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L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

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L’impiego di nanotecnologie e

nanomateriali per il recupero e la

conservazione dei beni culturali

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Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali

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Indice

Consorzio Innova FVG ........................................................................................................................... 4

Progetto Nanocoat ................................................................................................................................. 5

Introduzione ........................................................................................................................................... 6

1. Nanomateriali e Nanotecnologie ................................................................................................... 8

2. Le Nanoparticelle ......................................................................................................................... 14

2.1. Idrossido di Calcio .................................................................................................................. 14

2.2. Idrossido di Magnesio ............................................................................................................ 23

2.3. Idrossido di Bario ................................................................................................................... 25

2.4. Idrossido di Stronzio ............................................................................................................... 27

2.5. Biossido di Silicio ................................................................................................................... 29

2.6. Biossido di Titanio .................................................................................................................. 34

2.7. Nanodiamanti ......................................................................................................................... 42

2.8. Idrossiapatite .......................................................................................................................... 43

3. I Materiali Nanostrutturati ............................................................................................................ 50

3.1. I Film: “Smart Surfaces” ......................................................................................................... 50

3.2. I Fluidi .................................................................................................................................... 61

3.3. I Gel ....................................................................................................................................... 70

4. I Nanosensori ............................................................................................................................... 81

4.1. Nanosensori di Temperatura .................................................................................................. 82

4.2. Nanosensori di Umidità .......................................................................................................... 84

4.3. Nanosensori di Inquinanti ....................................................................................................... 85

5. Applicazione delle Nanotecnologie per i Beni Culturali ........................................................... 90

5.1. Consolidamento ................................................................................................................... 103

5.2. Pulitura ................................................................................................................................. 113

5.3. Deacidificazione ................................................................................................................... 127

APPENDICE I: prodotti commerciali ................................................................................................. 139

APPENDICE II: analisi microscopiche nei beni culturali ................................................................ 142

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

4 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Consorzio Innova FVG

Il Consorzio INNOVA FVG è un Ente Pubblico Economico senza fine di lucro partecipato interamente

dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia. E’ stato costituito con L.R. 17/2011 e L.R. 27/2012 in

seguito al processo di razionalizzazione di Agemont SpA e gestisce in continuità di rapporti giuridici

attivi e passivi le attività di incubazione, di animazione economica e di trasferimento tecnologico

afferenti il Parco Tecnologico e Scientifico di Amaro.

Opera come organismo di ricerca (ente il cui fine statutario consiste nello svolgimento di attività di

ricerca, sviluppo tecnologico e diffusione della conoscenza - Comunicazione Commissione Europea

2006/C 323/01) specificatamente devoluto allo sviluppo del territorio montano.

Gestisce il Centro di Innovazione Tecnologica di Amaro, conducendo in tale sede attività di ricerca e di

incubazione di imprese e ha una propria sede secondaria a Maniago (PN).

Il Consorzio INNOVA FVG, così come previsto dallo statuto, favorisce il trasferimento alle imprese delle

conoscenze tecniche e scientifiche sviluppate all'interno dei Centri di Innovazione Tecnologica e di

ricerca regionali e nazionali, promuove la cultura dell'innovazione all'interno del sistema imprenditoriale,

territoriale scolastico e il collegamento tra il mondo dell'impresa, il mondo accademico e della ricerca e il

mondo della pubblica amministrazione regionale, favorendo in ogni modo la ricerca scientifica applicata,

lo sviluppo tecnologico, la diffusione dei conseguenti risultati e le sinergie fra soggetti pubblici e privati

ugualmente interessati all'apporto e allo sviluppo di specifiche conoscenze ed esperienze. Favorisce

inoltre l'accesso alle opportunità di pubblico finanziamento dirette a sostenere la ricerca scientifica e

l'innovazione tecnologica quali strumenti di sviluppo economico.

Il Centro di Innovazione Tecnologica di Amaro è qualificato come Parco Scientifico e Tecnologico

(PST).

Il Centro ospita laboratori che sono stati pensati e realizzati con l'obiettivo di fornire servizi complessi,

specializzati e tecnologicamente avanzati alle imprese del territorio e diventare elementi strategici per

un nuovo modello di sviluppo della montagna basato sull'innovazione e l’incubatore/acceleratore di

impresa, ovvero spazi attrezzati che vengono messi a disposizione delle imprese per facilitare lo start-

up, supportare la crescita imprenditoriale e attivare percorsi di accelerazione d’impresa.

Il Consorzio INNOVA FVG opera in stretta collaborazione e coordinamento con gli altri Parchi Scientifici

e Tecnologici regionali.

Per maggiori informazioni: www.innovafvg.it

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Progetto Nanocoat

NANOCOAT è un’iniziativa di trasferimento tecnologico e di sviluppo sperimentale nel campo dei

materiali e dei trattamenti superficiali nanostrutturati, finanziata dall’art. 21 della l.r.26/2005 del Friuli

Venezia Giulia (Legge sull’Innovazione).

Scopo dell’iniziativa, gestita dal Consorzio Innova FVG in collaborazione con il Consorzio per il Nucleo

di Industrializzazione della Provincia di Pordenone, è quello di aumentare il livello di competitività delle

imprese regionali andando a migliorare le caratteristiche prestazionali dei materiali attualmente

impiegati in produzione.

Dal punto di vista operativo nella prima fase del progetto è stato effettuato un monitoraggio delle

imprese appartenenti ai diversi settori di riferimento per rilevare le esigenze, tecnologie e materiali

impiegati. I risultati ottenuti, opportunamente analizzati e sintetizzati, hanno permesso di identificare le

applicazioni principali di interesse per le imprese del territorio.

Sono quindi stati organizzati cicli di seminari tecnologici, rivolti ciascuno ad uno specifico settore target,

con l’obiettivo di dare la massima divulgazione dello stato dell’arte, delle potenzialità e delle prospettive

delle nanotecnologie applicate ai materiali e ai trattamenti superficiali. Per ogni settore sono stati

realizzati audit tecnologici approfonditi necessari per individuare materiali e funzionalità potenzialmente

migliorabili. Le applicazioni di maggior interesse sono state oggetto di appositi studi di prefattibilità

attraverso i quali sono state ipotizzate soluzioni tecniche e realizzate campionature.

I risultati convalidati delle sperimentazioni effettuate sono contenuti nelle pubblicazioni disponibili sia in

formato cartaceo che in formato elettronico.

Al fine di creare le migliori condizioni per tradurre i risultati della ricerca in applicazioni industriali

rendendo più veloce e semplice l’accesso delle imprese a queste tecnologie è stata creata

NANONET.EXE - The Network of Excellence in Nanotechnologies una rete di Centri di ricerca pubblici,

privati e Università coordinata dal Consorzio Innova FVG.

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6 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Introduzione

La conservazione del nostro patrimonio culturale è fondamentale per il trasporto alle future generazioni

della nostra cultura, delle tradizioni e dei modi di pensare e di comportarsi.

La conservazione ha un impatto impressionante sulla nostra società dal punto di vista politico,

sociologico e antropologico, nonché un forte impatto economico sulla più grande attività industriale che

grazie ad essa vive e si sviluppa: il turismo, che genera un fatturato annuo a livello europeo di 335

miliardi di € e circa 10 milioni di posti di lavoro. Il turismo genera indirettamente più del 10%

dell’economia dell’Unione Europea e fornisce circa il 12% della forza lavoro (EU business 2013).

La moderna scienza della conservazione ha origine dalle tragiche inondazioni che hanno devastato

Firenze e Venezia nel 1966 ed ha imposto la ricerca di nuove metodologie per ripristinare e conservare

l’immenso patrimonio culturale fortemente danneggiato dall’alluvione attraverso lo sviluppo di due filoni

principali: (i) la caratterizzazione analitica dei materiali che costituiscono le opere d’arte, la

caratterizzazione della tecnica pittorica utilizzata dagli artisti, e la chimica delle reazioni coinvolte nel

loro degrado; (ii) la ricerca di nuovi metodi scientifici per il restauro/conservazione, che consenta il

trasferimento del patrimonio culturale alle future generazioni.

Gli ultimi tre decenni hanno visto importanti sviluppi nella scienza della conservazione. La scienza dei

colloidi e dell’interfaccia, insieme con la scienza dei materiali, che appartengono al regno delle

nanoscienze popolari, hanno fornito concetti, tecniche, competenze e strumenti per aumentare la

comprensione dei processi di degrado più comuni delle opere d’arte. Allo stesso modo queste discipline

hanno fornito metodi affidabili per una durevole e, per quanto possibile, compatibile conservazione.

Esempi sono: (1) le nanoparticelle; (2) le micelle; (3) le microemulsioni; (4) i gel fisici e chimici; (5) i gel

“sensibili” (6) le nano-spugne; (7) i nanosensori.

Il mercato per la conservazione del patrimonio storico/artistico europeo è stimato a circa 5 miliardi di €

l’anno, e potrebbe aumentare di un significativo fattore nei prossimi anni a causa del più ampio utilizzo

dei nanomateriali. Gli obiettivi della ricerca sono legati alla migliore valutazione dei danni, allo sviluppo

di strategie di conservazione innovative e all’integrazione delle tecnologie più avanzate per consentire

la loro protezione e fruizione sostenibile ed efficace nel contesto della gestione intelligente della città. La

promozione della cultura e dei beni culturali promuove la creatività con un feedback prezioso

sull’innovazione industriale in qualsiasi settore.

Le metodologie riportate in questo lavoro per il consolidamento, la pulizia, la deacidificazione e il

monitoraggio conservativo dei manufatti coprono una parte significativa e rappresentativa dei casi di

studio incontrati nella conservazione dei Beni Culturali. L’approccio descritto si basa sull’uso di sistemi

avanzati (derivati dalla scienza dei colloidi e materia soffice) applicati per le esigenze pratiche di

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restauro e di conservazione, infatti la maggior parte dei metodi riportati sono già stati utilizzati in lavori di

restauro, laboratori e atelier in tutto il mondo.

I sistemi di conservazione descritti rappresentano un miglioramento significativo sulle metodologie di

conservazione tradizionali perché i sistemi avanzati proposti mostrano proprietà avanzate, vale a dire:

alta compatibilità fisico-chimica con i costituenti delle opere d’arte, cioè l’applicazione dei sistemi

avanzati minimizza o completamente evita qualsiasi alterazione delle originali proprietà fisiche e

chimiche del substrati artistico/storico.

i nanomateriali proposti sono o non tossici o mostrano una tossicità significativamente ridotta

rispetto ai materiali di restauro tradizionali, come solventi puri o miscele di solventi.

l’uso di nanomateriali avanzati permette un maggiore controllo degli interventi di restauro, ad

esempio pulizia altamente controllata rispetto ai metodi di pulizia tradizionali può essere effettuata

usando microemulsioni e idrogel chimici.

le metodologie innovative proposte sono fattibili e affidabili, e in molti casi più semplici e più veloci

rispetto ai metodi tradizionali. In alcuni casi vengono proposti metodi in cui è necessario un

approccio graduale e lento per garantire la stabilità, anche nel lungo termine, del manufatto trattato

(al contrario di interventi tradizionali “veloci” che potrebbero comportare inconvenienti, richiedendo

cosí interventi successivi).

I contenuti dello studio sono strutturati come segue: in primo luogo viene fornita una panoramica sui

principali nanomateriali sviluppati negli ultimi 30 anni (dispersioni di nanoparticelle, soluzioni micellari,

microemulsioni e gel, nanocompositi e nanosensori), spiegando le loro caratteristiche principali e

applicabilità. Poi, capitoli specifici sono dedicati ai substrati storico/artistici (quali pareti e dipinti da

cavalletto, pietra, carta, tela e legno), trattando i principali processi di degrado dei manufatti e delle

applicazioni reali per la pulizia, il consolidamento o la deacidificazione delle opere d’arte. Casi reali,

dove l’uso delle nanotecnologie si é dimostrato fondamentale ed innovativo, rispetto alle tecniche di

restauro tradizionali, sono considerati e discussi.Infine vengono fornite due appendici che elencano i

principali prodotti nanostrutturati attualmente disponibili sul mercato europeo e le principali tecniche di

caratterizzazione utilizzate nella sintesi e messa a punto dei nanomateriali.

Il presente studio è stato realizzato da Maria Laura Santarelli, Alessandra Broggi, Maria Paola

Bracciale, dell’Unità di Ricerca INSTM Roma La Sapienza.

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8 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

1. Nanomateriali e Nanotecnologie

Dal momento che la nanotecnologia è stata introdotto dal premio Nobel Richard P. Feynman nel corso

della sua ormai famosa conferenza 1959 “There’s Plenty of Room at the Bottom”[1] ci sono stati

rivoluzionari sviluppi della fisica, chimica e biologia che hanno dimostrato l’idea di Feynman di

manipolazione della materia ad una scala estremamente piccola, a livello di molecole e atomi, cioè la

scala nanometrica. Anche se il significato di “nanotecnologia” varia da settore a settore e da paese a

paese ed è ampiamente usato per la descrizione di qualsiasi cosa di molto piccolo, la nanotecnologia è

comunemente definita come la comprensione, il controllo, e la ristrutturazione della materia nell’ordine

dei nanometri (cioè nel range 10-9 m) per creare fondamentalmente materiali con nuove proprietà e

funzioni [2].

I Nanomateriali sono quei materiali che hanno componenti strutturali con almeno una dimensione

nell’intervallo 1-100 nm. Il 18 ottobre 2011 la Commissione europea ha adottato la seguente definizione

di un nanomateriale [3]: “Un materiale naturale, casuale o prodotto contenente particelle, in uno stato

slegato o come aggregato o come agglomerato e dove, per il 50% o più delle particelle nella

distribuzione delle grandezze numeriche, una o più dimensioni esterne sono nell’intervallo di grandezza

1 nm - 100 nm. In casi specifici e dove giustificato da preoccupazioni per l’ambiente, la salute, la

sicurezza o la competitività la soglia di distribuzione delle grandezze numeriche del 50% può essere

sostituita da una soglia tra l’1 e il 50%”.

I nanomateriali possono essere classificati come (Fig. 1.1):

Zero-dimensionali (0D) tre dimensioni in scala nanometrica: nanocristalli, cluster e quantum dots

con diametro 1-10 nm. Sono principalmente metalli e semiconduttori. Altre nanoparticelle con

dimensione 1-100 nm come gli ossidi ceramici.

Mono-dimensionali (1D) due dimensioni in scala nanometrica. Sono metalli, semiconduttori e

ossidi sottoforma di nanofili (1-100 nm) e Nanotubi (1-100 nm) di Carbonio, biossido di Titanio e

ossido di Zinco.

Bi-dimensionali (2D) una dimensione in scala nanometrica. Possono essere matrici di

nanoparticelle (svariati nm2-mm2), costituite da metalli, semiconduttori e materiali magnetici, o

superfici e film sottili (spessore 1-1000 nm) di materiali vari inorganici e organici.

Tri-dimensionali (3D) diversi nanometri nelle tre dimensioni. Sono in genere metalli,

semiconduttori e materiali magnetici in bulk.

Tale classificazione è basata sul numero di dimensioni che non sono confinate nel campo della

nanoscala ( < 100 nm).

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La Nanotecnologia è lo studio dei fenomeni e della manipolazione dei materiali a livello atomico e

molecolare.

Al fine di esplorare nuove proprietà fisiche e fenomeni e realizzare potenziali applicazioni delle

nanostrutture e dei nanomateriali, la capacità di fabbricare e processare i nanomateriali e le

nanostrutture è la prima pietra miliare nel campo delle nanotecnologie. La possibilità di utilizzare

nanomateriali in diverse applicazioni spesso richiede lo sviluppo di metodi per la produzione di

nanoparticelle con stretto controllo sulla dimensione, forma e struttura cristallina. Oggigiorno

Figura 1.1 Classificazione dei nanomateriali.

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nanoparticelle con un ampio range di composizione chimica e fasi possono essere preparate attraverso

una varietà di metodi appartenenti alle classi “top-down” e “bottom-up” (Fig. 1.2).

L’approccio “top-down” (approccio fisico) consiste nel raggiungere le dimensioni nanometriche,

partendo da un materiale di dimensioni maggiori. Il materiale massivo, “bulk”, viene suddiviso in

particelle più piccole, usando energia di tipo meccanico, chimico o in altre forme [4,5].

L’approccio “bottom-up” (approccio chimico), anche detto “nanotecnologia molecolare”o “fabbricazione

molecolare” [6] si riferisce alla sintesi del materiale nanoparticellare attraverso la condensazione di

atomi, molecole o radicali permettendo così al precursore di accrescere con le dimensioni e le

caratteristiche desiderate [7, 8]. La fresatura è un tipico metodo “top-down”, mentre la dispersione

colloidale è un buon esempio di approccio “bottom-up” nella sintesi di nanoparticelle. Entrambi gli

approcci possono essere condotti in gas, in liquido, in fluidi supercritici, allo stato solido o sottovuoto. In

tabella 1.1 e 1.2 sono riportati i maggiori metodi utilizzati per l’ottenimento di particelle nanometriche. La

maggior parte dei sistemi di sintesi ha come principali obiettivi quelli di controllare: a) le dimensioni delle

particelle; b) la loro forma; c) la distribuzione delle dimensioni; d) la composizione; e) il grado di

agglomerazione (nel caso siano sistemi colloidali). Il controllo di questi parametri sta diventando sempre

più necessario, infatti nel campo delle nanotecnologie la corrispondenza struttura-proprietà è

enfatizzato dalle elevate, ma ancora sconosciute, potenzialità dei nanomateriali [9].

Figura 1.2. Rappresentazione schematica degli approcci “bottom-up” e “top-down”

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Tabella 1.1 – Principali metodi utilizzati per la produzione delle nano-particelle.

Metodi in fase vapore Metodi in fase gas Metodi chimici Metodi allo stato

solido

PVD (physical vapour deposition)

CVD (chemical vapour deposition)

PECVD (Plasma Enhanced chemical vapour deposition)

Pirolisi in fiamma Ablazione laser Sintesi in plasma

con RF & MW Plasma spray

Sol-gel Chimica colloidale Sintesi idrotermica Sintesi organica Sintesi elettrochimica Elettrodeposizione Sonochimica Autoassemblaggio

Alligazione

meccanica Sintesi

meccanochimica Macinazione

Tabella 1.2 – Metodi utilizzati per la produzione delle nano-particelle in base alla loro classificazione dimensionale.

Nano-oggetti discreti

Nanomateriali superficiali

Materiali bulk nanostrutturati

0D 3 dimensioni su

nanoscala

Condensazione in gas inerte Evaporazione Metodi colloidali

PVD, CVD

Estrusione

equiangolare Crio-milling Consolidamento di

nanoparticelle per sintering

1D 2 dimensioni su

nanoscala

Crescita direzionale Templating

Metodi litografici

Incorporazione di nanotubi e nanofili in matrici polimeriche o metalliche

2D 1 dimensione su

nanoscala

Beating Elettrodeposizione PVD, CVD Film autoassemblati

Elettrodeposizione PVD, CVD

PVD, CVD Elettrodeposizione

ciclica

Appena la dimensione delle particelle è ridotta, l’area superficiale per unità di volume aumenta,

conseguentemente la reattività del materiale è migliorata, dal momento che più superficie attiva sarà

disponibile per le reazioni e trasformazioni. In altre parole, l’interfaccia tra le particelle e l’ambiente

esterno diventa più grande se la stessa massa di materia è divisa in particelle più fini. La riduzione delle

dimensioni è importante anche per facilitare la dispersione di particelle solide in solventi. Le dispersioni

possono poi essere facilmente date a pennello, spruzzate o depositate goccia a goccia sulle superfici

artistiche. Inoltre formulazioni stabili non richiedono l’uso di stabilizzatori dal momento che possono

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essere preparate usando alcoli a catena corta, come l’etanolo e propanolo [10-12], senza la necessità

di tensioattivi che potrebbero rimanere come residui sulle superfici trattate dopo l’evaporazione del

solvente. Un altro vantaggio correlato alla minore dimensione delle particelle è quello di favorire la

penetrazione attraverso matrici porose, come dipinti murali, legno, rivestimenti superficiali, ecc,

minimizzando il rischio di formazione di opacizzamento delle superfici [13,14]. Le particelle

nanometriche sono utili anche per migliorare le proprietà dei compositi ibridi organico-inorganici, che di

solito sono costituiti da una matrice polimerica legante e da cariche inorganiche (particelle). I

nanocompositi mostrano almeno una componente con dimensioni nanometriche o una

nanostrutturazione, ed esibiscono prestazioni migliori rispetto alle tradizionali matrici completamente

polimeriche in termini di proprietà meccaniche, resistenza chimica [15], protezione contro le radiazioni

UV [16], ecc..

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Bibliografia

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[3] http://ec.europa.eu/environment/chemicals/nanotech.

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[9] K. Rademann, O. D. Radamann, M. Schlauf, V. Even, F. Hensel, Phys Rev Lett (1992) 69, 8679.

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[11] P. Baglioni, R. Giorgi, Soft Matter, (2006) 2, 293.

[12] R. Giorgi, C. Bozzi, L. Dei, C. Gabbiani , B.W. Ninham , P. Baglioni, Langmuir (2005) 21, 8495.

[13] G. Poggi, R. Giorgi, N. Toccafondi, V. Katzur, P. Baglioni, Langmuir (2010) 26, 19084.

[14] G. Poggi, P. Baglioni, R. Giorgi, Restaurator (2011) 32, 247.

[15] P. Manoudis, S. Papadopoulou, I. Karapanagiotis, A. Tsakalo, I. Zuburtikudis, C. Panayiotou, Journal of Physics: Conference Series (2007) 61, 1361.

[16] M. Afsharpour, F.T. Rad, H. Maleikan, J Cult Herit (2011) 12, 380.

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2. Le Nanoparticelle

Nell’ambito della scienza della conservazione l’utilizzo delle nanoparticelle di differenti elementi chimici

ha fornito uno strumento di trattamento dei materiali nel restauro. La Tab. 2.1 riassume i principali

trattamenti applicati in differenti beni del patrimonio artistico.

Tabella 2.1 – Principali prodotti nanoparticellari utilizzati con le relative applicazioni nella conservazione del patrimonio artistico.

Prodotto Applicazioni

Ca(OH)2, Mg(OH)2 Consolidamento di rocce carbonatiche, marmi,malte, etc. tele pittoriche,

pitture murali, legno, carta

Ba(OH)2 Consolidamento di rocce carbonatiche e pitture murali con eliminazione

di sali

Sr(OH)2 Consolidamento con eliminazione dei sali in pietra, pitture murali,

rivestimenti in gesso e deacidificazione di pietre carbonati che, malte e ceramiche

Ferrite Trattamenti di pulitura sulle tele

SiO2 Consolidamento delle rocce silicatiche, delle malte e delle superfici

lapidee

SiO2-funzionalizzata Coatings in sistemi nano compositi silice-polimero con proprietà

biocide, antimicrobiche, autopulente ed idrofobiche

TiO2, MgO, PdO, ZnO, Ag Biocidi

Nanodiamanti Consolidamento, deacidificazione e pulizia di carte e pergamene

antiche con attivà biocida

Ca5(PO4)3(OH) Deacidificazione di carte (anche dipinte)

2.1. Idrossido di Calcio

L’idrossido di calcio è la sostanza consolidante ottimale per tutti i materiali artistici a matrice

carbonatica, in virtù della sua alta compatibilità fisico-chimica con il supporto, quindi il trattamento con

questo materiale é sempre preferibile soprattutto se il degrado dell’opera d’arte é il risultato di una

perdita di carbonato di calcio.

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Tuttavia, la scarsa solubilità dell’idrossido di calcio in acqua (1,7 g/l a 20°C) ne ha ostacolato l’utilizzo

per diversi anni, poiché sarebbe necessaria una eccessiva quantità di acqua, che favorisce i processi di

degrado (i cicli di gelo e disgelo, la solubilizzazione/cristallizzazione di sali e il biodeterioramento), per

ottenere risultati apprezzabili. Inoltre il prodotto disponibile in commercio é formato da particelle di

dimensioni troppo grandi (nell’ordine del millesimo di millimetro) per garantire un’adeguata capacità di

penetrazione e che, ancor peggio, tendono a separarsi dal solvente, producendo una pellicola bianca

indelebile sulla superficie dipinta.

Le dispersioni acquose di particelle di Ca(OH)2 non sono stabili, poiché le particelle di idrossido

subiscono veloce aggregazione guidata da legami idrogeno [1] (Fig. 2.1.2). Questo porta alla

sedimentazione, che impedisce la penetrazione attraverso le matrici porose. Gli effetti collaterali di

questo fenomeno sono lo scarso consolidamento e la formazione di opacizzamenti bianchi sulla

superficie trattata. Pertanto l’uso principale di dispersioni acquose di calce è stata limitata a iniezioni

interne o a micro-stuccature [2]. La stabilità delle particelle di calce in acqua può essere aumentata con

tensioattivi, ma questo comporterebbe la formazione di residui di tensioattivo nella matrice porosa, che

deve essere evitata, per quanto possibile.

La soluzione a queste limitazioni viene offerta dalla nanotecnologia, mediante l’uso di dispersioni

cineticamente stabili di minuscoli cristalli di idrossido di calcio in solventi non acquosi (alcol isopropilici

come l’1-propanolo o il 2-propanolo). Le dimensioni molto piccole delle particelle (da 100 a 250 nm) e la

tensione superficiale dell’alcol, sufficientemente bassa da assicurare un’impregnazione ottimale per

suzione capillare, assicurano un’alta capacità di penetrazione della sospensione all’interno della

struttura porosa delle pitture murali (fino a una profondità media di 200–300 μm), e permettono di

raggiungere pori anche molto piccoli altrimenti non raggiungibili con le metodologie tradizionali. In

ambiente favorevole, l’alcool ha un’elevata volatilità e, comparato con altri solventi, una tossicità ridotta.

Quando evapora, i nanocristalli reagiscono con l’anidride carbonica dall’atmosfera e si legano al

carbonato di calcio dello strato pittorico e dell’intonaco sottostante, legandoli insieme con lo stesso

processo che ha prodotto l’affresco in origine. Infatti le dimensioni nanometriche delle particelle di calce

determinano un maggior rapporto superficie/volume garantendo, così, una maggiore interazione con la

CO2 e, conseguentemente, un miglioramento del processo di carbonatazione. L’uso della nanocalce

consente quindi di evitare alcuni inconvenienti tipici dei trattamenti a base di calce convenzionali, quali

l’incompletezza del processo di carbonatazione, la scarsa profondità di penetrazione raggiungibile,

l’eccessivo quantitativo di acqua apportato alle pietre e l’alterazione cromatica delle superfici. La

rinnovata compattezza e adesione allo strato pittorico rendono l’applicazione particolarmente indicata

nei casi di polverizzazione (powdering) del colore e di esfoliazione (flaking), in quanto l’impiego

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

16 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

dell’idrossido di calcio permette il ripristino della struttura cristallina, in grado di garantire l’adesione del

pigmento al supporto e di ricostituire un vero e proprio processo di presa (Fig. 2.1.1).

Processi “top-down”

Le prime dispersioni abbastanza stabili di idrossido di calcio in alcooli sono state ottenute macinando

meccanicamente della calce spenta con un mulino (approccio “top-down”) [3-6], portando a particelle

con diametri inferiori al micron. Successivamente sempre secondo l’approccio “top-down” tramite

l’utilizzo di un trattamento termomeccanico sono state prodotte particelle nanometriche di idrossido di

calcio [7]. In condizioni normali, durante la produzione dell’idrato di calcio, la reazione dell’ossido di

calcio con l’acqua può produrre uno strato superficiale passivato di idrossido che impedisce il

completamento della reazione. Tuttavia lo spegnimento completo della calce può essere ottenuto

Figura 2.1.1. Affresco “Gli angeli musicanti” di Santi di Tito (16 sec.) sulla controfacciata del Duomo di Firenze.

L’area selezionata e stata trattata con nanoparticelle di Ca(OH)2 (in alto prima del trattamento, in basso dopo il

trattamento) [Baglioni, P., “Tecnologie del futuro per i tesori del passato. Le nanoscienze e la conservazione dei beni

culturali”, Dipartimento di Chimica e CSGI, Univerisitá di Firenze, Sesto Fiorentino, 2006].

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17

lavorandola ad alta temperatura e pressione, costringendo così l’idratazione dell’ossido non reagito nel

nucleo delle particelle. Inoltre, l’espansione volumetrica che segue la completa idratazione dell’ossido

porta alla diminuzione della dimensione delle particelle. In questo modo possono essere ottenute

nanoparticelle di idrossido di calcio come piastrine esagonali di dimensione media di circa 150-300 nm.

Il principale vantaggio di questa procedura di preparazione è la grande quantità di particelle prodotte

senza necessità di ulteriori purificazioni. Va sottolineato che modificando i parametri del trattamento

termomeccanico del grassello di calce possono essere prodotte nanoparticelle con distribuzione

dimensionale bi-modale. La seconda popolazione, che rappresenta una minoranza di tutta la

distribuzione, è nel range degli 800 nm. Una distribuzione bimodale può essere utile nel consolidamento

di substrati con alta porosità poiché le particelle più piccole possono facilmente penetrare nei pori sub-

micrometrici, mentre le più grandi aderiscono ai pori più grandi e alle fratture o distacchi superficiali di

dimensioni micrometriche.

Processi “bottom-up”

A partire dall’inizio degli anni 1990 i ricercatori della CSGI (Consorzio Interuniversitario per lo Sviluppo

dei Sistemi a Grande Interfase; Centro di ricerca per la Scienza dei Colloidi e delle Superfici, fondata a

Firenze da Ferroni nel 1993) hanno sviluppato la prima formulazione di idrossido di calcio in propanolo

e l’uso di dispersioni stabili di Ca(OH)2 per la conservazione dei Beni Culturali è stato successivamente

brevettato (FI/96/A/000255) [8]. Da allora, numerosi perfezionamenti e miglioramenti sono stati

effettuati, e una formulazione commerciale di idrossido di calcio nanoparticellare in 2-propanolo è

disponibile sul mercato dal 2008 sotto il marchio Nanorestore® [9] (Fig. 2.1.2).

Diversi metodi del tipo “bottom-up” sono stati proposti per la preparazione di dispersioni di

nanoparticelle di Ca(OH)2 in alcoli, e numerose applicazioni di questi sistemi sono state effettuate per la

conservazione di dipinti murali e pietre carbonatiche [7,10,11]. Oltre alla dimensione, molte altre

caratteristiche, quali

la distribuzione delle dimensioni (dispersità);

il solvente usato per disperdere le particelle e la sua interazione sia con la superficie delle

particelle (ad esempio adsorbimento) sia con il substrato artistico (bagnabilitá);

l’habitus cristallino delle particelle e la cristallinità;

la dimensione dei domini cristallini e la presenza di difetti;

l’area superficiale delle particelle;

influenzano il comportamento delle nanoparticelle per il consolidamento delle matrici porose

carbonatiche.

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

18 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Le particelle di nanocalce vengono sintetizzate secondo varie procedure per ottenere cristalli

nanodimensionati di forma esagonale nell’intervallo 3-300 nm. La dimensione e la forma delle particelle

possono essere definite mediante un’appropriata selezione di determinati parametri di reazione, come

la temperatura di reazione, la concentrazione dei reagenti e il loro rapporto molare.

Ziegenbalg [12] ha fornito una panoramica del prodotto commerciale CaLoSiL® (da IBZ-Salzchemie

GmbH & Co. KG) [13], prodotto dall’ottobre del 2006, e del suo uso per il rafforzamento delle pietre

carbonatiche. CaLoSiL® è stato il primo prodotto consolidante a base di nanoparticelle di Ca(OH)2

disponibile in commercio per il consolidamento. Esso contiene nanoparticelle di idrossido di calcio

sospese in differenti alcoli. In questo caso, nanosol di idrossido di calcio vengono sintetizzati

direttamente dalla soluzione di alcool. Le particelle ottenute hanno dimensioni di 50-250 nm, e vengono

disperse in alcoli a catena corta come l’etanolo, 1-propanolo e 2-propanolo, con un intervallo di

concentrazione di 5-25 g/L.

Salvadori e Dei [5] invece hanno studiato un percorso sintetico atto a diminuire la dimensione delle

particelle di Ca(OH)2 in base al fatto che nei processi sintetici temperature sopra i 100°C (in mezzi non

acquosi) promuovono la formazione di particelle di dimensioni nanometriche [14] e che i solventi

organici influiscono su dimensione e forma delle particelle precipitate [15,16].

Per raggiungere temperature maggiori di 100°C é stato sviluppato un metodo basato sui dioli

come mezzi di reazione. Questo metodo implica diverse peptizzazioni delle particelle sintetizzate poiché

la solubilita del Ca(OH)2 nei dioli é maggiore che in acqua. Pertanto, cloruro di calcio idrato

(CaCl2·2H2O) è stato solubilizzato in etandiolo (ED) o propandiolo (PD) ad alta temperatura (150 o

Figura 2.1.2. Sx: aggregazione delle nanoparticelle di idrossido di calcio in acqua; Dx: l’adesione delle facce è

inibita grazie all’assorbimento del 2-propanolo, portando alla stabilizzazione della dispersione [P. Baglioni, D.

Chelazzi, R. Giorgi, In: “Nanotechnologies in the Conservation of Cultural Heritage A compendium of materials

and techniques”, Springer (2015)].

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175°C), e poi una soluzione acquosa di NaOH è stata aggiunta goccia a goccia per precipitare particelle

di idrossido di calcio.

CaCl2 (ED) + 2NaOH ( aq) → Ca(OH)2 ( s) + 2NaCl ( s)

Il sistema viene tenuto sotto agitazione per qualche minuto. In seguito le particelle vengono separate

dal surnatante e si avvia il cosiddetto processo di peptizzazione, ovvero di disgregazione: gli

agglomerati così creati di particelle microdimensionate vengono lavati diverse volte con un solvente

alcolico (2-propanolo) e immersi in un bagno ultrasonico per rimuovere i dioli adsorbiti e peptizzare le

particelle. Questa azione combinata realizza la separazione tra le nanounità che costituiscono gli

agglomerati micrometrici e permette di individuare singole unità di dimensione inferiore ai 100 nm per

lato. Molti parametri di reazione influiscono sulla dimensione e forma delle particelle ottenute. In

particolare, un tempo di agitazione breve produce particelle molto piccole e quasi sferiche (30-60 nm),

invece particelle sottoforma di piastrine esagonali, la cui dimensioni varia da 50 a 150 nm, sono

prodotte in funzione del rapporto molare tra i reagenti (Tab. 2.1.1).

Tabella 2.1.1 - Parametri di reazione che influiscono sulla dimensione particelle ottenute.

Solvente T

°C

NaOH/

mol dm-3

CaCl2/

mol dm-3 NaOH/CaCl2

Agitazione

min

Dimensione

nm

ED 150 1.50 0.75 2.0 40 60 – 150

PD 150 1.50 0.75 2.0 40 50 – 120

ED 150 0.70 0.50 1.4 5 30 – 60

ED 150 0.70 0.50 1.4 40 40 – 80

PD 150 0.70 0.50 1.4 40 60 – 90

ED 175 0.17 0.10 1.7 40

ED 175 0.18 0.14 1.2 5

ED 175 0.18 0.14 1.2 40

ED 115 0.70 0.50 1.4 40 > 200

Misure XRD hanno mostrato che le particelle sintetizzate sono cristalline e che il 2-propanolo è

adsorbito sulla superficie basale delle piastrine esagonali. In particolare, è il gruppo ossidrile (-OH) delle

molecole dell’alcool che assorbe (fisiosorbimento) sulla superficie delle particelle di idrossido [17,18]. È

interessante notare che dopo l’essiccazione, le particelle tendono ad accumularsi lungo la faccia basale

{001}, come evidenziato dall’XRD. In questo modo, le particelle formano strati all’interno della matrice

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20 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

porosa del substrato, e quindi sottoposte a carbonatazione formano una rete di CaCO3 che fornisce il

consolidamento (Fig. 2.1.3).

Successivamente, Nanni e Dei [19] hanno effettuato la sintesi di nanoparticelle di Ca(OH)2 in

microemulsioni acqua-in-olio (w/o) cui la fase olio è cicloesano. Due emulsioni w/o sono miscelate,

contenenti rispettivamente ioni Ca2+ e OH- nelle gocce d’acqua disperse. Le gocce d’acqua disperse di

dimensioni nanometriche in cicloesano servono quindi come “template”: la formazione di nanoparticelle

solide avviene all’interno delle goccioline e di conseguenza la dimensione finale delle particelle è molto

piccola (2-10 nm) (Fig. 2.1.4).

Figura 2.1.3. Dipinti Maya scoperti nella “Antigua Ciudad Maya de Calakmul”, patrimonio mondiale dell’UNESCO

(Campeche, Messico). Dispersioni di nanoparticelle di Ca(OH)2 sono state utilizzate per consolidare lo strato dipinto

decoeso e soggetto a polverizzazione. Dopo il restauro la superficie dipinta ha recuperato la sua tonalità di colore

originale perché la ri-coesione dei pigmenti nello strato superficiale minimizza la diffusione della luce che aveva

conferito opacità alle pitture murali [P. Baglioni, R. Giorgi, Soft Matter (2006) 2, 293].

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21

Il fattore più critico è la scelta della composizione più adatta per la microemulsione. Tuttavia misure

XRD hanno mostrato che le particelle con dimensioni così piccole sono altamente reattive alla CO2

atmosferica. Infatti, per tali particelle piccole è difficile distinguere tra la carbonatazione della superficie

e quella del bulk, e anche la semplice manipolazione necessaria per l’analisi XRD porta alla completa

trasformazione del Ca(OH)2 in CaCO3. Quindi, l’uso di queste particelle per il consolidamento dei dipinti

murali potrebbe essere ostacolato da una reattività troppo veloce, e questa sintesi è stata invece

considerata per preparare particelle ultrafini di carbonato di calcio.

Un’interessante sintesi di nanoparticelle di idrossido di calcio tramite utilizzo di “template” è stata

proposta da Xu et al. [20]: polimeri idrosolubili (PVA e PEG) sono impiegati per controllare la formazione

di strutture specifiche e per ottenere particelle il cui diametro varia dai 50 ai 100 nm.

Un approccio diverso per ottenere cristalli nanometrici di Ca(OH)2 riguarda l’uso di un bulk di calcio

metallico come reagente di partenza. In particolare, un metodo di reazione metallo-plasma idrogeno ha

portato alla produzione di nano particelle, per fusione ad arco di lingotti di Ca parzialmente ossidati, in

atmosfera di azoto/idrogeno [21].

Volpe et al. [22] hanno brevettato un procedimento (WO2014/020515 A1) per la sintesi di nanoparticelle

di Ca(OH)2 con dimensioni inferiori ai 100 nm tramite resine a scambio ionico (Dowex Marathon 550 A

Figura 2.1.4. Sintesi di nanoparticelle di Ca(OH)2 in

microemulsione acqua-in-olio (w/o). Due emulsioni w/o sono

mescolate, contenenti rispettivamente ioni OH- (B) e Ca2+ (A) e

gocce d’acqua disperse, che fungono da template: la formazione

di nanoparticelle solide avviene all’interno delle goccioline

d’acqua [P. Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, In:

“Nanotechnologies in the Conservation of Cultural Heritage A

compendium of materials and techniques”, Springer (2015)].

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22 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

(OH)), senza la necessità di lavaggi della sospensione. Il processo proposto lavora a temperatura

ambiente, permette di ottenere una sospensione senza NaCl, è caratterizzato da un’alta resa, ha tempi

di produzione molto brevi (la produzione delle nanoparticelle è completa nei primi 5–10 minuti) ed è

facilmente scalabile a livello industriale.

