Liceo Classico Alexis Carrel A.S. 2015-2016 · l’intento con cui il matematico tedesco lancia il...
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Marco Fedrizzi
Liceo Classico Alexis Carrel
Classe 5^K
A.S. 2015-2016
Introduzione ................................................................................................................................. 3
Origine della concezione formalistica ....................................................................................... 5
Formalismo di Hilbert ................................................................................................................ 8
Il programma formalista ............................................................................................................................ 8
L’intuizionismo ......................................................................................................................................... 10
Kurt Gödel e la posizione platonista ...................................................................................... 12
I teoremi di incompletezza ...................................................................................................................... 12
La posizione platonista ............................................................................................................................ 14
Oggi ............................................................................................................................................. 16
Conclusione ................................................................................................................................ 18
Bibliografia e sitografia ............................................................................................................. 19
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Nel percorso scolastico di quest’anno molti sono stati gli argomenti interessanti trattati: in particolare
mi ha colpito molto il tentativo che ho notato frequente, tra filosofi e scienziati in primis, di trovare
una teoria o un’idea in grado di spiegare tutta la realtà. Il punto massimo dove ho scoperto questa
pretesa è stato nei filosofi idealisti tedeschi, più di tutti studiando Hegel. In particolare, avendo da
poco affrontato il pensiero di Kant, mi ha incuriosito una differenza sostanziale tra i due: se il primo
era convinto di aver trovato una legge in grado di spiegare tutta la realtà, ovvero la coincidenza tra
razionalità e realtà che si compie in un movimento dialettico, il secondo è del parere opposto: Kant
sostiene infatti che c’è una parte della realtà che non è conoscibile dall’uomo, il cosiddetto noumeno.
Infatti egli cerca di spostare il ruolo principale del processo conoscitivo dall'oggetto al soggetto in
tutta la sua riflessione (infatti si può parlare di "rivoluzione copernicana") ma proprio in ciò si accorge
di un punto della realtà che egli non è in grado di conoscere razionalmente. Egli capisce così che, in
fondo, una conoscenza assoluta e perfetta non è perseguibile fino al termine ultimo in quanto la realtà
non è posta dall'uomo.
D'altra parte il punto di partenza di Hegel è la negazione sistematica di questa certezza kantiana: non
è concepibile dunque che esista qualcosa di non conoscibile, questa concezione -sempre secondo il
filosofo idealista - è semplicemente un residuo del dogmatismo, cioè quella dottrina che afferma il
primato dell'oggetto sul soggetto. L'imperativo di Hegel è dunque lo spiegare tutta la realtà in modo
razionale ed in modo che nulla possa esulare. Il suo motto è infatti "ciò che è reale è razionale, ciò
che è razionale è reale". Così facendo egli è convinto di aver trovato una legge che spieghi tutta la
realtà in modo da negare una qualsiasi dipendenza dell'uomo, affermandone la possibilità di
onniscienza.
La differenza più evidente tra i due filosofi, che sta alla base di tutto questo è proprio la diversa
concezione che hanno della realtà: Kant riconosce che essa gode di una autonomia, di una
indipendenza ontologica rispetto al soggetto, mentre Hegel è convinto del contrario. A questo
proposito io, fortemente convinto che la posizione più vera fosse quella di Kant, ho deciso di provare
a dimostrare in maniera oggettiva e rigorosa la veridicità di questa posizione. Così ho deciso di
spostarmi in ambito matematico, in particolare andando ad analizzare la disputa riguardo alla natura
degli enti matematici. Ero infatti convinto che almeno in matematica si potesse giungere ad una verità
oggettiva e inconfutabile. Dunque ho deciso di studiare e presentare le due posizioni principali che
riflettono riguardo all’entità degli oggetti matematici: da un lato coloro che ritengono che gli enti
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matematici non abbiano una loro natura propria e dall’altro la posizione che sostiene la loro
indipendenza ontologica. Rispetto alla prima concezione, cercherò di mostrare da dove essa derivi e
quali siano i suoi fondamenti, per poi guardare alla figura di Hilbert. Considerando egli come punto
di apice massimo di questa posizione, espliciterò quindi i suoi progetti e le sue idee, parlando del
programma formale. Proprio a partire da questo proporrò la figura di Gödel, evidenziando
l’importanza che ha avuto soprattutto grazie ai teoremi di incompletezza, e mostrerò la posizione
platonista di questo matematico. Da ultimo sarà interessante notare come il dibattito sia tutt’oggi
acceso e i teoremi di Gödel non abbiano affatto chiuso la discussione riguardo la natura degli oggetti
matematici. Arriverò dunque ad una conclusione in parte diversa dalle premesse, accorgendomi che
si studia e si approfondisce una cosa per scoprirla, e non per imporre la propria idea su di essa.
