell'interazione incre­mentate e quindi fondamentalmente imprevedibile. Questi presupposti spiegano perché un contratto, inteso come accordo che riconosce il reciproco interesse tra attori interdi­pendenti, non può essere completo, cioè prevedere tutte le evenienze e costringere gli at­tori are stare in linea con le previsioni originarie e a non modificare il proprio comporta­mento, adeguandolo alle contingenze ambientali.

Occorre, dunque, passare adesso in rassegna le principali teorie sull'implementazio­ne per soffermarci sulla teoria del contratto incompleto

Le diverse prospettive nella ricerca sull'implementazione

Prima di presentare i principali approcci allo studio della fase d'implementazione di una politica pubblica, è necessario descrivere più approfonditamente il concetto di public policy.

Tale concetto non è certamente di facile definizione. Esso può essere visto da alme­no due diverse prospettive: una ne mette in risalto il carattere normativa, l'altra è inte­ressata alle sue potenzialità esplicative.

Questi punti di vista sono diversi perché partono da esigenze differenti: l'esigenza del politico e dell'amministratore di fornire o di far riferimento rispettivamente ad un programma d'azione e ad un quadro normativa che dia un senso ed una giustificazione alle decisioni da adottare; e l'esigenza del ricercatore o dell'analista di collegare e spie­gare il comportamento di vari attori pubblici e privati che interagiscono nelle varie fasi del policy-making, al fine di rendere conto dell'evoluzione di una certa policy.

Da una parte, dunque, per public policy s'intende "il prodotto dell'attività, di un'au­torità provvista di potere pubblico e di legittimità istituzionale" (Meny e Thoenig 1991: p. 105). Tale prodotto consiste in uno schema d'indirizzo per l'intervento delle pubbliche autorità in un settore di loro competenza. In tal senso una public policy non è altro che un programma d'azione finalizzato alla ricerca di soluzioni a problemi percepiti come rile­vanti per la collettività (la comunità politica). In questo caso la policy si distingue netta­mente dalla politics intesa come lotta per il potere, come competizione tra partiti politici, gruppi d'interesse, categorie sociali e singoli attori al fine di ricoprire funzioni pubbliche (provviste di autorità) ed esercitare influenza nei vari processi decisionali volti all'allo­cazione autoritativa dei valori.

D'altra parte, dal punto di vista descrittivo-esplicativo una policy non è altro da "una costruzione teorica formulata dal ricercatore come strumento euristico dell'azione politi-

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ca" (Majone, 1980). Il ricercatore effettua un'operazione di backward map[!ing (Elmore, 1978), cioè di ricostruzione della rete di decisioni ed attori che allocano valori e risorse in un particolare settore d'intervento. Egli parte dall'identificazione di un determinato ambito problematico di rilevanza collettiva (es. la politica sanitaria, scolastica, ambien­tale etc.), ripercorrendo a ritroso l'evoluzione della policy, cominciando dal punto in cui le decisioni pubbliche interagiscono con le scelte private (cioè dall'impatto sociale della policy), al fine di tracciare una mappa descrittiva del percorso della policy che lo aiuti a comprenderne l'evoluzione.

Da questo punto di vista, però, insorgono diversi problemi metodologici, il più im­portante dei quali riguarda lo studio delle inazioni volontarie di una pubblica autorità. Com'è possibile studiare la non-decisione?

Quello che viene qui sostenuto è che per dare spiegazione di un fenomeno comples­so qual è una politica pubblica, bisogna prestare attenzione sia alle questioni di policy (in quanto programma d'azione) sia alle questioni di politcs (in quanto lotta per il potere). Ora le non decisioni che attengono alla sfera della politics sono più facilmente spiegabi­li (Edelman, 1964) attraverso deduzioni sul gioco degli interessi. Si può risalire alle ina­zioni volontarie quando queste assumono la forma di decisioni implicite volte ad impe­dire che certi motivi di malcontento, o certe issues contrarie al sistema di credenze do­minante, si sviluppino in questioni da inserire nell'agenda politica e, quindi, abbiamo la possibilità di divenire questioni di policy (alterando gli equilibri di potere esistenti).

Per quanto riguarda le questioni di policy, le non-decisioni possono essere analiz­zate facendo riferimento alle teorie causali che ispirano la "filosofia" d'intervento pub­blico. Qualsiasi teoria causale esclude una serie di possibilità e nega la validità delle teo­rie alternative. Quello che possiamo chiamare paradigma di policy fa esplicito riferi­mento ad un sistema di credenza elaborato all'interno dellapolicy community, che a sua volta trae ispirazione dalle c.d. epistemic comunities (Haas, 1992). Operata una scelta di fondo su valori e principi, il discorso sui mezzi non può far altro che riferirsi ai fini con­tenuti nelle opzioni di principio adottate, le quali escludono come proponibili alcune li­nee d'azione.

Individuare, dunque, il paradigma dominante in un particolare settore di policy ci porta a comprendere perché non vengono prese in considerazione, o vengono eliminate, alcune delle possibili alternative a disposizione del decisore pubblico.

Certamente la separazione proposta tra le esigenze di politics e quelle di policy ri­sponde ad una necessità puramente analitica (rappresenta uno strumento euristico). Nel­la realtà fattori cognitivi (teorie ed idee) e fattori politici (interessi di parte) si intrecciano codeterminando l'evoluzione della policies in modo da produrre ideologie: sistemi di credenza elaborati allo scopo di tutelare specifici interessi.

È per questo che lo sforzo analitico dei policy studies presenta innanzitutto un forte carattere demistificatore degli apparati ideologici. I concetti analitici rivestono a tal fine una considerevole importanza chiarificatrice: essi non descrivono la realtà, ma fornisco­no i mezzi per interpretada.