Recentemente, Poggi et al. [23] hanno riportato un procedimento alternativo per la sintesi di

nanoparticelle di Ca(OH)2 tramite una reazione termo-alcolica a partire da un bulk metallico e alcoli a

catena corta come etanolo e 1-propanolo. La sintesi viene condotta ad alta temperatura e pressione, e

si compone di due fasi: prima calcio metallico viene ossidato dall’alcool per formare un alcossido; poi

questo intermedio si idrolizza e porta alla formazione delle nanoparticelle di idrossido già disperse nel

solvente appropriato per l’applicazione pratica. Il processo non richiede ulteriori fasi di purificazione e

porta alla produzione di dispersioni concentrate (35 g/L o superiore), che favorisce l’up-scaling della

produzione. Le particelle disperse in etanolo hanno una distribuzione bimodale con una popolazione

centrata a 80 nm e una popolazione minore centrata a 220 nm. Le particelle in 1-propanolo tendono a

formare cluster di circa 260 nm. In entrambi i casi il processo porta alla produzione di particelle

altamente cristalline che possono essere utilizzate per il consolidamento. Nanodispersioni simili sono

anche utili per il controllo del pH, e sono stati registrati nel 2014 con il marchio Nanorestore Paper ®,

disponibili su richiesta dal CSGI (Fig. 2.1.5).

Recentemente Natali et al., all’interno del progetto EC NANOMATCH, hanno sviluppato una via di

sintesi per la produzione di alcossidi metallici come precursori molecolari per la deposizione di

carbonati, come via alternativa ai tradizionali agenti consolidanti costituiti da nanoparticelle di idrossido

di calcio [24]. La sintesi degli alcossidi di calcio, prevede reazioni ammoniaca gas-assistite con il

corrispondente alcool, e vengono effettuate in atmosfera di azoto i glove-box con l’esclusione di umidità

Figura 2.1.5. (a) immagine SEM di una fibra di cellulosa con nanoparticelle di idrossido di calcio depositate

(indicate dalle frecce). (b) e (c) sono campioni di carta 3x3 cm2 del 19° secolo. Entrambi sono stati invecchiati

artificialmente. Il campione (b) è stato deacidificato utilizzando nanoparticelle di idrossido di calcio, mentre il

campione (c) non è stato trattato. L’intensità del colore marrone è proporzionale alla quantità di degrado della carta

[R. Giorgi, L. Dei, M. Ceccato, C. Schettino, P. Baglioni, Langmuir (2002) 18, 8198].

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23

e ossigeno, secondo procedure già descritte in letteratura [25]. All’interno del progetto, due alcossidi

sono stati selezionati sulla base delle loro proprietà (solubilità nei comuni solventi organici, volatilità del

corrispondente alcool, bassa tossicità): Ca(OCH2CH3)2 (detto NANOMATCH2) e Ca(OTHF)2, dove THF

= frazione tetraidrofurfurilica (detto NANOMATCH1).

Sebbene diverse metodologie sintetiche possono essere usate [26] per sintetizzare alcossidi di

magnesio, test preliminari di carbonatazione effettuati con prodotti commerciali hanno dimostrato che

essi non sono adatti per la conservazione del patrimonio costruito [27,28].

Le caratteristiche previste che rendono competitivi gli alcossidi rispetto ai prodotti di conservazione

convenzionali sono loro (i) compatibilità con i principali materiali utilizzati nel patrimonio costruito come

pietra e legno -anche dipinto- e vetro, garantendo maggiore durata, reversibilità, sostenibilità e

efficienza, (ii) facile e sicura applicazione, (iii) prezzi di vendita soddisfacenti.

2.2. Idrossido di Magnesio

La sintesi dell’idrossido di magnesio è un crescente e attivo campo di ricerca per il fatto che queste

particelle hanno molte applicazioni nel campo industriale, come ritardanti di fiamma o come precursori

per la sintesi di ossidi.

Negli ultimi 10 anni, alcuni “classici” percorsi di sintesi sono stati modificati e adattati per la produzione

di nanoparticelle di idrossido di magnesio per la conservazione del patrimonio culturale. In particolare,

Mg(OH)2 nanoparticelle, ottenuto tramite reazioni acquose in fase omogenea e disperso in alcool, è

stato utilizzato per la deacidificazione della carta, della tela, e del legno [29-33].

Processi “bottom-up”

Come nel caso dell’idrossido di calcio, nanoparticelle possono essere preparate a temperatura

ambiente, aggiungendo ammoniaca ad una soluzione acquosa di cloruro di magnesio [34]. L’aggiunta di

un tensioattivo, per esempio CTAB (bromuro di cetil-trimetilammonio), al sistema porta alla formazione

di fiocchi con spessore di 80 nm [35]. I diversi effetti sui prodotti di reazione, compresa la presenza di

tensioattivi, la fonte di magnesio, la concentrazione di ioni e l’iniziale pH della reazione, sono stati

studiati da Li et al. come parametri chiave nella preparazione di nanopiastrine di idrossido di magnesio

[36].

Le nanoparticelle di Mg(OH)2 possono essere ottenute anche mediante un processo idrotermale: Jin et

al. hanno miscelato nitrato di magnesio e idrazina a temperatura ambiente e poi trasferito il precipitato

bianco in un autoclave a 150°C per terminare il processo, in modo da ottenere nanofiocchi di forma

esagonale [37]. Un approccio simile è stato adottato da Cao et al. per produrre nanoflowers di idrossido

di magnesio attraverso un processo di auto-assemblaggio, partendo da MgCl2·6H2O, NaOH e glicina.

Quest’ultima è responsabile della crescita della struttura supramolecolare complessa [38]. Entrambi

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

24 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

questi percorsi sintetici hanno portato alla produzione di particelle con proprietà promettenti per la loro

applicazione come ritardanti di fiamma.

D’altra parte, nanoplacchette di idrossido di magnesio sono state sintetizzate utilizzando microemulsioni

acqua-in-olio come microreattori a spazio confinato per controllare la nucleazione, la crescita e la

cristallizzazione delle particelle. Il Cloruro di magnesio, solubilizzato all’interno delle gocce d’acqua,

ossia la fase dispersa di una microemulsione quaternaria di Triton X-100/cicloesano/n-esanolo, reagisce

con l’ammoniaca che gorgoglia all’interno del sistema [39]. Questo processo di sintesi porta alla

produzione di particelle Mg(OH)2 che possono essere facilmente disperse in oli, grazie al tensioattivo

residuo. La loro idrofobicità è una fondamentale caratteristica per la loro stabilizzazione in solventi

organici, generalmente usati per la sintesi di polimeri. Così le particelle possono essere utilizzate per

fornire proprietà ignifughe al materiale polimerico sintetizzato.

Negli ultimi 5 anni, sono stati sviluppate metodologie per la produzione di nanoparticelle, specificamente

pensate per l’applicazione alle opere d’arte [6,40-42]. Ai fini del consolidamento, le nanoparticelle di

idrossido di magnesio devono presentare le seguenti caratteristiche: il diametro medio dovrebbe variare

da 100 a 500 nm; inoltre, le particelle non dovrebbero raggrupparsi per ottenere dispersioni stabili

(almeno durante il tempo di applicazione, di solito alcune ore). Vale la pena notare che, nel campo della

scienza conservazione, le particelle di idrossido di magnesio sono di solito impiegate per la

deacidificazione di opere d’arte, quali la carta, la tela e il legno (Fig. 2.2.1). In particolare, piccole

particelle sono preferite per il trattamento di materiali a bassa porosità, e l’idrossido di magnesio può

essere di solito ottenuto in dimensioni più piccole rispetto all’idrossido di calcio. Le particelle con

diametro compreso da 50 a 300 nm possono essere prodotte tramite una reazione in fase omogenea

controllando fattori quali temperatura, concentrazione di ioni e del tipo di controioni [30,42].

Figura 2.2.1. Campioni di carta inchiostrati dopo invecchiamento artificiale: (A) un campione non protetto e (B)

un campione trattato con nanoparticelle di Mg(OH)2 per proteggerlo dalla corrosione ad opera dell’inchiostro

ferro-gallico. Dopo 48 h di invecchiamento artificiale il campione non trattato esibisce severo danneggiamento e

non puó essere manipolato, invece il campione trattato conserva le sue originali proprietà meccaniche [P.

Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110].

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25

Per quanto riguarda il consolidamento, l’applicazione di dispersioni di Mg(OH)2 è principalmente

impiegata nella conservazione di substrati di carbonato di calcio e magnesio, ad es. pietre dolomitiche

[10], e richiede particelle con una dimensione media di circa 250 nm. In questo caso sistemi misti

contenenti idrossido di calcio e idrossido di magnesio nanoparticellare sono preferiti.

2.3. Idrossido di Bario

L’idrossido di bario è stato usato come consolidante per materiali carbonatici fin dalla fine del 19°

secolo [43]. Ferroni ha proposto l’uso di soluzioni acquose di idrossido di bario per il consolidamento di

affreschi che erano stati pesantemente danneggiati nell’alluvione di Firenze del 1966 [44,45]. Il suo

utilizzo è consigliato quando grandi quantità di solfati sono presenti nella matrice della pittura murale. Il

metodo Ferroni è una procedura in due fasi: (1) desolfatazione con soluzione di carbonato d’ammonio,

(NH4)2CO3, caricata in un impasto di polpa di cellulosa e (2) l’applicazione di una soluzione di Ba(OH)2

che trasforma il residuo di solfati solubile in solfato di bario insolubile:

(1) (NH4)2CO3 + CaSO4·2H2O → (NH4)2SO4 + CaCO3 + 2H2O

(2) (NH4)2SO4 + Ba(OH)2 → BaSO4 + 2NH3 + 2H2O

Inoltre, la presenza di idrossido di bario in eccesso converte il carbonato di calcio polverizzato (formato

nello stadio 1) in idrossido di calcio che reagisce con la CO2 atmosferica per riformare un reticolo

cristallino di carbonato di calcio che agisce come legante, con conseguente azione consolidante (Fig.

2.3.1).

Inoltre, l’idrossido di bario può essere utilizzato insieme a dispersioni di nanoparticelle di idrossido di

calcio per il consolidamento di pitture murali pesantemente degradate dai solfati. Infatti, in questo caso,

le nanoparticelle di Ca(OH)2 da sole non sono molto efficienti perché l’azione di consolidamento è

Figura 2.3.1. Crocifissione del

Beato Angelico (15° secolo,

Firenze). A sinistra, un’immagine

pre-restauro del dipinto murale. A

destra, un’immagine post-restauro.

La desolfatazione e il

consolidamento sono stati eseguiti

con il metodo Ferroni-Dini [P.

Baglioni, R. Giorgi, Soft Matter

(2006) 2, 293].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

26 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

ostacolata dalla sua parziale trasformazione a solfato di calcio più stabile. In questo caso, la soluzione

più semplice ed elegante è l’applicazione di dispersioni di nanoparticelle miste di idrossido di calcio e

idrossido di bario in alcol.

Va sottolineato che per un corretto processo di conservazione i solfati devono essere rimossi il più

possibile dal manufatto prima dell’utilizzo dell’ idrossido di calcio e dell’idrossido di bario per il

consolidamento.

Processi “top-down”

Il processo di sintesi delle nanoparticelle di idrossido di bario è più complicato di quello per l’idrossido di

calcio. Dal momento che il Ba(OH)2 è abbastanza solubile in acqua (Ksp = 2,55·10-4) il raggiungimento

di un elevato grado di sovrasaturazione, che è fondamentale per ottenere particelle nanometriche

durante una reazione acquosa in fase omogenea viene ostacolato. Quindi Giorgi et al. utilizzano un

processo di macinazione di macrocristalli di Ba(OH)2 per l’ottenimento di dispersioni di particelle, nel

range 200 to 400 nm, piuttosto stabili in propanolo [7]. È stato dimostrato che quando sono presenti

solfati solubili nei substrati, una dispersione mista di idrossido di calcio e idrossido di bario permette un

consolidamento più efficace rispetto ad una pura di Ca(OH)2 [7].

Recentemente, dispersioni di nanoparticelle miste di idrossido di calcio e bario (Fig. 2.3.2) hanno

dimostrato di essere altamente efficaci nel consolidamento delle pitture murali fortemente contaminate

da sali (principalmente solfati e cloruri) [7,10].

Un ulteriore vantaggio dell’uso di dispersioni di nanoparticelle di Ba(OH)2 in solventi non acquosi è

rappresentata dalla tossicità molto bassa rispetto a quella delle soluzioni acquose di sali di bario.

Figura 2.3.2. (A) dipinto murale appartenente a un sito archeologico mesoamericano. (B) Particolari di una superficie

sfaldata che presenta efflorescenze solfatiche. (C) La stessa superficie dopo il trattamento desolfatante con carbonato d’

ammonio e applicazione di una dispersione mista di nanoparticelle di idrossido di calcio e idrossido di bario [P. Baglioni,

D. Chelazzi, R. Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110].

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27

2.4. Idrossido di Stronzio

Il nanoidrossido di stronzio Sr(OH)2 é, insieme alla nanocalce, un consolidante facente parte degli

idrossidi alcalini.

Questo materiale é ancora in fase sperimentale ma può avere interessanti applicazioni nella

conservazione del patrimonio culturale in luogo di soluzioni molto tossiche come ad esempio l’idrossido

di bario. Viene spesso utilizzato anche per l’eliminazione di sali nella pietra, nelle pitture murali e nei

rivestimenti in gesso, grazie alla loro alta reattività con gli ioni solfato [46]. Grazie al suo carattere

basico, entrando in contatto con superfici che hanno subito processi di acidificazione per via di agenti di

deterioramento, come pietre di tipo carbonatico (calcare, dolomia, marmo), malte e ceramiche, può

modificare il loro pH e portare alla loro de acidificazione.

Processi “bottom-up”

Come si verifica con il bario, la solubilità dell’ idrossido di stronzio in acqua ostacola la sua sintesi

attraverso reazioni in fase omogenea. Tuttavia, la letteratura riporta un esempio di via sintetica in fase

omogenea a bassa temperatura [47]. Il processo sperimentato produce le nanoparticelle di idrossido di

stronzio iniziando da materiali grezzi a basso costo in mezzo acquoso (fase omogenea) e a bassa

temperatura (sotto i 100°C) tramite precipitazione chimica da soluzioni saline, richiedendo passi

operativi molto semplici ed evitando l’uso di solventi organici, apparecchiature specialistiche, lunghi

tempi di processo o componenti chimici costosi. I materiali impiegati sono il nitrato di stronzio Sr(NO)3

(purezza del 99,95%) e l’idrossido di sodio NaOH (purezza del 99,99%), utilizzati senza ulteriori

processi di purificazione. Quantità appropriate dei due composti vengono dissolte in acqua

separatamente in modo da ottenere soluzioni 0,7 M per il nitrato di stronzio e 0,3 M per l’idrossido di

sodio. La soluzione di Sr(NO)3 viene poi riscaldata fino alla temperatura di sintesi di 60°C con un bagno

termostatico ad acqua. La reazione ha luogo facendo gocciolare, mediante energica agitazione, la

soluzione basica nella soluzione salina di stronzio, mantenendo la temperatura costante al valore di

60°C±1°C. La selezione delle concentrazioni della soluzione e della temperatura sono essenziali per

raggiungere l’alto grado di supersaturazione necessario per avere una velocità di nucleazione

dell’idrossido di stronzio sufficientemente più grande rispetto alla velocità di accrescimento dei cristalli

[48]. Quando la precipitazione di Sr(OH)2 é completa, la miscela viene mescolata energicamente e

continuamente per ulteriori 60 min (tempo di invecchiamento) in modo da disgregare il precipitato

bianco nel minor tempo possibile. La sospensione acquosa di Sr(OH)2 viene poi raffreddata fino a

temperatura ambiente e lasciata decantare per 24 ore. La soluzione supernatante viene aspirata e la

sospensione rimanente viene lavata per tre volte con acqua fredda deionizzata (lasciando decantare la

soluzione ogni volta per 24 ore) in modo da eliminare il nitrato di sodio solubile in eccesso. Infine, la

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

28 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

sospensione acquosa di Sr(OH)2 viene trattata in un bagno ultrasonico per 30 min per ridurre

ulteriormente le dimensioni delle particelle. Tutte le operazioni vengono compiute in atmosfera d’azoto

per evitare indesiderati effetti collaterali come la formazione di carbonati derivanti da atmosfere con

diossido di carbonio.

La morfologia della polvere di idrossido di stronzio così preparata è costituita da una grande quantità di

particelle nanodimensionate, le quali si presentano omogenee, con una forma ben definita e

abbastanza regolare (quasi sferica), e una dimensione media molto piccola (circa 30 nm di diametro).

L’idrossido di stronzio subisce poi una reazione con la CO2 atmosferica che dà origine a carbonato di

stronzio. Proprio la formazione di carbonato di stronzio indirizza l’utilizzo di questo prodotto al

consolidamento dei beni del patrimonio culturale. Infatti, se una dispersione di nanoidrossido di stronzio

viene applicata sugli affreschi o su materiale lapideo, potrebbe penetrare dentro i materiali e reagire con

il diossido di carbonio, formando carbonato di stronzio. Dato che il volume molare del carbonato di

stronzio e simile a quello del carbonato di calcio (Tab. 2.4.1), si possono evitare tensioni meccaniche

all’interno degli strati del materiale. Un altro punto che merita di essere menzionato é che l'accumulo di

carbonato di stronzio negli strati di intonaco dei dipinti murali potrebbe fornire una funzione protettiva

come materiale sacrificale. Infatti il carbonato di stronzio proveniente dal processo di carbonatazione,

reagendo con gli inquinanti atmosferici produce solfato di stronzio (celestite, SrSO4). La costante di

solubilità e più bassa di quella del gesso (Tab. 2.4.1), quindi é prevalentemente il carbonato di stronzio

a reagire con gli ioni solfato e non si arriva al consumo di carbonato di calcio, evitando cosi la

formazione di solfato di calcio bi-idrato solubile. Test in provetta hanno inoltre rivelato che l’idrossido di

stronzio é in grado di reagire, oltre che con il diossido di carbonio atmosferico, anche con gli ioni di

solfato derivati del gesso. Quindi può essere usato come nuovo materiale sacrificale sia in affreschi che

in restauri di gesso senza i problemi di tossicità tipici delle soluzioni di idrossido di bario. I dati

sperimentali raccolti suggeriscono quindi che i nanocristalli di idrossido di stronzio potrebbero

rappresentare una buona alternativa agli altri tradizionali metodi usati nella protezione e nel

consolidamento dei manufatti del patrimonio artistico.

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29

Tabella 2.4.1 – Confronto di volume molare e costante di solubilità per idrossidi, carbonati e solfati di calcio e stronzio.

Costante di solubilità a 25 °C

(mol/l)

Volume molare

(cm3/mol)

Ca(OH)2 4.8 x 10-5

Sr(OH)2 3.2 x 10-4

CaCO3 calcite 3.36 x 10-9 36.90

SrCO3 stronzianite 5.60 x 10-10 39.57

CaSO4 ·2H2O gesso 3.14 x 10-5 74.2

SrSO4 celestite 3.44 x 10-7 41.81

2.5. Biossido di Silicio

Nanoparticelle di silice sono di forma sferica e con diametro compreso tra 5 e 100 nm. E’ importante

sapere che esistono decine di tipologie di nanosilici, per dimensioni e distribuzione delle particelle,

modalità di stabilizzazione, presenza di additivi di vario tipo, e che solo alcune hanno dato risultati

apprezzabili per il settore restauro.

A seconda delle modalità con cui vengono prodotte, le nanoparticelle di silice possono essere:

monodisperse (con una distribuzione dimensionale delle particelle molto ristretta);

polidisperse (con una più ampia distribuzione dimensionale).

In generale la nanosilice si presenta come una dispersione colloidale acquosa, e le sue dimensioni si

attestano al di sotto dei 20 nm, inferiori quindi sia a quelle dichiarate per le microemulsioni acriliche (40-

50 nm) che a quelle della nanocalce (200 nm). Nella soluzione acquosa generalmente sono disperse

delle sostanze con funzione anti-agglomerante, come ad esempio l’idrossido di sodio. Esso induce la

formazione di una carica negativa sulla superficie delle particelle che vengono così a respingersi l’un

l’altra, garantendo la loro stabilità senza agglomerazioni. Eventuali fenomeni di evaporazione possono

però variare la concentrazione delle particelle nella soluzione, con conseguente aumento del rischio di

agglomerazione. A parità di altre condizioni (temperatura, pH, contenuto di eventuali altri additivi), le

condizioni di stabilità della sospensione acquosa aumentano con il grado di diluizione. Grazie alle

ridotte dimensioni delle particelle, la nanosilice [49]si presenta come un liquido molto fluido, anche se

ha un residuo secco del 30%, che nella maggior parte delle applicazioni deve essere diluito con 1-2

parti di acqua, portando così la quantità di silice anche al di sotto del 10%. Prima di essere applicata, la

superficie da trattare deve essere ovviamente pulita e risanata da eventuali efflorescenze presenti. Il

funzionamento è molto semplice: può essere applicata per immersione, mediante pennello o anche a

spruzzo a bassa pressione, ed infine iniettata nelle fessurazioni. A seguito dell’evaporazione dell’acqua,

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30 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

le particelle si legano formando un gel di silice, analogamente a quello che si ottiene dalla reazione del

silicato d’etile (altro materiale molto utilizzato nel campo del restauro per il consolidamento di materiali

lapidei), che può creare dei ponti tra i granuli decoesi di una pietra o di un intonaco (effetto

consolidante), o legare particelle di pigmento sulle superfici lapidee (patinature), oppure può tenere

insieme inerti di vario tipo (realizzazione di malte da stuccatura inorganiche). La formazione del gel di

silice non avviene solo per evaporazione del veicolo acquoso, ma anche agendo su altri tre parametri:

cambiando il pH (mescolato con la calce si cementa improvvisamente);

miscelandolo con solventi idrosolubili (alcool, acetone);

aggiungendo un sale (metodo pero sconsigliato per il settore restauro).

E’ necessario quindi valutare l’influenza di questi parametri prima di procedere all’utilizzo. Nel caso di

sovradosaggio é sempre possibile asportarne l’eccesso, prima dell’indurimento, con tamponi imbevuti in

acqua demineralizzata.

Processi “bottom-up”

Alcuni dei metodi ampiamente utilizzati per sintetizzare nanoparticelle di silice sono:

la microemulsione inversa: molecole di tensioattivi disciolte in solventi organici formano micelle

sferiche. In presenza di acqua, i gruppi di testa polari si organizzano per formare microcavità

contenenti acqua, spesso dette micelle inverse. Il metodo è stato recentemente recensito da

Tan et al. [50]. Le nanoparticelle di silice possono essere cresciute all’interno delle microcavità

controllando attentamente l’aggiunta di alcossidi di silicio ed il catalizzatore nel mezzo

contenente le micelle inverse. I principali svantaggi dell’approccio sono i costi elevati e la

difficoltà nella rimozione dei tensioattivi nei prodotti finali. Tuttavia, il metodo è stato applicato

con successo per rivestimenti di nanoparticelle con diversi gruppi funzionali per varie

applicazioni [51,52].

la sintesi di fiamma: questo processo, detto anche condensazione di vapore chimico (CVC),

prevede che l’alta temperatura di fiamma porta alla decomposizione di precursori metallo-

organici [53]. In un tipico processo CVC, le nanoparticelle di silice vengono prodotte facendo

reagire il tetracloruro di silicio, SiCl4 con idrogeno e ossigeno [54]. La difficoltà nel controllare la

dimensione delle particelle, la morfologia e la composizione della fase sono il principale

svantaggio della sintesi di fiamma [55]. Tuttavia, questo è il metodo prominente che è stato

utilizzato per produrre commercialmente nanoparticelle di silice in polvere.

processo il sol-gel: il processo prevede l’idrolisi e la condensazione di alcossidi metallici

(Si(OR)4) come tetraetilortosilicato (TEOS, Si(OC2H5)4) o sali inorganici come il silicato di sodio

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(Na2SiO3) in presenza di un acido minerale (ad esempio, HCl) o una base (ad esempio, NH3)

come catalizzatore [56-58] (Fig. 2.5.1).

Il processo sol-gel è ampiamente usato per la produzione di particelle di silice pura per la sua capacità

di controllare la dimensione delle particelle, la distribuzione granulometrica e la morfologia attraverso un

controllo sistematico dei parametri di reazione. La formazione di particelle di silice può essere divisa in

due fasi: nucleazione e crescita. Due modelli, monomero addizione [59,60] e aggregazione controllata

[59-63], sono stati proposti per descrivere il meccanismo di crescita della silice (Fig. 2.5.1). Il primo

descrive che, dopo una iniziale improvvisa nucleazione, la crescita delle particelle avviene attraverso

l’aggiunta di monomeri idrolizzati. Invece, nel modello di aggregazione controllata la nucleazione

avviene continuamente durante la reazione e i nuclei risultanti (particelle primarie) si aggregano per

formare dimeri, trimeri e particelle più grandi (particelle secondarie). Entrambi i modelli portano alla

formazione di una rete sferica o gel a seconda delle condizioni di reazione.

Un lavoro pionieristico sulla sintesi di particelle di silice sferiche e monodisperse é stato condotto da

Stöber et al. [58]. Particelle di silice con dimensioni che vanno da 5 a 2000 nm sono stati prodotte da

soluzioni acquose alcoliche di alcossidi di silicio in presenza di ammoniaca come catalizzatore

(condizioni basiche). Molti lavori di ricerca contemporanei descrivono la sintesi di particelle di nanosilice

tramite metodi evoluti dal metodo Stöber, poiché il principale vantaggio di questo metodo è la capacità

di formare particelle di silice sferiche monodisperse rispetto ai sistemi acido-catalizzati che di solito

formano strutture a gel. In linea di principio, nanoparticelle più piccole sono ottenute controllando (o

meglio rallentando) la velocità delle reazioni di policondensazione attraverso la manipolazione dei

parametri di reazione [59,60]. La maggior degli studi convengono che la dimensione delle particelle è

aumentata con l’aumento delle concentrazioni di ammoniaca [59,61-66].

Figura 2.5.1. Formazione schematica della silice da processo sol-gel [I. A. Rahman, P.

Vejayakumaran, Journal of Nanomaterials (2012) 2012, 1].

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32 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

L’aggiunta di piccole quantità di additivi elettroliti anionici (sali di ammonio di Br, I, e Cl) producono

particelle di silice monodisperse da circa 20 nm a 34 nm [67] a seconda degli anioni utilizzati. Si è

constatato che tutte gli anioni sono in grado di ridurre le dimensioni delle particelle del 73-78%, tra

questi Br e I- hanno l’effetto più alto. Fissando la concentrazione dei reagenti e la temperatura, la

dimensione delle particelle e la distribuzione delle nanoparticelle di silice sono altamente dipendenti

dalla modalità di miscelazione [68] (Fig. 2.5.2). Jafarzadeh et al., oltre a riportare gli effetti della

miscelazione, utilizzano la tecnica della liofilizzazione (FD) per migliorare ulteriormente la qualità della

polvere, invece della convenzionale asciugatura a caldo (HD).

La dimensione media delle particelle prodotte è di 10,6±1,4 nm, 13,8±1,7 nm e 14,9±1,6 nm per la

modalità A, B, e C, rispettivamente. Inoltre la modalità porta alla produzione di nanoparticelle con una

distribuzione dimensionale e di forma molto stretta e con un basso stato di aggregazione e

agglomerazione. Così la modalità A è una procedura consigliata per la preparazione di nanoparticelle di

silice monodisperse.

Nel continuo tentativo di ridurre le dimensioni della nanosilice, la produzione di nanoparticelle di silice di

circa 7,1 nm, nell’intervallo dimensionale primario, omogenee, altamente disperse e stabili è riportata da

Rahman et al. [64] alle condizioni ottimali del processo sol-gel, sotto l’influenza di ultrasuoni a bassa

frequenza. La tecnica sviluppata e ottimizzata è semplice e riproducibile e porta ad un alto rendimento,

circa il 75%, di silice nanometrica.

Figura 2.5.2. Preparazione della nanosilica con differenti modi di

miscelazione [M. Jafarzadeh, I. A. Rahman, C. S. Sipaut, Journal

of Sol-Gel Science and Technology (2009) 50, 328].

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33

Funzionalizzazione delle Nanoparticelle di Silice

La modificazione chimica di superficie della silice con gruppi organofunzionali è un passo importante

per la preparazione di nanocompositi silice-polimero. Più precisamente, le modificazioni superficiali

vengono utilizzate per migliorare l’affinità tra le fasi organiche e inorganiche e allo stesso tempo

migliorare la dispersione delle nanoparticelle nella matrice polimerica [69-75].

Modifiche di superficie della silice con agenti silanici è una delle tecniche più efficaci disponibili. Gli

agenti silanici (Si(OR)3R') hanno la capacità di legare i materiali inorganici, come nanoparticelle di silice,

a resine organiche. In generale, la porzione Si(OR)3 degli agenti di coupling silanici reagisce con la

parte inorganica, mentre il gruppo organofunzionale (R') reagisce con la resina. Alcuni degli agenti più

comuni di coupling silanici utilizzati per la modifica superficiale della silice sono:

Viniltrietossisilano (VTS);

Metacrilossipropiltrietossisilano (MPTS);

3-Glicidilossipropiltrimetossisilano (GPTS);

3-Amminopropiltrimetossisilano (APTS);

3-Mercaptopropiltrietossisilano (McPTS);

Cloropropiltrietossisilano (CPTS).

In generale, la modificazione chimica della superficie della silice utilizzando agenti di coupling silanici

può essere condotta sia in sistema acquoso che non acquoso, anche detto “post modifica”. Il sistema

non acquoso viene solitamente utilizzato per l’innesto di molecole di APTS sulla superficie della silice. Il

motivo principale per l’utilizzo del sistema non acquoso è impedire l’idrolisi, poiché silani come l’APTS,

che porta gruppi amminici, possono subire reazioni di idrolisi e policondensazione incontrollabili. Per il

sistema non acquoso, le molecole di silano sono fissate alla superficie della silice tramite reazione

diretta di condensazione e la reazione è generalmente condotta in condizioni di riflusso [54]. Invece, il

sistema acquoso è favorevole per la produzione su larga scala. In questo sistema, i silani subiscono

idrolisi e condensazione prima della deposizione sulla superficie. Le molecole alcossi vengono

idrolizzate a contatto con l’acqua. Questo è seguito da reazioni di auto-condensazione tra i silani

idrolizzati. Quindi, le molecole di silano si depositano sulla superficie della silice tramite formazione di

legami silossanici tra i gruppi silanolo e i silani idrolizzati con rilascio di molecole d’acqua [54]. In

generale è stato osservato un leggero aumento delle dimensioni delle particelle (circa il 25%) dopo la

modifica della superficie [71]. Si è notato che i silani epossidici sono più efficaci nel disperdere le

nanoparticelle di silice rispetto ai silani amminici per l’assenza di legami idrogeno tra le particelle.

Vejayakumaran et al. [76] hanno innestato con successo un gruppo amminico su nanosilice (~ 7 nm) in

mezzo non acquoso utilizzando l’APTS. Le particelle di silice così funzionalizzate sono state

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34 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

ulteriormente funzionalizzate con un monomero di Bismaleimmide (BMI) per formare un nanocomposito

Si-BMI tramite addizione nucleofila. La sintesi “one-pot” è un approccio alternativo per ridurre il tempo,

l’energia o altri svantaggi dell’approccio “post modifica”. La co-condensazione è uno dei modi più

comuni per la modifica, grazie alla incorporazione omogenea dei gruppi funzionali organici all’interno ed

all’esterno della massa di particelle di silice. Anche se numerosi metodi di modifica con co-condensation

sono stati riportati per la silice porosa, la modifica di nanoparticelle di silice con questo metodo è stata

meno studiata [77-80]. Un metodo facile e veloce per la preparazione di nanosilice (~60 nm) ammino-

funzionalizzata per co-condensazione in mezzo non acquoso utilizzando l’APTS come agente di

coupling è stato proposto da Rahman et al. [80]. Un gruppo giapponese ha invece preparato

nanoparticelle di silice ammino-funzionalizzata da miscele precursori di tetraetossisilano e

amminopropiltrietossisilano in soluzioni di etanolo/acqua attraverso una procedura sol-gel one-pot [81].

Con questo metodo sono stati ottenute particelle di diametro inferiore ai 200 nm.

Più recentemente, una tecnica “one-pot” in microemulsione w/o è stata usata per sintetizzare

nanoparticelle di silice funzionalizzate da 25 a 200 nm in un miscuglio di TEOS, organosilani (3-

amminopropiltrietossisilano (APTES), 3-mercaptopropiltrimetossisilano (MPTMS), pheniltrimetossisilano

(PTMS), viniltrietossisilano (VTES)) e poliossietilene nonilfenolo etere [82]. Confrontando tra i due

metodi di modifica, il metodo “post modifica” non ha molto effetto sulle dimensioni e sulla distribuzione

dimensionale delle particelle, mentre la sintesi “one-pot” produce particelle molto più grandi,

ovviamente, con bassa aggregazione. Ciò è dovuto alla presenza dei gruppi NH2 che porta l’incremento

del tasso di idrolisi che induce la crescita delle particelle.

2.6. Biossido di Titanio

Il biossido di titanio, detto anche titania, e l’ossido di titanio naturale, una polvere cristallina incolore,

tendente al bianco. E’ un ossido semiconduttore dotato di una elevata reattività per cui può essere

chimicamente attivato dalla luce solare. Appartiene alla categoria di materiali utilizzati nei processi di

ossidazione avanzati (AOP), per la distruzione di specie organiche sintetiche resistenti ai metodi

convenzionali. Gli AOP si basano sulla generazione in situ di specie radicaliche altamente reattive,

principalmente HO, tramite energia solare, chimica o altre forme. Tra queste, le tecnologie a base di

luce solare sono quelle maggiormente eco-compatibili essendo questa una fonte rinnovabile e pulita di

energia. La maggiore attrattiva di tali processi é che i radicali fortemente ossidanti permettono la

distruzione di un ampio range di substrati organici, senza selettività, ma con un’elevata efficienza; infatti

in condizioni opportune le specie da rimuovere vengono completamente convertite a CO2, H2O e sali

minerali innocui. I nuovi materiali in grado di “mangiare”gli inquinanti atmosferici organici e inorganici

applicano il processo della fotocatalisi, reazione chimica che imita la fotosintesi clorofilliana degli alberi

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nell’assorbire e trasformare le sostanze inquinanti in elementi non nocivi [83]. Questo fenomeno é stato

scoperto nel 1972 da Fujishima e Honda, i quali si erano prefissi di scindere l’acqua tramite l’azione

della luce solare (fotoelettrolisi), in analogia a quanto fanno le piante con la fotosintesi [84].

Le sostanze inquinanti e tossiche così vengono trasformate, attraverso il processo di fotocatalisi, in

nitrati di sodio (NaNO3), carbonati di sodio (Ca(NO3))2 e calcare (CaCO3), innocui e misurabili in ppb

(parti per miliardo). Il risultato é una sensibile riduzione degli inquinanti tossici prodotti dalle automobili,

dalle fabbriche, dal riscaldamento domestico e da altre fonti. La tecnologia della fotocatalisi quindi é in

sostanza un acceleratore dei processi di ossidazione già attivi in natura. E i materiali che modificano la

velocità di una reazione chimica, attraverso l’azione della luce, sono i semiconduttori.

La notevole efficacia del biossido di titanio (TiO2) nel neutralizzare le sostanze inquinanti (gas, sali,

particelle solide, fumi, microrganismi, ecc.) é stata oggetto di numerosi studi già a partire dal 1972 in

Giappone, ma il processo di analisi si é intensificato a livello internazionale soprattutto a partire dagli

anni ‘90 e negli ultimi anni. Con lo sviluppo della nanotecnologia l’industria chimica ha ottenuto

nanoparticelle di dimensioni pari a pochi milionesimi di mm, che opportunamente integrate con altre

sostanze, hanno consentito di ottimizzare le caratteristiche del processo di fotocatalisi attivato dalla luce

solare o artificiale e dall’aria in presenza di TiO2. Infatti, se il biossido di titanio é di dimensioni

nanometriche, l’effetto é massimizzato perché é proporzionale al rapporto superficie/volume: gli alti

valori di questo rapporto caratteristici delle nanoparticelle ostacolano la ricombinazione dei portatori di

carica incrementando in modo notevolissimo l’efficienza fotocatalitica. Inoltre a causa dell’alta area

superficiale si ha un elevato numero di siti attivi e quindi un’alta velocità di reazione. Per questo il

biossido di titanio é uno dei materiali fotocatalitici più frequentemente utilizzati per la preparazione di

diversi prodotti (cementi, rivestimenti, vernici), avendo stabilità chimica, termica e fotochimica, che gli

conferiscono un’elevata attività fotocatalitica nell’ossidare gli inquinanti dell’aria e dell’acqua. Inoltre é

un materiale, oltre che fortemente ossidante, anche atossico ed economico. I più importanti esempi di

applicazione del biossido di titanio in calcestruzzo e in altri materiali a base di cemento per rivestimenti

sono la Chiesa Dives in Misericordia a Roma e la Cité de la Musique et des Beaux-Arts a Chambéry in

Francia. Inoltre intonaci a base di biossido di titanio sono stati utilizzati nel tunnel “Umberto I” di Roma,

sulle strade di Anversa, in Belgio, a Florianópolis, in Brasile, e in Italia, come blocchi di pavimentazione,

in zone industriali (Bergamo, Italia) e negli edifici residenziali (Morbegno, Italia) (Fig. 2.6.1).

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36 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Il biossido di titanio partecipa ai processi fotochimici di superficie attraverso l’assorbimento diretto di

fotoni incidenti (Fig. 2.6.2). Coppie elettrone-buca si formano quando il TiO2 viene irradiato con fotoni di

energia maggiore rispetto al suo band gap:

TiO2 + hν → (TiO2) e-(cb) + (TiO2) h+

(vb)

Gli elettroni sono promossi dalla banda di valenza alla banda di conduzione: così la banda di

conduzione funge da zona di riduzione e viceversa la banda di valenza come una zona di ossidazione.

Il biossido di titanio é presente in natura in tre diverse forme cristalline (rutilo, anatasio e brookite,

colorate a causa di impurità presenti nel cristallo) e in fase amorfa. Il rutilo e l’anatasio sono le forme più

diffuse in natura. Il rutilo é un sistema cristallino tetragonale, l’anatasio ha anch’esso struttura

tetragonale, ma più allungata rispetto a quella del rutilo, mentre la brookite ha una struttura ortorombica.

La struttura tetragonale del rutilo contiene due molecole di TiO2 per cella primitiva.

Gli ottaedri TiO6 rappresentano l’unita strutturale di base delle varie strutture polimorfe. Le maggiori

differenze strutturali tra le diverse forme sono nel numero di ottaedri condivisi, cioè due nel rutilo, tre

nella brookite e quattro nell’anatasio. Ciò determina una diversa azione catalitica a vantaggio

dell’anatasio, che permette la migliore combinazione di fotoattività e fotostabilità e per questo trova

maggiore applicazione come fotocatalizzatore. Il rutilo invece é la forma cristallina più stabile

termodinamicamente (se sottoposte ad opportuno ciclo termico, le fasi metastabili si trasformano

Figura 2.6.2. Fotocatalisi del TiO2 [http://ecoalfabeta.blogosfere.it (Cemento per “assorbire” l’inquinamento da NOX);

http://www.alfaetomega.it/linea-ecoattiva.html (La fotocatalisi e le pitture fotocatalitiche)].

Figura 2.6.1. L’uso di prodotti a base di TiO2 in edilizia: la chiesa Dives in Misericordia e la galleria Umberto I, a Roma, e

una strada fotocatalitica in Brasile.

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irreversibilmente in rutilo) e per questo é la più usata industrialmente, soprattutto come pigmento

bianco. Da un punto di vista elettronico, il biossido di titanio é un semiconduttore di tipo n; il valore di

EBG dell’anatasio é pari a 3,2 eV, quello del rutilo é 3,0 eV. Da questi valori, si evince, dall’equazione

1240

BG

hcE h

dove:

EBG = salto energetico;

h = costante di Planck [eV s]

ν = frequenza della radiazione incidente [1/s];

c = velocità della luce nel vuoto [3·108 m/s];

λ = lunghezza d'onda [nm]

che l’anatasio è “attivato” da luce avente lunghezza d’onda λ ≤ 388 nm, ossia dalla porzione UVA dello

spettro elettromagnetico, mentre il rutilo da λ ≤ 413 nm.