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In generale la matematica fu per lungo tempo considerata come il modello della conoscenza certa e
garantita; le sue verità erano inattaccabili e dotate di garanzia assoluta. Nella matematica si
individuavano le prime verità e certezze, poi potevano ad esse seguire certezze e verità di altra natura,
per esempio metafisiche. Proprio per questa certezza diverse scuole di pensiero ipotizzarono di
fondare sulla matematica, e sul suo metodo, il proprio pensiero filosofico.
Un esempio è la scuola dei pitagorici del VI - V secolo a.C., che sosteneva che tutta la realtà fosse
spiegabile con numeri o rapporti numerici. Pitagora e la sua scuola, il cui celebre motto fu: “Tutto è
numero!”, arrivarono a fondare la propria esistenza su questa convinzione.
Un altro personaggio che sognò di basare il proprio pensiero sul metodo matematico fu Cartesio:
affascinato dalla scoperta galileiana che i fenomeni della natura possono essere descritti in linguaggio
matematico, egli s’immaginò che il nuovo metodo potesse fondare un sapere assolutamente certo di
tutto il reale:
“Quelle lunghe catene di ragioni, assolutamente semplici e facili, che i geometri impiegano per le loro
dimostrazioni più difficili, mi avevano suggerito l’idea che tutte le cose accessibili alla conoscenza degli uomini
si collegassero fra loro a quello stesso modo”1.
Seguito a ruota da filosofi come Baruch Spinoza (1632-1677), il quale scrisse un libro nel quale
trattava con assiomi, teoremi e dimostrazioni questioni come Dio, le passioni umane e la libertà,
oppure Leibniz (1646-1716), che invocò una “mathesis universalis”, il sogno di Cartesio aveva convinto
gli intellettuali dell’800 positivista.
Tuttavia ben presto la matematica assunse un’altra connotazione: uno dei fattori che più ha
contributo a ciò, avvicinandosi ad una concezione della matematica e degli oggetti matematici simile
a quella di Hilbert, è il crollo delle certezze avvenuto fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo in
ambito geometrico e algebrico. In particolare quello che mi interessa approfondire è l’apporto che le
geometrie non euclidee hanno costituito a favorire tale concezione: il punto critico su cui queste
geometrie si inseriscono è il quinto postulato di Euclide:
1 R. CARTESIO, Discorso sul metodo. Laterza, Roma-Bari 2004, parte seconda
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“Se due rette tagliate da una trasversale formano, da una stessa parte, angoli la cui somma è minore di due
retti, allora le due rette si incontrano da quella parte”2.
Pur apparendo già “poco evidente”, esso fu posto da Euclide come postulato per la necessità che egli
giudicava stringente di questo fatto. Proprio per questo
per quasi due millenni i matematici provarono a
dimostrare questo postulato basandosi esclusivamente
sui quattro precedenti. In particolare Gerolamo Saccheri
(1667-1733), un gesuita e matematico italiano, assunse
come vera la negazione del quinto postulato euclideo
sperando di giungere ad una contraddizione. In effetti
egli giunse a quella che considerò una contraddizione,
che considerò tale in base al postulato dell’infinità della
retta. Il punto critico è proprio questo: su cosa si basa la
contraddizione? Proprio sulla natura stessa della retta;
Saccheri stesso dice che “Hypothesis anguli acuti est
absolute falsa; quia repugnans naturae lineae rectae”3.
