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1 Codice Penale - Leggi complementari - Codice Zanardelli Vol. 502/ST – Edizione III LEZIONE DI DIRITTO PENALE 2 PRINCIPIO DI LEGALITÀ (II PARTE) PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ E REATI DI PERICOLO a cura di Massimiliano Di Pirro Sommario 1. Il principio di legalità 1.1. Il principio di “legalità giurisprudenziale”: l’art. 7 Cedu alle prese con il tentativo di rapina impropria. 1.2. I labili confini della tassatività nell’aggravante dell’ingente quantità di stupefacente ex art. 80, co. 2, d.P.R. 309/1990. 1.3. Il fenomeno della successione di leggi nel tempo e il recente “spacchettamento” del delitto di concussione. 2. Offensività e reati di pericolo 2.1. Il principio di offensività. 2.2. Reati di pericolo concreto e presunto (o astratto). 3. Delitti contro la pubblica incolumità 3.1. Profili generali. 3.2. Crollo di edifici e altri disastri colposi. 3.3. Disastro ferroviario colposo. 3.4. Disastro aviatorio colposo. Dispensa giurisprudenziale Concussione e induzione indebita (L. 190/2012): i tratti distintivi (Cass. pen., sez. VI, 9-5- 2013, n. 20430) ****** 1. Il principio di legalità 1.1. Il principio di “legalità giurisprudenziale”: l’art. 7 Cedu alle prese con il tentativo di rapina impropria In questo paragrafo ci soffermeremo su una tematica di scottante attualità, ovvero se sia configurabile il tentativo di rapina impropria o se, invece, debba ritenersi il concorso tra furto tentato con un reato di violenza o minaccia nel caso in cui l’agente, dopo aver

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Vol. 502/ST – Edizione III

LEZIONE DI DIRITTO PENALE 2

PRINCIPIO DI LEGALITÀ (II PARTE)

PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ E REATI DI PERICOLO a cura di Massimiliano Di Pirro

Sommario 1. Il principio di legalità 1.1. Il principio di “legalità giurisprudenziale”: l’art. 7 Cedu alle prese con il tentativo di rapina impropria. 1.2. I labili confini della tassatività nell’aggravante dell’ingente quantità di stupefacente ex art. 80, co. 2, d.P.R. 309/1990. 1.3. Il fenomeno della successione di leggi nel tempo e il recente “spacchettamento” del delitto di concussione. 2. Offensività e reati di pericolo 2.1. Il principio di offensività. 2.2. Reati di pericolo concreto e presunto (o astratto). 3. Delitti contro la pubblica incolumità 3.1. Profili generali. 3.2. Crollo di edifici e altri disastri colposi. 3.3. Disastro ferroviario colposo. 3.4. Disastro aviatorio colposo. Dispensa giurisprudenziale Concussione e induzione indebita (L. 190/2012): i tratti distintivi (Cass. pen., sez. VI, 9-5-2013, n. 20430)

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1. Il principio di legalità 1.1. Il principio di “legalità giurisprudenziale”: l’art. 7 Cedu alle prese con il tentativo di rapina impropria In questo paragrafo ci soffermeremo su una tematica di scottante attualità, ovvero se sia configurabile il tentativo di rapina impropria o se, invece, debba ritenersi il concorso tra furto tentato con un reato di violenza o minaccia nel caso in cui l’agente, dopo aver

 

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compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l’impunità. Secondo l’orientamento maggioritario della Cassazione, è configurabile il tentativo di rapina impropria nel caso in cui l’agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all’impossessamento della res altrui, non portati a compimento per cause indipendenti dalla propria volontà, adoperi violenza o minaccia per assicurarsi l’impunità (tra le altre, Cass. pen. 6479/2011, 44365/2010, 25100/2009). Tale orientamento si basa su una serie di argomentazioni: - una lettura logico-sistematica e non meramente letterale dell’art. 628, co. 2, c.p., che descrive la condotta tipica della rapina impropria, permette di individuare la forma tentata del reato in questione quando l’azione tipica non si compia o l’evento non si verifichi, fattispecie che ricorre specificamente nell’ipotesi di colui che adopera violenza o minaccia per procurarsi l’impunità immediatamente dopo aver compiuto atti idonei, diretti in modo non equivoco a sottrarre la cosa mobile altrui, senza essere riuscito nell’intento a causa di fattori sopravvenuti estranei al suo volere. Il delitto di rapina, infatti, sia nella forma propria che in quella impropria, costituisce un tipico delitto di evento, suscettibile di arrestarsi allo stadio del tentativo qualora la sottrazione non si verifichi. Pertanto, se un tentativo di furto sfocia in violenza o minaccia finalizzate ad assicurarsi l’impunità, deve concludersi che, anche in caso di mancato conseguimento della sottrazione del bene altrui, sia stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria; - le fattispecie che compongono la figura complessa della rapina impropria (sottrazione e violenza) possono presentarsi entrambe alla stadio del tentativo, sicché l’unitarietà della rapina resta tale anche quando tali condotte si arrestino sulla soglia del tentativo. In altri termini, non è consentito procedere, proprio per l’unità della figura delittuosa, a una considerazione autonoma degli elementi componenti volta a ravvisare un concorso di reati fra tentato furto e fatti contro la persona. Nel caso in cui un tentativo di furto sfoci in violenza o minaccia finalizzate all’impunità non può dividersi l’azione in due tronconi, l’uno configurante un delitto consumato contro la persona (lesioni, minaccia o altro) e l’altro un delitto tentato contro il patrimonio (furto), tanto più quando ci si trovi davanti a un reato complesso come la rapina, ma deve pervenirsi ad una valutazione unitaria, la quale non può non portare a concludere che è stata messa in atto una rapina impropria incompiuta e quindi un tentativo di rapina impropria, anche se non si è conseguita la sottrazione del bene altrui; - sotto il profilo della ratio legis, con le norme sulla rapina il legislatore ha voluto sanzionare con particolare rigore l’autore del reato contro il patrimonio che ricorra alla violenza o alla minaccia, sicché non è logico ritenere che il legislatore abbia voluto sottrarre al medesimo trattamento colui che, usando pur sempre violenza o minaccia, attenti al patrimonio altrui e non riesca nell’intento per cause estranee alla sua volontà. L’orientamento minoritario prende le mosse dalla sentenza Jovanovic (Cass. pen. 3796/1999), che per la prima volta nega l’ipotizzabilità del tentativo di rapina aggravata in mancanza del presupposto dell’avvenuta sottrazione della cosa, dovendosi configurare, nel caso in cui l’agente, sorpreso prima di aver effettuato la sottrazione, usi violenza o minaccia

 

