LIBRO CHIESA PARROCCHIALE - Il motore di ricerca … · rocce davanti al Signore, ma il Signore non...

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Don Maurizio Corbetta PERCORSO SIMBOLICO-ARTISTICO DELLA CHIESA PARROCCHIALE

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Don Maurizio Corbetta

PERCORSO SIMBOLICO-ARTISTICO

DELLA CHIESA PARROCCHIALE

Percorso artistico simbolico della Chiesa parrocchiale 2

«Si parlerà del Signore alla generazione che viene; al popolo che nascerà diranno: «Ecco l’opera del Signore!».

(Sal. 22,32)

A tutti coloro che, con il loro pensiero,

con il loro contributo, con il loro lavoro,

il loro incoraggiamento hanno reso possibile questa grande opera.

Sono certo, come dice il salmo, che la loro discendenza sarà benedetta.

Don Maurizio

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Alla soglia del grande giorno di

PENTECOSTE la comunità cristiana di Rovello Porro vuole,

insieme con Maria la Madre di Gesù, vivere l’attesa del dono

dello Spirito santo preparandosi, con la preghiera assidua,

ad accogliere il Suo Vescovo Card. Dionigi Tettamanzi

per la

CONSACRAZIONE DELL’ALTARE

che sarà, per sempre, il segno del suo assiduo radunarsi

per lo Spezzare del pane nella memoria della Pasqua

di Cristo Signore.

DOMENICA 15 GIUGNO 2003 ORE 10.00

SOLENNITA’ DELLA SS. TRINITA’

A questa celebrazione solenne sii presente anche tu per manifestare la gioia serena del pregare insieme

e il desiderio ardente di essere nella comunione fraterna.

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INTRODUZIONE Sarà forse il tempo che ci aiuterà a renderci conto del gesto

storico di questo grande intervento, perché dover rendere significativa una chiesa è compito di particolare importanza e segno di un’epoca della fede destinata a trasmettersi alle future generazioni per secoli .

Questo collocarci nella storia ci rende sempre più consapevoli di

non essere noi gli unici a percorrere il cammino della fede, ma siamo inseriti tra coloro che ci hanno preceduto e dobbiamo essere traccia e luce per coloro che ci seguiranno. Questo cammino è stato iniziato, almeno per quanto riguarda questa chiesa, da coloro che l’hanno costruita con le sue proporzioni così grandiose perché fosse meglio evidente come “città posta sulla cima del monte alla vista di tutti” e a noi l’hanno consegnata perché fossimo capaci di continuare quest’opera e portarla a termine, cioè renderla capace di esprimere tutte le sue potenzialità, prima tra tutte quella di “dire” Dio su questa terra, essere luogo di presenza e di comunione tra Dio e gli uomini.

Ora giunti a una tappa sicuramente importante dell’opera occorre

fermarsi per raccogliere le idee e tracciare un cammino che indichi il percorso di lettura così che tutti coloro che vi entreranno possano dire, attraverso la bellezza dell’arte, la frase di Giacobbe

«Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo

sapevo» «Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo» (Gen 28,17)

Augurando a tutti questa straordinaria esperienza di Dio che,

come a Giacobbe ha cambiato la vita, vogliamo ora insieme approfondire alcuni aspetti catechetici, artistici e simbolici che ci aiutino a comprenderne la sua grandezza e la sua bellezza.

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IL PERCORSO ARTISTICO SIMBOLICO

La chiesa parrocchiale è dedicata agli apostoli Pietro e Paolo. La

chiesa dunque narra la storia di Pietro e di Paolo, così come la tradizione della fede cristiana la legge nel libro degli Atti degli apostoli .

L’INGRESSO VARCARE LA SOGLIA DEL TEMPIO L’impatto iniziale è certamente un impatto “eccezionale”, inteso

nel senso di “fuori dal comune”, visto che una persona non trova certamente quel percorso architettonico o figurativo che solitamente si trova nelle chiese o che comunemente è considerato, nell’immaginario collettivo, come simbolo dell’arte sacra. Ma se si mette in ascolto e si lascia avvolgere dalla luce e dal colore scopre sicuramente una forte emozione capace di essere segno di una Presenza .

Rapporto di pace e di armonia, dunque, che si pone all’origine della vita, del modo con cui Dio si comunicava all’uomo, passeggiando con lui nel giardino dell’Eden, nella familiarità della brezza di un vento leggero. Dio si manifesta dunque nella dolcezza, da lui affidata all’uomo come una missione.

Non è forse questa l’esperienza di Elia che scopre la presenza di Dio non nella “forza” di un tuono, di un terremoto e di un fuoco, ma nel mormorio di un vento leggero?

Gli fu detto: «Esci e fermati sul monte alla presenza

del Signore». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. (1Re 19, 11-12)

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Chi varca la soglia si trova investito da questa croce di luce che lo avvolge e lo sospende nel tempo, quasi come se la chiesa respirasse dello stesso respiro dell’universo con la stessa sensazione che creano i meravigliosi suoni dell’adagio dell’ottava sinfonia di Bruckner.

Varcare la soglia del tempio è una cosa molto importante, ne parleremo a proposito della guarigione dello storpio, e i pellegrini medievali lo sapevano bene. Varcare la soglia del tempio significa entrare nella casa del Signore. La porta è simbolo di Cristo:

Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà

salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo.(Gv 10,9) In qualunque luogo si volge lo sguardo, appena entrati, si è

ricondotti sempre ad un centro. Se volgo lo sguardo al pavimento mi accorgo che la porta di

ingresso è esattamente uguale in grandezza alla striscia pavimentale centrale che conduce all’altare i l quale, essendo grande come la porta di ingresso, viene subito colto come il centro della chiesa da colui che entra. Cristo è la porta; la Via, la Verità e la Vita; l’Eucaristia.

Se volgo lo sguardo verso l’alto mi accorgo che la chiesa è

attraversata da una luce azzurra paradisiaca che partendo dalla porta d’ingresso conduce al grande Cristo in mandorla al centro della cupola.

Se invece guardo le pareti subito vengo abbracciato da una luce gialla, calda come il sole, preziosa come i fondi oro bizantini, simbolo della presenza della divinità che dall’agnello dell’abside abbraccia tutta la chiesa fino a raggiungere il visitatore che entra.

Già alla soglia di ingresso il visitatore può dunque simbolicamente avvertire come Cristo sia il principio, il centro e la fine di tutte le cose.

LA PRIMA IMPRESSIONE Ma riprendiamo il discorso dalla “prima impressione” per

lasciarci condurre dal giusto modo di intendere le cose e a questo punto lascerei la parola al pittore di questa chiesa VALENTINO VAGO per chiedere a lui come intende l’arte del dipingere:

L’arte, e in particolare la pittura, deve cercare

esclusivamente l’altrove, deve rendere visibile l’invisibile. Il colore che prediligo è il giallo, cioè la luce, la nota fondamentale della tavolozza.

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All’artista è richiesto solo di esprimersi con la massima sincerità e senza memoria, cioè dimenticando il retaggio pesante delle ideologie. Occorre porsi davanti all’opera in silenzio e lasciare che essa accada. L’opera che nasce appartiene solo a se stessa. L’artista che esegue è solo un mezzo, un tramite, a lui è richiesto solo di far sì che tutto accada in modo bello, affascinante, che parli a tutti , senza spiegazioni: il vero parametro della bellezza, infatti , è il cielo, che non ha bisogno di esegesi. La bellezza chiamata a vestire l’edificio-chiesa deve essere semplicemente celestiale; una bellezza moderna, certo, ma che nasca dallo stupore.

Ritrovo in queste parole un confronto spontaneo con un grande

pittore che, attraverso le forme, dipinge i sentimenti spirituali delle sue figure e la luce dei suoi dipinti non viene da fonti esterne, come ad esempio in un Caravaggio, ma dalla stessa luminosa intensità spirituale interiore. Questo straordinario pittore è il BEATO ANGELICO.

Le sue luci e le sue ombre terrene entrano nel paradiso, si stendono sulle cortine di broccato che fanno da sfondo alle Madonne e ai Santi, segnano lo spazio, creano volumi, staccano la tridimensionalità delle sacre figure dai fondi dorati ancora bizantini; i l peso dei corpi trova un posto in paradiso, ma c’è dovunque una luminosità cristallina che impregna cielo e terra, che crea uno spazio tutto nuovo e come sublimato in un’atmosfera che è insieme reale e soprannaturale. La luce di Masaccio è un mezzo per dar corpo alle figure, per collocarle in uno spazio definito, e per sottolineare la fatica dell’esistere; quella del Beato Angelico è una luce spirituale, atta a rendere visibili cose invisibili , è luce che pare lavare il mondo naturale, per rendere la natura degna di un mondo superiore. È, in definitiva, luce della creazione che parla della sublime perfezione del Creatore.

È chiaro dunque che questo mirabile percorso vuol suscitare all’interno dell’osservatore una via verso la preghiera. L’intuizione dell’ultraterreno del frate domenicano può farsi anche per chi lo “legge” traccia per una meditazione, un silenzio, un insegnamento, una preghiera.

Ma non è questo forse lo scopo dell’arte sacra? Giovanni Paolo II dice a questo proposito: «L’arte procura un’immensa utilità spirituale e pastorale al popolo di Dio facilitandolo nel cammino verso Dio». E il concilio Vaticano II:

“fra le più nobili attività dell’ingegno umano sono con pieno

diritto annoverate le arti l iberali, soprattutto l’arte religiosa e, il suo vertice, l’arte sacra. Esse, per loro natura, hanno relazione con l’infinita bellezza divina che deve essere in

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qualche modo espressa dalle opere dell’uomo, e sono tanto più orientate a Dio e all’aumento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non di contribuire nel modo più efficace a indirizzare religiosamente la mente degli uomini a Dio” (Sacrosanctum concilium, n.122).

Sono dunque convinto che il visitatore trovi in questa chiesa il

senso pacificato di una profonda unità data dal sereno miracolo di una luce soprannaturale, chiara e purificata come dopo un temporale riparatore, (per chi ama la musica ci potrebbe essere un esempio significativo nell’ultimo movimento della 6 sinfonia di Beethoven) una luce che tutto lava e intride. La dolcezza velata delle immagini, la grazia composta di questo spazio sospeso, la pacatezza dei colori, propagano, dalle pareti della chiesa, i l messaggio di una grande armonia interiore, ispirano il senso di una profonda unità e pacificazione tra cielo e terra, tra contingente ed eterno, e una missione più grande non si potrebbe riconoscere a un’opera d’arte.

Mi viene nella mente e sulle labbra una bellissima preghiera di santa Caterina che all’ingresso in questa chiesa potrebbe sicuramente sorgere dal cuore:

“La tua luce batte alla porta dell’anima e non appena le

viene aperto entra dentro, come il sole che percuote la finestra chiusa ed entra subito in casa non appena la finestra si apre: Così, se l’anima ha la volontà di conoscere te e apre l’occhio dell’intelletto, tu, vero sole, entri nell’anima e la illumini di te” (Orazione Ottava).

Ma un secondo interrogativo potrebbe affiorare alla mente del

visitatore appena varca la soglia di questo tempio: come posso riconoscere in questo tipo di arte la “bellezza”? E questo tipo di arte è davvero “sacra”, cioè capace di dire Dio al nostro mondo di oggi, o non dobbiamo cercare in un arte figurativa che ci è stata consegnata dai secoli passati i canoni per esprimere il “sacro” nell’ambito della chiesa? Lascio la risposta a un grande studioso, Padre Andrea Dall’Asta, di cui al termine di questa presentazione troveremo un saggio proprio sulla nostra chiesa parrocchiale:

Quando possiamo riconoscere un oggetto “bello”? Tutte le

volte che vediamo una cosa che ci attrae immediatamente, facendo nascere in noi gioia, ammirazione, meraviglia, come se fossimo misteriosamente attirati, catturati. Come se l’opera d’arte fosse abitata da un sentimento di presenza o da una luce divina da riconoscere, attraverso la quale la verità delle cose è come svelata nella loro bontà e bellezza. Occorre imparare a “vedere”, a “contemplare”.

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L’arte è conoscenza, visione pura. Principio straordinario, che affonda le radici nell’assunto dei monaci orientali, per i quali la pittura dell’icona era legata a un esplicito cammino esistenziale di fede. L’artista era la sua opera, il suo respiro, il frutto della sua vita. L’artista era la materia che lavorava, che diventava “senso”. Il principio di sacralità non scaturiva soltanto da ciò che si rappresentava, ma dalla modalità con cui si viveva l’agire stesso del dipingere.

