Libri di esoterismo, guarigione psicologia su Crisalide.com - … · 2019. 4. 16. · (Basilio...

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  • Collana

    Tradizioni

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  • Gianpaolo Fiorentini

    A lezionedAll’AlchimistA

    Un corso modernoper imparare un’arte antica

    Edizioni Crisalide

  • Edizioni CrisalideVia Campodivivo, 43 - Spigno Saturnia (LT)

    [email protected]

    ISBN: 978-88-7183-228-9

    indice

    PrimaLa mia infanzia 13

    DuranteLa costruzione dell’athanor 59

    Nigredo 85

    Dubbi 135

    Albedo 139

    Rubedo 163

    DoPoLa mia vita adulta 177

    aDessoDiscorso sull’alchimia 193

  • Ciò che è in alto fallo in basso, ciò che è visibile fallo invisibile, il palpabile rendilo impalpabile e ripeti ciò dal basso all’alto, cosicché dall’invisibile sia il visibile, dall’impalpabile il palpabile.

    (Basilio Valentino)

    Il Signore Iddio ci ha fatto questo dono a causa dei poveri e dei disperati.

    (Anonimo greco)

  • Prima

  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    La mia infanzia

    Mi chiamo Maria Celeste. Il mio primo nome è un nome tradizionale di famiglia, le mie nonne si chiamavano Maria Bruna e Marie Thérèse, e doveva rivelarsi molto importante per la mia futura vita interiore. Mio padre aggiunse il nome Celeste nella speranza che non dimenticassi mai il cielo, la sua purezza, la sua vastità e la sua trasparenza. Cosa che ho fatto, anche se in termini diversi da come lui intendeva.

    Per parte di padre sono di antiche ascendenze catare. I miei antenati so-pravvissero alle stragi medioevali nel sud della Francia e si rifugiarono nel-le valli più remote dei Pirenei. Quando i tempi diventarono più tranquilli, così mi raccontava mio padre, scesero in Cataluña, dove vissero seguendo i precetti catari di onesto lavoro, dignitosa povertà, amicizia per gli uomini e per tutti gli esseri viventi, e compassione per le loro sofferenze.

    Molto più tardi alcuni tornarono in Francia e un loro lontano discen-dente, mio padre, nacque alla fine dell’Ottocento a Mentone, oggi la ville fleurie, la città fiorita, la cui piccola storia è stata travagliata come tutte le storie degli uomini e delle loro città. Sembra che senza drammi non possa esserci storia umana.

    Attraversata da una strada che collegava Roma alle Gallie, nel Medioevo fu feudo genovese della famiglia dei Vento, che costruirono il castello di cui rimangono solo alcuni tratti di mura che oggi racchiudono il ci-mitero che domina la città. Il loro ricordo è rimasto e c’è ancora una rue Vento. Poi passò al principato di Monaco, divenne francese con la

  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    Rivoluzione, per due volte si dichiarò città libera sotto il protettorato dei Savoia assieme alla vicina Roquebrune finché, nel 1861, un plebiscito forse non privo dei soliti, complessi intrighi politici, ne sancì la definiti-va annessione alla Francia.

    Qui nacqui anch’io, nel 1928. Non era un brutto anno. Io non potevo saperlo, ma pochi giorni prima della mia nascita era stato stipulato a Pa-rigi un trattato che, se fosse stato osservato, avrebbe evitato gli orrori suc-cessivi. Si chiamava trattato di Briand-Kellog, in cui sessantatre nazioni (sessantatre!) dichiaravano di bandire la guerra dai loro programmi po-litici. Tra i firmatari c’erano la Francia, l’Italia, la Germania, l’Inghilterra e gli Stati Uniti: i protagonisti del futuro conflitto mondiale. Ero venuta al mondo nel ventennio di pace, ma la pace non doveva durare a lungo.

    Mio padre faceva la spola da una parte e dall’altra del confine guada-gnandosi un povero ma onesto pane come dottore dei cavalli. Lo chia-mavano così. In realtà non era né un medico né un veterinario, e aveva iniziato come semplice maniscalco che pareggiava e ferrava zoccoli. Ma i cavalli non erano solo il suo mestiere, erano la sua passione. Per amore di quegli animali si mise a studiarne le malattie più diffuse, come la mor-va e la congestione polmonare, applicando le cure dell’epoca e altre di sua invenzione. A poco a poco si sparse la voce della sua bravura e della sua onestà, e il risultato fu che era sempre in giro e ben poco a casa.

    Io gli tenevo il broncio e lo ossessionavo chiedendogli perché avesse scelto quel lavoro che lo costringeva a stare così tanto lontano da casa, e ogni volta mi rispondeva pazientemente che il dovere di un buon cataro è alleviare le sofferenze di tutti gli esseri, perché tutti gli esseri viventi soffrono. Quanto ai cavalli in particolare, il destino aveva voluto così. Il fatto di non essere un vero medico degli animali lo avvantaggiava, per-ché il suo onorario era infinitamente minore di quello di un veterinario laureato a Tolosa o a Lione.

    Anche a me piacevano i cavalli, avevano un buon odore e uno sguardo dolcissimo. Ricordo che una volta avevo fatto ridere mio padre para-gonando i grandi occhi marroni dei cavalli ai frutti delle castagne e le loro lunghe ciglia alle spine del riccio. “Hanno gli occhi buoni come le castagne, perché le castagne sono così buone!”. Così la fantasia infantile colora il mondo di poesia.

