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Cesit Centro Studi sistemi di trasporto collettivo “Carlo Mario Guerci” Piazza Bovio 14 80133 Napoli Working paper series n. 21 2011 1 L'EVOLUZIONE MANAGERIALE NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE: IL CONTRIBUTO DELLA LETTERATURA AZIENDALISTICA Paola Adinolfi Abstract Obiettivo del paper è avviare una riflessione sui processi di modernizzazione e innovazione gestionale attuati nelle organizzazioni pubbliche italiane, esaminando criticamente il contributo fornito dagli studi di Economia Aziendale. Si è a tal fine analizzata la produzione scientifica sull’azienda pubblica degli ultimi 25 anni, nel tentativo di individuare un modello italiano di innovazione nella PA. L’analisi delle opere di natura teorica ha consentito di individuare alcuni orientamenti di fondo sull’azienda pubblica che condizionano il modo di concepire l’innovazione gestionale, mentre l’esame dei lavori empirici ha permesso di individuare gli assunti sottostanti alle scelte tecniche e alle soluzioni operative concretamente attuate, nonché l’efficacia e i risultati ottenuti. “…while a horse can be prevented from drinking water, it can not be forced to drink. All that innovators can do is to provide water, so that when a horse chooses to drink it may do so readily” Premchand (1984, p. 373)

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Working paper series n. 21 2011

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L'EVOLUZIONE MANAGERIALE NELLE AMMINISTRAZIONI

PUBBLICHE: IL CONTRIBUTO DELLA LETTERATURA AZIENDALISTICA

Paola Adinolfi Abstract

Obiettivo del paper è avviare una riflessione sui processi di modernizzazione e innovazione

gestionale attuati nelle organizzazioni pubbliche italiane, esaminando criticamente il contributo

fornito dagli studi di Economia Aziendale. Si è a tal fine analizzata la produzione scientifica

sull’azienda pubblica degli ultimi 25 anni, nel tentativo di individuare un modello italiano di

innovazione nella PA. L’analisi delle opere di natura teorica ha consentito di individuare alcuni

orientamenti di fondo sull’azienda pubblica che condizionano il modo di concepire l’innovazione

gestionale, mentre l’esame dei lavori empirici ha permesso di individuare gli assunti sottostanti

alle scelte tecniche e alle soluzioni operative concretamente attuate, nonché l’efficacia e i risultati

ottenuti.

“…while a horse can be prevented from drinking water, it can not be forced to drink. All that

innovators can do is to provide water, so that when a horse chooses to drink it may do so readily”

Premchand (1984, p. 373)

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Le riforme del settore pubblico degli anni novanta, attuate sotto la spinta della corrente di pensiero

nota come New Public Management, rappresentano, secondo alcuni autori, la terza grande

rivoluzione dell’economia moderna dopo quelle industriale e tecnologica.

Obiettivo del paper è avviare una riflessione sui processi di modernizzazione e innovazione

gestionale attuati nelle amministrazioni pubbliche italiane, esaminando criticamente il contributo

fornito dagli studi di Economia Aziendale. Si è a tal fine analizzata la produzione scientifica

sull’azienda pubblica degli ultimi 25 anni, nel tentativo di individuare – sempre che esista – un

modello italiano di innovazione nella Pubblica Amministrazione: oggetto di analisi sono state le

opere monografiche sulle aziende pubbliche, nonché gli articoli apparsi sulle principali riviste

aziendalistiche (Azienda Pubblica, Economia&Management, Finanza Marketing e Produzione,

Journal of Management&Governance, L’impresa, Rivista italiana di ragioneria e di economia

aziendale, Sinergie, Sviluppo&Organizzazione).

Per valutare l’evoluzione degli studi nel tempo si sono identificati due sottoperiodi – 1978/1993 e

1994/2003 – che delimitano gli anni precedenti e successivi al noto decreto 29/93. Nel complesso

l’universo analizzato è costituito da 1136 unità: 557 opere monografiche (150 nel primo periodo e

407 nel secondo) e 579 articoli (questi ultimi, relativi al solo secondo periodo, dal momento che nel

primo periodo l’universo individuato è poco significativo).

Per l’analisi si è adottata una tecnica di ricerca documentaria - la content analyisis - avvalendosi di

una scheda di analisi semi-strutturata. I criteri di classificazione sono stati elaborati sulla base di

ipotesi formulate a seguito di un’analisi esplorativa di parte del materiale, avendo cura di rispettare i

tre requisiti essenziali della content analysis: “esaustività”, “mutua esclusività” e “indipendenza”.

Cinque criteri sono riferiti specificamente all’innovazione gestionale, e riguardano:

a) la modalità di diffusione (A:top-down/B:bottom-up),

b) la traiettoria (A:lineare/B:circolare),

c) la portata (A:limitata a variabili economiche /B:estesa ad altre variabili),

d) il locus (A:organizzativo/B:metaorganizzativo),

e) l’approccio (A:contingente/B:universalistico).

Altri cinque criteri sono generali, e riguardano:

1) il contenuto, inteso sia nel senso della specializzazione funzionale

(strategia/pianificazione-programmazione /marketing /controllo /rilevazione

/organizzazione/gestione risorse umane /finanza/generale/altro), che settoriale (PA

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centrale/regioni/enti locali/sanità/università-scuola-ricerca/imprese pubbliche/no-profit

/generale/altro);

2) il Paese di riferimento (Italia, altri Paesi);

3) l’autore [italiano (accademico aziendalista (Economia aziendale/ Economia e gestione

delle imprese/Organizzazione aziendale/ Finanza aziendale/Economia degli intermediari

finanziari)/, accademico non aziendalista/operatore)/straniero];

4) il taglio [teorico/empirico (survey/secondary analysis/case-study/event history

analysis/event study methodology/content analysis/experiment/meta-analysis/altro)];

5) la finalità dell’opera (descrittivo-conoscitiva/pragmatico-normativa).

Le tassonomie, più che sull’esame del contenuto, come è tipico della storiografia della letteratura, si

focalizzano sugli assunti di fondo sull’azienda pubblica, quelli che Ferraris Franceschi (1998)

definisce “protopostulati scientifici”. Per rispettare la mutua esclusività si è adottato il criterio della

“prevalenza” per discernere tra categorie nel caso di risposta multipla, mentre per soddisfare il

requisito dell’esaustività, si è prevista la categoria “altro” per raccogliere le unità di analisi non

attribuibili ad alcuna delle categorie ipotizzate, e la categoria “non rilevabile” da utilizzare nel caso

in cui il materiale selezionato non contenesse tutte le informazioni necessarie. Quest’ultima

situazione, peraltro, si è verificata abbastanza di rado, dal momento che anche nei lavori di ricerca a

finalità conoscitiva, ove il peso di giudizi e valutazioni è ridotto il più possibile, “l’influsso delle

scelte di natura metodologica è largamente avvertibile ed i giudizi di valore sono comunque presenti

sotto la forma di proto postulati scientifici, di idee, di scelte “essenzialistiche” che il ricercatore

porta con sé” (Ferraris Franceschi, 1998, p.33).

