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Working paper series n. 21 2011
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L'EVOLUZIONE MANAGERIALE NELLE AMMINISTRAZIONI
PUBBLICHE: IL CONTRIBUTO DELLA LETTERATURA AZIENDALISTICA
Paola Adinolfi Abstract
Obiettivo del paper è avviare una riflessione sui processi di modernizzazione e innovazione
gestionale attuati nelle organizzazioni pubbliche italiane, esaminando criticamente il contributo
fornito dagli studi di Economia Aziendale. Si è a tal fine analizzata la produzione scientifica
sull’azienda pubblica degli ultimi 25 anni, nel tentativo di individuare un modello italiano di
innovazione nella PA. L’analisi delle opere di natura teorica ha consentito di individuare alcuni
orientamenti di fondo sull’azienda pubblica che condizionano il modo di concepire l’innovazione
gestionale, mentre l’esame dei lavori empirici ha permesso di individuare gli assunti sottostanti
alle scelte tecniche e alle soluzioni operative concretamente attuate, nonché l’efficacia e i risultati
ottenuti.
“…while a horse can be prevented from drinking water, it can not be forced to drink. All that
innovators can do is to provide water, so that when a horse chooses to drink it may do so readily”
Premchand (1984, p. 373)
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Le riforme del settore pubblico degli anni novanta, attuate sotto la spinta della corrente di pensiero
nota come New Public Management, rappresentano, secondo alcuni autori, la terza grande
rivoluzione dell’economia moderna dopo quelle industriale e tecnologica.
Obiettivo del paper è avviare una riflessione sui processi di modernizzazione e innovazione
gestionale attuati nelle amministrazioni pubbliche italiane, esaminando criticamente il contributo
fornito dagli studi di Economia Aziendale. Si è a tal fine analizzata la produzione scientifica
sull’azienda pubblica degli ultimi 25 anni, nel tentativo di individuare – sempre che esista – un
modello italiano di innovazione nella Pubblica Amministrazione: oggetto di analisi sono state le
opere monografiche sulle aziende pubbliche, nonché gli articoli apparsi sulle principali riviste
aziendalistiche (Azienda Pubblica, Economia&Management, Finanza Marketing e Produzione,
Journal of Management&Governance, L’impresa, Rivista italiana di ragioneria e di economia
aziendale, Sinergie, Sviluppo&Organizzazione).
Per valutare l’evoluzione degli studi nel tempo si sono identificati due sottoperiodi – 1978/1993 e
1994/2003 – che delimitano gli anni precedenti e successivi al noto decreto 29/93. Nel complesso
l’universo analizzato è costituito da 1136 unità: 557 opere monografiche (150 nel primo periodo e
407 nel secondo) e 579 articoli (questi ultimi, relativi al solo secondo periodo, dal momento che nel
primo periodo l’universo individuato è poco significativo).
Per l’analisi si è adottata una tecnica di ricerca documentaria - la content analyisis - avvalendosi di
una scheda di analisi semi-strutturata. I criteri di classificazione sono stati elaborati sulla base di
ipotesi formulate a seguito di un’analisi esplorativa di parte del materiale, avendo cura di rispettare i
tre requisiti essenziali della content analysis: “esaustività”, “mutua esclusività” e “indipendenza”.
Cinque criteri sono riferiti specificamente all’innovazione gestionale, e riguardano:
a) la modalità di diffusione (A:top-down/B:bottom-up),
b) la traiettoria (A:lineare/B:circolare),
c) la portata (A:limitata a variabili economiche /B:estesa ad altre variabili),
d) il locus (A:organizzativo/B:metaorganizzativo),
e) l’approccio (A:contingente/B:universalistico).
Altri cinque criteri sono generali, e riguardano:
1) il contenuto, inteso sia nel senso della specializzazione funzionale
(strategia/pianificazione-programmazione /marketing /controllo /rilevazione
/organizzazione/gestione risorse umane /finanza/generale/altro), che settoriale (PA
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centrale/regioni/enti locali/sanità/università-scuola-ricerca/imprese pubbliche/no-profit
/generale/altro);
2) il Paese di riferimento (Italia, altri Paesi);
3) l’autore [italiano (accademico aziendalista (Economia aziendale/ Economia e gestione
delle imprese/Organizzazione aziendale/ Finanza aziendale/Economia degli intermediari
finanziari)/, accademico non aziendalista/operatore)/straniero];
4) il taglio [teorico/empirico (survey/secondary analysis/case-study/event history
analysis/event study methodology/content analysis/experiment/meta-analysis/altro)];
5) la finalità dell’opera (descrittivo-conoscitiva/pragmatico-normativa).
Le tassonomie, più che sull’esame del contenuto, come è tipico della storiografia della letteratura, si
focalizzano sugli assunti di fondo sull’azienda pubblica, quelli che Ferraris Franceschi (1998)
definisce “protopostulati scientifici”. Per rispettare la mutua esclusività si è adottato il criterio della
“prevalenza” per discernere tra categorie nel caso di risposta multipla, mentre per soddisfare il
requisito dell’esaustività, si è prevista la categoria “altro” per raccogliere le unità di analisi non
attribuibili ad alcuna delle categorie ipotizzate, e la categoria “non rilevabile” da utilizzare nel caso
in cui il materiale selezionato non contenesse tutte le informazioni necessarie. Quest’ultima
situazione, peraltro, si è verificata abbastanza di rado, dal momento che anche nei lavori di ricerca a
finalità conoscitiva, ove il peso di giudizi e valutazioni è ridotto il più possibile, “l’influsso delle
scelte di natura metodologica è largamente avvertibile ed i giudizi di valore sono comunque presenti
sotto la forma di proto postulati scientifici, di idee, di scelte “essenzialistiche” che il ricercatore
porta con sé” (Ferraris Franceschi, 1998, p.33).
Un’illustrazione dettagliata delle ipotesi sottostanti ciascun criterio classificatorio è riportata in
Adinolfi (2004); in sintesi, per quanto concerne l’innovazione gestionale, si ipotizza un tendenziale
spostamento da posizioni più vicine al polo A (che identificano un approccio coerente con la
tradizione del New Public Management), a posizioni prossime al polo B (che contraddistinguono un
approccio vicino al nascente paradigma della New Public Governance).
L’analisi delle opere di natura teorica, basata su procedure statistiche semplici (calcolo delle
frequenze e analisi delle contingenze), ha consentito di verificare le ipotesi formulate, mentre
l’esame dei lavori empirici ha permesso di individuare gli assunti sottostanti alle scelte tecniche e
alle soluzioni operative concretamente attuate, nonché l’efficacia e i risultati ottenuti.
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1. Gli orientamenti teorici
I limiti di spazio rendono impossibile illustrare l’intera analisi e la bibliografia completa - queste,
insieme ai dati statistici, sono riportate in Adinolfi (2004) - dunque ci si limita in questa sede a
illustrare gli orientamenti di fondo sull’azienda pubblica che condizionano il modo di concepire
l’innovazione gestionale. E’ bene precisare che, dato il pluralismo che caratterizza gli studi
economico-aziendali, tali orientamenti sono presenti in misura diversa nei vari studi: si cerca in
questa sede di integrarli e porli in collegamento, riportando in nota i dati quantitativi ritenuti più
significativi. Questo modo di procedere ci sembra possa rendere la ricchezza e varietà delle
posizioni rilevate meglio di quanto non sarebbe possibile con una semplice esposizione commentata
dei dati quantitativi.