L’ossido di titanio é il migliore semiconduttore studiato nel campo della conversione chimica e

dell’immagazzinamento dell’energia solare, nonostante il fatto che assorba solo il 5% della radiazione

solare incidente, questo grazie alla sua capacita di combinare l’alto indice di rifrazione con l’alto grado

di trasparenza nella regione dello spettro visibile.

Un’altra proprietà molto interessante della titania é quella della superidrofilicità, grazie alla quale l’acqua

tende a ricoprire la superficie del materiale senza formare goccioline arrotondate. Questa caratteristica

si manifesta dopo l’esposizione del materiale alla luce UV. Il fenomeno é più accentuato quando il

titanio é in nanoparticelle, in quanto le proprietà superidrofiliche aumentano con l’aumentare del

rapporto superficie/volume. Il fenomeno dell’idrofilia del TiO2 é stato scoperto fortuitamente nei

laboratori della TOTO Ltd., JP, nel 1997 [85]. In pratica, dopo illuminazione UV, parte degli elettroni e

lacune fotogenerati reagiscono in maniera differente, ossia, gli elettroni tendono a ridurre i cationi Ti4+ in

Ti3+ e le lacune ossidano gli anioni O2-. Mediante questo processo, gli atomi di ossigeno sono espulsi e

le vacanze che così si formano vengono ad essere occupate da molecole d’acqua. I gruppi ossidrilici,

che si legano alle molecole di acqua con legami a idrogeno, rendono idrofila la superficie di TiO2.

L’aumento del tempo di esposizione alla luce della superficie di TiO2, riduce l’angolo di contatto con

l’acqua. Se il TiO2 nella forma cristallina dell’anatasio viene esposto alla luce UV si ottengono angoli di

contatto molto bassi (< 1°). Dopo circa trenta minuti sotto una sorgente luminosa UV di moderata

intensità, l’angolo di contatto tende a zero, ciò significa che l’acqua ha la tendenza a ricoprire

perfettamente la superficie, e rimane piatta invece di formare delle goccioline. Se si interrompe

l’illuminazione il comportamento superidrofilo rimane per circa due giorni. In questa situazione il

biossido di titanio presenta un effetto autopulente, infatti lo sporco é lavato via più facilmente da essa,

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38 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

consentendo anche una notevole riduzione della necessità di ricorrere a sostanze detergenti (anche

loro di per se inquinanti). Per applicazioni di questo tipo, il biossido di titanio è impiegato sotto forma di

film molto sottile depositato sulla superficie da preservare. L’efficienza fotocatalitica del film é pero

influenzata dallo spessore, dalla rugosità superficiale, dalla porosità, dalla cristallinità, dalla quantità di

impurità e dalla concentrazione di ioni ossidrilici in superficie. Un altro importante effetto

dell’illuminazione UV sulle superfici rivestite con biossido di titanio é l’azione antimicrobica:

l’eliminazione dei batteri e lo sporco di natura organica subisce il medesimo processo di degradazione

che avviene nel caso degli agenti inquinanti (Fig. 2.6.3). La fotocatalisi infatti non uccide le cellule dei

batteri, ma le decompone. Il sistema sinergico TiO2-luce genera le cosiddette Specie Reattive

all’Ossigeno (ROS), quali O2-, H2O2 e OH·, che vengono coinvolte nell’azione battericida e virucida della

fotocatalisi. In particolare i radicali ossidrile OH· sono agenti ossidanti estremamente potenti. Proprio per

la loro forte capacita ossidativa, l’ossidazione fotocatalitica può effettivamente igienizzare, deodorare e

purificare l’aria, l’acqua e diverse superfici. Inoltre, avendo una durata estremamente breve, ed essendo

generati in prossimità della superficie, risultano innocui verso le persone. Si é scoperto inoltre che

l’effetto antibatterico della titania risulta essere più efficace di qualsiasi altro agente antimicrobico,

perché la reazione fotocatalitica lavora anche quando ci sono cellule che coprono la superficie e

quando i batteri si stanno attivamente propagando.

Molte review [86-88] e libri [89,90] sono stati scritti su questo fotocatalizzatore; il TiO2, nella sua forma

anatasio, possiede proprietà desiderabili per applicazioni in catalisi omogenea ed eterogenea, come:

elevata area superficiale;

tossicità limitata;

alta disponibilità e basso costo;

un’eccellente stabilità termica e fotochimica;

insolubilità in acqua e riciclabilità;

sono usate sostanze chimiche ossidanti non costose e pericolose come O3 o H2O2 (l’ossigeno

disciolto o l’aria sono sufficienti);

fonte di luce libera (luce solare).

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39

Le limitazioni principali dell’uso del TiO2 come fotocatalizzatore sono l’assorbimento di luce con

lunghezze d’onda inferiori ai 400 nm (5-10% della radiazione solare totale sulla superficie terrestre) e le

elevate velocità di ricombinazione di carica. Una frazione significativa della radiazione solare è pertanto

non disponibile per le reazioni, e la ricombinazione elettrone-lacuna (e-/h+) può verificarsi prima che le

reazioni redox avvengano. Per estendere il range di fotoassorbimento nella porzione visibile dello

spettro elettromagnetico (spostamento batocromico del band gap), il drogaggio con metalli

(specialmente ioni di metalli di transizione) o non metalli, nel reticolo cristallino TiO2 o caricandoli sulla

superficie del TiO2 (sensibilizzazione con nanoparticelle metalliche o coloranti organici) è risultato

essere efficace in diversi studi [91]. Utilizzando ioni metallici, il doping ha due vantaggi principali: (i)

riduce l’energia del band gap e (ii) aumenta il tempo prima che avvenga la ricombinazione delle cariche.

Ciò si ottiene tramite l’intrappolamento temporaneo dei portatori di carica fotogenerati nel drogante e

l’inibizione della loro ricombinazione durante la migrazione dall’interno del materiale alla superficie o

aumentando l’associazione degli inquinanti organici funzionalizzati con i siti superficiali degli ioni di

Figura 2.6.3. Crescita fungina su campioni di rovere

non trattati e trattati con TiO2. 6wh e 6br indicano

campioni di rovere contaminati da carie bianca e carie

scura, rispettivamente. Le ultime due foto si riferiscono

a campioni di rovere trattati con TiO2 dopo 50 giorni

dall’inoculo dei due tipi di funghi. Nessun attacco

fungino è evidente in entrambi i casi [G. De Filpo,

A.M. Palermo, F. Rachiele, F.P. Nicoletta, Int Biodeter

Biodegr (2013) 85, 217].

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40 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

doping. La presenza di questi droganti nella matrice cristallina influenza notevolmente le sue proprietà

fisiche e chimiche. L’effetto dello ione metallico di doping è fortemente dipendente da molti fattori, quali

la concentrazione di drogante, la dimensione delle particelle del nanocristallino, la distribuzione dei

droganti e la configurazione d-elettronica degli ioni droganti. Una diminuzione della capacità

fotocatalitica si osserva quando si verifica la transizione di fase da anatasio a rutilo. Questo può essere

migliorato con l’aggiunta di ioni metallici, così la tecnica di preparazione del drogante è un fattore

importante. E’stato dimostrato che la velocità di trasformazione dipende dalle condizioni di doping [92].

Infatti, il modo in cui il drogante è incorporato, e anche il suo stato di ossidazione, l’ambiente chimico, e

la distribuzione, potrebbero avere un effetto sulla trasformazione di fase. Pertanto, è importante capire

l’effetto della distribuzione e del contenuto degli ioni droganti e dei trattamenti termici sulle proprietà

strutturali e di tessitura dei materiali a base di TiO2 per ottimizzare materiali per una specifica

applicazione.

Processi “bottom-up”

Per avere una migliore visione d’insieme, i fotocatalizzatori a base di biossido di titanio possono essere

classificati in tre gruppi [93,94]:

la prima generazione di fotocatalizzatore - TiO2 non drogato;

la seconda generazione di fotocatalizzatore - TiO2 metallo drogato;

la terza generazione di fotocatalizzatore - TiO2 non-metallo-drogato [91].

È importante ricordare che le proprietà fisiche e chimiche del TiO2 sono fortemente dipendenti dalla

sintesi utilizzata per prepararlo [95,96]. Esistono diversi metodi per sintetizzare nanoparticelle TiO2 e

fondamentalmente possono essere suddivisi in due diverse vie di preparazione: metodi in fase gas e

metodi in soluzione [97].

Tra i metodi in fase gas, le tecniche principali sono:

chemical vapor deposition (CVD);

physical vapour deposition (PVD);

spray pyrolysis deposition (SPD).

I metodi in soluzione includono:

metodi solvotermali e idrotermali;

metodo di precipitazione;

metodo in microemulsione;

sintesi di combustione;

sintesi elettrochimica;

metodo sol-gel;

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metodi in micelle e micelle inverse;

metodo sonochemico;

metodo delle microonde.

I metodi di sintesi riportati in letteratura della titania non drogata (prima generazione) da utilizzare come

fotocatalizzatore sono diversi. I piú utilizzati, che in generale portano alla formazione di TiO2

nanostrutturato, possono essere cosi classificati:

idrolisi in condizioni idrotermali da: tetraetossido di titanio a temperature > 250°C, TiOSO4 [98],

soluzione acquosa di TiCl4 [99] e solfato di titanio [100];

idrolisi di vapore di tetraisopropossido di titanio a 260°C [101];

idrolisi da sol-gel e precipitazione da isopropossido di titanio, seguito da trattamento idrotermale

[102];

processo di precipitazione omogenea (HPP), a partire da soluzione acquosa di TiOCl2 e

successivo trattamento termico a temperature > 400°C per ottenere polveri cristalline di TiO2

[103].

Indicativamente, i metodi che si avvalgono di solfati o cloruri sono sconsigliabili per la presenza di

impurezze nei prodotti finali. In particolare, l’impiego di TiCl4 come precursore, non permette di

controllare facilmente durante il trattamento termico la forma, dimensione e distribuzione delle particelle

di ossido. Inoltre, il rilascio di HCl o Cl2 rappresenta un aspetto negativo ed i costi di produzione sono

elevati. Per contro, i metodi sol-gel e di sintesi idrotermale consentono di controllare meglio le

caratteristiche morfologiche della polvere. Nel sol-gel, comunque, l’utilizzo di alcossidi necessita di un

attento controllo della reazione ed inoltre, essendo molto costosi, il loro potenziale di

commercializzazione é limitato. Il metodo della sintesi idrotermale produce polveri di elevata qualità,

anche se è un processo continuo e di difficile realizzazione. Il metodo della precipitazione omogenea

sembra offrire un buon compromesso fra polveri di buona qualità e costi relativamente contenuti.

Lo scopo primario di qualsiasi tipo di modifica di TiO2 è di spostare l’assorbimento della luce nella

gamma visibile e aumentare la conduttività elettrica. Inoltre, altre caratteristiche come acidità

superficiale, cristallinità, e la dimensione dei cristalliti devono essere considerate e migliorate per il

processo di fotocatalisi a base di TiO2. A questo scopo sono stati sviluppati una grande varietà di

metodi di modifica del TiO2 che in generale, si possono distinguere in modifiche di volume o di

superficie.

La seconda generazione è rappresentata dalTiO2 metallo-drogato, e può essere ottenuta tramite:

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42 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

formazione di una soluzione solida di due (o più) composti con differenti band gap che si

traduce nella diminuzione di Eg (Energia del band gap) e sposta l’assorbimento della luce verso

la luce visibile, ad esempio Ti1-xVxO2 [104];

doping metallico da atomi estranei possono essere suddivisi in tipi donatore e accettore. Questo

tipo di doping agisce come trappole di elettroni/buche e altera la velocità di ricombinazione delle

cariche fotoeccitate. I livelli che sono posizionati sotto la CB possono agire come una trappola

di elettroni e quelli sopra la VB possono agire come trappola per le buche. Teoricamente,

all’aumentare della concentrazione di drogante, la concentrazione dei difetti estrinseci aumenta.

Questo può provocare la comparsa di livelli di impurità e un aumento della loro densità che può

portare alla transizione alla banda di impurità e può provocare il restringimento della banda

proibita. I livelli di impurità introdotte possono anche migliorare l’assorbimento della luce nel

campo del visibile, agendo come un percorso di transizione indiretta per le cariche eccitate.

La terza generazione consiste nella modifica del sub-reticolo anionico da elementi come N [105,106], S

[107] o C [108] che hanno dato promettenti risultati nel miglioramento dell’assorbimento della luce nel

campo del visibile [109]. Tuttavia, il meccanismo di modifica della struttura elettronica è ancora in

discussione.

2.7. Nanodiamanti

I nanodiamanti (ND) sono particelle prodotte per sintesi dinamica, con dimensioni nell’intervallo 5-10

nm, e sono caratterizzate da una serie di proprietà interessanti. La detenzione di proprietà chimico-

fisiche superiori a quelle di bulk dei diamanti e la presenza di caratteristiche supplementari rendono

questo nuovo prodotto della famiglia dei Nanocarbon un protagonista sempre piú importante nella

ricerca sulle nanotecnologie [110-115]. Sebbene l’applicazione al campo del restauro e della

conservazione sia ancora molto limitato in un contributo Reina et al. [116] i nanodiamanti sono stati

impiegati come agenti consolidanti e pulenti per il restauro di carte e pergamene antiche.

Dispersioni di nanodiamanti (Detonation Nanodiamond, International Technology Center), con

dimensione 5-10 nm, in acqua sono state utilizzate come agente di deacidificazione della carta antica

hanno mostrato la capacità di ridurre sensibilmente l’acidità della carta senza il bisogno di utilizzare

qualsiasi base alcalina. Dispersioni simili, utilizzate per i processi di pulitura di documenti antichi, si

sono rivelate molto efficaci nella rimozione di polvere, detriti e prodotti di ossidazione della cellulosa,

evitando così l’uso di protocolli tradizionali che prevedono l’impiego di solventi organici e tensioattivi che

potrebbero portare ad infragilimento del substato a seguito di disidratazione. Per la pulizia di

pergamene antiche invece sono stati usati nanocompositi formati da nanodiamanti e resina poliestere

(100 mg di ND sono stati dispersi in 10 g di matrice poliestere. 1 ml di etanolo aggiunto a 100 mg di

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questo nano composito permette di ottenere un materiale viscoso e morbido). Il nanocomposito si è

dimostrato efficace nella rimozione di depositi di polvere e di tracce di funghi e batteri presenti sulla

superficie della pergamena antica senza nessuna perdita di pigmentazione (Fig. 2.7.1).

Risultati interessanti sono stati ottenuti anche sulla possibilità di utilizzare i nanodiamanti come agente

consolidante. Infatti, l’invecchiamento artificiale per esposizione ai raggi UV è stato sensibilmente

contrastato quando i campioni sono stati preliminarmente sottoposti a un trattamento con soluzioni

acquose di nanodiamanti. In particolare, una sensibile riduzione dell’amorfizzazione della cellulosa,

ossidazione o idrolisi, è stata rilevata per le carte trattate con nanodiamanti, mentre la degradazione

della struttura proteica indotta da luce UV è sensibilmente ridotta nelle pergamene trattate. In

quest’ultimo caso, i nanodiamanti bloccano in maniera apprezzabile l’idrolisi e i danni strutturali del

collagene che costituisce la pergamena.

2.8. Idrossiapatite

Le nanoparticelle di idrossiapatite (Ca5(PO4)3(OH)) sono state sviluppate nel campo del restauro e della

conservazione dei beni culturali con l’intento di creare un nuovo metodo per la deacidificazione della

carta volto a superare i limiti esistenti nei metodi tradizionali, quali l’uso di solventi organici altamente

infiammabili (German Patent DE19921616 (A1)) [117], nanoparticelle di ossidi o idrossidi fortemente

alcalini (Patent US2005042380 (A1)) [118,119] che possono portare alla depolimerizzazione della

cellulosa e al consumo, per carbonatazione, delle riserve alcaline della carta e quindi al riapparire

dell’acidità.

Figura 2.7.1. (a) Veduta generale della copertina rigida del libro

in pergamena; (b) un’immagine ottica della pergamena prima

della pulizia e (c) dopo la pulizia [G. Reina, S. Orlanducci, E.

Tamburri, M.L. Terranova (2014) “Nanotechnologies for cultural

heritage: Nanodiamond for conservation of papers and

parchments”. In: AIP Conference Proceedings 1603, 93].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

44 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Ion et al. hanno pubblicato un brevetto (EP 2626464 (A1)) [120] in cui una nuova formulazione chimica

composta da nanoparticelle di idrossiapatite, sospese in una soluzione di carbossimetilcellulosa

(50%:50% wt) in alcool isopropilico come solvente, viene applicata per la deacidificazione della carta.

Le nanoparticelle di idrossiapatite, secondo un processo di tipo “top-down”, vengono preparate

macinando polvere di idrossiapatite in un recipiente vibrante fino al raggiungimento dei 30 nm. Al fine di

evitare l’abbassamento delle riserve alcaline della carta che sopporta la deacidificazione, le

nanoparticelle, in forma di nano-polvere, vengono miscelate con una soluzione di carbossimetilcellulosa

(CMC) in alcool isopropilico.

I vantaggi nell’uso di sospensioni nanoparticellari di idrossiapatite in carbossimetilcellulosa sono

molteplici:

facilità di applicazione, infatti la soluzione puó essere spruzzata sulla superficie della carta

acida;

la stratificazione sulla carta coinvolge i legami idrogeno tra gli atomi H e i gruppi OH esistenti

nelle strutture dei due componenti, nonché i legami elettrostatici dei due componenti favoriti

dall’ambiente acido della carta (pH 4,5), perché nel campo del pH acido, gli ioni Ca2+ che si

trovano sulla superficie dell’idrossiapatite vengono in contatto con gli ioni COO2- dalla superficie

della carbossimetilcellulosa formando coppie ioniche COO2-Ca2+. Per questo motivo, la CO2

atmosferica non può reagire con nessuno di questi due componenti e il rischio di

trasformazione del pH della carta da basico ad acido è praticamente nullo.

l’alcool isopropilico ha una bassa tossicità, è volatile, ha una bassa tensione superficiale ed è

non inquinante.

Ion et al. [121] hanno applicato sospensioni alcoliche di idrossiapatite di dimensione 0.6 - 100 nm su

due campioni di libri dipinti del 1931 e del 1867 dimostrando che non solo il pH della carta trattata è

superiore di 3.93 unità rispetto alla non trattata, il che conferisce stabilità nel tempo, ma anche che il

trattamento con nanoparticelle di idrossiapatite porta ad un minore ingiallimento della carta quando

sottoposta ad invecchiamento UV accelerato, favorendo così una migliore lettura dello scritto.

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49

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

50 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

3. I Materiali Nanostrutturati

3.1. I Film: “Smart Surfaces”

Negli ultimi anni, le nanoparticelle ed i materiali nanostrutturati sono stati spesso applicati al restauro e

alla conservazione di opere d’arte. In realtà, tutto il patrimonio culturale subisce processi di

invecchiamento con effetti di degrado a causa delle proprietà intrinseche del materiale con cui è fatto e

a causa dei fenomeni di degrado influenzati da condizioni ambientali quali il clima, l’inquinamento, gli

agenti biologici e le sollecitazioni meccaniche. Al fine di rallentare questi processi di degradazione è

necessario effettuare interventi conservativi, che consistono nel restauro e in trattamenti preventivi.

Finora, la scienza della conservazione si è focalizzata su materiali chimici, quali polimeri e copolimeri,

in grado di consolidare e proteggere il manufatto artistico (ad esempio materiali per rivestimenti, adesivi,

idrorepellenti, biocidi). Attualmente l’uso di nanomateriali e lo sviluppo di nuove nanotecnologie stanno

permettendo nuove combinazioni che promettono di migliorare le proprietà dei tradizionali prodotti

commerciali. Le nanoparticelle inorganiche (come Ag, SiO2, SnO2, TiO2, ZnO2, Al2O3, Cu e altri ossidi

metallici) grazie alle loro caratteristiche fisico-chimiche, come le forze coesive derivanti da un’elevata

area superficiale, l’effetto fotocatalitico, la modificazione del tono di colore, le buone proprietà ottiche, la

superiore profondità di penetrazione, il coefficiente di dilatazione termica, ecc., mostrano migliori

prestazioni rispetto ai tradizionali composti chimici utilizzati nel campo della conservazione. La

modulazione delle proprietà chimico-fisiche di un rivestimento protettivo (quali vernici polimeriche) può

essere ottenuta tramite un’adeguata miscelazione del materiale di rivestimento con una opportuna

scelta di nanoparticelle. In questo modo, il nanocomposito sviluppato può essere adattato alle diverse

finalità richieste dall’applicazione considerata. Di seguito viene riportata una panoramica dei

nanocompositi polimero/particella più ampiamente studiati e testati. Questa categoria di composti smart

surfaces, può essere suddivisa, in base alla classe polimerica del “disperdente” impiegato nel

composito, in:

solvente, soprattutto gli alcool e soluzioni acquose in presenza di surfattanti;

polialchilsilossani/polisilani, in cui generalmente rientrano e vengono utilizzati prodotti

commerciali storicamente già impiegati nel consolidamento dei beni culturali, quali Rhodorsil®,

Rhodia Silicones®, Glymo®, Dynasylan®, SILRES®, TEOS;

resine acriliche, come il Paraloid B72® (copolimero metilmetacrilato/etilmetilacrilato 30/70);

poli(uretano carbonato), recentemente utilizzato come coating per il tufo;

ibridi: sono una nuova classe di materiali sempre più interessanti per le loro straordinarie

proprietà derivanti dalla combinazione di diversi building blocks. Generalmente vengono

utilizzati disperdenti misti di silossani/silani con resine acriliche ed in alcuni lavori sono presenti

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51

composti fluorurati, che da soli non avrebbero adesione (ad esempio il prodotto SILRES BS38®

che è una miscela di silani, silossani e fluoropolimeri (< C8)).

Solvente

Licciulli et al. [1] hanno condotto degli studi sui rivestimenti fotocatalitici con proprietà autopulenti e

antinquinamento impiegati su pietre calcaree senza ricorrere al processo di anneling della pietra. Da un

processo combinato sol-gel/idrotermico, sono state sintetizzate nanoparticelle di titanio sospese in

acqua ed applicate a spruzzo. Il processo di rivestimento a spruzzo rappresenta un processo pratico ed

economico per applicare rivestimenti di TiO2 senza alterare la morfologia e la permeabilità del materiale

poroso. Entrambe le fasi anatasio e rutilo possono essere ottenute e controllate con il processo

idrotermale a diverse condizioni di pressione, temperatura e tempo. Test autopulenti e di rimozione degi

NOx dimostrano che la fase anatasio è più attiva così che a tempi brevi e a temperature relativamente

basse in autoclave il titanio amorfo viene trasformato in una fase fotocatalitica cristallina attiva. I

rivestimenti non alterano il colore della pietra, l’assorbimento di acqua e la permeabilità al vapore.

Questa è una condizione necessaria per poter applicare questi trattamenti su pietre nel campo dei beni

culturali.

In un recente lavoro [2], viene presentato invece uno studio su nanoparticelle di TiO2 e SiO2 destinate

ad essere utilizzate per il restauro e il consolidamento di reperti archeologici. Lo scopo dello studio è

stato quello di esplorare la possibilità di utilizzare nanoparticelle (NPs) come consolidanti senza

introdurre modificazioni chimiche, fisiche o estetiche dei manufatti. TiO2 and SiO2 nanoparticellare sono

prodotti con il metodo della laser ablation in soluzione (LASiS) con dimensioni di circa 10 e 15 nm.

Studi con l’XPS sul profilo di profondità indicano che le NPs penetrano nei pori dei manufatti espletando

azione consolidante. Questo strato è perfettamente trasparente, uniforme e idrofobo.

Polialchilsilossani/polisilani

Da Manoudis et al. viene affrontato un’interessante case-study sulla conservazione di marmi greci [3].

Sono stati studiati dei coating di silice (SiO2) nanoparticellare dispersa in soluzioni di poli(alchilsilossani)

commerciali quali il Rhodorsil Hydrof® e il Rhodia Silicones®. Le sospensioni sono state spruzzate su

tre superfici di marmo greco utilizzate per la costruzione dell’ Acropoli di Atene (marmo Pentelico,

marmo di Naxos (98% calcite, 2% quarzo) e marmo di Thassos (86% dolomite, 12% calcite and 2%

quarzo)). L’angolo di contatto di equilibrio e angolo di contatto di isteresi indicano che le nanoparticelle

aumentano la natura idrofoba del film. L’uso di nanoparticelle comporta però una diminuzione della

permeabilità al vapore acqueo e della quantità di acqua assorbita. Tuttavia è stato dimostrato che le

nanoparticelle aumentano i valori di luminosità del substrato.

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52 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Studi analoghi al precedente [4] sono stati condotti questa volta su una serie di materiali lapidei silicatici

di Praga e utilizzando due prodotti polialchilsilossanici commerciali in white spirit, quali il Rhodorsil

224®, al 7% in peso, ed il Porosil VV plus® al 10% in peso, in cui sono state disperse nanoparticelle al

2% di silice (SiO2), ossido di alluminio (Al2O3), ossido di stronzio (SnO2) e biossido di titanio (TiO2). Si

dimostra che il tipo di substrato lapideo e la dimensione ed il tipo di nanoparticelle (5-50 nm) non hanno

quasi nessun effetto sulla bagnabilità delle superfici superidrofobiche, come infatti mostrano le misure

degli angoli di contatto comparabili sui tre supporti lapidei trattati con i compositi silossano-

nanoparticella. I trattamenti delle pietre con i silossani puri (idrofobici) ed i compositi silossani-SiO2

(superidrofobici) forniscono riduzioni simili della permeabilità al vapore acqueo e della quantità di acqua

assorbita per capillarità. Di conseguenza, l’uso di nanoparticelle in questi rivestimenti protettivi non ha

alcun effetto evidente. Tuttavia, l’aspetto estetico delle tre pietre è altamente influenzato dalle

nanoparticelle. Infatti misure colorimetriche hanno mostrato c

colore globale) determinato dopo aver trattato le pietre con film silossani-nanoparticelle è chiaramente

superiore al cambiamento registrato quando sono stati applicati silossani puri.

Del 2011 sono gli studi condotti su nuove formulazioni di rivestimenti protettivi idrorepellenti ottenuti

mediante processo sol-gel da prodotti commerciali a base di alcossisilani (Glymo®) e Dynasylan 40®) e

nanoparticelle di silice e nano-SiO2 funzionalizzata (Aeroxide LE1®,) [5], e applicabili su manufatti in

pietra di interesse storico e artistico come arenaria, marmo e granito. Sono state svolte una serie di

misure di idrofobicità, quali misure di assorbimento capillare e misure di angolo di contatto. I risultati

migliori sono stati ottenuti sul granito, dove anche a lungo termine non si ha perdita di idrofobicità.

Nello studio proposto da Ditaranto et al. [6], sono stati testati nanocompositi bioattivi a base

polisilossanica (CuNPs/Estel1100®) per la conservazione dei manufatti in pietra. I rivestimenti risultanti

esercitano una marcata attività di inibizione biologica per un lungo periodo di tempo a causa del rilascio

continuo e controllato di ioni di rame che agiscono come biocidi, sia in soluzione che in fase solida. Dati

colorimetrici ottenuti per i campioni di pietra trattati con questo nanocomposito bioattivo indicano che a

basse concentrazioni di rame i cambiamenti cromatici sono simili a quelli ottenuti per l’applicazione

dell’Estel puro.

Una ricerca molto interessante è stata condotta nel 2012 [7] testando il Rhodorsil RC80®

(polietilsilossano) con nanoparticelle disperse di biossido di titanio e silice (0,1% e 0,2%) su travertino e

biocalcareniti. Misure di angolo di contatto e assorbimento capillare suggeriscono che le nanoparticelle

inducono un significativo aumento di idrofobicità e proprietà di repellenza all’acqua dei film protettivi.

Tale risultato viene confermato dal metodo ultrasuoni (US), una tecnica non distruttiva che misura la

velocità delle onde elastiche attraverso un mezzo solido, pietre nel nostro caso. Misure colorimetriche

non mostrano differenze prima e dopo cicli di invecchiamento gelo-disgelo.

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In analogia al precedende lavoro, nel 2012 è stato pubblicato un case-study [8] su due edifici storici del

Cairo (il palazzo di Said Halim e di Baron Empain). Sono state applicate nanoparticelle di biossido di

titanio disperse in polialchilsilossani (Rhodorsil 224®). Tali materiali compositi, contenenti da 0 a 2,5%

di nanoparticelle di TiO2, sono stati applicati sia a spruzzo che a pennello. L’aggiunta delle

nanoparticelle porta alla formazione di una superficie superidrofobica che migliora sia l’assorbimento

capillare che l’angolo di contatto. Un’idrofobicità massima è stata raggiunta alla concentrazione del 2%

di TiO2 applicato a spruzzo sulla superficie.

Gholamian et al. [9] hanno studiato l’effetto ritardante di nanomateriali commerciali costituiti da

organosilani solubili in acqua (nano-zycosil® e nano-zycofil®) sulla diffusione del vapor acqueo

attraverso il legno di pioppo (P. nigra) in confronto ai rivestimenti sigillanti, quali lacca nitrocellulosa e

lacca poliestere, usando i metodi di cup and sorption. E’ stato dimostrato che entrambi i prodotti

organosilani mostrano buone performance e diminuzione della diffusione del vapor acqueo attraverso il

legno, ma migliori prestazioni sono ottenute con il nano-zycosil. In Fig. 3.1.1 viene riportato il

funzionamento di questi organosilani quando interagiscono con la superficie lignea.

Nel 2013 Liu et al. hanno condotto uno studio su film nanostrutturati di tetraetossisilano (TEOS) e

polidimetilsilano (PDMS) con silice nanoparticellare [10]. Il tetraetossisilano è un prodotto di uso

comune nel consolidamento della pietra. Questo composto tramite un processo sol-gel forma una rete

di Si-O che funziona come legante per rafforzare la pietra.

Ma il gel generato dal TEOS da solo spesso porta alla formazione di crepe, aggiungendo così ulteriore

degrado al subrastato lapideo.

Figura 3.1.1. Meccanismo di interazione del silano con il legno [H. Gholamiyan, A. Tarmian, M. Shahverdi. H. Pirayesh

(2010) “The Effect of NanoParticles and Common Furniture Paints onWater Resistance Behavior of Popular

Wood (P.nigra)”, In: Proceedings of the International Convention of Society of Wood Science and Technology and United

Nations Economic Commission for Europe – Timber Committee, October 11-14, 2010, Geneva, Switzerland].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

54 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

L’aggiunta di polidimetilsilano o di nano-SiO2 può ridurre il rischio di formazione di crepe dopo

l’applicazione del materiale consolidante. Sfortunatamente, il PDMS può portare a una scarsa

resistenza all’invecchiamento, mentre la nanosilice manifesta alterazione colorimetrica. Al fine di

risolvere il problema di cracking senza apportare nuovi problemi, lo studio ha formulato, con il processo

sol-gel, un nuovo prodotto a tre componenti. Questi materiali consolidanti sono costituiti da particelle di

silice (15 nm), un polidimetilsilano con un gruppo idrossile terminale (PDMS-OH) e da TEOS.

Avvolgendosi intorno alle nanoparticelle, il PDMS-OH, non solo previene l’agglomerazione della

nanoparticella, ma funziona anche come un ponte per mediare la differenza interfacciale tra nano-SiO2

ed il gel. A causa degli effetti sinergici, il composito tri-componente ha anche minor ritiro e migliora la

resistenza all’invecchiamento termico, anche meglio del sistema bicomponente TEOS/nano-SiO2 (Fig.

3.1.2).

Anche Chatzigrigoriou et al. [11] hanno condotto uno studio sull’idrofobicità di film nanocompositi

costituiti da nanoparticelle di silice disperse in soluzioni acquose di silani e silossani (Silres BS 4004®).

Le dispersioni sono depositate, a pennello, su vari materiali quali marmo, pietra arenaria, malta (Fig.

3.1.3), legno, cotone e ceramica. In questo lavoro viene studiato l’effetto della concentrazione delle

nanoparticelle sulla bagnabilità delle superfici del composito (silossano-silice). E’ stato dimostrato che

superidrofobicità e idrorepellenza si ottengono quando sono utilizzate alte concentrazioni di

nanoparticelle per la produzione delle pellicole composite. Sono state condotte misure colorimetriche

per valutare l’efficienza dei film compositi da utilizzare per la protezione di oggetti del patrimonio

Figura 3.1.2. Sono riportati una serie di provini: (a) campione originale; (b) campione non trattato con 4 cicli di

invecchiamento salino; campioni trattati con compositi consolidanti sols: (c) campione con SiO2/PDMS/TEOS

(0/0/22 %); (d) campione con SiO2/PDMS/TEOS (0/1/22 %); (e) campione con SiO2/PDMS/TEOS (4/0/18 %); (f)

campione con SiO2/PDMS/TEOS (4/1/18 %); (g) campione con SiO2/PDMS/TEOS (2/1/20 %); (h) campione con

SiO2/PDMS/TEOS (1/1/20 %) dopo 5 cicli di invecchiamento salino [R. Liu, X. Han, X. Huang, W. Li, H. Luo, J

Sol-Gel Sci Techn (2013) 68, 19].

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55

culturale ed è stato visto che solo per la ceramica vi è una considerevole variazione di colore quando si

utilizza nano-SiO2.

Più recentemente Kapridaki et al. presentano la progettazione di un rivestimento ibrido semicristallino,

trasparente e idrofobico e a base SiO2-TiO2 e la sua applicazione nel campo della conservazione dei

monumenti [12]. Il rivestimento SiO2-TiO2, attraverso un semplice processo sol-gel sotto catalisi acida,

deriva da una miscela di tetraetossisilano (TEOS) e titanio tetraisopropossido (TTIP) incorporante un

organosilano, il polidimetilsilossano idrossi-teminale (PDMS). Analisi SEM e XRD hanno rivelato un

coating, non soggetto a fessurazioni, con cristalliti di 5 nm. Le analisi SEM e FT-IR del marmo trattato

dimostrano che le reazioni di condensazione e polimerizzazione hanno avuto luogo sulla superficie

della pietra. La rimozione di blu di metilene e di biofilm sui campioni trattati evidenziano proprietà

autopulenti del rivestimento progettato. Il gruppi metilici del PDMS migliorano l’idrofobicità del marmo,

come è stato dimostrato dalla misura del coefficiente di assorbimento di acqua per capillarità e da

misure di angolo di contatto. I risultati incoraggianti di tutte queste analisi portano gli autori a dire che il

nuovo materiale ibrido progettato può essere efficacemente utilizzato come rivestimento protettivo e

agente autopulente (Fig. 3.1.4).

Figura 3.1.3. In alto: una goccia d’acqua arricchita con blu di cobalto è stata depositata su una malta su cui era

applicato il composito idrorepellente SiO2-silossanico (rapporto in massa pari a 0,6). In figura viene riportata la

sequenza (1-6) con ben visibile il rimbalzo della goccia (3-4). In basso: è riportato il processo di self-cleaning di una

superficie di marmo ricoperta da una pellicola di SiO2-silossano (rapporto in massa pari a 0,2) e intenzionalmente

contaminata con blu di cobalto. Una goccia d’acqua viene fatta rotolare sulla superficie idrorepellente con conseguente

rimozione delle particelle di pigmento blu e creazione di un canale di superficie pulita (foto in sequenza da 1 a 3)

[A.Chatzigrigoriou, P. N. Manoudis, I. Karapanagiotis, Macromol Symp (2013) 331, 158].

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56 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Recentemente è stato condotto uno studio sull’applicazione di silani/silossani alla conservazione della

carta [14]. Particelle di silice con un diametro di 7 nm vengono disperse in Silres BS-290®, un solvente

siliconico concentrato basato su silani/silossani a diverse concentrazioni in white spirit. Le dispersioni

sono state applicate, a pennello, su quattro tipi di carta: (1) carta moderna non stampata (in bianco); (2)

carta moderna dove è stato stampato un testo con una stampante laser jet; (3) un foglio di carta da un

libro del 20 secolo) e (4) carta giapponese utilizzata nelle operazioni tradizionali di restauro e

conservazione del libro. Misurazioni colorimetriche hanno mostrato che le pellicole superidrofobiche

avevano effetti trascurabili sull’aspetto estetico delle carte trattate. Inoltre, è stato dimostrato che il

carattere superidrofobico dei film silossani-nanoparticelle è stabile in un ampio intervallo di pH e che si

ha il massimo valore a concentrazione dell’ 1% di nanoparticelle.

Un altro interessante lavoro del 2015 [15] associa le proprietà filmanti dei composti silani/silossani alle

proprietà antibiocida delle nanoparticelle di ossido di zinco e di rame. In questo studio viene proposto

un trattamento di conservazione dei monumenti in pietra per il consolidamento, la protezione e

l’inibizione della formazione di biofilm. Lo studio è finalizzato alla produzione di rivestimenti

nanocompositi in grado di esercitare una marcata attività biologica per un lungo periodo di tempo grazie

alla loro particolare struttura. Ossidi di zinco e di rame nanoparticellare, sintetizzati mediante procedure

elettrochimiche semplici e riproducibili, vengono incorporati in matrici consolidanti/idrorepelenti

disponibili in commercio a base di tetraetossisilano/polisilossani (ESTEL1100® e SILO111®) per

ottenere materiali nanostrutturati. Con l’aggiunta di ZnONPs i dati di bioattività sono migliori rispetto a

quelli ottenuti con le CuNPs e la variazione di colore è attenuata rispetto all’utilizzo delle CuNPs (Fig.

3.1.5).

Figura 3.1.4. Scolorimento di macchie di blu di metilene su marmo trattato e non trattato prima (sx) e dopo (dx)

irraggiamento UV [C. Kapridaki, P. Maravelaki-Kalaitzaki, Prog Org Coat (2013) 76, 400].

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57

Cappelletti et al. [16] hanno invece testato un prodotto commerciale a base di silano (Alpha SI30®) con

nanoparticelle di TiO2 disperse in diverse concentrazioni su tre tipi di substarti (Marmo di Botticino,

marmo di Carrara e pietra d’Angera) con l’intento di ridurre i danni provocati dalla presenza di sali nelle

matrici lapidee. Solo nel caso del marmo Carrara l’angolo di contatto finale raggiunge il valore

superidrofobico (θ > 150°), mentre un buon grado di idrorepellenza si ottiene anche per i campioni di

Angera e Botticino (138° < θ < 141°). Sono stati anche valutati gli effetti dell’invecchiamento UV e

l’esposizione ad un ambiente inquinato urbano e, sulla base di misure analitiche, sono stati ottenuti per

entrambi i trattamenti superficiali (Alpha SI30® e Alpha SI30® + Ti sols) una conservazione del colore

iniziale delle pietre e una riduzione dei processi di crescita dei sali. Infine è stato stimato che i

rivestimenti ibridi sono più efficaci nel ridurre la formazione di sali rispetto al polimero puro. Questo

risultato può essere spiegato, come dimostrato dai crescenti valori di angolo di contatto, dalla maggiore

idrofobicità superficiale che porta ad una scarsa affinità tra le superfici lapidee trattate e l’acqua

proveniente dall’umidità esterna e/o dalla pioggia,.