Un’illustrazione dettagliata delle ipotesi sottostanti ciascun criterio classificatorio è riportata in

Adinolfi (2004); in sintesi, per quanto concerne l’innovazione gestionale, si ipotizza un tendenziale

spostamento da posizioni più vicine al polo A (che identificano un approccio coerente con la

tradizione del New Public Management), a posizioni prossime al polo B (che contraddistinguono un

approccio vicino al nascente paradigma della New Public Governance).

L’analisi delle opere di natura teorica, basata su procedure statistiche semplici (calcolo delle

frequenze e analisi delle contingenze), ha consentito di verificare le ipotesi formulate, mentre

l’esame dei lavori empirici ha permesso di individuare gli assunti sottostanti alle scelte tecniche e

alle soluzioni operative concretamente attuate, nonché l’efficacia e i risultati ottenuti.

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1. Gli orientamenti teorici

I limiti di spazio rendono impossibile illustrare l’intera analisi e la bibliografia completa - queste,

insieme ai dati statistici, sono riportate in Adinolfi (2004) - dunque ci si limita in questa sede a

illustrare gli orientamenti di fondo sull’azienda pubblica che condizionano il modo di concepire

l’innovazione gestionale. E’ bene precisare che, dato il pluralismo che caratterizza gli studi

economico-aziendali, tali orientamenti sono presenti in misura diversa nei vari studi: si cerca in

questa sede di integrarli e porli in collegamento, riportando in nota i dati quantitativi ritenuti più

significativi. Questo modo di procedere ci sembra possa rendere la ricchezza e varietà delle

posizioni rilevate meglio di quanto non sarebbe possibile con una semplice esposizione commentata

dei dati quantitativi.

1.1. Il superamento dell’istituzionalismo normativo

Il punto sul quale si rileva la maggiore convergenza nella comunità di studiosi aziendalisti riguarda

l’approccio bottom-up all’innovazione gestionale1: opinione condivisa è che, anziché adottare

strategie di diffusione delle innovazioni guidate dall’alto, si debba lasciare autonomia di iniziativa

ai singoli municipi, agenzie e imprese pubbliche (o, a livello micro, ai livelli decentrati

dell’organizzazione).

Sin dai primi anni di sviluppo della disciplina si rileva il superamento dell’istituzionalismo

normativo, impostazione che assume l’esistenza di una relazione causale deterministica tra assetti

istituzionali e comportamenti reali, da cui consegue che le innovazioni gestionali possono essere

realizzate unicamente attraverso modifiche dall’alto degli assetti formali, facendo leva sul potere

cogente delle regole.2 La maggior parte degli autori ritiene che le innovazioni debbano scaturire da

percorsi di cambiamento sperimentati all’interno delle singole realtà attraverso processi di

apprendimento per prova ed errore e la capitalizzazione e diffusione di esperienze e conoscenze

entro le specifiche organizzazioni (Costa e De Martino, 1985, p.4). Fondamentale a tal fine è la

diffusione di conoscenze di tipo economico-aziendale, che consente di creare forti tensioni alla

sperimentazione di soluzioni gestionali innovative (Borgonovi, 1996, p.98).

Come conseguenza di tale impostazione, si rileva una focalizzazione sull’attività che segue il

momento normativo (Costa, 1997, p.539), e una forte attenzione alle variabili organizzative e

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culturali: “un’attenzione alla struttura e alla cultura della burocrazia può migliorare la capacità

progettuale e realizzativa dell’apparato pubblico più di quanto non possa fare un’attenzione

esclusiva (e velleitaria) alle strategie” (Costa e De Martino, 1985, p.6).

A livello micro, emerge in modo netto lo stretto collegamento tra organizzazione e strategia inteso

in senso biunivoco (in contrapposizione alla concezione chandleriana, o meglio, all’interpretazione

parziale della lezione chandleriana sul rapporto strategia/struttura), e si sottolinea l’importanza del

coinvolgimento della linea operativa nelle strategie di cambiamento. Acquista dunque importanza

l’analisi organizzativa, che consente di valutare il grado di coerenza dei progetti di cambiamento

rispetto alla cultura e alla professionalità del personale, alle prassi operative consolidate e ai vincoli

strutturali, fornendo indicazioni utili per “attuare interventi sull’organizzazione interna idonei ad

aumentare la probabilità di successo delle politiche adottate” (Borgonovi, 2002, p.303).

L’accresciuta rilevanza delle variabili organizzative dell’innovazione contrasta con la presenza

ancora ridotta e, sorprendentemente, diminuita nella fase più recente, degli studi di taglio

organizzativo (si vedano le figure 1, 2 e 3)3.

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Fig. 1. Distribuzione delle monografie in relazione alla specializzazione funzionale (1978-1993)

Opere specializzate settorialmente

19%

Organizzazione e

Sistemi informativi

16%

Rilevazione15%

Controllo 14%

Gestione risorse umane

8%Strategia6%

Programmazione e Pianificazione

6%

Finanza2%

Marketing5%

Opere generali9%

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7

Strategia12%

Marketing7%

Organizzazione e Sistemi

informativi6%

Gestione risorse umane

5%

Programmazione e

pianificazione3%

Controllo16%

Finanza8%

Rilevazione10%

Altro4%

Opere specializzatesettorialmente

24%

Opere generali

5%

Fig. 2. Distribuzione delle monografie in relazione alla specializzazione funzionale (1994-2003)

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Fig. 3. Distribuzione degli articoli in relazione alla specializzazione funzionale (1994-2003)

Altro13%

Rilevazione7%

Finanza4%

Controllo10%

Programmazione e

Pianificazione3%

Gestione risorseumane

9%

Organizzazione Sistemi

informativi8%

Marketing5%

Strategia17%

Articoli specializzati

settorialmente15%

Articoli generali9%

Il superamento dell’“istituzionalimo normativo” non implica che gli studiosi dell’azienda pubblica

si disinteressino dell’assetto normativo-istituzionale. La maggior parte considera comunque le

norme legislative una “condizione fondamentale per il funzionamento degli istituti pubblici e anche

per il loro cambiamento” (Rebora, 1995, p.309). Non mancano suggerimenti per il legislatore. Ad

esempio Borgonovi (1996, p.97) sottolinea l’importanza del realismo delle leggi: “se è valido il

principio di legalità per cui in uno Stato di diritto le leggi vanno rispettate, è anche vero il principio

di realtà, per cui esse possono essere fatte rispettare solo se sono coerenti con i fatti e recepiscono

comportamenti accettati o accettabili: in caso contrario le leggi restano inapplicate.” Inoltre, con

riguardo ai contenuti e alla formulazione tecnico-giuridica, lo stesso autore suggerisce di seguire il

principio che “tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito, e della immediata

applicabilità dei nuovi principi e criteri, anche in assenza di decreti e criteri attuativi, secondo il

principio della autonomia e sperimentazione” (Borgonovi, 1999, p.188). In sostanza, “regole,

vincoli, interventi di organi sovraordinati devono orientarsi a stimolare e verificare il cammino delle

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varie amministrazioni verso condizioni di duratura funzionalità aziendale” (Rebora, 1995, pp.81-

82).