1.1. Il superamento dell’istituzionalismo normativo
Il punto sul quale si rileva la maggiore convergenza nella comunità di studiosi aziendalisti riguarda
l’approccio bottom-up all’innovazione gestionale1: opinione condivisa è che, anziché adottare
strategie di diffusione delle innovazioni guidate dall’alto, si debba lasciare autonomia di iniziativa
ai singoli municipi, agenzie e imprese pubbliche (o, a livello micro, ai livelli decentrati
dell’organizzazione).
Sin dai primi anni di sviluppo della disciplina si rileva il superamento dell’istituzionalismo
normativo, impostazione che assume l’esistenza di una relazione causale deterministica tra assetti
istituzionali e comportamenti reali, da cui consegue che le innovazioni gestionali possono essere
realizzate unicamente attraverso modifiche dall’alto degli assetti formali, facendo leva sul potere
cogente delle regole.2 La maggior parte degli autori ritiene che le innovazioni debbano scaturire da
percorsi di cambiamento sperimentati all’interno delle singole realtà attraverso processi di
apprendimento per prova ed errore e la capitalizzazione e diffusione di esperienze e conoscenze
entro le specifiche organizzazioni (Costa e De Martino, 1985, p.4). Fondamentale a tal fine è la
diffusione di conoscenze di tipo economico-aziendale, che consente di creare forti tensioni alla
sperimentazione di soluzioni gestionali innovative (Borgonovi, 1996, p.98).
Come conseguenza di tale impostazione, si rileva una focalizzazione sull’attività che segue il
momento normativo (Costa, 1997, p.539), e una forte attenzione alle variabili organizzative e
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culturali: “un’attenzione alla struttura e alla cultura della burocrazia può migliorare la capacità
progettuale e realizzativa dell’apparato pubblico più di quanto non possa fare un’attenzione
esclusiva (e velleitaria) alle strategie” (Costa e De Martino, 1985, p.6).
A livello micro, emerge in modo netto lo stretto collegamento tra organizzazione e strategia inteso
in senso biunivoco (in contrapposizione alla concezione chandleriana, o meglio, all’interpretazione
parziale della lezione chandleriana sul rapporto strategia/struttura), e si sottolinea l’importanza del
coinvolgimento della linea operativa nelle strategie di cambiamento. Acquista dunque importanza
l’analisi organizzativa, che consente di valutare il grado di coerenza dei progetti di cambiamento
rispetto alla cultura e alla professionalità del personale, alle prassi operative consolidate e ai vincoli
strutturali, fornendo indicazioni utili per “attuare interventi sull’organizzazione interna idonei ad
aumentare la probabilità di successo delle politiche adottate” (Borgonovi, 2002, p.303).
L’accresciuta rilevanza delle variabili organizzative dell’innovazione contrasta con la presenza
ancora ridotta e, sorprendentemente, diminuita nella fase più recente, degli studi di taglio
organizzativo (si vedano le figure 1, 2 e 3)3.
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Fig. 1. Distribuzione delle monografie in relazione alla specializzazione funzionale (1978-1993)
Opere specializzate settorialmente
19%
Organizzazione e
Sistemi informativi
16%
Rilevazione15%
Controllo 14%
Gestione risorse umane
8%Strategia6%
Programmazione e Pianificazione
6%
Finanza2%
Marketing5%
Opere generali9%
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Strategia12%
Marketing7%
Organizzazione e Sistemi
informativi6%
Gestione risorse umane
5%
Programmazione e
pianificazione3%
Controllo16%
Finanza8%
Rilevazione10%
Altro4%
Opere specializzatesettorialmente
24%
Opere generali
5%
Fig. 2. Distribuzione delle monografie in relazione alla specializzazione funzionale (1994-2003)
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Fig. 3. Distribuzione degli articoli in relazione alla specializzazione funzionale (1994-2003)
Altro13%
Rilevazione7%
Finanza4%
Controllo10%
Programmazione e
Pianificazione3%
Gestione risorseumane
9%
Organizzazione Sistemi
informativi8%
Marketing5%
Strategia17%
Articoli specializzati
settorialmente15%
Articoli generali9%
Il superamento dell’“istituzionalimo normativo” non implica che gli studiosi dell’azienda pubblica
si disinteressino dell’assetto normativo-istituzionale. La maggior parte considera comunque le
norme legislative una “condizione fondamentale per il funzionamento degli istituti pubblici e anche
per il loro cambiamento” (Rebora, 1995, p.309). Non mancano suggerimenti per il legislatore. Ad
esempio Borgonovi (1996, p.97) sottolinea l’importanza del realismo delle leggi: “se è valido il
principio di legalità per cui in uno Stato di diritto le leggi vanno rispettate, è anche vero il principio
di realtà, per cui esse possono essere fatte rispettare solo se sono coerenti con i fatti e recepiscono
comportamenti accettati o accettabili: in caso contrario le leggi restano inapplicate.” Inoltre, con
riguardo ai contenuti e alla formulazione tecnico-giuridica, lo stesso autore suggerisce di seguire il
principio che “tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito, e della immediata
applicabilità dei nuovi principi e criteri, anche in assenza di decreti e criteri attuativi, secondo il
principio della autonomia e sperimentazione” (Borgonovi, 1999, p.188). In sostanza, “regole,
vincoli, interventi di organi sovraordinati devono orientarsi a stimolare e verificare il cammino delle
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varie amministrazioni verso condizioni di duratura funzionalità aziendale” (Rebora, 1995, pp.81-
82).
1.2. La presa di distanza dai modelli razionali
Anche l’ipotesi relativa alla tendenziale traiettoria evolutiva dell’innovazione viene sostanzialmente
confermata. Nel primo periodo prevalgono, in opposizione al nuovo incrementalismo, logiche di
pianificazione razionale, fondate sul presupposto di poter governare l’azienda pubblica sulla base di
approfondite analisi tecnico-organizzative delle relazioni tra obiettivi-programmi-risorse, e sulla
“verifica a posteriori, imposizione durante lo svolgimento della gestione e riscontro a posteriori del
rispetto di coerenze rigide e di rigidi rapporti tra i tre elementi” (Borgonovi, 2002b, p.299). Nel
secondo periodo tende invece ad affermarsi una visione di azienda pubblica come sistema che
apprende e si trasforma attraverso l’azione di una pluralità di soggetti che interagiscono con i
cambiamenti ambientali. In questa visione viene superata la concezione di innovazione come
fenomeno ordinato e sequenziale: essa non è conseguente alla generazione e formulazione di scelte
strategiche, ma, piuttosto, “un costante termine di riferimento per ogni analisi, azione e riflessione
di tipo strategico” (Rebora e Meneguzzo, 1990, p.272). Viene dunque enfatizzato, in linea con il
modéle tourbillionnaire sviluppato dai sociologi dell’innovazione (Akrich, Callon e Latour, 1988),
il carattere circolare e non sequenziale (Fontana e Lorenzoni, 2000) dell’innovazione4, la quale si
realizza attraverso un percorso di apprendimento per prova ed errore (Costa, 1997, p.7).