Proprio qui si innesta la riflessione di Carl Friedrich
Gauss (1777-1855), secondo la quale la geometria
ottenuta con la negazione del quinto postulato non abbia in sé niente di contraddittorio, ma piuttosto
presenti un diverso punto di vista: gli oggetti matematici non vengono più guardati come aventi una
natura in sé, ma la loro natura deriva proprio dal rapporto che ognuno di essi ha con gli altri. Questa
presa di coscienza, confermata anche da sempre nuove teorie, prende piede e così emerge
chiaramente che cosa sia un oggetto matematico: esso è un qualunque termine che si trovi in un
postulato ed è definito implicitamente dal postulato stesso, poiché esso lo mette in relazione con altri
oggetti matematici. Da ciò emerge in modo evidente ciò a cui già si accennava: un oggetto matematico
non ha una propria natura, ma è definito dalle relazioni che lo legano ad altri oggetti. Quindi il
problema dei matematici non è più quello di verificare una veridicità dei postulati che fondano una
teoria o delle dimostrazioni che ne derivano, quanto più operare con un rigore logico ineccepibile,
senza contraddizioni logiche. Infatti dal momento che gli oggetti matematici non hanno una loro
natura, non ha più senso cercare di affermare se tale natura è vera o falsa.
2 EUCLIDE, Elementi, postulato V 3 L’ipotesi dell’angolo acuto è senza ombra di dubbi falsa, perché è contraria alla natura della retta”. G. SACCHERI, Euclides ab omni naevo vindicatus, Milano 1733, Proposizione XXXIII p.89
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Dunque alla fine del XIX secolo si giunge al riconoscimento che la matematica non è una scienza
naturale ma una creazione dell’intelletto umano, tanto che Bertrand Russell (1872-1970) arrivò ad
affermare nel 1901 che:
“Così la matematica può essere definita come la materia nella quale non sappiamo mai di che cosa stiamo
parlando, né se ciò che stiamo dicendo è vero”4
4 B. RUSSELL, La matematica e i Metafisici, in Misticismo e Logica, Milano 1993, p. 72
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David Hilbert fu un matematico tedesco, nato a
Königsberg il 23 gennaio 1862 e morto il 14 febbraio
1943 a Gottinga. Dopo essere stato insignito della
prestigiosa cattedra di Matematica all’università di
Gottinga nel 1895, approfittò del congresso dei
matematici che si tenne a Parigi nel 1900 per presentare
una propria relazione; essa si basava sui risultati
ottenuti in ambito matematico nel secolo XIX
precedentemente spiegati: in particolare egli
riconosceva l’importanza della geometria non euclidea
sviluppata da Gauss considerandola una delle più notevoli conquiste del XIX secolo e aveva lo scopo
di prevedere in quale direzione si sarebbero mossi i progressi futuri. Egli dichiarava:
“Se vogliamo farci un’idea del probabile sviluppo della conoscenza matematica nell’immediato futuro dobbiamo
passare in rassegna davanti alla nostra mente le questioni irrisolte e guardare ai problemi che la scienza
moderna ha di fronte e la cui soluzione ci aspettiamo dal futuro.”5
Questa necessità deriva dal fatto che a seguito della scoperta delle geometrie non euclidee si pose la
netta distinzione tra ciò che è vero e ciò che è coerente: se prima la geometria si basava sulla realtà
che faceva da garante, ora è chiaro che non può più essere così. Allora cercando un fondamento ad
essa Hilbert, accantonata l’idea di costruire questa teoria su un “modello”, propese per l’ipotesi di
fondare la matematica su idee chiare, semplici e precise. Infatti anche se avesse trovato un “modello”
di una teoria all’interno di un’altra, questo non avrebbe fornito una prova di reale e assoluta coerenza,
in quanto la coerenza della teoria sarebbe potuta derivare dalla coerenza della teoria sulla quale la
prima si fonda. Egli intuì infatti che era necessaria una dimostrazione di coerenza assoluta, soprattutto
per l’aritmetica che a quel tempo fungeva da fondamento per tutta la matematica. È proprio questo
l’intento con cui il matematico tedesco lancia il suo programma al congresso di Parigi nel 1900: creare
5 Il discorso originale “Mathematische Probleme” e apparso in Gottinger Nachrichten, 1900, pp. 253-297, e in Archiv der Mathematik und Physik, 1901, 44-63 e 213-237
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una cornice del tutto priva di significato in cui i simboli, puramente sintattici, potessero essere
manipolati a piacimento tramite regole predeterminate.