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al solo fine di fuggire o di procurarsi altrimenti l’impunità, un tentato furto in aggiunta ad altro autonomo reato che abbia come elemento costitutivo la violenza o la minaccia. Rimasta inizialmente del tutto isolata, questa tesi è stata, successivamente, seguita anche da Cass. pen. 32551/2007, 43773/2008 e 16952/2009. Tale orientamento si basa sull’elemento letterale, affermando che “il capoverso dell’articolo 628 cod. pen. impone che la sottrazione della cosa preceda l’esplicazione di violenza o minaccia ("... adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione ...") sicché l’agente, qualora - sorpreso prima di aver compiuto la sottrazione - usi violenza o minaccia al solo fine di fuggire o procurarsi altrimenti l’impunità, risponde non di tentata rapina ma di tentato furto, eventualmente in concorso con altro reato avente come elemento costitutivo la violenza o la minaccia ... . Nella formazione progressiva della fattispecie, l’imprescindibile nesso temporale tra "sottrazione" e violenza/minaccia finalizzata rappresenta l’essenza caratterizzante della rapina impropria, nel senso che il secondo comportamento, qualora rimanga avulso dal primo (venuto a mancare), può solo assumere rilevanza autonoma (reato di lesioni e/o minaccia). Allo stesso modo, l’idoneità degli atti volti all’impossessa mento (che non raggiungano, tuttavia, la soglia della "sottrazione") consente ancora la configurabilità del tentativo di furto, ma perde ogni significato in relazione alla rapina impropria. In definitiva, la mancanza di "sottrazione della cosa" impedisce che la violenza successiva possa assurgere anche solo al rango di "atto idoneo diretto in modo non equivoco" alla commissione di una rapina impropria” (Cass. pen. 3796/1999). Le Sezioni Unite hanno ribadito il primo dei suesposti indirizzi, recependone le argomentazioni e soffermandosi su un profilo ulteriore. La dottrina prevalente ritiene che il tenore letterale del capoverso dell’art. 628 c.p. è tale che la configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso in esame contrasterebbe con il principio di legalità e con il divieto di analogia. Sul punto, Cass. S.U. 1235/2010 chiarisce che il principio di legalità trova fondamento, oltre che nella Costituzione, anche nell’art. 7 Cedu (oltre che nell’articolo 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, oggi espressamente richiamata nel corpus comunitario attraverso l’art. 6, par. 1, del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007). Nella giurisprudenza della Cedu al suddetto principio si collegano i valori della accessibilità (accessibility) della norma violata e della prevedibilità (foreseeability) della sanzione, accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla previsione astratta ma alla norma vivente quale risulta dall’applicazione e dalla interpretazione dei giudici, secondo un principio di legalità che potremmo definire “giurisprudenziale”, poiché la giurisprudenza assume un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell’ambito applicativo del precetto penale. Il dato decisivo da cui è possibile dedurre il rispetto del principio di legalità, sempre secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, è dunque la prevedibilità del risultato interpretativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità che si articola nei due sotto-principi di precisione e di stretta interpretazione (Corte europea 2-11-2006, Milazzo c. Italia; Grande Camera, 17-2-2004, Maestri c. Italia). Con riferimento alla fattispecie in esame, secondo Cass. S.U. 34952/2012 tali valori sono senz’altro presenti a fronte di una giurisprudenza assolutamente maggioritaria, solo

 

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sporadicamente contraddetta, che ritiene configurabile il tentativo della rapina impropria anche in mancanza di impossessamento della cosa. Le Sezioni Unite forniscono, così, un’interpretazione estensiva del principio di legalità, di cui finisce con il legittimare la sostanziale violazione quando sostiene che questo sarebbe rispettato in presenza di una giurisprudenza consolidata pur se in palese contrasto con la lettera della legge. Se si può ammettere la valenza dell’interpretazione giurisprudenziale per fondare l’ignoranza incolpevole della legge (art. 5 c.p.), non si può seguire il ragionamento delle Sezioni Unite laddove finisce con l’attribuire alla giurisprudenza, nella costruzione delle fattispecie incriminatrici, un ruolo integrativo, se non addirittura sostitutivo, di quello del legislatore (AMATO). Questa interpretazione estensiva, nonostante l’evidente contraddizione che contiene, è tuttora sostenuta dalla giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale la chiarezza della legge si valuta con riguardo non solo al tenore della disposizione rilevante, ma anche alle precisazioni apportate da una giurisprudenza costante e pubblicata; tale principio si applica, secondo la corte europea, sia al precetto sia alla sanzione. Così interpretato, però, il principio di legalità, consacrato nell’art. 7 Cedu, non esige l’esatta delimitazione delle norme incriminatrici, tale da rendere prevedibili con assoluta certezza le sanzioni derivanti dalla loro violazione, ma ritiene sufficiente anche l’utilizzo di espressioni indeterminate, che potranno poi essere precisate dalla giurisprudenza. 1.2. I labili confini della tassatività nell’aggravante dell’ingente quantità di stupefacente ex art. 80, co. 2, d.P.R. 309/1990. Il principio di tassatività è uno dei corollari-santuario del principio di legalità, e impone al legislatore di descrivere la fattispecie penale incriminatrice in maniera sufficientemente precisa, affinché attraverso l’attività interpretativa si possano ricavare il precetto e la sanzione, senza sconfinare nell’analogia (vietata, se in malam partem). Capita spesso, però, che le norme contengano elementi descrittivi elastici o addirittura vaghi. È ciò che accade, ad esempio, per l'aggravante dell’ingente quantità di sostanze stupefacenti di cui all'art. 80, co. 2, d.P.R. 309/1990, che, secondo Cass. S.U. 36258/2012, è di norma configurabile in caso di superamento per 2.000 volte del valore massimo in milligrammi (c.d. valore-soglia) previsto per ciascuna delle sostanze indicate nella tabella allegata al D.M. salute 11-4-2006, salva, in ogni caso, la valutazione discrezionale del giudice. La pronuncia delle Sezioni Unite, però, ha di fatto usurpato il ruolo del legislatore. Vediamo perché. Com’è noto, il principio di tassatività-determinatezza della fattispecie è funzionale sia al principio della separazione dei poteri, quanto a quello della riserva di legge in materia penale (evitando che il giudice assuma un ruolo creativo nell’individuare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è), assicurando, al contempo, la libera determinazione individuale, perché consente al destinatario della norma penale di conoscere le conseguenze (giuridico-penali, appunto) del proprio agire. Ciò peraltro non impedisce al legislatore di utilizzare, nella formula descrittiva dell’illecito penale, espressioni sommarie, vocaboli polisensi, clausole generali e concetti elastici (Corte cost. 395/2005).