    In territorio francese, mio padre batteva l’ampia area collinare che da Mentone risale verso Gorbio e Castellar , fino al lontano Sospel. In Italia

    risaliva da Ventimiglia la valle del Roya oppure si spingeva fino al passo del Langan dove, in una piccola frazione sopra Pigna, aveva conosciuto e sposato mia madre. Seguiva un giro più o meno fisso. Arrivava con il suo calesse e i ferri del mestiere, entrava nell’osteria locale e la voce del suo arrivo si spargeva. Io vidi la luce durante uno di questi spostamenti al di qua e al di là del confine. Mia madre, anche se prossima al par-to, aveva voluto accompagnarlo. Ruppe le acque a Latte, in Italia, e mi diede alla luce a Mentone, in Francia. Forse anche per questa doppia nazionalità non mi riuscì difficile accettare la molteplicità delle visioni della vita e del mondo che il mio futuro maestro mi avrebbe insegnato.

    I miei primi dodici anni furono poveri, ma sereni. Vivevamo in due stanzette nella rue Longue, la vecchia strada romana, quasi ai piedi della scalinata che porta alla chiesa di San Michele. Mia madre contri-buiva al mantenimento della famiglia facendo dei lavori di cucito per conto di una sarta. Non arrivarono fratelli né sorelle, perché mio pa-dre, fedele al dettato cataro che la vita è male, e quindi è male mettere al mondo una creatura in un mondo di sofferenza, aveva consentito a far diventare madre sua moglie solo per amore: l’amore che aveva per lei e l’amore che riceveva da lei.

    Povertà e serenità familiare andavano a braccetto e io era una bambina contenta. Fino ai miei dodici anni. Nel 1939 le grandi nazioni europee dimenticarono di avere firmato il trattato di Briand-Kellog e scoppiò la Seconda guerra mondiale. Agli inizi del mese di giugno del 1940, i venti della guerra soffiarono sulla mia città sconvolgendo la mia vita. All’inizio di giugno, in previsione dell’imminente scoppio delle ostilità, Mentone venne evacuata e lo stesso accadde al di là della frontiera, a Ventimiglia. Forse fu questa doppia evacuazione, e i disordini che ne seguirono, a provocare la tragedia.

    La notte del 10 giugno, l’esercito francese fece saltare i ponti e le gal-lerie ferroviarie. Poi sulle nostre teste iniziarono a sibilare i proiettili diretti contro le fortificazioni di Cap Martin, che difendevano la gran-de ansa della città, e alle dieci del mattino del 22 giugno le bombe iniziarono a cadere su Mentone. Qualche giorno dopo, ascoltando dei militari italiani parlare per strada, scoprii che ci avevano bombardato anche da un treno corazzato che sparava all’uscita della galleria della Mortola. I proiettili continuarono a cadere fino al pomeriggio, quan-do, come venni a sapere sempre dalle voci che correvano per strada, le batterie piazzate sul Mont Agel, la montagna che domina Montecarlo,

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  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    misero fuori uso il treno. “I nostri pezzi da 75, più di mille colpi!”, sentii vantarsi due uomini che parlavano a bassa voce tra di loro. Parlavano in dialetto mentonese. Forse un militare italiano della valle di Pigna o del Langan, dove mio padre mi portava da bambina, o di qualche valle del cuneese, avrebbe potuto capirli, ma nessun altro. Molto più tardi mi informai e scoprii nelle cronache militari, per chi si interessa di queste cose, che i due cannoni da 75 millimetri del Mont Agel avevano sparato più di milleduecento proiettili in poche ore. Come si faccia a sparare così tanta roba in così poco tempo non l’ho mai capito, ma non sono un ingegnere militare.

    Il giorno dopo, il 23, sotto una pioggia torrenziale, gli italiani occuparo-no la città, mentre la loro aviazione continuava a bombardare Cap Mar-tin e Mont Agel. Quando andai a cercare i documenti di quelle giornate lessi che i vincitori avevano avuto molte più perdite dei vinti: 154 morti e 712 feriti, contro gli 8 morti e i 30 feriti francesi.

    armi, erano usciti dall’avamposto, avevano chiuso la porta a chiave ed era-no tornati a Cap Martin, nella zona non occupata, con le chiavi in tasca.

    All’inizio di luglio arrivò anche il duce per celebrare la conquista di quei pochi chilometri quadrati. Invece mio padre, che in quei giorni era dall’altra parte del confine, non tornò. Mai più. Di lui non si seppe più nulla, nessuno ne aveva notizie. Mia madre riuscì a chiedere ai suoi paren-ti in Italia di fare ricerche. Tutto inutile. Quando, due anni dopo, alla fine del ‘42 gli italiani organizzarono un piccolo campo di concentramento in una caserma di Sospel, ci andai senza speranze. Come molte altre volte, la mia seconda lingua mi aiutò e i carabinieri italiani mi lasciarono scorrere le liste dei civili francesi internati. Il nome di mio padre non c’era.

    La maggior parte dei mentonesi evacuati aveva cercato rifugio all’altro capo della Francia, sui Pirenei, come i miei lontani antenati catari, ma le pessime condizioni climatiche che flagellavano i Pirenei quell’anno li costrinsero a ritornare in Francia, anche se ormai era la Francia collabo-razionista di Vichy. In attesa di tempi migliori si stanziarono soprattutto nella regione del Var, non lontano da Mentone. Mia madre e io, invece, eravamo rimaste. Forse mio padre era stato chissà come travolto e in-ghiottito da quelle ondate di evacuazioni? Ci sembrava improbabile. Era stato firmato l’armistizio, la breve guerra era finita. Era in Italia? Perché non ritornava dalla sua famiglia?