Il suo programma si può riassumere sinteticamente nei seguenti punti:
a) Sostituire tutte le teorie della matematica classica con le loro versioni formalizzate. La
“Matematica” deve diventare il complesso di questi sistemi formali;
b) Dimostrare la non-contraddittorietà della “Matematica”;
c) Dimostrare la non-contraddittorietà della “Matematica” nella metamatematica, la quale
dispone di quegli strumenti logici e deduttivi che sono ammessi nella matematica finitista.
Questo sistema viene chiamato sistema formale. Un sistema formale è dunque un insieme di simboli,
con regole che permettono di passare da una stringa di simboli ad un’altra. Alcune stringhe sono
poste all’inizio come assiomi, e il matematico ha come compito di utilizzare le regole sopracitate per
dedurre nuove stringhe di simboli a partire dagli assiomi. Per capire che cosa è una teoria formale si
analizzi l’esempio fornito da Hofstadter6:
Il sistema “pq-”
I simboli di questo sistema sono appunto: p q -
Le lettere p, q, e il trattino. Questo sistema ha un numero infinito di assiomi, quindi serve un
modo per dire se una stringa è assioma o meno:
DEFINIZIONE: xp-qx è un assioma, se x è composto solo da trattini.
Si noti che “x” deve significare entrambe le volte la medesima stringa di trattini, quindi ---p-q---
è un assioma, mentre xp-qx- non lo è (perché “x” non appartiene al sistema pq-).
REGOLA D’INTERFERENZA: supponiamo che x, y, e z rappresentino stringhe contenenti solo
trattino. Se xpyqz è un teorema, allora xpy-qz- è un teorema
Agendo in questo modo si possono dedurre formalmente altre stringhe usando la regola
d’interferenza.
6 Si veda D. R. HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: An Eternal Golden Braid, Penguin Books, 1979, pp. 54–62
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Un esempio di tale proposito è il secondo problema proposto da Hilbert, che verteva a dimostrare
che gli assiomi dell’aritmetica sono compatibili, cioè che partendo da essi e procedendo attraverso
un numero finito di passaggi logici non si può mai giungere a risultati contraddittori.
Infatti un’altra preoccupazione del matematico era quella di configurare l’aritmetica come una sorta
di “macchina della verità” in cui, data una proposizione, si dovesse sempre poter affermare “vero” o
“falso”. In pratica data una proposizione, doveva essere conseguenza degli assiomi o essa stessa o la
sua negazione, in pratica voleva creare un sistema completo, ovvero un sistema nel quale ogni verità
matematica fosse dimostrabile nel sistema formale e viceversa.
Oltre a questi problemi Hilbert lasciò in eredità alla matematica un volumetto dal titolo Grundlagen
der Geometrie, nel quale il matematico tedesco si sforzò di dare un assetto puramente formale e
assiomatico alla geometria, ritenendo che negli Elementi Euclide aveva disposto di numerose
assunzioni tacite, di definizioni prive di significato e di difetti dal punto di vista del rigore logico.
Partendo da tre elementi e sei relazioni indefiniti, Hilbert formulò per la sua geometria un insieme di
ventuno assunzioni, detti ventuno assiomi di Hilbert, volti ad esplicitare e completare i cinque assiomi
e i cinque postulati di Euclide. I Grundlagen si aprivano con una celebre frase di Kant:
“ogni conoscenza umana comincia dunque con intuizioni, di qui passa a concetti, e termina con idee7.”