Nel nuovo approccio, definibile “evolutivo”, “l’aspetto creativo e relazionale delle strategie diviene
una caratteristica potenzialmente attribuita a tutti gli attori” (Costa, 1997, p.7), dei quali viene
enfatizzato il ruolo cruciale nei processi di sviluppo e diffusione dell’innovazione.
L’evoluzione sopra tracciata si riflette anche negli studi sull’innovazione organizzativa nelle
aziende pubbliche, e in particolare emerge un approccio progettuale che, riconoscendo la razionalità
limitata del management, pone l’enfasi sugli aspetti emergenti dell’azione organizzativa e vede il
processo di costruzione organizzativa come insieme di azioni e decisioni interconnesse risultanti
dalle interazioni tra gli attori. L’innovazione organizzativa dunque deve partire “dall’interno”, e
basarsi su un continuo adattamento degli organi di coordinamento “alle strutture relazionali che i
soggetti agenti producono e riproducono incessantemente, escludendo l’idea di struttura come entità
a sé stante, sovraordinata o comunque separata dagli individui” (Maggi, 1997, p.42).
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1.3. L’attenzione alla dimensione politica
Mentre nelle prime analisi si rileva una rigorosa delimitazione del campo di indagine agli aspetti
economici misurati o misurabili tramite la manifestazione di valori economici (Borgonovi, 1994,
p.57), successivamente, in linea con l’ipotesi da noi formulata, l’analisi del funzionamento
dell’azienda accoglie anche variabili non economiche; essa, ampliando il focus al di là della
semplice dinamica degli andamenti (come avevano fatto i Maestri dell’Economia Aziendale), si
rivolge in particolare agli aspetti soggettivi delle funzioni manageriali e ai comportamenti degli
attori (Ferrero, 1980). La centralità delle interazioni con gli attori presenti ai vari livelli nel contesto
politico e sociale (Meneguzzo, 1995, p.506) fa emergere una concezione di azienda pubblica come
entità mediatrice ed equilibratrice di una pluralità di interessi, conferendo importanza alla
dimensione politica5.
Sulla scia della ricerca europea che ha portato alla falsificazione del “teorema dell’attore unico”
(Grandori, 1995, p.84), la “politicità” viene intesa non in un’accezione negativa, ma nel senso
dell’integrazione tra attori differenti e composizione delle specifiche esigenze e finalità. Ciò porta a
esaltare la necessità e l’importanza della funzione di governo: mentre nel primo periodo prevale un
approccio di studio definibile “sistematico-gestionale” (Fazzi, 1951), ossia riferito alla gestione
(oggettivamente osservata nelle diverse articolazioni), nel secondo periodo aumentano i riferimenti
alla funzione di governo, consistente nell’attivare e soprattutto coordinare i diversi attori del sistema
socio-economico, in modo tale che gli interventi pubblici e non pubblici siano in grado di far fronte
alle esigenze di complessità (Meneguzzo, 1995, p.503). La sfida concettuale riguarda
l’individuazione di meccanismi di governance delle organizzazioni pubbliche che consentano
un’equilibrata rappresentanza degli interessi coinvolti (equilibrio politico-istituzionale) e
un’efficace azione di controllo sull’operato del management, coniugate ad un sufficiente livello di
autonomia del management stesso (Del Vecchio, 2001, p.49).
Il dibattito si concentra in particolare sul tema del rapporto tra politici e tecnici: sin nei primi studi
si supera la concezione di attività amministrativa neutrale in favore di una concezione di
strumentalità dell’attività amministrativa: la dirigenza pubblica deve contribuire al processo di
definizione degli obiettivi strategici, ponendosi in un rapporto di interazione (ossia di distinzione
ma al contempo di reciproca influenza) con i politici, fondato su processi di scambio di
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informazioni, obiettivi e valutazioni (Borgonovi, 1984). Ciò ha implicazioni di rilievo dal punto di
vista dell’innovazione gestionale: la necessità di scambio fra la componente politica e quella tecnica
è infatti considerata un’opportunità di stimolo alla ricerca ed implementazione di processi
innovativi nel rapporto impresa-ambiente (Mele, 1991).
Gli studi più recenti tendono a porre in evidenza gli ostacoli che si frappongono alla definizione di
un rapporto ottimale tra politici e amministratori, e a proporre il modello dello spoil system, dove
l’elevato livello di condivisione che scaturisce dalla relazione di natura fiduciaria tra politici e
amministratori si ritiene determini le migliori condizioni per la realizzazione di innovazioni
gestionali. Non manca la constatazione dei rischi e delle difficoltà dello spoil system e da più parti
provengono indicazioni volte a frenarne le possibili degenerazioni. Borgonovi (2002a, pp.369-70) al
riguardo suggerisce di prevedere per il processo di nomina politica modalità, forme e momenti di
confronto con soggetti portatori di interessi generali diversi da quelli che hanno il potere di nomina;
di sviluppare sistemi di responsabilizzazione dei politici nei confronti della società; di introdurre
sistemi efficaci di valutazione della performance delle organizzazioni pubbliche; di rafforzare la
professionalità della dirigenza pubblica.
1.4. La dissoluzione dell’organizzazione
Anche l’ipotesi relativa allo spostamento del locus dell’innovazione oltre i confini organizzativi
viene confermata6. Già nei primi studi di Economia delle Amministrazioni Pubbliche, in
contrapposizione al modello weberiano di perfezione delle strutture burocratiche e di invarianza (o
chiusura) delle organizzazioni complesse, l’azienda pubblica viene concepita come sistema aperto
di relazioni oggettive e soggettive che devono essere guidate verso condizioni di equilibrio
dinamico non predefinibili a priori. Se, tuttavia, nella prima fase si tende a dare precedenza alle
azioni rivolte all’interno e in via secondaria si guarda al rapporto tra organizzazione pubblica e
ambiente, nel secondo periodo si avverte l’esigenza di partire dall’ambiente esterno per definire le
politiche di intervento (sviluppo organizzativo, riqualificazione manageriale) rivolte all’interno
delle amministrazioni pubbliche. Ne discende una rinnovata enfasi sulle relazioni interistituzionali e
interaziendali nell’ambito del più ampio sistema pubblico, ed una crescente attenzione ai modelli
interorganizzativi di coordinamento (Mercurio, Martinez e Moschera, 2000). L’azienda pubblica
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diventa, dunque, oggetto di approcci del tipo “impresa-rete”, “organizzazione-mercato” ecc.,
riscontrati da qualche anno a questa parte negli studi sull’impresa.