Resine acriliche

Nel 2007 sono stati condotti degli studi [17] che hanno portato alla produzione di film nanocompositi di

Polimetilmetacrilato (PMMA) con nanoparticelle di silice di diverse dimensioni e alla loro applicazione su

marmi e su provini di carbonato di calcio costruiti in laboratorio. Un aumento della rugosità del

Figura 3.1.5. Sperimentazione in situ. Esterno della chiesa di San Leonardo di Siponto (Manfredonia, Italia) (a) con

indicazione delle aree di test (b). Nella figura a destra (b) sono visibili le diverse zone di trattamento: A1 zona non

trattata; A2 area pulita; B1 zona pulita trattata con Silo111; B2 zona pulita trattata con Estel1100; C1 zona pulita trattata

con Silo111/ZnO-NPs; C2 zona pulita trattata con Estel1100/ZnO-NPs; D1 zona pulita trattata con Silo111/Cu-NPs; D2

zona pulita trattata con Estel1100/Cu-NPs [I. D. Van Der Werf, N. Ditaranto, R. A. Picca, M. C. Sportelli, L. Sabbatini,

Herit Sci (2015) 3, 29].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

58 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

composito, registrata da misure di microscopia a forza atomica (AFM), unitamente al sostanziale

aumento dell’angolo di contatto dimostrano che si è in presenza di superfici superidrofobiche. Le

proprietà superidrorepellenti acquisite possono garantire la massima protezione all’azione dell’acqua sui

monumenti lapidei. La semplicità di realizzazione del composito, il prezzo e la disponibilità dei materiali

utilizzati rendono l’approccio sviluppato adatto per la protezione dei monumenti in pietra su larga scala.

Ramos-Fernándeza et al. hanno condotto nel 2011 uno studio [18] approfondito sull’influenza delle

condizioni di sintesi di lattex acrilici addizionati con SiO2 nanoparticellare con un processo di

miniemulsione polimerica. I prodotti sono stati pensati e sviluppati come rivestimenti protettivi per

superfici in pietra naturale. La stabilità colloidale dei compositi è buona e dopo tre mesi dalla sintesi non

è stata osservata nessuna coagulazione o sedimentazione. I rivestimenti ottenuti con questi lattici sono

completamente trasparenti, grazie alla capacità di coalescenza e all’adeguata dispersione della silice

nella matrice polimerica e le proprietà meccaniche sono notevolmente migliori.

Studi [7] analoghi ai precedenti riportano l’uso del Paraloid B72® (copolimero

metilmetacrilato/etilmetilacrilato 30/70) con disperse nanoparticelle di TiO2 e SiO2 (0.1% e 0.2%) su

travertino e biocalcareniti. Misure di angolo di contatto e di assorbimento capillare suggeriscono che le

nanoparticelle inducono un significativo aumento dell’idrofobicità e delle proprietà di repellenza

all’acqua dei film protettivi. In particolare, gli strati protettivi di Paraloid B72®/nanoparticelle cambiano il

loro carattere da idrofilici (θs < 90°) ad idrofobici (θs > 90°), ottenendo risultati migliori rispetto a quelli

ottenuti con i polisilossani. Tale risultato risulta confermato dal metodo ultrasuoni (US), che mostra una

significativa variazione con il trattamento silossanico-nanoparticelle. Misure colorimetriche non

mostrano differenze prima e dopo i cicli di invecchiamento gelo-disgelo.

Poli(uretano carbonato)

E’ stato condotto un recentissimo lavoro sulla formulazione di un nuovo prodotto per coating da

applicare su substrati lapidei porosi, come il tufo. E’ stata preparata tramite ultrasuoni una dispersione

acquosa di nanocomposito di TiO2/poli(uretano carbonato) [19]. Il lavoro è stato finalizzato al

raggiungimento di un nuovo materiale eco-sostenibile da utilizzare come protettivo nel campo della

conservazione dei beni culturali. Tale materiale polimerico nanostrutturato prodotto attraverso una

procedura a basso impatto, cioè la miscelazione a freddo dei singoli componenti tramite ultrasuoni, nei

test di decomposizione al metilarancio, un colorante azotato che rappresenta l’inquinamento

ambientale, ha mostrato un buon comportamento autopulente.

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59

Nanocompositi Ibridi

Questa sezione riporta studi riguardanti nuovi materiali sempre più interessanti per le loro straordinarie

proprietà derivanti dalla combinazione di diversi building blocks (silani/silossani/fluoro polimeri/acrilici).

Giá nel 2007 alcuni studi [17] hanno portato alla produzione di film-nanocompositi, di polieteri

funzionalizzati a base fluoro (PFPE) con nanoparticelle di SiO2 di dimensioni diverse, e alla loro

applicazione su marmi e su provini di carbonato di calcio costruiti in laboratorio. I provini sono stati

precedentemente immersi in Akeogard P® una resina alifatica polietere-uretano in emulsione acquosa

al 28/32% con alto potere adesivo per il PFPE. Le analisi di angolo di contatto e la valutazione al

microscopio a forza atomica (AFM) del film finale così ottenuto hanno mostrato un aumento di

superidrofobicità e idrorepellenza.

Nel 2013 [20] é stato condotto uno studio sull’efficacia di protezione di una pietra arenaria greca

(Demati, EN 12440) utilizzando rivestimenti superficiali ibridi, derivati dalla combinazione di una miscela

commerciale idrorepellente di solventi a base silani, silossani e fluoropolimeri (SILRES BS 38®) con

nano particelle di SiO2 in diverse concentrazioni (da 1% fino al 2.5%). Questo studio dimostra la

maggiore protezione delle soluzioni polimeriche modificate con al massimo l’1.5% nano-SiO2 quando

applicato su superfici lapidee forti e dense come le arenarie Demati.

Lionetto et al. riportano invece uno studio [21] che esamina gli effetti dell’invecchiamento ambientale a

lungo termine sulle proprietà termiche e meccaniche di ibridi epossidici-silice. Questi materiali

nanostrutturati, preparati tramite processo sol-gel non acquoso e generazione in situ di nano-SiO2 (da

silani) durante l’indurimento a temperatura ambiente delle resine epossidiche, presentano il potenziale

per essere utilizzati come adesivi cold-cured per l’ingegneria civile e per applicazioni nel campo dei beni

culturali. Il lavoro dimostra la superiore durabilità del materiale ibrido epossidico-silice studiato, che ha

mantenuto le sue prestazioni, in condizioni ambientali severe ma realistiche, rispetto ai tradizionali

adesivi epossidici. La riduzione della temperatura di transizione vetrosa e delle proprietà meccaniche

del nanomateriale, osservate nelle prime settimane di invecchiamento, sono state seguite da un

significativo recupero nel corso del tempo. Ciò è stato attribuito a due fenomeni concomitanti: (1) la

riattivazione delle reazioni di indurimento incomplete nei domini epossidici e (2) la continuazione delle

reazioni di condensazione nei domini silossanici attivati dall’acqua assorbita.

Recentemente è stato presentato un lavoro su nanocompositi ibridi da Esposito Corcione et al. [22].

Sono stati sviluppati e proposti come rivestimenti protettivi nanocompositi silossani/metacrili modificati

basati su nanoparicelle di boehmite (minerale di ossido idrossido di alluminio (γ-AlO(OH)). La

caratterizzazione delle proprietà fisiche e superficiali, eseguita per quantificare le modifiche apportate

dalla presenza di nanoparticelle finemente disperse nella matrice termoindurente, hanno evidenziano

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

60 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

che con l’aggiunta di una piccola quantità di boehmite nanoparticelle è possibile aumentare l’idrofobicità

e la durezza del rivestimento, con un aumento supplementare della trasparenza. Questo

nanocomposito continua a mantenere un moderato comportamento speudoplastico in presenza nano-

filler risultati, rendendolo adeguato per l'applicazione specifica.

Uno studio alternativo, condotto da Oliva et al. [23] , ha portato alla formulazione di una serie di sistemi

omogenei core-shell con una crescita controllata di diversi oligoammidi su nanoparticelle di TiO2. Sono

stati utilizzati derivati di composti naturali, ad esempio l’acido L- ʹ-trealosio, come diesteri

nelle reazioni di policondensazione con etilendiammina. Nanoparticelle di TiO2-anatase, scelto per la

sua elevata fotoattività e la sua attività antimicrobica, sono state precedentemente attivate e poi

funzionalizzate utilizzando due agenti di coupling diversi (alcossisilani). Successivamente attraverso

due vie sintetiche differenti sono stati sintetizzati i nanocompositi TiO2-oligoammidi (Fig. 3.1.6).

Figura 3.1.6. Funzionalizzazione della silice attivata (A), prima via sintetica a due steps (B) e (C), seconda

via sintetica di policondensazione (D) [R. Oliva, A. Salvini, G. Di Giulio, L. Capozzoli, M. Fioravanti, C.

Giordano, B. Perito, J Appl Polym Sci (2015) 132, 42047].

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Questi prodotti possono mostrare proprietà migliori rispetto ai singoli componenti (Nano-TiO2 o

oligoammidi), che sono utili in molti campi, ad es. come rivestimenti antimicrobici nella conservazione

dei beni culturali. Il nanocomposito TiO2-polietilentartarammide (Fig. 3.1.7) è stato utilizzato per studi

applicativi e ha mostrato una buona efficacia contro attacchi fungini da Trametes versicolor su campioni

di legno (Fagus sylvatica).

3.2. I Fluidi

La pulizia di un’opera d’arte può essere un compito molto delicato. Nel suo significato più ampio, la

pulizia comporta la rimozione di tutto il materiale indesiderato dalle superfici storico/artistiche. In pratica,

l’intervento deve essere effettuato in modo controllato senza danneggiare il manufatto originale a causa

di sollecitazioni meccaniche o di qualsiasi altro processo come il rigonfiamento, la lisciviazione dei

componenti, la decolorazione, ecc.. I materiali da rimuovere appartengono ad un’ampia varietà di

sostanze che vanno dallo sporco, sudiciume e terreno, ai rivestimenti naturali e sintetici, quali adesivi e

vernici, che possono imbrunire e degradare nel tempo in modo da produrre alterazione estetica o

degradazione fisico-chimica del substrato artistico.

È un dato di fatto che l’applicazione di rivestimenti idrofobi sintetici, quali poliacrilati e vinilacetati,

alterano fortemente le proprietà fisico-chimiche dei substrati, come dipinti murali e pietre carbonatiche,

con conseguente danno nel medio o lungo termine alla superficie artistica [24-26] (Fig. 3.2.1). La misura

in cui gli strati indesiderati vengono rimossi può essere una questione di dibattito e dipende da caso a

caso in base a fattori storici, estetici o etici. Per esempio, talvolta una “patina” viene lasciata su superfici

artistiche perché considerato come una parte storica di per sé.

A B

Figura 3.1.7. A: campioni di legno con e senza nanocomposito NC (NPs-oligoammide), tenuti al buio o esposti a luce UV

dopo tre settimane. aʹ (tempo 0) e aʹʹ (tempo di 3 settimane) sono campioni con NC al buio; bʹ (tempo 0) e bʹʹ (tempo di 3

settimane) sono campioni senza NC al buio; cʹ (tempo 0) e cʹʹ (tempo di 3 settimane) sono campioni con NC esposti a UV; dʹ

(tempo 0) e dʹʹ (tempo di 3 settimane) sono campioni senza NC esposti a UV. B: immagini al microscopio (ingrandimento

200x) di campioni di legno trattati con NC (a) e senza NC (b) dopo esposizione ai raggi UV per 3 settimane; campione con

NC dopo 9 settimane di incubazione al buio (c) [R. Oliva, A. Salvini, G. Di Giulio, L. Capozzoli, M. Fioravanti, C.

Giordano, B. Perito, J Appl Polym Sci (2015) 132, 42047].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

62 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Attraverso i secoli, una vasta gamma di prodotti per la pulizia è stata utilizzata, come ad esempio i

saponi (da grassi e oli), prodotti alimentari (aceto, vino, succo di limone), materiali inorganici (soluzioni

di cloruro di potassio) e anche biofluidi come l’urina, la bile o la saliva, che è al giorno d’oggi preparata

sinteticamente e utilizzata dai conservatori [27].

Alcuni di questi fluidi (bile, saliva, saponi) contengono tensioattivi, che sono stati usati sin da tempi

antichi e sono stati ampiamente studiati e diffusi dall’industria sintetica a partire dal ventesimo secolo.

Branche della moderna chimica avanzata e chimica fisica, come la scienza dei materiali, dei colloidi e

delle nanoscienze, hanno svolto un’intensa attività di ricerca sia teorica che applicativa legati alla

materia soffice, come sistemi binari o ternari composti da acqua, tensioattivi e altri additivi (ad esempio

solventi). La fine degli anni 1980 in Italia ha visto la prima applicazione di sistemi fluidi nanostrutturati a

base di tensioattivi per la rimozione di macchie di cera dalla superficie dipinta di un dipinto murale del

Rinascimento a Firenze [28,29] (Fig. 3.2.2).

A partire da quello studio pionieristico, diversi sistemi sono stati preparati, caratterizzati e applicati con

successo per la rimozione di materiali indesiderati da superfici artistiche. Numerosi esempi, riportati in

letteratura, si veda ad esempio Baglioni et al. [30] e Carretti et al. [31,32], rendono i fluidi nanostrutturati

uno degli strumenti di pulizia avanzati più interessanti per la conservazione dei Beni Culturali, insieme

con i gel, la tecnologia laser [33-35], e la promettente “biocleaning” basata sull’uso di microrganismi

[36,37].

I principali meccanismi coinvolti nella rimozione di sporcizia e suolo oleoso possono essere:

Figura 3.2.1. Dipinti murali nella “Templo de los Nichos Pintados” a Mayapan (Yucatan). Le

immagini mostrano il degrado dei dipinti dovuto al rivestimento in Mowilith DM5 applicato

nell’ultimo restauro nel 1999 [R. Giorgi, M. Baglioni, D. Berti, P. Baglioni, Acc Chem Res (2010),

43, 695].

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63

arrotolamento: questo meccanismo è rilevante quando il terreno oleoso apolare è depositato su

substrati polari, ad esempio macchie d’olio su tessuto di cotone. In questo processo

l’interazione tra il substrato e il tensioattivo è determinante.

emulsione: il meccanismo comporta l’interazione degli aggregati tensioattivi (micelle) con la

fase”olio”. Questo processo non è dipendente dalla natura del substrato. Bassa tensione

interfacciale è necessaria in questo processo.

solubilizzazione: il terreno oleoso viene solubilizzato nel cuore idrofobico di una

microemulsione. Questo meccanismo non dipende dalla natura chimica della superficie da cui il

terreno deve essere rimosso. In questo processo, ultra-bassa tensione interfacciale tra olio e

soluzione di tensioattivo è di solito necessaria.

la rimozione dei polimeri può comportare processi più complessi [38-40].

Soluzioni Micellari e Microemulsioni

Fluidi complessi basati su surfattanti di questo tipo sono detti soluzioni micellari e emulsioni Una

soluzione micellare è una “dispersione” di aggregati di molecole anfifiliche (tensioattivi); gli aggregati

mostrano tipicamente una forma sferica e sono chiamati “micelle”. Le micelle si formano quando la

concentrazione di tensioattivi supera un valore di soglia chiamato “concentrazione micellare critica”

(CMC); in queste condizioni le micelle sono ancora in equilibrio con gli anfifilici non aggregati liberi. La

Figura 3.2.2. Dettagli delle pitture murali di Masaccio e Masolino nella Cappella Brancacci, Firenze. Il pannello in alto a

destra mostra macchie di cera sotto la luce UV prima della pulizia. Il pannello inferiore a destra mostra la stessa zona

dopo la pulizia con una microemulsione sotto luce visibile. A sinistra è riportata l’intera scena dopo restauro [P. Baglioni,

D. Chelazzi, R. Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

64 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

forma delle micelle dipende principalmente dalla struttura chimica del tensioattivo; la forma sferica è tra

le strutture più comuni, ma possono essere ottenute anche strutture cilindriche, oblati o strutture più

complesse. La presenza di tensioattivi sopra la CMC in una miscela di due liquidi immiscibili conduce,

sotto agitazione meccanica, alla formazione di una emulsione.

Lindman e Danielsson hanno fornito una definizione utile delle microemulsioni descritte come “sistemi

liquidi, stabili e omogenei, otticamente trasparenti, isotropi e “spontaneamente” formati, che

comprendono due liquidi reciprocamente insolubili; uno disperso nell’altro in forma di microsfere

stabilizzate da almeno un monostrato di molecole anfifiliche (tensioattivi)” [41].

Le emulsioni sono quindi macroscopicamente delle miscele omogenee di due liquidi immiscibili, ad

esempio acqua e olio, la cui formazione è necessariamente mediata da almeno un componente,

generalmente definito emulsionante (surfattanti). Da un punto di vista microscopico, queste miscele

sono, tuttavia, non omogenee come le soluzioni convenzionali, perché sono costituite da domini di

acqua e di olio, mentre l’emulsionante copre principalmente l’interfaccia tra i due liquidi immiscibili. Una

delle due fasi liquide è dispersa nella cosiddetta fase liquida continua in forma di goccioline di varie

dimensioni.

Gli agenti emulsionanti più comuni sono i tensioattivi, tuttavia copolimeri a blocchi e particelle solide

possono stabilizzare le goccioline liquide in una fase disperdente immiscibile (Fig. 3.2.3).

Le emulsioni possono essere classificate in due modi: i) in base alla dimensione finale delle goccioline

disperse (Fig. 3.2.4); ii) indipendentemente dalle dimensioni, in base alla natura dei due liquidi

immiscibili. Spesso uno dei due componenti liquidi è l’acqua, e l’altro è chiamato genericamente “olio”,

per sottolineare la sua incompatibilità con il mezzo acquoso.

Sulla base della fase liquida che è finemente dispersa nell’altra fase liquida, si possono distinguere in:

water-in-oil dispersion (w/o), quando la fase dispersa è quella acquosa;

oil-in-water dispersion (o/w) nel caso opposto;

bicontinue, quando acqua e olio formano due canali separati.

I parametri fisici che caratterizzano un’emulsione sono, oltre alla sua composizione, la dimensione

media delle gocce e la dimensione della dispersione. I protocolli di preparazione più popolari prevedono

l’utilizzo di energia meccanica, che può essere fornita in vari modi. Normalmente le due fasi liquide sono

mescolate vigorosamente, o esposti a ultrasuoni, o costrette a passare attraverso piccoli orifizi in un

omogeneizzatore. In ogni caso queste operazioni comportano una diminuzione media del diametro

delle goccioline della fase dispersa dal range macroscopico a quello colloidale.

Le microemulsioni possiedono notevoli vantaggi rispetto alle emulsioni e nanoemulsioni in diversi

campi. Come mostrato in Fig. 3.2.3, le microemulsioni possono essere viste come le controparti di

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dimensioni ridotte delle emulsioni, dove i domini della fase dispersa contengono goccioline con un

raggio nel range 5-50 nm.

.

Tuttavia questa descrizione non cattura tutte le caratteristiche salienti del sistema, e in particolare il fatto

che le microemulsioni si formano spontaneamente in alcune condizioni sperimentali, a seconda della

composizione, della temperatura e della pressione. La loro enorme area interfacciale e la stabilità

termodinamica, che implica facilità di preparazione, rende le microemulsioni sistemi ideali

nanostrutturati per applicazioni che richiedono simultaneamente la presenza di olio e di acqua. La

dimensione ridotta delle gocce porta a due importanti caratteristiche delle microemulsioni: (i) le

microemulsioni sono otticamente trasparente grazie alla dimensione delle micelle; (ii) le nanogocce

sviluppano un enorme superficie di scambio che migliora fortemente l’interazione di questi sistemi con

eventuali strati indesiderati che devono essere rimossi (sporcizia, adesivi dannosi, ecc.); di

Figura 3.2.4. Rappresentazione schematica della formazione di

una dispersione liquido-liquido e classificazione basata sul

formato [P. Baglioni, D. Chelazzi, In: “Nanoscience for the

Conservation of Works of Art”, RSC Nanoscience &

Nanotechnology No. 28, 2013].

Figura 3.2.3. Emulsionanti. I più comunemente utilizzati per

scopi applicativi sono i tensioattivi e i copolimeri a blocchi [P.

Baglioni, D. Chelazzi, In: “Nanoscience for the Conservation of

Works of Art”, RSC Nanoscience & Nanotechnology No. 28,

2013].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

66 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

conseguenza, l’efficacia di pulizia delle microemulsioni è cineticamente migliorata rispetto alle emulsioni

standard.

Grazie al basso contenuto di solventi organici, questi sistemi hanno un bassissimo impatto

ecotossicologico rispetto ai solventi puri o alle miscele di solventi; inoltre, la nanostruttura dei fluidi di

pulizia garantisce l’effettiva e selettiva rimozione di strati indesiderati presenti sulla superficie delle

opere d’arte.

Per riassumere, questi sistemi presentano i seguenti vantaggi principali rispetto ai tradizionali metodi di

pulizia:

producono la solubilizzazione e/o il rigonfiamento di strati di sporcizia e polimeri, provocandone

il distacco dai substrati artistici. La penetrazione del materiale idrofobico distaccato all’interno

della matrice porosa del substrato (ad esempio una pittura murale) è ostacolata dalla barriera

idrofilica fornita dalla fase continua del fluido (acqua). Invece, la pulizia tradizionale con solventi

comporta la dissoluzione dei rivestimenti e il trasporto del materiale dissolto all’interno dei pori

dell’opera d’arte, con possibili effetti negativi a lungo termine.

Possono essere efficaci nella rimozione di rivestimenti indesiderati la cui solubilità nei solventi è

stata modificata e ridotta a causa di invecchiamento.

Sono sistemi a base acqua con basso contenuto di solventi organici, che permettono una

drastica riduzione dell’impatto sulla salute degli utenti finali (conservatori, restauratori) rispetto

ai solventi puri.

Microemulsioni da surfattanti anionici

Nella prima applicazione di una microemulsione per la pulitura di superfici dipinte [28,29] questa era

composta da nanogocce di dodecano (efficienti nella solubilizzazione della cera) stabilizzate in acqua

da sodio dodecilsolfato (SDS) e 1-pentanolo.

Da allora, diverse formulazioni sono stati sviluppate per rimuovere polimeri/co-polimeri acrilici

invecchiati, che sono una delle classi più utilizzate di consolidanti per le pitture murali.

Le prime formulazioni studiate e testate del tipo o/w contenevano xilene disperso in una soluzione di

carbonato d’ammonio, usato come fase continua. [31]. Il contenuto di xilene molto basso (fino a < 3%)

diminuì drasticamente l’impatto ambientale dell’intervento. La microemulsione applicata con pasta di

cellulosa ha portato alla completa rimozione dei rivestimenti acrilici dannosi sia dalla superficie che dagli

strati interni di pitture murali del 14 secolo.

Poiché il p-xilene non è un buon solvente per i polimeri vinilici, diversi fluidi nanostrutturati sono stati

formulati rispetto a quelli utilizzati nelle applicazioni precedenti. Caretti et al. [31] applicano con

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successo un sistema a 4 componenti costituito da sodio dodecilsolfato (SDS), 1-pentanolo (come co-

tensioattivo), carbonato di propilene (PC) e acqua.

Nel 2008 è stato sviluppato un sistema modificato, che contiene sodio dodecilsolfato (SDS), 1-

pentanolo, carbonato di propilene (PC) e acetato di etile (EA), per rimuovere copolimeri vinilici/acrilici

dai dipinti murali Maya conservati nel sito archeologico di Mayapan (Yucatan,

Messico) [26] Questo sistema oil-in-water (denominato “EAPC”) è risultato molto efficace nella

rimozione di diversi tipi di polimeri, come acrilici e siliconici [38-40] (Fig. 3.2.6).

Il Sistema EAPC è più efficiente e versatile rispetto alla “classica” microemulsione basata su xilene e

utilizzata in molti laboratori di conservazione; probabilmente le differenze strutturali dei due sistemi

svolgono un ruolo nel processo di pulizia.

Il sistema EAPC segue un meccanismo in cui vari processi si svolgono contemporaneamente: i) i

solventi disciolti nella fase acquosa continua (PC e EA), che sono in equilibrio con le goccioline

disperse, interagiscono rapidamente con il rivestimento polimerico, ii) la migrazione del solvente

avviene dalle nanogocce (che possono essere considerate come nanocapsule dinamiche) alla fase

acquosa, e iii) ulteriore migrazione avviene dalle nanogocce al polimero.

Come conseguenza, il rivestimento polimerico “seleziona” una composizione ottimale che favorisce un

districamento della catena, gli strati polimerici rigonfiano e si ha il distacco dal substrato [40] (Fig. 3.2.5).

Figura 3.2.5. Rappresentazione schematica

del meccanismo di interazione tra i sistemi

detergenti nanostrutturati (in alto: EAPC; in

fondo: XYL) e il rivestimento polimerico [G.

Palazzo, D. Fiorentino, G. Colafemmina, A.

Ceglie, E. Carretti, L. Dei, P. Baglioni ,

Langmuir (2005) 21, 6717].

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68 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Microemulsioni da surfattanti non ionici

Lo sviluppo di microemulsioni con surfattanti non ionici è stato favorito dal fatto che gli anionici hanno

un’elevata tendenza a schiumare e a concentrazioni micellari critiche relativamente alte (CMC circa

8,3·10-3 M), comparati con i tensioattivi non ionici, richiedendo cosí una grande quantità di tensioattivo

per produrre la microemulsione.

Figura 3.2.6. In alto: rimozione di rivestimenti organici da un dipinto murale mesoamericano a Cholula (pannello

superiore). A sinistra inferiore (A), la presenza del rivestimento organico altera significativamente la leggibilità del

dipinto. Sulla destra (B), la stessa area parzialmente pulita dopo l’applicazione di una microemulsione [P. Baglioni, D.

Chelazzi, R. Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110]. In basso: Dipinti murali nell’Abside di Conone (Chiesa

dell’Annunciazione a Nazareth, Israele). A sinistra, l’effetto del rivestimento polimerico sulla superficie pittorica. A

destra, la stessa zona dopo la completa rimozione ottenuta utilizzando il sistema EAPC [M.Baglioni, D. Berti, J. Teixeira,

R. Giorgi, P. Baglioni, Langmuir (2012) 28, 15193].

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69

L’uso di una minore quantità di tensioattivo riduce il rischio di lasciare residui nella porosità dello strato

dipinto, se i dipinti non sono adeguatamente puliti. Inoltre i non ionici sono più rispettosi dell’ambiente e

biodegradabili rispetto a quelli ionici (come l’SDS).

I polialchilglicosidi (APG) e gli alcoli etossilati appartengono a una classe di tensioattivi “green” e

possiedono interessanti proprietà per un gran numero di applicazioni [32,42] (Fig. 3.2.7).

Figura 3.2.7. Sagrestia di Santa Maria della Scala, Siena, Italia. (A) Porzione del dipinto murale dove sono state

effettuate prove di solubilizzazione del copolimero mediante microemulsione alchilpoliglicoside/Sodio

poliglicoside alchil solfosuccinato. Immagine a luce radente (B) dell’affresco. L’effetto lucido è dovuto alla

presenza di uno strato superficiale di polietilmetacrilato/metacrilato (EMA/MA). (C) immagine in luce radente

della regione di affresco in cui è stata effettuata la prova di pulizia con lapplicazione della microemulsione [E.

Carretti, R. Giorgi, D. Berti, P. Baglioni, Langmuir (2007) 23, 6396].

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70 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Più recentemente, tensioattivi non ionici (alcoli etossilati, meno del 7%) completamente biodegradabili

sono stati usati per formulare un sistema pulente, basato su metiletilchetone, acetato di etile e acetato

di butile (meno del 5% ciascuno).

3.3. I Gel

Come già detto l’uso di solventi nel restauro e conservazione delle opere d’arte comporta alcuni

inconvenienti principalmente correlati a rischi per la sicurezza e alla possibilità di modificare il manufatto

durante la pulizia. L’intervento ideale dovrebbe essere pienamente selettivo, il che significa che la

rimozione degli strati indesiderati deve essere effettuate senza influenzare i materiali artistici originali sia

chimicamente che fisicamente. Uno dei migliori metodi per raggiungere tale compito è quello di

confinare i solventi in una matrice che li rilascia gradualmente sul substrato. Nel corso degli ultimi

decenni, i conservatori hanno adottato diversi strumenti, tra cui prodotti naturali modificati quali eteri di

cellulosa (ad esempio Kucel®, Tylose) o polimeri sintetici come gli acidi poliacrilici (es Carbopol®).

Questi materiali possono essere usati per addensare i solventi, in modo da limitare la penetrazione

incontrollata nei substrati porosi.

C’è una vasta letteratura sui gel, e una descrizione dettagliata di questi sistemi è al di là degli scopi di

questo lavoro. Ci si concentrerà quindi specificamente su formulazioni utilizzate per la pulizia dei

manufatti, che trattano gli aspetti che sono rilevanti per applicazioni pratiche.

Infatti, la definizione precisa di “gel” non è semplice, in quanto comporta concetti derivati dalla reologia

e dalla scienza dei polimeri. Un gel può essere definito come un materiale che comprende una rete

solida tridimensionale immersa in un fluido, in cui la rete è “percolante”. Di solito, un gel è costituito da

un solido (chiamato gelificante o addensante) che, disperso in un fluido, forma uno scheletro

tridimensionale (3D) o, secondo la terminologia dell’Unione Internazionale di Chimica Pura e Applicata

(IUPAC ), come “una rete o rete polimerica colloidale non fluida che è espansa attraverso tutto il suo

volume da un fluido”.

In un senso più ampio, un gel potrebbe essere definito come un materiale morbido che consiste di

catene polimeriche interconnesse che intrappolano un fluido (di solito un liquido).

Il polimero è chiamato “gelificante” o “addensante”. Il termine “idrogel” è utilizzato quando il liquido è

acqua, mentre “organogel” indica gel che presentano solventi organici. Un’altra importante

classificazione considera il tipo di interazioni che costruiscono la rete tra le catene polimeriche.

Nei “gel fisici” le interazioni sono legami secondari, come le forze di dispersione, i legami idrogeno,

interazioni elettrostatiche o idrofobiche. Invece, nei “gel chimici” la rete polimerica è costituita da legami

covalenti (ad esempio, legami tra le catene polimeriche), che sono più di dieci volte più forti di un

legame idrogeno e più di 1000 volte più forti delle forze di dispersione (Fig. 3.3.1).

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71

Gel Fisici Tradizionali: vantaggi e limiti

A parte le emulsioni da cera e i saponi da resina [43], i più comuni sistemi altamente viscosi utilizzati per

la conservazione del patrimonio culturale per la pulizia delle superfici verniciate solitamente contengono

macromolecole solubili in acqua (cioè il gelificante) come polimeri derivati da prodotti naturali (ossia

eteri di cellulosa) e/o polimeri (cioè l’acido poliacrilico sintetico, Carbopols®).

Alla fine del 1980 e all’inizio del 1990 Richard Wolbers ha sviluppato i cosiddetti “solvent gel”, che sono

ottenuti disperdendo acido poliacrilico (la cui concentrazione varia intorno all’1% wt) in un solvente e poi

aggiungendo tensioattivi non ionici debolmente basici appartenenti alla classe delle cocoammine, come

l’Ethomeen C12® o C25®. Le basi causano la deprotonazione delle funzioni carbossiliche nella catena

dell’acido che si dispiegano e formano una estesa rete 3D che confina il solvente [27,44]. Le capacità di

gelificazione sono connesse alla struttura chimica dei tensioattivi (lunghezza delle catene alchiliche): in

Ethomeen C12®, utilizzato per la preparazione di gel a base di solventi a bassa polarità (HLB = 10).

Figura 3.3.1 Rappresentazione schematica delle

possibili interazioni stabilizzanti i gel chimici e fisici

[P. Baglioni, D. Chelazzi, In: “Nanoscience for the

Conservation of Works of Art”, RSC Nanoscience &

Nanotechnology No. 28, 2013].

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72 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Inoltre il valore più alto di polarità del C25® rende questo tensioattivo utile nella gelificazione di solventi

altamente polari e di soluzioni acquose. In altre formulazioni, derivati della cellulosa (idrossietilcellulosa

e carbossimetilcellulosa) sono utilizzati come gelificanti per sistemi a base acquosa come enzimi e

soluzioni di acido etilendiamminotetraacetico (EDTA) da applicare sotto rigoroso controllo di pH e

temperatura.

I principali limiti tecnologici dei gel fisici e, in particolare, dei “solvent gel gel”, sono relativi alle procedure

da adottare per raggiungere la rimozione completa di tutti i componenti non volatili (principalmente il

gelificante) dalla superficie trattata, una volta che hanno svolto la loro funzione [53]. La presenza di

residui di gelificante può potenzialmente causare fenomeni di degrado a causa di imprevedibili e

incontrollabile interazioni con il supporto. Questi effetti indesiderati includono l’aumento della solubilità

degli strati dipinti o la loro alterazione chimica, di solito con conseguente accelerazione del

deterioramento dell’opera d’arte [45].

I solvent gel sono ancora uno degli strumenti più utilizzati per la pulizia grazie alla loro efficacia e

versatilità; infatti possono anche essere utilizzati per controllare l’azione di detergenti ed enzimi.

A causa di questi problemi, la ricerca scientifica si è concentrata negli ultimi dieci anni sulla

formulazione di sistemi alternativi che possono essere facilmente e completamente rimossi dagli strati

dipinti, minimizzando o evitando completamente la presenza di residui solidi.

Gomme a base di polisaccaridi, come agar-agar (AgarArt®) [46,47] e gomma di gellano (Phytagel®)

[48], sono state recentemente considerate per la pulizia di superfici artistiche e storiche. Queste

formulazioni sono state introdotte per minimizzare l’impatto dell’acqua, durante la pulizia di supporti

porosi altamente sensibili come gesso, carta e pergamena [49].

Infatti sia l’AgarArt® che il Phytagel® possono formare idrogel rigidi e trasparenti che, una volta in

contatto con una matrice porosa, possono ritenere elevate quantità di acqua, evitandone la

penetrazione nel supporto. Tuttavia, la ritenzione di acqua di questi sistemi non è sufficiente per il

trattamento di manufatti artistici sensibili all’acqua e l’eccessiva idratazione delle superfici dipinte può

risultare in una lisciviazione indesiderate del colore [50].

Gel Nanostrutturati Innovativi

Per superare tutti i limiti connessi all’uso dei solvent gel tradizionali sono stati sviluppati nuovi approcci

per la pulizia di superfici dipinte basate sull’uso di gel “sensibili”. Dal punto di vista della pulizia

superficiale, la parola “sensibile” significa che l’architettura chimica di queste formulazioni consente una

rimozione rapida, completa e non invasiva come risposta a stimoli “chimici” o “fisici”. Questi sistemi

possono essere indicati come “gel reoreversibili” o “spugne nanomagnetiche”, rispettivamente.

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E’ ben noto che soluzioni di poliammine (cioè poliallilammine, PAA o polietileneimmine, PEI) possono

essere facilmente convertite in un gel [51] direttamente applicabile su una superficie dipinta da pulire

[52], semplicemente gorgogliando CO2. Infatti, il poliallilammonio carbammato (PAA•CO2), ottenuto

attraverso interazioni attrattive elettrostatiche tra le catene del polimero, porta alla formazione di una

struttura polimerica 3D in grado di sostenere la fase liquida (i sistemi più stabili sono quelli in cui la fase

gelificata è un alcol alchilico). Appena il gel ha svolto la sua azione pulente può essere completamente

rimosso dalla superficie trattata aggiungendo alcune gocce di una soluzione acida debole (acido

acetico, 0.05 M). Appena il carbammato è convertito in ioni poliallilammonio (PAA+), il gel passa allo

stato liquido e può essere facilmente spazzato via con un tampone di cotone asciutto. La soluzione

acida debole agisce come un interruttore molecolare che caricando le catene di PAA distrugge la rete

3D tramite repulsioni elettrostatiche inter-catena. Purtroppo, questa tecnologia non ha avuto ulteriori

miglioramenti in quanto, a causa della tissotropia intrinseca di questi sistemi, anche se la loro capacità

di pulizia è eccellente la possibilità di una corretta manipolazione e controllo è difficile.

Un altro approccio che permette una rimozione sicura e non invasiva del gel è l’uso di gel chimici di

poliacrilammide drogati con nanoparticelle magnetiche di ferrite legate chimicamente al polimero [53].

Mentre il gel conserva la risposta magnetica della ferrite e le proprietà strutturali tipiche del gel di

acrilammide puro (dimensioni della maglia su nanoscala, dimensioni del dominio non omogeneo di

poche decine di nanometri e pori micrometrici), le nanoparticelle agiscono come siti di aggrovigliamento

del sistema, migliorando l’elasticità che si traduce in un aumento del modulo di taglio G [54].

Questi gel possono essere caricati con sistemi acquosi (cioè soluzioni acquose, sistemi micellari o

microemulsioni o/w) e una volta messi in contatto con la superficie dipinta da pulire, possono essere

completamente rimossi semplicemente con un magnete permanente senza lasciare residui rilevabili

analiticamente sulla superficie trattata. Inoltre, questi sistemi possono essere sagomati a piacere

(durante la sintesi o successivamente con una fresa) permettendo il controllo spaziale completo della

superficie da pulire.

Gli Idrogel Chimici

Gli idrogel chimici sono un’altra classe di materiali che hanno recentemente trovato applicazione nella

pulizia dei manufatti, grazie a caratteristiche che li rendono vantaggiosi rispetto ad altre formulazioni.

Sono sistemi bicontinui in cui lo scheletro che supporta la fase liquida è solitamente formato dalla

polimerizzazione di unità monomeriche. La modulazione della forza della rete polimerica permette un

perfetto controllo del rilascio delle soluzioni o dei sistemi dispersi (cioè soluzioni micellari e

microemulsioni o/w) incorporati, e un sicuro e facile peeling dalla superficie trattata senza lasciare

residui. Domingues et al. [50] hanno sviluppato reti semi-interpenetranti di p(HEMA)/PVP dove catene

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74 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

libere di poli(vinilpirrolidone) (PVP) sono integrate in una rete formata da poli(2-idrossietilmetacrilato)

(p(HEMA)). Questi sistemi posseggono la resistenza meccanica del p(HEMA) combinata con l’idrofilia

del PVP. In particolare, sia il rapporto p(HEMA)/PVP che la quantità di acqua utilizzata durante la

procedura di preparazione, influenzano le proprietà finali del gel, che possono essere regolate per

ottenere le proprietà desiderate, cioè una buona adesione al substrato, ideale ritenzione/rilascio del

sistema detergente (acqua, microemulsioni o/w, soluzioni micellari ecc..) e confinamento dell’azione di

pulitura alla sola area di contatto tra il gel e il substrato artistico. La letteratura riporta le dimensioni sia

dei macropori che della maglia di gel di p(HEMA)/PVP [50]. La dimensione delle maglie fornisce

intrinsecamente una misura della microporosità media della rete di gel, cioè dei pori di dimensioni

nanometriche. I valori medi di porosità dipendono dalla formulazione del gel, ad esempio una

particolare formulazione (denominata H50) ha macropori di 5-15 micron e una maglia di 2,5 nm. I gel

costituiti da p(HEMA)/PVP sono altamente ritentivi nei confronti dell’acqua, che è una caratteristica

fondamentale per la pulizia controllata. Infatti, il rilascio di acqua di questi sistemi è fortemente ridotta

rispetto all’AgarArt® (gel di agar-agar) e Kelcogel® (gel gellano) preparati per dispersione di polveri

secche in acqua (3% w/w), come mostrato da Domingues et al. [55]. Grazie alla struttura chimica

diversa e alla polarità di HEMA e VP, è possibile ottimizzare la formulazione del gel per il supporto da

trattare in termini di potere di ritenzione, porosità, comportamento visco-elastico e carattere

idrofobico/idrofilico della rete. Soprattutto, questa ultima caratteristica rende questi gel chimici

contenitori altamente versatili in grado di supportare sia soluzioni detergenti acquose (microemulsioni

o/w e soluzioni micellari) che un ampio numero di solventi organici caratterizzati da diversi parametri di

solubilità. Di conseguenza, è possibile customizzare gel efficaci nella rimozione di materiali con

differenti proprietà chimico-fisiche, come i rivestimenti a base di idrocarburi idrofobici (cere), materiali

proteici altamente polari (colle vegetali o animale) e naturali (dammar, mastice) o vernici sintetiche

(acrilico e vinile).

Uno studio condotto da Pizzorusso et al. [56] riporta l’uso di un’altra classe di idrogel chimici, vale a dire

gel di acrilammide/bisacrilammide, per la pulizia di dipinti da cavalletto.