1.2. La presa di distanza dai modelli razionali

Anche l’ipotesi relativa alla tendenziale traiettoria evolutiva dell’innovazione viene sostanzialmente

confermata. Nel primo periodo prevalgono, in opposizione al nuovo incrementalismo, logiche di

pianificazione razionale, fondate sul presupposto di poter governare l’azienda pubblica sulla base di

approfondite analisi tecnico-organizzative delle relazioni tra obiettivi-programmi-risorse, e sulla

“verifica a posteriori, imposizione durante lo svolgimento della gestione e riscontro a posteriori del

rispetto di coerenze rigide e di rigidi rapporti tra i tre elementi” (Borgonovi, 2002b, p.299). Nel

secondo periodo tende invece ad affermarsi una visione di azienda pubblica come sistema che

apprende e si trasforma attraverso l’azione di una pluralità di soggetti che interagiscono con i

cambiamenti ambientali. In questa visione viene superata la concezione di innovazione come

fenomeno ordinato e sequenziale: essa non è conseguente alla generazione e formulazione di scelte

strategiche, ma, piuttosto, “un costante termine di riferimento per ogni analisi, azione e riflessione

di tipo strategico” (Rebora e Meneguzzo, 1990, p.272). Viene dunque enfatizzato, in linea con il

modéle tourbillionnaire sviluppato dai sociologi dell’innovazione (Akrich, Callon e Latour, 1988),

il carattere circolare e non sequenziale (Fontana e Lorenzoni, 2000) dell’innovazione4, la quale si

realizza attraverso un percorso di apprendimento per prova ed errore (Costa, 1997, p.7).

Nel nuovo approccio, definibile “evolutivo”, “l’aspetto creativo e relazionale delle strategie diviene

una caratteristica potenzialmente attribuita a tutti gli attori” (Costa, 1997, p.7), dei quali viene

enfatizzato il ruolo cruciale nei processi di sviluppo e diffusione dell’innovazione.

L’evoluzione sopra tracciata si riflette anche negli studi sull’innovazione organizzativa nelle

aziende pubbliche, e in particolare emerge un approccio progettuale che, riconoscendo la razionalità

limitata del management, pone l’enfasi sugli aspetti emergenti dell’azione organizzativa e vede il

processo di costruzione organizzativa come insieme di azioni e decisioni interconnesse risultanti

dalle interazioni tra gli attori. L’innovazione organizzativa dunque deve partire “dall’interno”, e

basarsi su un continuo adattamento degli organi di coordinamento “alle strutture relazionali che i

soggetti agenti producono e riproducono incessantemente, escludendo l’idea di struttura come entità

a sé stante, sovraordinata o comunque separata dagli individui” (Maggi, 1997, p.42).

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1.3. L’attenzione alla dimensione politica

Mentre nelle prime analisi si rileva una rigorosa delimitazione del campo di indagine agli aspetti

economici misurati o misurabili tramite la manifestazione di valori economici (Borgonovi, 1994,

p.57), successivamente, in linea con l’ipotesi da noi formulata, l’analisi del funzionamento

dell’azienda accoglie anche variabili non economiche; essa, ampliando il focus al di là della

semplice dinamica degli andamenti (come avevano fatto i Maestri dell’Economia Aziendale), si

rivolge in particolare agli aspetti soggettivi delle funzioni manageriali e ai comportamenti degli

attori (Ferrero, 1980). La centralità delle interazioni con gli attori presenti ai vari livelli nel contesto

politico e sociale (Meneguzzo, 1995, p.506) fa emergere una concezione di azienda pubblica come

entità mediatrice ed equilibratrice di una pluralità di interessi, conferendo importanza alla

dimensione politica5.

Sulla scia della ricerca europea che ha portato alla falsificazione del “teorema dell’attore unico”

(Grandori, 1995, p.84), la “politicità” viene intesa non in un’accezione negativa, ma nel senso

dell’integrazione tra attori differenti e composizione delle specifiche esigenze e finalità. Ciò porta a

esaltare la necessità e l’importanza della funzione di governo: mentre nel primo periodo prevale un

approccio di studio definibile “sistematico-gestionale” (Fazzi, 1951), ossia riferito alla gestione

(oggettivamente osservata nelle diverse articolazioni), nel secondo periodo aumentano i riferimenti

alla funzione di governo, consistente nell’attivare e soprattutto coordinare i diversi attori del sistema

socio-economico, in modo tale che gli interventi pubblici e non pubblici siano in grado di far fronte

alle esigenze di complessità (Meneguzzo, 1995, p.503). La sfida concettuale riguarda

l’individuazione di meccanismi di governance delle organizzazioni pubbliche che consentano

un’equilibrata rappresentanza degli interessi coinvolti (equilibrio politico-istituzionale) e

un’efficace azione di controllo sull’operato del management, coniugate ad un sufficiente livello di

autonomia del management stesso (Del Vecchio, 2001, p.49).

Il dibattito si concentra in particolare sul tema del rapporto tra politici e tecnici: sin nei primi studi

si supera la concezione di attività amministrativa neutrale in favore di una concezione di

strumentalità dell’attività amministrativa: la dirigenza pubblica deve contribuire al processo di

definizione degli obiettivi strategici, ponendosi in un rapporto di interazione (ossia di distinzione

ma al contempo di reciproca influenza) con i politici, fondato su processi di scambio di

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informazioni, obiettivi e valutazioni (Borgonovi, 1984). Ciò ha implicazioni di rilievo dal punto di

vista dell’innovazione gestionale: la necessità di scambio fra la componente politica e quella tecnica

è infatti considerata un’opportunità di stimolo alla ricerca ed implementazione di processi

innovativi nel rapporto impresa-ambiente (Mele, 1991).

Gli studi più recenti tendono a porre in evidenza gli ostacoli che si frappongono alla definizione di

un rapporto ottimale tra politici e amministratori, e a proporre il modello dello spoil system, dove

l’elevato livello di condivisione che scaturisce dalla relazione di natura fiduciaria tra politici e

amministratori si ritiene determini le migliori condizioni per la realizzazione di innovazioni

gestionali. Non manca la constatazione dei rischi e delle difficoltà dello spoil system e da più parti

provengono indicazioni volte a frenarne le possibili degenerazioni. Borgonovi (2002a, pp.369-70) al

riguardo suggerisce di prevedere per il processo di nomina politica modalità, forme e momenti di

confronto con soggetti portatori di interessi generali diversi da quelli che hanno il potere di nomina;

di sviluppare sistemi di responsabilizzazione dei politici nei confronti della società; di introdurre

sistemi efficaci di valutazione della performance delle organizzazioni pubbliche; di rafforzare la

professionalità della dirigenza pubblica.

1.4. La dissoluzione dell’organizzazione

Anche l’ipotesi relativa allo spostamento del locus dell’innovazione oltre i confini organizzativi

viene confermata6. Già nei primi studi di Economia delle Amministrazioni Pubbliche, in

contrapposizione al modello weberiano di perfezione delle strutture burocratiche e di invarianza (o

chiusura) delle organizzazioni complesse, l’azienda pubblica viene concepita come sistema aperto

di relazioni oggettive e soggettive che devono essere guidate verso condizioni di equilibrio

dinamico non predefinibili a priori. Se, tuttavia, nella prima fase si tende a dare precedenza alle

azioni rivolte all’interno e in via secondaria si guarda al rapporto tra organizzazione pubblica e

ambiente, nel secondo periodo si avverte l’esigenza di partire dall’ambiente esterno per definire le

politiche di intervento (sviluppo organizzativo, riqualificazione manageriale) rivolte all’interno

delle amministrazioni pubbliche. Ne discende una rinnovata enfasi sulle relazioni interistituzionali e

interaziendali nell’ambito del più ampio sistema pubblico, ed una crescente attenzione ai modelli

interorganizzativi di coordinamento (Mercurio, Martinez e Moschera, 2000). L’azienda pubblica

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diventa, dunque, oggetto di approcci del tipo “impresa-rete”, “organizzazione-mercato” ecc.,

riscontrati da qualche anno a questa parte negli studi sull’impresa.