Negli anni recenti, sotto l’influsso dei processi di globalizzazione dell’economia e di integrazione
economica e socio-politica, e dell’affermarsi di relazioni di scambio tra le aree geografiche e i loro
pubblici di riferimento, l’elaborazione teorica si concentra in particolare sulla dimensione
territoriale7. Questa, nelle diverse configurazioni assunte - territori (Valdani e Ancarani, 2000),
sistemi economici locali (Romano e Passiante, 1996), sistemi produttivi territoriali (Bramanti e
Maggioni, 1997), sistemi vitali socio-economici (Pellicano, 2002), città (Golfetto, 1996), aree
metropolitane (Salvemini, 2000), aree-sistema (Borgonovi, 2000, in Zuffada, p.IX) - rappresenta la
nuova unità di misura di una competizione che è basata sempre più sulle risorse immateriali.
In tali scenari, che condividono un allargamento del focus analitico oltre i confini
dell’organizzazione, si dissolve l’approccio firm-based all’innovazione. La sfida diventa
individuare modalità di “metagoverno” o studiare nuove forme di governo pluralistico
dell’innovazione, eventualmente ampliando la gamma delle fondamentali forme alternative di
organizzazione contemplata dalle teorie attualmente dominanti di valutazione istituzionale
comparata. Un ruolo cruciale viene attribuito alle nuove tecnologie dell’informazione, le quali
favoriscono l’apertura dei confini organizzativi verso l’ambiente esterno e rendono possibili nuove
forme di coordinamento tra le istituzioni[…] [esse consentono] in tempo reale ad ogni
amministrazione, ad ogni centro di decisione, di conoscere la compatibilità tra le proprie scelte e
quelle compiute da altri centri decisionali, senza la necessità di verticalizzare la decisione e il
coordinamento. In ultima analisi favoriscono il passaggio da un’amministrazione dirigistica,
verticale e segmentata, ad un’amministrazione orizzontale, orientata al servizio e caratterizzata da
fitti scambi informativi tra le sue parti.
1.5. La visione contingente e olistica
L’evoluzione degli studi, rispecchiando il passaggio dallo Stato regolatore e del welfare allo Stato
dei servizi, si sviluppa nel senso del superamento del modello di pubblica amministrazione unitaria
che applica in maniera uniforme i principi astratti della legge, in favore di un modello di “sistema
pubblico composto da unità tra loro assai diverse” (Borgonovi, 1996, p. 198). La pubblica
amministrazione è vista non come una realtà omogenea, ma come un “insieme, debolmente
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connesso e coordinato, di enti caratterizzato da grandi differenze e difformità […] su tutti i piani, ivi
incluse le logiche di funzionamento e le condizioni organizzative presenti” (Rebora, 1995, p.45).
Coerentemente, in linea con l’ipotesi formulata, tende ad affermarsi un’impostazione flessibile
all’innovazione gestionale e si passa, sotto l’influsso della teoria delle contingenze, dalla ricerca di
paradigmi unitari a quella di schemi di “contingenze amministrative” che indirizzino l’adozione di
soluzioni di struttura e comportamento alle specificità dei contesti applicativi (Rebora, 1983), anche
perché nella società moderna “per effetto dello sviluppo delle conoscenze, delle tecnologie, dei
metodi e degli strumenti gestionali, esistono molteplici alternative idonee a realizzare una
determinata strategia e non esiste un criterio di ottimalità unico e assoluto per scegliere la migliore”
(Borgonovi, 2002a, p.368).
La specificità, in una logica sistemica, si declina a diversi livelli di analisi: essa si riferisce sia alle
peculiari condizioni di svolgimento delle aziende pubbliche, sia, all’interno del settore pubblico,
alle peculiarità dei singoli sottosistemi, nonché alla varietà rilevabile nell’ambito degli stessi, sia
ancora, alla differenziazione interna alle singole organizzazioni.
L’evoluzione tracciata si riflette nella tipologia di contributi prodotti: secondo un perfetto
isomorfismo tra l’oggetto della disciplina e la disciplina medesima, nel corso degli anni tendono a
diminuire le opere di carattere generale e ad aumentare i contributi specializzati sia rispetto alle
combinazioni economico-tecniche sia rispetto all’area funzionale (figure 4, 5 e 6).8 Emerge invero,
anche negli studi ad accentuata specializzazione, il carattere unitario della gestione e l’importanza
dell’interazione tra le diverse aree funzionali, in una logica sistemica, ormai condivisa, tra fenomeni
interni ed esterni, oggettivi e soggettivi, generali e particolari. L’approccio seguito, più che
avvicinarsi ad una sorta di pharmacopea che prescrive la giusta medicina ed il giusto dosaggio per
ogni specifico problema, è assimilabile a quello della medicina naturale dove il problema è
considerato nella sua specificità e interrelazione con altri aspetti e richiede terapie flessibili basate
su una pluralità di farmaci, in combinazioni personalizzate e originali.
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Fig. 4. Distribuzione delle monografie in relazione alla specializzazione settoriale (1978-1993)
Opere specializzate
funzionalmente19%
Impresa pubblica
21%
Enti locali21%
Sanità21%
Non profit5%
Scuola-Università-
Ricerca2%
Opere generali9%
Regioni2%
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Fig. 5. Distribuzione delle monografie in relazione alla specializzazione settoriale (1994-2003)
Altro 9%
Imprese pubbliche
14%
Sanità17%
Scuola/Università/
Ricerca3%
No profit7%
Enti locali26%
Regioni1%
Pubblica Amministrazione
3%
Operespecializzate
funzionalmente15%
Opere generali5%
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Fig. 6. Distribuzione degli articoli in relazione alla specializzazione settoriale (1994-2003)
Articoli generali7% Articoli
specializzati funzionalmente
12%
Pubblica Amministrazione
7%Regioni3%Enti locali
31%
No profit9%
Scuola/Università/
Ricerca9%
Imprese pubbliche
10%
Sanità'6%
Altro6%
2. Le riforme in pratica
Nel complesso l’evoluzione degli studi sull’azienda pubblica (visualizzata schematicamente nelle
figure 7 e 8) va in direzione di logiche e modelli coerenti con il paradigma emergente della New
Public Governance, e con gli sviluppi più recenti della letteratura aziendalistica. Numerosi e non
marginali sono gli elementi di discontinuità rispetto alla tradizione dominante dell’aziendalismo
italiano, ma non rispetto ad alcune tradizioni interne agli studi sulle aziende pubbliche: alcune
riflessioni innovative risalgono agli anni ottanta, non si tratta dunque solo di un’eco del dibattito
scientifico, nazionale e internazionale, ma di una capacità di elaborazione autonoma e originale.