Ci si dovrebbe, infatti , chiedere in quale misura nasce dall’esperienza spirituale dell’artista, dal suo cammino interiore. In che modo ne riflette la ricerca, il dramma esistenziale, il desiderio di conversione. In fondo, tutta l’arte del Novecento è segnata da questo oscillare tra il f igurativo e il non-figurativo. È ormai un dato di fatto che la dimensione spirituale dell’uomo si sia espressa attraverso un’ indagine estetica che ha privilegiato la dimensione del colore rispetto a quella del disegno, la componente “non figurativa” rispetto a quella “figurativa”. Per il nostro pittore Valentino Vago l’opera d’arte è finalizzata alla creazione di spazi di meditazione e di contemplazione, senza alcun uso tradizionale della figura. Spazi di straordinaria luminosità, d’irradiazione del colore. Luoghi di silenzio, di ascolto, di sospensione del tempo. Spazi mistici di attesa della rivelazione di ciò che è inscritto nel cuore del mondo. Spazi che predispongono a una pace interiore, a un incontro.

Se l’arte contemporanea cede troppo spesso alla spettacolarizzazione dell’immagine , occorre al contrario recuperare quelle caratteristiche simboliche e mistiche che da sempre hanno caratterizzato l’opera d’arte come espressione di una profondità che non può risolversi nell’immediatezza di un’emozione da consumare, ma che è al contrario da vivere nella bellezza e nella bontà di ogni autentica esperienza estetica. L’arte sarà sacra se saprà trasmettere quell’emozione estetica che nasce e scaturisce da quel soffio dello spirito che è in noi ma che non viene da noi. In questa ricerca dell’originario, di questa traccia primordiale, segno di quell’alito di vita che è all’origine di ogni esperienza di pienezza di senso, si situa la ricerca più interessante e sincera di ogni espressione artistica. Per questo, attraverso forme e colori, l’arte parla del nascere e del morire, dell’amare e dell’odiare, del sognare e del soffrire, dello sperare, del perdonare. L’arte implica un mettersi in gioco. L’arte è impegno per la vita. Sacra sarà perciò quell’arte che apre a una ricerca d’interiorità in grado d’interpellare e d’interrogare l’esistenza umana, evitando ogni facile formalismo o puro compiacimento, facendo riferimento all’universo emozionale, simbolico e affettivo dell’uomo.

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Quale significato dare al suo modo di trattare la luce e il colore? In questa sua capacità d’interrogarci e di suscitare in noi una risposta, il sensibile diventa il luogo d’incontro della profondità delle cose e della nostra interiorità. In questa sua capacità di andare al cuore del reale, nella forza della sua dimensione “cognitiva”, nel senso originario di “nascere con”, l’arte è “sacra”, in quanto fa irruzione nella nostra esperienza di vita, per farci “nascere” con lei, per farci vivere una emozione la cui comprensione diventa un cammino del pensiero rivolto alla conoscenza dell’uomo e del mondo in rapporto a un orizzonte che si apre all’infinito, al trascendente. Comprensione sempre provvisoria, certo, sempre da scoprire in quanto sorgente inesauribile di senso, ma fondamentale per l’auto-comprensione dell’uomo nel suo mondo. Cogliere un’esperienza di senso che nasce nel cuore dei gesti umani attraverso l’espressione dell’arte: questo è forse il significato più profondo di ciò che chiamiamo “bellezza” o, meglio, di ciò che chiamiamo “arte sacra”.

Ci aiuta ancora un grande pittore del novecento Marc Chagall, la

cui testimonianza ci fa comprendere come l’uso del colore abbia questo fondamentale protagonismo:

Si parla spesso del modo, in quali forme, in quale Movimento

porre il colore. Ma questo colore è una cosa innata. Non dipende né dal modo, né dalla forma in cui lo ponete. E non dipende nemmeno dalla maestria del pennello. È al di fuori di ogni Movimento. Di tutti i Movimenti, sono rimasti nella storia solo quelli , rarissimi, che hanno posseduto il colore innato… i movimenti sono stati dimenticati .

La pittura, il colore, non sono forse ispirati dall’Amore? La pittura è solo il riflesso del nostro io interiore, e per questo stesso la maestria del pennello è superata. Non conta affatto. Il colore con le sue linee contiene il vostro carattere e il vostro messaggio.

Se ogni vita va inevitabilmente verso la fine, dobbiamo, durante la nostra, colorarla con i nostri colori di amore e speranza. In quest’amore si trova la logica della vita e l’essenziale di ogni religione.

Come risulta, allora, dalle testimonianze precedenti i l protagonista non è la figura ma il colore e se come dice Jean Guitton “Il colore è l’epifania della luce” e noi sappiamo, dal vangelo di Giovanni, che “Dio è luce”. Questa chiesa diventa allora una straordinaria manifestazione di Dio: grandiosa quanto

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l’immensità del cielo che squarcia l’architettura con la sua luce e prossima quanto la vicinanza di una tenera carezza.

Sì, è proprio vera, dopo questa prima impressione, l’espressione del Salmo 26

Signore, amo la casa dove dimori

e i l luogo dove abita la tua gloria.

E, chi conosce l’ultimo brano dell’opera musicale: “La trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo” di Olivier Messien, penso possa comprendere profondamente tutto questo amore, questa presenza, questa tensione, questa gloria.

LA CUPOLA Immaginando di compiere insieme a queste note una sorta di

visita guidata, occorre che, dalla soglia del tempio, ci spostiamo lentamente, con lo sguardo rivolto in alto, ai piedi dell’altare per poter contemplare la grande cupola centrale da dove parte l’itinerario catechetico sugli Atti degli Apostoli . Lì incontriamo il grande Cristo asceso al cielo: principio e fine del nostro itinerario.

Gli Atti degli apostoli si collegano al vangelo di Luca con il

fatto dell’Ascensione di Gesù al cielo. Cristo, Signore risorto che ascende al cielo e dona alla sua Chiesa lo Spirito santo che fa memoria di Lui, è il centro della chiesa; per questo Colui che sta “in alto”, “in cielo” appunto, come dicono gli Atti, è collocato al centro della cupola. Lassù! Con il suo vestito bianco, colore di Dio e della luce, trasfigurato da una nube luminosa, immagine stessa della luce questa splendida figura testimonia come non mai, l’aldilà, la risurrezione, l’altrove di Dio, l’immaterialità di un corpo spirituale, i l termine del nostro destino.

Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube

lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se

n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo». (At 1, 9-11)

Cristo in “mandorla” è un simbolo molto noto al medioevo,

indicava la gloria stessa di Dio e solitamente i colori erano quelli

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dell’arcobaleno, simbolo della luce impalpabile di Dio. L’arcobaleno, che racchiude come in una mandorla di gloria il Cristo “in cielo” e rende “separato” il mondo di Dio dal mondo dell’uomo, diventa però anche simbolo dell’alleanza tra Dio e l’uomo. È infatti l’arcobaleno a celebrare l’alleanza tra Dio e l’uomo dopo il diluvio universale

Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi. Il mio arco pongo sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra». (Gen 9, 12-16)

Vi sono poi in questa cupola piena di angeli i 12 apostoli su 12 troni a giudicare le 12 tribù di Israele.

E Gesù disse loro: «In verità vi dico: voi che mi avete

seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele (Mt 19,28)

Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele. (Lc 22, 28-30)

I dodici, dunque, sono l’immagine perfetta della Chiesa chiamata

insieme a Cristo ad essere compartecipe del giudizio sul mondo. Per questo il numero dei dodici doveva essere ricostituito dopo il tradimento di Giuda con l’elezione di un altro apostolo (Mattia), scelto tra coloro che avevano vissuto l’esperienza con Cristo “incominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo” (cfr At 1, 15-26).

In basso, nel cerchio della cupola, vi sono poi le due lettere

greche Α Ω, rispettivamente la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. È chiaro il significato: Cristo è il principio e la fine, l’alfa e l’omega. In lui la storia ha avuto principio

In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.

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(Gv 1, 1-3)

e in lui ha il suo fine.

Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente! (Ap 1, 8) (cfr. Ap 21,6 e 22,13; Is 44,6)

Oltre al principio e alla fine Cristo, secondo Luca, è anche il

centro del tempo verso il quale tutta le legge e i profeti convergono e dal quale parte l’avventura della nuova comunità nascente: la Chiesa. Luca sottolinea le conseguenze dell 'ascensione per la vita della Chiesa: non c'è più presenza visibile di Gesù tra gli uomini; gli apostoli sono d'ora in avanti coloro da cui dipenderà l 'annuncio del regno di Dio, la cui manifestazione gloriosa, però, non è prossima, ma è preceduta dal tempo della testimonianza, da portarsi in tutto il mondo.

Testimonianza che comincerà con la forza dello Spirito:

«Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra». (At 1,8)

Il soffio dello spirito presente nel transetto destro fa partire

l’avventura della fede, ma a questo punto occorre fermarci per descrivere le sculture del presbiterio, i l cui altare, centro della Chiesa, ha l’immagine della Pentecoste.

L’ALTARE La Pentecoste. Forse dobbiamo dire che la Pentecoste è un

termine riduttivo per definire il nostro altare, che contiene in sé grandi significati. Innanzitutto è la sintesi di due scene degli Atti .

Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli

Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato. Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelòta e Giuda di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui . (At 1, 12-14)

Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta

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la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi. (At 2, 1-4)

Comprendiamo, dunque, come la prima scena rappresenta la

Chiesa in preghiera, gli apostoli radunati con Maria mentre celebrano lo spezzare del pane in attesa del dono dello Spirito santo. Essi sono undici, perché manca Giuda, il traditore. Tra questa scena e la Pentecoste negli Atti c’è l’elezione di Mattia, i l dodicesimo apostolo. Ora, come in tutte le rappresentazioni pittoriche della Pentecoste, lo Spirito scende sui dodici (il numero sacro ricostituito), ma anche su Maria, immagine e modello della Chiesa stessa.

Da qui appare come l’immagine autentica della Chiesa è “essere assidui e concordi nella preghiera, insieme”.

Gli Atti ci spingono quindi a definire lo spazio “tempio” nella “comunità dei credenti”. Il tempio in cui si impiantano stabilmente gli apostoli è un tempio del tutto particolare, più che un luogo definito è uno “spazio interiore” in cui abita Dio che però garantisce la permanenza del loro rapporto con Dio.

Per questo il primo comando che ricevono gli apostoli è quello di “restare fermi”, un po’ come nella vocazione dei dodici “e li chiamò perché stessero con lui”.

Certo che sono stati chiamati per essere inviati , ma non potranno portare frutto se non “rimangono”. Inviati nella misura in cui “rimangono”. E proprio perché rimangono possono portare frutto “chi rimane in me, porta molto frutto”.

L’impegno al “restare in attesa” della promessa è un atteggiamento fondamentale dell’apostolo. Ecco perché la tradizione dei Padri ha individuato in Maria, la Madre di Gesù, il modello stesso dell’apostolo.

Poi, un’altra sottolineatura: i discepoli, come già descritto nel primo capitolo, “sono tutti insieme nello stesso luogo”; cioè “intorno al divino” che costituiva il centro della loro adunanza. Ecco allora la celebrazione della comunità intorno al pane e al vino del Signore e quindi lo stare insieme intorno a ciò che costituisce il tesoro prezioso custodito dalla comunità: il cuore della comunità, perché “dove sta il vostro tesoro, sta anche il vostro cuore”.

Veniamo ora a una descrizione della scultura che contiene in sé elementi simbolici di grande valore.

Innanzitutto la colomba è il simbolo dello Spirito santo, ma questa colomba si trova su una sfera simbolo della creazione dell’universo. Così infatti si legge nella Genesi

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In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.(Gen 1,1-2)

La Pentecoste inaugura il mondo nuovo iniziato dal Cristo risorto

con la sua Pasqua. Il dono pentecostale tocca anzitutto i discepoli che annunciano in modo comprensibile ad altri le mirabili gesta di Dio. L’umanità di Babele, dispersa e confusa nelle lingue (Gn 11,1-9), ora è riunita in un orizzonte universale ed ecumenico dallo Spirito. L’orgoglio dell’uomo, che vuole costruire la sua città senza Dio crea la confusione di Babele: ora la predicazione del regno di Dio operata dagli apostoli viene compresa da ogni lingua perché si parla il l inguaggio dell’amore, il l inguaggio dello Spirito, appunto!

La colomba poi copre con la sua ombra Maria come disse l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo.» (Lc 1,34) Questa potenza rende fecondo il grembo di Maria, la vergine del silenzio e dell’ascolto: «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.»(Lc 2,19)

Spirito-Maria-Parola sulla stessa linea centrale dell’altare. Lo Spirito che rende fecondo il grembo di Maria e rende possibile l’incarnazione del Verbo è lo stesso Spirito che “ispira” la Parola. La Parola, attraverso lo Spirito, si fa carne nel grembo della Vergine (il l ibro della Parola è sul grembo di Maria). In effetti la figura alle spalle dell’evangelista, che si trova in primo piano, è nell’atteggiamento di chi suggerisce un segreto, ma la vera ispirazione viene dall’alto come indica lo sguardo della figura con il l ibro tra le mani.