La rete 3D in questo caso è prodotta dalla polimerizzazione radicalica del monomero acrilamide con un

reticolante, ad esempio N,N’-metilene bisacrilammide. I macropori che si formato hanno dimensione di

5-25 micron, mentre la dimensione delle maglie è di 7-9 nm. I gel risultanti hanno un comportamento

che è simile a quello dei solidi: possono essere facilmente applicati e rimossi dalla superficie trattata

senza lasciare residui, come determinato per i gel di p(HEMA)/PVP. Gel di acrilamide/bisacrilammide,

caricati con fluidi nanostrutturati a base di tensioattivi, sono stati utilizzati con successo per rimuovere

adesivi sintetici dannosi dalle tele. I gel garantiscono una buona bagnabilità delle fibre, evitando la

diffusione di acqua attraverso il substrato e lungo il piano della superficie della tela. Accoppiando il

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rigonfiamento dello strato adesivo da parte del fluido con l’azione meccanica è possibile ottenere la

pulizia selettiva della tela senza causare alterazioni (gonfiore delle fibre).

Sistemi Spellicolabili: dispersioni polimeriche ad alta viscosità (HVPDs)

Un ulteriore possibile approccio basato sull’uso della materia soffice è l’uso di sistemi simili a gel

caratterizzati da elevata elasticità intrinseca (quantitativamente espressa dal modulo di taglio G), che

consente la loro facile, completa e sicura rimozione con un’azione di peeling senza lasciare residui sulla

superficie trattata.

Le dispersioni polimeriche ad alta viscosità (HVPDs) sono una classe di materiali utili [57] ad alta

elasticità intrinseca. Il termine “dispersioni polimeriche” è utilizzato poiché questi sistemi non possono

essere classificati come gel per il loro comportamento reologico, anche se hanno un aspetto simile ai

gel. Infatti, le curve reologiche sono caratterizzate da un incrocio tra i moduli di shear G' (modulo

elastico) e G''(modulo viscoso). Le HVPDs possono essere formate da poli(vinilalcool) o da

poli(vinilacetato) (PVAs) parzialmente idrolizzato le cui catene sono reticolate con borace. Le risultanti

reti 3D sono termodinamicamente stabili e mostrano caratteristiche che sono particolarmente

interessanti per la pulizia delle opere d’arte. Infatti, questi “gel” possono adattare la loro forma in modo

da massimizzare il contatto con il substrato artistico. Ancora più importante, questi sistemi mostrano un

alto modulo elastico quindi è possibile semplicemente “spellicolarli” dalla superficie trattata dopo

l’applicazione, come mostrato in Fig. 3.3.2.

Per esempio, uno studio di Carretti et al. ha evidenziato che dispersioni PVA-HVPDs/borace potrebbero

essere rimosse con un semplice peeling senza lasciare quantità misurabili di residui [58].

A parte le proprietà meccaniche che possono essere regolate variando il grado di idrolisi del PVA, la

concentrazione sia di borace che di PVA, il pH, la temperatura e la composizione della fase acquosa

Figura 3.3.2 a: dispersione polimerica ad alta viscosità (HVPD) formata da poli (vinil acetato)parzialmente

idrolizzato, le cui catene sono reticolate con borace. b: l’ HVPD è spellicolata dalla superficie di una tela con delle

pinzette [I. Natali, E. Carretti, L. Angelova, P. Baglioni, R.G. Weiss, L. Dei, Langmuir (2011) 27, 13226].

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76 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

continua incorporata, un ulteriore proprietà che rende i sistemi PVA-HVPDs/borace adatti per la pulizia

delle superfici artistiche è che essi mantengono la loro stabilità termodinamica anche dopo l’aggiunta di

quantità significative di solventi organici. Quindi a seconda del grado di PVA, questi sistemi possono

essere prodotti e caricati con acqua o solventi organici come acetone, alcoli (fino al 50% etanolo,

propanolo-1, 2-butanolo, 1-pentanolo), carbonato di propilene, metiletilchetone, N-metilpirrolidone e

cicloesanone; quindi le HVPDs possono essere utilizzate per la rimozione di diversi tipi di materiali

[59,60].

Inoltre, a seconda della natura chimica del solvente caricato, è possibile regolare ulteriormente le

proprietà viscoelastiche delle HVPDs.

Queste caratteristiche consentono una modulazione rigorosa della selettività, dell’efficacia e

dell’invasività dell’azione di pulizia in termini sia dei parametri di Hildebrand che di modulo

di shear [57]. Gel chimici e HVPDs sono disponibili sul mercato, con il marchio Nanorestore Gel®.

Figura 3.3.3. Particolare della pittura murale (Sagrestia di Santa Maria della Scala, Siena, Italia) su cui è stata provata la

rimozione del poli (etilmetacrilato/metacrilato) (EMA/MA) con il sistema microemulsione/HMHEC. In basso a destra:

fotografia a luce radente della parte del dipinto dopo l’applicazione del sistema di pulitura (vedi regione all’ interno della

linea tratteggiata). In alto: immagini SEM prima e dopo la rimozione del polimero [E. Carretti, E. Fratini, D. Berti, L.

Dei, P. Baglioni, Angew Chem (2009) 48, 8966].

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Un ulteriore miglioramento della tecnologia gel per la pulizia di superfici verniciate è stata ottenuta

caricando sistemi dispersi acquosi come microemulsioni o soluzioni micellari in matrici altamente

viscose con l’intento di unire le proprietà che rendono opportune queste classi di sistemi e ottenere un

miglioramento sinergico delle loro capacità di pulizia. Il confinamento di microemulsioni e soluzioni

micellari in gel chimici o HVPD permette la massima riduzione dell’impatto ambientale nei processi di

pulitura delle superfici. Infatti la scelta di sostituire un solvente puro con un sistema contenente fino a

99% w/w di acqua [32] all’interno di una matrice altamente viscosa minimizza l’evaporazione della fase

dispersa e permette il controllo della diffusione delle nanogocce nel supporto poroso attraverso la

modulazione sia della dimensione della maglia che della viscosità dello scheletro polimerico. Inoltre, un

perfetto controllo dell’azione di pulizia è anche ottenuto attraverso l’uso di strumenti a bassa

penetrazione, otticamente trasparenti e facilmente asportabili. Da Caretti et al. [61] è stata eseguita

l’applicazione di un HVPD altamente viscoso, composto da una microemulsione o/w incorporata in una

matrice 3D di idrossietilcellulosa idrofobicamente modificata (HMHEC), su pitture murali del Vecchietta

(sagrestia di Santa Maria della Scala, Siena, 15° secolo) affette da 35 anni di

poli(etilmetacrilato/metilacrilato), Paraloid B72®, applicato in un trattamento di restauro precedente.

L’applicazione del sistema microemulsione/HMHEC ha portato all’ammorbidimento progressivo del

rivestimento acrilico e conseguente alla scomparsa dell’effetto lucido dato dal Paraloid B72® (Fig.

3.3.3).

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78 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

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81

4. I Nanosensori

Nel tempo gli oggetti storici e artistici subiscono un degrado inevitabile a causa del deterioramento

fisico, chimico, meccanico e biologico dei materiali costituenti. Lo scopo più importante dei restauratori e

conservatori è quello di mettere in atto efficienti interventi conservativi al fine di rallentare questi

processi di degrado. A tal proposito, una delle decisioni più cruciali è rappresentata dal “se” e “quando”

un intervento di restauro è necessario e come il trattamento deve essere eseguito [1,2]. Per prendere la

scelta giusta, passi fondamentali sono rappresentati da una valutazione periodica dello stato di

conservazione del patrimonio culturale mobile ed immobile e lo stretto controllo del microclima in cui

questi manufatti sono o saranno conservati [3]. Queste azioni aiutano i conservatori a pianificare

adeguati trattamenti prima che ulteriori e gravi fenomeni di degrado si verifichino.

Per quanto riguarda la necessità di tenere sotto controllo il degrado dei manufatti storici e artistici, la

reperibilità sul mercato di sensori innovativi ha portato a significativi miglioramenti nel campo della

conservazione. Oltre a valutazioni periodiche e indagini microclimatiche, un gran numero di parametri

che possono essere correlati allo stato di conservazione degli oggetti (la presenza di prodotti di

degradazione e l’alterazione dei parametri chimici o fisici) e al microclima in cui sono immagazzinati

(inquinanti, umidità relativa, temperatura e irraggiamento) possono essere costantemente monitorati. I

meccanismi di deterioramento dipendono fortemente dalla composizione chimica del materiale

costituente l’oggetto di interesse storico/artistico. Pertanto, i fattori che influenzano la cinetica di

degradazione di un oggetto saranno diversi. Tuttavia, si può affermare che ci sono alcuni fattori

principali che possono influenzare il degrado dei materiali attraverso meccanismi simili: temperatura,

umidità relativa, inquinamento atmosferico (CO, SO2, NOx, O3 e idrocarburi (HCs)) e microrganismi.

In questo quadro, oltre a sensori tradizionali, il set-up di innovativi e efficaci nanosensori apre nuove

interessanti applicazioni per la conservazione del patrimonio culturale.

Sensori per tali applicazioni devono avere una serie di caratteristiche, come l’elevata sensibilità, il

funzionamento senza contatto, la stabilità e la robustezza, risposta temporale e tempo di recupero

relativamente veloci, mantenendo una dimensione molto piccola, essere a basso costo e con bassa

potenza operativa, che è associato con dissipazione (termica) della potenza ridotta nell’area. Il

vantaggio nell’utilizzo dei nanosensori risiede principalmente nelle loro ridotte dimensioni, che

permettono di collocarli in prossimità dell’oggetto prezioso, nel loro tipo di funzionamento che non

prevede un’interrogazione di tipo elettrico che potrebbe essere vulnerabile agli effetti di interferenza

magnetica, e nella loro sensibilità.

I recenti progressi nella sintesi e comprensione fondamentale delle proprietà dei nanomateriali hanno

portato ad un significativo avanzamento nel campo dei sensori biologici, chimici e per gas basati su

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82 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

nanostrutture. I materiali utilizzati includono una vasta gamma di nanomateriali compresi nanoparticelle,

quantum dots, nanotubi di carbonio, grafene, nanostrutture a stampo molecolare, strutture di

nanometalli, strutture basate sul DNA, nanomateriali smart, nanosonde, nanomateriali magnetici,

ftalocianine e molecole organiche di porfirine per vari applicazioni di rilevamento

biologogico/gas/chimica [4].

I sensori biologici/chimici/gas sono costituiti generalmente da materiali sensibili, che rispondono alle

variazioni di analiti chimici, biologici e gassosi, e da un trasduttore che li converte e li trasforma in

segnali elettrici. I sensori di gas possono essere classificati attraverso il meccanismo di rilevamento in

chemoresistivi, onde acustiche di superficie (SAW), microbilance a cristalli di quarzo (QCM),

chemoluminescenti, assorbimento ottico, e dielettrici [5-9]. Applicazioni di gas-sensing includono gas

tossici, come NO2, CO, SO2, NH3, O3, e H2S, gas infiammabili, come H2, CH4, C2H2 e C3H8, e composti

organici volatili (VOC), come etanolo, acetone, metanolo e propanolo [6-10]. Allo stesso modo, i sensori

chimici possono essere divisi attraverso le piattaforme di rilevamento in elettrochimici, sensibili all’effetto

di campo degli ioni, a chemiluminescenza, ottici, e quelli spettroscopici di massa [11-13]. Le applicazioni

di rilevamento chimico sono molto più ampie di quelli gassosi in quanto comprendono un gran numero

di sostanze chimiche in fase liquida che vanno da acidi, basi, solventi e sostanze inorganiche agli analiti

organici [14].

In analogia, le piattaforme ampiamente utilizzate nei biosensori includono quelle di tipo elettrochimico,

fluorescente, a risonanza plasmonica di superficie (SPR), QCM, e microcantilever [15-19]. Le

applicazioni dei biosensori coprono anche una gamma molto ampia di materiali biologicamente rilevanti

compresi bioanaliti presenti negli organismi viventi come il glucosio, il colesterolo, l’acido urico, DNA,

RNA, cellule, proteine, organelli, e così via [17-21].

4.1. Nanosensori di Temperatura

Per quanto riguarda lo sviluppo di dispositivi su scala nanometrica una buona review su misure

accurate di temperatura con elevata risoluzione spaziale riassume i risultati più interessanti ottenuti

negli ultimi anni [22].

Ad es. è stato riportato che termometri costituiti da una giunzione Pt/W e realizzati per deposizione

vapore di un metallo su nanostriscie di un altro metallo, in modo da formare un sensore bimetallico su

scala nanometrica, forniscono un coefficiente di temperatura di 5,4 mV/°C, che è 130 volte maggiore di

quello delle termocoppie convenzionali [23].

Gao et al. [24-28] hanno riportato un termometro nanometrico che è di forma analoga a quella di un

termometro tradizionale a mercurio ma un miliardo di volte più piccolo (diametro: 150 nm; lunghezza: 12

μm). Si compone di nanotubi di Carbonio e Manganese (MgO) riempiti con Gallio (Ga) in cui il Ga serve

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come indicatore di temperatura espandendosi e contraendosi all’interno del nanotubo nell’intervallo 30-

2204C (Fig. 4.1.1). Questi termometri di nanotubi di carbonio o MgO hanno un grande potenziale per

ambienti ad altissima temperatura grazie alle loro eccellenti proprietà refrattarie e termiche e al vasto

range liquido del Ga. Tuttavia, uno dei principali ostacoli è che questi termometri richiedeno una camera

ad alto vuoto per la lettura e la taratura, anche se la misura della temperatura può essere eseguita in

aria. Solo lo sviluppo di un metodo diverso di trasduzione del segnale può superare questo problema.

Lee et al. [29] hanno sviluppato un nanotermometro reversibile comprendente una sovrastruttura

dinamica di due tipi di nanoparticelle connesse da distanziatori polimerici che agiscono come una molla

molecolare allo stato acquoso. I dati di temperatura determinati da variazioni di intensità della

fluorescenza della sovrastruttura hanno mostrato una dipendenza reversibile dell’intensità con la

temperatura in ambiente acquoso.

Più di recentemente, film sottili costituiti da eterostrutture di nitruro di carbonio(CNX)/Si sono stati

preparati e utilizzati per realizzare prototipi di dispositivi atti all’impiego nella conservazione delle opere

d’arte e nei musei. Questi nanosensori sono stati testati per il monitoraggio della temperatura in

condizioni ambientali controllate. Le caratteristiche capacità-tensione di questi dispositivi mostrano alta

sensibilità alle variazioni di temperatura, il che suggerisce la loro applicazione come sensori stabili e

robusti per il monitoraggio in ambienti chiusi [30].

Recentemente sensori di temperatura, sintetizzati tramite un metodo sol-gel e costituiti da una

sospensione sol o colloidale in cui un colorante organico che si comporta come fase sensibile è

incapsulato, sono stati proposti da Pena-Poza et al. [31]. In questo caso, la fase è un complesso di

coordinazione del Co(II) [32], si tratta quindi di sensori chimici aventi una risposta di tipo ottico (Fig.

Figura 4.1.1. Nanotermometro di carbonio riempito con Ga mostra l’espansione del Ga all’interno di un

nanotubo con l’aumento della temperatura in (sx) 58°C, (centro) 490°C, e (destra) 45°C. Nel grafico è

riportata l’altezza del menisco di Ga contro la temperatura, misurata nel range 30-50°C; i risultati sono

mediati (linea tratteggiata) da misurazioni simili ottenute durante il riscaldamento (cerchi rossi) e il

raffreddamento (triangoli neri) [J. Lee, N.A. Kotov, Nano Today (2007) 2, 48].

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4.1.2). A seconda delle proporzioni relative del complesso Co(II) e degli altri componenti del sol, è

possibile ottenere sensori di temperatura con differenti range di sensibilità.

Questi sensori applicati per il monitoraggio indoor nelle diverse sale del Palazzo del Museo di Wilanów

(Varsavia, Polonia) dal 14 Giugno al 23 Dicembre 2010 hanno dimostrato di essere sufficientemente

sensibili a rilevare piccole differenze di temperatura anche nella stessa stanza.

4.2. Nanosensori di Umidità

Riguardo i sensori di umidità, l’effetto della dimensioni dei pori e l’uniformità sulla risposta dell’allumina

nanoporosa, formata su film spessi di alluminio da un processo di anodizzazione, è stato riportato da

Dickey et al. [33]. Un sensore con una dimensione media dei pori di 13,6 nm esibisce variazioni di più di

tre ordini di grandezza nell’impedenza misurata su un intervallo di umidità relativa da circa il 20% al

90%, con un tempo di risposta di circa 95 secondi. Più recentemente sono stati messi a punto una serie

di prototipi di sensori, a basso costo, costituiti da allumina e silice nanoporosa con tempo di risposta di

4-8 min a variazioni di umidità relativa dal 100% al 39% a temperatura ambiente [34].

Negli ultimi anni i sensori fotonici sono stati considerati adatti per misure di umidità poiché hanno

piccole dimensioni e peso e mostrano immunità ai disturbi elettromagnetici e alla corrosione e offrono la

possibilità rilevamento remoto.

Il sensore proposto nel di Li uet al. [30] è costituito da un film sottile (100-300 nm) di materiale ibrido

organico-inorganico costituito da ossido di polietilene (PEO) e cloruro di cobalto (CoCl2) e si basa su

variazioni di assorbimento del sale inorganico. Perciò il cloruro di cobalto è stato utilizzato come

Figura 4.1.2. Aspetto di un sensore di temperatura ambientale sensibilizzato a

diverse temperature [J. Pena-Poza, M. Garcia-Heras, T. Palomar, A. Laudy, E.

Modzelewska, M.A. Villegas, B Pol Acad Sci-Tech (2011) 59, 247].

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indicatore colorimetrico di umidità a causa dei suoi cambiamenti di colore per complessazione delle

molecole di acqua. Infatti il CoCl2 anidro è un sale inorganico blu intenso che possiede forti bande di

assorbimento nell’intervallo 550-710 nm, mentre il materiale completamente idratato (CoCl2·6H2O) è di

colore rosa ed assorbe debolmente nell’ intervallo 410-550 nm.

4.3. Nanosensori di Inquinanti

Per i nanosensori conduttimetrici di gas vi è una recente revisione che riporta gli ultimi risultati scientifici

e tecnologici in questo settore [35]. Per il monitoraggio di gas, ad esempio, un dispositivo resistivo,

realizzato con una dispersione di nanotubi di carbonio purificati (SWCNTs) in dimetilformammide su

substrato di silicio è in grado di operare a temperatura ambiente e presenta una sensibilità molto

elevata per il biossido di azoto e il nitrotoluene, con limiti di rilevamento di 44 e 262 ppb, rispettivamente

[36], così dimostrando ancora una volta le straordinarie potenzialità in termini di sensibilità dei

nanosensori rispetto ai sensori tradizionali.

Questo tipo di sensori sono costituiti da nanotubi di carbonio single-walled (SWCNTs) sono utilizzati

come nanomateriali sensibili per il rilevamento di SO2, NH3, NO2, e altri composti organici volatili (VOC)

[37-39]. L’assorbimento di molecole gassose influenza in modo significativo la conducibilità attraverso la

donazione di elettroni e il ritiro dei SWCNTs, cambiando così le loro proprietà elettriche. Sono sensori

ad alta sensibilità e rapida risposta ma hanno lo svantaggio di un recupero lento e parziale.

Più di recente, film di nanotubi di carbonio multi-walled (MWCNTs) hanno mostrato un carattere

semiconduttivo di tipo p con diminuzione della resistenza ad esposizioni sub-ppm di NO2 [40]. Tuttavia,

nei MWCNTs i tubi interni in un film di MWCNTs non possono interagire con le molecole di NO2 perché

le molecole non possono diffondere nel film di MWCNTs. Questo spiega la piccola risposta dei film di

MWCNTs quando esposti ai gas, a differenza della grande risposta dei semiconduttori SWCNTs.

Pena-Poza et al. [31] hanno sviluppato sensori ottici di acidità ambientali costituiti da un rivestimento

sottile preparato con il metodo sol-gel (TEOS:EtOH:HCl) e depositato su vetro [41][37]. Il rivestimento

sensibile è ottenuto da un sol o sospensione colloidale in cui è incapsulato un colorante organico che si

comporta come fase sensibile [42]. Il colorante organico (3',3''-diclorofenolsulfonftaleina) è stato scelto

in base alla gamma di pH a cui gli oggetti costituenti i beni culturali sono solitamente esposti o

conservati, cioè vicino alle condizioni di neutralità, a pH tra 6 e 8 circa. I sensori ottenuti mostrano una

buona resistenza chimica e termica in un ampio intervallo di temperatura (da -10 a 60C, circa) durante

lunghi periodi di esposizione e una sensibilità buona abbastanza da discriminare concentrazioni di SO2

dell’ordine dei ppm [43].

Recentemente, per aumentare la porosità dei SWCNTs in modo da assorbire più gas, Sekhaneh et al.

[44] hanno sviluppato un sensore costituito da una matrice di SWCNTs/ZnO. Questo tipo di sensori

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86 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

posseggono alta sensibilità, e proprietà di risposta favorevoli alla rilevazione di NO2 a diverse

temperature e concentrazioni di gas con temperature comprese tra la temperatura ambiente e i 300°C.

Inoltre la loro risposta e i tempi di recupero sono stati notevolmente ridotti a circa la metà rispetto a

quelli dei sensori SWCNTs. Nei sensori SWCNTs il fattore di sensibilità aumenta con la temperatura per

temperature da 25°C a 300°C. Questo indica che il ruolo della temperatura è più pronunciato per

concentrazioni di gas molto elevate. Nei sensori SWCNTs/ZnO invece la temperatura risulta essere

quasi inefficace in tutto il campo di temperatura, eccetto tra 100°C e 150°C in cui si osserva un

notevole aumento della sensibilità. Ma a temperatura inferiore a 100°C e superiori a 150°C la sensibilità

rimane quasi costante.

Un’interessante applicazione di sensori costituiti da film di nanoparticelle d’argento (AgNPs) e

Polietilenimmine (PEI) per la rilevazione di acido solfidrico (H2S) è stata studiata da Chen et al. [45]

Le fonti di H2S negli ambienti museali sono l’inquinamento atmosferico locale e le emissioni da materiali

degradati (ad es. materiali proteinacei). Le emissioni da materiali degradati possono mettere a rischio i

manufatti, quindi nella pratica museale valutazioni di stabilità dei materiale visivi (dagherrotipi),

conosciuti come Oddy test, sono spesso applicati per identificare i materiali che possono rappresentare

un rischio del genere. Recenti studi hanno riportato l’utilizzo di tali emissioni come indicatori di degrado

[46-47].

Grazie alla reazione chimica tra argento e H2S, facilmente monitorabile dalla variazione dell’intensità di

assorbimento della risonanza plasmonica localizzata di superficie (LSPR) dei film di AgNPs, l’argento in

diversi stati, come ioni dispersi in rivestimenti di Nafion (fluoropolimero-copolimero costituito

da tetrafluoroetilene solfonato) e film sottili, è stato utilizzato per la rilevazione di H2S.

Le AgNPs come sensori di gas si basano sulla reazione chimica tra Ag e H2S. L’alta reattività AgNPs

per l’H2S e la reazione gas-solido di H2S su AgNPs provoca una rapida diminuzione dell’intensità di

assorbimento LSPR durante l’esposizione, a causa di elettroni liberi di AgNPs che sono convertiti in

elettroni legati nell’Ag2S. Data la sensibilità dell’LSPR agli elettroni di conduzione, Chen et al. hanno

effettuato un’analisi quantitativa della portata della reazione controllando i cambiamenti di intensità

nell’assorbimento LSPR. Gli stessi autori [45] hanno rilevato con questi sensori le concentrazioni di H2S

quando i film di AgNPs sono stati esposti a tessuti di lana degradati da luce UV e a seta naturalmente

invecchiata dei contenitori in cui sono conservati i dagherrotipi. L’emissione di H2S dai materiali

invecchiati può essere utilizzata per valutare il rischio di danni a oggetti metallici vicini. Inoltre la

concentrazione misurata di H2S nel caso dei dagherrotipi sembra essere correlata alla condizione

conservativa dei dagherrotipi stessi: maggiore è il livello di gas di zolfo monitorato più deteriorata è

l’immagine. La condizione dell’immagine è prevalentemente una misura dell’integrità dei sigilli intorno ai

bordi delle coperture di vetro dei dagherrotipi. Tuttavia è interessante considerare se tali sigilli

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potrebbero essere più facilmente compromessi da una prolungata esposizione a livelli elevati di gas

emessi dal degrado delle fodere di seta. Inoltre i film di AgNPs hanno mostrato anche vantaggi nel loro

utilizzo come sostituti, sensibili e quantitativi, dei fogli di argento di solito utilizzati nll’Oddy test per

identificare, in ambito museale, i materiali che sono adatti per l’alloggiamento dei dagherrotipi ed

eliminare i materiali che sono a rilascio di gas e debolmente corrosivi.

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88 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

90 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

5. Applicazione delle Nanotecnologie per i Beni Culturali

Quando si parla di opere d’arte si fa spesso riferimento alle pitture, anche se il termine “arte” comprende

molte altre attività creative, come ad esempio la produzione di statue, di mosaici, di vetri, ceramiche,

ecc.. Fino ad oggi però l’utilizzo delle nanotecnologie ha riguardato principalmente quelle opere d’arte

più soggette a deperimento nel tempo, ovvero le opere architettoniche, le pittoriche, mobili e immobili,

ed i manufatti cellulosici.

Il degrado dei materiali utilizzati in opere artistiche dipende dalle interazioni con l’ambiente in cui queste

si trovano. Ovviamente, i meccanismi di degrado dipendono dalle proprietà specifiche dei materiali;

questo significa che la pietra, il vetro, la ceramica, il legno, la carta, i tessuti e il bronzo seguiranno tutti

diversi meccanismi e percorsi di reazione. Tuttavia, tutti questi processi sono influenzati in modo simile

dagli stessi parametri ambientali: temperatura, umidità relativa, luce e inquinamento. Questo capitolo

tratta l’uso di materiali nanostrutturati per il restauro e la conservazione di opere d’arte immobili, come

dipinti murali e pietre, e mobili, come dipinti da cavalletto, libri e pergamene. Pertanto, saranno

brevemente richiamate le nozioni fondamentali dei materiali costituenti e dei principali processi di

degrado per poi illustrare l’applicazione dei nanomateriali.

Dipinti Murali e Pietre

I dipinti murali sono opere d’arte molto particolari, perché non esistono come capolavori singoli isolati,

ma appartengono sempre a edifici come chiese, monasteri, castelli, palazzi, tombe, ecc... Infatti, il

dipinto murale è la superficie dipinta – la “pelle esterna” di pochi micron di spessore – di un’opera

architettonica il cui primo importante aspetto fisico-chimico è legato all’adesione di questa superficie sul

supporto della parete. Avere a che fare con mezzi dipinti significa studiare le superfici pittoriche, infatti il

messaggio artistico è in genere sostanzialmente confinato entro pochi micron della materia colorata. Le

superfici pittoriche possono essere considerate da un punto di vista fisico-chimico come interfacce

solido-gas in cui la fase solida è intrinsecamente micro-eterogenea. Sia i dipinti da cavalletto che quelli

murali sono costituiti da un supporto macroscopico rivestito da un sottile strato di pittura, compreso il

legante che gli fornisce adesione al supporto. Lo strato di pittura è dunque la vera interfaccia tra l’opera

d’arte (fase solida) e l’ambiente, che nella maggior parte dei casi è l’atmosfera (fase gassosa). È

importante notare che la superficie pittorica, definita in termini chimico-fisici, è la regione dove il sistema

termodinamico “opera d’arte” scambia materia e energia con l’ambiente circostante. In altre parole, le

superfici pittoriche sono il sito preferenziale di degrado.

In genere, un dipinto murale si compone di tre differenti strati sovrapposti (Fig. 5.1). Lo strato più

interno, chiamato arriccio, è posato direttamente sulla parete di pietra o di mattoni, e di solito consiste di

una miscela (3:1 (v/v)) di sabbia grossolana e pasta di calce (Ca(OH)2 e acqua). Quando l’arriccio è

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91

completamente asciutto, viene steso un secondo strato, detto intonaco, preparato utilizzando una

miscela (2:1 o 1:1 (v/v)) di particelle più fini (sabbia di dimensioni micrometriche) e calce, così da

ottenere una superficie molto liscia sulla quale l’artista dipinge usando pigmenti. Lo strato dipinto è

infatti il terzo e più esterno strato, il cui lo spessore è di 50-500 micron. Nella cosiddetta tecnica

dell’affresco, i pigmenti sono dispersi in acqua di calce (una soluzione acquosa satura di Ca(OH)2) e

applicati direttamente sull’intonaco bagnato prima dell’indurimento. Il processo di indurimento, chiamato

anche "carbonatazione", è dato dalla reazione del Ca(OH)2 con l’anidride carbonica atmosferica (CO2),

per formare una solida rete di carbonato di calcio (CaCO3) che ha azione legante e incorpora i pigmenti,

garantendo così ottima resistenza meccanica alla pellicola pittorica. Tuttavia, il pH dell’intonaco bagnato

è fortemente alcalino, e alcuni pigmenti non sono compatibili con tale alcalinità, quindi vengono applicati

dopo il completamento del processo di carbonatazione, ovvero a secco. In questo caso il legante dei

pigmenti non è il CaCO3, ma un materiale di origine vegetale (gomme, oli, ecc..) o animale (caseina,

uovo, colla animale). Una terza tecnica è il cosiddetto mezzo affresco, dove l’artista dipinge su intonaco

quasi asciutto.

I dipinti murali e la pietra subiscono diversi processi di degrado che includono l’erosione fisica, i cicli di

gelo-disgelo, la biodegradazione e la corrosione chimica operata da piogge acide e umidità. Uno dei più

diffusi e critici processi nelle formazione delle piogge acide è la produzione di acido solforico acquoso

(H2SO4) in seguito all’idratazione dell’SO2, che viene rilasciata nella combustione dei materiali

contenenti zolfo e degli oli minerali. L’acido solforico corrode il carbonato di calcio per formare il gesso

(CaSO4⋅2H2O), producendo così stress meccanici all’interno dei pori dell’opera d’arte dal momento che

la cella elementare cristallina del gesso è più grande di quella del carbonato di calcio. Inoltre, il gesso è

un sale abbastanza solubile, così può diffondere come soluzione acquosa attraverso le matrici porose e

Figura 5.1. Stratigrafia di un dipinto

murale modello appartenente alla

tradizione classica. Lo strato più

interno (arriccio) è disposto

direttamente sulla parete di pietra o

mattoni. L’intonaco viene applicato

sull’arriccio per ottenere una

superficie liscia sulla quale l’artista

dipinge. Lo strato pittorico è quello

più esterno, il cui spessore è di circa

50-500 μm.

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

92 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

subire cicli di cristallizzazione-dissoluzione a causa delle oscillazioni idrotermali. La presenza di sali può

anche essere dovuta a soluzioni acquose provenienti dal terreno che risalgono per capillaritá e

diffondono attraverso i pori dell’opera. Oltre ai solfati, effetti nocivi alle pitture murali e alle pietre sono

causati anche da atri sali quali i cloruri alcalini e alcalino-terrosi, i nitrati e gli ossalati [1,2]. Ad esempio,

il nitrato di calcio tetraidrato (Ca(NO3)2⋅4H2O) si trova comunemente nelle pitture murali, ed essendo un

sale deliquescente può portare alla condensazione di acqua sul substrato dall’umidità ambientale e a

temperature ben al di sopra del valore di saturazione.

La corrosione del carbonato di calcio e le sollecitazioni meccaniche dovute alla cristallizzazione dei sali

mette a repentaglio la superficie pittorica dei dipinti murali, che può così esibire efflorescenze (fioriture

cristalli di sale) e desquamazione degli strati pittorici, come mostrato in Fig. 5.2.

Nel corso degli anni una gran varietà di materiali diversi è stata applicata sulle pitture murali, come

consolidanti, colle, adesivi e fissativi. A partire dal 1960, prodotti sintetici come polimeri acrilati, vinilici,

siliconici ed epossidici sono stati ampiamente usati grazie alle loro accattivanti prestazioni a breve

termine e stabilità. L’alto potere adesivo delle formulazioni le ha rese una veloce, facile e idonea

opzione per la riadesione di parti distaccate. Inoltre, il carattere idrofobico di questi prodotti ha

giustificato il loro uso come rivestimenti protettivi, con lo scopo di impedire il degrado causato da

processi chimici e fisici legati alla presenza di acqua, e come rivestimenti estetici atti a fornire la

saturazione dei colori. Inoltre, la maggiore resistenza dei polimeri sintetici all’invecchiamento rispetto

alle resine naturali, ha indotto i conservatori a pensare che l’applicazione di prodotti di sintesi sarebbe

stata completamente reversibile anche a lungo termine.

Purtroppo, nel corso degli ultimi 50 anni la pratica ha dimostrato che questo non è vero. È un dato di

fatto, che i polimeri sintetici possono subire degrado dovuto all’azione della temperatura, dell’umidità

relativa, delle soluzioni saline e della luce UV-VIS che producono l’alterazione estetica (decolorazione)

Figura 5.2. Efflorescenze sulla superficie dei dipinti

murali nel sito di Ixcaquixtla (Messico). L’immagine

mostra la corrosione del carbonato di calcio e le

sollecitazioni meccaniche dovute alla cristallizzazione

dei sali [D. Chelazzi, G. Poggi, Y. Jaidar, N. Toccafondi,

R. Giorgi, P. Baglioni, J Colloid Interf Sci (2013) 392,

42].

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93

e variazioni di solubilità dei polimeri. La reticolazione e la rottura delle catene possono avvenire in modo

che il peso molecolare dei polimeri è alterato e di conseguenza la loro solubilità nei solventi originali

diminuisce [3-5]. In alcuni casi, l’alterazione dei rivestimenti può essere tale che la loro rimozione dalle

superfici artistico/storiche è impossibile con i solventi tradizionali e un tipo di tecnologia alternativa deve

essere utilizzata, come ad esempio i liquidi nanostrutturati. La rimozione dei rivestimenti invecchiati e

pregiudizievoli per i dipinti murali e la pietra, utilizzando le nanotecnologie attualmente disponibili sul

mercato, saranno descritte nel paragrafo 5.2.

Oltre alla possibilità di subire degrado essi stessi, i rivestimenti polimerici alterano fortemente le

proprietà fisico-chimiche dei substrati porosi inorganici. Uno studio condotto da Carretti e Dei [6] ha

messo in evidenza le modifiche prodotte da film di Paraloid B72®, Primal AC33® e Elvacite 2046® sulla

superficie di campioni di malte aeree che simulano pitture murali vere e proprie. Gli effetti principali

erano la drastica diminuzione (40-50%) della permeabilità superficiale al vapore acqueo e

dell’idrofilicità, il che significa che la traspirazione di acqua all’interfaccia tra i campioni porosi e

l’ambiente esterno è stata fortemente ostacolata, indipendentemente dal copolimero applicato.

Le alterazioni indotte alla superficie “traspirante” sono effetti penalizzanti per l’opera d’arte poiché

aumenta il tempo di permanenza delle soluzioni saline acquose all’interno della matrice porosa,

portando così alla formazione di cristalli di sale più grandi nei pori che producono sollecitazioni

meccaniche sotto lo strato dipinto. Come risultato, la superficie pittorica dell’opera d’arte può essere

distrutta (Fig. 5.3) in un periodo di tempo che va approssimativamente da meno di 10 a 50 anni,

essendo il degrado aumentato da fluttuazioni di temperatura e umidità relativa, e dall’inquinamento [7].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

94 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Per esempio, la contemporanea presenza di un film di Mowilith (copolimero vinilacetato/acrilato) e di

cristallizzazione salina ha portato in meno di 10 anni alla perdita irreversibile di porzioni di dipinti murali

originali del sito archeologico di Mayapan (Messico, Età post-classica, 1200-1450 a.C.), e al degrado

dei dipinti (ad esempio per desquamazione) di molti altri luoghi messicani in cui nel passato diversi

polimeri sono stati applicati come fissativi in interventi di restauro [8-10]. Le opere d’arte europee

possono mostrare processi di degrado simili dopo il trattamento con polimeri sintetici [11,12], anche se il

processo avviene normalmente ad una velocità più lenta perché le condizioni ambientali sono meno

estreme. Pertanto, gli adesivi sintetici dovrebbero essere utilizzati solo quando è strettamente

necessario. Metodi alternativi sono stati proposti negli ultimi decenni per ripristinare i dipinti murali e i

manufatti in pietra, concentrandosi sull’uso di materiali le cui proprietà fisico-chimiche sono simili (o

possibilmente le stesse) a quelle dell’opera d’arte, sono cioè “compatibili”.

Considerazioni analoghe a quelle fatte per i dipinti murali valgono anche per la pietra. I materiali di

conservazione tradizionali utilizzati nel consolidamento della pietra includono:

polimeri organici sintetici, che possono subire degrado e perdita di compatibilità chimico-fisica

con la pietra;

Figura 5.3. Dipinti murali trattati con Paraloid B72® (sito archeologico di Monte

Alban, Messico). Le immagini evidenziano alterazione estetica della superficie (gloss),

rottura e distacco dello strato dipinto [P. Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, In:

“Nanotechnologies in the Conservation of Cultural Heritage A compendium of

materials and techniques”, Springer (2015)].

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alcossisilani o alchilalcossisilani (ad esempio il metiltrimetossisilano, MT-MOS, e il

tetraetossisilano, TEOS), che hanno una scarsa affinità con la calcite e mostrano screpolature

durante il ritiro [13].

Il problema del cracking è stato recentemente affrontato, ad esempio, aggiungendo particelle di silice

nanometriche e silani funzionali, che riducono la forza capillare sviluppata durante l’evaporazione dei

solventi [14,15], o progettando una sintesi consolidante in cui una transizione sol-gel si verifica in

presenza di un tensioattivo, in modo da evitare fessurazioni quando il gel asciuga all’interno dei pori

della pietra [16]. Miliani et al. [17] hanno studiato consolidanti a base di particelle di silice modificate

(PMC) caricati con titania, allumina e silice nanoparticellare. I risultati hanno indicato che i PMC

posseggono proprietà migliori rispetto ai consolidante di silicato di etile non caricati, soprattutto per

quanto riguarda la protezione dalla cristallizzazione salina e la riduzione del rischio di rottura durante i

cicli termici.

Dipinti da Cavalletto

A differenza dei dipinti murali, i dipinti da cavalletto sono opere d’arte mobili il cui sostegno è di solito un

pezzo di legno o tela. Il supporto può essere anche di metallo, carta, cartone, pergamena, avorio, vetro

o pietra, ma nel presente lavoro si prenderanno in considerazione solo i materiali più comunemente

usati, cioè il legno e la tela.

Queste opere d’arte presentano, come già osservato nelle pitture murali, una natura stratigrafica. I

principali livelli, dal basso verso l’alto, sono: il supporto (legno o tela), uno strato preparatorio, gli strati di

pittura, e un sottile strato di vernice finale (Fig. 5.4).

Dato che le proprietà più importanti dei supporti di legno e tela riguardano per la maggior parte aspetti

meccanici e biologici, ci concentreremo principalmente sugli altri tre livelli (strato di supporto o di

“preparazione”, strati di pittura e vernici) che sono più interessanti dal punto fisico-chimico. La funzione

Figura 5.4. (A Sinistra) Stratigrafia di una tipica pittura da cavalletto. (A destra) Stratigrafia di una pittura da cavalletto

ripristinata utilizzando un approccio tradizionale. Solitamente durante il restauro, una seconda tela è incollata sul lato

posteriore della pittura (adesivo di foderatura e la tela), e, dopo l’assottigliamento della vernice invecchiata con solventi o

solvent gel, una nuova vernice fresca è spesso applicata sulla parte anteriore della tela [P. Baglioni, D. Chelazzi, R.