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Fig. 7. L'evoluzione dell'innovazione gestionale: confronto tra monografie del I e II periodo
69%
42%31%
19%
81%
91%
61%51%
31%
90%
0%
50%
100%
Monografie periodo 1978-1993
Monografie periodo 1994-2003Modalità bottom-up
Approccio contingente
Locus meta-organizzativo
Traiettoria circolare
Portata extra - economica
Fig. 8. L'innovazione gestionale negli articoli (1994-2003)
88%
46%
61%64%
81%
0%20%40%60%80%
100%
Modalitàbottom-up
Traiettoriacircolare
Portata extra - economica
Locus meta-organizzativo
Approccio contingente
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Gli studi tengono conto del fatto che si è profondamente modificato il ruolo dello Stato in direzione
di un sempre maggiore orientamento ai servizi e ai bisogni, e nello stesso tempo, si è notevolmente
accresciuta la complessità del contesto nel quale gli interventi pubblici si collocano. In tale scenario,
l’innovazione gestionale non è considerata semplicisticamente perseguibile attraverso la
modificazione dell’assetto normativo-istituzionale o, al livello micro, dell’assetto strutturale, bensì
promuovibile dal basso, attraverso processi autopropulsivi favoriti dalla diffusione di conoscenze
economico-aziendali. In contrapposizione alla concezione tradizionale di innovazione come
fenomeno puntuale e lineare, tende ad evidenziarsi la natura circolare e non sequenziale
dell’innovazione, che non scaturisce dalla formulazione di scelte strategiche, ma è un processo
“evolutivo” di apprendimento per prove ed errori e di capitalizzazione di esperienze e conoscenze.
Il processo ha luogo sotto la spinta di una molteplicità di attori (individuali e collettivi), detentori, in
varia misura, di risorse, conoscenze e capacità organizzative.
L’enfasi sul ruolo delle soggettività rimanda alla evidenziazione del carattere politico
dell’innovazione, inteso nel senso di integrazione tra attori differenti e composizione degli interessi
specifici. Il locus dell’innovazione tende a spostarsi dunque dall’aggregato dell’organizzazione alle
sue parti costitutive, dissolvendo la specificità di un approccio corporate all’innovazione; esso si
allarga anche oltre i confini dell’organizzazione, ricomprendendo più ampi sistemi
interorganizzativi a geometria variabile caratterizzati da una pluralità di centri decisionali in
rapporto non gerarchico, bensì di simultaneo e reciproco condizionamento. Nuovi livelli di analisi,
collegati alla dimensione territoriale, vengono posti al centro dell’elaborazione teorica.
Coerentemente si afferma, in contrapposizione alla concezione sinottica e ottimizzante della
modernizzazione delle organizzazioni pubbliche, un approccio flessibile e contingente, che richiede
di declinare le innovazioni gestionali ed organizzative in relazione alle specificità del contesto di
attuazione, specificità riferite sia alle peculiari condizioni di svolgimento delle aziende pubbliche
(“inevitabilmente differenti” rispetto alle imprese private), sia, all’interno del sistema pubblico, alla
diversa caratterizzazione tipologica delle organizzazioni pubbliche, nonché alla varietà rilevabile
nell’ambito delle singole tipologie, o ancora, alla differenziazione interna alle singole
organizzazioni/configurazioni interorganizzative. Il carattere contingente fa riferimento anche alla
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pluralità di alternative che lo sviluppo delle conoscenze, delle tecnologie, degli strumenti gestionali
rende possibili per realizzare una determinata innovazione.
Se questi sono gli orientamenti degli studi teorici, essi trovano solo un debole riscontro nelle varie
misure attuative che nell’insieme concorrono a configurare il quadro del processo di rinnovamento
gestionale e organizzativo del settore pubblico italiano, come risulta evidente dall’analisi dei lavori
empirici.
2.1. La managerializzazione per editto
Nel nostro Paese il problema dell’innovazione gestionale è stato tipicamente considerato come un
problema di modificazione degli assetti normativo-istituzionali, o, a livello micro, degli assetti
strutturali-formali. Al superamento dell’istituzionalismo normativo, rilevato negli studi teorici, si
contrappone dunque l’approccio della “modernizzazione per legge” (Meneguzzo, 1997, p.590)
seguito in pratica: lo sforzo innovatore si è concentrato sulla fase della normazione più che
sull’implementazione, e nella formulazione delle norme non si è provveduto a predisporre le leve
gestionali e le risorse indispensabili per superare i vincoli strutturali e culturali.
Gli strumenti e le tecniche gestionali sono stati ricondotti alla logica giuridica, secondo quella
“oscura tendenza tipica delle organizzazioni pubbliche a trasformare gli oggetti del proprio interesse
in qualcosa di burocratico, e dunque comprensibile e gestibile secondo i propri schemi e modi di
operare” (Rebora, 1999, p.302). Essi, dunque, sono stati introdotti facendo ricorso “alla previsione
di espliciti atti formali da approvare entro certi tempi, secondo certi schemi (il più delle volte
uniformi) e seguendo predefinite procedure, con l’effetto di uno svuotamento degli strumenti stessi
e di un loro uso rituale” (Borgonovi, 2002b, p.77).
Di fronte alla constatazione dell’insufficienza delle norme, si è reagito tipicamente “intensificando
l’azione legislatrice, senza aver precedentemente analizzato le ragioni del fallimento che non stanno
nelle leggi e nelle circolari in quanto tali, ma stanno nelle incoerenze dell’azione riformatrice in
termini di obiettivi, di metodologie e di strumenti mobilitati” (Costa, 1997, p.528).
Non sorprende, dunque, che gli esiti siano di scarsa efficacia e notevole onerosità. Le indagini
condotte mostrano come rimuovere gli strumenti e le tecniche di gestione dal dominio flessibile e
contingente della conoscenza manageriale e ricondurli al rigore universalistico tipico delle categorie
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giuridiche, li abbia svuotati di ogni potenzialità di reale cambiamento, rendendoli meri adempimenti
burocratici (Panozzo, 2000, p.372).
Inoltre “l’eccesso di regolamentazione e la conseguente macchinosità dei processi decisionali” ha
prodotto ingenti oneri che si sono riflessi sui livelli dei costi e dei servizi, dando luogo ad una
riduzione della tutela sostanziale degli interessi delle famiglie e delle imprese, connessa alla
quantità e qualità dei servizi offerti, a fronte di un aumento della tutela formale (Borgonovi, 2002b,
p.74).
2.2. L’ossessione per la razionalità
Se al livello teorico si assiste al tendenziale superamento dei modelli razionali, in pratica alla base
delle innovazioni introdotte vi è la scelta di imperniare il funzionamento delle amministrazioni su
sistemi di programmazione e controllo formalizzati, in applicazione dei principi della pianificazione
razionale (Rebora, 1999). Alla base risiede una visione semplificatoria e riduzionistica dei processi
decisionali, che assume l’identificabilità a priori (in maniera a problematica e consensuale) degli
obiettivi, la prevedibilità dell’ambiente, la disponibilità di risorse (strumentali e di conoscenza)
adeguate a raggiungerli e la possibilità per un singolo attore, o gruppo di attori, di indirizzare
l’organizzazione verso gli obiettivi perseguiti.
Le norme emanate fanno ampio ricorso a forme di gestione per piani, programmi e obiettivi, al fine
di porre un’istanza di razionalità ed efficienza, definire punti di riferimento certi per garantire i
diritti e massimizzare la trasparenza e la responsabilizzazione. Esse in realtà non sembrano aver
prodotto significativi effetti positivi: combinandosi con la pervasiva cultura legalistica tipica del
nostro Paese, hanno generato quella che Rebora (1999, p.299) definisce “sindrome della produzione
di programmi a mezzo di programmi”, con riferimento all’esasperazione della logica per programmi
e obiettivi con cui si è affrontato il paradosso di una “razionalità aziendale senza mercato”.