La Pentecoste ("cinquantesimo" giorno) è celebrata da Luca, riprendendo alcuni motivi dell 'omonima festa giudaica: commemorazione dell 'alleanza al Sinai e del dono della legge al popolo. Ecco che nella Pentecoste della nuova creazione viene donata la nuova legge che sancisce la definitiva Alleanza tra Dio e il suo popolo.

Questa linea taglia la scena in due: dalla parte destra la Chiesa attiva che discute, le cui tende sono mosse dal vento dello Spirito; dalla parte sinistra la Chiesa che contempla sta invece in silenzio e “in ascolto”. Nessuna separazione però o contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa, perché, come si diceva prima, la manifestazione dell’autenticità dell’apostolo consiste nello “stare con Dio”, nello spazio abitato da lui ed è l’unico e medesimo Spirito a suscitare nella comunità i vari carismi.

Colomba, vento, nube, lingue di fuoco (appena accennate sotto la colomba) sono i simboli dello Spirito che in un mirabile gioco scultoreo sintetizzano una splendida catechesi sullo Spirito santo e sui suoi doni.

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Ma resta ancora un simbolo che, a prima vista, potrebbe essere “fuori contesto”. Un piccolo gatto appare in basso alla scena. Quale significato riveste? Quando lo Spirito irrompe il maligno viene sconfitto e si “ritrae” impaurito. L’avvento dello Spirito nella creazione è la luce che sconfigge le tenebre così lo Spirito che investe la nuova comunità dei discepoli di Gesù la rende capace di vincere le tenebre del male, del peccato e della morte.

Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo

mondo sarà gettato fuori. (Gv 12,31)

Fratelli attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti . (Ef 6 10-12)

Quando Dio prende possesso del tempio il demonio fugge. Così

è dei doccioni delle cattedrali gotiche che hanno le fattezze dei mostri che fuggono. Così dice la Bibbia:

Allora la nube coprì la tenda del convegno e la Gloria del

Signore riempì la Dimora. Mosè non potè entrare nella tenda del convegno, perché la nube dimorava su di essa e la Gloria del Signore riempiva la Dimora. (Es 40, 34-35)

Appena i sacerdoti furono uscit i dal santuario, la nuvola riempì i l tempio e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere i l servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva i l tempio. (1Re 8, 10-11) Questa immagine diventa la plastica spiegazione di una strofa

dello splendido inno ambrosiano della Dedicazione della Chiesa dove si dice:

Daemonis saevi perit hic rapina; pervicax monstrum pavet et, retentos deserens artus, fugit in remotas ocyus auras.

La cui traduzione

Qui la rapina del demonio perisce, il mostro orgoglioso e fiero ha paura: e, ritraendo i suoi artigli , tremante fugge in luoghi remoti e tenebrosi.

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Ora mettiamoci di fronte a questa magnifica scultura e

lasciamoci attrarre dalla sua straordinaria bellezza. Bellezza del gioco di mani che lega una comunità nascente con

continui richiami quasi appena suggeriti . Quelle mani alzate simbolo personificato dell’attesa, dell’invocazione, della richiesta del dono (in particolare quella dell’apostolo Giovanni di fianco a Maria).

Scena piena di energia divina che diventa grido di richiesta, ma anche momento sospeso di attesa. La forte bellezza di questi volti segnati da una straordinaria espressività, insieme con i delicati movimenti chiaroscurali che aleggiano tra le figure stesse, più che un rombo improvviso suscitano un silenzio solenne.

Troviamo in questa scena un perfetto equilibrio per la scansione degli spazi sulla facciata nei quali Bodini riesce miracolosamente a rappresentare la moltitudine di figure senza che l’organismo perda la sua essenzialità e, si direbbe la sua classicità.

La splendida prospettiva di questa tavola apparecchiata che, creata come su tre piani visivi, dà a tutta la scena una profondità straordinaria facendo sbalzare le figure di primo piano come uno splendido tutto tondo.

Il delicato e sinuoso movimento della tovaglia che, insieme con quello delle tende del retroscena, riprese poi magistralmente ai fianchi della scena stessa e nell’altro lato dell’altare, danno al tutto una morbida sensazione, quasi che non si trattasse di dura pietra, ma di un morbido lino con il quale il nostro scultore, come sua cifra caratteristica e originale, riveste le sue splendide immagini.

Da non trascurare, poi, quel breve ma significativo accenno al pavimento della sala. Il tavolo appoggia infatti su questo pavimento che fa da supporto alle due figure inginocchiate sul davanti della tavola stessa. Non è forse questo semplice accenno a donare a tutta la scena questa sorta di profondità, di terza dimensione, di punto d’appoggio sul quale tutta la costruzione cresce compatta?

E poi la pietra di Saltrio, bellissima pietra, calda e viva. Dopo i primi tentennamenti, la sua scelta si è verificata ideale per rappresentare il “fuoco dello Spirito”. Pietra che lega in modo mirabile con il marmo di “repen” del pavimento della chiesa stessa che, soprattutto nella passatoia centrale e nell’area presbiteriale, crea legame opportuno con la zoccolatura di serpentino “verde scuro”, attraverso gli intarsi che, con lineare semplicità lo richiamano in continuazione lasciandolo “meno solo”.

Tutte queste cose dice con mirabile grazia il nostro altare? Sì e

forse molte altre dirà alle generazioni future perché così è l’opera d’arte, così è l’artista che coglie con percettività profonda ciò che colui che ispira intende dire e poi attraverso la sua particolare

Percorso artistico simbolico della Chiesa parrocchiale 18

originalità artistica e il proprio genio comunica con noi attraverso l’opera stessa.

È vero lo scultore non aggiunge niente, toglie soltanto. Da questo blocco di 90 quintali lo scultore ha tolto la pietra “inutile” liberando il capolavoro. Michelangelo diceva che la pietra già possiede l’anima della statua, occorre solo liberarla, ma solo il genio dell’artista con la sua sensibilità straordinaria può cogliere quest’anima e, attraverso l’abilità delle sue mani, offrirci il capolavoro con il quale anche noi possiamo entrare il dialogo.

Quando siamo di fronte a un’opera d’arte di una tale ricchezza è forse fuori luogo pronunciare il famoso detto di Michelangelo al suo Mosè “perché non parli?” perché l’opera d’arte potrebbe rispondere “Io parlo! Sei tu che non ascolti!”

Il lato dell’altare del celebrante porta un magnifico pellicano che

nutre i suoi piccoli. Il pellicano nella tradizione è l’animale che, quando non ha nulla da dar da mangiare ai suoi si ferisce, i l petto e dà le sue viscere per nutrire i suoi figli. È così diventato uno dei simboli più significativi dell’eucaristia. Una evidente rappresentazione del “Questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi”

Gesù disse: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno

mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

«In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno ». (Gv 6, 51-54)

Sotto il pellicano sono scritte le parole che danno significato

all’altare:

Il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo(At 4,31)

La frase, presa dagli Atti degli apostoli, ci indica, più che la

Pentecoste intesa come avvenimento unico nella storia della Chiesa, il dono dello Spirito fatto alla comunità che si raduna alla presenza del suo Signore a far memoria del Cristo morto e risorto nella celebrazione eucaristica della pasqua domenicale. Essere radunati nell’attesa, con tremore perché si è alla presenza di Dio, indica la volontà della comunità di “rimanere” con il suo Signore, ma insieme il desiderio di camminare verso l’incontro definitivo con quello Spirito, che è Signore e dà la vita.

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Qui l’occhio scorge un’altra scritta, voluta proprio qui perché qui c’è i l centro e il cuore della chiesa. Forse è in un luogo poco evidente, ma certamente è in un luogo molto significativo. È una dedica-ricordo di questa tappa molto importante che ha dato significato all’intera chiesa, tappa sicuramente grande almeno quanto la sua costruzione.

Tutti devono sapere che quest’opera è stata resa possibile grazie a un cospicuo intervento della Società Cattolica di Mutuo Soccorso che, sciogliendosi, ha dato tutto quanto il ricavato della vendita del suo patrimonio per il restauro della chiesa parrocchiale. Più che un singolo elemento allora si è voluto indicare alle future generazioni che questa Società, fondata dai nostri padri, è stata il motore che ha dato l’avvio a tutta l’opera, proseguita dalla generosità di tutta la comunità rovellese.

Con il generoso dono della Soc. Catt. di Mutuo

Soccorso la comunità rovellese ha dato a questa Chiesa il suo definitivo compimento. (15 giugno 2003)

AMBONE Il pavimento del presbiterio, attraverso le tre punte dei rombi che

ci indicano i centri dei luoghi liturgici, ci invita a soffermarci sugli altri due importanti elementi. Se l’altare è simbolo della Chiesa riunita in preghiera con Maria, la madre di Gesù, l’ambone e la sede sono simbolo dei due apostoli Paolo e Pietro.

Paolo, apostolo delle genti, predicatore e scrittore di molte lettere, che proprio in questo luogo ogni giorno vengono proclamate. Ecco dunque come l’ambone, luogo della Parola di Dio, diventa simbolo dell’apostolo Paolo.

Qui il segno principale è la spada, con un duplice significato: Parola e Martirio.

Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni

spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto. (Ebrei 4, 12)

Questa spada è sostenuta da uno simile a un figlio d’uomo

secondo la seguente visione dell’apocalisse:

Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava,

Percorso artistico simbolico della Chiesa parrocchiale 20

vidi sette candelabri d’oro e in mezzo ai candelabri c’era uno simile a figlio di uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve. Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente purificato nel crogiuolo. La voce era simile al fragore di grandi acque. Nella destra teneva sette stelle, dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza. Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l 'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi. (Ap 1,16)

Quest’angelo, vestito come un grande sacerdote “con un abito

lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro”, con lo sguardo che penetra l’intero arco della storia “Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco”, che sta saldo con i piedi di bronzo, la cui voce travalica le montagne, la cui parola giudica l’universo come una spada affilata è simile al sole, a Dio, che splende in tutta la sua forza. Sì perché Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Questo splendido angelo però ha un grande messaggio da offrire a coloro che cadono “morti ai suoi piedi”: Io ho vinto la morte! Quindi non temere perchè questa vittoria è anche per te perché in me ricapitolo tutta la storia: “Io sono il Primo e l 'Ultimo e il Vivente”

Quest’angelo con la spada in mano diviene segno anche del martirio di Paolo, che viene evidenziato sul libro aperto che tiene vicino ai suoi piedi:

(parte sinistra del libro) La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di

ogni spada a doppio taglio. (Eb 4,12) (parte destra del libro) Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la

corsa, ho conservato la fede. (2 Tm 4,7).

Anche in questa figura diventa importante il gioco delle mani. Quest’angelo, che nel suo vigore somiglia al sole quando splende in tutta la sua forza e nella sua leggerezza al sussurro di un vento leggero che entra in profondità fino alle pieghe dell’anima, t i indica con una mano verso il cielo il primato di Dio e della sua Parola, ma con l’altra verso la terra che questo è il tempo della testimonianza: il tempo in cui questa parola entra nella storia degli uomini e, proprio per la sua capacità di penetrare fino in fondo, fa combattere

Percorso artistico simbolico della Chiesa parrocchiale 21

la buona battaglia della fede che alle volte può essere, come per Paolo, bagnata dal sangue del martirio.

Potenza della scultura, sì, potenza della materia plasmata dalle sapienti mani dell’artista in cui “l’uomo con la fascia d’oro” del libro dell’Apocalisse ci appare in tutta la sua ieraticità sacerdotale, dallo sguardo penetrante, come la spada che porta nelle mani. Occorre guardare questa statua in tutti i suoi particolari per scoprire la bellezza e la leggerezza della veste resa vaporosa dal “soffio di Dio”, la forma morbida delle ali , la grazia del viso, la forza delle mani che danno alla figura davvero le fattezze dell’angelo: figura umana, ma che porta un messaggio di Dio.

Di forte impatto dunque questo Angelo che pare percorso da una energia che ne scompigli gli elementi di cui è costituito; l’energia è contenuta tra due punti fermi, i l pesante leggio alle sue spalle e il grande libro aperto collocato davanti alla base della figura. Il flusso che agita l’abito dell’angelo crea un dinamismo all’interno della struttura plastica che spinge l’osservatore a ruotare attorno alla scultura che risulta ricca di soluzioni e di invenzioni plastiche da tutti i suoi lati; nulla è stabilito a priori, tutto è reinventato con un incalzante gioco di forme nello spazio; l’Angelo, al limite, si potrebbe smontare pezzo per pezzo e osservare che ognuno di essi conserva autonomamente la sua bellezza astratta e la sua identità scultorea, per poi ricomporlo nella sua unità figurativa.