Giorgi, G. Poggi, Langmuir (2013) 29, 5110].

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96 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

principale dello strato di preparazione è di formare un legame omogeneo tra il supporto e gli strati di

vernice, aderendo perfettamente al supporto pur consentendo il legame tra gli strati di vernice e il

supporto stesso. Lo strato di preparazione costituisce un strato omogeneo e assorbente continuo per i

pigmenti e per i mezzi leganti che formano gli strati dipinti. I principali componenti dello strato

preparatorio sono il mezzo legante e le cariche: (i) le cariche diminuiscono e lisciano la porosità della

superficie di supporto, e determinano il colore della superficie su cui vengono disposti i pigmenti; (ii) i

mezzi agiscono come leganti che tengono i granelli delle cariche insieme e al contempo garantiscono

la loro adesione sulla superficie del supporto. Le cariche comunemente più utilizzate dagli artisti sono

calce o calcare in polvere (CaCO3), gesso calcinato, detto gesso di Parigi, (CaSO4·1/2H2O) e biacca

((PbCO3)2·Pb(OH)2). Nel caso di strati di supporto colorati vengono aggiunti pigmenti quali ocra rossa,

gialla e marrone, o carbone d’ossa, o smalto (dal 17° secolo), o barite, o bianco di zinco e bianco di

titanio (dal 19°–20° secolo). A volte la preparazione comprende più di uno strato colorato, come, ad es.,

in alcuni dipinti olandesi del 17° secolo. Se lo strato preparatorio è troppo assorbente, molti artisti

aggiungono un altro strato tra questo e gli strati di vernice, costituito da colla o resina. Questo strato è

chiamato primer o imprimitura e agisce come una barriera per impedire alla miscela pittorica di

penetrare nel supporto sottostante ed evitare così l’appiattimento dell’effetto pittorico. Il mezzo legante

più comune è la colla animale, una miscela di sostanze proteiche applicate nella loro forma “sol” che

producono una fase “gel” che porta alla formazione di una rete compatta che intrappola i grani di

riempimento e aderisce alla superficie ruvida del supporto. Talvolta oli siccativi, come olio di lino, sono

stati aggiunti per avere uno strato preparatorio sia con sostanze idrofile che idrofobe. Mentre negli

affreschi gli strati dipinti sono stabili e fissati al supporto tramite un legante inorganico (CaCO3 dalla

carbonatazione della calce), nel caso dei quadri da cavalletto i leganti negli strati dipinti sono composti

organici. I grani di pigmento sono sospesi in fasi acquose o oleose contenenti un appropriato agente

legante, e questa miscela è stesa a pennello sullo strato preparatorio. Fino al 20° secolo sono state

usate come mezzi leganti solo sostanze naturali quali uovo (una emulsione o/w di tuorlo d’uovo),

albume d’uovo, caseina, colla animale, gomme naturali, come la gomma arabica, oli siccativi (semi di

lino, noci, semi di papavero) e resine (trementina di Venezia, mastice e coppale). Dall’inizio del 20°

secolo, sono stati anche impiegati polimeri sintetici. A seconda della natura idrofila o idrofoba del mezzo

disperdente, si possono distinguere due classi principali: emulsioni olio in acqua (o/w), dette tempera, e

mezzi disperdenti oleosi puri, detti colori ad olio. Nelle sezioni seguenti descriveremo in dettaglio le

proprietà sia dei pigmenti che dei leganti.

Infine, un’altra differenza tra affreschi e quadri da cavalletto è la superficie esterna: nel caso degli

affreschi è formata dagli ultimi strati di pittura, i cosiddetti disegno finale, luci e ombre, mentre nei dipinti

da cavalletto la superficie esterna è lo strato di vernice. La vernice superficiale fornisce strati dipinti con

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profondità, migliora gli effetti di colore e protegge gli strati dipinti sottostanti. Le vernici tipicamente sono

costituite da oli siccativi, da soli o in miscela con resine naturali (prima del 17° secolo), che vengono

applicati dopo riscaldamento per via della loro elevata viscosità alle basse temperature.

Successivamente, sono state impiegate resine naturali (dammar, mastice) sciolte in solventi organici,

come trementina, e talvolta bianco d’uovo. Oggigiorno vengono usate invece soluzioni di materiali

polimerici in solventi organici.

Nella conservazione dei dipinti da cavalletto, uno dei punti critici è l’invecchiamento delle sostanze

organiche deperibili presenti come materiali originali o sovrapposti dai restauratori in trattamenti di

conservazione precedenti. Il meccanismo più importante mediante il quale avviene l’invecchiamento è

l’ossidazione fotochimica che si verifica per azione combinata della luce e dell’aria. Vernici e oli siccativi

sono i principali composti che sono sottoposti a questo tipo di degrado [18-20]. In un recente lavoro

[21], Dieteman et al. hanno dimostrato che il ruolo svolto dalla luce non è così fondamentale nel

determinare la cinetica di ossidazione della resina mastice e dammar. Infatti, lo studio mostra che il

meccanismo di invecchiamento è guidato da auto-ossidazione, a prescindere dalla presenza di luce.

L’unica differenza tra le condizioni di luce e di buio è la cinetica più lenta di autoformazione dei radicali

in condizioni di oscurità. È interessante notare che la presenza di materiali polimerici nella resina

mastice inibisce l’ossidazione ma contemporaneamente aumenta l’ingiallimento. Ciò può essere

attribuito alla capacità delle molecole di polimero di agire come stabilizzatori di radicali, rallentando la

cinetica di ossidazione e migliorando la tendenza intrinseca all’ingiallimento del mastice. Uno degli

obiettivi nella conservazione dei dipinti da cavalletto dovrebbe essere quello di trovare possibili vie per

migliorare la stabilità delle resine naturali alla foto-ossidazione. Nonostante alcuni studi effettuati sui

foto-stabilizzanti [22] più lavoro deve essere fatto in questo senso, soprattutto per valutare il loro

possibile uso come nuovi materiali per la conservazione.

Gli oli siccativi costituiscono un’altra grande classe di sostanze vulnerabili ai processi di foto-

ossidazione. Anche se la cinetica della foto-ossidazione degli oli siccativi è più lenta di quella delle

vernici, tuttavia fenomeni di ingiallimento associati con questi processi si verificano spesso. Diversi studi

[23-26] sono stati effettuati per studiare sia la foto-ossidazione che la termo-ossidazione di film

essiccati, cioè l’invecchiamento dei leganti utilizzati nei dipinti ad olio. Diversamente dalle vernici, in

questo caso la luce gioca un ruolo molto importante: infatti, la foto-ossidazione di pellicole di olio di lino

è di fondamentale importanza, mentre la termo-ossidazione non causa danni specifici. Alcuni autori [27]

hanno trovato che la degradazione della rete di olio essiccato per foto-ossidazione è consistente a

lunghezze d’onda superiori ai 300 nm e porta alla rottura della catena. La foto-instabilità è attribuita alla

presenza di legami che sono sensibili all’attacco radicalico a causa della debolezza dell’atomo di

idrogeno sugli atomi di carbonio terziari. Un altro risultato molto interessante riportato dallo stesso

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98 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

autore [27] è che l’ingiallimento dei campioni induriti decresce rapidamente con l’irradiazione, perché i

contaminanti dell’olio, che sono i principali responsabili del colore giallo, vengono foto-ossidati. Invece,

un aumento lento ma continuo dell’ingiallimento si ha durante termo-ossidazione a 100°C. In

conclusione, i processi di foto-ossidazione sono molto importanti per le opere d’arte in cui oli siccativi

e/o vernici sono stati utilizzati sia come materiali originali che come materiali sovrapposti nei restauri.

La rimozione dei materiali degradati (ad esempio le vernici), che ostacolano la leggibilità del dipinto per

oscuramento delle vernici foto-ossidate, è un tipico caso che richiede l’intervento del restauratore.

Purtroppo, l’ossidazione delle vernici favorisce la reticolazione della catena polimerica attraverso

meccanismi radicalici. Di conseguenza, lo strato di vernice può non essere più solubile nei solventi

classici (ad esempio gli stessi solventi utilizzati per diffondere la vernice sullo strato pittorico).

Carta, Canapa e Legno

La conservazione di oggetti a base di cellulosa è un tema centrale nella scienza della conservazione del

patrimonio culturale. La cellulosa è il principale costituente di carta, cotone, lino e canapa; inoltre è

anche il componente principale della iuta (circa 65%, più circa 22% di emicellulosa) e del legno (circa il

40-45%, oltre a circa il 15-25% di emicellulosa). Quindi la prevenzione, la limitazione o la

neutralizzazione del degrado della cellulosa è utile per una grande varietà di beni intellettuali, storico e

artistici, quali dipinti su tela, tessuti, libri, manoscritti, mappe, disegni e documenti in archivi o

biblioteche, e oggetti in legno che vanno dalle sculture ai relitti.

La cellulosa è un polisaccaride lineare naturale prodotto dalle piante, ed è composto da unità di D-

glucosio che sono legate tra loro tramite legami β-(1,4)-glicosidici. La caratteristica rotazione di 180°

attorno all’asse 1-4 tra due unità di glucosio consecutive riduce l’ingombro sterico, e formalmente l’unità

ripetitiva (il cellobiosio) è composta da due molecole di glucosio (Fig. 5.5a). Il grado di polimerizzazione

(DP) è il rapporto tra il peso molecolare della molecola di cellulosa e quella di una singola unità di

glucosio, cioè il DP è il numero di unità nella catena. Il DP della cellulosa nativa può variare all’incirca

tra 9000 e 15.000, a seconda del materiale vegetale, e il DP della carta moderna non degradata di

solito è 1200-1500. Tipicamente uno dei principali effetti dell’invecchiamento naturale di manufatti

cellulosici è l’ulteriore diminuzione del DP causata sia dall’acidità che dall’ossidazione. Bassi valori di

DP corrispondono macroscopicamente a un peggioramento delle proprietà meccaniche della cellulosa,

che può portare alla rottura delle fibre e a sbriciolamento dei fogli. La struttura gerarchica della

cellulosa, partendo dalle catene polimeriche, è schematicamente mostrata in Fig. 5.5b. La struttura

supramolecolare della cellulosa è caratterizzata dalla presenza di un gran numero di legami idrogeno,

sia tra le diverse catene (legami intermolecolari) sia tra i gruppi ossidrilici della stessa catena (legami

intramolecolari). I gruppi OH possono formare legami idrogeno con le molecole d’acqua (il contenuto

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99

medio di acqua è pari al 6-7% in peso del polimero in condizioni standard), infatti la cellulosa è

altamente igroscopica e assorbe o rilascia acqua in funzione delle oscillazioni di umidità relativa (RH) e

temperatura.

La cellulosa è un polimero semicristallino (grado di cristallinità del 50-90%): regioni altamente cristalline

presentano strutture più compatte ed elevata resistenza al degrado, mentre le regioni amorfe sono più

facilmente attaccate da processi chimici, fisici e biologici dovuti agli acidi, ai composti ossidanti, alla

luce, alla temperatura, all’umidità relativa e ai microrganismi. L’acidità rappresenta una grave minaccia

per la conservazione delle opere d’arte cellulosiche, infatti, gli ioni idrogeno catalizzano l’idrolisi dei

legami β-(1,4)-glicosidici, anche a temperatura ambiente, attraverso un processo in tre fasi [28-31]. I

legami glicosidici del polimero possono essere rotti fino a raggiungere un limite inferiore di DP, che si

chiama LODP (grado di polimerizzazione levelling-off) che dipende dalla composizione della cellulosa

[32]. L’acidità e l’ossidazione sono spesso fenomeni interconnessi. Per esempio la presenza di gruppi

ossidati nella cellulosa può portare all’apertura degli anelli ed a variazioni della densità elettronica lungo

le catene, che indeboliscono i legami glicosidici e ne favoriscono l’idrolisi. L’ossidazione della cellulosa

può anche portare alla produzione di gruppi carbossilici, e alla formazione di acidi (es glucuronico e

glucarico) provocando un degrado ad effetto “spirale” [33]. Inoltre, in presenza di ioni di metalli di

transizione (come ferro e rame) l’ossidazione agisce contemporaneamente all’idrolisi acida della

cellulosa con conseguenze molto dannose. Non sorprende, quindi, che la conservazione di oggetti di

carta rappresenta una preoccupazione centrale per i conservatori di tutto il mondo.

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100 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Nella prefazione alla loro trattazione completa in materia di invecchiamento e stabilizzazione della carta,

Strlic e Kolar [34] mettono in evidenza che i problemi di conservazione variano notevolmente in base

alla qualità della carta, che è cambiata nei secoli, e che la carta acida, prodotta tra il 1850 e il 1990,

Figura 5.5. a il cellobiosio, l’unità formalmente ripetuta delle catene di

cellulosa; b rappresentazione schematica della struttura gerarchica della

cellulosa. I legami idrogeno intermolecolari e intramolecolari sono rappresentati

da trattini rossi [P. Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, In: “Nanotechnologies in the

Conservation of Cultural Heritage A compendium of materials and techniques”,

Springer (2015)].

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101

rappresenta una delle questioni più urgenti in quanto in questo caso la vita restante di questi oggetti può

essere ridotta a 100 anni. Infatti, un articolo di Wouters [35] riporta che, sulla base di indagini condotte

sulle condizioni della carta, circa il 30% degli oggetti nelle biblioteche occidentali sono in cattive

condizioni e hanno bisogno di un intervento, e un altro 30% raggiungerà la stessa condizione per la fine

di questo secolo.

Una delle principali fonti di acidità è la presenza di solfato di alluminio (aggiunto durante il processo di

fabbricazione della carta).

Inoltre, dalla metà del 19° secolo fino alla fine del 20° il processo di produzione ha incluso l’uso di

allume nella fase di dimensionamento, poiché promuove la precipitazione della colofonia idrofobica

all’interno delle fibre. L’allume è idrolizzato dall’acqua, e il complesso alluminato che si forma è acido

(Ka simile a quella dell’acido acetico), come riportato di seguito:

3 2

2 2 2 36 5Al H O H O Al OH H O H O

L’acidità è inoltre causata dai residui chimici lasciati durante la fase di macero e di sbiancamento, dai

prodotti di ossidazione della lignina, e dalla migrazione degli acidi dai materiali di stoccaggio (cartone) o

dai supporti di stampa. Inoltre, gli inquinanti atmosferici come l’anidride solforosa (SO2) e gli ossidi di

azoto (NOx) sono assorbiti dalla carta e, in seguito a reazione con l’umidità presente all’interno delle

fibre, formano composti acidi in situ [36]. Gli inchiostri metallici gallici (ampiamente usati per secoli)

degradano la cellulosa sia attraverso idrolisi che ossidazione. Durante la produzione di questi inchiostri,

l’acido gallico (formato da tannini estratti da noci di galla) reagisce con il solfato di ferro (II) per produrre

acido solforico e un complesso di ferro (III). Gli ioni di ferro favoriscono quindi la formazione di radicali

ossidanti e perossido di idrogeno [37], secondo la reazione (reazione di Fenton):

2 3

2

2 3

2 2

2 3

2 2

Fe O H Fe HOO

Fe HOO H Fe H O

Fe H O Fe OH HO

Si deve notare che la carta contiene componenti che possono ridurre gli ioni di metalli di transizione

ossidati (per esempio da ferro (III) a ferro (II)), avviando così un processo ciclico. I sali di rame, spesso

contenuti come impurità negli inchiostri ferro-gallici, sono coinvolti in meccanismi di degrado simili:

2

2 2Cu H O Cu OH HO

Infatti, è stato dimostrato che gli ioni rame sono significativamente più attivi di quelli del ferro [38]. Come

risultato, gli inchiostri metallo-gallici possono portare a grave corrosione della carta (fino alla

perforazione) e alla perdita di elasticità e resistenza alla trazione, come tipicamente osservato nei

documenti e manoscritti, ad esempio dal 16° al 18° secolo. La scienza della conservazione ha

sviluppato numerose soluzioni per affrontare tutti i processi di degrado descritti e per fornire stabilità alla

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

102 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

carta. Infatti, anche se possono essere utilizzate misure preventive per fornire condizioni di

conservazione appropriate (ad esempio con la purificazione dell’aria per ridurre la concentrazione di gas

inquinanti), l’unico modo per garantire la conservazione del patrimonio cellulosico è quello di applicare

materiali che sono specificamente formulati per contrastare l’acidità e l’ossidazione. Una revisione

esaustiva dello stato dell’arte sulle misure che possono essere adottate contro il degrado dei materiali

cartacei è stata pubblicata da Banty et al. [39].

I primi trattamenti di deacidificazione della carta prevedevano lútilizzo di soluzioni acquose di

bicarbonati (pH ≈ 8,5) o idrossidi (ad esempio Ca(OH)2, pH ≈ 10,5) [40]. Tuttavia, l’uso di soluzioni

acquose alcaline comporta la presenza di ioni OH- liberi, che quando in eccesso, sono immediatamente

disponibili per l’interazione con le catene di cellulosa, il che può portare a depolimerizzazione della

cellulosa ossidata anche a temperatura ambiente [41]. Inoltre, l’ambiente acquoso alcalino durante i

trattamenti può alterare gli inchiostri, ad esempio attraverso lisciviazione o decolorazione, e produrre il

rigonfiamento delle fibre di cellulosa e la migrazione di ioni metallici corrosivi [42]. Quindi diversi

trattamenti di deacidificazione non acquosi basati sull’idrolisi di sali di magnesio organici per ottenere la

formazione in situ di Mg(OH)2, sono stati sviluppati negli ultimi 50 anni. Primo fra tutti il metodo Wei t’O,

sviluppato da R. Smith nel 1970, che consiste nell’applicazione di una soluzione di metossi metil

carbonato di magnesio in una miscela di alcool metilico e freon, poi sostituito da idrofluoroclorocarboni.

In seguito all’applicazione a spruzzo o per immersione, il metossi metil carbonato viene idrolizzato

dall’umidità per formare idrossido di magnesio, alcol metilico e CO2 [43]. Altri metodi molto importanti

sono: il Sable, il CSC Book Saver e il Papersave, che è stato sviluppato dalla Battelle Ingenieurtechnik

GmbH (da qui il nome “processo Battelle”) che utilizza un alcosside di titanio e magnesio in

esadimetildisilossano (HMDO). L’alcolato di magnesio neutralizza gli acidi liberi presenti nella carta, e

durante il ricondizionamento l’eccesso viene convertito in Mg(OH)2 con funzione tampone contro le

acidità ricorrenti.

Uno dei metodi non acquosi più utilizzati nel passato è il Bookkeeper (Preservation Technologies LP-

PTLP), che utilizza microparticelle di MgO disperse in un solvente fluorurato. Il reagente consiste

fondamentalmente di particelle di MgO (4,3 g/L), una miscela di perfluoroalcani C5-C18 (con < 1% di

sottoprodotti) e diversi additivi (tensioattivi) [44]. Dopo l’applicazione, le particelle di MgO idrolizzano

formando Mg(OH)2 che fornisce potere deacidificante e l’eventuale eccedenza rimane come riserva

alcalina, eventualmente trasformandosi in carbonato. Bookkeeper ha dimostrato di essere un metodo

molto buono per la sua efficacia e per i numerosi vantaggi, quali la facilità di applicazione, nessuna

necessità di precondizionamento, l’inerzia solvente (non rigonfiante e inerte chimicamente) e perché è

un processo di idrolisi controllata che garantisce la neutralizzazione senza esporre la cellulosa a forte

alcalinità. Tuttavia gli additivi, adsorbiti sulle particelle solide, grazie alla loro idrofobicità agiscono come

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103

ritardanti per l’idrolisi dell’MgO. La lenta formazione di idrossido di magnesio, e di conseguenza

carbonato di magnesio, potrebbe essere rischiosa per substrati di carta sensibili che potrebbero essere

danneggiati dal pH alcalino sviluppato dalle particelle di MgO e di Mg(OH)2 (un ambiente troppo alcalino

potrebbe degradare le fibre di cellulosa a causa dell’eliminazione dei beta-alcossi) [44]. Inoltre, sebbene

il Bokkeeper è una delle metodologie più affidabili per la deacidificazione, una limitazione

nell’applicazione generale di questo metodo è che i materiali fluorurati, utilizzati in grande quantità come

additivi per stabilizzare le particelle, rimangono inclusi nelle riserve alcaline dei carbonati di magnesio

idrati o si depositano come residui sulla superficie trattata. Infine, è stato dimostrato anche che il

metodo Bokkeeper su carte a bassa porosità può portare alla formazione di velature a causa della

scarsa penetrazione delle microparticelle all’interno della fibra di cellulosa [45,46], e che il metodo non è

normalmente consigliato su carte lucide, altamente calandrate, e su supporti di colore nero o scuro [47].

Alcuni ricercatori negli ultimi 15 anni hanno anche proposto l’uso di biossido di carbonio supercritico

(CO2SCF) come sistema solvente per agenti alcalini o di rinforzo, grazie alla non tossicità, non

infiammabilità e relativamente bassi costi di questo approccio. Materiali come il CaCO3, gli alcossidi di

magnesio, i metossicarbonati, il catecolo e la borace sono stati testati con risultati promettenti [48-50].

Per quanto riguarda gli antiossidanti, uno dei metodi più efficaci in soluzione acquosa comporta il

trattamento della carta con una soluzione di fitati [37,51]. I fitati sono antiossidanti naturali che

complessano gli ioni di ferro (II) e bloccano la produzione dei radicali idrossilici da H2O2 (reazione di

Fenton). Il trattamento è seguito da deacidificazione con una soluzione acquosa di bicarbonato di

calcio. Oltre all’uso di un ambiente acquoso, un’altra possibile limitazione di questo metodo è che gli

agenti complessanti come i fitati sono in genere metallo-specifici. Tuttavia è stato riportato che gli

inositoli esafosfati hanno pronunciate capacità di legame per il Cu(II) a pH 5-7 [52], che è utile per

inibire la riduzione a Cu(I) che porta al ri-inizio delle reazioni di Fenton.

In alternativa, Malesic et al. [53] hanno proposto l’uso di alogenuri come soppressori di radicali che

reagiscono con i radicali idrossilici in un ampio intervallo di pH e T. Gli autori hanno dimostrato che

l’efficacia di stabilizzazione dipende dalle dimensioni del catione, e il miglior risultato è stato ottenuto

usando bromuro di tetrabutilammonio. Banty et al. [39], hanno sviluppato un sistema costituito da

alcossidi di calcio e magnesio insieme a bromuro di ammonio quaternario per la stabilizzazione di carta

con inchiostro ferro-gallico.

5.1. Consolidamento

Come riportato precedentemente, la “corrosione” che induce la polverizzazione di pitture, e l’azione

meccanica di pioggia, vento, particelle di polvere, ecc.. sono i principali fattori responsabili

dell’indebolimento della struttura porosa (in particolare degli strati superficiali) dei materiali usati per il

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104 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

patrimonio culturale. A contatto con l’ambiente, anche il materiale più resistente subisce un processo di

degrado naturale, progressivo e irreversibile. Tutti i processi di alterazione dei materiali sono spontanei,

perché portano alla formazione di composti che possiedono un contenuto energetico inferiore e quindi

sono termodinamicamente più stabili rispetto ai materiali iniziali. Più spesso, l’obiettivo dell’intervento di

restauro comprende l’aggiunta di sostanze che potrebbero fornire supporto al substrato, migliorando la

resistenza meccanica, possibilmente senza alterarne le originali proprietà fisico-chimiche. In alcuni casi,

l’aggiunta o la sostituzione irreversibile dei vari componenti del substrato è necessaria. La letteratura

scientifica riporta numerosi studi sulla sintesi di nanoparticelle di ossidi e idrossidi metallici applicati per

il consolidamento dei dipinti murali e della pietra nel corso degli ultimi decenni.

Pitture murali

Come menzionato nel cap. 2, la ricerca su materiali inorganici micro- e nano-particellari compatibili per il

consolidamento dei dipinti murali ha avuto iniziato al CSGI di Firenze all’inizio degli anni 90. La prima

formulazione riportata in letteratura da Giorgi et al. [54] mostra che particelle di grassello di calce con

una dimensione media di 3-4 micron possono essere stabilmente disperse per agitazione in 1-

propanolo, consentendone così l’applicazione su dipinti parietali. L’applicazione di questa dispersione (5

g/L) su una porzione di un dipinto murale, appartenente alla chiesa di Santa Maria Novella a Firenze,

che presentava polverizzazione e desquamazione della pellicola pittorica, ha portato al rafforzamento

dello strato dipinto con ottimi effetti generali (Fig. 5.1.1). Ambrosi et al. [55] hanno ulteriormente

investigato la stabilità cinetica in alcoli delle microparticelle (1-2 micron) di Ca(OH)2 e riportano che un

miglioramento della stabilità viene ottenuto, nell’ordine, in 1-propanolo > etanolo > 2-propanolo, il che

ha suggerito che la stabilità è proporzionale allo spessore dello strato idrofobo sulle particelle di

idrossido (che adsorbono le molecole di alcool). Oltre a consentire la dispersione stabile delle

nanoparticelle, buoni solventi per il trattamento dei dipinti murali e della pietra devono mostrare una

volatilità non troppo elevata, altrimenti la penetrazione delle particelle sarebbe ostacolata. D’altra parte,

solventi a bassa volatilità con elevata tensione superficiale e punto di ebollizione rimarrebbero nei pori

del substrato rallentando eccessivamente il processo di consolidamento. Tuttavia, bassi valori di

tensione superficiale e di viscosità permettono una migliore bagnatura delle matrici. In questo contesto

gli alcoli a catena corta, come l’etanolo e il propanolo, rappresentano un buon equilibrio per le

applicazioni pratiche di queste dispersioni particellari.

L’evoluzione naturale delle prime applicazioni è la sintesi di particelle nanodimensionate di Ca(OH)2 e la

loro dispersione stabile in alcoli. La motivazione principale della riduzione delle dimensioni delle

particelle da micron a nanometri è la maggiore stabilità delle dispersioni e la maggiore penetrazione

delle particelle attraverso le matrici porose (quindi riduce il rischio di formazione di velature bianche

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105

sulla superficie del manufatto). Inoltre, particelle più piccole presentano una reattività più elevata per

formare la rete cristallina di CaCO3 che garantisce coesione e resistenza meccanica agli strati del

substrato nonché l’inglobamento e il fissaggio dei grani, delle desquamazioni e dei pigmenti. Numerose

sono le applicazioni di questi sistemi nel campo del restauro e della conservazione dei dipinti murali e

della pietra, come riportato da alcune review [56,57]. Ambrosi et al. [58] applicano una sospensione di

nanoparticelle di Ca(OH)2 in 1-propanolo, ottenuta tramite processo bottom-up e costituita da piastrine

esagonali di portlandite (con i lati dell’esagono di 100-300 nm e spessore di 2-40 nm), su un dipinto

murale degradato del 16° secolo di Santi di Tito, nel Duomo di Firenze. Le nanopiastrine esagonali

hanno una grande capacità di assorbire acqua, favorendo così il processo di carbonatazione.

Successivamente Salvadori e Dei [59]hanno studiato una diversa via di sintesi (descritta in dettaglio nel

paragrafo 2.1) per diminuire la dimensione delle particelle di Ca(OH)2, sulla base del fatto che nei

processi di sintesi è noto che temperature superiori a 100°C (in mezzi non acquosi) promuovono la

formazione di nanoparticelle [60] e che i solventi organici influenzano la dimensione e la forma delle

particelle precipitate. Le disperisoni nanoparticellari in 2-propanolo, ottenute tramite sintesi in dioli

(etandiolo (ED) o propandiolo (PD)) ad alta temperatura, sono state utilizzate per il consolidamento di

affreschi [61] che presentavano polverizzazione degli strati dipinti. L’Analisi con microscopia elettronica

a scansione (SEM) ha mostrato che il trattamento con dispersioni di nanoparticelle di Ca(OH)2 (5 g/L)

ha portato ad una nuova coesione della superficie polverizzata. Inoltre l’analisi spettroscopica in

dispersione di energia dei raggi X (EDX) ha confermato che i campioni trattati avevano un contenuto di

legante elevato (maggiore rapporto Ca/Si).

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106 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Sulla base di questi risultati, dispersioni diluite (0,05 g/L) sono state applicate su un affresco del 13°

secolo nella Chiesa di San Zeno a Verona (Italia). Dopo la carbonatazione delle nanoparticelle

l’ispezione visiva sotto luce radente della zona trattata ha evidenziato che il trattamento aveva prodotto

coesione e lisciatura della superficie.

Il trattamento con nanoparticelle è stato quindi esteso a grandi porzioni di dipinti con risultati positivi sia

in termini di effetti di ri-coesione che estetici. Dei et al. [62,63] hanno applicato dispersioni di

nanoparticelle sulle pitture murali del Palazzo del Bargello (Museo Nazionale del Bargello, Firenze,

Italia), e hanno fornito ulteriori dettagli sugli aspetti applicativi in un documento che riporta il trattamento

di un dipinto murale di Agnolo Gaddi (14° secolo) nella chiesa di Santa Croce (Basilica di Santa Croce,

Firenze, Italia). L’utilizzo di dispersioni di Ca(OH)2 nanoparticellare è stato riportato anche per il

consolidamento di stucchi che neccessitavano di un rafforzamento dello strato superficiale [64, 65].

Il prodotto commerciale Nanorestore® (dispersione di nanoparticelle di idrossido di calcio in 2-

propanolo, 5 g/L, con dimensione media delle nanoparticelle di circa 250 nm), che deriva da tutte le

ricerche e attività pratiche sopracitate, è stato testato in numerosi casi di studio reali. Per esempio,

Natali et al. [66] hanno riportato l’uso di questo prodotto per il consolidamento di graffiti storici del

Palazzo Chiaromonte-Steri (Palermo, Italia). Dal 1600 al 1782 l’edificio ha ospitato il tribunale

Figura 5.1.1. Porzione di dipinti murali di Andrea da

Firenze (XIV secolo) nella Cappella Spagnola del

Chiostro verde della chiesa di Santa Maria Novella

(Firenze, Italia). (In alto) la polverizzazione e la

desquamazione dello strato dipinto prima del restauro; (In

Basso) la metà destra della porzione di pittura murale dopo

preconsolidamento con una dispersione di microparticelle

di Ca(OH)2 in 1-propanolo [R. Giorgi, L. Dei, P. Baglioni,

Stud Conserv (2000) 45, 154].

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107

dell’Inquisizione, e le pareti della prigione sono coperte dai graffiti, in antico dialetto siciliano, ebraico e

inglese, dei prigionieri e delle vittime. I graffiti, scoperti sotto l’intonaco nel 2005 durante il restauro del

palazzo, sono stati dipinti direttamente sul muro con un pigmento rosso disperso in un mezzo organico.

La superficie murale era fortemente compromessa a causa della presenza di efflorescenze saline che

hanno portato alla polverizzazione del pigmento. Per realizzare il consolidamento dello strato dipinto

altamente danneggiato si è preferito effettuare diversi trattamenti a bassa concentrazione (0,06%

peso/volume). L’analisi Infrarossa (FTIR) ha mostrato che la carbonatazione delle particelle di idrossido

di calcio ha avuto luogo in 8-10 giorni, e di conseguenza la superficie dipinta era diventata più compatta

e rinforzata senza effetti evidenti di sbiancamento sulla superficie trattata anche dopo dieci successive

applicazioni.

La stessa formulazione è stata applicata a lunette murali del 18° secolo nel chiostro dei Santi Giuda e

Simone, Corniola (Empoli-Firenze, Italia). Le lunette presentavano lacune e polverizzazione della

pellicola pittorica. L’applicazione di nanoparticelle ha portato al rafforzamento della superficie pittorica,

come evidenziato sia dalla valutazione visiva (Fig 5.1.2) sia attraverso la prova scotch: il film di colore

polverizzato è stato completamente fatto ri-aderire al substrato e la quantità di grani rimosso nello

scotch test è stata nulla dopo il completamento del trattamento.

È interessante notare che in questo caso sono state necessarie diverse applicazioni prima che l’effetto

di consolidamento fosse evidente, il che suggerisce che le nanoparticelle inizialmente penetrano

profondamente all’interno del substrato e che quindi il consolidamento avviene “dall’interno verso

l’esterno”.

Dispersioni simili si sono rivelate efficaci anche per il consolidamento di dipinti murali in aree in cui le

condizioni ambientali (T e RH) sono tali che il degrado delle opere d’arte avviene con maggiore velocità.

Ad esempio, le pitture murali presenti nei siti archeologici mesoamericani di Calakmul (Campeche,

Messico) e Ixcaquixtla (Puebla, Messico) sono state effettivamente consolidate, fissando i pigmenti che

Figura 5.1.2. Fotografie a luce radente di lunette murali nel chiostro di “SS. Giuda e Simone” (Corniola, Empoli,

Italia). Sx: la superficie murale polverizzata prima del trattamento; Dx: la superficie dopo il trattamento con

nanoparticelle di Ca(OH)2 in 2-propanolo [I. Natali, M.L. Saladino, F. Andriulo, D. Chillura Martino, E.

Caponetti, E. Caretti, L. Dei, J Cult Herit (2014) 15, 151].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

108 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

mostravano un grave degrado a causa di processi tipici come la cristallizzazione salina e la formazione

di biofilm [57, 67,68]. Per i dipinti murali Maya in Calakmul una formulazione mista di nanoparticelle di

idrossido di calcio (100-300 nm) e di idrossido di bario (∼100 nm) (Fig. 5.1.3) è stata utilizzata anche

per consolidare i substrati dove erano presenti grandi quantità di solfati solubili [69]. Recentemente,

Poggi et al. [70] hanno riportato un procedimento alternativo per la sintesi di nanoparticelle Ca(OH)2,

che utilizza una reazione alcool-termica, a partire da un bulk metallico, e alcoli a catena corta come

l’etanolo e 1-propanolo. Il processo non richiede alcuna fase di purificazione e porta alla produzione di

dispersioni concentrate (35 g/L o superiore), il che favorisce lo scale-up della produzione. Le particelle

disperse in etanolo hanno una distribuzione bimodale con una popolazione centrata a 80 nm e una

popolazione minore centrata a 220 nm. Le particelle in 1-propanoloinvece tendono a formare cluster di

circa 260 nm. In entrambi i casi il processo porta alla produzione di particelle altamente cristalline che

possono essere utilizzate per il consolidamento.

Daniele et al. [71,72] hanno preparato nanoparticelle di idrossido di calcio sia seguendo il processo di

sintesi originale in fase acquosa omogenea sviluppato da Ambrosi et al. [58] sia introducendo modifiche

del metodo. Queste applicazioni riguardano la conservazione dei materiali lapidei. Lo stesso autore ha

anche esaminato l’interazione a temperatura ambiente tra le nanoparticelle di Ca(OH)2, ottenute con

due metodi differenti, e la silice “fumed” [73]. I risultati hanno indicato che riducendo le dimensioni delle

particelle si ha la formazione di silicato di calcio idrato già dopo 7 giorni di idratazione, mentre il

consumo totale di idrossido di calcio libero avviene dopo 28 giorni. Inoltre, Volpe et al. [74] hanno

brevettato un procedimento per la sintesi di nanoparticelle di Ca(OH)2 tramite l’utilizzo di resine a

scambio ionico.

Ziegenbalg [75] ha fornito una panoramica del prodotto commerciale CaLoSiL® (da IBZ-Salzchemie

GmbH & Co. KG, http://www.ibz-freiberg.de/en) e del suo utilizzo per il consolidamento delle pietre

carbonatiche. In questo caso, nanosol di idrossido di calcio vengono sintetizzati direttamente dalla

soluzione alcolica.

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109

Le particelle ottenute hanno dimensioni di 50-250 nm, e sono disperse in alcoli a catena corta come

l’etanolo, 1-propanolo e 2-propanolo, con un intervallo di concentrazione di 5-25 g/L. D’Armada e Hirst

[76] hanno riportato l’uso di questo prodotto per il consolidamento di pitture murali medievali di

importanza storica nella Chiesa di tutti i Santi (Little Kimble, Buckinghamshire). In particolare, i dipinti

erano piuttosto stabili, ma le pareti avevano molte stuccature successive che erano in cattive condizioni

e affette da efflorescenza salina. Il consolidamento doveva essere effettuato consentendo

l’evaporazione dell’umidità, quindi i conservatori hanno selezionato un materiale inorganico compatibile

(Ca(OH)2 nanoparticellare) per rafforzare le stuccature. In media, sono state condotte dieci applicazioni

in ogni area che ha richiesto il consolidamento, ottenendo effetti positivi senza alcuna modifica visibile

della superficie. Secondo gli autori, la nanocalce in etanolo sembrava fornire un migliore

consolidamento rispetto a quella in 2-propanolo, probabilmente a causa di una migliore penetrazione

delle particelle in etanolo.

Applicazioni del CaLoSiL® anche sui dipinti murali sono riportate da Dahene e Herm [77] in un lavoro in

cui sono state utilizzate nanoparticelle di idrossido di calcio per appiattire e consolidare la superficie

pittorica delaminata di antichi affreschi romani negli scavi di Ercolano (Fig. 5.1.4).

Figura 5.1.3. a Struttura I nell’ “Acropolis Chik-Naab” nel sito archeologico di Calakmul (Campeche, Messico). b

Pittura murale del primo periodo classico Maya, che decora il primo passo della sottostruttura I nel lato sud-est

dell’edificio. c Nanoparticelle di Ba(OH)2 ottenute attraverso un approccio top-down. d Dettaglio dei dipinti

murali Maya che mostrano la presenza di solfati sulla superficie e di fenomeni di sfaldamento che danneggiano lo

strato pittorico. e Lo stesso particolare 6 mesi dopo l’applicazione di una miscela di nanoparticelle di idrossido di

calcio e di bario [P. Baglioni, D. Chelazzi, R. Giorgi, In: “Nanotechnologies in the Conservation of Cultural

Heritage A compendium of materials and techniques”, Springer (2015)].

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110 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Pietre

Considerazioni analoghe a quelle fatte nel paragrafo precedente valgono anche per il consolidamento

della pietra.

Ambrosi et al. [55] hanno testato nanoparticelle di Ca(OH)2 in 1-propanolo sia su campioni di

laboratorio, che simulavano malte con desquamazione superficiale, sia su campioni di pietra storica. Nel

primo caso, il trattamento ha aumentato la compattezza della superficie portando alla formazione di

giunzioni tra i grani. Nel secondo caso l’applicazione su una pietra calcarea (Pietra di Nanto) che

costituisce le pareti esterne dell’Abbazia di S. Margherita a Vigonza (Padova, Italia) ha prodotto il

consolidamento degli strati superficiali, come indicato dallo scotch test. Il trattamento con nanoparticelle

è stato effettuato anche sulle pareti esterne della parte absidale della chiesa di S. Prisca a Aventino

(Roma), dove le superfici in mattoni dovevano essere protette da uno strato di protezione sottile

superficiale (50-100 micron).

Croveri et al. [78] hanno valutato l’efficacia di nanoparticelle di Ca(OH)2 in 2-propanolo per il

consolidamento di campioni di pietra Globigerina (una biocalcarenite tipica dell’isola di Malta). Gli autori

hanno confrontato il metodo con l’applicazione di due materiali storicamente applicati per la

conservazione della pietra, ovvero l’idrossido di bario e l’ossalato di ammonio, entrambi applicati come

Figura 5.1.4. “Casa dei Cervi” ad Ercolano, stanza 16: area di prova per il consolidamento degli strati dipinti, prima (a

sinistra) e dopo il trattamento (a destra) [A. Dahene, C. Herm, Herit Sci (2013) 1, 11].

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111

soluzioni acquose tramite impacchi di cellulosa. I risultati hanno indicato che il trattamento con le

nanoparticelle ha prodotto i migliori effetti in termini di consolidamento della superficie. Le proprietà

fisico-chimiche del substrato sono state rispettate e l’alterazione della struttura dei pori era molto

piccola, requisito essenziale per garantire la traspirazione in ambienti esposti all’aerosol marino.