Nella realtà la PA ha continuato a operare secondo “logiche molto lontane dalla direzione per
obiettivi e utilizzando strumenti di gestione ben diversi dai sistemi di programmazione e controllo”
(Rebora, 1999, p.84); dunque i sistemi di pianificazione formale e i correlati sistemi di
programmazione e controllo sono diventati una sovrastruttura che “invece di aiutare la gestione ha
introdotto ulteriori elementi di rigidità…” (Borgonovi, 2002, p.304).
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La spiegazione di ciò è nel fatto che le logiche programmatorie risiedono su assunti poco realistici:
l’idea che gli obiettivi possano essere definiti chiaramente e tradotti in un insieme coerente di azioni
si scontra con la peculiarità di un contesto in cui le finalità sono molteplici, vaghe, incoerenti tra
loro e spesso non realistiche; l’assunto che l’ambiente sia prevedibile e non influenzi
significativamente l’organizzazione appare superato, in quanto incompatibile con le fonti di
incertezza “sempre più attive e presenti” in ambito pubblico (Rebora, 1999, p.304); l’assunto che le
conoscenze e le risorse siano naturaliter adeguate al bisogno si scontra con l’inadeguatezza delle
condizioni operative, delle risorse e delle conoscenze rispetto agli obiettivi posti, infine, la
presunzione che un singolo attore – il management – sia in grado di modificare l’organizzazione in
relazione agli obiettivi perseguiti va a cozzare con la concreta fenomenologia dei processi
decisionali, ove difficilmente una singola figura carismatica (o anche un insieme di figure chiave)
riesce a farsi portatrice di un disegno strategico e a sostenerlo per il periodo necessario a realizzarlo,
e dove invece emergono forze di resistenza e opposizione (interne ed esterne), che inevitabilmente
producono annacquamenti, dilazioni o distorsioni negli obiettivi perseguiti.
Tali limiti inficiano la validità della razionalità programmatoria, in quanto “riducono
significativamente e ab inizio la possibilità che le iniziative programmatiche siano di successo e,
circostanza non meno grave, impediscono o, quanto meno, ostacolano significativamente la
possibilità di valutare il programma” (Mussari, 1999, p.114).
2.3. L’ipocrisia della neutralità politica
L’enfasi sulla dimensione politica dell’innovazione, rilevata negli studi teorici, non trova riscontro
negli interventi di modernizzazione concretamente attuati: questi accolgono la visione taylorista di
scientificità della gestione aziendale, da cui discende l’idea di innovazione come intervento tecnico
e neutrale. In tal senso possono essere lette due importanti linee-guida del processo di
modernizzazione amministrativa seguite nel nostro Paese: la creazione di amministrazioni
indipendenti e l’introduzione di modelli organizzativi improntati alla distinzione tra politica e
gestione. Il comun denominatore delle due linee di riforma è nella valorizzazione delle autonomie –
territoriali, funzionali, degli uffici dirigenziali, delle figure poste a capo delle autorità indipendenti –
e nella sottrazione alla politica di significativi spazi decisionali.
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Anche in questo caso l’efficacia delle misure attuative è bassa: l’ispirazione tecnicistica,
dissolvendosi di fronte ad un contesto di incentivi a conformarsi a modelli politici di tipo
tradizionale, è stata ampiamente tradita nella prassi.
Per quanto riguarda le autorità indipendenti, numerosi elementi fanno presupporre l’intenzione di
riportare tali organismi sotto l’egida dei partiti, finendo così per comprometterne la funzione di
contrappeso al potere politico (La Spina e Majone, 2000, p.340).
Circa la separazione tra politica e gestione, questa è stata inficiata dall’attribuzione del potere di
nomina agli organi politici. Tale misura, che teoricamente risponde all’esigenza di rivitalizzare il
principio di responsabilizzazione politica, e al contempo soddisfa l’esigenza di coniugare il binomio
autonomia-responsabilità (affiancando la rafforzata autonomia gestionale del dirigente pubblico ad
una maggiore responsabilizzazione sui risultati), nella pratica è diventata uno strumento di
rafforzamento del controllo politico sulla burocrazia, fondato su un utilizzo improprio del potere di
nomina. Ciò ha pregiudicato il fine dell’autonomia del management, facendo sì che la separazione
tra politica e gestione rimanesse una “sorta di irraggiungibile utopia” (Anselmi, 2001, p.13).
2.4. L’individualismo organizzativo
A fronte della crescente attenzione alle relazioni inter-istituzionali a livello teorico, in pratica le
innovazioni gestionali introdotte sono state orientate a risolvere problemi di integrazione e
coordinamento riferiti ad ambiti intra-organizzativi piuttosto che inter-istituzionali. Il rilancio della
natura aziendale sembra aver favorito il rafforzamento delle interdipendenze e dell’integrazione
“interna” a discapito di quella “esterna” (Borgonovi, 1994), focalizzando l’attenzione sul
funzionamento delle singole organizzazioni e dei servizi da queste erogati, piuttosto che sulla
funzionalità complessiva dei sistemi territoriali.
Ciò si rileva anche nelle norme legislative e contrattuali sul contratto di impiego (l’istituto della
posizione, i meccanismi di progressione economica orizzontale, i sistemi premianti collegati alla
performance, l’introduzione di figure di coordinamento generale e di livelli intermedi di
responsabilità lungo la linea verticale), le quali hanno favorito il superamento dell’appiattimento
strutturale tipico del settore pubblico, spingendo verso l’accentramento e il rafforzamento della
gerarchia, in controtendenza rispetto al mondo delle imprese, dove le esigenze di flessibilità
conducono invece in direzione di un sempre maggiore decentramento, appiattimento della piramide
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gerarchica, riduzione del numero e del peso dei quadri intermedi e sviluppo di forme organizzative
reticolari.
Tali innovazioni non hanno sempre sortito come beneficio il rafforzamento dell’integrazione
interna, in quanto, avendo incontrato nella pratica notevoli difficoltà attuative, il più delle volte non
hanno consentito di superare l’approccio a canne d’organo tipico della Pubblica Amministrazione,
né di guadagnare significativi livelli di autonomia istituzionale (Adinolfi, 2003). Esse hanno spesso
avuto l’effetto di rafforzare la propensione all’autoreferenzialità e alla chiusura tipica delle
burocrazie pubbliche, in un contesto dove, data la presenza di una pluralità di centri decisionali in
rapporto non gerarchico, la rete dovrebbe essere connaturata alle politiche (che per definizione
dovrebbero essere inter-istituzionali) (Bonaretti e Codara, 2001, p.205).
Si è così resa difficile l’attuazione di interventi, che pure la normativa prevede, volti allo sviluppo di
forme di cooperazione inter-organizzativa e di modalità di gestione per processi: ad esempio,
l’introduzione di aggregazioni organizzative di notevole ampiezza, come l’area o il dipartimento, è
avvenuta tipicamente mediante l’aggregazione di unità operative pre-esistenti, anziché attraverso
l’aggregazione di parti di tali unità operative secondo una logica processuale: piuttosto che tagliare
trasversalmente l’organizzazione nel rispetto delle modalità di sviluppo dei processi, si è riprodotto,
anche se su scala più ampia, il modello specialistico-funzionale (Cantarelli, 1999).