Mettendoci di fronte all’ambone possiamo scoprire un luogo

prospettico veramente “magico”. Puntando il nostro sguardo verso il l ibro che sta ai piedi dell’angelo noi possiamo, alzando adagio il nostro sguardo, comprendere la splendida proporzione che investe tutte e tre le sculture, viste in prospettiva. Si può gustare l’allungarsi dell’altare, quasi nascesse da un lembo del vestito dell’angelo stesso e l’innalzarsi della sede presidenziale che fa quasi da sfondo all’angelo stesso. Bellissima poi è la linea che si crea tra il l ibro, la colomba dell’altare e quella della sede; le linee verticali tra la spada, le pieghe dell’altare e la verticalità della sede e poi all’attento visitatore ritrovare altre suggestioni lasciandosi impressionare dalla meraviglia assoluta di questa mirabili composizioni scultoree.

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SEDE PRESIDENZIALE La sede presidenziale doveva essere il segno dell’autorità di

Pietro per cui molte idee sono venute al riguardo. È bene qui commentarle tutte per vedere il cammino, che poi ci ha portato a questa scelta definitiva.

Il brano classico che si voleva raffigurare riguardo all’autorità di Pietro era Matteo 16

E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la

mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli , e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli , e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo. (Mt 16, 18-20)

Lo scultore suscitò qualche perplessità sul fatto delle chiavi. È

vero sono il simbolo stesso di Pietro, infatti quando ci sono rappresentazioni con più santi, basta cercare il santo con le chiavi in mano per identificarlo immediatamente con Pietro. Allo scultore però sembrava un po’ banale questa raffigurazione e allora si optò per un altro tipo di immagine. Una rappresentazione che comunicasse il significato di questa missione presidenziale di Pietro, facendo però a meno della figura stessa dell’apostolo “clavigero”.

A questo punto, tra le tante bellissime opere che ebbi la fortuna di ammirare nel suo studio, lo scultore mi mostrò una meravigliosa medaglia commissionata da Papa Giovanni Paolo II. Sulla faccia di questa medaglia era rappresentato un Cristo risorto, che mi piacque talmente da indicarlo allo scultore stesso perché facesse un simile ritratto anche sulla nostra sede presidenziale. Il significato era comunque chiaro perché, invece di ispirarsi al brano di Matteo per il mandato di Pietro, bisognava ispirarsi al brano di Giovanni 21.

Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro:

«Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse:

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«Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità t i dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: «Seguimi». (Gv 21, 15-19)

A questo punto bisognava mettere il segno degli agnelli . Lo

scultore tolse dai suoi cassetti due bellissimi tondi con rappresentati degli agnelli destinati alla Conferenza episcopale italiana e mi disse di scegliere quello più bello. Io feci la mia scelta e lo scultore mi disse che in effetti tra i due era quello che lui stesso preferiva. Da qui occorreva comporre il tutto in una scultura che risultasse poi omogenea.

Squillò poi il telefono un giorno, lo scultore stesso mi invitata a vedere il calco della sede che era stato terminato. Appena arrivai nello studio mi informò che del progetto originario non era rimasto nulla, soltanto un’idea. “Ho cambiato tutto”, mi disse lo scultore prima di scoprire il calco in gesso della sede, “Lei mi dirà se tenere questo nuovo progetto o ritornare a quello pensato in precedenza. Sappia che io sono stato colpito dal fatto che mentre mi spiegava la sua idea riguardo alla sede le parole che ripeteva più frequentemente erano “pasci i miei agnelli”. Questa parola mi è rimasta nella mente e questa mi ha guidato nella realizzazione di questa nuova forma”. Venne tolto il drappo di copertura e lì mi ricordo (difficilmente mi uscirà dalla mente) l’impressione avuta. Fu talmente forte che rimasi senza parole. Dovevo dire qualcosa ma non riuscivo, sapevo che loro stessi attendevano un mio parere, ma pur avendo chiarissima l’impressione della bellezza stupenda di quella forma in gesso, facevo fatica ad esprimerla. Alla fine mi venne da dire per tre volte consecutive: “Teniamo questa”.

In effetti , mi spiegava lo scultore, c’era bisogno anche qui, come nell’altare e nell’ambone, una scultura che non fosse un semplice bassorilievo, ma fosse molto pronunciata come un tuttotondo. Così è l’agnello il “protagonista” di quest’opera che il sacerdote accarezza quando sta seduto alla sede. Insieme con la mano paterna di Dio e la colomba dello Spirito Santo l’agnello stesso, simbolo di Cristo, ci dona un segno della Trinità. Quell’agnello che nell’abside abbraccia con la sua luce tutta la chiesa è richiamato qui come il segno di Cristo che si immola per il bene delle sue pecorelle. Nella stessa immagine noi ritroviamo quindi raffigurato Cristo e la Chiesa; Cristo che affida il gregge dei credenti al suo apostolo Pietro che, proprio esercitando l’amore verso i suoi fratelli , esercita

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la sua autorità (simbolo il piccolo scettro presente sulla parte destra). Così si dice nel libro della Genesi a proposito del Messia:

Non sarà tolto lo scettro da Giuda nè i l bastone del comando tra i suoi piedi, f inchè verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli . Quasi a dire che l’autorità nella Chiesa è servire e amare il

gregge. Il celebrante stesso quando si trova seduto tiene nelle sue mani questi due simboli. Trovo particolarmente adatta a spiegare questi due momenti l’orazione sui doni della Messa nella festa della cattedra di S. Pietro che dice:

Accogli, o Padre, le offerte della tua Chiesa e fa’ che

riconosca nell’apostolo Pietro il maestro che, insegnando, le mostra la fede integra e vera e il pastore che, amando, la guida all’eredità eterna.

Infine, merita una parola quello stupendo drappo di velluto che

dà a tutta la sede un’immagine di straordinaria signorili tà e bellezza. L’avevamo già notato per le tende dell’altare: è cifra tipica di Bodini questa originalissima capacità di rendere, attraverso drappi, leggero e setoso anche il marmo. Mi vengono in mente alcune sculture di Bernini, dove le masse marmoree piene di volume sembrano sospese nel vento, o i veli delle sculture della cappella di Sansevero a Napoli, dove la leggerezza dell’intervento marmoreo rende difficilmente distinguibile all’occhio se sia pietra o tessuto autentico.

Molto interessante infine la soluzione della sede voluta da Bodini dove il grande elemento (trono) e i due sedili laterali diventano l’occasione di una ulteriore sfida nel tradurre sul piano della pura ricerca plastica, oggetti che normalmente sono arredi o accessori.

Un’ultima nota, opportuna dopo la prima impressione sulle

pitture e lo sguardo approfondito alle sculture, la tracciamo qui per rispondere a una domanda che può nascere nella mente del visitatore attento: “Come si inserisce il tutto? Non sono le opere di Vago e Bodini di segno opposto e quindi molto distanti tra loro? La pittura di Vago così astratta, celeste che ci porta “all’altrove” e la scultura di Bodini invece così concreta, terrena che ci richiama il “presente” della fede?”. La risposta la lascio ad Alberto Venditti , noto pittore e membro della Commissione d’arte sacra della Diocesi di Milano il quale ha colto in modo certamente acuto l’unità nella diversità.

Le opere di Floriano Bodini: l’altare, il pulpito e gli altri elementi plastici che lo scultore ha progettato per la Chiesa,

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appaiono subito di segno opposto rispetto alla pittura di Vago e cioè come l’àncora necessaria a bilanciare uno spazio proiettato all’infinito in cui, per contrasto, pare che la sostanza plastica di cui sono fatte acquisti una maggiore densità e quasi una esaltazione della loro scultorietà.

Le tre sculture: l’Angelo-ambone, l’Altare e la Sede si collocano con un perfetto bilanciamento nello spazio antistante il vecchio altare, creando come un percorso che collega i tre elementi e che risulta subito per il suo accordo armonico col tutto come uno degli inserimenti più felici che la scultura di Bodini abbia trovato in uno spazio architettonico.

La scultura di Bodini è concentrata sul senso profondo dell’uomo e del peso tragico della sua storia; la sua ricerca plastica è in continuo rapporto con essa, la sua modernità scaturisce da un rigoroso processo storico e, per realizzare questa idea dell’opera occorre l’indispensabile “mestiere” dello scultore con la sapienza antica e l’ansia di ricerca dell’oggi.

La sua monumentalità è di ordine morale e ci richiama ai momenti alti della scultura.

E’ interessante osservare come i due artisti , così diversi tra di loro, convivano perfettamente integrandosi l’uno all’altro; entrambi affrontano il “ tema sacro” con un linguaggio moderno.

Il sentimento che muove la ricerca di Vago nasce da un bisogno spirituale; Vago crede all’Arte come “miracolo”, come dono concesso all’uomo, e in ciò la sua fede lo premia, perché nel suo volo da acrobata il miracolo accade!

Bodini dal suo canto approda alla spiritualità per altra via: la sua scultura possiede una forza e un impeto drammatici, le sue innovazioni plastiche sono schegge conquistate attraverso la dura prassi del “lavoro”, indispensabile perché la materia si trasformi. Mi suggeriva uno scultore che stava ammirando le opere di

Bodini della nostra Chiesa: “Non ho mai visto opere del Prof, Bodini inserite in un contesto così straordinario”.

TRANSETTO DESTRO IL BATTISTERO

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Parte l’avventura della chiesa con il battesimo dei primi cristiani. Segno splendido nella volta del transetto destro è quel soffio di vento tra le due ali d’angeli, simbolo del soffio dello Spirito che guida i primi passi della nuova comunità.

Leggiamo ora insieme l’intero transetto come luogo dei due sacramenti del Battesimo e della Penitenza.

Perché la scelta di collocare qui il battistero? La giustifica una visione molto suggestiva del profeta Ezechiele:

Mi condusse all’ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente, poiché la facciata del tempio era verso oriente. Quell’acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell’altare. Mi condusse fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all’esterno fino alla porta esterna che guarda a oriente, e vidi che l’acqua scaturiva dal lato destro. Quell’uomo avanzò verso oriente e con una cordicella in mano misurò mille cubiti , poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva alla caviglia. Misurò altri mille cubiti, poi mi fece attraversare quell’acqua: mi giungeva al ginocchio. Misurò altri mille cubiti , poi mi fece attraversare l’acqua: mi giungeva ai fianchi. Ne misurò altri mille: era un fiume che non potevo attraversare, perché le acque erano cresciute, erano acque navigabili , un fiume da non potersi passare a guado. Allora egli mi disse: «Hai visto, figlio dell’uomo?».

Poi mi fece ritornare sulla sponda del fiume; voltandomi, vidi che sulla sponda del fiume vi era un grandissima quantità di alberi da una parte e dall’altra. Mi disse: «Queste acque escono di nuovo nella regione orientale, scendono nell’Araba ed entrano nel mare: sboccate in mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il f iume, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà. Ez (47, 1-9)

Questa visione dell’acqua che esce dal fianco destro del tempio,

acqua che risana e fa rivivere è un chiarissimo segno del Battesimo e preludio di quel fianco di Cristo trafitto dalla croce, da cui uscirono sangue e acqua, simbolo dei sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia.

I soldati venuti da Gesù, vedendo che era già morto, non gli

spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il f ianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Gv (19, 33-34)

Perché il Battistero inteso come luogo isolato dalla chiesa?

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Nella storia, in particolare nel medioevo, quando l’iniziazione cristiana avveniva soprattutto con catecumeni adulti , i l Battistero era un luogo isolato dalla chiesa, una costruzione totalmente diversa quasi sempre davanti alla basilica o in un suo fianco (basta ricordare il Battistero di S. Giovanni a Firenze, il Battistero di Pisa, di Pistoia, di Parma, di Aquileia, di Torcello o quello che sta nei sotterranei del Duomo di Milano), questo perché il catecumeno dopo essere rinato nel Battesimo poteva partecipare solennemente all’assemblea liturgica dell’eucaristia insieme a tutta la Chiesa, dalla quale prima era escluso o vi partecipava soltanto fino alla liturgia della parola.

Occorre poi notare come questi Battisteri sono tutti ottagonali. La forza di questa «strana» forma sta nel voler indicare una

novità rispetto al ciclo settimanale: poiché la cifra «otto» (che sta fuori dalla scansione del tempo in sette giorni) indica la pienezza che trascende il tempo e lo spazio, l 'ottavo giorno è la figura del mondo futuro, la figura dell 'eternità. Ma ancora una volta - ci dicono molti testi - è l 'evento della risurrezione di Cristo che sta alla radice di questa comprensione.

Il Battezzato entra dunque nell’ottavo giorno, il giorno del Signore.

Secondo Origene (183-254 ca) l 'ottavo giorno è «il simbolo del mondo futuro, perché nasconde il dinamismo della resurrezione»

La risurrezione di Cristo, l 'evento pasquale, non è un fatto chiuso, ma aperto sul futuro, e dinamico, ordinato alla venuta del Cristo nella gloria alla fine dei tempi, è profezia del Regno, è caparra della risurrezione dei morti nell’ultimo giorno.