    Dalla dignitosa povertà passammo agli stenti. Per portare a casa il neces-sario per sopravvivere, mia madre stava fuori casa tutto il giorno. A me diceva che andava a lavorare come cuoca per i soldati, non dimenticate che era italiana, ma oggi non ne sono tanto sicura. Allora non mi facevo tante domande, ma diventata più grande sì. Mia madre era giovane e bella, almeno ai miei occhi e certamente a quelli di mio padre. E quan-do si hanno dei figli si fa qualunque cosa per loro.

    Una sera non tornò e nemmeno il giorno dopo. Né due giorni dopo. Né la settimana dopo. Né il mese dopo.

    In casa c’era una piccola scorta di pane, olio e patate, e così il mio cibo diventò pane spalmato d’olio e patate cotte nella cenere. Un po’ di pane secco bagnato nell’acqua, un filo d’olio, e i morsi della fame erano placati. Per qualche giorno la aspettai e frugai a passi incerti di dodicenne le strade attorno a casa nostra. In realtà non sapevo dove andare né dove cercare. Poi iniziai a fare la posta davanti all’albergo dove gli occupanti avevano stabilito il loro quartier generale. Le strade

    Mentone Occupata

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    Fu una guerra brevissima. Il 24 giugno venne firmato l’armistizio di Villa Incisa. Le bombe non caddero più, ma i soldati, i cannoni, i fucili e le ca-mice nere erano arrivati e ne arrivavano sempre di più. C’era paura, ma un caso che era sulle bocche di tutti era occasione per farsi beffe degli oc-cupanti. Riguardava il piccolo avamposto della linea Maginot sul confine, a Ponte San Luigi, che con nove uomini aveva tenuto testa ai nemici per quasi dieci giorni, dal 19 al 27 giugno, cioè tre giorni dopo l’armistizio. Si diceva che i nove eroi, a cui era stato concesso il doveroso onore delle

  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    avevano cambiato nome. L’avenue Edouard VII, che collega la stazione al lungomare, era diventata via Francisco Franco, e la promenade du Midi era diventata la passeggiata Mare Nostrum. Avevano messo persi-no dei vigili urbani italiani. Grazie a mia madre ero bilingue, parlavo italiano con accento ligure e, quando trovavo il coraggio, chiedevo di lei ai soldati. Avevo con me una foto del giorno delle sue nozze. Alcuni mi trattavano in modo gentile, guardavano la foto e scuotevano la testa, altri mi rivolgevano uno strano sorriso, come se fossi troppo piccola per capire quello che a loro sembrava molto probabile. Nessuno poté aiutarmi, nemmeno le poche persone conosciute che erano rimaste, nemmeno il parroco di San Michele.

    Quando olio, pane e patate finirono raccattai qualcosa dai soldati, ma era davvero poco e non potevo andare avanti così. Iniziai a disperarmi, ma il cielo vegliava. La sera del secondo o del terzo giorno di disperazio-ne bussarono alla porta. La guerra mi aveva portato via i miei genitori, ma, anche se non potevo saperlo, l’immediato armistizio aveva fatto in modo che a Mentone rimanesse quello che sarebbe diventato mio pa-dre adottivo, il mio salvatore, il mio mentore e il mio maestro. Tra poco vi spiegherò come.

    Bussarono alla porta. Aprii nell’innocenza dei miei giovani anni. Era un uomo che conoscevo. Veniva ogni tanto a casa nostra a discutere con mio padre di cose che né io né mia madre capivamo, ma era un vecchio signore gentile vestito da sacerdote che mi portava sempre un piccolo regalo, in genere qualcosa di buono da mangiare che noi ricambiavamo con delle piccole attenzioni, anche soltanto un piattino di olive. Non conoscevo il suo nome, ma ogni volta che veniva a trovarci mio padre ci avvertiva di non disturbare le sue conversazioni, a volte anche molto lunghe, con “il canonico”. Lo conoscevo con quel nome. Una volta mio padre mi spiegò che era un canonico della chiesa di San Michele, un uomo dottissimo e buonissimo. In chiesa non l’avevo mai incontrato perché i miei genitori non mi portavano a messa. Per la sua ascendenza e la sua fede catara, mio padre considerava i cattolici responsabili di quelle lontane stragi e adoratori di un falso Dio, un Dio crudele, e mia madre era una donna pratica la cui unica preoccupazione era che ci fos-se sempre abbastanza da mangiare e da vestire. Riguardo alla religione, ero quella che oggi definiremmo un’agnostica.

    Magro, non alto, vestito di nero, il canonico mi rivolse un sorriso dolcis-simo. Era certamente più vicino alla vecchiaia che alla maturità.

    “Ho saputo di tuo padre e tua madre”, mi disse senza inutili giri di parole.

    Lo guardai senza rispondere, probabilmente avevo gli occhi pieni di lacrime.

    “Sono disgrazie che succedono in tempo di guerra, e non solo a te, bam-bina mia. Anche a tanti altri bambini. Ma evidentemente il cielo non ti ha abbandonata perché sono venuto a saperlo da quei pochi che sono rimasti. Ho guardato nella mia anima e ho visto che tocca a me prender-mi cura di te. Tu non hai altri parenti, vero, Marie?”.

    Già, mi sono dimenticata di dirlo. Mia madre mi chiamava Maria e mio padre Marie, e lo stesso facevano gli altri, dipendeva se erano italiani o francesi. E così mi ero abituata a due nomi, non faceva differenza. Due nomi e due nazionalità. E due genitori perduti. Pochi giorni fa sono passata davanti a una casa. Aveva un piccolo giardino esposto a nord e nel giardino c’era un’unica pianta di rose, smunta, quasi rachitica. Non prendeva abbastanza luce. Ripensando a quei giorni posso dire che mi sentivo così: una rosa che si era trovata improvvisamente a rampicare su un freddo muro rivolto a nord.