Negli anni recenti, sotto l’influsso dei processi di globalizzazione dell’economia e di integrazione

economica e socio-politica, e dell’affermarsi di relazioni di scambio tra le aree geografiche e i loro

pubblici di riferimento, l’elaborazione teorica si concentra in particolare sulla dimensione

territoriale7. Questa, nelle diverse configurazioni assunte - territori (Valdani e Ancarani, 2000),

sistemi economici locali (Romano e Passiante, 1996), sistemi produttivi territoriali (Bramanti e

Maggioni, 1997), sistemi vitali socio-economici (Pellicano, 2002), città (Golfetto, 1996), aree

metropolitane (Salvemini, 2000), aree-sistema (Borgonovi, 2000, in Zuffada, p.IX) - rappresenta la

nuova unità di misura di una competizione che è basata sempre più sulle risorse immateriali.

In tali scenari, che condividono un allargamento del focus analitico oltre i confini

dell’organizzazione, si dissolve l’approccio firm-based all’innovazione. La sfida diventa

individuare modalità di “metagoverno” o studiare nuove forme di governo pluralistico

dell’innovazione, eventualmente ampliando la gamma delle fondamentali forme alternative di

organizzazione contemplata dalle teorie attualmente dominanti di valutazione istituzionale

comparata. Un ruolo cruciale viene attribuito alle nuove tecnologie dell’informazione, le quali

favoriscono l’apertura dei confini organizzativi verso l’ambiente esterno e rendono possibili nuove

forme di coordinamento tra le istituzioni[…] [esse consentono] in tempo reale ad ogni

amministrazione, ad ogni centro di decisione, di conoscere la compatibilità tra le proprie scelte e

quelle compiute da altri centri decisionali, senza la necessità di verticalizzare la decisione e il

coordinamento. In ultima analisi favoriscono il passaggio da un’amministrazione dirigistica,

verticale e segmentata, ad un’amministrazione orizzontale, orientata al servizio e caratterizzata da

fitti scambi informativi tra le sue parti.

1.5. La visione contingente e olistica

L’evoluzione degli studi, rispecchiando il passaggio dallo Stato regolatore e del welfare allo Stato

dei servizi, si sviluppa nel senso del superamento del modello di pubblica amministrazione unitaria

che applica in maniera uniforme i principi astratti della legge, in favore di un modello di “sistema

pubblico composto da unità tra loro assai diverse” (Borgonovi, 1996, p. 198). La pubblica

amministrazione è vista non come una realtà omogenea, ma come un “insieme, debolmente

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connesso e coordinato, di enti caratterizzato da grandi differenze e difformità […] su tutti i piani, ivi

incluse le logiche di funzionamento e le condizioni organizzative presenti” (Rebora, 1995, p.45).

Coerentemente, in linea con l’ipotesi formulata, tende ad affermarsi un’impostazione flessibile

all’innovazione gestionale e si passa, sotto l’influsso della teoria delle contingenze, dalla ricerca di

paradigmi unitari a quella di schemi di “contingenze amministrative” che indirizzino l’adozione di

soluzioni di struttura e comportamento alle specificità dei contesti applicativi (Rebora, 1983), anche

perché nella società moderna “per effetto dello sviluppo delle conoscenze, delle tecnologie, dei

metodi e degli strumenti gestionali, esistono molteplici alternative idonee a realizzare una

determinata strategia e non esiste un criterio di ottimalità unico e assoluto per scegliere la migliore”

(Borgonovi, 2002a, p.368).

La specificità, in una logica sistemica, si declina a diversi livelli di analisi: essa si riferisce sia alle

peculiari condizioni di svolgimento delle aziende pubbliche, sia, all’interno del settore pubblico,

alle peculiarità dei singoli sottosistemi, nonché alla varietà rilevabile nell’ambito degli stessi, sia

ancora, alla differenziazione interna alle singole organizzazioni.

L’evoluzione tracciata si riflette nella tipologia di contributi prodotti: secondo un perfetto

isomorfismo tra l’oggetto della disciplina e la disciplina medesima, nel corso degli anni tendono a

diminuire le opere di carattere generale e ad aumentare i contributi specializzati sia rispetto alle

combinazioni economico-tecniche sia rispetto all’area funzionale (figure 4, 5 e 6).8 Emerge invero,

anche negli studi ad accentuata specializzazione, il carattere unitario della gestione e l’importanza

dell’interazione tra le diverse aree funzionali, in una logica sistemica, ormai condivisa, tra fenomeni

interni ed esterni, oggettivi e soggettivi, generali e particolari. L’approccio seguito, più che

avvicinarsi ad una sorta di pharmacopea che prescrive la giusta medicina ed il giusto dosaggio per

ogni specifico problema, è assimilabile a quello della medicina naturale dove il problema è

considerato nella sua specificità e interrelazione con altri aspetti e richiede terapie flessibili basate

su una pluralità di farmaci, in combinazioni personalizzate e originali.

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Fig. 4. Distribuzione delle monografie in relazione alla specializzazione settoriale (1978-1993)

Opere specializzate

funzionalmente19%

Impresa pubblica

21%

Enti locali21%

Sanità21%

Non profit5%

Scuola-Università-

Ricerca2%

Opere generali9%

Regioni2%

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Fig. 5. Distribuzione delle monografie in relazione alla specializzazione settoriale (1994-2003)

Altro 9%

Imprese pubbliche

14%

Sanità17%

Scuola/Università/

Ricerca3%

No profit7%

Enti locali26%

Regioni1%

Pubblica Amministrazione

3%

Operespecializzate

funzionalmente15%

Opere generali5%

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Fig. 6. Distribuzione degli articoli in relazione alla specializzazione settoriale (1994-2003)

Articoli generali7% Articoli

specializzati funzionalmente

12%

Pubblica Amministrazione

7%Regioni3%Enti locali

31%

No profit9%

Scuola/Università/

Ricerca9%

Imprese pubbliche

10%

Sanità'6%

Altro6%

2. Le riforme in pratica

Nel complesso l’evoluzione degli studi sull’azienda pubblica (visualizzata schematicamente nelle

figure 7 e 8) va in direzione di logiche e modelli coerenti con il paradigma emergente della New

Public Governance, e con gli sviluppi più recenti della letteratura aziendalistica. Numerosi e non

marginali sono gli elementi di discontinuità rispetto alla tradizione dominante dell’aziendalismo

italiano, ma non rispetto ad alcune tradizioni interne agli studi sulle aziende pubbliche: alcune

riflessioni innovative risalgono agli anni ottanta, non si tratta dunque solo di un’eco del dibattito

scientifico, nazionale e internazionale, ma di una capacità di elaborazione autonoma e originale.