L'ottavo giorno è una memoria del mondo che verrà e obbliga la Chiesa a vivere in questa dimensione: “vivere nel tempo ma proiettata nell’eternità”, “prendere coscienza che la storia umana è un ‘già’ ma anche un ‘non ancora’”.

Questo tema della risurrezione battesimale è all 'origine della forma ottagonale dei fonti battesimali e dei battisteri , una forma che esprimeva architettonicamente il valore del battesimo come purificazione, nuova creazione, introduzione alla vita in Cristo, alla vita escatologica. Appare così chiaro che la vita cristiana è chia-mata alla vita eterna! (cf. 2 Pt 1, 4).

Nel Battistero, che somigliava a una vasca, si scendeva fino ad

essere quasi totalmente immersi per poi risalire dall’altra parte completamente rinnovati e avvolti dalla veste candida dei figli di Dio. Questo ricordava che il Battesimo è un morire al peccato per risorgere alla vita nuova.

Il battesimo è innanzitutto un essere immersi nella morte di Cristo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?» (Rom 6,3). Nel battesimo

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mi abbandono all 'amore di Dio crocifisso per me; mi 'affogo' dentro e lo accetto come principio della mia vita.

La sorgente a cui attingo non è più il mio amore per me; muoio al mio 'io', alla debolezza della mia carne. Respiro un'aria nuova, il suo stesso Spirito, che è il suo amore per me, donatomi oltre ogni misura dall 'alto della croce.

Prima di incontrare questo amore incondizionato, l 'uomo non è libero, né responsabile. É costretto a cercare di salvarsi da sé, chiudendosi nell 'egoismo senza la capacità di rispondere li-beramente all 'amore dell 'altro. Il Signore che mi ama e muore per me mi toglie il peso di amarmi e di vivere per me - sarebbe l ' inferno! - e mi dà la mia identità di suo figlio, capace di amare come sono amato.

Non si insisterà mai abbastanza nel ricordare che il centro della nostra fede è riconoscere l 'amore che Dio ci ha donato nella morte di Gesù e affidarci a lui perdutamente vincendo la morte della nostra autosufficienza (non è il peccato originale?).

Ecco come nel nostro Battistero sono riuniti insieme tutti questi significati:

si entra per la porta stretta, si scende attraverso un gradino, si entra nella vasca ottagonale e, dopo l’itinerario di “morte risurrezione”, si viene accolti nella Chiesa: la comunità dei salvati, dei rinati dall’acqua e dallo Spirito.

Un ultimo segno che va sottolineato e che apparirà allo sguardo di colui che si avvicina è lo zampillare di quest’acqua. Non è un’acqua ferma, stagnante, ma un’acqua viva “che zampilla per la vita eterna” come dice Gesù alla Samaritana.

Questa collocazione del Battistero è molto significativa anche per la liturgia funebre perché, mentre la bara si trova davanti all’altare, splende la luce del cero pasquale vicino al fonte battesimale dove un giorno abbiamo ricevuto la vita eterna e l’acqua con la quale il celebrante asperge la salma è l’acqua dello stesso fonte del Battesimo. Nel luogo del Battesimo sono le fondamenta della chiesa che il Signore ama più di tutto e della quale si dicono cose stupende. Il Battistero continua la funzione feconda del grembo di Maria generando dall’acqua e dallo Spirito i figli di Dio. L’importante è proprio ricordare, fra quelli che mi conoscono, che tutti l ì siamo nati.

Si dirà di questo fonte: «L’uno e l’altro è nato in esso» e proprio per questo il Signore scriverà nel libro dei popoli: «Là costui è nato». E quando Dio scrive nel libro dei popoli vuol dire che scrive nel libro dei viventi .

Così celebrando la li turgia in memoria dei nostri cari defunti potremo davvero insieme cantare: «Sono in te tutte le mie sorgenti» (cfr Salmo 86).

Questa è la comunione dei santi!

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Ora veniamo alle pitture di questo luogo, tutte incentrate

evidentemente sul tema del Battesimo. Dopo la Pentecoste inizia il tempo della testimonianza della

Chiesa con il Battesimo dei primi cristiani. Il soffio dello Spirito che ha investito i discepoli l i spinge a predicare il Cristo crocifisso e risorto e nell’angolo in alto a destra sopra la porta di ingresso del transetto, è raffigurato il discorso di Pietro alla folla:

Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret -

uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere.

Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!».(At 2,22-37)

Da questo discorso la folla si sente colpita, scopre la coscienza

del peccato e il desiderio del perdono attraverso il cammino catecumenale.

All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero

a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri f igli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro». (At 2, 37-39)

Questa bellissima frase del discorso di Pietro è resa in modo

evidente nella parete sopra la sacrestia attraverso il cammino del catecumeno. L’immagine dà veramente il segno di colui “che è stato trafitto nel cuore dalla parola” che spinge al cammino di conversione. La prima immagine è dunque la rappresentazione dell’imperativo di Pietro “pentitevi”, che fa iniziare il “cammino” del catecumeno che va verso il Battesimo. La seconda immagine è colui che “chiamato” dal Signore nostro Dio è già il luminato da

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questa grazia interiore dello Spirito e si avvia verso il battesimo, simboleggiato dalla terza immagine, momento conclusivo del cammino catecumenale attraverso il quale il “chiamato” entra e appartiene a tutti gli effetti alla comunità dei chiamati: la Chiesa appunto.

Sulla parete di fronte alla sacristia abbiamo Pietro che battezza, splendida citazione dell’ affresco di Masaccio (1401-1428) Pietro battezza i neofiti , 1426-1427 (particolare della Cappella Brancacci, Chiesa del Carmine, Firenze) e il diacono Filippo che battezza l’eunuco. Ci fermiamo un attimo per cogliere la forza catechetica di quest’immagine.

L’angelo del Signore, che impone a Filippo di incamminarsi verso mezzogiorno sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza, potrebbe essere identificato con il Signore stesso. Il Signore risorto che si rende presente nella persona di Filippo nel deserto perché il deserto fiorirà. Il riferimento al deserto è rafforzato anche dalla caratteristica del personaggio incontrato da Filippo. Un eunuco, cioè un uomo senza fertili tà. Il messaggio potrebbe essere semplicemente questo: la parola del Signore, che può rendere fertile il deserto, può anche dare discendenti perfino a un eunuco.

Deserto, eunuco, vita recisa: nessuna discendenza, ma proprio all’interno di questo deserto, di questa negazione della fertili tà, si nasconde la segreta fecondità della parola di Dio. Chi crede nella fecondità della parola di Dio è un altro Abramo, che, fidandosi della promessa di Dio e della sua parola, si incammina senza sapere dove va, lasciandosi nutrire unicamente dalla parola del Signore e, attraverso l’acqua del battesimo, “fa fiorire il deserto”.

LA CAPPELLA PENITENZIALE In questo transetto ritroviamo un altro luogo tipico che nella

nostra chiesa ha una sua definizione precisa e importante: i l luogo del sacramento della penitenza. Sì, perché la definizione dei luoghi nella nostra chiesa ha certamente un insegnamento da offrirci. Da sempre infatti l’edificio chiesa era caratterizzato dai vari luoghi che da soli diventavano una catechesi legata a gesti e forme. Dopo la riforma liturgica in qualche caso si è fatta un po’ di confusione, soprattutto riguardo al battistero, che è stato letteralmente superato come luogo per essere sostituito da “catini” posti al centro della navata centrale in modo che tutti potessero vedere. Così si è fatto una liturgia a uso e consumo dei fotografi , ma perdendo il senso del sacramento. È come se si celebrasse la Messa sulla porta della chiesa perché è più visibile che sull’altare. Così è del cero pasquale che anticamente era su un candelabro marmoreo di mirabile fattura e tenuto in grande onore e noi lo abbiamo ridotto a un carrello che si

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sposta a secondo delle esigenze più o meno liturgiche. Per fortuna il sinodo diocesano ha “proibito” i battisteri sul presbiterio della chiesa e l’uso di catini mobili.

Il cammino di iniziazione e l ' intera esistenza cristiana non

solo riconoscono il valore fondante del battesimo, ma anche fanno costante riferimento a esso e valorizzano opportunamente il luogo della sua celebrazione. In ogni chiesa parrocchiale, perciò, quale segno permanente del battesimo, vi sia e si tenga in onore il battistero, con il fonte battesimale e il cero pasquale. Lo si utilizzi, oltre che per la celebrazione del battesimo, possibilmente anche per i riti della Veglia pasquale e per la commemorazione del battesimo nella celebrazione solenne dei vespri, secondo la tradizione ambrosiana. In ogni caso non è possibile collocare il battistero nell 'area presbiterale, né, di norma e salvo eccezioni, è ammesso l 'uso di fonti battesimali mobili . (sin 47 69 § 5)

Così possiamo dire anche del luogo del sacramento della

penitenza che, essendo in un luogo appartato della chiesa, rende ancora più visibile la “separazione” del peccatore e la sua accoglienza nell’aula principale, quella “eucaristica”.

Forse occorre qui spendere una parola in più, visto che occorrerà soffermarsi con attenzione per cogliere tutta la ricchezza di queste raffigurazioni, che a prima vista sono un po’ misteriose.

L’iconografia riguarda la guarigione dello storpio che si trova sopra l’ingresso del transetto (sempre tratta da Masaccio)

Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la

preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta «Bella» a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Questi , vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l’elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: «Guarda verso di noi». Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!». E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto. (At 3, 1-10)

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Riferimento principale di questo avvenimento è la fede e la

conversione dalla vita di peccato perché si accoglie Cristo vita nuova. Splendida è l’immagine di questo paralitico che incontra Pietro e Giovanni. La sua figura è soltanto accennata eppure quasi tridimensionale, sembra fare un tutt’uno con la terra dalla quale “esce” attraverso la potenza dello Spirito che opera nel miracolo. Diventa quindi simbolo della conversione e della remissione dei peccati, immagine di quella vita nuova che lo Spirito offre a tutti coloro che credono nel nome di Colui che Dio ha fatto resuscitare dai morti.

Questo episodio rende ancor più significativo il luogo “della penitenza” con la presenza dei confessionali. In effetti questo miracolo non è altro che il mandato da parte di Gesù ai suoi discepoli di “rimettere i peccati”

Salito su una barca, Gesù passò all’altra riva e giunse nella

sua città. Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figliolo, t i sono rimessi i tuoi peccati». Allora alcuni scribi cominciarono a pensare: «Costui bestemmia». Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: «Perché mai pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa dunque è più facile, dire: Ti sono rimessi i peccati , o dire: Alzati e cammina? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora al paralitico, prendi il tuo letto e và a casa tua». Ed egli si alzò e andò a casa sua. A quella vista, la folla fu presa da timore e rese gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini . (Mt 9, 1-8)

La gioia della guarigione è la stessa gioia del perdono. Alzati e

cammina è lo stesso augurio che ogni volta che ci confessiamo il sacerdote, a nome di Gesù, ci ripete perché riprendiamo la strada della vita dopo la caduta del peccato.

Questo degli Atti è, dunque, il racconto di un incontro avvenuto tra coloro che ormai sono divenuti i portatori del nome di Gesù Cristo e un uomo qualunque, che non ha nome. Quest’uomo è prostrato davanti al tempio del Signore: è sulla soglia, ma non ha la forza di attraversarla. Non ha la forza di entrare dentro lo spazio in cui abita e agisce il Signore: il Tempio.

All’inizio è lo spazio dal quale è estromesso lo storpio; alla fine diventa lo spazio in cui lo storpio entra pieno di grazia saltellando e lodando Dio.

Il verbo che viene utilizzato dall’autore per sintetizzare ciò che succede nello storpio è molto importante. È il verbo utilizzato abitualmente per indicare la risurrezione. Sembra dunque che Pietro

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voglia ripetere a proposito dello storpio che giace al di qua della soglia del tempio, lo stesso gesto che il Padre ha compiuto nei confronti di Gesù di Nazaret che giaceva nella tomba. Nello storpio ci può essere una compartecipazione alla risurrezione di Cristo perché c’era stata di fatto, a causa del suo handicap, una compartecipazione alla sua sepoltura.

Tutto questo viene indicato dalla parola e dal gesto dell’apostolo Pietro. Siamo già all’interno di una prassi che poi, richiamandosi a Gesù, diventerà esperienza comune della Chiesa è sarà definita prassi sacramentale. Quando al gesto si accompagna la parola che, esaudita dallo Spirito, riempie il gesto di energia, il gesto realizza ciò che sta significando.

“Perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra

coprisse qualcuno di loro”. (At 5, 15-16)

Questa straordinaria energia dell’ombra di Pietro (mirabilmente dipinta dall’autore al centro della parete dove il traslucido colore bianco sembra dare corpo non tanto alla figura fisica dei due apostoli quanto piuttosto alla loro “ombra”) ci costringe a riprendere il riferimento a quella grazia del Signore, che aleggiava sulla comunità come un’ombra luminosa paradossalmente protettiva. Era lo stesso tipo di protezione che aveva accompagnato il popolo nella sua uscita dall’Egitto, lungo tutta la traversata del deserto, fino alla terra promessa. Era la stessa ombra, che Luca aveva individuato come presente sulla persona di Maria il giorno dell’Annunciazione. Era la stessa ombra, la stessa nube luminosa che aveva avvolto la tenda del convegno. I credenti diventano, di fatto, il nuovo santuario, la nuova arca dell’alleanza, in cui Dio ha posto la sua dimora e alla cui ombra i sapienti di Israele desiderano consumare i propri giorni. Così questa ombra di Pietro diventa l’ombra del santuario, dove si proietta l’energia di colui che all’interno del santuario ha posto la sua dimora. Solo che adesso il santuario è Pietro stesso, insieme con i Dodici e la Chiesa. È il santuario alla cui ombra vogliono stare coloro che ne sentono il bisogno per ottenere la salvezza.

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NAVATA PRINCIPALE Si scende nella parte assembleare della chiesa e qui continua la

parte pittorica seguendo i temi del libro degli Atti: la testimonianza cristiana nel mondo.

1° ALTARE “DELLA MADONNA” PIETRO DAVANTI AL SINEDRIO (ATTI 4)

Stavano ancora parlando al popolo, quando sopraggiunsero i sacerdoti, i l capitano del tempio e i sadducei, irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e annunziavano in Gesù la risurrezione dai morti. Fattili comparire davanti a loro, l i interrogavano: «Con quale potere o in nome di chi avete fatto questo?». Allora Pietro, pieno di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato ad un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, la cosa sia nota a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo». Il sommo sacerdote disse: «Vi avevamo espressamente ordinato di non insegnare più nel nome di costui, ed ecco voi avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo». Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avevate ucciso appendendolo alla croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui». All’udire queste cose essi si irritarono e volevano metterli a morte.

Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini: è questa

l’immagine principale di Pietro che si staglia in alto con l’indice puntato quasi a indicare il primato di Dio e della testimonianza nei suoi confronti. Immagine bellissima, poi, quella dei gruppi di sacerdoti del sinedrio che nel loro gioco di colori hanno un grande e suggestivo effetto di forza.

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Immagine solitaria dipinta sulla colonna è Gamaliele, questo fariseo che si stacca dal gruppo e non partecipa al loro ragionamento insano di morte, ma avvisa con sapienza tutto il Sinedrio sulla capacità di discernere il disegno di Dio.

Si alzò allora nel sinedrio un fariseo, di nome Gamaliele,

dottore della legge, stimato presso tutto i l popolo. Dato ordine di far uscire per un momento gli accusati , disse: «Uomini di Israele, badate bene a ciò che state per fare contro questi uomini. Qualche tempo fa venne Tèuda, dicendo di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quanti s’erano lasciati persuadere da lui si dispersero e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anch’egli perì e quanti s’erano lasciati persuadere da lui furono dispersi. Per quanto riguarda il caso presente, ecco ciò che vi dico: Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli; non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!».

Seguirono il suo parere e, richiamati gli apostoli , li fecero fustigare e ordinarono loro di non continuare a parlare nel nome di Gesù; quindi l i rimisero in libertà. Ma essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e a casa, non cessavano di insegnare e di portare il l ieto annunzio che Gesù è il Cristo.

2° ALTARE LA LAPIDAZIONE DI STEFANO (ATTI 6-7)

Stefano intanto, pieno di grazia e di fortezza, faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo. Sorsero allora alcuni della sinagoga a disputare con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava. Perciò sobillarono alcuni che dissero: «Lo abbiamo udito pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio». E così sollevarono il popolo, gli anziani e gli scribi, gli piombarono addosso, lo catturarono e lo trascinarono davanti al sinedrio.

E tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo.

All’udire queste cose, fremevano in cuor loro e digrignavano i denti contro di lui.

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Ma Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio». Proruppero allora in grida altissime turandosi gli orecchi; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: «Signore Gesù, accogli il mio spirito». Poi piegò le ginocchia e gridò forte: «Signore, non imputar loro questo peccato». Detto questo, morì.

In questo quadro si notano diverse sequenze. Innanzitutto

Stefano, che sulla colonna indica la sua scena a significare che questo avvenimento si ripete ogni volta che i testimoni della fede annunziano con coraggio il nome di Gesù. In alto la sua “decisa” predicazione con gli ascoltatori che “non riuscivano a resistere alla sapienza ispirata con cui egli parlava”. La grande scena con i suoi lapidatori , in cui appare uno Stefano tutto luce, trasfigurato, che non ha bisogno di fissare lo sguardo sui cieli aperti perché lui stesso è già cielo. E infine in alto sulla colonna sinistra “il giovane chiamato Saulo” che vede e approva l’intervento.

Ciò che colpisce e non si dimentica facilmente è la figura di Stefano orante. È una figura completamente spirituale nel senso che è invasa dallo Spirito. Si rivela la frase degli Atti “tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo” . Negli Atti lo Spirito è invocato nei momenti più importanti e la sua venuta è strettamente legata alla preghiera. La preghiera trasfigura! E questa figura che si contempla come un cielo aperto sembra ti dica: “Prega anche tu per essere discepolo prima che maestro, ascoltatore prima che dicitore, servo e non padrone dell 'evangelizzazione”.

In alto sui fianchi del costolone che avvolge il lunotto della finestra ci sono due angeli che recano in mano la palma del martirio. Splendide figure, che tengono legata la terra al cielo, appaiono anche nelle altre scene, simbolo della costante presenza divina nel cammino della Chiesa di tutti i tempi.

CONTROFACCIATA LA CONVERSIONE DI PAOLO (ATTI 8-9)

E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: «Saulo, Saulo,

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perché mi perseguiti?». Rispose: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti! Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare». Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti , sentendo la voce ma non vedendo nessuno. Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla.

In questa splendida scena tutti coloro che “masticano” un po’

l’arte riconosceranno il grande quadro di Caravaggio. Si voleva qui evidenziare la “luce” proprio sottolineando ciò che nel quadro stesso di Caravaggio è solo “luce”. Sappiamo dalla storia dell’arte che Caravaggio è un maestro del “chiaroscuro”, per cui il nostro pittore ha voluto ritrarre solo la luce del quadro di Caravaggio riconoscendo, in questo particolare, l’intervento folgorante di Dio che ha portato Paolo da persecutore a testimone della fede, convertendolo sulla strada cosiddetta “diritta”.

Parte da qui l’altro braccio della “croce di luce” che investe il visitatore e che porta, attraverso le volte della navata centrale, verso il grande Cristo asceso al cielo. È sicuramente bello percorrere questa “via lucis” con le volte di puro cielo, tese, come gonfiate dal vento, popolate di angeli e di stelle che appaiono al visitatore, man mano che, con lo sguardo rivolto verso l’alto, le osserva con attenzione. È molto interessante percorrere anche il percorso opposto. Dall’abside si può gustare tutta la serie delle volte quasi in cascata che oltretutto evidenziano la bellezza degli archi dell’architettura stessa per giungere a quel piccolo, ma importantissimo, segno di colore: quasi un’ala trasfigurata che sul grande arco della controfacciata diventa splendido richiamo della Gerusalemme celeste dipinta nell’abside.

3° ALTARE LA VISIONE DI PIETRO DI ATTI 10 IL BATTESIMO DEL CENTURIONE CORNELIO, SEGNO

ED INIZIO DELL’UNIVERSALITÀ DELLA CHIESA NASCENTE

C’era in Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. Un giorno verso le tre del pomeriggio vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: «Cornelio!». Egli lo guardò e preso da timore disse: «Che c’è, Signore?». Gli rispose: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio. E ora manda degli uomini a Giaffa e fà venire un certo Simone detto anche Pietro.

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Egli è ospite presso un tal Simone conciatore, la cui casa è sulla riva del mare». Quando l’angelo che gli parlava se ne fu andato, Cornelio chiamò due dei suoi servitori e un pio soldato fra i suoi attendenti e, spiegata loro ogni cosa, l i mandò a Giaffa.

Il giorno dopo, mentre essi erano per via e si avvicinavano alla città, Pietro salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: «Alzati, Pietro, uccidi e mangia!». Ma Pietro rispose: «No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo». E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano». Questo accadde per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto fu risollevato al cielo. Mentre Pietro si domandava perplesso tra sé e sé che cosa significasse ciò che aveva visto, gli uomini inviati da Cornelio, dopo aver domandato della casa di Simone, si fermarono all’ingresso. Chiamarono e chiesero se Simone, detto anche Pietro, alloggiava colà. Pietro stava ancora ripensando alla visione, quando lo Spirito gli disse: «Ecco, tre uomini ti cercano; alzati, scendi e và con loro senza esitazione, perché io li ho mandati». Pietro scese incontro agli uomini e disse: «Eccomi, sono io quello che cercate. Qual è il motivo per cui siete venuti?». Risposero: «Il centurione Cornelio, uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutto il popolo dei Giudei, è stato avvertito da un angelo santo di invitarti nella sua casa, per ascoltare ciò che hai da dirgli». Pietro allora li fece entrare e li ospitò.

Il giorno seguente si mise in viaggio con loro e alcuni fratelli di Giaffa lo accompagnarono. Il giorno dopo arrivò a Cesarèa. Cornelio stava ad aspettarli ed aveva invitato i congiunti e gli amici intimi. Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio andandogli incontro si gettò ai suoi piedi per adorarlo. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anch’io sono un uomo!». Poi, continuando a conversare con lui, entrò e trovate riunite molte persone disse loro: «Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza; ma Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo. Per questo sono venuto senza esitare quando mi avete mandato a chiamare. In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto».

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Questa scena, poco rappresentata nell’iconografia tradizionale, è

stata voluta qui nella nostra chiesa, nel contesto degli episodi degli Atti degli Apostoli, proprio per sottolineare l’universalismo della fede; la totale apertura a tutti i popoli della terra. Pietro verrà in seguito rimproverato per essere entrato in casa di un pagano e la Chiesa nascente dovrà affrontare questo problema con un Concilio che vedrà Paolo tenace assertore dell’universalità della Chiesa stessa. Così infatti ci ricorda Paolo:

Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani

siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti , per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri , al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti , ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito. (Ef 2, 13 ss)

La Chiesa nascente è il luogo in cui “non c’è più Greco o

Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”. (Col 3, 11)

La scena della visita alla casa di Cornelio è vista dal pittore

come un’inclusione nella grande scena del sogno. Essa è rappresentata come una finestra che si apre nella immensa parete dove si intravede Pietro che predica davanti a un gruppo familiare riunito. In questo contesto è da sottolineare la bellezza evanescente della figura di Pietro che, nella sua leggerezza, più che un Pietro “sognante”, sembra un Pietro “sognato”. In alto angeli portano una tovaglia e tutt’intorno una schiera di animali riempie lo spazio muovendo, con la solita suggestione, le sfumature di colore, rendendo così immateriale il muro che li sostiene.

Bellissimi sono gli angeli in alto sull’arcone della finestra. Essi sono il simbolo dell’angelo apparso a Pietro e a Cornelio. Gli angeli, oltre ad essere i protagonisti delle scene descritte dagli Atti , sono i protagonisti di questo stile pittorico che rendono questa chiesa “una chiesa dipinta con le ali”.

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4° ALTARE “DEL CROCIFISSO” L’ ARRESTO DI PIETRO E SUA LIBERAZIONE (ATTI 12)

In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che questo era gradito ai Giudei, decise di arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Azzimi. Fattolo catturare, lo gettò in prigione, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua. Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui. E in quella notte, quando poi Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro piantonato da due soldati e legato con due catene stava dormendo, mentre davanti alla porta le sentinelle custodivano il carcere. Ed ecco gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il f ianco di Pietro, lo destò e disse: «Alzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. E l’angelo a lui: «Mettiti la cintura e legati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Avvolgiti i l mantello, e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si era ancora accorto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva infatti di avere una visione.

Essi oltrepassarono la prima guardia e la seconda e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città: la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si dileguò da lui. Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei Giudei». (At 12)

È questa scena il più bel commento alla tradizionale preghiera

cristiana all’Angelo di Dio. È la convinzione che la fede fa sempre trovare la strada. Qualsiasi situazione si stia vivendo, la pietà celeste manda sempre un angelo per continuare il cammino

“Poiché tuo rifugio è il Signore e hai fatto dell’Altissimo la tua dimora, non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda. Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi. Sulle loro mani ti porteranno

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perché non inciampi nella pietra il tuo piede. Lo salverò, perché a me si è affidato; lo esalterò, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e gli darò risposta; presso di lui sarò nella sventura, lo salverò e lo renderò glorioso”. (sal 90) Interessante, dal punto di vista cromatico, il percorso che crea il

colore rosa partendo dall’immagine di Pietro con le chiavi in mano, solo sulla colonna, alla torre dove Pietro è rinchiuso e riceve una visita di un piccolo angioletto bianco, quasi simile a una colomba, al rosa sul vestito dell’angelo che accompagna Pietro nella figura centrale sopra il crocifisso, al servo dormiente, splendida citazione del Masaccio sempre della cappella Brancacci di Firenze. Le due figure bianche sono due soldati con la corazza, presi da una miniatura medievale. Anch’essi “dormono”. Si è voluto in questo modo significare che Dio è più forte del male. Nella Bibbia spesso quando Dio agisce l’uomo “dorme” (vedi creazione della donna). L’uomo di fronte all’azione di Dio è impotente e questo nella Bibbia viene indicato con il sonno.