Tuttavia l’assetto assunto dai Grundlagen fu ben diverso da una concezione kantiana. Esso metteva in
rilievo il fatto che i termini non definiti della geometria devono essere assunti senza attribuire loro
altre proprietà oltre a quelle indicate negli assiomi. Bisognava abbandonare il livello empirico-
deduttivo delle vecchie idee geometriche, e si dovevano concepire i punti, le rette e i piani (ovvero i
tre elementi indefiniti) semplicemente come elementi di certi insiemi dati. E allo stesso modo le
relazioni indefinite (essere su, essere in, trovarsi tra, essere congruente con, essere parallelo a, essere
continuo) erano da considerarsi come semplici astrazioni che non indicavano altro se non una
corrispondenza o una rappresentazione.
Alla base di questo percorso sta quindi, come abbiamo visto, la concezione che la matematica non è
una scienza naturale ma una creazione dell’intelletto umano, considerando esso come la base di tutte
7 I. KANT, Critica della Ragion Pura, Gli Adelphi, Milano 1999, p.703 e D. HILBERT, Fondamenti della geometria. Con i supplementi di Paul Bernays, Franco Angeli Editore, Milano 2009
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le attività mentale, anche quelle intuitive dunque, dell’uomo. Egli infatti sostiene che gli oggetti
matematici ci sono dati dall’intuizione, perché:
“qualcosa ci è già dato in anticipo nella rappresentazione, cioè certi oggetti concreti extra-logici che esistono
intuitivamente come esperienze immediate prima di ogni pensiero”8
Ovvero gli enti matematici, secondo Hilbert, esistono nel momento in cui il soggetto ne fa
un’esperienza intuitiva. Questo porta dunque alla certezza di avere il compito, la possibilità e il dovere
di conoscerli, come esprime in questa frase lo stesso matematico:
“al posto dello stolto ‘ignorabimus’, la nostra parola d’ordine è invece: noi dobbiamo sapere, noi sapremo”9
8 D. HILBERT, Die Grundlegung der elementaren Zahlenlehre, «Mathematische Annalen», 1931, vol. 104, p. 486 [Trad. it. D. HILBERT, Ricerche sui fondamenti della matematica, a cura di VITO MICHELE ABRUSCI, 1985, Bibliopolis, Napoli, p. 314] 9 D. HILBERT, Naturerkennen und Logik, 1970, p. 387 in D. HILBERT, Gesammelte Abhandlungen, vol. III, 1970,
SpringerVerlag, Berlin [Trad. it. in D. HILBERT, Ricerche sui fondamenti della matematica, a cura di VITO MICHELE
ABRUSCI, 1985, Bibliopolis, Napoli, p. 311]
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Kurt Gödel fu un matematico austriaco nato a Brno il 28
aprile 1906 e morto a Princeton, in New Jersey, il 14 gennaio
del 1978. Nel 1928 partecipò ad una conferenza a Bologna
nella quale Hilbert discuteva delle questioni di completezza
e consistenza dei sistemi matematici, a seguito della quale
conseguì risultati importantissimi: nel 1931 infatti pubblicò
un saggio nel quale dimostrava i famosi due teoremi di
incompletezza.
Proprio come per i pitagorici la scoperta del numero
irrazionale √2, e più in generale delle grandezze incommensurabili costituì un muro insormontabile
contro il quale furono costretti a scontrarsi e che costituì per questi matematici la fine di un’idea sulla
quale era improntata tutta la loro vita, allo stesso modo questi due teoremi di Gödel rappresentarono
un muro sul quale il sogno di Hilbert si infranse.
Infatti il primo teorema di incompletezza può essere espresso nel seguente modo:
“Sia T una teoria formale contenente la teoria dei numeri. Se T è coerente allora non è completa”10.
Questa teorema fece così crollare il sogno di Hilbert dimostrando che la teoria dei numeri non solo
non era completa, ma che essa non è neppure completabile. Ovvero in qualunque degli infiniti modi
si decida di scegliere assiomi e regole d’interferenza, ci saranno sempre delle verità matematiche non
dimostrabili nel sistema formale scelto.