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Fig. 7. L'evoluzione dell'innovazione gestionale: confronto tra monografie del I e II periodo

69%

42%31%

19%

81%

91%

61%51%

31%

90%

0%

50%

100%

Monografie periodo 1978-1993

Monografie periodo 1994-2003Modalità bottom-up

Approccio contingente

Locus meta-organizzativo

Traiettoria circolare

Portata extra - economica

Fig. 8. L'innovazione gestionale negli articoli (1994-2003)

88%

46%

61%64%

81%

0%20%40%60%80%

100%

Modalitàbottom-up

Traiettoriacircolare

Portata extra - economica

Locus meta-organizzativo

Approccio contingente

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Gli studi tengono conto del fatto che si è profondamente modificato il ruolo dello Stato in direzione

di un sempre maggiore orientamento ai servizi e ai bisogni, e nello stesso tempo, si è notevolmente

accresciuta la complessità del contesto nel quale gli interventi pubblici si collocano. In tale scenario,

l’innovazione gestionale non è considerata semplicisticamente perseguibile attraverso la

modificazione dell’assetto normativo-istituzionale o, al livello micro, dell’assetto strutturale, bensì

promuovibile dal basso, attraverso processi autopropulsivi favoriti dalla diffusione di conoscenze

economico-aziendali. In contrapposizione alla concezione tradizionale di innovazione come

fenomeno puntuale e lineare, tende ad evidenziarsi la natura circolare e non sequenziale

dell’innovazione, che non scaturisce dalla formulazione di scelte strategiche, ma è un processo

“evolutivo” di apprendimento per prove ed errori e di capitalizzazione di esperienze e conoscenze.

Il processo ha luogo sotto la spinta di una molteplicità di attori (individuali e collettivi), detentori, in

varia misura, di risorse, conoscenze e capacità organizzative.

L’enfasi sul ruolo delle soggettività rimanda alla evidenziazione del carattere politico

dell’innovazione, inteso nel senso di integrazione tra attori differenti e composizione degli interessi

specifici. Il locus dell’innovazione tende a spostarsi dunque dall’aggregato dell’organizzazione alle

sue parti costitutive, dissolvendo la specificità di un approccio corporate all’innovazione; esso si

allarga anche oltre i confini dell’organizzazione, ricomprendendo più ampi sistemi

interorganizzativi a geometria variabile caratterizzati da una pluralità di centri decisionali in

rapporto non gerarchico, bensì di simultaneo e reciproco condizionamento. Nuovi livelli di analisi,

collegati alla dimensione territoriale, vengono posti al centro dell’elaborazione teorica.

Coerentemente si afferma, in contrapposizione alla concezione sinottica e ottimizzante della

modernizzazione delle organizzazioni pubbliche, un approccio flessibile e contingente, che richiede

di declinare le innovazioni gestionali ed organizzative in relazione alle specificità del contesto di

attuazione, specificità riferite sia alle peculiari condizioni di svolgimento delle aziende pubbliche

(“inevitabilmente differenti” rispetto alle imprese private), sia, all’interno del sistema pubblico, alla

diversa caratterizzazione tipologica delle organizzazioni pubbliche, nonché alla varietà rilevabile

nell’ambito delle singole tipologie, o ancora, alla differenziazione interna alle singole

organizzazioni/configurazioni interorganizzative. Il carattere contingente fa riferimento anche alla

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pluralità di alternative che lo sviluppo delle conoscenze, delle tecnologie, degli strumenti gestionali

rende possibili per realizzare una determinata innovazione.

Se questi sono gli orientamenti degli studi teorici, essi trovano solo un debole riscontro nelle varie

misure attuative che nell’insieme concorrono a configurare il quadro del processo di rinnovamento

gestionale e organizzativo del settore pubblico italiano, come risulta evidente dall’analisi dei lavori

empirici.

2.1. La managerializzazione per editto

Nel nostro Paese il problema dell’innovazione gestionale è stato tipicamente considerato come un

problema di modificazione degli assetti normativo-istituzionali, o, a livello micro, degli assetti

strutturali-formali. Al superamento dell’istituzionalismo normativo, rilevato negli studi teorici, si

contrappone dunque l’approccio della “modernizzazione per legge” (Meneguzzo, 1997, p.590)

seguito in pratica: lo sforzo innovatore si è concentrato sulla fase della normazione più che

sull’implementazione, e nella formulazione delle norme non si è provveduto a predisporre le leve

gestionali e le risorse indispensabili per superare i vincoli strutturali e culturali.

Gli strumenti e le tecniche gestionali sono stati ricondotti alla logica giuridica, secondo quella

“oscura tendenza tipica delle organizzazioni pubbliche a trasformare gli oggetti del proprio interesse

in qualcosa di burocratico, e dunque comprensibile e gestibile secondo i propri schemi e modi di

operare” (Rebora, 1999, p.302). Essi, dunque, sono stati introdotti facendo ricorso “alla previsione

di espliciti atti formali da approvare entro certi tempi, secondo certi schemi (il più delle volte

uniformi) e seguendo predefinite procedure, con l’effetto di uno svuotamento degli strumenti stessi

e di un loro uso rituale” (Borgonovi, 2002b, p.77).

Di fronte alla constatazione dell’insufficienza delle norme, si è reagito tipicamente “intensificando

l’azione legislatrice, senza aver precedentemente analizzato le ragioni del fallimento che non stanno

nelle leggi e nelle circolari in quanto tali, ma stanno nelle incoerenze dell’azione riformatrice in

termini di obiettivi, di metodologie e di strumenti mobilitati” (Costa, 1997, p.528).

Non sorprende, dunque, che gli esiti siano di scarsa efficacia e notevole onerosità. Le indagini

condotte mostrano come rimuovere gli strumenti e le tecniche di gestione dal dominio flessibile e

contingente della conoscenza manageriale e ricondurli al rigore universalistico tipico delle categorie

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giuridiche, li abbia svuotati di ogni potenzialità di reale cambiamento, rendendoli meri adempimenti

burocratici (Panozzo, 2000, p.372).

Inoltre “l’eccesso di regolamentazione e la conseguente macchinosità dei processi decisionali” ha

prodotto ingenti oneri che si sono riflessi sui livelli dei costi e dei servizi, dando luogo ad una

riduzione della tutela sostanziale degli interessi delle famiglie e delle imprese, connessa alla

quantità e qualità dei servizi offerti, a fronte di un aumento della tutela formale (Borgonovi, 2002b,

p.74).

2.2. L’ossessione per la razionalità

Se al livello teorico si assiste al tendenziale superamento dei modelli razionali, in pratica alla base

delle innovazioni introdotte vi è la scelta di imperniare il funzionamento delle amministrazioni su

sistemi di programmazione e controllo formalizzati, in applicazione dei principi della pianificazione

razionale (Rebora, 1999). Alla base risiede una visione semplificatoria e riduzionistica dei processi

decisionali, che assume l’identificabilità a priori (in maniera a problematica e consensuale) degli

obiettivi, la prevedibilità dell’ambiente, la disponibilità di risorse (strumentali e di conoscenza)

adeguate a raggiungerli e la possibilità per un singolo attore, o gruppo di attori, di indirizzare

l’organizzazione verso gli obiettivi perseguiti.