    Scossi la testa. No, a Mentone non avevo parenti. I miei nonni erano morti. E per quanto riguardava i nonni italiani, sempre che fossero an-cora vivi, cosa facevo, attraversavo il vecchio confine e andavo a piedi fino a Pigna?

    “Ecco quello che posso offrirti”, continuò. “Se vuoi puoi stabilirti da me, tieni in ordine la casa e prepari da mangiare. Da mangiare ci sarà quello che riusciremo a mettere assieme unendo le nostre forze”.

    “A casa vostra?”, chiesi. C’era qualcosa che non capivo. “Un canonico non vive in chiesa?”.

    “Non vivo più in chiesa, come dici tu. Non sono più un prete. Sono un vecchio che vive solo e che forse si è meritato la compagnia della figlia di un caro amico. Di un carissimo amico”.

    Avevo scelta? Potevo non fidarmi di un uomo che era amico di mio pa-dre e che aveva frequentato la mia famiglia? Accettai. Da quel giorno di fine luglio iniziò la mia nuova vita, prima materiale, poi intellettuale e infine interiore.

    Il giorno dopo mi trasferii. Radunai le poche cose che avevo, scesi dalla rue Longue in rue Bréa e risalii le prime case dell’escalier de la Forge,

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  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    che poi avrebbe cambiato nome in rue du Grenadier. Non si poteva dire che il canonico avesse una vera casa: abitava in quello che era stato il magazzino di un grossista d’olio. Era un unico stanzone a pianterreno, cieco da una parte e con una finestrella dall’altra che dava sulla scalinata e sul muro del grande giardino che era stato il chiostro del convento dei cappuccini, demolito alla fine del ‘700 per aprire una nuova strada e ora attorniato da modeste abitazioni. Un tavolo, qualche stoviglia e qualche utensile, quattro sedie e un pagliericcio. Il canonico era ancora più pove-ro di me. Ma aveva una cosa che io non avevo: libri, libri e libri ovunque.

    “Perché non abitate più in chiesa?”, chiesi appena entrata. Ero davvero incuriosita.

    “È una lunga storia noiosa, te la racconterò un’altra volta. Adesso siste-mati. Tutto quello che c’è, lo vedi. Vedo anche che ti stai chiedendo: dove mi sistemo? Facciamo una magia, prendiamo le latte vuote che ci ha gentilmente lasciato il proprietario e con un colpo di bacchet-ta magica le trasformiamo nel muro della tua stanzetta”. Risi all’idea della bacchetta magica. “Nei prossimi giorni vedremo di trovarti un materasso”.

    La storia lunga e noiosa me la raccontò qualche mese dopo, ma preferi-sco raccontarla subito e non pensarci più.

    Il canonico si chiamava Gustave Mendoïm. “Probabilmente discendo da una famiglia ebrea, dato che mi chiamo anche Moshe. Naturalmente, la Chiesa decise che l’iniziale del mio secondo nome era l’iniziale di Michel. Meglio il nome di un arcangelo, anche se un arcangelo ebraico, che quel-lo di un vero ebreo. Probabilmente i miei antenati erano ebrei portoghe-si, visto che ho un cognome dal suono portoghese, espulsi dal Portogallo alla fine del 1400 e nel corso di chissà quante generazioni arrivati fin qui”. Mi sorrise. “E così, abbiamo tutti e due un secondo nome…”.

    “Ma un ebreo può fare il prete?”.

    “La mia famiglia non è più di religione ebraica da chissà quanti secoli”.

    “Allora avete fatto il prete perché non siete più ebreo?”.

    Sorrise.

    “Ho fatto il prete perché la mia famiglia era ancora più povera della tua e io volevo studiare, volevo sapere. L’unico modo per non rimanere un ignorante era entrare in seminario. Ho studiato, sono diventato prete e probabilmente non sono stato un buon prete, perché alla fine mi han-no buttato fuori”.

    Ecco perché non abitava più in chiesa.

    Lo guardai incuriosita. Delle cose di chiesa non sapevo niente.

    “Non vuoi sapere perché mi hanno buttato fuori e perché non sono più un prete?”.

    Scossi la testa. Davvero non mi interessava o forse avevo pudore di mo-strarmi troppo curiosa. Non me lo disse mai, né in quel momento né in

    La vecchia forgia

    La scalinata della casa dell’alchimista dove andai a vivere

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  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    seguito, ma dopo la sua morte venni a conoscenza della storia da altri. Sembrava che l’avessero sospeso dal sacerdozio per due motivi. Il primo era che aveva stornato del denaro dalla cassa di San Michele per com-prare dei libri che dovevano costare troppo per riuscire a nascondere a lungo la spesa. Capii subito di che libri si trattava, perché erano quelli che riempivano lo stanzone. Il secondo motivo era di nuovo uno storno di denaro dalle casse della Chiesa non una volta soltanto ma in modo continuativo. Quel denaro, che non era moltissimo, serviva a mettere qualcosa in più sulla tavola di qualche famiglia povera, più qualche aiu-to distribuito qua e là per dare una mano in altre situazioni di bisogno. Insomma, nessuna spesa illecita ma comunque una sottrazione illecita. La Chiesa non aveva gradito.

    Privato dell’abito e dei benefici della vita religiosa, sfruttando la sua fama di studioso e di uomo buono aveva bussato alla porta del muni-cipio della città, dove gli avevano dato, un po’ per stima e un po’ per pietà, un piccolo incarico nell’archivio. Quell’incarico in municipio fu la sua e la mia salvezza, perché gli accordi dell’armistizio di Villa Incisa lasciavano alla Francia occupata dagli italiani una parziale sovranità in materia di amministrazione civile. Sovranità molto ridotta, perché molti servizi pubblici passarono sotto il controllo italiano. Anche il sindaco francese sarebbe stato sostituito da un italiano nato a Mentone, ma que-sto doveva avvenire solo due anni dopo.