Nell'identificazione di un ambito problematico percepito avere rilevanze collettiva, il ricercatore non si trova mai di fronte ad un problema chiaramente definito, in cui vie­ne operata in maniera inequivocabile una distinzione tra fini e mezzi, ma piuttosto di­nanzi e teorie del cambiamento sociale che giustificano un adattamento reciproco ed una definizione degli uni (i fini) in funzione degli altri (i mezzi). È per questo che è necessa­rio distinguere analiticamente i problemi "intellettuali" da quelli pratici" che riguardano una policy. Uno dei compiti fondamentali dello studio delle politiche pubbliche è appun­to quello di saper identificare la teoria del cambiamento sociale che ispira una determi­nata policy e definisce il problema sociale da risolvere. La definizione del problema con­tiene in sé anche il tipo di soluzione da ricercare, e nella maggior parte dei casi i proble-

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mi vengono affrontati attraverso la loro ridefinizione. I problemi non sono lì per essere individuati e risolti: debbono essere formulati e definiti e la definizione dei problemi è parte vitale della costruzione della realtà.

Ora, seguendo lo schema tracciato da Gunnar Sjoblom (1984), siamo di fronte ad un problema intellettuale nel momento in cui esiste una discrepanza tra ciò che si sa e ciò che si vorrebbe sapere (un problema di ordine conoscitivo, che esige delle risposte). Si è in presenza di un problema politico quando esiste una discrepanza tra lo stato di co­se attuali e quello che si desidera (ciò che viene richiesto non è una risposta, ma un'a­zione). È chiaro, da quanto detto prima, che la definizione del problema intellettuale de­termina il tentativo di soluzione del problema pratico. Inoltre, è necessario distinguere analiticamente tra problemi sociali, problemi di policy e problemi di politics. Occorre, cioè, domandarsi da chi è avvertito il problema e perché: quali gruppi sociali domanda­no un intervento pubblico e da cosa nasce il problema sociale? (ovvero la discrepanza tra le reali condizioni di vita degli individui e gli standard attesi riguardo alle condizio­ni di vita); chi si fa portatore di questioni di policy?, (cioè di problemi attinenti la rea­lizzabilità di un risultato desiderato, l'individuazione dei mezzi per il raggiungimento degli obiettivi formalmente dichiarati normativamente prefissati); quali sono gli attori rilevanti che interagiscono in una determinante arena politica e di quali risorse dispon­gono nella contesa per le posizioni di potere? (ovvero, quali sono i giochi di politics che influenzano il policy-making? Quali strategie e tattiche i contendenti autorità e risorse pubbliche mettono in atto?).

Lo sforzo analitico si manifesta, dunque, attraverso modalità diverse di selezione dell'oggetto di studio e di scelta degli strumenti d'analisi. Esso può acquisire diverse pro­spettive che dipendono sia dal punto di vista di chi è interessato all'analisi (ricercatore o decisore-operatore), sia dal suo intento (descrittivo-esplicativo o prescrittivo, cognitivo o pratico-operativo), sia dal livello dell'analisi (socio-psicologico, strutturale-istituzio­nale o sistemico ecologico), sia infine, dalla dimensione (sociale, di policy o di politics) del fenomeno oggetto di studio.

Un'ulteriore differenza nella scelta degli strumenti analitici dipende dalla fase del processo di policy (metapolicy, formulazione, valutazione dell'implementazione o valu­tazione d'impatto) oggetto di studio e dalle rilevanza che si attribuisce a ciascuna di que­ste fasi nel code terminare l'andamento della policy.

Così nello studio della fase dell'implementazione si possono distinguere due ap­procci: l'approccio top-down e quello bottom-up. Il primo assume di solito una prospet­tiva prescritti va e ritiene preponderanti, per la spiegazione di ciò che accade nella fase di messa in opera, le decisioni adottate nella fase di formulazione della policy e, quindi, at­tribuiste un valore operativo ai problemi che insorgono durante l'implementazione. L'approccio bottom-up, viceversa, predilige una prospettiva descrittiva ed evidenzia lari­levanza della dimensione politica delle attività di messa in opera.

L'approccio top-down

La relazione tra i risultati attesi e quelli effettivamente conseguiti costituisce il pro­blema di fondo degli studi sull'implementazione. È una questione antica, da sempre pre­sente nella storia politica: Come fare in modo che le decisioni del principe vengano ri­spettate? Come far sì che gli obiettivi in che si pone vengano raggiunti? Perché i piani prestabiliti raramente vengono eseguiti così come ci si aspetta?

La visione tradizionale della questione distingue tra attività politiche ed ammini­strative, separando nettamente le due sfere d'azione: la politica decide e l'amministra­zione esegue. Viene riconosciuta una certa discrezionalità alla burocrazia nel tradurre in

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pratica l'indirizzo politico, statuito in documenti formali con valore legale, ma non può essere riconosciuto il fatto che le attività amministrative possano trasformare (anche ra­dicalmente) gli interventi politici e produrre effetti imprevisti o addirittura perversi.

Da questo punto di vista eseguire significa riconoscere il primato dell'autorità ge­rarchica. Secondo la logica del potere razionale-legale (che informa di sé l'attività am­ministrativa di uno stato di diritto) attuare una politica significa attivare i circuiti di con­trollo gerarchico che bastano da soli ad assicurare l'esecuzione degli atti previsti e, quin­di, il conseguimento degli obiettivi desiderati. Il criterio adottato per valutare l'attuazio­ne-esecuzione di un dispositivo normativa è basato sulla verifica di legittimità delle pro­cedure, non sull'efficacia dell'azione

Il fallimento di molte politiche pubbliche (specie nel settore del Welfare), nonostan­te l'impiego di notevoli mezzi, risorse e conoscenze, ha portato a riconsiderare il punto di vista sulla pubblica amministrazione e ha dato inizio agli studi sull'implementazione.

Gli studi pionieristici sull'implementazione delle politiche pubbliche (Pressman e Wildavsky, 1973) sostengono, quindi, che il processo che trasforma la policy in azione merita di essere analizzato a fondo, perché non si può dare per scontato che esso sia sem­plice ed automatico. Tuttavia, questi studi mantengono la visione secondo cui il passag­gio dalla fase decisionale a quella delle messa in opera si può avviare trasformando i fini in mezzi e sostituendo la politica con la tecnica, attraverso forme razionali di gestione che perseguono il criterio dell'efficacia. Quest'approccio minimizza la portata dell'attività di tipo politico (composizione di interessi conflittuali) nella fase di messa in opera e ne evi­denzia problemi di controllo e di coordinamento dell'azione.