Le norme emanate fanno ampio ricorso a forme di gestione per piani, programmi e obiettivi, al fine

di porre un’istanza di razionalità ed efficienza, definire punti di riferimento certi per garantire i

diritti e massimizzare la trasparenza e la responsabilizzazione. Esse in realtà non sembrano aver

prodotto significativi effetti positivi: combinandosi con la pervasiva cultura legalistica tipica del

nostro Paese, hanno generato quella che Rebora (1999, p.299) definisce “sindrome della produzione

di programmi a mezzo di programmi”, con riferimento all’esasperazione della logica per programmi

e obiettivi con cui si è affrontato il paradosso di una “razionalità aziendale senza mercato”.

Nella realtà la PA ha continuato a operare secondo “logiche molto lontane dalla direzione per

obiettivi e utilizzando strumenti di gestione ben diversi dai sistemi di programmazione e controllo”

(Rebora, 1999, p.84); dunque i sistemi di pianificazione formale e i correlati sistemi di

programmazione e controllo sono diventati una sovrastruttura che “invece di aiutare la gestione ha

introdotto ulteriori elementi di rigidità…” (Borgonovi, 2002, p.304).

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La spiegazione di ciò è nel fatto che le logiche programmatorie risiedono su assunti poco realistici:

l’idea che gli obiettivi possano essere definiti chiaramente e tradotti in un insieme coerente di azioni

si scontra con la peculiarità di un contesto in cui le finalità sono molteplici, vaghe, incoerenti tra

loro e spesso non realistiche; l’assunto che l’ambiente sia prevedibile e non influenzi

significativamente l’organizzazione appare superato, in quanto incompatibile con le fonti di

incertezza “sempre più attive e presenti” in ambito pubblico (Rebora, 1999, p.304); l’assunto che le

conoscenze e le risorse siano naturaliter adeguate al bisogno si scontra con l’inadeguatezza delle

condizioni operative, delle risorse e delle conoscenze rispetto agli obiettivi posti, infine, la

presunzione che un singolo attore – il management – sia in grado di modificare l’organizzazione in

relazione agli obiettivi perseguiti va a cozzare con la concreta fenomenologia dei processi

decisionali, ove difficilmente una singola figura carismatica (o anche un insieme di figure chiave)

riesce a farsi portatrice di un disegno strategico e a sostenerlo per il periodo necessario a realizzarlo,

e dove invece emergono forze di resistenza e opposizione (interne ed esterne), che inevitabilmente

producono annacquamenti, dilazioni o distorsioni negli obiettivi perseguiti.

Tali limiti inficiano la validità della razionalità programmatoria, in quanto “riducono

significativamente e ab inizio la possibilità che le iniziative programmatiche siano di successo e,

circostanza non meno grave, impediscono o, quanto meno, ostacolano significativamente la

possibilità di valutare il programma” (Mussari, 1999, p.114).

2.3. L’ipocrisia della neutralità politica

L’enfasi sulla dimensione politica dell’innovazione, rilevata negli studi teorici, non trova riscontro

negli interventi di modernizzazione concretamente attuati: questi accolgono la visione taylorista di

scientificità della gestione aziendale, da cui discende l’idea di innovazione come intervento tecnico

e neutrale. In tal senso possono essere lette due importanti linee-guida del processo di

modernizzazione amministrativa seguite nel nostro Paese: la creazione di amministrazioni

indipendenti e l’introduzione di modelli organizzativi improntati alla distinzione tra politica e

gestione. Il comun denominatore delle due linee di riforma è nella valorizzazione delle autonomie –

territoriali, funzionali, degli uffici dirigenziali, delle figure poste a capo delle autorità indipendenti –

e nella sottrazione alla politica di significativi spazi decisionali.

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Anche in questo caso l’efficacia delle misure attuative è bassa: l’ispirazione tecnicistica,

dissolvendosi di fronte ad un contesto di incentivi a conformarsi a modelli politici di tipo

tradizionale, è stata ampiamente tradita nella prassi.

Per quanto riguarda le autorità indipendenti, numerosi elementi fanno presupporre l’intenzione di

riportare tali organismi sotto l’egida dei partiti, finendo così per comprometterne la funzione di

contrappeso al potere politico (La Spina e Majone, 2000, p.340).

Circa la separazione tra politica e gestione, questa è stata inficiata dall’attribuzione del potere di

nomina agli organi politici. Tale misura, che teoricamente risponde all’esigenza di rivitalizzare il

principio di responsabilizzazione politica, e al contempo soddisfa l’esigenza di coniugare il binomio

autonomia-responsabilità (affiancando la rafforzata autonomia gestionale del dirigente pubblico ad

una maggiore responsabilizzazione sui risultati), nella pratica è diventata uno strumento di

rafforzamento del controllo politico sulla burocrazia, fondato su un utilizzo improprio del potere di

nomina. Ciò ha pregiudicato il fine dell’autonomia del management, facendo sì che la separazione

tra politica e gestione rimanesse una “sorta di irraggiungibile utopia” (Anselmi, 2001, p.13).

2.4. L’individualismo organizzativo

A fronte della crescente attenzione alle relazioni inter-istituzionali a livello teorico, in pratica le

innovazioni gestionali introdotte sono state orientate a risolvere problemi di integrazione e

coordinamento riferiti ad ambiti intra-organizzativi piuttosto che inter-istituzionali. Il rilancio della

natura aziendale sembra aver favorito il rafforzamento delle interdipendenze e dell’integrazione

“interna” a discapito di quella “esterna” (Borgonovi, 1994), focalizzando l’attenzione sul

funzionamento delle singole organizzazioni e dei servizi da queste erogati, piuttosto che sulla

funzionalità complessiva dei sistemi territoriali.

Ciò si rileva anche nelle norme legislative e contrattuali sul contratto di impiego (l’istituto della

posizione, i meccanismi di progressione economica orizzontale, i sistemi premianti collegati alla

performance, l’introduzione di figure di coordinamento generale e di livelli intermedi di

responsabilità lungo la linea verticale), le quali hanno favorito il superamento dell’appiattimento

strutturale tipico del settore pubblico, spingendo verso l’accentramento e il rafforzamento della

gerarchia, in controtendenza rispetto al mondo delle imprese, dove le esigenze di flessibilità

conducono invece in direzione di un sempre maggiore decentramento, appiattimento della piramide

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gerarchica, riduzione del numero e del peso dei quadri intermedi e sviluppo di forme organizzative

reticolari.

Tali innovazioni non hanno sempre sortito come beneficio il rafforzamento dell’integrazione

interna, in quanto, avendo incontrato nella pratica notevoli difficoltà attuative, il più delle volte non

hanno consentito di superare l’approccio a canne d’organo tipico della Pubblica Amministrazione,

né di guadagnare significativi livelli di autonomia istituzionale (Adinolfi, 2003). Esse hanno spesso

avuto l’effetto di rafforzare la propensione all’autoreferenzialità e alla chiusura tipica delle

burocrazie pubbliche, in un contesto dove, data la presenza di una pluralità di centri decisionali in

rapporto non gerarchico, la rete dovrebbe essere connaturata alle politiche (che per definizione

dovrebbero essere inter-istituzionali) (Bonaretti e Codara, 2001, p.205).