    L’incarico gli dava appena da vivere, ma, come ripeteva sempre quando gli facevo notare che ero un peso per le sue scarse entrate: dove mangia uno mangiano due.

    Iniziò così la mia vita con l’uomo che sarebbe diventato il mio secondo padre, il mio insegnante di scuola e il mio maestro di lavoro interiore. A mia volta, io ero diventata sua figlia adottiva, la sua governante, la sua cuoca, la sua alunna e la sua allieva. Al di là di queste reciproche specializzazioni, per tutta la guerra condividemmo un’impresa comu-ne: procurarci il cibo per sopravvivere. Il canonico contribuiva con il suo misero stipendio municipale e io battendo un paio di volte la setti-mana i dintorni della città alla ricerca di tutto quello che era possibile trovare. Salivo nella val Madone o verso Gorbio, oppure bussavo alle porte dei contadini di val Rahmeh in cerca di qualcosa. Qualunque cosa. Tutti sapevano che venivo da parte del canonico, rispettato per la bontà che aveva sempre dimostrato e, nella laica Francia, non osteg-

    giato da nessuno perché buttato fuori dalla Chiesa. A volte raccoglievo davvero poco o nulla. Non che non volessero aiutarci, ma era difficile per tutti. Ma non è questa la vita di cui voglio parlare. Dirò soltanto che in qualche modo riuscimmo a cavarcela, perché un piatto di mine-stra riuscivamo sempre a metterlo assieme. O quasi sempre. Insomma, abbastanza spesso per mantenerci in vita.

    Dai dodici ai quattordici anni, l’ex canonico Gustave Moshe Mendoïm mi fece studiare. Tornava a casa nel primo pomeriggio, mangiavamo con insaziabile appetito il nostro piatto di minestra e poi iniziava la mia istruzione. E il pane? C’era del pane per accompagnare la minestra? A volte c’era e altre volte no. C’era quando il canonico si procurava chissà come della farina, e con la farina mi insegnò un’altra cosa che sarebbe diventata importantissima per la mia vita: mi insegnò a fare il pane. Nell’ex magazzino c’era un grande camino dove cuocevo il pane, e la legna bastava andare a raccoglierla nei boschi. E così, oltre a tutte le mansioni di cui ho già parlato, ero anche un’apprendista fornaia e il canonico il mio maestro fornaio. Dire che gli devo la vita è dire poco.

    Mi faceva studiare finché c’era luce. L’elettricità, che per un certo perio-do era mancata del tutto, era un lusso che non potevamo permetterci e candele per illuminare la sera non c’erano. Ripassavamo le nozioni che avevo imparato a scuola prima della guerra e che i due colpi che la mia anima aveva subito mi avevano fatto quasi dimenticare, e aggiungemmo a poco a poco il latino.

    “Perché devo studiare il latino?”, chiedevo. A quale bambina di dodici anni piace la complessa lingua di Cicerone?

    “Non devi studiare seriamente il latino, non devi saperlo parlare né co-noscerlo a menadito”, mi rispondeva. “Devi conoscerlo solo un po’, capi-re il senso. Adesso non ti serve a niente, ma in futuro potrà esserti utile”.

    Obbedivo. Sapevo che voleva il mio bene. I libri non mancavano, erano l’unica cosa che avevamo in abbondanza. L’anno seguente, mentre pro-seguiva la mia leggera spolveratura di latino, passammo al greco.

    Fu uno dei miei rari scatti di insubordinazione. “Il greco? Ma perché? Sto già studiando un mucchio di materie, ho tantissime cose da fare. Non voglio. Scusatemi, non vorrei. Non vorrei proprio. Non possiamo farne a meno?”.

    Mi guardò benevolo come sempre.

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  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    “Non avere paura, non devi saper tradurre Omero. Ti chiedo soltanto di imparare l’alfabeto greco e a leggere le parole. Tutto qui. Ti condo-no il resto”.

    “Ma a cosa serve?”, provai a insistere con il poco potere che mi lasciava la mia condizione di protetta.

    “Può darsi che, quando ti occuperai della cosa che intendo insegnarti, e se ti interesserà, incontrerai delle parole greche. In questo caso dovrai saperle leggere, cercarle sul dizionario, scoprire cosa significano e vede-re se il significato del dizionario corrisponde a quello del contesto in cui quella parola è inserita”.

    Non capivo. A settembre avrei compiuto soltanto tredici anni.

    “Lo so che non capisci, ma non preoccuparti. Per il momento impara solo le lettere dell’alfabeto, una al giorno, non sono tante. Ti ho pre-parato un cartello. Sopra ci sono le maiuscole e sotto le minuscole. Sì, sono diverse, ma niente paura. Appendilo al muro e guardalo ogni volta che ci passi davanti”.

    Così feci. Quella che allora era una tortura, adesso, mentre scrivo que-sto libro, fa parte dei ricordi più belli della mia vita. Mi viene in men-te imperiosa una frase che mi disse dandomi quel cartello coperto di segni che, in quel momento, non erano diversi da tante corde sottili intrecciate tra loro.

    “Ti faccio vedere una magia. Guarda la prima lettera minuscola, si chiama alfa”.