La dimostrazione di Gödel partiva da un enunciato che suscitava delle antinomie: “Questo enunciato
è falso”. Il matematico austriaco decise di sostituire la verità con la dimostrabilità ottenendo: “Questo
enunciato non è dimostrabile”. Sostanzialmente considerato l’enunciato
10 Nella forma più estesa il teorema enuncia: ““Se una qualsiasi teoria formale T adatta ad abbracciare la teoria dei numeri è coerente e se gli assiomi del sistema formale dell'aritmetica sono assiomi o teoremi di T, allora T è incompleto. Cioè, c'è un enunciato S della teoria dei numeri tale che né S né non-S è un teorema della teoria. Ora, o S o non-S è vero; c'è allora un enunciato vero di teoria dei numeri che non è dimostrabile”; K. GÖDEL, Über formal unentscheidbare Sätze der “Principia mathematica” und verwandter Systeme, 1931
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F: “F non è dimostrabile”
Gödel dimostrò che
“se F è dimostrabile allora nonF è dimostrabile”
Di conseguenza si deduce che F non è dimostrabile, altrimenti, avendo supposto T coerente, anche
nonF lo sarebbe. In seguito Gödel dimostrò che la proposizione F è vera; così si ha che la
proposizione F è vera ma
non formalmente
dimostrabile, ovvero la
teoria T non è completa.
Il secondo teorema di
incompletezza
distruggeva invece quello
che era l’altro grande
sogno di Hilbert, ovvero
quello di trovare, almeno
per una parte
dell’aritmetica (la
cosiddetta matematica
finistica), una prova di assoluta coerenza. Il teorema enuncia:
“La coerenza di un sistema che abbraccia la logica e la teoria dei numeri non può essere stabilita se ci si limita
a quei concetti e a quei metodi che possono essere rappresentati formalmente nel sistema della teoria dei
numeri.”
Infatti Gödel, partendo dall’enunciato:
A: “L’aritmetica è coerente”
Dimostrò l’implicazione:
“A implica che F è dimostrabile”
Da ciò deriva che A non è dimostrabile (altrimenti anche G sarebbe dimostrabile, e ciò è impossibile
per il primo teorema), ovvero deriva che non è dimostrabile la coerenza dell’aritmetica. Infatti il
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secondo teorema di incompletezza dimostra che è impossibile una dimostrazione di assoluta
coerenza all’interno dell’aritmetica stessa.
Nonostante lo stesso Gödel abbia tenuto a precisare all’inizio del suo articolo che le conclusioni a
cui era giunto non confutavano del tutto il programma formalista, in quanto potevano esistere in
linea teorica dimostrazioni di assoluta coerenza e completezza di teorie finistiche “di altro genere”,
tuttavia i suoi teoremi ebbero un impatto enorme, ponendo fine alle pretese di tipo formale di una
matematica che si autogiustifica. Il merito di Gödel si può dunque individuare nell’aver mostrato i
limiti dell’idea hilbertiana di spostare l’attenzione dell’intervento sulla forma tralasciando il contenuto.
Risulta così pregiudicata per sempre l’ambizione della scienza, il suo ideale, ovvero quello di poter
dedurre da una serie di assiomi tutti i fenomeni del mondo naturale.
Ma se ciò a cui in un primo momento sembra essere giunti è una sfiducia completa nel giungere alla
certezza matematica attraverso i metodi convenzionali, è tuttavia interessante notare come questo
riconoscimento, questa presa di coscienza non abbia soffocato la ricerca e la produzione di nuovi
teoremi ma al contrario
“ha finito con lo stimolare, più che attenuare, la creatività matematica”11
in modo che tutta la logica usata da Gödel per arrivare alle dimostrazioni dei due teoremi costituisce
un fondamento imprescindibile di tutta la matematica del 1900.