Si è così resa difficile l’attuazione di interventi, che pure la normativa prevede, volti allo sviluppo di

forme di cooperazione inter-organizzativa e di modalità di gestione per processi: ad esempio,

l’introduzione di aggregazioni organizzative di notevole ampiezza, come l’area o il dipartimento, è

avvenuta tipicamente mediante l’aggregazione di unità operative pre-esistenti, anziché attraverso

l’aggregazione di parti di tali unità operative secondo una logica processuale: piuttosto che tagliare

trasversalmente l’organizzazione nel rispetto delle modalità di sviluppo dei processi, si è riprodotto,

anche se su scala più ampia, il modello specialistico-funzionale (Cantarelli, 1999).

2.5. L’inguaribile centralismo

All’approccio teorico contingente si contrappone in pratica una concezione sinottica e ottimizzante

dei processi di modernizzazione amministrativa, ove è evidente il retaggio del one best way

taylorista. E’ indicativo in tal senso l’ampio ricorso a provvedimenti globali e omogeneizzanti,

come le leggi quadro, che si propongono di ridefinire un intero settore o di produrre cambiamenti

generalizzati, simultanei, uniformi.

Tali interventi, avendo la natura di norme di carattere generale e indifferenziato, ben di rado hanno

attivato le singole organizzazioni e i singoli dirigenti (Costa, 1997, p.529). In particolare le

innovazioni introdotte nel rapporto di lavoro si sono rivelate poco efficaci appunto perché non

rispecchiano a sufficienza la differenziazione nelle figure professionali (Rebora, 1999). Anche il

tanto celebrato decreto 29/93 si ritiene attribuisca un eccessivo ruolo centralizzatore ad alcuni

organismi dell’Amministrazione centrale, quali il Dipartimento della Funzione Pubblica, il

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Ministero del Tesoro, la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, l’Agenzia per la

Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni.

Persino i provvedimenti (come le leggi 142/90, 502/93, 59/97) miranti al decentramento sembrano

aver sopravvalutato il momento strutturale e normativo (Costa, 1997, p.530) e, in concreto, “a

fronte di trasferimenti formali di compiti e responsabilità, il controllo e la supervisione centrale si

sono in molti casi irrobustiti, particolarmente attraverso meccanismi finanziari o sottili meccanismi

di controllo” (Ongaro, 2002, p.128).

La visione sinottica del cambiamento la si rinviene anche all’interno delle singole organizzazioni

pubbliche, dove è ancora radicato “il mito della grande dimensione, della indefinita capacità di

governo delle strutture formali di direzione, della possibilità di prescrivere comportamenti e

obiettivi in tutte le parti dell’organizzazione, di trovare sempre e comunque the one best way, […]

mito caduto da tempo nella grande corporation privata” (Costa e De Martino, 1985, p.10). Anche in

questo caso la coerenza e completezza degli interventi effettuati ha perso vigore di fronte alla realtà

caratterizzata da una molteplicità di attori-decisori tesi al perseguimento di obiettivi autoreferenti

(Adinolfi, 2003).

3. Conclusioni

Questi sintetici cenni trascurano necessariamente altri interessanti sviluppi degli studi sull’azienda

pubblica che, per esigenze di sintesi, non sono stati considerati; tuttavia consentono di delineare, se

non un modello, una via italiana all’innovazione gestionale nelle amministrazioni pubbliche. Questa

vede divergere nettamente il piano teorico da quello operativo.

Sul piano teorico l’approccio all’innovazione nelle organizzazioni pubbliche, proseguendo una

tradizione di studi sull’azienda pubblica che ha origine già negli anni ottanta, tende ad essere

autopropulsivo, circolare, politico, meta-organizzativo, differenziato nelle sue applicazioni, e in

questo senso anticipa parte delle riflessioni contenute nel nascente paradigma della New Public

Governance.

Sotto l’aspetto operativo le riforme attuate, pur recependo a livello terminologico i modelli

aziendalistici, li metabolizzano all’interno di un approccio che, per la sua connotazione

istituzionalista, lineare, neutrale, firm-based e sinottica, è più vicino all’impostazione classica della

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Management Science, e, dunque, alla tradizione più ortodossa del New Public Management, quella

che Pollitt (1990) definisce “neotaylorista”.

Anche le innovazioni più moderne - il Business Process Reengineering, l’Activity Based Costing, il

team building, eccetera - restano “ingabbiate” all’interno delle logiche tradizionali: esse sono

progettate dall’alto come interventi chiusi, definiti ex-ante sulla base di una razionalità orientata allo

scopo, e con predeterminate modalità di utilizzo che non tengono conto della possibilità di

comportamenti che fuoriescano dall’orizzonte normato dei programmi.

Non sono dunque i singoli strumenti, ma è il modo di concepire la riforma amministrativa che non

sembra sostanzialmente cambiato. Esso rimane saldamente ancorato all’impostazione

amministrativistica tradizionale; d’altra parte, se ha fatto breccia in Italia è proprio perché in

sintonia con la concezione di matrice squisitamente giuridica dell’amministrazione, tuttora

prevalente.

Tale concezione riesce a fagocitare all’interno della propria costruzione dottrinaria qualsiasi

principio, anche il più innovativo, privandolo degli elementi operativamente più significativi.

Borgonovi (1999, p.189) parla a tale proposito di “appropriazione indebita” dei nuovi paradigmi,

alludendo alla riconversione rapida di chi si è opposto al modello manageriale, o non aveva

competenze di tipo gestionale: “[…] nel campo di molte riforme approvate in anni recenti nel nostro

Paese, è stato applicato in modo molto efficace il principio della ’conservazione del potere’: se non

puoi opporti all’avanzare del nuovo, appropriati dei suoi paradigmi e svuotali del loro reale

contenuto rendendoli inutili o addirittura dannosi”.

I modesti risultati sinora raggiunti con le varie riforme, evidenziati dalle indagini empiriche

condotte, sono conseguenza di tale “appropriazione indebita”, che conduce a depotenziare la portata

dei provvedimenti già in fase di elaborazione normativa. L’esiguità dei risultati è anche attribuibile

alle strategie di disapplicazione delle riforme che gli attori tendono a porre in essere nella fase di

implementazione dei provvedimenti. Tali strategie possono interpretarsi come “meccanismo

selettivo” che consente di adattarsi alle novità escludendo quanto è inapplicabile o troppo distante

dal contesto di attuazione (Bianchi, 1999). Infatti l’impostazione seguita – istituzionalista, lineare,

neutrale, firm-based e sinottica - già superata nel mondo delle imprese, è a maggior ragione

obsoleta per sistemi ultracomplessi e probabilistici quali quelli pubblici.

L’impostazione tradizionale può tutt’al più ritenersi valida, a parte alcuni problemi di obsolescenza

tecnica (Rebora, 1999), soltanto per le parti del settore pubblico che svolgono le funzioni

regolatorie (proprie dello Stato di diritto), ove i valori di fondo sono quelli di un’autoritatività

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strettamente congiunta ai principi di certezza e prevedibilità. Al contrario, per le nuove funzioni di

intervento economico e sociale (proprie dello “Stato dei servizi”), ove la preoccupazione principale

è l’efficacia delle prestazioni erogate e dove si pone il problema di adeguare le conoscenze per

raggiungere gli obiettivi, la recente letteratura economico-aziendale offre modelli più adeguati,

improntati ad una logica di tipo sperimentale, orientata all’auto-correzione e all’adeguamento

costante delle conoscenze al fine di rendere massima la probabilità di realizzare gli obiettivi (Vaccà,

1985).