    α“C’è un importante libro cristiano, il Libro dell’Apocalisse”, continuò. “Al suo autore, che è San Giovanni, appare una strana figura. Ha piedi scintillanti come se si fossero arroventati in una fornace, una spada in bocca e in mano delle stelle. La strana figura gli dice: io sono l’alfa e l’o-mega, l’inizio e la fine. Facciamolo anche noi. Disegna la prima lettera, girala, mettila in piedi e apri un po’ i piedini”.

    Obbedii.

    “Quella che hai ottenuto è l’ultima lettera maiuscola dell’alfabeto gre-co. Si chiama omega”.

    “Hai visto? La prima lettera minuscola diventa l’ultima lettera maiu-scola. La frase che la strana figura dice a San Giovanni, e in cui l’auto-re del libro dell’Apocalisse riconosce il Cristo, si può interpretare in tanti modi, ma nella via che ti insegnerò, se vorrai seguirla, indica una cosa molto importante e molto rassicurante. All’inizio sembra un per-corso con delle fasi e dei passi successivi, come una scala, ma alla fine si vede che quelle che sembravano delle fasi, delle cose da fare una dopo l’altra forse con una certa fatica, in realtà ci sono già e ci sono già contemporaneamente”.

    Mi guardò, ma era chiaro che non cercava nei miei occhi la comprensione.

    Ero abbastanza intelligente? Potevo imparare tutte quelle cose a tredici anni? Non mi consideravo e non mi sono mai considerata particolar-mente intelligente, così come non ero e non sono mai stata partico-larmente bella. È vero che nessuna adolescente si piace e che fa a gara con se stessa per trovarsi piena di difetti, ma io mi sentivo una ragazzina assolutamente normale, che da un lato la vita aveva bastonato e dall’al-tro graziata. Crescendo, come ho cambiato parere sull’alfabeto greco l’ho anche cambiato in relazione alla mia normalità, al sentirmi una ragazzina qualunque, e ora la ritengo una fortuna. Una fortuna perché posso dire in totale sincerità che la vita interiore alla quale il canonico si preparava a farmi avvicinare è davvero alla portata di tutti. Sotto l’intri-cata complessità dei suoi strani vestiti è di una semplicità spettacolare. Di lì a poco avrei saputo che si chiama alchimia.

    Probabilmente l’alchimia era il tema delle conversazioni tra il canonico e i suoi rari visitatori, e di cui non capivo assolutamente nulla. Avevo il permesso di ascoltare, ma non di fare domande. “Nell’antica Grecia”, mi aveva spiegato, “c’era un filosofo di nome Pitagora che insegnava strane cose. Quelli che venivano a sentirlo non potevano fare domande prima di avere ascoltato per due anni di fila. In questo modo le doman-de erano davvero importanti e non buttate lì a caso, erano punti oscuri che nemmeno due anni di riflessione avevano risolto. Quelle persone venivano chiamate uditori. E così, se vorrai, sarai anche tu una uditrice”.

    I visitatori venivano sempre di pomeriggio, con la luce, a causa del co-prifuoco serale e perché di giorno ci si poteva mescolare meglio alla gente. Arrivavano da una delle vie più frequentate, la rue Saint Michel, tagliavano per uno stretto caruggio ligure, attraversavano rapidamente la diritta rue Bréa, passavano accanto alla forgia e bussavano alla nostra

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  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    porta. Se venivano fermati potevano dire che stavano andando in chie-sa. San Michele era proprio sopra di noi, la direzione era quella.

    Non ricordo nulla o quasi di quelle conversazioni, salvo forse di una che parlava della situazione che stavo vivendo e che quindi mi toccava personalmente. Provo a ricostruirla.

    “Siamo in tempo di guerra, una delle tante guerre che hanno tormen-tato l’Europa, ma un alchimista trapassa sempre la situazione contin-gente in cui si trova. Per fare il suo lavoro interiore non ha bisogno di cambiarla, né di aspettarne una migliore. Lavora su se stesso, non sulla situazione. Se aspettassimo una situazione favorevole non co-minceremmo mai”.

    “Quindi la situazione esterna è indifferente?”, aveva chiesto un visitatore.

    “Sì. Del resto, quella che stiamo vivendo è una situazione umana tragica-mente normale. Quante volte si è ripetuta nel corso della storia! Siamo vivi, godiamo ancora della libertà personale e per il momento abbia-mo da mangiare. C’è molto peggio e ci rifletto spesso. Un uomo o una donna in relativa salute fisica e mentale possono dedicarsi agevolmente all’opera alchemica, se lo desiderano, ma altri? Chi è chiuso in prigione o in un campo di concentramento, chi ha gravi e dolorose malforma-zioni fisiche fin dalla nascita, i pazzi veri che non possono stare con se stessi, chi muore di fame, una persona in coma, una persona straziata nel corpo, torturata, possono dedicarsi al lavoro interiore, alchemico o di qualunque altro tipo?”.

    Era seguito un lungo silenzio, interrotto da una dimostrazione in più di quella che sapevo essere l’umiltà, la sincerità e la bontà del canonico. “Non lo so, e credo che ognuno debba trovare la sua risposta. Rispetto agli altri, un alchimista si adopera per aiutarli come può, per alleviarne anche di poco le sofferenze e per trasmettere il messaggio contenuto nell’opus alchemico, se è possibile e nei modi possibili”.

    “Insomma”, intervenne il nostro ospite, “ognuno deve capire da sé come può fare?”.

    “Ritengo di sì. Naturalmente, per capire come fare un lavoro interiore in condizioni avverse, sempre che la mente, cioè l’interiorità, ne sia in grado, bisogna essere entrati in contatto con il lavoro interiore prima che si presentino le condizioni avverse”.

    Mi chiamò.