2.5. L’inguaribile centralismo
All’approccio teorico contingente si contrappone in pratica una concezione sinottica e ottimizzante
dei processi di modernizzazione amministrativa, ove è evidente il retaggio del one best way
taylorista. E’ indicativo in tal senso l’ampio ricorso a provvedimenti globali e omogeneizzanti,
come le leggi quadro, che si propongono di ridefinire un intero settore o di produrre cambiamenti
generalizzati, simultanei, uniformi.
Tali interventi, avendo la natura di norme di carattere generale e indifferenziato, ben di rado hanno
attivato le singole organizzazioni e i singoli dirigenti (Costa, 1997, p.529). In particolare le
innovazioni introdotte nel rapporto di lavoro si sono rivelate poco efficaci appunto perché non
rispecchiano a sufficienza la differenziazione nelle figure professionali (Rebora, 1999). Anche il
tanto celebrato decreto 29/93 si ritiene attribuisca un eccessivo ruolo centralizzatore ad alcuni
organismi dell’Amministrazione centrale, quali il Dipartimento della Funzione Pubblica, il
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Ministero del Tesoro, la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, l’Agenzia per la
Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni.
Persino i provvedimenti (come le leggi 142/90, 502/93, 59/97) miranti al decentramento sembrano
aver sopravvalutato il momento strutturale e normativo (Costa, 1997, p.530) e, in concreto, “a
fronte di trasferimenti formali di compiti e responsabilità, il controllo e la supervisione centrale si
sono in molti casi irrobustiti, particolarmente attraverso meccanismi finanziari o sottili meccanismi
di controllo” (Ongaro, 2002, p.128).
La visione sinottica del cambiamento la si rinviene anche all’interno delle singole organizzazioni
pubbliche, dove è ancora radicato “il mito della grande dimensione, della indefinita capacità di
governo delle strutture formali di direzione, della possibilità di prescrivere comportamenti e
obiettivi in tutte le parti dell’organizzazione, di trovare sempre e comunque the one best way, […]
mito caduto da tempo nella grande corporation privata” (Costa e De Martino, 1985, p.10). Anche in
questo caso la coerenza e completezza degli interventi effettuati ha perso vigore di fronte alla realtà
caratterizzata da una molteplicità di attori-decisori tesi al perseguimento di obiettivi autoreferenti
(Adinolfi, 2003).
3. Conclusioni
Questi sintetici cenni trascurano necessariamente altri interessanti sviluppi degli studi sull’azienda
pubblica che, per esigenze di sintesi, non sono stati considerati; tuttavia consentono di delineare, se
non un modello, una via italiana all’innovazione gestionale nelle amministrazioni pubbliche. Questa
vede divergere nettamente il piano teorico da quello operativo.
Sul piano teorico l’approccio all’innovazione nelle organizzazioni pubbliche, proseguendo una
tradizione di studi sull’azienda pubblica che ha origine già negli anni ottanta, tende ad essere
autopropulsivo, circolare, politico, meta-organizzativo, differenziato nelle sue applicazioni, e in
questo senso anticipa parte delle riflessioni contenute nel nascente paradigma della New Public
Governance.
Sotto l’aspetto operativo le riforme attuate, pur recependo a livello terminologico i modelli
aziendalistici, li metabolizzano all’interno di un approccio che, per la sua connotazione
istituzionalista, lineare, neutrale, firm-based e sinottica, è più vicino all’impostazione classica della
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Management Science, e, dunque, alla tradizione più ortodossa del New Public Management, quella
che Pollitt (1990) definisce “neotaylorista”.
Anche le innovazioni più moderne - il Business Process Reengineering, l’Activity Based Costing, il
team building, eccetera - restano “ingabbiate” all’interno delle logiche tradizionali: esse sono
progettate dall’alto come interventi chiusi, definiti ex-ante sulla base di una razionalità orientata allo
scopo, e con predeterminate modalità di utilizzo che non tengono conto della possibilità di
comportamenti che fuoriescano dall’orizzonte normato dei programmi.
Non sono dunque i singoli strumenti, ma è il modo di concepire la riforma amministrativa che non
sembra sostanzialmente cambiato. Esso rimane saldamente ancorato all’impostazione
amministrativistica tradizionale; d’altra parte, se ha fatto breccia in Italia è proprio perché in
sintonia con la concezione di matrice squisitamente giuridica dell’amministrazione, tuttora
prevalente.
Tale concezione riesce a fagocitare all’interno della propria costruzione dottrinaria qualsiasi
principio, anche il più innovativo, privandolo degli elementi operativamente più significativi.
Borgonovi (1999, p.189) parla a tale proposito di “appropriazione indebita” dei nuovi paradigmi,
alludendo alla riconversione rapida di chi si è opposto al modello manageriale, o non aveva
competenze di tipo gestionale: “[…] nel campo di molte riforme approvate in anni recenti nel nostro
Paese, è stato applicato in modo molto efficace il principio della ’conservazione del potere’: se non
puoi opporti all’avanzare del nuovo, appropriati dei suoi paradigmi e svuotali del loro reale
contenuto rendendoli inutili o addirittura dannosi”.
I modesti risultati sinora raggiunti con le varie riforme, evidenziati dalle indagini empiriche
condotte, sono conseguenza di tale “appropriazione indebita”, che conduce a depotenziare la portata
dei provvedimenti già in fase di elaborazione normativa. L’esiguità dei risultati è anche attribuibile
alle strategie di disapplicazione delle riforme che gli attori tendono a porre in essere nella fase di
implementazione dei provvedimenti. Tali strategie possono interpretarsi come “meccanismo
selettivo” che consente di adattarsi alle novità escludendo quanto è inapplicabile o troppo distante
dal contesto di attuazione (Bianchi, 1999). Infatti l’impostazione seguita – istituzionalista, lineare,
neutrale, firm-based e sinottica - già superata nel mondo delle imprese, è a maggior ragione
obsoleta per sistemi ultracomplessi e probabilistici quali quelli pubblici.
L’impostazione tradizionale può tutt’al più ritenersi valida, a parte alcuni problemi di obsolescenza
tecnica (Rebora, 1999), soltanto per le parti del settore pubblico che svolgono le funzioni
regolatorie (proprie dello Stato di diritto), ove i valori di fondo sono quelli di un’autoritatività
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strettamente congiunta ai principi di certezza e prevedibilità. Al contrario, per le nuove funzioni di
intervento economico e sociale (proprie dello “Stato dei servizi”), ove la preoccupazione principale
è l’efficacia delle prestazioni erogate e dove si pone il problema di adeguare le conoscenze per
raggiungere gli obiettivi, la recente letteratura economico-aziendale offre modelli più adeguati,
improntati ad una logica di tipo sperimentale, orientata all’auto-correzione e all’adeguamento
costante delle conoscenze al fine di rendere massima la probabilità di realizzare gli obiettivi (Vaccà,
1985).
Tali modelli hanno difficoltà ad affermarsi in pratica per tre ordini di motivi.