Seguendo l'approccio top-down il ricercatore tenta di individuare un parametro di ri­ferimento in base a cui condurre la propria analisi. Tale parametro è rappresentato dagli obiettivi indicati dal programma o dallo "schema normativa d'intenzioni" (Meny e Thoenig 1991; p.189) a cui sono imputabili gli atti e gli effetti di una politica pubblica. Di conseguenza l'attenzione si accentra sulla congruenza tra le modalità di attuazione prevista dal programma normativa e quelle concretamente poste in essere durante la fase dell'implementazione. L'intervento del ricercatore è quello di valutare l'eventuale deficit d'implementazione, cioè lo scarto tra obiettivi indicati ed effetti realmente prodotti, do­vuto al mancato rispetto da parte dei policy makers di alcune condizioni di peiformance necessarie per assicurare il conseguimento degli obiettivi. Così questo tipo di approccio presenta di solito una lista di criteri che possono rendere efficace il processo d'imple­mentazione.

L'approccio top-down ha cambiato il modo di condurre gli studi sul processo politi­co-amministrativo sotto un duplice rispetto: da una parte, ha evidenziato la complessità del rapporto programma-azione (policy come programma, amministrazione come azio­ne) inerente a tutti i contesti interorganizzativi; dall'altra ha attirato l'attenzione sull'im­portanza delle teorie causali su cui si basano tutte le policies. Pressman e Wildavsky de­finiscono, infatti, la policy come un ipotesi contenente un nesso di causalità fra condizio­ni iniziali e conseguenze previste. Che sia esplicitamente espressa o meno, la policy con­tiene l'indicazione di una catena causale di condizioni necessarie e di conseguenze atte­se. Se la variabile dipendente dell' implementation research è costituita dai policy outco­mes, la variabile indipendente chiave è da identificare nella teoria causale implicita nella policy. Se la teoria causale si basa su presupposti ed assunti sbagliati (poco corretti) allo­ra lapolicy è destinata a fallire. L'implementazione diviene allora lafase di controllo del­le ipotesi contenute nella policy. È evidente il carattere fortemente razionalista di tale ap­proccio. Esso è stato paragonato alla teoria taylorista del management scientifico, poiché vede il policy-making essenzialmente come un processo razionale in cui si passa dalla de­finizione di un problema, alla identificazione degli obiettivi, alla valutazione delle alter­native, fino alle messa in opera del programma.

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Naturalmente, questo tipo di approccio, così come le teorie dell'organizzazione che ne derivano, è stato fortemente criticato. La concezione della policy che ne emerge è quella di un programma d'azione che, se è in grado di superare le difficoltà insiste nella fase della formulazione, e riesce ad elaborare un attendibile teoria causale, allora (predi­sposti i mezzi per la sua attuazione) potrà essere implementato in maniera efficace. Tut­tavia, non è così ovvio che i responsabili della messa in opera riconoscano un'entità de­finibile come policy e siano automaticamente disponibili a seguire le linee di attuazione da esse indicate.

L'identificazione della policy emerge realmente attraverso tutto il complicato pro­cesso del policy-making, non solo nella fase di formulazione, ma include anche la fase che convenzionalmente viene descritta come implementazione o messa in opera. La di­stinzione in fasi di policy-making rappresenta un espediente euristico del ricercatore, na­sce quindi da una necessità analitica. Essa non riproduce il reale andamento del processo di policy. In realtà non esiste un processo lineare, ed unidirezionale, ma una fase influen­za l'altra secondo una relazione di tipo cibernetico o circolare. Ogni partecipante a que­sto processo può in qualunque momento intervenire su ogni fase del processo stesso an­che se formalmente non è di sua competenza.

Lo stesso Wildavsky, nella seconda edizione del suo lavoro sull'implementazione, puntualizza che seppur è necessario avere un obiettivo nei confronti del quale valutare l'implementazione, tale obiettivo e le azioni di messa in opera fanno parte di un proces­so interattivo in cui è difficile stabilire cosa viene prima: mentre le policies indubbia­mente danno forma alle azioni, tuttavia esse sono continuamente trasformate dalle azio­ni che le implementano, poiché queste ultime alterano simultaneamente risorse ed obiet­tivi (Majone e Wildavsky, 1979, p.184).

Il processo di policy, allora deve essere visto come un insieme di decisioni interre­late" (Ham e Hill, 1986, p.l33), ovvero come un processo continuo di concretizzazione della policy, in cui può essere difficile determinare dove finisce il processo di decisione e cominci quello di attuazione.

L'approccio bottom-up

Sulla scorta delle precedenti considerazioni, alcuni studiosi del processo d'imple­mentazione hanno rivolto una critica radicale all'approccio top-down, ribaltando il loro punto di vista ed adottando una prospettiva che è stata definita bottom-up.

Tali autori invece che concentrarsi sulle condizioni che possano consentire di guida­re la fase della messa in opera in modo da raggiungere i risultati statuiti dai decisori di vertice, hanno cominciato a prestare attenzione "alle interazioni strategiche tra una mol­teplicità di attori all'interno di un policy network" (Sabatier, 1986: p.33). Essi hanno identificato una serie di punti deboli dell'approccio top-down. Principalmente queste cri­tiche mettono in risalto il fatto che spesso i programmi contenendo una pluralità di obiet­tivi, anche in parziale contrasto tra loro, sono spesso generici o fortemente ambigui. Ne deriva che gli esecutori godono di un margine di discrezionalità molto superiore a quello supposto dall'approccio top-down.