 

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Il compito della giurisprudenza è (anche) quello di rendere concrete, calandole nella realtà fenomenica, previsioni legislative, non solo astratte, ma apparentemente indeterminate e ciò va fatto attraverso il richiamo al diritto vivente, che si manifesta nell’interpretazione giurisprudenziale. A questo proposito la dottrina ha assunto una posizione di non netta chiusura, pretendendo una rigida determinatezza della norma descrittiva della condotta penalmente vietata e concedendo, però, una qualche possibilità di formulazione più elastica quando si tratti di attenuare la dimensione offensiva o mitigare le conseguenze sanzionatorie. Altri autori hanno mostrato ancora maggiore apertura, attribuendo al giudice il potere-dovere di specificare la portata della norma, quando il dato letterale faccia riferimento a una realtà quantitativa o temporale non predeterminabile in termini di certezza, ma comunque sufficientemente circoscrivibile sulla base delle conoscenze condivise e delle massime di esperienza (si fa l’esempio del danno patrimoniale di rilevante gravità, di cui all’art. 61, n. 7, c.p., o di speciale tenuità, di cui all’art. 62, n. 4, c.p.). Calando queste osservazioni nell’ambito della disciplina sugli stupefacenti, occorre ricordare che le sostanze stupefacenti e psicotrope siano iscritte in due tabelle. La prima comprende le sostanze, indipendentemente dalla distinzione tra stupefacenti e sostanze psicotrope, con potere drogante; nella seconda sono inserite le sostanze che hanno funzione farmacologica e pertanto sono usate a scopo terapeutico. Si tratta, appunto, di farmaci. Le tabelle sono aggiornate quando si presenti la necessità di inserire una nuova sostanza o di variarne la collocazione o di provvedere a eventuali cancellazioni. L’aggiornamento pertanto interviene (con decreto ministeriale) tutte le volte in cui una nuova sostanza diventa oggetto di abuso o quando qualche nuova droga viene messa in circolazione sul mercato clandestino o, ancora, quando viene messo a punto un nuovo farmaco ad azione stupefacente o psicotropa. Naturalmente una stessa sostanza (es. la morfina) può trovarsi in entrambe le tabelle, perché, pur essendo un farmaco utile per lenire il dolore, essa è idonea a provocare tossicodipendenza. Le tabelle in questione, poi (ed è ciò che in questa sede rileva), indicano i c.d. «limiti-soglia», cioè i limiti quantitativi massimi oltre i quali le condotte descritte nell’art. 73, co. 1bis, d.P.R. 309/1990 sono penalmente rilevanti e assoggettate al trattamento sanzionatorio previsto dal comma 1 del medesimo articolo (reclusione da 6 a 20 anni e multa da 26.000 a 260.000 euro). Tali limiti, dunque, costituiscono il discrimine tendenziale fra uso personale, che non comporta sanzione penale, e le condotte di detenzione penalmente represse. Va peraltro precisato che tanto il possesso quanto l’uso di droghe costituiscono, comunque, condotte vietate dall’ordinamento, il quale, tuttavia non sempre reagisce con la minaccia e l’applicazione di sanzione penale. In sintesi, la tabella acquista rilievo dirimente, indicando le «soglie» al di sotto delle quali il possesso delle sostanze si presume per uso esclusivamente personale (sempre che, per altre circostanze sintomatiche, quali le modalità di presentazione, il confezionamento frazionato o altro, la presunzione sia ritenuta non operativa). In scala di crescente gravità, viene in considerazione l’ipotesi della lieve entità, di cui al comma 5 dell’art. 73; le ipotesi «ordinarie» sono quelle residuali di cui all’art. 73, mentre la

 

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risposta repressiva più forte è riservata alle ipotesi aggravate di cui ai quattro commi dell’art. 80. I criteri tabellari attribuiscono un ruolo primario al dato quantitativo, in relazione alle dosi ricavabili, e proprio dalla rilevanza che il sistema tabellare ha nel sistema si deve trarre la conclusione che è necessario individuare un parametro numerico anche per la determinazione del concetto di ingente quantità. Infatti, se il legislatore ha determinato la soglia quantitativa di punibilità, l’interprete ha il compito di individuare una soglia al di sotto della quale, secondo i dati offerti dalla fenomenologia del traffico di sostanze stupefacenti, non possa parlarsi di ingente quantità. Dunque, il dato quantitativo è determinante sia per stabilire (ai sensi del comma 1 bis, lett. a, dell’art. 73) la soglia al di sotto della quale si presume l’uso personale, sia per l’individuazione dell’ipotesi lieve di cui al comma 5 dell’art. 73 (unitamente ad altri dati, parimenti valutabili da parte del giudice), sia per la configurabilità dell’ipotesi aggravata di cui al comma 2 dell’art. 80. I valori numerici, in quanto «misuratori di grandezza», costituiscono necessariamente l’oggetto dell’attività valutativa del giudice che sia chiamato a pronunciarsi sulla conformità di tali grandezze rispetto ad (elastici) parametri normativi, cui deve dare concretezza. Prendendo, allora, come riferimento e punto di partenza il valore-soglia previsto dalle predette tabelle (in quanto «unità di misura» rapportabile al singolo cliente-consumatore), le Sezioni Unite, con la sentenza n. 36258/2012, hanno stabilito, sulla base dei casi sottoposti all’attenzione della Cassazione negli ultimi anni in materia di traffico di sostanze stupefacenti, una soglia al di sotto della quale non può parlarsi di quantità «ingente». Secondo le Sezioni Unite non si tratta di usurpare la funzione normativa ma di compiere un’operazione puramente ricognitiva che, sulla base dei dati concretamente disponibili e avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari, individui una soglia al di sopra della quale possa essere ravvisata l’aggravante di cui al comma 2 dell’art. 80 d.P.R. 309/1990. Sviluppando questa intuizione le Sezioni Unite hanno affermato che non può ritenersi “ingente” un quantitativo di sostanza stupefacente che non superi di 2.000 volte il valore-soglia espresso in milligrammi nella tabella. Si tratta di un «moltiplicatore» desumibile dalla casistica del massimario della Cassazione. La sentenza delle Sezioni Unite è caratterizzata da una componente creativa evidente, che ha rimediato al vuoto normativo sostituendosi al legislatore e fornendo così ai giudici di merito un criterio interpretativo di natura empirica e piuttosto rudimentale. Sarebbe stato sicuramente più corretto, da parte delle Sezioni Unite, sollecitare l’intervento della Corte costituzionale, che avrebbe risolto in radice l’incertezza interpretativa. Le sentenze delle Sezioni Unite, infatti, non hanno forza vincolante ma soltanto “persuasiva”, con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la decisione delle Sezioni Unite può essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice di merito, sia pure con l’onere di un’adeguata motivazione. 1.3. Il fenomeno della successione di leggi nel tempo e il recente “spacchettamento” del delitto di concussione. La disciplina della successione di leggi penali nel tempo è contenuta nell’art. 2 c.p.