Tali modelli hanno difficoltà ad affermarsi in pratica per tre ordini di motivi.

In primo luogo, come già osservato, non sono sintonici rispetto al paradigma amministrativistico in

Italia dominante (è noto che il recepimento applicativo di una disciplina non dipende solo dalla sua

validità scientifica, ma anche dalla disponibilità di risorse di potere storicamente cumulatesi).

In secondo luogo, vi sono nel nostro Paese alcuni fattori politico-istituzionali, ben evidenziati da

taluni studi sociologici e politici (Amato, 1980; Lombardo, 1987; Pasquino, 1982), che inibiscono

la possibilità di introdurre significative e durevoli innovazioni in senso manageriale nel settore

pubblico (ci si riferisce al sistema di rappresentanza, unitamente ad altre caratteristiche strutturali

del sistema politico, quali la polarizzazione e la frammentazione).

In terzo luogo, si rilevano dei limiti negli stessi studi aziendalistici, che indeboliscono la

legittimazione dell’Economia Aziendale all’interno della comunità scientifica e della società in

generale.

Un primo limite consiste nella chiusura, rilevata in alcune opere, nei confronti di contributi

provenienti da scuole diverse9. Tale chiusura ha portato alla coesistenza di una pluralità di approcci

scarsamente comunicanti e alla conseguente difficoltà di operare una sintesi unitaria sull’oggetto di

studio; ad essa si accompagna una scarsa apertura verso altri Paesi, che è provata dall’esigua

percentuale di testi (1%) o articoli (3%) di autori stranieri, nonché dall’esigua percentuale di studi

su esperienze straniere pubblicati all’interno di testi (31%) o riviste aziendalistiche italiane (9%).

Questo “regionalismo culturale” è al contempo causa ed effetto della scarsa standardizzazione del

linguaggio utilizzato: al di fuori della ristretta cerchia delle “scuole”, i medesimi termini hanno

accezioni differenti per diversi autori, così come identici concetti sono definiti utilizzando termini

diversi. La confusione terminologica, osservata peraltro anche negli studi economico-aziendali tout

court (Farinet, 1998, p.393), limita fortemente il carattere progressivo e auto-correttivo della

conoscenza sulle aziende pubbliche, ed ostacola il dialogo scientifico e metodologico tra le diverse

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scuole aziendaliste, il superamento dei confini rigidi tra i sotto-settori disciplinari dell’Economia

Aziendale, nonché la sua apertura internazionale e interdisciplinare.

Un secondo limite fa riferimento alla tendenza, rilevata in non pochi lavori, a dare per scontata la

bontà di teorie e modelli aziendali applicati alle organizzazioni pubbliche e a considerare

l’aziendalizzazione come un obiettivo in sé piuttosto che come mezzo per raggiungere determinati

risultati. Alla base di tale lacuna vi è la scarsità di indagini empiriche (presenti solo nel 46% delle

monografie e nel 32% degli articoli), che poco si addice ad una disciplina che vuole caratterizzarsi,

fra l’altro, come “contestuale” e che tendenzialmente è orientata verso l’approccio induttivo e la

scoperta di una grounded theory. Ne consegue una “caduta nel genericismo”, ossia il trasferimento

acritico alle aziende pubbliche di conoscenze maturate altrove, senza un’adeguata

“contestualizzazione”.

Emerge, infine, in taluni lavori una eccessiva enfasi sulla dimensione precettistico-operativa (l’84%

delle monografie del secondo periodo e il 77% degli articoli hanno una finalità prevalentemente

normativa) che sfocia talora in una concezione “tecnocratica” e astratta del ruolo dello studioso

aziendalista, focalizzato sulla proposizione di modelli prescrittivi validi in condizioni ideali,

secondo i dettami di un dover essere non invariante nel tempo e nello spazio (“cosa si dovrebbe fare

o come dovrebbe funzionare”) e poco focalizzato sulla produzione di conoscenza traducibile in

strategie di cambiamento (“come può concretamente funzionare, a quali condizioni, quali le

variabili critiche”), nonché poco impegnato nell’organizzazione di processi di trasferimento della

conoscenza agli attori. Quest’ultima lacuna è particolarmente rilevante se si considera che le

organizzazioni pubbliche, nella misura in cui sono connotate burocraticamente (e dunque sono

strutture gerarchico-piramidali, formali, logicamente perfette), tendono naturalmente a ritenersi in

possesso delle conoscenze adeguate al bisogno. E’ dunque quanto mai importante far superare loro

questa ’autoillusione istituzionalizzata’ per colmare il gap esistente fra le conoscenze di cui

dispongono e quelle che dovrebbero possedere per assolvere alle nuove funzioni proprie dello Stato

dei servizi. Ritornando alla metafora iniziale, non basta fornire l’acqua al cavallo, ma occorre

favorire lo sviluppo graduale della sete.

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Note

1 La concezione bottom-up dell’innovazione si riscontra nell’ 81% delle monografie del primo periodo; nel 90% delle monografie del secondo periodo; nell’ 88% degli articoli. 3 Il carattere circolare dell’innovazione si rileva nel 19% delle monografie del primo periodo; nel 31% delle monografie nel secondo periodo; nel 46% degli articoli. 2 Anche negli studi economico-aziendali sul settore profit si rileva il passaggio da una situazione in cui la centralizzazione e il controllo gerarchico-burocratico facevano premio nella grande impresa industriale sull’autonoma espressione delle creatività soggettive, ad una situazione in cui la capacità innovativa dipende da queste ultime (Vaccà, 1985). 3 Le monografie organizzative sono passate dal 16% al 6%, mentre gli articoli sono l’8%. Sono inoltre pochi i contributi sull’azienda pubblica pubblicati su Sviluppo&Organizzazione (10%), e pochi i contributi organizzativi pubblicati sulla rivista Azienda Pubblica (7%). 4 L’attenzione alla dimensione politica si rileva nel 31% delle monografie del primo periodo; nel 51% delle monografie nel secondo periodo; nel 61% degli articoli. 5 Il locus metaorganizzativo è rilevabile nel 42% delle monografie del primo periodo; nel 61% delle monografie nel secondo periodo; nel 64% degli articoli. 6 Il tema del territorio è trattato nel 7% delle monografie del secondo periodo e nell’ 11% degli articoli. 7 La visione “contingente” si rileva nel 69% delle monografie del primo periodo; nel 91% delle monografie nel secondo periodo; nell’81% degli articoli. 8 Gli studi di carattere generale passano dal 9.4% nel primo periodo al 5% nel secondo periodo. La progressiva specializzazione in senso sia funzionale che settoriale, riscontrabile anche nel settore for profit (dove la varietà delle configurazioni organizzative è inferiore), riflette peraltro una caratteristica della conoscenza scientifica che, a differenza di quella filosofica (tendente verso l’aggregazione e la sintesi delle informazioni), comporta un sempre più accentuato processo di specializzazione. 9 Ciò è confermato da un’analisi incrociata delle bibliografie, che evidenzia una diffusa propensione a fare riferimento ai contributi di studiosi appartenenti alla medesima scuola o gravitanti in un numero limitato di sedi accademiche “amiche”, ignorando gli apporti provenienti da altre scuole.