Barrette Hill (1982) notano come nella maggior parte dei casi le politiche pubbliche si basano su accomodamenti fra posizioni in contrasto. È il compromesso che spesso permette agli attori politici di formulare delle policies. Tale compromesso nasconde i conflitti esistenti tra i diversi soggetti coinvolti nella fase della formulazione della poli­cies. Conflitti che sono destinati a riemergere nella fase di implementazione. Tali conflit­ti possono riguardare l'esistenza di norme, valori e prospettive oggettivamente in contra­sto fra di loro. Il compromesso permette in questo caso ai decisori politici di guadagnare

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alla loro causa attori ed interessi contrari ad un certo programma d'azione, accordando loro delle concessioni. In realtà i conflitti sono solo temporaneamente risolti e coloro che accettano i compromessi sono pronti a far valere le proprie ragioni lungo tutto il proces­so d'implementazione della policy. I compromessi, e dunque i negoziati, sono destinati a riprodursi, dunque anche nella fase della messa in opera, la quale mantiene così un carat­tere spiccatamente politico.

In sintesi l'approccio bottom-up sostiene che l'intervento legislativo è di solito suf­ficientemente vago e la capacità di controllo gerarchico, all'interno delle organizzazioni, sufficientemente debole da permettere che i funzionari in prima linea (street level offi­cials) nell'implementazione si avvalgano di un altissimo grado di discrezionalità (Saba­tier, 1991: p.259).

È per questo che, secondo l'approccio bottom-up, il problema essenziale dell'im­plementazione è un problema politico è, quindi, l'enfasi viene posta sulle capacità di management del conflitto e del consenso (Rhodes e Marsh, 1992: p.7).

L'approccio bottom-up segue dunque, l'evoluzione della sociologia dell'organizza­zione ed il suo rifiuto della teoria taylorista e del modello di razionalità di tipo olimpico (assoluto). Esso condivide piuttosto il punto di vista incrementate di Charles Lindblom, che accetta la dimensione politica insita nella fase dell'implementazione e non vede in questa dimensione alcuna patologia del processo di policy-making. Per Lindblom ( 1965) piuttosto l'aggiustamento incrementate derivante dalle pressioni pluralistiche sui policy makers rappresenta la fisiologia, la normale modalità di funzionamento del processo di policy procede attraverso comparazioni limitate successive, cioè attraverso piccoli ag­giustamenti delle pratiche sperimentate che implicano l'analisi simultanea di fatti e valo­ri, dei mezzi e dei fini. Una buona policy, allora, non è quella che massimizza i valori del decisore, come postula il modello razionale, ma quella che garantisce l'accordo tra gli in­teressi coinvolti. Questo modello ha un valore sia descrittivo, sia prescrittivo: propone l'arte di arrangiarsi (il muddling through) che permette di evitare gravi errori ricorrendo a cambiamenti incrementali. Tramite il concetto di reciproco aggiustamento partigiano (partisan mutai adjustment), egli spiega come sia possibile coordinare l'azione di una molteplicità di attori in assenza di un coordinatore centrale. All'interno di questa logica incrementalista assumono, dunque, molta rilevanza le pratiche della negoziazione e del­la contrattazione. La fase della messa in opera, attraverso pressioni, negoziati e mercan­teggiamenti non è altro che la continuazione, in forma diversa, della lotta politica.

Secondo l'approccio bottom-up, quindi, l'implementazione consiste in una com­plessa serie di decisioni negoziate che riflettono le preferenze e le risorse dei partecipan­ti al processo di policy-making. Il successo di una policy, allora, non può essere giudica­to facendo riferimento ad una semplice dichiarazione d'intenti contenuta in atti formali, ma può solo essere definito relativamente agli obiettivi di ciascuna parte nel processo di negoziazione (Elmore, 1978).

La domanda alla base dell'analisi non si riferisce più alla misura in cui le prescri­zioni formalmente enunciate vengono rispettate, bensì all'impatto della policy sul siste­ma di riferimento. L'attenzione si concentra, quindi, sui problemi di policy e sull'effica­cia con cui vengono gestiti. Tuttavia, dal punto di vista metodologico, è bene sottolinea­re l'elevata arbitrarietà del processo di analisi scelto dal ricercatore, il quale nel processo di backward mapping può tendere a privilegiare alcuni fattori esplicativi come più rile­vanti rispetto ad altri.

In particolare, l'approccio bottom-up rischia di perdere di vista il ruolo del decisore politico di vertice nell'influenzare preferenze, obiettivi e strategie degli attori che entra­no in gioco nella fase dell'implementazione. Tale decisore, agendo in quella che è stata definita la fase di metapolicy, ha la possibilità di strutturare il campo d'azione dei livelli decisionali inferiori. Egli, manipolando attraverso le risorse di cui dispone le regole del

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gioco, può creare una struttura di vincoli e incentivi capace di orientare gli esiti del pro­cesso di negoziazione e contrattazione a vantaggio delle proprie preferenze. Come la pre­sente argomentzione tenta di dimostrare, gli attori che partecipano alla fase di metapo­licy, la quale stabilisce le caratteristiche delle varie fasi della policy (fornisce una prima definizione del problema delimitando l'ambito d'intervento, stabilisce quale forma deve assumere l'intervento, chi è titolato a contribuire, quali regole presiedono all'interazione fra gli attori, su quali risorse potranno contare etc.) si impegnano a configurare una po­licy in cui potranno fare valere al meglio le risorse di cui dispongono e gli obiettivi che si propongono.

Tale strutturazione del contesto in cui verranno successivamente prese le decisioni sull'andamento della policy è un tipico intervento top-down, molto comune nelle poli ti­che pubbliche, ma l'analisi del suo impatto sugli esiti della policy deve essere condotta attraverso una ricostruzione accurata del modo in cui la metapolicy modifica gli equilibri di potere all'interno del sistema d'attuazione. Tali modifiche riguardano i mezzi e non i fini del processo di policy-making e quindi non possono essere individuate facendo rife­rimento ai fini espliciti e formalmente dichiarati, ma attraverso l'analisi dei fini implici­ti, delle agende nascoste, dei vari attori coinvolti nel policy-making.

Spesso il ricorso da parte dei politici di vertice a direttive astratte, ambigue ed ope­rativamente vàghe riflette la necessità di trovare un compromesso tra posizioni contra­stanti e la volontà di delegare decisioni controverse alla fase dell'implementazione. Que­sta circostanza se da una parte rafforza il ruolo degli esecutori, dall'altra estende il gioco politico fino ai livelli esecutivi, rendendo necessaria l'analisi delle reali motivazioni che spingono gli attori dell'implementazione all'azione.