 

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Per comprendere il fenomeno occorre tenere ben distinti l’abolitio criminis dalla successione di leggi penali meramente modificativa. L’abolitio criminis si verifica quando una legge successiva abroga una precedente fattispecie incriminatrice. L’art. 2, co. 2, c.p. prevede che non possono essere puniti coloro che hanno commesso il fatto sotto la vigenza della precedente legge incriminatrice abrogata, e se c’è stata una sentenza di condanna, anche definitiva, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali (ad es., le pene accessorie). La ratio della disposizione è evidente: non avrebbe senso continuare a punire un soggetto per un fatto che non è più considerato reato dal legislatore, il cui disvalore penale, cioè, è venuto meno. Il comma 4 dell’art. 2 c.p. si occupa, invece, della diversa fattispecie della successione modificativa di leggi penali: il fatto era considerato reato dalla legge precedente ed è ancora considerato tale da quella successiva, ma la disciplina è diversa. In questo caso il giudice deve applicare la legge più favorevole al reo. Il problema consiste nel distinguere l’abolitio criminis dalla successione modificativa: qual è il criterio utilizzabile? La tesi prevalente adotta il criterio della continuità del tipo di illecito (o “continuità normativa”), di matrice tedesca: se dal raffronto strutturale tra le due fattispecie persiste lo stesso “nucleo essenziale” per effetto di un nesso di continuità ed omogeneità del bene giuridico tutelato e delle condotte incriminate, siamo in presenza di una successione modificativa. Se, infatti, la nuova norma insiste su un disvalore giuridico-penale prossimo a quello della norma abrogata, non c’è motivo per cui i fatti pregressi, riconducibili anche sotto la nuova norma, debbano andare impuniti (ROMANO). Il problema si è posto con forza, nell’ultimo anno, in materia di concussione. Com’è noto, l’art. 317 c.p. (prima della L. 190/2012) puniva, a titolo di concussione, “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o promettere indebitamente a lui o a un terzo denaro o altra utilità”. L’attuale art. 317 c.p, modificato dalla L. 190/2012, mantiene la dizione di “concussione” ma punisce, con una pena maggiore nel minimo di quella precedente (oggi da “sei a dodici anni di reclusione”; ieri da quattro a dodici anni di reclusione”) “il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità”. La condotta di induzione, invece, è finita nell’appena introdotto art. 319quater, co. 1, c.p. la cui rubrica recita “induzione indebita a dare o promettere utilità”, che sanziona, con una pena inferiore rispetto all’attuale e alla pregressa concussione (reclusione da “tre ad otto anni”) “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità”. L’innovazione essenziale consiste in quello che è stato definito come “spacchettamento” della concussione nelle due figure della concussione (art. 317 c.p.) e della induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319quater c.p.). Conseguentemente, mentre il previgente art. 317 c.p. considerava in alternativa di pari valenza le condotte della costrizione e dell’induzione a dare o promettere indebitamente a sé o a un terzo, con abuso della qualità o dei poteri, la nuova disciplina ha mantenuto nell’art. 317 c.p. la sola condotta di costrizione, creando una nuova fattispecie per la condotta di induzione; tale fattispecie si caratterizza, in particolare, per la previsione del carattere residuale della norma ("salvo che il fatto costituisca più grave reato") e per la punibilità di colui che dà o promette denaro o altra utilità (capoverso dell’art. 319quater c.p.).

 

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Le condotte hanno formato oggetto di un diverso apprezzamento legislativo in ordine alla rispettiva gravità, non già di una radicale rivalutazione in termini di rilevanza o irrilevanza penale della condotta dell’autore, riconducibile alle nozioni di costrizione o induzione. Nè la previsione dell’incriminabilità di chi, vittima di induzione a dare o promettere indebitamente al pubblico ufficiale che abusa del proprio potere o della propria qualità, “ceda” o “non resista” all’induzione, ha effetti sulla rilevanza penale della condotta di induzione dell’autore del reato proprio, rispondendo questa nuova e ulteriore incriminazione ad autonome e diverse ragioni della discrezionalità legislativa, che nulla operano sul piano della permanente rilevanza penale della condotta di chi “induce”. In definitiva, la successione normativa tra il previgente testo dell’articolo 317 c.p., quello introdotto dalla legge 190/2012 e quello del nuovo autonomo articolo 319 quater c.p., si colloca all’interno del fenomeno della successione di leggi penali disciplinato dall’art. 2, co. 4, c.p. (Cass. pen. 21701/2013). 2. Offensività e reati di pericolo 2.1. Il principio di offensività. Ogni precetto penale deve essere inteso nell’ottica della c.d. «concezione realistica» del reato, la quale espunge dalla fattispecie punibile - ancorché astrattamente rispondente alla figura edittale - qualsiasi condotta che manchi di qualsiasi idoneità a recare pregiudizio o pericolo di pregiudizio all’interesse protetto. L’idoneità offensiva può consistere anche nella concreta esposizione a pericolo di un bene. La Corte costituzionale, infatti, ha ribadito la compatibilità costituzionale di forme di tutela avanzata, che colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, ricordando che le soluzioni individuate dal legislatore devono comunque misurarsi con l’esigenza di rispettare il principio di necessaria offensività del reato. Alla Corte spetta procedere alla verifica dell’offensività “in astratto”, accertando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo (esigenza che, nell’ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit). Al giudice ordinario, invece, resta affidato il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa ed evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva (Corte cost. 205/2008). Le Sezioni unite della Cassazione, dal canto loro, hanno aderito integralmente all’impostazione del giudice delle leggi, precisando che in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva. La condotta è inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa) (Cass. S.U. 28605/2008). 2.2. Reati di pericolo concreto e presunto (o astratto). L’offensività del reato si atteggia diversamente nei reati di danno e reati di pericolo. Nei reati idi danno il reato produce una lesione all’interesse tutelato dalla legge, mentre nei reati di pericolo esso pone soltanto in

 