Dei e Salvadori [61] hanno utilizzato la formulazione in 2-propanolo per contrastare la polverizzazione

superficiale e la desquamazione su campioni di pietra arenaria calcarea morbida (Pietra Gallina),

proveniente dalla facciata di un edificio storico di Mantova (Italia), e su un calcare compatto marnoso

(Pietra Alberese) proveniente dalla chiesa di Santa Maria all’Impruneta (Firenze, Italia). Il trattamento è

stato effettuato mediante immersione per 8 h, essiccazione per 1 h e lavaggio rapido con acqua per

rimuovere l’eccesso di consolidante dalla superficie, impedendo così la formazione velature bianche. Gli

effetti di consolidamento sono stati valutati dopo la completa carbonatazione, in condizioni igrometriche

di laboratorio, 3 settimane dopo. L’applicazione ha portato al consolidamento sia a livello superficiale

(riaggregazione della superficie polverizzata) sia ad un livello più profondo (ridotto assorbimento di

acqua dal substrato) senza alcun effetto negativo sulle proprietà fisico-chimiche dei campioni. Baglioni

et al. [69,79] hanno applicato la stessa formulazione per il consolidamento di calcari nel sito

archeologico di Calakmul in Messico.

Lopez-Arce et al. [80] hanno studiato l’applicazione di una dispersione commerciale di nanoparticelle di

idrossido di calcio in 2-propanolo (Nanorestore®) per consolidare campioni dolomitici che sono

tipicamente utilizzati in edifici storici nella zona di Madrid. I campioni di pietra sono stati impregnati

attraverso un tubo capillare e quindi introdotti in una camera climatica per monitorare gli effetti del

consolidamento a diversi valori di umidità relativa (RH). I risultati hanno indicato che a RH = 75% il

processo di consolidamento è favorito. L’idrossido di calcio (Portlandite) subisce veloce trasformazione

in vaterite (CaCO3), monoidrocalcite (CaCO3⋅H2O) e calcite (CaCO3), con la formazione di cristalli più

grandi (da nano a micron) e, infine, il trattamento migliora notevolmente le proprietà fisiche e idriche del

campione. Il consolidamento è stato raggiunto anche a RH = 33%, tuttavia in tali condizioni

l’applicazione del prodotto consolidante, oltre a favorire ricristallizzazione della calcite, porta anche alla

frattura e dissoluzione dei cristalli di dolomite (CaMg(CO3)2). Inoltre in questo caso la conversione

dell’idrossido di calcio a carbonato è più lenta e si traduce in particelle più piccole che raggiungono

dimensione micrometrica dopo 20 giorni a causa di un processo di agglomerazione.

Come detto prima, il consolidamento delle pietre dolomitiche può essere realizzato attraverso

l’applicazione di una dispersione mista di nanoparticelle di Ca(OH)2 e Mg(OH)2 in propanolo (Fig. 5.1.5),

come nel caso del consolidamento della Pietra d’Angera, una pietra dolomitica ad alta porosità

ampiamente utilizzata in Nord Italia per gli edifici storici e monumentali. La formulazione mista

garantisce la massima compatibilità con la pietra e porta ad un consolidamento durevole [56].

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112 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Anche se in linea di principio formulazioni di idrossido di calcio sono state progettate per il

consolidamento delle pietre carbonatiche, come il calcare, alcuni autori hanno utilizzato, con buoni

risultati, formulazioni di Ca(OH)2 per il consolidamento delle pietre arenarie [81]. In particolare,

nanoparticelle commerciali (Nanorestore®) o carburo di grassello di calce hanno portato alla formazione

di calcite o vaterite che legano i grani di quarzo. Sia il 2-propanolo che l’etanolo, sono stati usati per

disperdere le nanoparticelle, tuttavia l’uso di etanolo ha portato a migliori prestazioni per il

consolidamento di pietra.

Anche la formulazione commerciale CaLoSiL® è stata utilizzata per il consolidamento della pietra con

risultati positivi, e diversi autori riportano le migliori condizioni e protocolli applicativi per massimizzare

gli effetti di consolidamento [75-77,82].

Ciliberto et al. [83] invece hanno proposto la sintesi di nanoparticelle di idrossido di stronzio (Sr(OH)2),

per reazione in fase omogenea (approccio bottom-up), e il loro uso come consolidante per pietre, malte

e pitture murali. Particelle cristalline arrotondate di circa 30 nm sono state ottenute e disperse in 1-

propanolo per l’applicazione su bio-calcareniti porose (Pietra Leccese). Analogamente all’idrossido di

bario, l’idrossido di stronzio nanoparticellare reagisce con il gesso per formare un solfato insolubile e

non dannoso (l’SrSO4) e idrossido di calcio. Questa formulazione potrebbe essere utile per il

consolidamento di substrati inquinati da solfati quando la rimozione dei sali (ad esempio con il metodo

Ferroni) non può essere effettuata. Infatti, Licchelli et al. [84] hanno valutato l’uso di nanoparticelle di

Figura 5.1.5. (In alto) Il “Ca’ Granda” edificio storico di Milano (Italia). (In basso)

Applicazione delle nanoparticelle su pietre degradate delle superfici del Ca’Granda,

Milano, Italia: a sinistra, la parte non trattata con polverizzazione della Pietra

d’Angera; sulla destra, l’applicazione a pennello della nanodispersione consolidante

[D. Chelazzi, G. Poggi, Y. Jaidar, N. Toccafondi, R. Giorgi, P. Baglioni, J Colloid

Interf Sci (2013) 392, 42].

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113

Ca(OH)2 ottenute in etandiolo e di nanoparticelle di Sr(OH)2 per il consolidamento della Pietra Leccese.

Gli autori hanno concluso che l’applicazione a pennello porta ad una penetrazione più profonda e una

distribuzione più omogenea del carbonato neoformato nella pietra. La traspirazione del materiale

originale non è stata drammaticamente alterata, poiché la diminuzione della permeabilità al vapore

acqueo è comunque inferiore al 30%. Inoltre, i campioni di pietra trattati con dispersioni di

nanoparticelle sono stati esposti a cicli di invecchiamento per cristallizzazione salina. I risultati indicano

che sia il trattamento con nanoparticelle di Ca(OH)2 sia quello con nanoparticelle di Sr(OH)2 aumentano

la resistenza della pietra all’invecchiamento.

Infine, altri ricercatori [85,86] hanno proposto un approccio alternativo in cui alcossidi di calcio (in

soluzione di metanolo) impregnano i substrati porosi e quind,i reagendo con l’umidità e la CO2

atmosferica, formano carbonato di calcio in situ, che mostra nano-strutturazione. Il tempo necessario

per la completa carbonatazione dipende dalle condizioni termoigrometriche e dallo spessore delle

particelle di alcossido, e varia da 2-4 a 35-45 giorni. Alla fine, viene prodotto un film carbonato di calcio

che aderisce ai granuli del substrato, senza produrre crepe, e lega insieme i grani. Prove condotte su

marmo invecchiato evidenziando la buona potenzialità di questo metodo. Lo svantaggio principale è

dovuto alla bassa quantità di carbonato depositata in ogni applicazione, a causa della bassa solubilità

degli alcossidi. La ricerca è in corso per superare questa limitazione. Recentemente questi sistemi sono

stati utilizzati su campioni di marmo, e l’effetto consolidante è stata valutata attraverso misure di velocità

ad ultrasuoni [87]. Il consolidamento sembra essere correlato alla solubilità degli alcossidi e alla stabilità

in soluzione.

Infine, é noto che la presenza di sali nella matrice porosa dei dipinti murali o della pietra può influenzare

il processo di consolidamento [67]. Sali altamente solubili, come il solfato di sodio, si sciolgono

nell’acqua all’interno dei pori e gli ioni solfato liberi precipitano con gli ioni calcio provenienti dalla

dissoluzione delle nanoparticelle formando gesso. Sia il consumo parziale di idrossido di calcio che la

formazione di gesso ostacolano il processo di consolidamento con effetti dannosi. In questi casi può

essere applicata una dispersione mista di nanoparticelle di Ca(OH)2 e Ba(OH)2: l’idrossido di bario

reagisce con il gesso formando solfato di bario insolubile (che non è dannoso), idrossido di calcio e

acqua. La dispersione di nanoparticelle miste è utile anche quando non è possibile eseguire il metodo

Ferroni prima del trattamento di consolidamento, ad esempio quando la superficie pittorica di un dipinto

murale è estremamente fragile e degradata.

5.2. Pulitura

Come criterio generale, i sistemi di pulitura devono affrontare tre obiettivi fondamentali: (1) selettività ed

efficienza nella rimozione di sporco o di rivestimenti invecchiati; (2) la piena compatibilità fisico-chimica

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114 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

con il supporto artistico originale; (3) la sicurezza per l’operatore e per l’ambiente in cui si opera .

L’approccio classico di pulizia si basa sull’uso di solventi, sia puri che miscelati. L’efficacia della pulizia

con i solventi dipende dalla loro capacità di dissolvere un materiale specifico lasciando inalterati gli altri

materiali. A tal fine, la scelta di un solvente richiede la conoscenza di diversi parametri, quali la velocità

di evaporazione, la viscosità della soluzione, ed entrambi gli aspetti di protezione ambientale e della

salute. La scelta dei giusti solventi o miscele di solventi è un arte, basata sulla conoscenza, l’esperienza

e l’intuizione guidata da regole pratiche come ad esempio “simile scioglie simile” e varie definizioni di

“forza solvente” [88]. Alcuni strumenti sono oggi disponibili per i restauratori e probabilmente le carte di

Teas sono uno dei più utilizzati. Queste sono state sviluppate per illustrare in modo sintetico i parametri

di solubilità frazionari che Teas definì a partire dai parametri di solubilità di Hansen, derivanti da

precedenti lavori di Hildebrand sulla solubilità dei polimeri. Hildebrand ha stabilito che la densità di

energia coesiva (CED), ossia la forza delle interazioni globali nel soluto (sostanza disciolta in una

soluzione), devono matchare perché si verifichi la solubilità. Hansen ha migliorato il parametro di

solubilità di Hildebrand, δ, dividendo ulteriormente il valore CED in componenti in base a specifiche

forze intermolecolari, cioè le interazioni dipolari (polarità), le interazioni di legame idrogeno e le forze di

dispersione di London. Pertanto, i parametri di Hansen sono costituiti da tre valori che rappresentano la

capacità di un materiale di dare queste interazioni. Dalla somma di questi valori si ottiene il parametro di

Hildebrand. Teas ha presentato questi diversi contributi come parametri frazionali, dove ogni contributo

è legato a tutta la densità di energia coesiva. Pertanto, per ciascun solvente la somma dei tre parametri

di Teas è sempre 1. Il grafico triangolare di Teas, dove ogni asse rappresenta un parametro, consente

la determinazione univoca della posizione di un solvente (o una singola miscela di solventi) nel

diagramma e verifica la sua corrispondenza alla zona di solubilità della differente classe di sostanze che

necessitano di essere rimosse (olio, proteine, adesivi sintetici, ecc). In pratica, i solventi vicini del grafico

di Teas dovrebbero essere reciprocamente miscibili e i solventi in prossimità dell’area di rigonfiamento

di una sostanza (adesivo, rivestimento, ecc), si prevede che rigonfino o sciolgano tale sostanza. Il

grafico di Teas è quindi uno strumento pratico che permette una previsione sui solventi da utilizzare per

la solubilizzazione di materiali dello sporco o di rivestimenti dannosi, in base alla sua struttura

molecolare.

Tuttavia, nell’ambito delle opere d’arte una delle principali preoccupazioni per l’uso diretto di solventi è

rappresentata dal meccanismo fisico coinvolto nel processo. Infatti, la solubilizzazione dello sporco o

dei rivestimenti comporta che la materia disciolta può migrare per capillarità all’interno della struttura

porosa del manufatto. Dopo evaporazione del solvente, i materiali solubilizzati si ridepositano dentro i

pori del manufatto, invece di essere rimossi. Ciò abbassa ovviamente l’efficacia dell’azione pulente, che

di solito è accettabile solo perché l’aspetto visivo della superficie artistica è attraente, mentre le

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proprietà fisico-chimiche del substrato poroso possono essere alterate dalla presenza dello

sporco/rivestimento ridepositato. Materiali altamente assorbenti (come ad esempio impacchi di pasta di

cellulosa) possono essere utilizzati per “succhiare” ed estrarre la materia disciolta per capillarità,

rimuovendola dalla matrice del manufatto. Tuttavia, la alta velocità di evaporazione dei solventi

tipicamente utilizzati nei lavori di pulizia delle opere d’arte favorisce la rideposizione dei materiali

solubilizzati all’interno dei pori. Infine, un altro importante problema è rappresentato dalla tossicità dei

solventi puri e delle miscele di solventi. Per queste ragioni, è di fondamentale importanza esplorare

diversi modi per rimuovere sporcizia e rivestimenti pregiudizievoli e per conseguire risultati duraturi

minimizzando l’impatto ambientale e sulla salute. Nella maggior parte dei casi l’acqua è pienamente

rispettosa delle caratteristiche fisico-chimiche dei dipinti murali. Così, il detergente ideale sarebbe

l’acqua munita di capacità di interagire con i materiali idrofobi e rimuoverli. Ovviamente, l’acqua pura

non ha tale potere. Tuttavia, l’uso di sistemi anfifilici all’acqua, quali soluzioni micellari e microemulsioni

olio-in-acqua, consente di raggiungere questo compito impegnativo. Infatti, è possibile generare

strutture o aggregati stabili nella fase acquosa che sono in grado di solubilizzare o rigonfiare materiali

idrofobi. L’uso di sistemi a base acquosa offre importanti vantaggi. Innanzitutto esso può inibire la

rideposizione del materiale solubilizzato, sporcizia o rivestimenti. Infatti, durante l’applicazione la

superficie dei pori del manufatto è coperta da uno strato di acqua che impedisce la riadesione dei

materiali idrofobi staccati (sporcizia, polimeri), che vengono così efficacemente rimossi o estratti dal

materiale sorbente (impacchi o gel). Questo processo è favorito dal fatto che l’acqua presenta una

velocità di evaporazione inferiore a quella dei solventi organici comunemente utilizzati per il restauro.

Un altro aspetto fondamentale è che i sistemi a base acquosa, come microemulsioni e soluzioni

micellari, hanno un basso contenuto di sostanze organiche (all’incirca dall’1 al 25% w/w, inclusi sia i

solventi che i tensioattivi), pertanto l’impatto sulla salute dell’operatore e sull’ambiente è fortemente

minimizzato.

Dipinti murali e pietre

La prima applicazione di microemulsioni per la conservazione del patrimonio culturale è stata eseguita

da Ferroni e Baglioni alla fine del 1980, durante il restauro degli affreschi del 15° secolo (da Masaccio,

Masolino, e Lippi) nella Cappella Brancacci a Firenze [89,90]. La rimozione del materiale idrofobo dai

dipinti è stata eseguita utilizzando un sistema a base acquosa specifico per la solubilizzazione e la

rimozione della cera, che era stata inaspettatamente trovata sulla superficie dipinta. Questo materiale

idrofobo era stata diffuso da anni sulla superficie dipinta a causa del soffiaggio ripetuto delle candele

votive conservate nella cappella vicino ai dipinti. La microemulsione sviluppata per questo scopo

specifico era composta da nanoparticelle di dodecano (efficiente nella solubilizzazione della cera)

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116 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

stabilizzate in una soluzione acquosa di sodio dodecilsolfato (SDS) e 1-pentanolo. Questa formulazione

era efficace nel rimuovere la cera senza diffondere nei pori della parete, come si sarebbe invece

verificato utilizzando comuni solventi.

Da allora, diverse formulazioni sono state sviluppate per rimuovere polimeri e co-polimeri acrilici

invecchiati, una delle classi di consolidanti più utilizzate in passato per i dipinti murali. Le prime

formulazioni studiate e testate contenevano lo xilene (fino a < 3%) come fase dispersa [91,92] per via

della sua alta affinità per le resine acriliche invecchiate. Queste formulazioni sono stati utilizzate con

successo per la rimozione di rivestimenti acrilici vecchi di 30 anni (applicati in restauri passati) da dipinti

murali del 14° secolo di Spinello Aretino nella Cappella Guasconi (Chiesa di San Francesco, Arezzo,

Italia). Le microemulsioni, applicate per impacco, hanno portato alla completa rimozione dei rivestimenti

dannosi sia dalla superficie che dagli strati interni delle pitture murali, come confermato da analisi FTIR

(Spettroscopia Infrarossa in Trasformata di Fourier).

Un’altra classe di consolidanti largamente utilizzata in passato (e che oggi spesso presentano degrado)

comprende polimeri vinilici e copolimeri vinilacrilati. Uno dei primi casi in cui sono state usate

microemulsioni per la rimozione di rivestimenti a base vinilica è stato per l’intervento di conservazione

delle pitture murali rinascimentali che decorano le pareti esterne della Cattedrale di Conegliano

(Treviso, Italia). Poiché il p-xilene non è un buon solvente per i polimeri vinilici, diversi fluidi

nanostrutturati sono stati formulati sulla base di quelli utilizzati nelle applicazioni precedenti. Infatti, una

soluzione micellare, contenente sodio dodecilsolfato (SDS), 1-pentanolo (come co-tensioattivo) e

carbonato di propilene (PC) è stata utilizzata con successo per questo scopo [92] (Fig. 5.2.1).

Figura 5.2.1. Affresco del Pozzoserrato (XVI

secolo) sulle pareti esterne della Cattedrale di

Santa Maria dei Battuti a Conegliano (Italia).

La linea blu tratteggiata separa la zona in cui

il polimero vinilico invecchiato (applicato nei

restauri precedenti) è stato rimosso con una

soluzione micellare (a sinistra) dalla regione

non pulita (a destra) [E. Carretti, L. Dei, P.

Baglioni, Langmuir (2003) 19, 7867].

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Pochi anni più tardi un sistema simile è stato utilizzato per rimuovere polimeri acrilici (ad es. il Paraloid

B72®) da pitture murali nella chiesa di Santa Maria della Scala a Siena [12]. Nel 2008 è stato sviluppato

un sistema modificato, che contiene sodio dodecilsolfato (SDS), 1-pentanolo, carbonato di propilene

(PC) e acetato di etile (EA), per la rimozione di un copolimero vinilico/acrilico dai dipinti murali Maya

conservati nel sito archeologico di Mayapan (Yucatan, Messico) [7]. Questo sistema olio-in-acqua

(chiamato “EAPC”) è risultato essere molto efficace nella rimozione di diversi tipi di polimeri. Infatti,

accanto al sito di Mayapan, l’EAPC è stato testato con successo per la rimozione dei rivestimenti acrilici

dai dipinti del sito di Cholula (Messico) e per la rimozione dei rivestimenti a base di silicone dalle

decorazioni parietali della Grotta dell’Annunciazione a Nazareth, Israele [93-95].

Va notato che in alcuni casi l’invecchiamento naturale aveva alterato i rivestimenti polimerici in modo

tale che i solventi tradizionali non erano in grado di solubilizzarli, mentre i sistemi di pulizia

nanostrutturati a base d’acqua hanno dimostrato una piena efficacia nella rimozione di polimeri

invecchiati, portando così al recupero della leggibilità del manufatto (Fig. 5.2.2).

Figura 5.2.2. Applicazione del sistema

nanostrutturato EAPC sui dipinti murali della

Basilica dell’Annunciazione a Nazareth (Israele).

(In alto) prima del restauro; (In basso) dopo il

restauro. Nel riquadro tratteggiato è evidenziata

un’area in cui il rivestimento polimerico è stato

lasciato sul dipinto come riferimento per la

valutazione del risultato della pulizia [M. Baglioni,

D. Berti, J. Teixeira, R. Giorgi, P. Baglioni,

Langmuir (2012) 28, 15193].

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118 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Recentemente, l’attività di ricerca sullo sviluppo di nuove formulazioni di microemulsioni si è indirizzata

verso l’utilizzo di tensioattivi non ionici perché aggregano a concentrazioni inferiori e sono più ecologici

e biodegradabili di quelli ionici (come il SDS). Alchil Poliglicosidi (APG) e alcoli etossilati appartengono

ad una classe di tensioattivi “green” che possiedono interessanti proprietà per un gran numero di

applicazioni, tra cui la pulizia delle opere d’arte [11,96]. Più recentemente, tensioattivi completamente

biodegradabili non ionici (alcoli etossilati a meno del 7%) sono stati utilizzati per formulare un sistema di

pulitura basato su metiletilchetone, acetato di etile e acetato di butile (meno del 5% ciascuno).

Questa tecnologia per la conservazione del patrimonio culturale è protetta dal marchio Nanorestore

Cleaning® come garanzia di qualità dei prodotti e della corrispondenza alle formulazioni originali;

queste formulazioni non sono ancora distribuite sul mercato, ma il CSGI (Consorzio Interuniversitario

per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase, Centro per la scienza dei Colloidi e delle superfici)

dell’Università di Firenze è a disposizione per fornire ai conservatori materiali e assistenza tecnica sulla

base di specifici accordi.

Questi sistemi sono stati originariamente sviluppati per la rimozione di rivestimenti idrofobi da superfici

idrofile, cioè dipinti murali e pietre. Tuttavia, in linea di principio, le soluzioni micellari e le microemulsioni

possono avere un campo di applicazione più vasto, in quanto possono essere utilizzate anche su altri

materiali idrofili utilizzati nell’arte come lo stucco, la ceramica, il cemento, il vetro, le ossa, i metalli, il

legno, i tessuti, ecc.

Dipinti da cavalletto

La pulizia dei dipinti da cavalletto è un’operazione delicata, in quanto comporta rischi di alterazione dei

substrati artistici originali. In genere, il termine “pulizia” si riferisce sia alla “pulizia delle superfici” che

alla rimozione degli strati degradati [97]. Nel primo caso, sporcizia e polvere vengono rimossi,

idealmente senza alterare alcun materiale filmante (quali vernici, ritocchi, strati dipinti). Nel secondo

caso, l’intervento mira alla rimozione parziale o completa dei livelli alterati e degradati, quali vernici

ingiallite e/o rivestimenti dannosi invecchiati ecc.. Nel corso dei secoli, restauratori e conservatori hanno

utilizzato un gran numero di prodotti per la pulizia, compresi i saponi, i prodotti alimentari, i materiali

inorganici e anche biofluidi, come la saliva. Attualmente, la pulizia dei manufatti è ancora largamente

effettuata utilizzando solventi organici insieme alla rimozione meccanica. Tuttavia, l’applicazione di

solventi può portare ad effetti indesiderati quali il rigonfiamento dei mezzi leganti, l’alterazione dei

pigmenti, il trasporto di materia disciolta attraverso le matrici porose, o semplicemente la mancanza di

controllo del processo di pulizia, con conseguente rimozione degli strati originali o “patine” che vengono

a volte considerate come parti storiche dei manufatti.

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L’uso di soluzioni acquose (ad esempio di agenti chelanti, di enzimi, di tensioattivi, di acidi o basi) ha

guadagnato crescente attenzione negli ultimi decenni, grazie alla possibilità di controllare in modo

relativamente sicuro sia l’efficacia della pulitura che l’interazione con i mezzi leganti della pittura,

giocando su fattori come la viscosità, il pH e la forza ionica delle soluzioni [98,99]. Inoltre, detergenti

nanostrutturati a base di acqua come microemulsioni olio-in-acqua e soluzioni micellari si sono

dimostrate valide alternative ai solventi per la rimozione dei materiali indesiderati, dei rivestimenti nocivi

e delle vernici [100]. Tuttavia, l’uso diretto di soluzioni acquose e di sistemi a base acquosa è

scoraggiato su substrati sensibili all’acqua (come le tele, gli strati di preparazione e le opere di carta) in

quanto potrebbero portare ad effetti indesiderati quali il rigonfiamento delle fibre o degli strati idrofili e la

lisciviazione o solubilizzazione dei componenti solubili. Tutti i problemi sopra citati possono essere

efficacemente superati confinando i fluidi di pulitura in una matrice di gel (rete polimerica) che li rilascia

in modo controllato sulla superficie dell’opera. I fluidi possono essere ispessiti (“gelificati”) o

direttamente caricati in gel. Diversi sono i vantaggi di questi sistemi:

il lento rilascio di solventi, soluzioni o emulsioni attraverso l’interfaccia gel-manufatto porta ad

una pulizia controllata;

la diffusione incontrollata dei fluidi di pulizia e di sporcizia disciolta attraverso gli strati del

substrato artistico è parzialmente o completamente evitata;

il tasso di evaporazione dei fluidi confinati è drasticamente diminuito; quindi, la tossicità dei

sistemi di pulizia si riduce.

Una delle principali classi di materiali tradizionalmente impiegati come addensanti per la pulizia dei

manufatti comprende eteri di cellulosa (ad esempio Klucel®, Tylose, HPMC), che sono ampiamente noti

nell’industria cosmetica, farmaceutica e alimentare. Sebbene questi sistemi non possono essere

strettamente considerati come gel sulla base del loro comportamento reologico, essi appaiono

macroscopicamente come gel e sono comunemente indicati come tali per motivi pratici. La

preparazione di “gel” utilizzando eteri di cellulosa è relativamente facile: i polimeri vengono dispersi in

acqua, sotto agitazione a temperatura ambiente o con il calore, e lasciati riposare per circa un giorno.

Questi polimeri possono essere utilizzati per addensare acqua e, nel caso del Klucel G®,

principalmente solventi polari come alcuni alcoli. La viscosità dei “gel” di etere di cellulosa dipende dal

grado di polimerizzazione DP del polimero e dal tipo di solvente caricato. Solitamente, vengono ottenute

dispersioni pastose simili a gel, che mostrano proprietà filmanti e adesive. I “gel” di etere di cellulosa

sono però sensibili a pH troppo acidi (pH < 3) o troppo alcalini (pH > 11). Inoltre, queste reti simili a gel

fisici sono inclini a lasciare residui difficili da rimuovere, a causa dell’adesività del materiale gelificante

[99], che possono aumentare la possibilità di proliferazione microbica sul manufatto.

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120 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

I cosiddetti “solvent gel”, sviluppati tra la fine del 1980 e l’inizio del 1990 da Richard Wolbers, sono un

altro tipo di materiali tradizionalmente utilizzati per la pulizia dei quadri da cavalletto. I solvent gel sono

ottenuti utilizzando come ispessenti derivati dell’acido poliacrilico (per esempio il Carbopol® e il

Pemulens®) e tensioattivi non ionici debolmente basici come l’Ethomeen®. L’alcalinità provoca la

deprotonazione delle funzioni carbossiliche nelle catene di acidi che si dispiegano e formano una

estesa rete 3D che confina il solvente [98,101]. Le proprietà tensioattive consentono una più facile

rimozione dello sporco e degli strati indesiderati. Selezionando tensioattivi Ethomeen con differente

bilancio idrofilo-lipofilo (HLB), è possibile addensare solventi a bassa polarità (con l’Ethomeen C12®) o

solventi polari (con l’Ethomeen C25®). Gel solventi possono anche essere utilizzati per controllare

l'azione dei detersivi ed enzimi. Infatti, questi sistemi sono ancora tra gli strumenti di pulizia più utilizzati

per la loro efficacia e versatilità. Tuttavia, come per gli altri gel fisici e per le dispersioni simili a gel, uno

dei principali inconvenienti è legato alla rimozione dei residui del sistema di pulizia (addensante e

componenti non volatili) dopo l’applicazione. Burnstock e White [102] hanno valutato la natura dei

prodotti di degrado dei residui dell’Ethomeen C12 (dati da trattamento con solvent-gel) dopo

invecchiamento alla luce sia a breve termine che a lungo termine. I prodotti di ossidazione del

tensioattivo sono formati per invecchiamento a medio-lungo termine. La natura dei prodotti di

degradazione dell’Ethomeen (tra cui N-ossidi di ammine) ha sollevato qualche preoccupazione sul

contatto a lungo termine (ad esempio alcuni decenni) dei residui con gli oli o le resina dei mezzi pittorici.

Štulík et al. [103] hanno effettuato un ampio studio sulla teoria e applicazione dei solvent-gel, compresa

l’individuazione dei residui sulle superfici dei manufatti trattati, la stabilità dei tensioattivi durante

l’invecchiamento naturale accelerato e le raccomandazioni per la formulazione di gel per impieghi

specifici.

Alcuni materiali polisaccaridi quali l’agar, la gomma di gellano e la gomma di xantano, sono stati

proposti negli ultimi anni per la pulizia superficiale di manufatti, da utilizzare sia come soluzioni

altamente viscose o come gel “rigidi” che conservano la forma del contenitore dove vengono preparati.

Questi materiali non sono tossici e possono essere attaccati da alcuni batteri e funghi (l’agar viene

effettivamente utilizzato in biologia per la preparazione dei terreni di coltura). L’Agar viene estratto da

alghe rosse (principalmente dai generi Gelidium e Gracilaria) ed è composto da agaropectina e

agarosio. Quando miscelato con acqua (in concentrazioni che variano dall’1 al 4%) e riscaldato a 80°C

forma delle spirali casuali che poi, per raffreddamento (inferiore a 40°C), si riarrangiano a formare una

struttura 3D altamente porosa termo-reversibile dove le catene a doppia elica sono legate attraverso

legami idrogeno [104]. Gel di agar possono essere utilizzati con agenti chelanti, enzimi o tensioattivi, a

diversi valori di pH, e possono essere applicati con impacco (ad esempio a pennello) o come un gel

rigido, lasciando quasi nessun residuo, come riportato in letteratura [105,106]. Recentemente, gel di

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121

agar sono stati anche caricati con liquidi detergenti nanostrutturati (microemulsioni) per la rimozione di

materiali lipofili (cera) da superfici porose [107].

Il Gellano è un polimero anionico lineare prodotto dal batterio Sphingomonas elodea. L’unità ripetitiva

del polimero è un tetrasaccaride costituito da (1-3)-β-Dglucosio, Acido (1-4)-β-D-glucuronico, (1-4)-β-D-

glucosio e (1-4)-α-L-ramnosio. Il processo di formazione del gel è un meccanismo simile a quello

descritto per l’agar: in seguito a riscaldamento, il polimero è presente in soluzioni acquose come spirali.

Per raffreddamento a 30-40°C, le molecole formano doppie eliche che si legano attraverso legami

secondari (legami idrogeno, interazioni di van der Waals) e che sono casualmente alternate con le

spirali. Cationi, in particolare gli ioni Ca2+ (per esempio aggiunto come soluzione di acetato di calcio),

stabilizzano la struttura.

Possono essere formati gel elastici o fragili a seconda delle concentrazioni dei cationi e del contenuto

acil del polimero [108,109]. Per la pulizia dei manufatti, è possibile avere una struttura visco-elastica,

non-adesiva, omogenea e compatta che è stabile a diversi valori di pH. I gel di gellano sono più

trasparenti di quelli di agar, e posseggono una ritenzione idrica superiore a concentrazioni dell’1-2%.

Iannucelli e Sotgiu [110] hanno utilizzato il gellano per la pulizia di opere d’arte di carta; è stato

osservato che i gel gradualmente rilasciano acqua sul supporto cartaceo e raccolgono lo sporco, e

possono essere rimossi senza lasciare residui sostanziali. Gli autori hanno anche dimostrato che è

possibile preparare gel caricati o con una soluzione enzimatica acquosa o con ter-butil amminoborano,

che è stato usato come reagente lieve per ridurre i gruppi carbonilici nella carta ossidata [111,112]. Nel

primo caso, la soluzione enzimatica è stata caricata nel gellano dopo il processo di gelificazione,

pipettando la soluzione direttamente sulla superficie del gel con una micropipetta e distribuendo il gel

sulla superficie con un pennello. Invece, il ter-butil amminoborano è stato aggiunto dopo che la

dispersione polimerica ha finito il ciclo di riscaldamento. I gel di Gellano possono essere usati anche

con piccole quantità di solventi quali etanolo o isopropanolo. I prodotti commerciali includono Gelzan® e

Kelcogel®. Infine, la gomma di xantano (ad es. il Vanzan®) viene estratta dopo la fermentazione di

batteri (Xanthomonas campestris). Il polimero forma gel viscosi che possono essere utilizzati in un

ampio intervallo di pH e sono compatibili con chelati, diversi solventi (gelificazione di soluzioni acquose

di circa il 40% di alcoli o glicoli) ed emulsioni. Anche in questo caso, il meccanismo di gelificazione

comporta la formazione di eliche a partire da spirali casuali, e il gel ottenuto è tissotropico. Gel come

quelli formati da agar e da gellano possono ritenere elevate quantità di acqua, ma in alcuni casi è

richiesta una maggiore ritenzione idrica per il trattamento di opere d’arte sensibili all’acqua, dove la

lisciviazione o la perdita di componenti (colori, inchiostri) potrebbero avvenire a causa di un’eccessiva

bagnatura [113].

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122 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

È un dato di fatto che la sperimentazione di nuove formulazioni con proprietà migliorate, rispetto ai

materiali precedentemente discussi, è continuamente in corso. Il lavoro di ricerca è incentrato sullo

sviluppo di gel con caratteristiche chiave quali proprietà meccaniche migliori (in modo da consentire

un’agevole manipolazione e evitare completamente i residui di gel sulle superfici trattate) e più alta

ritenzione, che permette di controllare completamente l’azione di pulitura anche su supporti sensibili. Un

esempio è quello dato dai “gel sensibili”, cioè una classe di materiali che rispondono ad uno stimolo

esterno come la temperatura, il pH o i campi magnetici [114-116]. Inoltre, sono stati realizzati e testati

su opere d’arte mobili gel con alta visco-elasticità che possono facilmente essere “spellicolati” dalla

superficie, e gel chimici altamente ritentivi per la pulizia di superfici sensibili all’acqua [100].

I primi sistemi reattivi che sono stati sviluppati in questo ambito sono stati i gel reoreversibli e le spugne

nanomagnetiche. Carretti et al. [117,118] hanno dimostrato che soluzioni di poliammine (es

poliallilammine, PAA) formano un gel con l’aggiunta di CO2 (attraverso bolle). La rete 3D è dovuta alla

formazione di gruppi ammonio e carbammato, sulle catene polimeriche, che sono attratti attraverso

interazioni elettrostatiche. Dopo l’azione di pulitura sulle superfici dipinte, il gel di PAA-CO2 viene

decarbossilato semplicemente aggiungendo in situ una piccola quantità di una soluzione acquosa di

acido acetico debole (0,05 M). Come risultato, il gel viscoelastico ritorna allo stato liquido e viene

rimosso semplicemente con un tampone di cotone. Questo tipo di gel è stato applicato per rimuovere

uno strato di lacca applicata durante interventi di restauro precedenti dalla superficie di un dipinto su

tavola a tempera d’uovo del 14° secolo (dalla Galleria Nazionale di Siena, Italia). Come confermato da

analisi SEM-EDX, l’uso del gel ha permesso la rimozione della vernice. Questi sistemi sono stati

ulteriormente valutati, per esempio per la rimozione di vernici invecchiate sulla superficie di una cornice

dorata del 19° secolo [119].

Più tardi, anche le polietilenimmine (PEI) sono state utilizzate per fare gel reoreversibli per la pulizia di

superfici verniciate e di legno dorato [116,119,120]. Ad esempio, una soluzione PEI di 1-ottanolo/xileni,

gelificato gorgogliando CO2, ha portato alla formazione di un gel PEI-CO2 che è stato utilizzato per

rimuovere con successo dei ritocchi lucidi e delle vernici dalla superficie di una tela. L’analisi allo

stereomicroscopio ha confermato che gli strati indesiderati erano stati rimossi senza spellicolmento o

abrasione della superficie originale. In alternativa, il PEI è anche stato usato per rimuovere uno strato

superficiale di vernice degradata da una scultura in legno verniciato (Fig. 5.2.3) [121].

L’uso di gel a base di PEI e PPA ha portato all’ottenimento di ottimi risultati durante il processo di

pulitura delle opere d’arte mobili e ha fornito un esempio delle potenzialità della scienza dei colloidi e

della materia soffice per lo sviluppo di strumenti innovativi ed efficaci. Il lavoro di ricerca successivo si é

focalizzato su diverse classi di gel sensibili per controllare ulteriormente il trattamento e la rimozione dei

sistemi di pulitura. Bonini et al. [114,115] hanno sintetizzato e caratterizzato nanoparticelle magnetiche

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123

che sono state funzionalizzate e associati con gel a base di acrilammide, creando una spugna

nanomagnetica.

L’acrilammide presenta proprietà di carico e ritenzione dell’acqua, che rendono questi idrogel chimici

utili per caricare soluzioni acquose e sistemi a base acquosa (ad es. le microemulsioni) e rilasciarli in

modo controllato sui substrati artistici. Le proprietà magnetiche del gel ne consentono la rimozione

facile e rapida semplicemente utilizzando un magnete permanente, in modo da evitare così qualsiasi

manipolazione diretta del gel durante la fase di rimozione. Infatti questi strumenti sono particolarmente

adatti per la pulitura di oggetti preziosi le cui superfici sono molto sensibili agli stress meccanici.

I gel possono essere tagliati con un coltello o con delle forbici alle dimensioni desiderate per diverse

applicazioni. Inoltre, la formazione del gel è reversibile: il gel può essere liofilizzato ottenendo una

polvere che può poi essere di nuovo idratata per riformare il gel. Per le operazioni di pulitura, le spugne

nanomagnetiche sono caricate con una microemulsione acquosa contenente piccole quantità di p-

xilene e nitrodiluente (meno del 2% ciascuno). I gel di poliacrilammide hanno macropori con dimensioni

che vanno dalle centinaia di nanometri a diversi micron; pertanto le goccioline di dimensioni

nanometriche contenute nella microemulsione sono in grado di diffondere attraverso la rete del gel.

Figura 5.2.3. Scultura settecentesca in legno verniciato con

uno strato superficiale di una vernice naturale degradata

prima (lato destro) e dopo (lato sinistro) pulizia con un gel di

poli(etileneimmina) come addensante e 1-pentanolo come

fase continua [P. Baglioni, L. Dei, E. Carretti, R. Giorgi,

Langmuir (2009) 25, 8373].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

124 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Pizzorusso et al. [122] hanno studiato ulteriormente la caratterizzazione e l’uso di gel a base di

poliacrilammide caricati con liquidi detergenti nanostrutturati per la pulitura dei dipinti da cavalletto.

L’obiettivo era quello di investigare possibili alterazioni per il caricamento all’interno della rete del gel di

un sistema olio-in-acqua contenente acetato di etile e propilene carbonato (detto “EAPC”) con un

tensioattivo e un co-tensioattivo che contribuisce alla formazione di micelle di dimensioni nanometriche.

L’EAPC è un fluido detergente acquoso molto versatile, in cui i due solventi sono distribuiti sia all’interno

delle micelle (nanogocce) sia nella fase acquosa continua. Essendosi dimostrato l’EAPC efficace nella

rimozione di diversi tipi di rivestimento dannosi sulla superficie dei dipinti murali [93,95], era importante

valutare la possibilità di caricare questo sistema in un idrogel per consentire potenziali applicazioni su

substrati sensibili all’acqua, come le tele. Analisi SAXS hanno dimostrato che è possibile includere le

nanogocce di solventi e tensioattivi all’interno della rete del gel per un uso efficace nella pulitura di

opere d’arte. Le caratteristiche del gel possono essere customizzate modificando la percentuale di

polimero nella formulazione. Ad esempio, macropori in un gel vanno da 5 a 25 micron e le maglie da 7 a

9 nm (la dimensione delle maglie fornisce intrinsecamente una misura della microporosità media della

rete di gel, cioè dei pori di dimensioni nanometriche). Il differente contenuto in polimero porta anche a

differenti proprietà di ritenzione idrica, e la formulazione con la più alta ritenzione è stata selezionata per

il trattamento della tela con il fine di evitare la fuoriuscita incontrollata della microemulsione attraverso la

superficie. Gel a base di acrilammide e microemulsioni sono stati applicati anche su tele di lino per

rimuovere gli adesivi invecchiati [122,123]. Ad esempio, un gel caricato con EAPC è stato usato su

campioni di tela che erano stati trattati con il Mowilith DM5®, un adesivo commerciale costituito da

acetato di vinile e n-butil acrilato. Infatti, gli adesivi a base di polivinilacetato come il Mowilith DM5® e

DMC2®, sono soggetti a degrado con l’invecchiamento [124] e una delle principali vie di degradazione

comporta il rilascio di acidi organici che sono dannosi per le fibre della tela. L’applicazione del gel ha

prodotto il rigonfiamento e il rammollimento dell’adesivo, che è stato poi rimosso dalla tela per delicata

azione meccanica. Questo metodo ha permesso un’azione perfettamente localizzata del sistema di

pulitura, che ha portato alla rimozione della maggior parte dell’adesivo dalla tela senza pericolo di

diffusione incontrollata del fluido acquoso di EAPC.