Il decisore politico, rifugiandosi nell'ambiguità, potrà sempre sostenere di aver fat­to il possibile per risolvere il problema sociale in questione, ma che le resistenze buro­cratiche contrarie al cambiamento che la policy propone sono troppo forti. D'altra parte, in un periodo di restrizione della spesa pubblica egli potrà decentrare le decisioni e, quin­di, le responsabilità sulla spesa ai livelli inferiori (pur allocando competenze e risorse in modo tale da favorire esiti confacenti alle sue esigenze).

In conclusione, se l'approccio top-down concentra l'attenzione sul problema del co­ordinamento del comportamento dei vari attori in linea con gli obiettivi del decisore po­litico centrale, l'approccio bottom-up pone l'enfasi sulle motivazioni sottostanti le deci­sioni degli esecutori (o per meglio dire degli attori politici di livello locale).

Oltre la dicotomia top down l bottom up

L' implemention rese are h non può sottrarsi al compito di verificare in quale misura i policy makers siano in grado di conseguire gli obiettivi che si prefiggono. D'altra parte, quali siano i reali scopi di una politica pubblica, e le sue conseguenze in termini di allo­cazione delle risorse e dei benefici tra individui e gruppi delle società, può essere verifi­cato solo tramite l'analisi delle decisioni o delle inazioni che hanno luogo nel momento della messa in opera di una policy.

In cosa effettivamente consista una politica pubblica, quale sia la reale distribuzione del potere politico, dei costi e dei benefici sociali può essere solo ricostruito consideran­do l'intero processo del policy-making, non solo la fase della formulazione della policy o soltanto la fase della messa in opera.

Sotto il profilo metodologico, quindi, oltre a porsi la necessità di un'integrazione dello studio delle varie fasi, si pone l'esigenza della complementarietà dei due approcci prima considerati. I due approcci mettono in luce differenti stadi ed elementi di un unico processo di policy e sarebbe quindi più produttivo per l'analisi selezionarli in base alle

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necessità della ricerca, utilizzando le intuizioni ed i punti di forza analitica di entrambi, che porsi unilateralmente dalla parte di un approccio o dell'altro.

Di seguito verranno, dunque, presentati alcuni tentativi di superare la dicotomia de­gli approcci allo studio del policy-making.

Il primo di questi tentativi passa attraverso l'identificazione effettuata da Berman (1980) delle due strategie basilari del processo di messa in opera: l'implementazione pro­grammata e l'implementazione adattiva. Secondo Berman il primo di questi approcci ve­de una possibile soluzione dei problemi di implementazione in un'attenta ed esplicita programmazione delle procedure di messa in opera. L'altro approccio, quello adattivo, sostiene che l'implementazione della policy può essere migliorata solo attraverso un pro­cedimento che permetta al programma iniziale di essere adattato allo svolgersi degli eventi e delle decisioni. Partendo da una diversa diagnosi sull'origine dei problemi d'im­plementazione, i due approcci propongono terapie apparentemente apposte. Tuttavia, Berman non prende posizione a favore di uno o dell'altro punto di vista, avanzando la considerazione che esiste una fondamentale verità sul processo di messa in opera, cioè che non c'è alcuna one best way universale per implementare unapolicy. Sia l'approccio programmatico che quello adattivo possono risultare utili ed efficaci se applicati allo stu­dio delle appropriate situazioni di policy, ma il mismatch tra approcci e situazioni può rendere più gravosi i problemi che si vogliono affrontare (Ibidem, p.205).

Dal punto di vista degli attori politici di vertice il coordinamento delle azioni dei li­velli di governo locali è essenziale, per cui un certo grado di programmazione e di con­trollo del policy-making si rende necessario. Tuttavia, poiché non è possibile immagina­re che un decisore centrale onnisciente adotti una razionalità globale, allora il decisore centrale è costretto a prevedere ed aspettarsi anche strategie adattive da parte di coloro che partecipano al processo di messa in opera. In tal modo i due approcci divengono lo­gicamente ed analiticamente complementari.

Un altro tentativo di arrivare ad una sintesi tra i due approcci bottom-up e top-down è quello avanzato da Sabatier (1986). Egli propone di focalizzare l'attenzione sul concet­to di "advocacy coalition", una coalizione tra organizzazioni pubbliche e private che con­dividono lo stesso sistema di credenza riguardo ad una certa policy e cercano di realizza­re nel tempo i loro fini comuni. Ciò porta a considerare rilevante il fenomeno del policy change e del policy learning. Nel tempo obiettivi vaghi possono essere precisati e le teo­rie causali raffinate, in modo tale da costruire un consenso per un cambiamento adattivo ai vari livelli del policy-making. In questo caso i due approcci allo studio dell'implemen­tazione vengono entrambi utilizzati, in quanto il policy-making viene considerato un pro­cesso evolutivo e l'oggetto dell'analisi diviene il policy network, il quale presenta esi­genze sia di motivazione sia di coordinamento.

Altri autori (Barrette Fudge, 1981) vedono nelpolicy-making, un processo evoluti­vo basato su un continuum programma/azione in cui nel tempo avviene un processo in­terattivo e negoziale tra i vari attori ai diversi livelli. In questo continuo processo interat­

. tivo la policy può cambiare. Quindi, non si tratta più di un processo di attuazione, quan­do piuttosto di riformulazione di una policy.

Le procedure adattive (per utilizzare il linguaggio di Berman) non possono non la­sciare spazio all'innovazione, sia che provenga dall'alto, sia dal basso. Che sia una con­seguenza del mutamento delle teorie causali alla base della formulazione delle policy, o che sia il risultato di un cambiamento nella struttura delle interazioni tra gli attori, l'in­novazione influisce sull'evoluzione della policy e bisogna ricercame le origini e i pro­motori (tanto attraverso l'analisi della modalità di coordinamento, quanto attraverso l'at­tenzione alle motivazioni degli attori).