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pericolo tale interesse. Reato di danno, ad es., è l’omicidio (art. 575 c.p.), mentre un tipico reato di pericolo è l’attentato all’integrità dello Stato (art. 241 c.p.). I reati di pericolo si distinguono, a loro volta, in reati di pericolo concreto e reati di pericolo presunto (o astratto). Nei reati di pericolo concreto occorre che il bene protetto sia stato effettivamente messo in pericolo. Ad es., nei reati contro la pubblica incolumità, che costituiscono la gran parte dei reati di pericolo, il fatto tipico è solitamente descritto richiedendosi che sia stata posta in pericolo la pubblica incolumità, come accade nel delitto di strage (art. 422 c.p.) e di disastro (art. 434 c.p.); in altre ipotesi il pericolo può riguardare beni specifici, ma di natura analoga: nel danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) occorre che si verifichi il pericolo di incendio, nelle ipotesi previste dagli artt. 429 e 431 c.p. che si verifichi il pericolo di naufragio o di disastro ferroviario. In tutte queste ipotesi il giudice deve accertare che la pubblica incolumità (o altro bene protetto) sia stata concretamente messa in pericolo (chi mette una bomba sotto l’auto del suo ex fidanzato risponde anche di strage se si tratta di un luogo densamente abitato). La concretezza del pericolo può derivare anche dalle modalità della condotta, come nel caso dell’art. 445 c.p., che punisce la somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica. Nei reati di pericolo astratto o presunto, invece, non è necessario che la pubblica incolumità (o altro bene protetto) sia stata concretamente messa in pericolo, ma è sufficiente che si realizzi la fattispecie tipica del fatto descritto nella norma (incendio: art. 421, co. 1, c.p.; inondazione, frana o valanga: art. 426 c.p.; disastro ferroviario: art. 430 c.p.). Talune fattispecie di pericolo astratto possono trasformarsi, in alcuni casi, in reati di pericolo concreto: ad es., se l’incendio — reato di pericolo astratto — riguarda la cosa propria (art. 421, co. 2, c.p.) diventa un reato di pericolo concreto perché richiede il verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità; e così per i reati di naufragio, sommersione o caduta di aeromobile (art. 428, co. 3, c.p.) quando la nave o l’aeromobile siano di proprietà dell’agente. Una parte della dottrina (MANTOVANI) distingue i reati di pericolo astratto dai reati di pericolo presunto: nei primi il pericolo non è un requisito tipico, ma è dato dalla legge come insito nella stessa condotta, perché ritenuta pericolosa, e il giudice si limita a riscontrare la conformità di essa al tipo legale, mentre nei secondi il pericolo non è necessariamente insito nella stessa condotta, poiché al momento di essa è possibile controllare l’esistenza o meno delle condizioni per il probabile verificarsi dell’evento lesivo, ma esso viene presunto iuris et de iure, per cui non è ammessa neppure prova contraria della sua concreta inesistenza. ANTOLISEI rifiuta in radice il concetto di «pericolo astratto», sul rilievo che «se il pericolo è probabilità di un evento temuto, non si può concepire una species in cui questa probabilità manchi. Ne deriva che, nei casi in cui si ravvisa un pericolo astratto, in realtà non si ha una forma di pericolo ma una presunzione di pericolo, la quale non ammette prova contraria». 3. Delitti contro la pubblica incolumità

 

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3.1. Profili generali. I reati contro l’incolumità pubblica sono finalizzati a tutelare la sfera superindividuale di beni primari quali la vita, l’integrità fisica e la salute. La tecnica di conformazione delle incriminazioni è assai variegata e frutto di precise e tecnicamente dosate scelte di politica criminale. Il nucleo centrale di tale categoria di illeciti è costituita, nell’ambito dei reati dolosi, dalle fattispecie di disastro, ordinariamente configurate come reati di pericolo astratto. Vi compare un definito evento, contrassegnato da tipica pericolosità in relazione ai beni primari cautelati: un evento di pericolo, appunto. Si tratta di figure come l’incendio, l’inondazione, la frana, la valanga, il disastro ferroviario e il naufragio, nelle quali al giudice non è affidata la concreta valutazione ex post della pericolosità della condotta, ma è la norma che descrive alcune situazioni tipicamente caratterizzate, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sé una rilevante possibilità di danno alla vita o all’incolumità personale. L’evocazione di tali drammatiche contingenze tipiche, storicamente ben note alla legislazione penale, chiama in causa l’idea di indeterminatezza del danno che caratterizza i reati di comune pericolo. Si è infatti in presenza di eventi dotati di forza dirompente e, quindi, in grado di coinvolgere numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile. Rispetto a tali eventi non è richiesta l’analisi a posteriori di specifici decorsi causali che è invece propria degli illeciti che coinvolgono una o più persone determinate. Al contrario, ciò che caratterizza il pericolo per la pubblica incolumità è la possibilità che le persone si trovino coinvolte nella sfera d’azione dell’evento disastroso descritto dalla fattispecie, esposte alla sua forza distruttiva. Di qui l’idea di indeterminatezza. La struttura delle fattispecie, come accennato, è normalmente astratta, per cui il giudice deve soltanto verificare l’esistenza di un fatto conforme al modello tipico. Per tale ragione, i reati in esame si trovano in un rapporto di tensione con il principio costituzionale di offensività: non può, infatti, escludersi che l’evento di pericolo conforme al tipo non sia concretamente minaccioso per il bene tutelato. Tale rischio può essere arginato: - in via interpretativa, attribuendo alle espressioni utilizzate dal legislatore per descrivere gli eventi in questione un significato che esprima l’idea di accadimenti macroscopici, dirompenti e quindi potenzialmente lesivi nella dimensione indeterminata e superindividuale cui si è già sopra fatto cenno; - nella fase giudiziale, accertando se il caso concreto presenti le caratteristiche di tipica offensività insite nella fattispecie astratta. Tale itinerario interpretativo è segnato anche da Corte cost. 286/1974. La Corte, investita della questione di costituzionalità degli artt. 423 e 428 c.p., l’ha ritenuta infondata “tenendo anche conto che per la sussistenza dei reati di naufragio e di incendio di cosa altrui è necessario che si verifichi un evento che possa qualificarsi, appunto, naufragio o incendio, cioè un evento tale che sia potenzialmente idoneo, seppure non concretamente, a creare la situazione di pencolo per la pubblica incolumità (per l’incendio sono richieste la vastità, la violenza, la capacità distruttiva, la diffusibilità del fuoco)”.

 

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Tale pronuncia, sebbene riferita a due specifiche categorie di disastri, contiene principi di carattere generale che definiscono il disastro come un evento macroscopico tipicamente pericoloso. Il legislatore, tuttavia, ha diversificato la disciplina: - in qualche caso, nell’ambito degli illeciti dolosi, ha anticipato ulteriormente la tutela rispetto all’evento di pericolo. Ad esempio, nel danneggiamento seguito da incendio di cui all’art. 424 c.p. si punisce la condotta di chi appicca il fuoco se dal fatto sorge pericolo di un incendio. Una tecnica analoga si riscontra nel danneggiamento seguito da naufragio di cui all’art. 429 c.p. e in quella di pericolo di disastro ferroviario causato da danneggiamento di cui all’art. 431 c.p.; - in altri casi il tipo comprende la verificazione di un pericolo concreto. Ad esempio, nell’ambito della fattispecie di naufragio o sommersione di natante ovvero di caduta di un aeromobile di proprietà dell’agente (art. 428, co. 3, c.p.), è richiesto non solo che l’evento disastroso sia potenzialmente, astrattamente idoneo a creare la situazione di pericolo, ma anche che dal fatto derivi un pericolo concreto per la pubblica incolumità. 3.2. Crollo di edifici e altri disastri colposi. Analizzando le singole fattispecie prendiamo le mosse dall’art. 434 c.p., che disciplina due condotte, entrambe punite soltanto se deriva un pericolo per l’incolumità pubblica: a) il compimento di un fatto diretto a cagionare il crollo di un edificio o di una parte di esso; questa fattispecie intende tutelare l’incolumità di coloro che si trovino all’interno dell’edificio cadente o che si trovino a passare nelle sue vicinanze. Dal crollo dell’edificio deve derivare un pericolo per la vita o l’incolumità di una serie indeterminata di persone (anche se appartenenti a categorie predeterminate di soggetti), con valutazione ex ante che prescinde dal verificarsi dei medesimi (Cass. 15-12-2011); b) il compimento di un fatto diretto a cagionare un disastro diverso (c.d. disastro innominato) da quelli descritti negli articoli precedenti (incendio, inondazione, valanga, frana, ecc.). Il disastro innominato: - è ispirato all’esigenza di colmare eventuali lacune che si possono verificare nella previsione degli eventi disastrosi illeciti per effetto dell’evoluzione della tecnica; - è un reato di pericolo astratto (Cass. 18977/2009); - richiede il verificarsi di un avvenimento grave, con caratteristiche diffusive e con conseguente pericolo per la vita o l’incolumità di persone indeterminate, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; - non richiede l’effettivo verificarsi degli eventi lesivi nei confronti delle persone tutelate, essendo sufficiente la compromissione delle caratteristiche di sicurezza e di tutela della salute conseguente all’esposizione prolungata a sostanze nocive. Ad es., Cass. 18678/2012 ha escluso il disastro innominato nella fuoriuscita da uno stabilimento di dieci tonnellate di arsenico poiché non era stata provata la diffusione dell’arsenico all’interno della comunità dei lavoratori; - può avere le caratteristiche di un evento disastroso immediatamente percepibile ma anche di un evento che si realizza in un arco di tempo prolungato, purché idoneo a pregiudicare, per la sua efficacia diffusiva, la pubblica incolumità. Il macro evento disastroso non necessariamente deve avere caratteristiche di concentrazione temporale,