TRANSETTO SINISTRO I VIAGGI DI PAOLO Il protagonista è S. Paolo con i suoi VIAGGI di annuncio della

Parola a tutte le genti. Analizziamo ora le tre grandi pareti del transetto partendo da quella che va verso la navata centrale. In essa c’è una figura presa simbolicamente come sintesi del viaggiare di Paolo e dei pericoli che l’apostolo affronta per annunciare il vangelo. Questa scena avviene dopo un naufragio:

Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: «Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma, dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio. (At 28, 1-6)

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Altra splendida scena di questa parete, a mio parere una delle più belle dell’intero ciclo, riguarda le difficoltà dell’annuncio della Parola. Essa si ispira ai mosaici del duomo di Monreale e riguarda la fuga di Paolo da Damasco, perseguitato perché convertito alla nuova fede cristiana e quindi ritenuto traditore da parte dei suoi amici Giudei.

Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco, e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. E tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: «Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?». Saulo frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo. Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta.(At 9,20-25)

Nella parete sopra la porta di ingresso del transetto troviamo,

invece, la predicazione di Paolo all’Areopago di Atene, luogo della cultura del tempo. Paolo tenta un dialogo con i dotti di allora, che rifiutano la sua teoria sulla resurrezione dei morti.

Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto

timorati degli dei. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dá a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo.

Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione

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umana. Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».

Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra volta». (At 17, 22-32).

Ora abbiamo l’ultima parete, quella vicina all’abside che riporta

il saluto di Paolo agli anziani di Mileto e l’addio alla città terrena con la coscienza di intraprendere l’ultimo viaggio verso il martirio. Paolo è raffigurato nell’atto di uscire dalla porta della città degli uomini per entrare nella Gerusalemme celeste. La città, citazione di Ambrogio Lorenzetti , è la stessa che poi nell’abside indicherà la Gerusalemme celeste. Sorprende poi la lieve malinconica presenza degli anziani della comunità che esprimono dolore e rammarico per il saluto dell’apostolo che sentono, dal cuore, come l’ultimo.

Da Milèto mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della

Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al f ine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni.

Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave. (At 20, 18 ss.)

ABSIDE Il l ibro degli Atti qui si conclude prima di entrare nell’abside e

ritornare quindi alla cupola centrale. In essa incontriamo i simboli della perfetta comunità credente.

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Assidui: nella preghiera, nella frazione del pane, nell’ascolto della Parola, nell’unione fraterna. (At 2, 42)

In questo luogo reso letteralmente magico dalla luce e dal colore

noi ritroviamo grandi significati mediati dal libro dell’Apocalisse. Guardiamo le immagini:

• L’Agnello rit to in piedi al centro. • Sotto i suoi piedi la scritta che definisce l’immagine

perfetta della Chiesa • Sulla destra la Gerusalemme celeste • Sulla sinistra Pietro e Paolo glorificati . • Alzando lo sguardo nel catino dell’abside incontriamo

le due figure del sole e della luna.

Ora veniamo alla loro interpretazione.

Poi vidi rit to in mezzo al trono circondato dai quattro esseri viventi e dai vegliardi un Agnello, come immolato (Ap 5, 6)

L’agnello ritto in piedi al centro richiama il grande Cristo

asceso al cielo che si trova nella cupola e del quale abbiamo già parlato. Questo agnello è “immolato”, quindi ucciso, ma è anche ritto in piedi, cioè risorto. Cristo morto e risorto è il Pastore della sua Chiesa, Colui che, stando davanti a tutti , la guida perché

l’Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li

guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi». (Ap 7,17) L’agnello posto al centro ha poi una funzione luminosa:

La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. (Ap 21, 23)

L’agnello con la sua luce abbraccia tutta la chiesa; lui infatti è la

lampada: “chi segue lui non cammina nelle tenebre ma avrà la luce della vita”; nel catino dell’abside infatti le due figure del sole e della luna sono rappresentate come se fossero “spente”: è l’agnello che illumina e, attraverso la sua luce, abbraccia e trascina a sé l’assemblea che si raduna nel tempio. Per questo si è privilegiato il giallo intenso, i l colore del sole nel suo massimo splendore, il fondo oro bizantino, il colore che indicava la presenza di Dio in tutto il suo fulgore.

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Sulla destra incontriamo l’immagine della città santa adorna come una sposa

Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo (Ap 21, 2)

Oppure come dice il salmo 44

La figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d’oro è il suo vestito.

È presentata al re in preziosi ricami; con lei le vergini compagne a te sono condotte; guidate in gioia ed esultanza entrano insieme nel palazzo del re.

Questa città splendida è il luogo della definitiva comunione tra

Dio (lo sposo) e la Chiesa suo popolo (la sposa). La scritta che definisce l’immagine perfetta della Chiesa

Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e

nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. (At 2,42)

Questa scritta è composta con i colori dell’arcobaleno, con i

colori dell’alleanza tra Dio e l’uomo dopo il diluvio, con i colori della gloria di Cristo, i colori della mandorla “Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il trono” dice l’Apocalisse.

Perché la scelta di mettere qui nell’ambito della Gerusalemme celeste la scritta degli Atti degli apostoli che definiscono la comunità dei credenti in cammino verso la patria del cielo? Perché questa immagine, nonostante i nostri continui sforzi, resta comunque una tensione, mai un compimento. Qui, su questa terra infatti , non sarà mai pienamente realizzata. È qualcosa di certo, è pure sperimentabile in tante occasioni, ma sarà perfetta solo nell’aldilà. Questo è vero anche negli Atti degli apostoli . Luca infatti ha descritto la comunità ideale, ma anche quella delle origini aveva grandi difficoltà ad assomigliare a questo volto perfetto.

Questa immagine di amore e di comunione aleggia infatti sopra

tutti , come una specie di aureola, di nube luminosa, che avvolge. È bellissimo questo quadro di Luca, questa chàris, questa nube luminosa, segno della benevolenza e della protezione di Dio, che avvolge tutta la comunità.

La stessa espressione era stata utilizzata da Luca a proposito di Maria, dove la chàris, già augurata a Maria nella prima parola dell’angelo, veniva sviluppata nell’ombra protettiva di Dio che

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scendeva sopra di lei, per far sì che il generato da Maria fosse santo e chiamato Figlio di Dio. Era definita ombra dell’Altissimo, ma si trattava di questa chàris. Questa stessa nube luminosa e protettiva, dunque come aveva accompagnato il popolo di Dio lungo il deserto, come si era posata sulla Vergine Maria, così adesso protegge e rende feconda la comunità dei credenti che si ritrova nella Chiesa. Di fatto siamo di fronte a una promessa che ci accompagnerà lungo la storia, lungo la vita della Chiesa, la vita della comunità dei credenti, e sarà per noi il segno che nella Gerusalemme celeste, ai piedi del trono dell’agnello, questa immagine di perfetta comunione sarà veramente realizzata.

Si ritorna di nuovo alla cupola centrale: Cristo che ricapitola in sé tutte le cose.

In questo percorso infatti si realizza la frase di Paolo agli Efesini: “Dio ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. (Ef 1, 9-10)

In questo senso Cristo diventa “il fine” di tutto, l’omega si

ricongiunge a quell’alfa che aveva iniziato il percorso e dà definitiva pienezza a quel disegno pensato da Dio fin dall’origine dei tempi.

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CONCLUSIONI SPIRITUALI Cosa possiamo dire, dunque, al termine di questo cammino?

• LASCIATI TRASFIGURARE! Lasciarsi attrarre da queste immagini per essere trasfigurati

da loro e imprimere in noi quell’immagine che ci rende conformi al Figlio di Dio, come dice Paolo nel meraviglioso capitolo 8 della lettera ai Romani:

«Poiché quelli che Egli da sempre ha conosciuto li ha anche

predestinati ad essere conformi all ' immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29). Si tratta di un'immagine sempre soggetta alla drammatica

possibilità di essere deformata dai tortuosi sentieri con cui anche il credente disegna per Dio lo spazio e i modi della divina rivelazione. Per questo occorre un cammino continuo di trasformazione, come non molto più avanti lo stesso Apostolo ci ricorda nella seconda lettera ai Corinti:

«E noi tutti , a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio

la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l 'azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).

Conformazione alla forma filiale di Gesù, deformazione

dell 'identità cristiana nella storia delle libertà, trasformazione nel viaggio verso il compimento finale dell 'uomo, sono tutti momenti dell 'ascesa di gloria in gloria verso il mistero della Trinità divina. La forma si alimenta allo splendore della manifestazione gloriosa di Dio. Il suo dinamismo è operazione eminentemente spirituale. Lo Spirito del Signore è l 'atmosfera che fonde insieme l 'attrazione della forma divina e il rapimento dell 'umana attesa di dar volto al proprio esistere. Sì, perché alla fine la forma filiale dà ad un tempo 'volto' all 'uomo e 'dimora' alla fraternità ecclesiale. Il volto e la dimora sono il nome dell 'identità cristiana, la sua forma seducente, lo splendore della bellezza che purifica e colma il nostro desiderio.

Non so se possiamo definire questa pittura come appartenente a una nuova dimensione, come dice Paolo a una ”Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dá vita.”

Allora sempre parafrasando, se così è lecito fare, 2 Cor 3 occorre, per fissare questa pittura, mettersi non più nella

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dimensione dell’antico, del figurativo perché sarebbe come fissare il volto di Mosè contemplando uno splendore soltanto effimero, ma, se ci fissiamo troppo sull’effimero, perdiamo il confronto con la sovraeminente gloria della Nuova Alleanza. Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo. Forti di tale speranza, noi guardiamo questa pittura sapendo che ci lascia un effetto assolutamente duraturo. Questa pittura non appartiene alla lettera ma allo Spirito come dice Paolo. Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti , a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore. Succede proprio così all’ascoltatore attento di queste luci, di queste immagini: si sente proiettato in una libertà tutta cielo, in una libertà dello Spirito appunto dove “tutto è puro” e viene coinvolto veramente in questa immagine secondo il percorso straordinario che questa chiesa emana, di gloria in gloria, per poter realizzare questa trasformazione che la libertà dello Spirito dona di compiere a colui che contempla a viso scoperto questa parola impressa nella pietra.

• VEDERE COL CUORE

C’è uno sguardo interiore, profondo che il cristiano è chiamato a valorizzare, come diceva A. de Saint Exupery “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Il pittore Vago, secondo lo stile che gli è proprio, ha voluto inserire le figure con la storia degli apostoli in un gioco di sfumature e di colori partendo dal concetto biblico: “dalle tenebre alla luce”, “dalla terra al cielo”, “attirerò tutti a me”.

L’uomo infatti , per natura, aspira verso l’alto e cammina verso un centro: questo “alto” e questo “centro” per il credente è sempre Cristo risorto. La chiesa dunque, attraverso questa “croce di luce”, ci dovrebbe spingere in avanti verso Lui, Cristo, i l centro e ci dovrebbe proiettare verso l’alto, cioè sempre verso Lui, che si trova lassù, seduto alla destra di Dio.

Mi pare molto importante ricordare qui la frase di Paolo ai Colossesi

“Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù,

dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria”. (Col 3, 1-4)

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Da questo gioco di colori che crea questo significativo percorso il pittore fa emergere le figure che narrano i momenti fondamentali della Chiesa delle origini secondo il l ibro degli Atti .

Ritrovo in questa tecnica, oltre che un canone pittorico, un significato “teologico”. Come ogni mistero di Dio si rivela all’uomo con segni e immagini, ma non si possiede mai in tutta la sua pienezza e completezza, così queste immagini appaiono a noi definite, ma ancora misteriose, visibili ma “velate”, appartenenti alla storia di Dio con l’uomo che sta percorrendo le strade della vita, ma che non è ancora giunta alla sua definitività.