Tali teorie del policy change si allontanano dal modello incrementalista della razionalità decisoria poiché non sostengono che il cambiamento deve necessariamente essere graduale.

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Il riconoscimento dell'importanza determinante della negoziazione e delle contrat­tazioni e l'inevitabilità dei processi di adattamento ed innovazione, rappresentano i risul­tati più rilevanti della letteratura sull'implementazione che abbiamo esaminato.

Come sostengono Susan Barrett e Michael Hill (1981, riportato da Ham e Hill 1986): "L'essenza della nostra argomentazione è che molti dei cosiddetti problemi di messa in opera sorgono proprio perché esiste una tensione tra gli assunti normativi del governo (cosa dovrebbe essere fatto e come dovrebbe accadere) e le lotte ed i conflitti tra gli interessi che rappresentano la realtà del processo attraverso cui si ottengono e si man­tengono potere ed influenza".

Il modello dell'implementazione come contratto incompleto.

Paul MacAleavy (1995) propone un modello di implementazione tratto dalla teoria economica neo-istituzionalista, che si basa sul concetto di contratto incompleto. Tale mo­dello oltre ad integrare nell'analisi le esigenze della fase di formulazione con quella del­l'implementazione della policy, sembra essere particolarmente utile a spiegare le dina­miche del policy-making comunitario. L'autore, infatti, applica questo modello proprio allo studio della politica regionale comunitaria.

Il punto di partenza nella costruzione del modello è una concezione del potere basa­ta sullo scambio di risorse. Questa concezione, come abbiamo visto nel capitolo prece­dente, sta alla base di alcune delle più accurate descrizioni del funzionamento della go­vernance europea, in particolare del modello della multilivel governance.

Nel caso della politica di coesione e della politica regionale comunitaria, il fatto che la Commissione europea non possa implementare direttamente le sue policies significa che essa dipende da uno scambio di risorse (quali informazioni, expertise e conoscenza sul campo) con gli attori nazionali e sub-nazionali per poter utilizzare il budget di cui dispo­ne e portare avanti le sue proposte d'intervento. A loro volta i governi nazionali e sub-na­zionali dipendono dalle risorse finanziarie erogate dalla Commissione e dalle modalità im­poste da questa per accedervi. Ciò significa che la governance europea non si dispiega at­traverso una autorità centrale che legifera e rende efficaci le proprie decisioni, così come è teorizzato nel modello dello stato-nazione. Essa, piuttosto, implica complesse relazioni di scambio tra una molteplicità di attori, e quindi una dimensione di reciprocità che coin­volge il trasferimento di risorse tra gli attori coinvolti nel policy-making.

Né l'approccio top-down né quello bottom-up, singolarmente adottati riescono a rendere conto dell'importanza di tali relazioni di scambio. Concentrandosi il primo sulla fase di preparazione e strutturazione della policy da parte dei decisori politici di vertice ed il secondo sulle motivazioni degli attori politici locali (data la discrezionalità di cui godono), questi approcci perdono di vista il fatto che il processo di policy è un processo unitario ed evolutivo in cui ciascuna fase influenza e condiziona l'altra.

Il modello del contratto incompleto riesce, invece, a rendere conto del fatto che le decisioni di policy creano un processo continuo di relazioni di scambio tra attori interdi­pendenti: il processo di contrattazione e negoziazione non può essere concentrato né sol­tanto nella fase ex ante di preparazione del programma di policy, né esclusivamente nel­la fase ex post di attuazione del programma, ma continua lungo tutto il processo di policy.

Il modello dell'implementazione come contratto incompleto utilizza l'apparato con­cettuale tratto dalla letteratura relativa all'analisi dei costi di transazione (Coase, Wil­liamson, North, Milgrom e Roberts). Il filone del neo-istituzionalismo preso in conside­razione è quello economico, che intende le istituzioni come risposta razionale alla neces­sità che interessi individuali siano aggregati per dar luogo ed azioni collettive.

In questa letteratura si opera una distinzione fondamentale tra mercato e forme ge-

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rarchiche di organizzazione, in quanto strumenti diversi di coordinamento delle intera­zioni di una pluralità di attori. Mercati e gerarchie rappresentano, quindi, le forme stan­dard delle strutture di govemance. La domanda che lega le teorie del neo-istituzionali­smo economico agli studi di policy è la seguente: se il policy-making è caratterizzato da una continua relazione di scambio tra attori all'interno dell'area di policy, quale tipo di struttura di govemance riesce meglio a facilitare lo scambio?

MacAleavy, riprendendo la teoria di Coase, suggerisce che lo scambio implica una varietà di costi e che questi costi influenzano l'insorgere delle strutture di govemance.

La questione è ben posta da Milgrom e Roberts (1994, p.59) "cosa determina quali transazioni vengono intermediate dai mercati e quali condotte all'interno di un'organiz­zazione formale, sotto una direzione centralizzata? [ ... ] i costi di transazione differisco­no in relazione alla natura della transazione stessa ed al modo nella quale essa è organiz­zata. [ ... ].In pratica i costi di transazione sono i costi di funzionamento del sistema: i co­sti del coordinamento e dell'incentivazione".

Coordinare e motivare, dunque, presenta dei costi, la natura di questi costi determi­na le caratteristiche della govemance.

Se il principale compito delle strutture di govemance è quello di coordinare e moti­vare, allora i costi del coordinamento sono quelli legati all'attività di programmazione delle cose da fare. I costi sono, dunque, quelli di acquisire e gestire le informazioni ne­cessarie alla programmazione. Ciò deriva dal fatto che le informazioni sono localizzate e disperse ed è dispendioso attenerle.

Secondo Milgrom e Roberts (Ibidem p.55) sono possibili due alternative: "o le in­formazioni disperse vengono trasmesse ad un elaboratore centrale o pianificatore con il compito di risolverle il problema dell'allocazione delle risorse, oppure si deve realizzare un sistema più decentralizzato che richieda una minore trasmissione delle informazioni, e di conseguenza lasci alcune delle computazioni e decisioni necessarie a coloro che han­no le informazioni rilevanti".