 

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potendo trattarsi di un processo che si prolunga nel tempo. Su questa scia si collocano le sentenze che, pur non avendo esaminato specificamente il tema, hanno ritenuto configurabile il disastro ambientale, colposo o doloso, in tutti i casi di inquinamento progressivo, durato anni, di vaste aree, per lo più agricole, con l’immissione incontrollata di rifiuti pericolosi (Cass. 14-7-2011, 16-1-2008, Agizza). Di tale fattispecie si è occupata Corte cost. 327/2008, chiamata a valutare il dubbio di illegittimità costituzionale alla luce del principio di determinatezza. La Corte, nel dichiarare non fondata la questione, ha proposto alcune riflessioni: - il principio di determinatezza è volto a evitare che il giudice assuma un ruolo creativo, individuando i confini tra il lecito e l’illecito e a garantire la libera autodeterminazione individuale, consentendo al destinatario della norma penale di apprezzare le conseguenze giuridiche della propria condotta; - l’espressione “disastro” utilizzata nella norma è una formula sommaria capace di assumere, nel linguaggio comune, un’ampia gamma di significati. Tuttavia, la valenza del termine è illuminata dalla finalità dell’incriminazione e dalla sua collocazione nel sistema dei delitti contro la pubblica incolumità. Si tratta di un evento diverso ma comunque omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai disastri contemplati nei delitti di comune pericolo mediante violenza, caratterizzato dai tratti distintivi delle fattispecie di disastro tipiche, costituite da un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, idoneo a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi, con conseguente pericolo per la vita e per l’integralità fisica di un numero indeterminato di persone. 3.3. Disastro ferroviario colposo. Il reato di disastro ferroviario colposo previsto dagli artt. 430 e 449 c.p., non diversamente dal disastro innominato colposo disciplinato dagli artt. 434 e 449 c.p., ha natura di delitto di evento che richiede che si verifichi l’evento di pericolo per la pubblica incolumità, costituito da un accadimento macroscopico, dirompente e potenzialmente lesivo nei confronti di un numero indeterminato di persone. Si tratta di una fattispecie di pericolo astratto che non richiede che la pubblica incolumità sia stata posta concretamente in pericolo. Cass. 15444/2012, ad es., ha ritenuto realizzata la fattispecie tipica del disastro ferroviario in un caso nel quale un convoglio ferroviario, composto di quattro carrozze e privo di conducente, si era messo in movimento per l’inidoneo bloccaggio percorrendo oltre quattro chilometri, raggiungendo una velocità di circa ottanta km orari, attraversando due passaggi a livello rimasti aperti e invadendo due carreggiate stradali fino a schiantarsi sul greto di un fiume senza che venissero provocati danni alle persone. 3.4. Disastro aviatorio colposo. L’art. 428 c.p. distingue l’ipotesi della caduta di un aereo di proprietà altrui (comma 1) da quella della caduta di un aereo di proprietà dell’autore del reato (comma 3). Il reato si perfeziona anche senza il verificarsi di una situazione di pericolo concreto. Del resto, la norma prevede anche altre fattispecie, quali il naufragio e la sommersione, a integrare le quali basta che l’evento colpisca anche una barca autorizzata al trasporto di qualche persona, compresa la barca a remi (Cass. pen. 9029/1981). Ancora più radicalmente

 

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si è rilevato che il legislatore, in via presuntiva, ma anche ragionevolmente, ha ritenuto che ogni qualvolta un aeromobile si abbatta al suolo si verifica, o si può verificare, una situazione di particolare gravità e complessità e viene suscitato un certo allarme nella comunità. Il delitto di cui si discute, pertanto, rientra nella categoria dei reati di pericolo presunto: il delitto di caduta di aeromobile previsto dall’art. 428 c.p., nella forma dolosa, e dall’art. 449 c.p. in quella colposa, è un reato di pericolo presunto e consiste nel causare la caduta di un velivolo militare o adibito al trasporto di persone. Il giudice, pertanto, non è chiamato ad appurare se vi sia stato pericolo per l’incolumità pubblica, dovendosi limitare ad accertare che il fatto sia conforme al tipo. La classificazione del reato di disastro aviatorio tra i reati di pericolo presunto deve essere però correttamente perimetrata. La categoria del pericolo presunto è stata raggiunta, come accennato, da severe censure per la sua asserita incompatibilità con il principio di offensività e, correlativamente, con il principio di colpevolezza. Anche sulla scorta di una serie di prese di posizione della Corte costituzionale si afferma concordemente che nel tessuto normativo del reato di pericolo occorre individuare elementi che consentano di dare concreta attitudine offensiva alla condotta. Così, ad esempio, in materia di incendio l’opera interpretativa si è soffermata sul significato da attribuire a tale termine, definito in modo da espungere quelle classi di ipotesi prive di una concreta attitudine offensiva, sia pure solo potenziale, per l’incolumità pubblica: incendio non è quindi un qualsiasi fuoco sia pure esteso, ma è solo quel fuoco che presenta caratteri di tale diffusività e capacità distruttiva da porre in pericolo l’incolumità pubblica (Cass. pen. 43126/2008, Commetto). Attraverso operazioni di questo genere si tende a sostituire il pericolo presunto con il pericolo astratto: il pericolo non può essere insindacabilmente ritenuto sussistente solo perché si realizza il fatto conforme al tipo, ma è conforme al tipo solo il fatto che esprima davvero una potenzialità offensiva dei beni tutelati. Quando questa potenzialità offensiva non sia rinvenibile nella fattispecie definita dal legislatore si apre la strada della censura costituzionale. Se però la fattispecie astratta non propone profili di incompatibilità con il canone di offensività, dovrà essere il giudice ordinario a garantire che il fatto concreto esprima almeno una minima offensività. Talvolta la giurisprudenza non sembra incline a condurre l’indagine sul campo della concreta offensività. Si sostiene, ad esempio, che non è necessario accertare - nell’ipotesi del reato di incendio di cui all’art. 423, co. 1, c.p. - il verificarsi di un concreto pericolo per la pubblica incolumità, poiché “l’altruità sia pur parziale del bene incendiato rende inconferente il rilievo difensivo in merito all’assenza di un pericolo concreto per la pubblica incolumità, che si presume invece in modo assoluto" (Cass. 28843/2009). Nel caso di disastro aviatorio, per caduta si intende il contatto del veicolo con qualsiasi superficie, acquea o terrestre, che avvenga senza il completo controllo della traiettoria dell’assetto di volo da parte del pilota. Un’accezione di caduta che la identifichi con l’abbandono inerte alla forza di gravità, con esclusione quindi dell’atterraggio o dell’ammaraggio di fortuna – e quindi di una presa di contatto con la superficie nella persistenza di una relativa ma insufficiente capacità di governo dell’aeromobile da parte del pilota – è irricevibile, dal momento che il concetto di caduta rimanda a una perdita di quota che non è controllata per intero. Pertanto anche la tradizionale esemplificazione del pilota che, prima di lanciarsi con il paracadute dal veicolo