A seguito delle proprie scoperte, Gödel si oppose alla concezione dominante fino a quel tempo nella
storia della filosofia della matematica riguardo all’entità degli oggetti matematici, ovvero quella
abbracciata, tra gli altri, da Hilbert. Il matematico austriaco infatti sposò quella che venne in seguito
definita concezione platonista: Egli infatti sosteneva che la matematica non fosse una creazione
dell’uomo, ma che i concetti e gli enti matematici esistessero a prescindere dalla mente umana. A
questo proposito nel 1951 pubblicò uno scritto dal titolo “Alcuni teoremi basilari sui fondamenti
della matematica e le loro implicazioni filosofiche”. In esso egli mostrava come la matematica non
possa essere una libera creazione umana innanzitutto perché se così fosse, l’ignoranza su alcuni aspetti
degli enti creati può derivare da una mancanza di consapevolezza di essi; ma giunti ad un insuperabile
livello di chiarezza come quello presente a quel tempo, ciò non aiuta alla risoluzione di problemi
11 C. B. BOYER, Storia della matematica, Oscar Saggi Mondadori, Cuneo 1998, p. 696
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matematici12. Inoltre egli si accorse che in questo caso per spiegare alcune proprietà di una data
creazione si dovrebbe fare ricorso ad un’altra creazione (come esempio si considerino le proprietà
degli interi, spiegabili solo tramite gli insiemi interi)13.
Tutto ciò, insieme al fatto che i matematici non possano stabilire a piacere la validità dei teoremi, fece
propendere Gödel per una posizione di tipo platonista, sostenendo che la realtà matematica è non
sensoriale ed esiste indipendentemente dalle azioni o dalle disposizioni della mente umana, che viene
solamente percepita da essa. Questa convinzione, seppure impopolare tra i matematici del tempo,
portò Gödel ad affermare:
“La verità, credo, è che questi concetti costituiscano una realtà oggettiva per proprio conto, che noi non
possiamo creare o cambiare, ma solo percepire e descrivere.”14
12 “Prima di tutto se la matematica fosse una nostra libera creazione, potrebbe ancora esservi l'ignoranza su aspetti degli enti creati, è vero, ma solo per la mancanza di una chiara consapevolezza di ciò che abbiamo creato. Tale ignoranza avrebbe dovuto quindi scomparire appena ottenuta una piena lucidità. Però i progressi moderni nei fondamenti della matematica hanno ottenuto un livello di chiarezza insuperabile, ma questo non è stato in pratica di nessun aiuto per la soluzione di problemi matematici.” K. GÖDEL, Alcuni teoremi basilari sui fondamenti della matematica e le loro implicazioni filosofiche, (1951) in Scritti scelti: 1933-1964, a c. di G. LOLLI, Bollati Boringhieri, Torino 2011 13 “In terzo luogo, se gli enti matematici sono nostre creazioni, allora evidentemente gli interi e gli insiemi interi devono essere due creazioni diverse, la prima delle quali ha bisogno della seconda. Tuttavia per dimostrare certe proprietà degli interi è necessario il concetto di insieme di interi. Così in questo caso, per trovare proprietà che noi abbiamo dato a degli oggetti della nostra immaginazione, dobbiamo prima creare certi altri oggetti – una situazione davvero strana!”. Ivi. 14 Ivi.
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Tutt’oggi il dibattito intorno alla natura degli enti matematici è fervente. Gli uni si basano sui risultati
e sulle concezioni di Gödel, in particolare sulla convinzione degli oggetti matematici come oggettivi
e aventi una propria natura indipendente dall’uomo. Questa concezione viene descritta nella seguente
frase di Godfrey Hardy:
"Io credo che la verità in matematica risieda al di fuori di noi, che la nostra funzione sia di scoprirla o di
osservarla e che i teoremi che noi descriviamo ampollosamente come nostre “creazioni” siano semplicemente gli
appunti delle nostre osservazioni”15
Questi matematici sono infatti convinti che l’oggettività e la razionalità della matematica dipenda
dalla natura e dalle caratteristiche degli oggetti matematici. Per riassumere sinteticamente questa
posizione si possono analizzare le seguenti affermazioni di Laurent Lafforgue (1966 - ):
“una cosa che è molto importante per noi matematici, è una cosa completamente evidente per noi è che ci sono
degli oggetti matematici, degli oggetti che hanno una realtà, che non dipende da noi. E in realtà la prima
ragione, il primo bene per noi, il vero bene della matematica è il carattere obiettivo, il fatto che in matematica ci
sono degli oggetti che noi possiamo studiare, ci sono in matematica delle verità che non dipendono da noi, e in
verità in matematica le verità si impongono su di noi. In un modo direi strettamente rigoroso. In matematica
non possiamo sognare di cambiare la verità, la verità non la decidiamo noi. […] Noi non possiamo cambiare
la verità ed è per questo che la verità per noi è un bene, un cibo, un alimento, ci alimenta tutto questo.”16
Dalla parte opposta troviamo invece tutti quei matematici che notano come proprio la logica
matematica che con le sue tecniche e i suoi risultati, in particolare quelli ottenuti da Gödel, si sia
strutturata in modo da rendere sempre più improponibile una concezione di tipo platonista. In
particolare essi negano una pre-esistenza degli oggetti matematici al nostro pensiero. Sono da questo
punto di vista emblematiche le prime pagine del libro di Reuben Hersh:
“«Ma che cos’è la matematica veramente?» […] Quello che cerco di mostrare è che, da un punto di vista
filosofico, la matematica deve essere considerata un’attività umana, un fenomeno sociale che fa parte della
cultura umana. E, in quanto tale, evoluta storicamente e intelligibile solo in un contesto sociale. Questa
concezione è quella che chiamo la concezione umanista. […] Attaccando il platonismo e il formalismo e le
filosofie dei novelli seguaci di Frege, voglio difendere il nostro diritto di far matematica così come la facciamo.