Successivamente, la ricerca si è focalizzata su idrogel chimici con maggiore ritentività, per consentire la

pulizia controllata di superfici dipinte altamente sensibili pur mantenendo l’efficacia, la fattibilità e

l’applicabilità senza residui delle formulazioni a base di acrilammide. Domingues et al. [113,125] hanno

sviluppato reti semi-interpenetranti (semi-IPN) di poli(vinilpirrolidone)-PVP e poli (2-

idrossietilmetacrilato)-p(HEMA). L’idea era di combinare le migliori caratteristiche di entrambi gli idrogel

p(HEMA) e PVP in un unico sistema con caratteristiche specifiche per la pulitura delle opere d’arte.

Infatti, gli idrogel di PVP mostrano un’alta idrofilia ma scarse caratteristiche meccaniche [126], mentre

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125

quelli di p(HEMA) mostrano una buona resistenza meccanica, ma una bassa capacità di carico

dell’acqua per essere utilizzati nella conservazione del patrimonio culturale. Questi gel sono stati

preparati in forma di film elastici che possono essere tagliati alla misura desiderata, manipolati e

facilmente rimossi o “spellicolati” dalla superficie (Fig. 5.2.4) senza lasciare residui di gel, grazie alla

rete coesiva di legami chimici. I gel sono preparati come reti polimeriche contenenti acqua, ma possono

anche essere caricati con solventi polari (ad esempio glicoli, alcoli, etanolammina) o con sistemi

acquosi nanostrutturati (microemulsioni e soluzioni micellari), tipicamente tramite in immersione per

almeno 12 ore prima dell’applicazione.

La composizione del gel può essere regolata per ottenere caratteristiche differenti in termini di porosità

e ritenzione dei fluidi di pulizia caricati. Ad esempio, sono state riportate tre diverse formulazioni con

differenti dimensioni porosimetriche e con differenti proprietà di ritenzione/rilascio dell’acqua per

consentire il trattamento di manufatti che presentano differente sensibilità all’acqua o ai solventi polari.

Ovviamente, quella con la più alta ritenzione idrica è adatta per supporti molto sensibili come i quadri da

cavalletto, dove la pellicola pittorica è poco legata o dove la fuoriuscita incontrollata di acqua/solventi

può portare a rigonfiamento del legante o alla lisciviazione di colori, tinte e inchiostri. Inizialmente, gli

idrogel p(HEMA)/PVP sono stati usati per pulire tele realizzate con la tecnica della tempera magra, cioè

mescolando pigmenti e coloranti con la minima quantità necessaria di legante (colla animale).

Successivamente sono stati utilizzati anche per la rimozione dello sporco dalla superficie di campioni di

carta inchiostrati, in cui l’applicazione di idrogel chimici altamente ritentivi hanno evitato qualsiasi

eccessiva bagnatura o alterazione dell’inchiostro idrosolubile. Inoltre, questi gel si sono rilevati efficaci

anche per applicazioni tipiche come la rimozione di vernici terpenoidi ingiallite e invecchiate dalla

superficie delle tele. La vernice viene o disciolta (e migra nel gel) o rigonfiata (e quindi rimossa con

Figura 5.2.4. La rimozione dello sporco dalla superficie di un esemplare di Thang-Ka utilizzando un idrogel

chimico semi-interpenetrante (semi -IPN) di p(HEMA)/PVP chimica. Un Thang-Ka è un manufatto votivo su tela

dipinto con tempera magra che presenta in genere uno strato pittorico con bassa coesione e con una scarsa quantità

di legante sensibile all’acqua (ad esempio colla animale) [J. Domingues, N. Bonelli, R. Giorgi, E. fratini, F. Gorel,

P. Baglioni, Langmuir (2013) 29, 2746].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

126 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

un’azione meccanica delicata). Un altro esempio è l’utilizzo di idrogel p(HEMA)/PVP caricati con l’EAPC

per la rimozione di un adesivo etilacrilato/ metilmetacrilato (Plextol® B500) invecchiato dalla superficie

di una tela. Il rilascio controllato dell’EAPC ha portato al graduale rigonfiamento e rammollimento del

rivestimento adesivo sintetico evitando al contempo un’eccessiva bagnatura del substrato, nonostante il

lungo tempo di applicazione (4 ore) [125].

Accanto ai gel chimici, i ricercatori hanno sviluppato anche dispersioni di polimeri “gel-like” con

caratteristiche specifiche per la pulitura dei dipinti. Queste formulazioni sembrano macroscopicamente

dei gel, ma non possono essere strettamente classificati come gel dal punto di vista reologico, pertanto

sono indicate come dispersioni polimeriche altamente viscose (HVPDs).

Carretti et al. [127] hanno riportato l’uso di una HVPD di idrossietilcellulosa idrofobicamente modificata

(hmHEC, 2% w/w) per incorporare una microemulsione di xilene in acqua. Il sistema hmHEC-

microemulsione è stato utilizzato per rimuovere vernici e rivestimenti invecchiati dalla superficie di dipinti

e da superfici dorate.

Un altro possibile approccio si basa sull’utilizzo di HVPDs con elevata elasticità intrinseca, al fine di

ottenere una facile rimozione del sistema simile a gel semplicemente tramite un’azione di “peeling”. Le

HVPDs altamente viscoelastiche possono essere ottenute utilizzando borace e alcool polivinilico (PVA)

o acetato di polivinile (PVAc) parzialmente idrolizzato. La rete gelatinosa è dovuta alla formazione di

legami incrociati tra la borace e i gruppi idrossili del PVA (o PVAc idrolizzato). La natura dei legami

dipende dal pH, dalla temperatura, dalla concentrazione dei reagenti e dalla composizione chimica del

sistema [128-130]. Oltre alla facile rimozione, le HVPDs costituite da PVA-borace consentono la

graduale e controllata pulitura delle superfici delicate e sensibili ai solventi. Ad esempio, una

formulazione caricata con acqua è stata recentemente utilizzata per rimuovere uno strato scuro,

costituito da particelle carboniose (dovute principalmente all’inquinamento atmosferico), dalla superficie

di uno strato dipinto delicato che comprendeva sostanze sensibili all’acqua come il gesso e il bianco

d’uovo (come legante) [131].

È possibile caricare diversi solventi nelle formulazioni PVA-borace (fino a circa il 15-30% w/w della parte

liquida del sistema), compresi etanolo, 1-pentanolo, 2-butanolo, 1 e 2-propanolo, acetone,

cicloesanone, N-metilpirrolidinone e carbonato di propilene. L’uso del PVAc parzialmente idrolizzato

come addensante estende ulteriormente la gamma di solventi che possono essere caricati e permette

la preparazione di HVPDs dove il solvente organico è fino al 75% (w/w) della porzione liquida. Sistemi

HVPDs PVA- e PVAc-borace caricati con miscele di acqua e 1-propanol sono stati applicati per la

rimozione di vernici ossidate dalla superficie di un pannello di legno tardorinascimentale. In generale, a

seconda del solvente utilizzato, le vernici possono essere sia disciolte (migrazione nel sistema simile a

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127

gel) o rigonfiate e staccate dalla superficie (in questo caso la rimozione è completata da un’azione

meccanica delicata con un tampone).

5.3. Deacidificazione

Come dimostrato dalla letteratura citata per la deacidificazione dei materiali cellulosici, il lavoro di

ricerca nel campo della conservazione della carta è costantemente alla ricerca di metodi dedicati per

trattare tutti i problemi di conservazione contemporaneamente, in un solo passaggio. Il trattamento

ideale deve evitare gli inconvenienti descritti nei paragrafi precedenti, vale a dire la lisciviazione o

rimozione dei componenti originali dei manufatti (ad esempio inchiostri o vernici), la formazione di

velature o l’alterazione estetica della superficie degli oggetti trattati, e l’uso di solventi non tossici e

dannosi per l’ambiente. Inoltre, il trattamento dovrebbe comporta bassi costi e risultare realizzabile

praticamente.

Le dispersioni di nanoparticelle di Ca(OH)2 per l’applicazione alle opere d’arte sono state discusse in

dettaglio nel paragrafo 2.1. Questa sezione si concentra sulle formulazioni che sono state sviluppate e

utilizzate negli ultimi decenni per il controllo del pH su substrati a base di cellulosa. Infatti, l’idrossido di

calcio è un ottimo agente deacidificante e la possibilità di fornire l’idrossido in forma di particelle solide

disperse in un solvente appropriato sulle fibre di cellulosa permette un graduale e sicuro rilascio di ioni

OH- dalle particelle, piuttosto che il rilascio improvviso di ioni liberi, altamente mobili, come avviene nelle

soluzioni acquose. La neutralizzazione tra gli ioni OH- (dalle particelle) e gli ioni H+ (provenienti da

specie o gruppi acidi) avviene sulla superficie delle particelle attraverso uno strato d’acqua che proviene

dall’umidità ambientale e dall’umidità delle fibre. È stato ipotizzato che gli ioni calcio o magnesio (dal

trattamento di deacidificazione) possono interagire con i gruppi carbossilati della cellulosa (Fig. 5.3.1)

[132].

Figura 5.3.1. Possibili interazioni tra gli ioni Ca2+ (proveniente dalle nanoparticelle di Ca(OH)2) e i gruppi

carbossilati (-COO-) sulle catene di cellulosa, durante il trattamento di neutralizzazione [P. Baglioni, D. Chelazzi,

R. Giorgi, In: “Nanotechnologies in the Conservation of Cultural Heritage A compendium of materials and

techniques”, Springer (2015)].

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

128 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

La superficie delle particelle di Ca(OH)2 che non viene consumata durante il processo di

neutralizzazione reagisce con la CO2 atmosferica, trasformandosi in CaCO3. Pertanto, le particelle

carbonatate restano intrappolate come un tampone contro la ricomparsa dell’acidità; infatti carte che

contiengono cariche di carbonato di calcio mostrano migliori caratteristiche per l’immagazzianmento

[133]. Inoltre, la carbonatazione dell’idrossido è un altro fattore importante, insieme con la ridotta

mobilità degli ioni OH-, nel prevenire la formazione di un ambiente eccessivamente alcalino che

potrebbe essere dannoso per la cellulosa.

Dispersioni stabili di nanoparticelle di idrossido di calcio o di magnesio in alcoli a catena corta sono stati

formulati negli ultimi decenni con diversi processi di sintesi, come discusso nel cap. 2. L’applicazione di

queste dispersioni sulla carta, sia a pennello, spray o per immersione, consente il semplice rilascio della

quantità desiderata di idrossido senza usare precursori come l’ossido di magnesio, gli alcossidi o i

metossi metilcarbonati. Inoltre, le nanoparticelle sono stabilmente disperse in alcooli a catena corta

senza usare additivi o tensioattivi, in modo da minimizzare ulteriormente effetti imprevisti.

Come evidenziato da Sequeira et al. [134], le dimensioni ridotte delle nanoparticelle di idrossido, e di

conseguenza la loro area superficiale elevata, comporta una elevata capacità di neutralizzazione degli

acidi, e la rapida trasformazione dell’eccesso di idrossido in carbonato. Infatti, l’applicazione di Ca(OH)2

nanoparticellare a provini di carta del 19° secolo ha portato alla neutralizzazione dell’acidità e alla

formazione di un tampone di CaCO3, che proteggeva la carta contro l’invecchiamento accelerato in

condizioni idrotermali severe (UR = 85% e T = 90°C per 21 giorni). Inoltre, uno studio di Poggi et al.

[135] ha dimostrato che il trattamento di carta inchiostrata con inchiostri metallo-gallici con una

dispersione di nanoparticelle di Mg(OH)2 in 2-propanolo è stato molto efficace nel proteggere le fibre di

cellulosa dal degrado. L’applicazione di Mg(OH)2 nanoparticellare mantiene stabilmente il pH a circa 7 e

conserva le proprietà meccaniche delle fibre di cellulosa durante l’invecchiamento, mentre i campioni

non protetti sono soggetti a forte decolorazione e drammatici danni meccanici (Fig. 5.3.2).

Microscopicamente, ciò è dovuto al fatto che la percentuale di legami glicosidici della cellulosa scissi dai

processi di degradazione (% S) è stata mantenuta bassa dal trattamento con particelle alcaline durante

l’invecchiamento, a differenza del caso di campioni inchiostrati che non erano stati trattati (Fig. 5.3.3).

L’applicazione del metodo Bookkeeper, che utilizza particelle più grandi, sugli stessi campioni ha

mostrato risultati leggermente peggiori, e si deve notare che in generale l’uso di nanoparticelle

(piuttosto che micro) può anche essere vantaggioso per ottenere una migliore penetrazione attraverso

la rete a bassa porosità delle fibre, senza produrre velature dovute ad accumuli sulla superficie. Giorgi

[136] successivamente ha dimostrato che l’effetto benefico fornito dall’applicazione di nanoparticelle di

Mg(OH)2, in termini di riduzione % S, era paragonabile a quello ottenuto trattando campioni di carta

inchiostrata con un trattamento anti-ossidante a base di alogenuri. Questi risultati indicano che

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129

mantenendo stabile il pH finale della carta intorno alla neutralità, con un trattamento di deacidificazione

a passo singolo, è possibile conservare la cellulosa dal degrado indotto sia da acidi (ad esempio acido

solforico) che da agenti ossidativi (ioni di ferro e rame).

Gli alcoli a catena breve usati come mezzi disperdenti delle nanoparticelle sono solventi eco-friendly

con bassa tossicità e sono inerti verso diversi (etanolo) o numerosi (2-propanolo) inchiostri metallo-

gallici. Altri solventi (ad esempio idrocarburi) sono stati sperimentati con successo per estendere

l’applicazione alla carta contenente inchiostri moderni.

Figura 5.3.2. Confronto tra campioni di carta inchiostrata con metallo-gallici (Whatman) prima e dopo

l’invecchiamento. (a sinistra) Un campione non trattato con nanoparticelle che non ha subito l’invecchiamento.

(Centro) Un campione invecchiato senza alcun trattamento di stabilizzazione, in cui la perdita delle proprietà

meccaniche della carta è evidente. (Destro) Un campione trattato con nanoparticelle di Mg(OH)2 e invecchiato: il

campione ha conservato le proprietà meccaniche originali, come prima dell’invecchiamento [G. Poggi, R. Giorgi,

N. Toccafondi, V. Katzur, P. Baglioni, Langmuir (2010) 26, 19084].

Figura 5.3.3. Curve di degradazione che mostrano la percentuale di legami glicosidici della cellulosa scissi per

ossidazione e idrolisi acida (% S) durante l’invecchiamento accelerato di campioni di carta Whatman. "Ink_Fe_1:

1" si riferisce ai campioni trattati con un inchiostro ferrogallico classico; "Ink_Fe_1: 1 Mg" si riferisce a campioni

inchiostrati che sono stati stabilizzati con nanoparticelle di Mg(OH)2 e poi invecchiati; "Ink_Fe_1: 1 BK" si

riferisce ai campioni che inchiostrati che sono stati stabilizzati con il metodo Bookkeeper (spray) e poi invecchiati

[G. Poggi, R. Giorgi, N. Toccafondi, V. Katzur, P. Baglioni, Langmuir (2010) 26, 19084].

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130 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

I risultati ottenuti sulla carta hanno aperto la strada all’applicazione delle nanoparticelle su altri materiali

a base di cellulosa, quali la tela e il legno, poiché i processi di degrado che devono essere affrontati

sono simili a quelli della carta. Il Lino, per esempio, contiene materiali lignificati che lo rendono più

incline a deterioramento, e in generale le tele sono affette da foto-ossidazione, dalla presenza di gas

inquinanti (SO2, NOx) e acidi organici volatili. L’acidità può anche essere sviluppata da vernici come la

dammar, o dal legante dell’olio [137]. Come risultato, le tele possono avere valori di pH a partire da 3,5-

4,0, e la conseguente perdita delle proprietà meccaniche è aumentata dalle forze di trazione a cui i

tessuti sono sottoposti. Trattamenti per la deacidificazione della cellulosa, originariamente sviluppati per

la carta, sono stati applicati in passato anche ai dipinti su tela, per esempio Foster et al. [138]. Infatti

hanno valutato l’applicazione del metodo Wei T’o sul retro di tele e hanno osservato che il metodo

produce una variazione della rigidità dei campioni che dipende dalle condizioni ambientali. Inoltre, il

trattamento lascia un rivestimento che agisce come barriera all’umidità, modificando l’ulteriore risposta

della tela trattata alle variazioni di umidità relativa. L’applicazione di dispersioni di nanoparticelle

alcaline, per esempio spruzzandole sul retro del dipinto, è un metodo alternativo promettente per la

conservazione di tele acidificate, data la sua fattibilità e efficacia come dimostrato sugli oggetti di carta.

Nel caso dei dipinti, il principale fattore da considerare è la compatibilità tra il mezzo disperdente, le

particelle e gli strati dei manufatti (preparazione e strati dipinti), che sono tipicamente sensibili ai solventi

a polarità differente.

Per quanto riguarda il legno, l’acidità può costituire una minaccia per i manufatti in diverse circostanze.

Innanzitutto, va detto che il legno stesso emette composti acidi, come l’acido acetico e l’acido formico.

Tali emissioni promuovono il degrado di oggetti che si trovano a stretto contatto con la superficie del

legno, ad esempio i manufatti conservati o esposti in scatole di legno e le opere d’arte di carta o tele in

contatto con cornici di legno.

Il degrado avviene anche quando le opere d’arte sono esposte ad atmosfera contenente VOC

(composti organici volatili) acidi emessi dalle superfici in legno. Possono essere applicati sul legno dei

rivestimenti per ridurre l’emissione di acidi, ma è noto che i vari rivestimenti a base poli(vinilacetato) e gli

adesivi tradizionalmente utilizzati emettono a loro volta VOC acidi [139], e in alcuni casi si raccomanda

che i materiali con una potenziale emissione di sostanze pericolose devono essere sostituiti da materiali

come rivestimenti metallici e vetrosi [140]. Composti organici potenzialmente aggressivi possono anche

essere trovati all’interno di cornici microclimatiche [141]. Un elegante soluzione alternativa a questo

problema è quello di fornire superficie lignee delle cornici, delle scatole ecc, con un tampone alcalino

che neutralizza le emissioni acide direttamente in situ. In questo modo, l’emissione di VOC acidi viene

contenuta e viene evitato l’uso di rivestimenti potenzialmente pericolosi. Il trattamento delle superfici

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131

lignee con una dispersione di nanoparticelle alcaline ha dimostrato essere un metodo facile per

realizzare questo compito [142].

Un altro campo in cui la nanoscienza si è dimostrata efficace nel contrastare l’acidità della cellulosa

riguarda la conservazione del legno archeologico saturo d’acqua. Due casi famosi riguardano la

conservazione delle navi in legno Vasa e Mary Rose, che sono attualmente in fase di degrado da

composti come l’acido solforico, l’acido ossalico e i sali di ferro [143,144]. Secondo la letteratura, una

delle origini dell’acidità è la grande quantità di composti solforati ridotti accumulati all’interno del legno

mentre le navi giacevano sul fondo marino in acque anossiche inquinate dall’attivitá metabolica di

batteri solfo-riducenti. Partendo dal recupero, i composti dello zolfo vengono ossidati, producendo acido

solforico e solfati. Gli ioni di ferro, provenienti dalla corrosione dei chiodi e di altri componenti metallici,

promuovono l’ossidazione dello zolfo e causano il degrado della cellulosa, e portano anche alla

formazione di acido ossalico dal legno di quercia. Tuttavia, la complessa interazione tra le specie

chimiche del legno non è ancora completamente chiarita, e recenti studi sulla Vasa hanno suggerito che

lo zolfo può infatti agire come antiossidante, dal momento che il degrado dell’olocellulosa è risultato

maggiore nelle aree ad alto contenuto di ferro ma basso tenore di zolfo. Inoltre, gli ioni ferro (III) sono

probabilmente coinvolti nel degrado del polietilenglicole (PEG), consolidante che è stato ampiamente

applicato per prevenire il restringimento del legno dopo il recupero. Il degrado del PEG è ancora

dibattuto: alcuni ricercatori sostengono che il deterioramento è trascurabile, mentre altri hanno

sottolineato che il processo potrebbe avvenire tramite idrolisi acida. Inoltre il suo degrado potrebbe

eventualmente contribuire alla formazione di acido formico.

Nel complesso, questi processi di degrado interconnessi portano a bassissimi valori di pH locali (ad

esempio 0-4), mentre il pH del legno di quercia fresco è in genere intorno al 4,5 e quello di pino è circa

5,5. L’idrolisi acida della cellulosa può causare cedimenti strutturali che sono potenzialmente disastrosi

su tali oggetti di grandi dimensioni. Pertanto, diversi gruppi di ricerca sono coinvolti nello studio di

possibili soluzioni contro l’azione di acidi e ioni ferro. Il problema principale comune a tutti i metodi

sviluppati finora è che l’accesso agli strati interni del legno impregnato di PEG è problematico. Inoltre, le

soluzioni acquose alcaline tradizionali implicano questioni analoghe a quelle discusse per la

deacidificazione della carta. In alternativa, un trattamento con gas di ammoniaca è stato testato su

campioni della Vasa, ma limitazioni a questo metodo sono la bassa profondità di penetrazione raggiunta

(massimo 0,5-1,0 cm per i campioni di quercia e fino a 3,5 cm per i campioni di pino) e un eccessivo

degrado della cellulosa per i campioni della Vasa non trattati con il PEG [145]. Un trattamento a base di

soluzioni acquose di agenti chelanti come DTPA (dietilentriammina pentaacetato) è stato sviluppato per

estrarre ferro, zolfo e vecchio PEG dal legno. Tuttavia, il pH richiesto per la completa efficacia del

metodo (9-11) è troppo rischioso per il legno, e valori di pH più neutri diminuiscono leggermente

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132 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

l’efficacia di estrazione. Inoltre, tali trattamenti potrebbero richiedere diversi anni e l’estrazione del ferro

potrebbero non avvenire nelle regioni interne del legname (< 1-2 cm di profondità).

L’uso di nanoparticelle di idrossidi alcalino-terrosi o di carbonato é stato proposto per neutralizzare

stabilmente il pH (inibendo l’attività catalitica degli ioni di ferro) e prevenire la formazione di acido

solforico. Per esempio, il trattamento con nanoparticelle di Mg(OH)2 ha portato ad un aumento del pH di

campioni di legno acidi fino a profondità di 2 cm, per almeno 1 anno [146]. L’applicazione di

nanoparticelle sotto vuoto o a moderata pressurizzazione sui campioni, utilizzando particelle di Ca(OH)2

di circa 80 nm, ha portato ad una maggiore penetrazione, fino a circa 10 cm.

Un’altra promettente formulazione, proposta per la conservazione dei legni della Mary Rose, prevede

l’uso di particelle di carbonato di stronzio (SrCO3), con cristalliti di 20-50 nm, ottenute con un processo

top-down (macinazione a sfere ad alta energia) a partire dal SrCO3 commerciale [144,147,148]. Le

particelle sono disperse in 2-propanolo attraverso sonicazione. I campioni di legno sono stati immersi

nelle dispersioni e ulteriormente sonicati per 3 giorni. Oltre a qualche effetto di deacidificazione, la

motivazione principale per l’uso di particelle di SrCO3 è la loro influenza sulle specie di zolfo ridotte e sui

composti di ferro nel legno. I risultati delle analisi spettroscopiche hanno mostrato che il trattamento ha

causato una diminuzione delle specie di zolfo ridotte nel legno e la formazione sia di solfossido che di

solfato di stronzio (SrSO4), che è stabile ed insolubile. Inoltre, la pirite converte lentamente in carbonato

di ferro. Di conseguenza, l’ulteriore formazione di acido solforico nella matrice legno è ostacolata. La

limitazione principale è che utilizzando il processo di macinazione a sfere, anche se cristalliti di 20-50

nm sono presenti, si ha una dimensione delle particelle che è nell'intervallo micro dimensionale, come

confermato dalla bassa penetrazione delle particelle (2 mm utilizzando dispersioni in 2-propanolo) e dai

bassi coefficienti di diffusione attraverso il legno di quercia fresco (ordine di grandezza di 10-13 m2s-1 per

dispersioni in 2-propanolo). Un effetto collaterale ulteriore nell’uso di particelle di stronzio è che, a

differenza di calcio e magnesio, gli ioni di stronzio presentano una tossicità moderata.

Infine, è opportuno notare che l’uso di nanoparticelle è stato sperimentato anche per altre funzioni (oltre

che controllo del pH) nel campo della conservazione delle opere d’arte cellulosiche. Alcune delle

applicazioni proposte includono: (i) l’uso di nanoparticelle TiO2 o ZnO per la protezione dei supporti

carta dallo sporco, dai microrganismi e dai raggi UV [149,150]; (ii) l’applicazione di silice

nanoparticellare e altri nanosols inorganici per il trattamento del legno, in modo da migliorare le

proprietà meccaniche, oppure come ritardanti di fiamma, o come rivestimenti antimicrobici, ecc.. [151].

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138 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

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Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali

139

APPENDICE I: prodotti commerciali

Negli ultimi anni si è assistito in Italia ed in Europa alla nascita di un vero e proprio settore nanotech

costituito sia da imprese specializzate, come PMI di nuova formazione (start-up) o risultanti da spin-off

dell'industria/università, che da grandi aziende multinazionali che hanno dedicato particolare attenzione

a questo nuovo campo dei nanomateriali sempre più in via di sviluppo.

Di seguito vengono riportati i maggiori e più conosciuti prodotti utilizzati commerciali per il restauro, la

conservazione e l'archiviazione di tutte le opere di interesse storico, artistico e monumentale. Vengono

riassunti in tabella in base alla loro funzione come consolidanti, protettivi o materiali per pulitura.

Prodotti consolidanti commerciali

Prodotto Marchio Caratteristiche

Nanorestore® C.T.S. srl

Consolidante superficiale a base di idrossido di calcio nanoparticellare disperso in alcool isopropilico (5 g/L di nanoparticelle di dimensione media 200 nm). Nanorestore è il consolidante compatibile per eccellenza per gli affreschi e i materiali lapidei a matrice carbonatica.

Nanorestore Plus®

CSGI (Consorzio per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase)

Sono nanoparticelle di idrossido di calcio disperse in alcol (note anche come nanocalci) altamente compatibili con dipinti murali e opere architettoniche e scultoree realizzate con rocce carbonatiche. Il solvente utilizzato è etanolo e propanolo e le concentrazioni di nanoparticelle sono 5 g/L e 10 g/L.

CaLoSiL® IBZ-Salzchemie GmbH & Co.KG

Consolidante a base di idrossido di calcio nanoparticellare disperso in differenti alcol (etanolo, isopropanolo e n-propanolo). Tipicamente le concentrazioni sono tra 5 e 50 g/L. La dimensione media delle particelle è 150 nm. CaLoSiL®è un consolidante per pietre ed intonaci.

SioXaL® IBZ-Salzchemie GmbH & Co.KG

Questi prodotti sono soluzioni acquose di silica nanoparticellare a differenti concentrazioni (15% e 30%) e nanodimensioni (8, 10 e 35 nm). Sono utilizzati per il consolidamento di pietre, malte, intonaci.

CaLoXiL® IBZ-Salzchemie GmbH & Co.KG

Questo prodotto è uno slurry di calce che contiene come legante una miscela sinergica di convenzionale calce (CL-90) e le particelle di nanocalce da CaLoSiL®. Viene utilizzato per il consolidamento.

CaSoPaL® IBZ-Salzchemie GmbH & Co.KG

CaSoPaL® contiene idrossido di calcio nanoparticelle disperso in etanolo. Le particelle hanno dimensioni nell'intervallo 300 - 400 nm in concentrazione di 15 g/L. Permette la rimozione di funghi e evita la crescita di alghe con un effetto combinato al consolidamento strutturale.

Nano Estel® C.T.S. srl

Dispersione acquosa colloidale di silice di dimensioni nanometriche ( <20 nm) ad effetto consolidante e fissativo per pietre naturali, mattoni, terracotta, malte e intonaci. Può essere applicata in ambienti umidi ed ha un tempo di presa di 3-4 giorni.

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140 L’impiego di nanotecnologie e nanomateriali per il recupero e la conservazione dei beni culturali

Prodotti protettivi commerciali

Nanoacryl® Evonik Silice nanoparticellare (dimensione delle particelle: 20-60 nm) dispersa in monomeri acrilici utilizzata per coating ed adesivi

Nanopol® Evonik Silice nanoparticellare (dimensione delle particelle: 20-60 nm) dispersa in vari acetati utilizzata per coating ed adesivi

Nanopox® Evonik Silice nanoparticellare (dimensione delle particelle: 20-60 nm) dispersa in resina epossidica utilizzata per coating ed adesivi

Nanorepel® Buhler ZnO nanoparticellare disperso in acqua e solvente per coating

ORMOCER® Fraunhofer ISC Protettivo e coating nanostrutturato a base di metalli alcossidi modificati (silice modificata) con polimeri organici tipo acrilici

NANO

SILOXANE-100-

2770 WB

EST Enviro Science

Technologies

Soluzione solubile di acqua-sodiometilsilossano progettata per conferire idrorepellenza ad un'ampia varietà di superfici. La concentrazione del prodotto prima dell’applicazione è del 3%.

CETOSIL Cetelon Nanolacke Sono una serie di caoting acrilati nanocompositi con un contenuto fino al 30% di silice nanoparticellare.

Zycosil Zydex Industries Coating al 100% organosilano solubile in acqua di nanotecnologia. Forma legami silossanici Si-O-Si da nanosiliconizzazione sulla superficie.

NANOBYK BYK Additives &

Instruments

Dispersione di nanoparticelle di silice trattate superficialmente (Perticelle medie <100 nm) per coating soprattuto del legno.

Silres® Wacker Coating organosilani solubili in acqua (polifenilsilossani e polimetilsilossani). Vengono utilizzati come coating per una serie di materiali quali marmo, pietra arenaria, malta, legno, cotone, carta e ceramica.

SILRES BS38® Wacker Miscela a base solventi di silani, silossani e fluoropolimeri (< C8). Viene tilizzato come coating per pietre naturali, come marmo, travertino e granito, e ceramica.

Graffitichield™

nano

Rust-Oleum Sono silossani polieteri nanostrutturati con additivi UV dispersi in solventi organici utilizzati come antigraffiti.

Prodotti per la pulitura commerciali

Prodotto Marchio Caratteristiche

Nanorestore Cleaning®

CSGI (Consorzio per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase)

Sono prodotti sono fluidi nanostrutturati a base acquosa contenente un tensioattivo (anionico o non ionico) e una miscela di solventi organici in basse concentrazioni. Sono particolarmente efficaci nella rimozione di materiale grasso e polimeri organici da substrati porosi.

Nanorestore Gel®

CSGI (Consorzio per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande

I prodotti della serie Nanorestore Gel® sono idrogel chimici che non lasciano residui sulle superfici trattate. Grazie al loro network altamente ritentivo, possono essere

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Interfase) utilizzati anche su oggetti molto sensibili all'acqua, perché la loro azione è limitata all'intefase. I Nanorestore Gel® vengono venduti caricati con acqua, ma possono essere caricati anche con solventi polari (etanolo, etc.) o fluidi nanostrutturati a base acquosa della linea Nanorestore Cleaning®. Sono utilizzati per la pulitura di superfici (dipinte) sensibili all'acqua.

Nanorestore Paper®

CSGI (Consorzio per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase)

Sono nanoparticelle di idrossido di calcio disperse in etanolo o 2-propanolo alla concentrazione di 3g/L e 5g/L. Le formulazioni della serie Nanorestore Paper® sono impiegate per il controllo del pH e la deacidificazione di opere a base cellulosica. L'impiego di nanoparticelle assicura una rapida neutralizzazione dell'acidità e garantisce una buona penetrazione nel materiale.

Bookkeeper® Conservation Resources International

E’ un prodotto spray che permette di deacidificare opere a base cellulose. Sono nanoparticelle di idrossido di magnesio in un carrier non-reattivo con presenza di surfattante.

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APPENDICE II: analisi microscopiche nei beni culturali

A cura del Dr. Stefano De Monte A.P.E.Research Nanotechnology

La microscopia a scansione di sonda (SPM, Scanning Probe Microscopy) rappresenta un ramo della

microscopia fondamentale per la caratterizzazione superficiale a livelli nanometrici. Nei Beni Culturali la

microscopia SPM può essere usata per differenti tipi di applicazioni, come lo studio di degradazioni di

molteplici materiali quali pietra, carta, legno o per il miglioramento dei materiali utilizzati nella

conservazione e nella protezione di monumenti e i beni archeologici.

Le SPMs sono particolari tipi di microscopi che sfruttano variabili fisiche, al fine di costruire un’immagine

con ingrandimento molto alto (risoluzione fino a risoluzione atomica). In queste tecniche una sonda

molto forte è posizionata vicino alla superficie del campione (pochi nanometri), che esegue la scansione

della superficie e la misura dell’interazione con il campione in ciascun punto. L’immagine ottenuta è il

risultato di acquisizione di segnali sugli assi xyz. Queste tecniche forniscono un’accurata immagine

reale tridimensionale della superficie del campione (topografia 3D). È possibile acquisire differenti

proprietà fisiche (elettriche, magnetiche, ottiche, ecc.) del campione, ottenendo diverse immagini del

campione con diversi tipi di sonda.

La microscopia a forza atomica (AFM), la microscopia ottica a scansione di campo vicino (SNOM) e la

microscopia a effetto tunnel (STM) rappresentano diversi tipi di microscopie SPM utilizzate nel campo

dei beni culturali.

Microscopia a forza atomica (AFM)

Il più conosciuto ed utilizzato microscopio a scansione di sonda è il microscopio a forza atomica (spesso

abbreviato in AFM, dall'inglese Atomic Force Microscope) che è uno dei principali strumenti di

manipolazione della materia su scala nanometrica. E’ una tecnica estremamente accurata e versatile

per misurare la topografia di una superficie o le forze superficiali. Una punta molto sottile, montata alla

fine di una piccola molla, o cantilever, viene pontata in contatto con la superficie del campione che si

vuole studiare. La punta viene mossa lungo numerose linee di scansione, producendo un'immagine

tridimensionale con risoluzione ultra-alta. Questa tecnica è particolarmente utile per ottenere immagini

caratteristiche della superficie a scala nanometrica e per misurarne accuratamente le dimensioni.

Nel 2007 sono stati condotti degli studi [1] che hanno portato alla produzione di film nanocompositi di

polimetilmetacrilato (PMMA) o di polieteri funzionalizzati a base fluoro (PFPE) con nanoparticelle di

silice di diverse dimensioni e alla loro applicazione su marmi e su provini di carbonato di calcio costruiti

in laboratorio. Un aumento della rugosità del composito, registrata da misure di microscopia a forza

atomica (AFM), unitamente al sostanziale aumento dell’angolo di contatto dimostrano che si è in

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presenza di superfici superidrofobiche. Le proprietà superidrorepellenti acquisite possono garantire la

massima protezione all’azione dell’acqua sui monumenti lapidei.

Nel 2005, la microscopia AFM è stata usata come tecnica non-distruttiva per caratterizzare i

meccanismi di deterioramento di vetri storici [2]. Film sottili di ossidi di titanio e zirconio supportati su

entrambi i lati da “soda-lime glass” sono stati preparati per decomposizione organo-metallica. Come

mostrato dalla microscopia a forza atomica (immagini topografiche e di linea di profilo), sono stati

ottenuti film lisci con un valore di rugosità di circa 2 nm per ossidi di titanio e zirconio.

La microscopia AFM può essere anche usata per studiare la degradazione di fibre di cellulosa

direttamente sulla superficie di un documento. Nel 2006 Piantanida et al. hanno studiato la

biodegradazione delle fibre di cellulosa artificialmente indotta dall’inoculazione di funghi [3]. La

quantificazione degli effetti di degradazione può essere valutata dalle misure di paramenti di rugosità

superficiale. Nello stesso studio la rugosità superficiale della carta biodegradata artificialmente è stata

confrontata con un manoscritto biodegradato naturalmente.

Microscopia ottica a scansione di campo vicino (SNOM)

La microscopia ottica a scansione di campo vicino (SNOM, Near-field scanning optical microscopy) è

un’altra microscopia che appartiene alla famiglia delle scansioni di sonda. E’ una tecnica per indagini

nanostrutturate che rompe il limite della risoluzione “far field” sfruttando le proprietà delle onde

evanescenti. Tale microscopia consiste nell’acquisizione dell’immagine di un campione tramite una

sonda ottica, cioè una fibra ottica monomodale schermata e rastremata ad una estremità per ottenere

punte di diametro di almeno 50−200 nm. Essa acquisisce “punto per punto” la radiazione riflessa,

trasmessa o emessa proveniente dal campione in osservazione ed invia l’informazione convertita in

formato digitale ad un computer che la elabora, ricostruendo, a processo ultimato, l’immagine risolta

della scansione. La sonda deve essere avvicinata alla superficie del campione entro il “campo vicino”

cioè entro poche decine di nm dalla superficie di emissione poiché in questa regione sono ancora

rilevabili le componenti “evanescenti” del campo elettromagnetico la cui acquisizione permette di

risolvere l’immagine ben oltre il limite fisico, limite di Abbe, cui devono sottostare i microscopi ottici

classici a causa del fenomeno della diffrazione. Lo SNOM permette una caratterizzazione unica, dal

punto di vista ottico e della risoluzione di immagine, di oggetti di dimensioni nanoscopiche e risponde

quindi all’esigenza di analisi e caratterizzazione di strutture “nano” che sono ora di grande attualità nella

ricerca scientifico-tecnologica e nel campo industriale.

Cepek ha studiato film Si-C cresciuti su silicio da “chemical vapour deposition” (CVD) di molecole di C60

[4]. I processi di crescita sono stati studiati utilizzando in situ tecniche spettroscopiche e microscopiche

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L. R. 26/2005 ART. 21 - Progetto NANOCOAT

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quali la microscopia SNOP, con l’obiettivo di trovare i migliori protocolli che consentono la sintesi

controllata a priori di una nanostruttura definita.

In collaborazione con l’Università degli Studi di Brescia - Facoltà di Ingengeria, APE Research TriA-

SNOM ha studiato coatings usati per la protezione di statue e monumenti in pietra (ad esempio la

deposizione di SnO2 su substrati di silicone [5]).

Microscopia a effetto tunnel (STM)

Il microscopio a effetto tunnel (STM, dall’inglese Scanning Tunneling Microscope) è un potente

strumento per lo studio delle superfici a livello atomico. Questa microscopia può essere utilizzata non

solo in condizioni particolari come l’ultra-altovuoto, ma anche nell’aria, nell’acqua e in vari altri liquidi o

gas ambienti e a temperature che variano da quasi zero kelvin a poche centinaia di gradi Celsius. La

microscopia STM si basa sull’effetto tunnel. Quando una punta conduttrice è portata molto vicino alla

superficie da esaminare, una differenza di potenziale applicata tra i due può permettere agli elettroni di

attraversare il vuoto tra di loro per effetto tunnel. La corrente di “tunnelling" che ne risulta dipende dalla

posizione della punta, della tensione applicata e della densità locale degli stati del campione. Misurando

la corrente nei diversi punti della superficie del campione si ottengono immagini topografiche e altre

informazioni.

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Consorzio interuniversitario nazionale per la scienza e tecnologia dei materiali

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