 

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in avaria, operi sulla strumentazione di bordo perché l’aereo cada in una zona disabitata piuttosto che sul centro cittadino, rimanda a un’ipotesi di caduta, secondo l’accezione di cui all’articolo 428 c.p. Parte della dottrina esclude dall’ambito di applicazione della norma eventi verificatisi in fase di atterraggio o di decollo o per collisione con ostacoli fissi o immobili durante il volo. Quel che sembra certo è che la locuzione “caduta di aeromobile” non sembra si presti più di tanto a operazioni interpretative di maggiorazione del tasso di offensività della fattispecie, rispetto a quanto non rechi naturalmente con sé l’ipotesi della precipitazione di un velivolo. La necessità di operare una verifica dell’offensività in concreto dell’evento “caduta” ha sollecitato la dottrina a segnalare che la fattispecie di disastro aviatorio va interpretata alla luce del criterio della contestualizzazione dell’evento (in modo non dissimile da altri reati di pericolo astratto). In ragione di esso, non integra il reato qualsiasi precipitare a terra governato dalla sola forza di gravità ma va accertato, alla luce degli elementi concretamente determinatisi, quali le dimensioni del mezzo, il numero dei passeggeri che può essere trasportato, il luogo effettivo di caduta, l’espansività e la potenza del danno materiale, se il fatto era in grado di esporre a pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone. Siffatto giudizio va condotto secondo una prospettiva ex ante, ovvero verificando se, alla luce dei fattori conosciuti e conoscibili (giudizio ontologico a base totale) da parte dell’agente od omittente al momento del compiersi della condotta (se trattasi di reato di mera condotta) o a quello del verificarsi dell’evento (nel caso di reati di evento), quest’ultimo si presentava, se realizzato, come in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità. Quel giudizio, per utilizzare le parole della dottrina, è condotto dalla “visuale di un osservatore avveduto, posto nella stessa situazione materiale dell’agente, che giudica il decorso fattuale secondo un parametro probabilistico, suscettibile di assumere connotati diversi in dipendenza del contesto di riferimento”. Ciò conduce a precisare che, quando si tratti di disastri che coinvolgono mezzi di trasporto, “trattandosi di situazioni già connotate in sé da una pregnante osmosi tra danno materiale e pericolo pluripersonale, il carattere della diffusività è, per così dire, connaturato all’oggetto materiale ..., cosicché ad assumere rilievo in chiave prognostica, è, semmai, il solo dato dell’indeterminatezza delle vittime” (GARGANI). In sostanza, rispetto al delitto di disastro aviatorio colposo, il pericolo astratto comporta un giudizio di verosimiglianza della presenza di un numero indeterminato di persone nella sfera di esplicazione del fatto. L’indeterminatezza di cui si parla non può essere identificata con l’idea di un pericolo per un numero potenzialmente sterminato di persone, e neppure con l’impossibilità di identificare le stesse persone potenzialmente esposte al pericolo, con la conseguenza che non rileva il pericolo corso da congiunti o amici. Tenuto conto che il legislatore ha preso in considerazione eventi dotati di forza dirompente e quindi in grado di coinvolgere numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile, ciò che caratterizza il pericolo per la pubblica incolumità è semplicemente la possibilità che le persone si trovino coinvolte nella sfera d’azione dell’evento disastroso descritto dalla fattispecie, esposte alla sua forza distruttiva (Cass. 36639/2012, 13893/2009).

 

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Dispensa giurisprudenziale Concussione e induzione indebita (L. 190/2012): i tratti distintivi Cass. pen., sez. VI, 9-5-2013, n. 20430 [....]

DIRITTO

Come noto, la L. n. 190 del 2012, nel novellare la disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione, ha sostituito l’art. 317 c.p., con l’introduzione di una “diversa” fattispecie di “concussione”, ed ha introdotto l’art. 319quater c.p., riguardante l’innovativo reato della “induzione indebita a dare o promettere utilità”, figura sostanzialmente intermedia tra quella residua della condotta concussiva sopraffattrice e quella dell’accordo corruttivo, integrante uno dei reati previsti dall’art. 318 c.p. o dall’art. 319 c.p. (anch’essi modificati dalla stessa legge). Pure allo scopo di uniformare la normativa interna ai principi della Convenzione contro la corruzione di Merida del 2003, approvata in ambito ONU, e della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999, approvata in ambito di Consiglio d’Europa – convenzioni ratificate in Italia rispettivamente con le L. n. 116 del 2009 e L. n. 110 del 2012 – il legislatore nazionale, come si è accennato, ha “spacchettato” l’originaria ipotesi delittuosa della concussione (che, nel testo previgente dell’art. 317 c.p., parificava le condotte di costrizione e di induzione), creando due nuove fattispecie di reato. La prima, che resta disciplinata dall’art. 317 c.p. e prevede la punizione del “pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”, conserva i precedenti caratteri ed elementi costitutivi della fattispecie della concussione per costrizione, limitandosi ad incrementare il limite edittale minimo della pena detentiva (portata da quattro a sei anni di reclusione) e lasciando come soggetto attivo il solo pubblico ufficiale, con esclusione, dunque, della figura di incaricato di pubblico servizio. La seconda fattispecie di reato, “scorporata” dal previgente art. 317 c.p. e ora regolata dall’art. 319quater c.p., recante in rubrica la nuova denominazione di induzione indebita a dare o promettere utilità, è configurabile, “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, laddove “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”: delitto, dunque, che può essere commesso sia dal pubblico ufficiale che dall’incaricato di pubblico servizio, sanzionato con la più mite pena della reclusione da tre ad otto anni, e che ha una struttura, con riferimento alla condotta del pubblico agente (comma 1), nella quale sono stati riproposti gli stessi elementi qualificanti la “vecchia” figura della concussione per induzione. Rappresenta, invece, dato di assoluta novità la previsione, nel cit. art. 319 quater, comma 2, della punizione anche dell’indotto, cioè del soggetto che “da o promette denaro o altra utilità”,