15 G. Hardy, A mathematician's Apology, Electronic Edition, Version 1.0 March 2005, p. 35
16 Laurent Lafforgue, Il fascino della ricerca: dal particolare al tutto, intervento al Meeting di Rimini, 27/08/2014
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Questo libro nasce dall’amore per la matematica e dalla gratitudine che provo verso i suoi creatori.
Naturalmente, è una cosa del tutto ovvia che la matematica sia un’attività umana, che si svolge all’interno di
una società e che si sviluppa storicamente. Tuttavia, questa semplice osservazione è in genere considerata
irrilevante per rispondere al problema filosofico: «Che cos’è la matematica?». Ma senza tener conto del contesto
sociale, i problemi della filosofia della matematica diventano intrattabili. Se inseriti in un contesto sociale,
invece, possono essere descritti e analizzati ragionevolmente”17
17 R. Hersh, Cos’è davvero la matematica, Baldini e Castoldi, Milano 2001, p. 11, 12.
Marco Fedrizzi – 5^k – Liceo classico Alexis Carrel
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In conclusione a questo percorso mi sono dunque accorto che la realtà è molto più complessa di
quanto sembri, ed è impossibile affiggere ad un personaggio una concezione specifica e ad un altro
un’altra. In particolare mi sono accorto che, partendo dall’idea di confutare gli idealisti dimostrando
che la realtà è oggettiva, sono caduto nel loro stesso errore cercando di applicare questa mia idea a
tutto. E quindi anche riguardo agli oggetti matematici la mia idea di dimostrarne una oggettiva
indipendenza si è scontrata con il fatto che, la stessa realtà matematica è molto più complicata. Risulta
così quanto mai vera la seguente affermazione:
“Il soggetto è pronto a ricevere nel suo spazio l’oggetto; ma non è in via previa calcolabile che cosa debba
risultare da questa accoglienza. Egualmente l'oggetto è pronto a manifestarsi nello spazio a sua disposizione;
ma pure quanto ad esso non è possibile indovinare un eventuale sviluppo.”18
Nello studio di questi concetti mi è capitato che sorprendentemente il risultato ottenuto sia ben
diverso dalla mia posizione di partenza, che vedeva proporre io stesso una posizione di tipo idealista,
in quanto volevo applicare la mia idea, dell’oggettività degli enti matematici, a tutto in modo
indiscriminato. Invece risulta più che mai vero che
“Si studia per conoscere una cosa, non per pensarla19”.
18 HANS URS – VON BALTHASAR, Verità del mondo, TeoLogica volume uno. Editoriale Jaca Book Spa, Milano, 1987. 19 “Ego quid sciam quaero, non quid credam”, AGOSTINO D’IPPONA, Soliloquia I, III, 8
Marco Fedrizzi – 5^k – Liceo classico Alexis Carrel
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AGOSTINO D’IPPONA, Soliloquia I, III, 8
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