Molte forme di organizzazione economica si fondano su un qualche grado di decen­tralizzazione e, dunque, di discrezionalità diffusa. In tal modo i costi di motivazione de­gli attori locali (per l' enforcement del programma, per misurare la peiformance, per for­nire incentivi) diventano significativi.

Ritornando alla letteratura sull'implementazione, il focus dell'approccio top-down sulle attività di coordinamento e quello dell'approccio bottom-up sulle ne­cessità della motivazione risultano integrati nelle esigenze di qualsiasi struttura di go­vemance. Occorre ricordare che all'interno delle tradizioni del neo-istituzionalismo economico, con quest'ultimo termine si intende un insieme di pratiche attraverso le quali attori interdipendenti coordinano volontariamente e/o controllano gerarchica­mente le loro attività ed interazioni (Schneiberg e Hollingsworth, 1991: p.201 riporta­to da MacAleavy, 1995: p.72).

Per il neo-istituzionalismo economico, quindi, lo sforzo del coordinamento e quello della motivazione vanno di pari passo. Il coordinamento senza motivazione conduce a forme di organizzazione ipercentralizzate ed inefficienti, a causa dello scarso feedback in termini di informazioni. La motivazione senza coordinamento conduce a forme organiz­zative inefficienti a causa della mancanza di specializzazione e di cooperazione.

Questa simultanea importanza dei due aspetti, nel caso del policy-making comunita­rio, è chiaramente espressa nel modello del contratto incompleto. La teoria del contratto costituisce il nocciolo duro tanto del neo-istituzionalismo economico, quanto dell'ap­proccio basato sui costi di transazione. Prima, di esaminare tali teorie, tuttavia, dobbiamo approfondire alcuni degli aspetti prima menzionati. È da chiedersi, in particolare, quali siano le caratteristiche dell'organizzazione delle relazioni di scambio che permettono di spiegare la configurazione delle strutture di govemance?

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Per rispondere a questa domanda bisogna focalizzare l'attenzione sul modo in cui l'organizzazione della relazione di scambio riflette almeno tre delle dimensioni chiave dello scambio individuate da Milgrom e Roberts (Ibidem, p.61):

La specificità delle risorse (asset specifity) richieste per partecipare alla transazione; Lafrequenza con la quale si verificano le transazioni e la durata con la quale esse si ripetono; La complessità delle transazione e l'incertezza sulla prestazione.

Quanto più le risorse apportate da un attore nello scambio sono specifiche per quel­lo scambio (l'attore fa un investimento solo per portare a termine una specifica trans­azione), tanto più quest'attore è vincolato dalla relazione di scambio (specie se l'investi­mento è stato di notevole entità). Così, meno specifica è la natura dell'investimento, me­no cruciale, essenziale, è per l'attore quella particolare transazione. Se l'attore non ha a disposizione delle alternative, se non ha la capacità di impiegare le sue risorse altrove, cercherà di mantenere in vita la relazione di scambio il più a lungo possibile, per cui la continuità del rapporto di scambio rivestirà per lui un grande valore.

Più sarà frequente e duraturo il rapporto di scambio, più è probabile che insorgano dei contratti specialistici, sia in forma legale sia in forma di valori condivisi e rapporti di fiducia.

Più è complessa la relazione di scambio e più sono incerte le condizioni che prevar­ranno mentre il contratto sarà in esecuzione, più è probabile che ci si affidi ad un con­tratto incompleto.

A questo punto occorre tornare alla teoria neo-istituzionalista del contratto secondo la quale le relazioni di scambio sono invariabilmente governate da un contratto, sia esso esplicito o implicito. Il contratto non richiede necessariamente uno status formale e lega­le, qualsiasi accordo su uno scambio di risorse può essere considerato un contratto. In tal modo le strutture di governance possono essere concepite come differenti risposte con­trattuali al problema dell'organizzazione economica, cioè al tentativo di strutturare le operazioni di coordinamento e motivazione.

Gli attori entrano nel rapporto contrattuale al fine di beneficiare della relazione di scambio. Se fosse possibile redigere dei contratti completi (che prevedono tutte le even­tuali circostanze della relazione di scambio), allora non si renderebbe necessario alcuno sforzo di motivazione. Questo è richiesto dal fatto che, avendo ognuno dei contraenti un proprio interesse e propri obiettivi, non si possono escludere comportamenti di tipo op­portunistico, cioè non in linea con gli interessi di tutti i contraenti il contratto.

Tale evenienza è ben evidenziata dagli studi bottom-up sulla implementazione. Se fosse possibile redigere un contratto completo l'(mplementazione diverrebbe solo mate­ria di monitoraggio, quindi di controllo del risP,etto dei termini del contratto. È evidente, però, che nel mondo reale gli attori hanno la pbssibilità di decidere e fare pressioni nel­l'ambito di una razionalità limitata ed in genere tendono a comportarsi in maniera op­portunista. Dati questi limiti dell'azione umana, i costi associati con qualsiasi forma di dispositivo contrattuale sono molto alti. È per questo che i contratti non possono che es­sere incompleti.

Williamson (1985) distingue tra due tipi di costi di transazione quelli ex ante e quel­li ex post. I primi sono i costi legati alla fase di negoziazione e di elaborazione del con­tratto. Quanto più questo ha la pretesa di essere completo, strutturando in anticipo nei dettagli gli accordi, tanto più alti sono i costi ex ante e più complessi i meccanismi del co­ordinamento. Quanto più è incompleto il contratto, lasciando la soluzione degli eventua­li problemi e delle contingenze impreviste alla fase attuativa, tanto più si trasferiscono i costi sulla struttura degli incentivi e sullo stimolo delle motivazioni.

La teoria del contratto incompleto getta, quindi, nuova luce su come le varie dimen­sioni della relazione di scambio danno forma alle strutture di governance create per faci-

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litare lo scambio. Essa può rilevarsi, dunque, molto utile a spiegare l'insorgenza delle conformazioni istituzionali ed anche le dinamiche del mutamento istituzionale.