 

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il quale, da persona offesa nell’originaria ipotesi di concussione per induzione di cui al previgente art. 317 c.p., diventa coautore nella nuova figura dell’induzione indebita. Nel tentativo di verificare quali siano i criteri che permettono di distinguere la figura della concussione, prevista dal “nuovo” art. 317 c.p., da quella della induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all’introdotto art. 319 quater, nella giurisprudenza di questa Corte si sono delineati tre differenti indirizzi interpretativi. Per un primo filone giurisprudenziale, la circostanza che le figure criminose descritte nei nuovi artt. 317 e 319 quater c.p. siano state create mediante una mera operazione di “sdoppiamento” dell’unica figura di concussione prevista dal previgente art. 317, senza l’aggiunta di ulteriori elementi descrittivi, induce a ritenere che il legislatore non ha inteso abbandonare l’impostazione che, in passato, la giurisprudenza di legittimità aveva proposto per distinguere le due “vecchie” ipotesi di concussione per costrizione o per induzione. Recuperando, così, gli approdi cui era pervenuta la Cassazione nell’esegesi della disposizione poi modificata, questa Corte ha avuto modo di sottolineare che la induzione, richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319 quater c.p., così come introdotto dalla L. n. 190 del 2012, non è diversa, sotto il profilo strutturale, da quella che già integrava una delle due possibili condotte del previgente delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p. e consiste, quindi, nella condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando delle funzioni o della qualità, attraverso le forme più varie di attività persuasiva, di suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori, determini taluno, consapevole dell’indebita pretesa, a dare o promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità. [....] Per un secondo filone giurisprudenziale, la costrizione, che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie di concussione di cui all’art. 317 c.p., così come modificata dalla L. n. 190 del 2012, implica l’impiego da parte del pubblico ufficiale della sola violenza morale, che consiste in una minaccia, esplicita o implicita, di un male ingiusto, recante alla vittima una lesione patrimoniale o non patrimoniale; al contrario, l’induzione, che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’art. 319quater c.p., è concetto che va definito “per sottrazione”, sicché deve ritenersi sussistente quando, in assenza di qualsivoglia minaccia, vengano prospettate, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della legge, per ottenere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità: l’esclusione dal concetto di induzione di qualsiasi tipo di minaccia giustifica sia il minor grave trattamento sanzionatorio rispetto alla concussione, sia la punizione di chi aderisce alla violazione della legge, ricevendone un suo tornaconto. [....] Vi è, infine, un terzo filone giurisprudenziale, per così dire intermedio, che, partendo dalle premesse formulate dal primo degli appena indicati indirizzi, finisce per proporre una soluzione interpretativa che si avvicina a quella formulata dal secondo orientamento. Seguendo questa diversa ottica, si è asserito che l’induzione, richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319quater c.p. (così come introdotto dalla L. n. 190 del 2012), necessita di una pressione psichica posta in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che si caratterizza, a differenza della costrizione, che integra il delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p., per la conservazione, da

 

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parte del destinatario di essa, di un significativo margine di autodeterminazione, o perché la pretesa gli è stata rivolta con un’aggressione più tenue e/o in maniera solo suggestiva o perché egli è interessato a soddisfare la pretesa del pubblico ufficiale, per conseguire un indebito beneficio. [....] E però, “bisogna riconoscere come la distinzione tra i concetti di costrizione e di induzione basata esclusivamente sull’intensità della pressione ovvero sul maggiore o minore grado di coartazione morale nel destinatario della pretesa, ha creato in passato non poche difficoltà interpretative – talvolta tradottesi in una tendenza a dilatare la portata applicativa della previgente disposizione codicistica della concussione, a scapito della complementare fattispecie di corruzione – che hanno portato la dottrina a dubitare della legittimità costituzionale di una norma, quella contenuta nel precedente art. 317 c.p., apparentemente carente dei requisiti di tassatività nella descrizione della condotta. Ancora oggi, in un contesto normativo mutato con la previsione della punibilità dell’indotto e con la esclusione della sanzionabilità del concusso, può risultare difficoltoso distinguere una condotta di costrizione da una di induzione laddove la pretesa sia fatta valere con modalità subdole o larvate (ovvero sia formulata con contenuti artatamente imprecisati), tanto da sembrare una forma di blanda pressione psichica, ma capace di integrare una situazione di sostanziale costrizione implicita. In altri termini, non sempre è possibile differenziare nettamente una induzione da una costrizione in base all’intensità della pressione esercitata dal pubblico agente ed al grado di condizionamento dell’interlocutore, in quanto vi sono situazioni “al limite” nelle quali è difficile distinguere il caso del privato che, anche in ragione della prospettazione di un male ingiusto, si trova nello stato psicologico di chi è conscio di soccombere ad un sopruso, da quello del privato che, destinatario di una pretesa avanzata in forma indeterminata, semmai caricata di significati da supposizioni personali dell’interessato, paventa solamente di poter patire un possibile futuro sopruso. [.…] Sussiste, dunque, un contrasto giurisprudenziale che, ai sensi dell’art. 618 c.p.p.., giustifica la rimessione dei ricorsi alle Sezioni Unite, chiamata a decidere la seguente questione: “quali siano i presupposti di applicabilità degli artt. 317 e 319 quater c.p. (come rispettivamente sostituito ed introdotto dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione”) e quali gli elementi di distinzione delle relative fattispecie incriminatrici”. È di tutta evidenza, peraltro, come privilegiare una o l’altra delle tre indicate opzioni esegetiche potrebbe influire sulla definizione della connessa questione di diritto intertemporale, se, a seguito della entrata in vigore della novella del 2012 sia ipotizzabile, con riferimento alle norme dei due appena considerati articoli, una qualche forma di abolitio criminis ai sensi dell’art. 2, co. 2, c.p., ovvero un mero fenomeno di successione di leggi penali nel tempo regolato dall’art. 2, co. 4, c.p. Questione che, fatta eccezione che per le perplessità manifestate in alcune pronunce, al momento la giurisprudenza di legittimità pare orientata a risolvere nel senso della esistenza di una continuità normativa tra la previgente e la nuova disciplina codicistica.