    “Marie, vieni qui. Impara a memoria una formuletta latina, è molto faci-le: ars longa, vita brevis. La nostra arte è lunga, la vita è breve”. E rivolto agli ospiti aggiunse: “In realtà la nostra arte non è affatto lunga, siamo noi a renderla tale. Ma un tratto distintivo di un alchimista, come sape-te, è che ama giocare. Perciò allunga l’opera per il piacere del gioco. Se volesse, e avendone la capacità, la porterebbe a termine in un istante. O al massimo, come assicura Rupescissa, trenta o quaranta giorni, ma sapete benissimo che cosa simboleggiano questi quaranta giorni.”

    Più che la formuletta latina mi rimase impressa l’idea che forse io non stavo peggio di molti altri; che molta gente, non solo nella mia città ma in tutto il mondo, soffriva molto più di me.

    Venivano a quegli incontri pomeridiani dei personaggi variamente as-sortiti. Una profuga croata che si era rifugiata a Nizza, con il marito ardente bibliofilo e dalla folta barba che in seguito avrei ribattezzato Monsieur Mystère, e che ricomparirà più tardi nella mia storia. Un dot-tissimo filosofo di antica nobiltà sabauda. Una insegnante di storia mol-to bella, che mi prendeva da parte e mi dava lezioni di femminilità e di grammatica. Una contadina; sì, una contadina. Un ragazzo napoletano. E un artista italiano alto e allampanato, si capiva che era un artista dalla ricercatezza con cui vestiva.

    Il canonico doveva essere molto amato se quelle persone sfidavano l’oc-cupazione per venire a parlare con lui, ma a me è rimasto particolar-mente impresso il fatto che la maggioranza dei visitatori fossero donne. Ritrovai questa maggioranza da adulta e soprattutto da vecchia, quando, in un’Europa politicamente e intellettualmente libera, avrei visto che la maggior parte delle persone interessate a un lavoro interiore sono don-ne. Ma non disperiamo: anche l’elemento maschile è presente.

    Una volta chiesi al canonico il motivo di quella maggioranza femminile e se l’opera alchemica, di cui non sapevo ancora niente, avesse a che fare con il sesso o se fosse aperta a tutti.

    “A tutti!”, esclamò ridendo. “Uomini, donne, dèi, angeli, demoni… Alle scimmie e ai cavalli non so, devi chiedere a loro. Io penso che abbiano una loro forma di lavoro interiore e lo penso anche delle piante. Il pro-blema è che non ho studiato le loro lingue…”. Riprese la sua serietà. “Molti alchimisti ritengono che non si possa parlare di uomini e donne, perché l’uomo e la donna spariscono in qualcosa che scoprirai. Può esserti utile sapere che da alcuni l’intelligenza è considerata maschile

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  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    e il sentimento femminile, ma non pensare in termini di veri uomini e donne. Pensa che l’intelligenza deve collaborare con il sentimento e il sentimento con l’intelligenza, tutto qui, senza distinzioni di sesso. Que-sta unione di due qualità è stata espressa in termini molto pratici da una donna alchimista che porta il tuo nome, Maria”.

    “Davvero? Che bello!”.

    “Sì, ma il significato te lo spiegherò più in là. Per il momento acconten-tati di sapere che una Maria è stata molto importante per l’alchimia. Chissà se lo sarai anche tu…”.

    ***

    Nel settembre del 1941 l’America entrò in guerra e, quando la noti-zia ci raggiunse, il canonico assunse un’espressione metà felice e metà preoccupata. Quella volta mi parlò da adulta: “Marie, gli americani sono entrati in guerra. Questo significa che la guerra non durerà ancora a lungo. Ma significa anche che devo sbrigarmi a trasmetterti quello che voglio trasmetterti, perché chissà che cosa accadrà a me e a te dopo la fine della guerra”. Fece una pausa e mi sorrise. “In bene, naturalmente”.

    Rimase un bel po’ a riflettere con lo sguardo fisso sulla sua scodella di minestra, e solo quando ebbe raccolto l’ultima goccia mi annunciò il mio destino. “A settembre dell’anno prossimo compirai quattordici anni. È un po’ presto, ma le circostanze esigono così. Ancora un anno di studio e poi, quando avremo festeggiato il tuo quattordicesimo anno con… non so, qualche regalo riusciremo a inventarlo… inizierò a spiegarti quel lavoro interiore, o meglio quella vita interiore, quello stile di vita, che si chiama alchimia. Un altro modo di vivere. Sì, un modo di vivere diverso”. Mi guardò con amore. “Non sarai obbligata a niente. Questa strada è una libera scelta fatta liberamente da individui liberi. Ti spiegherò il modo in cui mi è stata trasmessa questa antichis-sima cosa che alcuni chiamano opera, altri arte e altri ancora magistero, e starà a te vedere se ti interessa. Se ti interesserà, avrai uno strumento per vivere una vita di poesia e di profondità. I modi per illuminare la vita sono tanti e questo è uno dei tanti. Vedremo…”. Mi tese la scodel-la vuota, ma non c’era niente per riempirla una seconda volta. Guardò quel niente e ripeté: “Sì, vedremo”.

    In realtà non aspettò il mio quattordicesimo anno. Il giorno di Capo-danno del 1942, come regalo per l’anno nuovo mi diede da leggere un libro. “Anno nuovo, letture nuove”. Chissà perché aveva tanta fretta. Era di un grande scrittore francese, Honoré de Balzac, e si intitolava La ricerca dell’Assoluto.

    Lo lessi d’un fiato. Quando lo terminai, mi chiese cosa ne pensavo.

    “Una storia tremenda. Un uomo che butta via tutto il suo denaro, che rinuncia all’amore della moglie e della figlia, e le mette anche nei guai, per inseguire un sogno che non ho capito e che rovina la vita a tutti”.