L'adattabilità del contratto incompleto alle circostanze impreviste è il concetto che più soddisfa sia le necessità descrittive, sia quelle prescrittive degli studi sull'implemen­tazione. Il contratto pone dei vincoli, definisce il campo d'azione degli attori coinvolti nello scambio di risorse, struttura le relazioni tra le parti, pur non proponendosi l'impos­sibile compito di emulare un contratto completo (cioè di prevedere e descrivere tutte le eventualità rilevanti in un accordo in modo non ambiguo).

Questo tipo di contratto viene definito da Milgrom e Roberts contratto di relazione. "Con tale contratto gli agenti non si accordano su di un piano d'azione dettagliato, ma so­lo sugli obiettivi, su regole generali ampiamente applicabili, sui criteri per decidere cosa fare nel caso di evenienze impreviste, su chi ha il potere di intraprendere certe azioni, sui limiti di tali iniziative e sul meccanismo di risoluzione delle dispute da utilizzarsi al sor­gere di controversie" (cit., p.206).

Tale tipo di contratto riconosce, così come suggerisce l'approccio bottom-up, che il processo di negoziazione non si può fermare alla fase della stipula del contratto, cioè al­la fase della formulazione della policy, ma continua necessariamente nella fase dell'im­plementazione.

Un contratto di tipo relazionale, dunque, strutturando la relazione tra le parti, deter­mina un insieme di aspettative comuni e definisce i meccanismi che saranno usati per prendere le decisioni e per allocare i relativi costi e benefici (cioè per facilitare il deci­sion-making) nella fase di messa in opera. Tale tipo di contratto risponde, quindi, ad una logica procedurale propria di una politica costitutiva o della fase di metapolicy, che si preoccupa di configurare le relazioni di scambio e, per questa via, coordinare le intera­zioni tra i partecipanti al policy-making. In tal modo anche le necessità di coordinamen­to sottolineato dall'approccio top-down vengono prese in considerazione dal punto di vi­sta sia descrittivo che prescrittivo.

Un altro aspetto da considerare, a questo punto, è quello dell'importanza della fidu­cia, strettamente legato al concetto di contratto di relazione. Secondo Majone (1993), quando gli attori in una relazione di scambio hanno investito un notevole ammontare di risorse, esiste una pressione a far sì che le relazioni continuino e a mantenere in vita il processo di scambio. Il ricorso a rimedi legali in caso di dispute metterebbe in pericolo la relazione che i partecipanti vogliono mantenere. In caso di contratto incompleto il mez­zo più efficace per conservare la cooperazione è senza dubbio la fiducia e le convinzioni (credenze) condivise sullo spirito dell'accordo.

La fiducia è particolarmente utile nel facilitare la cooperazione e ridurre i costi di transazione, quindi è necessario prestare attenzione alle condizioni che la rendono possi­bile durante il processo di implementazione di una policy.

Considerazioni conclusive

Nel corso dell'argomentazione proposta si è voluto mettere in evidenza il contribu­to che l'analisi delle politiche pubbliche può fornire per la descrizione e spiegazione del processo politico.

Prima di tutto, la prospettiva analitica presentata permette di comprendere in ma­niera più approfondita i rapporti tra politica e società (argomento principe del program­ma epistemologico della sociologia politica). Inoltre, tale prospettiva rende possibile "complessificare" lo studio dei fenomeni politici avvicinandolo maggiormente alla com­plessa realtà politica delle democrazie contemporanee, facilitandone nello stesso tempo l'intellegibilità.

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Gli studi sull'implementazione mettono in evidenza come formalismo giuridico, controllo gerarchico, pianificazione ex ante non descrivano in maniera esaustiva, né tan­to meno spiegano, la realtà del processo politico amministrativo. Le teorie sull'imple­mentazione, che derivano da tali studi, consentono di comprendere l'intreccio tra struttu­re amministrative tradizionali dello stato di diritto, nuove organizzazioni pubbliche, co­me le agenzie indipendenti del cosiddetto stato regolatore (La Spina, 2000), diversi livelli di governo e le strutture organizzative "a rete" della società civile. Tramite queste teorie è possibile rendersi meglio conto del fatto che non esiste un luogo privilegiato della de­cisone politica, né una one best way di coordinamento degli attori che intervengono nel processo di allocazione autoritativa dei valori.

L'analisi delle politiche pubbliche, dunque, non fa altro che fornirci delle lenti e de­gli strumenti utili a decifrare la complessità della realtà politica che ci circonda, collo­cando all'interno della propria metodologia d'analisi anche il discorso sul ruolo giocato dalle diverse ideologie. Così, essa, adottando un metodo autenticamente interdisciplina­re e multimetodologico, che pone al centro dell'attenzione le attività politiche che si svol­gono attorno ad un problema sociale ritenuto rilevante per la collettività, tenta di chiarire come quel problema possa divenire politicamente sensibile, come viene affrontato e se viene in qualche modo risolto. Nel tentare quest'impresa conoscitiva mette a fuoco (con gli strumenti, anche mutuati da altri approcci e discipline, che di volta in volta sembrano più adeguati) eventi, attori, processi, strutture sociali che al di fuori dei suoi schemi ana­litici non riceverebbero sufficiente attenzione.

L'approccio prescritti v o può seguire quello esplicativo nelle intenzioni del ricerca­tore, ma sicuramente non può prescindere dalla descrizione adeguata dei problemi, degli attori, delle strutture e dei processi su cui vuole intervenire. Inoltre, non è neanche possi­bile tralasciare una rigorosa spiegazione dei nessi causali che collegano tutti questi ele­menti (spiegazione necessariamente espressa nei termini di una teoria empiricamente fondata). È per questo che l'analisi delle politiche pubbliche ha molto da offrire alle tra­dizionali discipline sociologiche e politologiche, anche, forse specialmente, per la sua at­tenzione agli aspetti pragmatici del processo politico.

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Per un recente manuale introduttivo in lingua italiana è possibile consultare: HowLETT M. eRA­MESH M. (2003) Come studiare le politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna. Per un recente trattato che approfondisce le varie prospettive analitiche della disciplina: Regonini, G.(2001) Capire le politiche pubbliche, Il Mulino, Bologna.