In primo luogo, come già osservato, non sono sintonici rispetto al paradigma amministrativistico in
Italia dominante (è noto che il recepimento applicativo di una disciplina non dipende solo dalla sua
validità scientifica, ma anche dalla disponibilità di risorse di potere storicamente cumulatesi).
In secondo luogo, vi sono nel nostro Paese alcuni fattori politico-istituzionali, ben evidenziati da
taluni studi sociologici e politici (Amato, 1980; Lombardo, 1987; Pasquino, 1982), che inibiscono
la possibilità di introdurre significative e durevoli innovazioni in senso manageriale nel settore
pubblico (ci si riferisce al sistema di rappresentanza, unitamente ad altre caratteristiche strutturali
del sistema politico, quali la polarizzazione e la frammentazione).
In terzo luogo, si rilevano dei limiti negli stessi studi aziendalistici, che indeboliscono la
legittimazione dell’Economia Aziendale all’interno della comunità scientifica e della società in
generale.
Un primo limite consiste nella chiusura, rilevata in alcune opere, nei confronti di contributi
provenienti da scuole diverse9. Tale chiusura ha portato alla coesistenza di una pluralità di approcci
scarsamente comunicanti e alla conseguente difficoltà di operare una sintesi unitaria sull’oggetto di
studio; ad essa si accompagna una scarsa apertura verso altri Paesi, che è provata dall’esigua
percentuale di testi (1%) o articoli (3%) di autori stranieri, nonché dall’esigua percentuale di studi
su esperienze straniere pubblicati all’interno di testi (31%) o riviste aziendalistiche italiane (9%).
Questo “regionalismo culturale” è al contempo causa ed effetto della scarsa standardizzazione del
linguaggio utilizzato: al di fuori della ristretta cerchia delle “scuole”, i medesimi termini hanno
accezioni differenti per diversi autori, così come identici concetti sono definiti utilizzando termini
diversi. La confusione terminologica, osservata peraltro anche negli studi economico-aziendali tout
court (Farinet, 1998, p.393), limita fortemente il carattere progressivo e auto-correttivo della
conoscenza sulle aziende pubbliche, ed ostacola il dialogo scientifico e metodologico tra le diverse
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scuole aziendaliste, il superamento dei confini rigidi tra i sotto-settori disciplinari dell’Economia
Aziendale, nonché la sua apertura internazionale e interdisciplinare.
Un secondo limite fa riferimento alla tendenza, rilevata in non pochi lavori, a dare per scontata la
bontà di teorie e modelli aziendali applicati alle organizzazioni pubbliche e a considerare
l’aziendalizzazione come un obiettivo in sé piuttosto che come mezzo per raggiungere determinati
risultati. Alla base di tale lacuna vi è la scarsità di indagini empiriche (presenti solo nel 46% delle
monografie e nel 32% degli articoli), che poco si addice ad una disciplina che vuole caratterizzarsi,
fra l’altro, come “contestuale” e che tendenzialmente è orientata verso l’approccio induttivo e la
scoperta di una grounded theory. Ne consegue una “caduta nel genericismo”, ossia il trasferimento
acritico alle aziende pubbliche di conoscenze maturate altrove, senza un’adeguata
“contestualizzazione”.
Emerge, infine, in taluni lavori una eccessiva enfasi sulla dimensione precettistico-operativa (l’84%
delle monografie del secondo periodo e il 77% degli articoli hanno una finalità prevalentemente
normativa) che sfocia talora in una concezione “tecnocratica” e astratta del ruolo dello studioso
aziendalista, focalizzato sulla proposizione di modelli prescrittivi validi in condizioni ideali,
secondo i dettami di un dover essere non invariante nel tempo e nello spazio (“cosa si dovrebbe fare
o come dovrebbe funzionare”) e poco focalizzato sulla produzione di conoscenza traducibile in
strategie di cambiamento (“come può concretamente funzionare, a quali condizioni, quali le
variabili critiche”), nonché poco impegnato nell’organizzazione di processi di trasferimento della
conoscenza agli attori. Quest’ultima lacuna è particolarmente rilevante se si considera che le
organizzazioni pubbliche, nella misura in cui sono connotate burocraticamente (e dunque sono
strutture gerarchico-piramidali, formali, logicamente perfette), tendono naturalmente a ritenersi in
possesso delle conoscenze adeguate al bisogno. E’ dunque quanto mai importante far superare loro
questa ’autoillusione istituzionalizzata’ per colmare il gap esistente fra le conoscenze di cui
dispongono e quelle che dovrebbero possedere per assolvere alle nuove funzioni proprie dello Stato
dei servizi. Ritornando alla metafora iniziale, non basta fornire l’acqua al cavallo, ma occorre
favorire lo sviluppo graduale della sete.
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Note
1 La concezione bottom-up dell’innovazione si riscontra nell’ 81% delle monografie del primo periodo; nel 90% delle monografie del secondo periodo; nell’ 88% degli articoli. 3 Il carattere circolare dell’innovazione si rileva nel 19% delle monografie del primo periodo; nel 31% delle monografie nel secondo periodo; nel 46% degli articoli. 2 Anche negli studi economico-aziendali sul settore profit si rileva il passaggio da una situazione in cui la centralizzazione e il controllo gerarchico-burocratico facevano premio nella grande impresa industriale sull’autonoma espressione delle creatività soggettive, ad una situazione in cui la capacità innovativa dipende da queste ultime (Vaccà, 1985). 3 Le monografie organizzative sono passate dal 16% al 6%, mentre gli articoli sono l’8%. Sono inoltre pochi i contributi sull’azienda pubblica pubblicati su Sviluppo&Organizzazione (10%), e pochi i contributi organizzativi pubblicati sulla rivista Azienda Pubblica (7%). 4 L’attenzione alla dimensione politica si rileva nel 31% delle monografie del primo periodo; nel 51% delle monografie nel secondo periodo; nel 61% degli articoli. 5 Il locus metaorganizzativo è rilevabile nel 42% delle monografie del primo periodo; nel 61% delle monografie nel secondo periodo; nel 64% degli articoli. 6 Il tema del territorio è trattato nel 7% delle monografie del secondo periodo e nell’ 11% degli articoli. 7 La visione “contingente” si rileva nel 69% delle monografie del primo periodo; nel 91% delle monografie nel secondo periodo; nell’81% degli articoli. 8 Gli studi di carattere generale passano dal 9.4% nel primo periodo al 5% nel secondo periodo. La progressiva specializzazione in senso sia funzionale che settoriale, riscontrabile anche nel settore for profit (dove la varietà delle configurazioni organizzative è inferiore), riflette peraltro una caratteristica della conoscenza scientifica che, a differenza di quella filosofica (tendente verso l’aggregazione e la sintesi delle informazioni), comporta un sempre più accentuato processo di specializzazione. 9 Ciò è confermato da un’analisi incrociata delle bibliografie, che evidenzia una diffusa propensione a fare riferimento ai contributi di studiosi appartenenti alla medesima scuola o gravitanti in un numero limitato di sedi accademiche “amiche”, ignorando gli apporti provenienti da altre scuole.