Dal punto di vista tecnico noi vediamo una sorta di immagine simile a quegli affreschi coperti da lungo tempo che emergono a poco a poco man mano che li si libera dall’intonaco soprastante. Questa pittura “vive di nulla” ed è forse questa contraddizione a renderla ricca di fascino impalpabile. Essa è tutta cielo e luce, è percorso più interiore che storico e della storia della salvezza esalta più il carattere spirituale che narrativo. Più che la luce di un Caravaggio che, con raggi esterni che illuminano le scene danno vita a momenti tratti dal buio, ritrovo in questa pittura un Beato Angelico con una sorta di luce interiore che l’immagine stessa proietta in colui che l’ammira, quei “fondi oro” della pittura gotica che possiedono una luce intrinseca e una profondità straordinaria.

• RICOMPRENDERE IL CAMMINO DI FEDE

Nella pittura di Vago, attraverso il colore, ricompare il creato, non uscito dal nulla, ma come appena generato, interprete del senso di quell’inusitato e irraggiungibile fiat che sta all’inizio. La sua “rappresentazione” non è la duplicazione di una realtà conosciuta, come scrive Andrea Dall’Asta, ma la “ri-presentazione di un principio originario in tutta la sua pienezza sensibile”.

Nel racconto biblico della creazione, come poi nella simbolica cristiana, è il grembo eterno di Dio la sorgente inestinguibile di tutte le possibili forme ed è solo un profondo legame con questa sorgente che assicura l’inesauribile reinvenzione nel tempo e nello spazio del mondo da parte dell’uomo.

L’esperienza pittorica di Valentino Vago, nell’uso dei suoi specifici mezzi, rivela in modo impressionante una capacità di dominio dello spazio in una sintesi unitaria che esprime all’interno di una libertà originata e potenziata da quel legame. La definizione dello spazio che Vago produce nelle sue chiese è qualche cosa di incontenibile. Ora solo Dio è senza limiti e il suo intervento nella vita dell’uomo è lo scardinamento dei confini spaziali che lo rinchiudono; solo in Lui è possibile oltrepassare questo limite.

Se il movimento del colore fa fremere la superficie pittorica rappresentando quel gesto creaturale connesso all’origine, tale spazio nelle chiese decorate dal pittore si popola di immagini

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secondo un preciso programma iconografico che si aggancia alla dedicazione della singola parrocchia e risponde al compito che la Chiesa ha sempre avuto, quello di “fare memoria” non solo attraverso la liturgia sacramentale, ma attraverso il racconto della salvezza. Da perfetto moderno Vago ritrova nello stracolmo forziere della storia dell’arte quelle immagini che sono state inventate dagli artisti e davanti alle quali i cristiani hanno avvicinato il loro Dio nel corso di tanti secoli. Nella tradizione cattolica non esiste un’immagine sacra per eccellenza, ma schiere d’immagini che avvicinano il mistero, provano a rappresentarlo se pur inadeguatamente, ne aprono uno spiraglio secondo la sensibilità e la percezione di ogni artista in un tentativo sempre nuovo che si offre alla contemplazione del riguardante, che muove e accompagna la sua fede.

Da Giotto al Beato Angelico, da Masaccio a Michelangelo, da Tiziano a Caravaggio, Vago restituisce, come proiettata sul muro, la cultura più preziosa della nostra tradizione occidentale, quella che più ha amato le immagini, ricostituendo quel nesso che inscindibilmente lega la storia dell’arte a quella della Chiesa.

Le citazioni che Vago fa rimbalzare sul muro sono solo un leggero appunto, sagome controluce che appaiono sorprendendo il riguardante e costui le scopre visitando lo spazio sacro. Esse lo rendono ancora più abitabile, raccontano di una storia che ha attraversato il tempo e, a loro volta, sono rese simultaneamente presenti dal mistero che nella Chiesa le vivifica.

La presenza del passato viene trasferita sulla superficie dipinta da Vago, ma il suo significato aggiunto non è che le “cose stesse” stanno al posto della loro raffigurazione, ma che esiste uno spazio pittorico indicibile capace di ospitare le rappresentazioni attraverso cui la tradizione cattolica è stata più potentemente resa credibile, nel riconoscimento di una perenne continuità e di un interminabile rinnovamento.

Restituire le tracce di un cammino precedente vuol dire non solo recuperare il senso della storia, della sua molteplicità espressiva, ma vedere tradotta l’esperienza di fede che l’accompagna nel suo aspetto più sensibile.

• VIVERE UNA ESPERIENZA DI CONTEMPLAZIONE E DI

PREGHIERA Non posso concludere questo percorso senza mettere alla fine

una mia particolare impressione, che prendo da una famosa preghiera della Bibbia, quella di re Salomone, che sente la forte sensazione della presenza di Dio nel tempio:

«Signore, Dio di Israele, non c’è un Dio come te, né lassù

nei cieli né quaggiù sulla terra! Tu mantieni l’alleanza e la

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misericordia con i tuoi servi che camminano davanti a te con tutto il cuore. Tu hai mantenuto nei riguardi del tuo servo Davide mio padre quanto gli avevi promesso; quanto avevi detto con la bocca l’hai adempiuto con potenza, come appare oggi. Ora, Signore Dio di Israele, mantieni al tuo servo Davide mio padre quanto gli hai promesso: Non ti mancherà un discendente che stia davanti a me e sieda sul trono di Israele, purché i tuoi figli veglino sulla loro condotta camminando davanti a me come vi hai camminato tu. Ora, Signore Dio di Israele, si adempia la parola che tu hai rivolta a Davide mio padre.

Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti , tanto meno questa casa che io ho costruita! Volgiti alla preghiera del tuo servo e alla sua supplica, Signore mio Dio; ascolta il grido e la preghiera che il tuo servo oggi innalza davanti a te! Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: Lì sarà il mio nome! Ascolta la preghiera che il tuo servo innalza in questo luogo.

Ascolta la supplica del tuo servo e di Israele tuo popolo, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora, dal cielo; ascolta e perdona. (1Re 8,23-30)

Così entriamo in questa chiesa con la coscienza che è proprio

vero: Dio abita sulla terra! La bellezza dei suoi colori agisce immediatamente sull 'anima. È impossibile entrare nella sua grande navata senza sentirsi purificati . La chiesa con la sua bellezza agisce come un sacramento; e anche qui ritroviamo l 'immagine del mondo. La chiesa, come la pianura, come la foresta, ha la sua atmosfera, il suo profumo, la sua luce, il suo chiaroscuro, le sue ombre. Ma si tratta di un mondo trasfigurato nel quale la luce più accecante è quella della realtà, dove le ombre si fanno più misteriose. Già ci sentiamo in seno alla Gerusalemme celeste, alla città futura. Ne gustiamo la pace profonda; il rumore della vita si infrange contro le mura del santuario e diventa un rumore lontano; ed ecco l 'Arca indistruttibile, contro la quale i venti non prevarranno. Nessun luogo al mondo ha dato agli uomini un senso di più profonda sicurezza. Nessun luogo al mondo ha dato agli uomini la certezza che Dio ti ascolta, t i ama e ti perdona. Nessun luogo al mondo ha dato agli uomini la forza di diffondere il ricordo della bontà di Dio e l’arte di cantare alle generazioni future le sue meraviglie.

Riprendiamo allora, ancora una volta, il bellissimo inno della dedicazione della chiesa che dice:

Nessun turbine la scuota, né l 'abbatta il vortice dei venti, né

la penetrino le tempeste. Il Tartaro oscuro delle profonde

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tenebre ha orrore di questa casa. Quindi Ti chiediamo che, con volto sereno, Tu dica sì alle nostre suppliche; custodisci i tuoi servi che con grande amore celebrano le gioie di questo Tempio, che è Tuo .

È una domanda. Non chiede l 'annullamento del sacrificio, della

pena e della prova: lì chi cerca Cristo mantiene la pace, cioè mette Cristo al cuore della vita, a fondamento della vita.

Le gioie del Tempio: le gioie della casa, la coscienza della sacralità di questo luogo (della «casa») è connaturale al desiderio della serenità del futuro (l ' incombenza del destino non più paurosa, ma serena,): che la vita sia semplice e non spaccata dalla tempesta! Che ogni giornata sia lieta nella sicurezza della felicità futura e che tutto il popolo si ritrovi sempre in questa unità di coscienza e di lode, di operatività nel tempo e nello spazio!

Provate a pensare che orrenda cosa è la lontananza da questo! Il Christe, cunctorum diventi un punto di riferimento per il recupero continuo della sacralità di quella dimora in cui Cristo ci ha chiamati a vivere e che è l 'organo generativo del mondo nuovo che incomincia qui, per la nostra letizia e per l 'amore agli altri .

CONCLUSIONE Il giorno 10 novembre 2001 alla presenza dei due artisti mentre

si presentava a tutta la comunità il grande progetto della realizzazione artistica, concludevo quella pubblica assemblea non senza un certo timore e con la domanda. Ne vale la pena? Questo sforzo di tempo, di energie, forse ancora più oneroso dello sforzo finanziario stesso? Riporto qui di seguito le conclusioni che allora avevo delineato al buio e che oggi rileggo alla luce del progetto realizzato.

Sì, ne vale la pena perché: 1) L’arte è un ponte gettato con l’esperienza storica dell’uomo

attraverso la quale si inserisce il l inguaggio comunicativo della fede. L’arte è capace di dire Dio nel nostro mondo. Su questo vale la pena investire!

Trovandomi una volta in Duomo da solo a pregare mi si avvicinò un signore che mi chiese di confessarlo. Era moltissimo tempo che quest’uomo non si confessava e alla mia domanda che cosa l’avesse spinto mi rispose: “La straordinaria bellezza di questo tempio!”. Di questi episodi ce ne sono tanti . Ricordo, fin da piccolo, la conversione di Paul Claudel che ascolta il canto del Magnificat nella cattedrale di Notre Dame di Parigi o di S. Agostino affascinato dal canto dei salmi.

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Un primo augurio è che la nostra comunità, anche attraverso la meditazione nei gruppi di ascolto sugli Atti degli apostoli viva un «momento di grazia», cioè un momento in cui l 'essere umano ha la possibilità di fare una qualche esperienza dell 'Assoluto che lo trascende.

2) L’arte favorisce l’incontro dei popoli e delle culture,

soprattutto in questo momento di confusione. Il bello fa incontrare, tutta l’arte infatti possiede un’immensa capacità di sintesi. «Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell 'ammirazione». (Concilio)

“Dio contemplando la creazione vide che era una cosa molto buona o molto bella.” (Gen 1)

Il secondo augurio era quindi indirizzato agli artisti: quel

«soffio» con cui lo Spirito creatore pervadeva sin dall ' inizio l 'opera della creazione s 'incontri con il vostro genio e ne stimoli la capacità creativa. Vi raggiunga con una sorta di il luminazione interiore, che unisce insieme l 'indicazione del bene e del bello, e risvegli in voi le energie della mente e del cuore rendendovi capaci a concepire l ' idea e a darle forma nell 'opera d'arte.

3) Arte come discorso che ci collega a una memoria del passato.

Come dicevo all’inizio di questo percorso siamo chiamati a compiere un’opera che i nostri padri hanno iniziato. Così infatti ci esorta il libro del Deuteronomio: “Guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli”. (Dt 4, 8-9)

I valori di fede e di devozione, di amore e di comunione

espressi nella famiglia e nella comunità che i nostri padri hanno voluto trasmetterci con la costruzione di questo edificio noi dobbiamo tenerli vivi nella memoria per poterli trasmettere ai nostri figli . Per questo e solo per questo motivo noi abbiamo ritenuto significativo portare a compimento quest’opera.

Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno

raccontato, non lo terremo nascosto ai nostri figli . (Salmo 77) Mi piace ricordare infine l’immagine del cammino dei pellegrini

che, come i grandi cercatori di Dio di tutta la storia della salvezza,

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hanno fatto della loro vita un cammino di fede e di ricerca sulla base di una promessa. Come i pellegrini medievali che entravano nelle grandi cattedrali gotiche avevano l’impressione di compiere l’ingresso nella patria del cielo, così l’uomo di oggi, che si ri trova sempre più ancorato ai beni della terra e sempre più oppresso dalle tenebre di un eccessivo materialismo, possa ritrovare in questa chiesa una spinta verso l’alto, un desiderio di ricerca di qualcosa e di Qualcuno al di fuori di sé e sperimentare la nostalgia di quella patria e di quella città “migliore” che Dio ha preparato per noi.

Così ci ammonisce l’autore della lettera agli Ebrei: “Nella fede

morirono tutti i nostri padri, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così, infatti , dimostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti , avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città”. (Eb 11, 13-16)

E allora l’ultimo augurio che prendo ancora dalla Parola di Dio.

Noi siamo infatti i l tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo. E io vi accoglierò, e sarò per voi come un padre, e voi mi sarete come figli e figlie, dice il Signore onnipotente. (1 Cor 6, 16-18)

Sia questa chiesa un “tempio del Dio vivente”, un “bene promesso”, una “città preparata” da Dio per tutti coloro che, entrandovi, possano conoscere che “questo Dio” è davvero “il loro Dio” e il “Dio con loro”.

Il Parroco Don Maurizio Corbetta

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