    “Sì”, confermò sorridendo. “L’esempio di Balthazar Claës ci fa capire che lo scopo dell’alchimia, perché il protagonista è un alchimista o al-meno si ritiene tale, non è qualcosa di materiale. Se non ricordo male, nel romanzo di Balzac è una gemma. Nella vera via alchemica non ser-vono soldi da gettare e non si manda in rovina nessuno. Ma c’è un aspet-to positivo nella sua figura: la passione”.

    “Una passione che distrugge lui e la sua famiglia”.

    “Esatto. La nostra, invece, è una passione che distrugge qualcosa per far nascere qualcosa di molto più grande. Come ti spiegherò quando sarà il momento, l’alchimia insegna a operare tenendo il fuoco sempre acceso e sempre basso. La passione è continua, ma non deve bruciare. Serve a cuo-cere, non a distruggere”.

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  • A LEZIONE DALL’ALCHIMISTA LA MIA INfANZIA

    Cuocere? Che bella parola. Per chi ha perennemente fame, fa venire l’acquolina in bocca. Eccita la fantasia.

    “Attenzione, però”, aggiunse. “Il fuoco che userai è un fuoco interiore, non materiale. Si dice che è un fuoco invisibile, un fuoco senza fiamma”. Andò a prendere un altro libro. “Adesso leggi questo. È la storia roman-zata di John Dee, un alchimista inglese del passato”. Si intitolava L’angelo della finestra d’Occidente. L’autore era un austriaco, Gustav Meyrink. Lo lasciai da parte per un paio di giorni, perché la ricerca di ingredienti per la minestra era sempre più pressante. E diventavo sempre più brava a cuocere il pane sulla pietra.

    ***

    Un giorno del mese di luglio, il canonico tornò radioso come una Pa-squa. Mi fece vedere un documento e mi disse: “Guarda la stupidità della burocrazia, di tutte le burocrazie di tutti i Paesi. Sono diventa-to italiano”. Era un documento che diceva: “C.I.A.F. Amministrazione dei territori francesi occupati. Commissariato civile di Mentone. Carta d’identità n. … del Signor …”. Ridemmo come bambini, ma quando finimmo di ridere mi ammonì: “Ogni volta che vedi una divisa da lonta-no, scantona sempre. Non farti fermare. Non so come farei a procurarti una carta d’identità come questa”.

    ***

    Un pomeriggio tranquillo aprii il libro. Iniziai senza capire molto, poi, dopo una cinquantina di pagine, ebbi un moto di repulsione. Il prota-gonista raccontava una storia orribile, orribile. Lo restituii al canonico tremando.

    “Non posso leggerlo. Parla di cose orribili!”.

    “Sì, per questo te l’ho dato”.

    “Per questo?”.

    “Per farti capire la prima cosa che si deve sapere quando ci si accosta all’alchimia”.

    Prese il libro e lo aprì.

    “Credo di sapere qual è il passo che ti ha sconvolto”.

    Cercò, trovò e iniziò a leggere: “Mi ero trascinato dietro un carro con cinquanta gatti neri… Accesi un fuoco, afferrai il primo gatto, lo infilzai in uno spiedo e cominciai il rito arrostendolo lentamente tra le fiamme”.

    “È questo, no?”.

    Scoppiai a piangere. “Come si fa a fare una cosa così orribile?”.

    “Lasciami continuare: ‘Le grida spaventose dell’animale si protrasse-ro per circa mezz’ora, ma ebbi l’impressione che si trattasse di mesi interi… Mi chiesi come avrei potuto resistere a un simile orrore per cinquanta volte… Ben presto anche i gatti nella gabbia si unirono al miagolio e ne uscì un coro tale che sentii gli spiriti della follia, sopiti nel cervello di ogni uomo, risvegliarsi in me e dilaniarmi l’anima. Essi tuttavia non restarono dentro di me, mi uscirono dalla bocca come un soffio nella fredda aria notturna e salirono verso la luna’. Si inter-ruppe e parve riflettere. “Già, già, certo”, disse tra sé e sé. “Senti come continua: ‘Già nel corso della prima notte i sensi interni cominciarono a farsi più acuti; dapprima mi accorsi di riuscire a distinguere esatta-mente, nei cori angosciati dei gatti in gabbia, ogni singola voce. Le corde della mia anima riproducevano quelle grida come un’eco. Allo-ra il mio orecchio si aprì alla musica delle sfere dell’abisso, da allora so cosa significa udire’”.

    Chiuse il libro e mi guardò con soddisfazione.

    “Questa è la prima lezione: le parole non significano mai quello che sembra-no”. Si rabbuiò un momento: “No, non sempre. Quasi sempre e in modi molto diversi. È questa la vera difficoltà”. Si fermò, come se cercasse le parole giuste: “Il vero significato dei testi di alchimia è nascosto dietro quello letterale. Se leggi in modo letterale, qui sei di fronte a una scena orribile, disgustosa, e hai fatto bene a chiudere il libro. Se invece leggi in trasparenza, forse si rivelerà il significato nascosto”.

    “Un significato nascosto? E perché?”.

    “Tra poco te lo spiegherò. Per il momento esaminiamo questo esem-pio. Dimentica i gatti e metti l’attenzione su altre cose. Ti aiuto. Porta l’attenzione sulle parole ‘i sensi interni cominciarono a farsi più acuti’, ‘mi accorsi di riuscire a distinguere esattamente ogni singola voce’ e ‘da allora so cosa significa udire’”.

    “Non capisco. No, non capisco. Cosa c’è da capire?”.

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